Life is Art

di GirlWithChakram
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A Remarkable Tale ***
Capitolo 2: *** Alluring Roses' Thorns ***
Capitolo 3: *** Again Recklessness Triumphs ***
Capitolo 4: *** Alliances Require Trust ***
Capitolo 5: *** Alas Remains Truth ***



Capitolo 1
*** A Remarkable Tale ***


LIFE IS ART




Avvertenze: la fanfiction si svolge in un AU che prevede alcune differenze rispetto alla trama del gioco: Max e Chloe non si sono mai conosciute da piccole, nessun atto criminale è stato portato avanti alla Blackwell Academy durante l'anno in cui Max vi ha studiato e per tale ragione lei non ha mai sviluppato alcun potere speciale. Il resto dovrebbe spiegarlo da sè la storia, ma in caso di dubbi sono sempre disponibile per chiarimenti. Buona lettura!
 
 
I: A Remarkable Tale | Una storia notevole
 
Arcadia Bay è stata molte cose ai miei occhi: la città dove la mia vita è cominciata, un ammasso di costruzioni costrette tra la baia e il promontorio, un agglomerato di vite intrecciate e drammi continui. Ma dall’alto del grattacielo di FRAME non mi sembrò nulla più di un modellino della tipica cittadina della costa occidentale.
L’edificio in cui mi trovavo era il più alto mai costruito in zona e sovrastava, con le sue decine di metri di vetro e acciaio, le case delle famiglie benestanti e i capanni di pesca del molo. Era posizionato in modo che, da ogni angolo o finestra, si avesse una visione diversa del circondario. Insomma, un palazzo fatto ad arte per contenere arte.
Strinsi trepidante la borsa gonfia di cartelle tra le braccia. Quello era il lasciapassare per un mondo altrimenti a me proibito.
Avevo indossato il mio vestito migliore e avevo persino azzardato impiastrandomi la faccia con uno strato di trucco, pur di fare colpo sui miei nuovi capi.
«Maxine Caulfield» mi chiamò la ragazza seduta dietro la scrivania che occupava quasi un terzo della stanza in cui mi trovavo.
Ero al penultimo piano di quella torre misteriosa, il luogo in cui avveniva la magia di FRAME, la più nota rivista di arte di tutto il Paese, ed io stavo per entrare ufficialmente a fare parte della famiglia che controllava ogni aspetto di quell’incantesimo.
«Il signor Jefferson ha detto che dovrà farla attendere ancora qualche minuto, mi dispiace» mi disse la segretaria, tornando poi a smaltarsi le unghie.
«Ahm, mi scusi, signorina…» aguzzai la vista per sbirciare il nome sulla targhetta «Christensen…»
«Per piacere» ribattè quasi immediatamente, alzando gli occhi chiari dalle proprie unghie per rivolgerli nuovamente verso di me «Qui mi chiamano tutti Taylor.»
«Bene, Taylor» ripresi «Posso fare un giro per le gallerie nel frattempo?»
Lei mi scrutò dubbiosa, probabilmente indecisa se fosse il caso tenermi d’occhio onde evitare guai.
«Sa, ho sempre desiderato vedere di persona le opere di Jefferson e dei suoi collaboratori» cercai di rabbonirla «Prometto di non fare danni.»
La giovane sbuffò, tornando a scrutarsi le dita con interesse. «Credo che non ci sarebbe nessun problema se si facesse un giro per il dodicesimo piano, dove ci sono gli scatti della scorsa esposizione… Nel caso qualcuno le facesse qualche domanda, faccia il mio nome e non le daranno noie.»
La ringraziai e feci per avvicinarmi all’ascensore, ma mi affrettai a tornare al banco, accorgendomi di aver dimenticato una cosa: «Mi potrebbe fare uno squillo al momento di tornare per incontrare il signor Jefferson?»
La bionda segretaria, facendo attenzione a non sbavare lo smalto, iniziò a digitare sulla tastiera del computer, verificando di avere il mio numero. «Certamente» confermò dopo qualche secondo.
«Ancora grazie.»
Sgattaiolai due piani più un basso, raggiungendo una delle gallerie che il palazzo ospitava. La raccolta esposta era quella di “Everyday heroes”, che comprendeva ben cinque anni di lavoro di Jefferson e qualche suo alunno.
Sospirai al pensiero che sarei potuta esserci anche io. Quando stavo frequentando la Blackwell Academy, quelli che sembravano ormai secoli addietro, l’allora professore mi aveva proposto di partecipare al progetto, ma ero stata troppo codarda per decidermi, perdendo per sempre la mia occasione. Ottenuto il diploma mi ero lasciata tutto ciò alle spalle, tornando a Seattle per frequentare il college, sperando di emergere come fotografa e fallendo miseramente.
Mi fermai davanti allo scatto in bianco e nero di un pescatore intento a rammendare la propria rete, mentre sullo sfondo, in contrasto con il cielo grigio, emergeva il faro che vegliava sulla cittadina.
Se mi trovavo là era solo merito di Kate Marsh, una mia vecchia compagna di classe con cui avevo mantenuto un buon rapporto. Era stata lei a suggerirmi di inviare a Jefferson il curriculum, per tentare di farmi assumere come editor all’interno della rivista da lui fondata tre anni prima.
L’idea di tornare ad Arcadia Bay mi aveva turbata, in un primo momento, sembrandomi come un retrocedere ad una vita che credevo di aver abbandonato per sempre. A Seattle avevo trovato un appartamento mio, avevo un lavoro part-time come barista e facevo qualche servizio fotografico per giornali locali, avrei potuto continuare un’esistenza tranquilla.
Invece, grazie alla mia amica, decisi di osare di più.
Le mie speranze erano state ripagate quando era giunta nella mia sgangherata casella postale di Seattle una lettera ufficiale di FRAME che mi convocava per un incontro, tre settimane dopo. Ero rimasta sconcertata, perché nessuno più, ormai, utilizzava buste e francobolli, ma quel pezzo di carta aveva cambiato la mia vita e poterlo toccare con mano aveva reso tutto più reale.
Avevo fatto i bagagli in un lampo ed ero tornata alle origini, nel luogo in cui avevo vissuto da bambina.
Avevo trascorso le prime due settimane alla ricerca di un alloggio, ottenendo pessimi risultati, poi, per grazia divina, era intervenuto in mio soccorso Warren, anche lui una mia vecchia conoscenza della scuola.
Non era mai stato un segreto che il ragazzo avesse una cotta pazzesca per me, ma vedendo che non lo ricambiavo, ad un certo punto, aveva iniziato ad uscire con altre, ritagliandomi un ruolo di semplice amica. Il vedermi in difficoltà, però, nonostante gli anni di lontananza, aveva risvegliato in lui lo spirito cavalleresco e, dopo averlo incontrato per caso al Two Whales un sabato mattina all’ora di colazione, si era offerto di prendermi come coinquilina.
Avevo accettato senza riflettere, piantando radici in un trilocale dei Pan Estates, i nuovissimi palazzi firmati Prescott, nome che, guarda caso, era alla base degli investimenti anche di FRAME; non sorprendeva che Nathan, il rampollo della famiglia, fosse uno degli artisti più sponsorizzati.
Lessi la targhetta della fotografia che stavo ammirando ed incontrai un altro nome familiare: Victoria Chase, l’ennesima compagna di classe, con cui, però, avevo avuto un rapporto tutto meno che idilliaco.
Non ero riuscita ad osservare neppure metà delle opere esposte, quando il mio cellulare squillò.
Mi affrettai verso l’ascensore e tornai al quattordicesimo piano, quello dei dirigenti.
«Mr. Jefferson la sta aspettando» mi accolse nuovamente Taylor, indicandomi la porta alla sua destra.
Percorsi un breve corridoio su cui si affacciano diversi uffici, dirigendomi verso la porta in fondo, quella più grande e su cui era presente una vistosa placca d’oro. Quando mi trovai abbastanza vicina riuscii a scorgerne la scritta: “M. Jefferson Direttore ed Artista”.
Bussai ed una voce mi invitò ad entrare.
La prima cosa a colpirmi fu la luce: molta, intensa, abbagliante, quasi soffocante. L’intera parete di fronte a me era costruita in vetro, lasciando che il riverbero del sole sul mare si mostrasse in tutta la propria potenza.
«Max, è un vero piacere rivederti.»
Serrai le palpebre fino a lasciare ai miei occhi solo una fessura di visuale, per schermare il chiarore, davanti cui si stagliava un’imponente figura. Sembrava cambiato poco dai tempi in cui insegnava all’accademia, Mark Jefferson continuava ad essere un uomo affascinante, alto, con folti capelli scuri, occhiali squadrati da intellettuale e un sorriso un po’ misterioso, che gli conferiva un’aria ancor più affabile.
Vidi che mi tendeva la mano ed io la strinsi per ricambiare.
«È un piacere anche per me rivederla, professor Jefferson» risposi, balbettando un po’.
«Non sono più un insegnante» mi ricordò «Sono solo Mark Jefferson adesso.»
Annuii, continuando a stringergli la mano come un’idiota.
«Questi sono due dei miei più validi collaboratori e colleghi artisti» continuò l’uomo, liberandosi dalla mia stretta ed indicando due persone accomodate su un divano bianco alla mia sinistra.
«Nathan Prescott e Victoria Chase. Potresti ricordarti di loro dai tempi della Blackwell.»
«Infatti» mormorai «Lieta di ritrovarvi» proseguii accennando un saluto con il capo.
Victoria, nella cui mano destra ondeggiava regalmente un calice mezzo pieno di vino rosso, mi squadrò da capo a piedi, studiandomi. Nathan, invece, praticamente mi ignorò, troppo preso a digitare qualcosa sul proprio telefonino.
«Dunque, Max» tornò a parlare il direttore, richiamando la mia attenzione «Sono rimasto molto colpito dal tuo curriculum… Una borsa di studio al “Cornish College of the Arts” non è cosa da tutti, soprattutto se ottenuta per meriti scolastici come i tuoi.»
In effetti era stata una vera e propria impresa mantenere una media alta così da ottenere quel premio in denaro, avevo passato settimane intere senza alzare la testa dai libri di testo, riuscendo a laurearmi con il massimo dei voti nel campo delle arti visive.
«Non possiamo vantare elementi tanto validi» continuò «Per questo ho deciso di offrirti una possibilità. Non voglio perdere tempo, per cui passerò subito al sodo.»
Quelle ultime parole mi fecero rabbrividire. Stava per mettermi alla prova, per decidere se davvero concedermi l’onore di fare parte della perfetta macchina artistica che aveva tanto lavorato per avviare.
«Voglio che mi prepari un servizio per il numero di aprile, qualcosa che io possa inserire nella rivista. Se sarà ben fatto, potrai rimanere a lavorare ufficialmente per me e per FRAME, nel frattempo svolgerai i compiti da stagista, così da poterti concentrare sul pezzo. Potrai iniziare domani.»
Rimasi sconvolta. Avevo meno di due mesi di tempo. Il mio cervello mi ricordò che eravamo ad inizio febbraio e, per un compito del genere, avrei dovuto iniziare a prepararmi molto tempo prima.
«Potrai scegliere l’artista che vorrai, ma mi piacerebbe vedere un volto nuovo, qualcosa di fresco…» proseguì Jefferson, versandosi un bicchiere di vino «Non mi importa se fotografo, pittore, scultore o altro, ciò che conta è il talento e la tua abilità nell’esaltarlo.»
Mi fece segno di accomodarmi tra Prescott e la Chase ed io ubbidii, poi venni costretta a prendere parte ad un improvvisato brindisi. Ciò che seguì mi scivolò addosso con indifferenza, ormai ero assorbita dal lavoro che era già in ritardo ancor prima di partire. Stavo vagliando all’interno della mia mente ogni emergente che avessi mai sentito nominare, ma nessuno mi pareva degno di venire annoverato tra gli articoli della rivista. La sfida lanciatami sarebbe potuta rivelarsi più grande di quanto potessi sopportare.
Ero entrata nel grattacielo in tarda mattinata e, dopo diversi bicchieri di vino e qualche snack salato, ne uscii che era pomeriggio inoltrato.
Afferrai il cellulare tra le mani e con dita malferme digitai un messaggio per Warren. Dieci minuti dopo, il giovanotto mi raccattò con la sua vecchia auto blu.
«Max, hai bevuto?» mi chiese praticamente subito, annusando l’odore di alcol che mi aleggiava intorno.
«Jefferson mi ha offerto del vino» risposi, rilassando la testa contro il sedile della vettura.
«Ti ha offerto anche un lavoro?»
«Più o meno» borbottai «Vuole prima vedere un mio articolo e se gli piacerà sarò ufficialmente a bordo, nel frattempo, da domani, farò la stagista, naturalmente non retribuita.»
Lui annuì, poi cominciò a tempestarmi di domande a cui non riuscii a prestare particolare attenzione. Senza che me ne rendessi conto, ci trovammo nel parcheggio del condominio. Scesi dalla macchina e, varcato il portone, iniziai a salire le scale che portavano al secondo piano.
La porta di sinistra ospitava uno scorbutico pescatore con cui, fino ad allora, avevo parlato sì e no due volte, mentre quella di destra celava l’appartamento del mio amico.
Varcai la soglia in una specie di trance.
Il salotto, che fungeva anche da cucina, sala da pranzo e quant’altro, era preda del più totale disordine, per colpa principalmente mia. Fogli, ritagli di articoli e riviste svolazzavano ad ogni mio passo, creando un lieve turbinio.
Aprii il frigorifero e ne estrassi una bottiglia d’acqua che scolai senza troppe cerimonie.
«Vado a farmi una doccia» comunicai al mio coinquilino, levandomi le scarpe e lanciandole chissà dove.
«Certo, come ti pare» sbuffò, chiudendosi in camera propria.
«Warren» piagnucolai, bussando leggermente alla porta chiusa «Non fare l’offeso perché ti sto ignorando… Lascia che mi passi la sbornia, ok?»
Non ricevetti risposta e decisi di lasciar perdere.
La mia stanza era sulla destra rispetto a quella del ragazzo e la porta successiva era quella del piccolo bagno.
Entrai in camera per svestirmi ed abbandonare la borsa. Lo spazio era piccolo, occupato dal letto ad una piazza, poco più confortevole di una branda da campo, un cassettone per i vestiti e una scrivania traballante.
Appallottolai l’abito nel cesto dei panni, rimanendo in intimo, infilai le ciabatte, sganciai l’orologio che avevo al polso e sbucai nuovamente nel breve corridoio, infilandomi subito nella stanza a sinistra.
Il bagno era quanto di più microscopico ci si potesse permettere. La prima volta che lo avevo visto mi ero domandata quanto gli architetti dei Prescott si fossero impegnati per renderlo tanto scomodo.
Tazza del gabinetto e lavandino erano praticamente accavallati, pigiati contro il muro di fondo da cui una finestra garantiva un briciolo di respiro, mentre un box doccia e un armadietto stipavano rispettivamente la parete di destra e sinistra. La superficie calpestabile effettiva risultava essere a dir poco insufficiente.
Sgusciai fino allo specchio appeso sopra il lavabo e feci del mio meglio per struccarmi, trovandomi, comunque, inevitabilmente, a somigliare ad un panda preso a botte. Maledicendo il mascara che avrei potuto evitare di utilizzare, finii di denudarmi per poi entrare nella doccia.
Il getto dell’acqua bollente, che serviva principalmente a distrarmi dal freddo dell’inverno ancora incalzante dell’Oregon, mi aiutò a recuperare un po’ di lucidità. Avrei dovuto scusarmi con Warren più tardi per non avergli prestato attenzione.
Richiamai alla mente i diversi battibecchi che avevamo già avuto nonostante convivessimo da meno di dieci giorni e mi domandai che fine avessero fatto i due ragazzini nerd così in sintonia che si erano conosciuti alla Blackwell.
Negli anni in cui ero stata lontana, anche Graham era cresciuto, si era laureato ad una scuola informatica e lavorava programmando strane applicazioni matematiche da casa. Lo pagavano bene, ma mantenere una casa ai Pan Estates, per quanto minuscola, era una spesa ingente, per cui era stato molto contento di avere qualcuno con cui dividere i costi.
Io avevo messo da parte i soldi ricavati dalla vendita del mio appartamento di Seattle ed in più avevo accumulato qualche risparmio con i miei precedenti lavori, ma un bel gruzzolo sarebbe sfumato per mantenermi durante quei due mesi di prova presso FRAME. Se, alla fine, non avessi ottenuto il posto, mi sarei ritrovata sul lastrico a tempo di record.
Chiusi il flusso d’acqua e lasciai che le piccole perle trasparenti, ancora tiepide, continuassero a scivolare lungo la mia pelle bagnata. Ciocche color castano scuro mi frustarono le spalle ad ogni movimento compiuto per coprirmi alla bell’e meglio con il grande telo azzurro che possedevo fin dai tempi del college.
All’improvviso, un brivido mi corse lungo la schiena. Letteralmente.
Con un movimento fulmineo, piegai indietro il braccio e catturai una goccia gelida che era ormai giunta a metà del mio dorso.
Mi domandai da dove fosse arrivata, convincendomi poi che fosse scivolata dalla mia testa fradicia.
Sciacquai il box eliminando i residui di schiuma dello shampoo, mi infilai nuovamente le ciabatte e feci per andarmene, quando qualcosa picchiettò sul mio capo.
Istintivamente, alzai lo sguardo.
«Ma che cazzo?» riuscii ad imprecare, prima che un’altra stilla di puro gelo si schiantasse contro il mio naso levato all’insù.
Sul soffitto si era formata una grossa chiazza d’umido, che sembrava del tutto intenzionata ad espandersi ancora, e da cui gocciolava acqua.
I vicini del piano di sopra dovevano aver combinato qualcosa.
«Warren!» gridai uscendo dalla stanza, nel tentativo di richiamare l’attenzione del mio amico «C’è un problema in bagno, vieni a vedere!»
Dopo una ventina di secondi, il ragazzo uscì, con ancora inforcati gli occhiali che usava per lavorare al pc. Fu difficile ignorare il rossore che si fece largo sulle sue gote vedendomi coperta solamente con l’asciugamano, ma dissimulò bene il proprio imbarazzo, domandandomi: «Che succede?»
Gli afferrai una mano e lo trascinai fino alla “scena del crimine”.
«Brutti stronzi!» ringhiò «Qualcuno dovrebbe cantargliene quattro.»
Come se non si fosse reso conto della cosa, sottolineai: «Tu dovresti andare a protestare. È casa tua quella che finirà allagata se non fanno qualcosa.»
«Adesso non posso, Max» brontolò, tra lo scocciato e il nervoso «Devo finire di lavorare ad un foglio di calcolo e mi ci vorranno almeno ancora due ore, il capo ha detto che devo spedirglielo entro domattina…»
La frase lasciata così in sospeso non mi fece presagire nulla di buono.
«Non è che potresti andare tu, per piacere?» continuò, risistemandosi le lenti che gli erano scivolate fino alla punta del naso.
Fissai i suoi occhi marroni con astio, che in realtà non era rivolto a lui, bensì agli sconsiderati inquilini annaffiatori.
«Per piacere, Max. Laverò io i piatti per tutta la settimana, se mi farai questo favore.»
L’accordo mi convinse ed accettai.
Warren tornò al proprio lavoro, mentre io mi vestii in un lampo, trovandomi ad indossare una vecchia t-shirt sbiadita, la mia cara “Jane Doe” che avevo tanto amato da ragazzina, e un paio di pantaloni grigi sformati.
Feci scorrere le dita nella chioma ancora fradicia, convincendomi che conciata in quella maniera sarei sembrata o estremamente minacciosa o ridicolmente patetica, in ogni caso, avrei smosso qualcosa nel vicino molesto.
Salii a due a due i gradini, che mi portarono al corrispettivo del nostro appartamento, ma situato al piano superiore. Il tasto del campanello pendeva senza vita, con un filo tagliato, quindi compresi all’istante che l’unica alternativa sarebbe stata quella di bussare.
Picchiai le nocche contro la porta con una determinazione tale da sorprendere persino me stessa. Ero arrabbiata, quel noioso problema aveva annullato tutti gli effetti benefici della doccia e, inoltre, aveva accentuato il lieve mal di testa che mi stava accompagnando da quando avevo lasciato il palazzo di FRAME.
Fissai la maniglia rimanere immobile per un tempo incalcolabile.
Ritentai, bussando con ancor più decisione.
«Arrivo, e che cazzo!» gracchiò qualcuno dall’interno.
Quando la persona fu abbastanza vicina da iniziare ad armeggiare con la serratura, udii distintamente: «Soliti scassapalle di merda.»
Come minimo mi sarei aspettata di trovarmi davanti un enorme scaricatore di porto, tatuato, impuzzolentito da sudore, fumo ed alcol.
Mancai di poco il bersaglio.
Di fronte ai miei occhi si palesò una giovane donna, di uno o due anni più grande di me. Era più alta della sottoscritta, in effetti mi sovrastava di almeno un palmo; aveva il braccio destro ornato da un elaborato disegno di cui riuscivo a distingue alcuni fiori, un nastro ed un teschio, accompagnati da alcune farfalle blu; la sua intera figura, inclusi i vestiti da punk dall’aspetto trasandato, emanava il tipico odore dolciastro della marijuana.
«Che cosa vuoi?» domandò in tono accusatorio, passandosi una mano tra i capelli turchini, le cui radici erano, però, colorate di rosa.
«Stai cercando di inondare il nostro appartamento?» sbottai, infastidita dal suo atteggiamento indisponente.
«E se anche fosse?» ribattè.
Rimasi spiazzata da quella replica. Mi sarei aspettata delle immediate scuse e la promessa di chiamare quanto prima un idraulico.
Boccheggiai, alla ricerca di una risposta che non sarebbe arrivata.
La vicina roteò gli occhi, sbuffando. «Qual è il problema?» chiese, incrociando le braccia al petto.
«Dal soffitto del bagno di casa nostra gocciola acqua» mi affrettai a spiegare «Deve esserci un problema con le tue tubature. Non possiamo lasciare che ci cresca la muffa sul tappetino.»
«Chi sarebbero esattamente questi “noi” di cui parli?» domandò, appoggiandosi allo stipite, come se stesse iniziando ad interessarsi alla conversazione e fosse intenzionata a portarla avanti.
«Il mio coinquilino ed io.»
«E da quant’è che vivete qui?»
«Lui da alcuni mesi, io solo da una settimana» risposi, cercando di capire cosa ciò avesse a che fare con la questione del soffitto gocciolante.
«Allora lascia che ti spieghi come gira qui, novellina» disse, incurvando le labbra in un sorriso quasi divertito «Tra un paio di giorni passerà Boris, il responsabile dello stabile, e potrai fargli presente il problema. Fino ad allora, piazza una bacinella e mettiti l’anima in pace.»
Sospirai, sconfitta. «Posso almeno provare a capire quale sia il problema?» chiesi «Mi concedi di entrare?»
«Accomodati» mormorò, scansandosi per lasciarmi passare.
«Comunque sono Max» mi presentai, mettendo piede in casa.
«Buon per te.»
Masticai un paio di improperi, trattenendomi.
Notando quanto mi avesse scocciato quella risposta, la punk mostrò il primo segno di collaborazione: «Sono Chloe.»
La considerai una piccola vittoria.
Lasciai che la ragazza mi facesse strada fino al bagno. Mi accucciai ai piedi della doccia, che si trovava direttamente sopra la nostra. All’esterno non sembravano esserci danni, per cui il problema doveva trovarsi nelle tubature del pavimento.
«Soddisfatta?» domandò Chloe, riservandomi uno sguardo severo.
Fui costretta ad annuire, demoralizzata.
Forse fu il vedermi tanto abbattuta, o forse fu semplice cordialità, anche se mai avrei attribuito una tale qualità alla donna che mi aveva aperto la porta, fatto sta che lei mi sorprese, offrendomi di restare per un caffè.
Ringraziai e la seguii fino all’angolo cucina, simile al nostro.
Ne approfittai per studiare l’ambiente. Come nel nostro appartamento, la maggior parte dello spazio era occupato dalla zona pranzo e vivande, da un paio di divani e un ampio televisore a schermo piatto dall’aria costosa. In giro scorsi diversi mozziconi di sigaretta e bottiglie di birra abbandonate, accompagnate da involucri dei più svariati cibi di pronto consumo. Sembrava la tana di un’adolescente in piena fase di ribellione.
In contrasto con quello squallore e quell’abbandono erano i quadri appesi alle pareti. Erano vere e proprie opere d’arte, che variavano per stile, tecnica e soggetto, ma, ad una più attenta analisi, portavano un marchio comune: la firma in basso a sinistra. Tracciata sempre con pennellate delicate, una farfalla stilizzata dispiegava le ali al cui fianco spiccavano le iniziali B e P.
«Ecco» disse la padrona di casa porgendomi una tazza calda «Ti offrirei dello zucchero, ma lo abbiamo finito, noi lo usiamo poco.»
Notando l’uso di quel plurale, approfittai per farle il verso: «Chi sarebbero questi “noi” di cui parli?»
Chloe si concesse una risata. «Sei una nanerottola sagace» commentò beffarda «Si riferisce a me e la mia ragazza.»
La notizia non mi colpì particolarmente, in quanto avevo già adocchiato in bagno due spazzolini e due diverse qualità di quasi ogni cosa, chiaro segno che la ragazza non viveva da sola.
«È lei l’artista?» chiesi, indicando in maniera vaga le cornici appese.
«Lei è il soggetto» rispose, avvicinandosi ad un ritratto. Rappresentava il viso di una donna con i capelli mossi dal vento su uno sfondo astratto. Il contrasto era insolito, ma evocava sensazioni profonde, che incuriosivano il mio spirito di critica d’arte.
«È molto bella» commentai, decisa ad indagare su chi fosse, quindi, il pittore.
«Fa la modella.»
«Non mi sorprende, una bellezza simile non dovrebbe andare sprecata.»
Spostai lo sguardo dall’opera alla punk, studiandone le iridi celesti che, a propria volta, osservavano me.
«Forza» mormorò Chloe «Spara la domanda che muori dalla voglia di fare.»
«Sono tuoi?» esplosi.
Lei annuì, sfiorando la tela con la punta delle dita.
Nella mia testa iniziarono a ruotare decine di ingranaggi, incastrando il mio lavoro per FRAME con quell’inaspettata scoperta. Forse, avevo trovato la mia artista da presentare al mondo.
«Vieni, ti faccio vedere una cosa» disse, accendendosi poi una sigaretta.
Ubbidiente, le andai dietro fino alla camera corrispondente alla mia. L’inquilina aprì la porta e mi illustrò il proprio studio.
C’erano tele di ogni tipo e genere, alcune lasciate a metà, altre concluse, altre appena abbozzate. Tre cavalletti vuoti erano appoggiati alla parete, accanto ad un armadietto strabordante di pennelli e tubetti di colore.
«Questo è il mio safe space» disse, spostando qualche quadro, come se li stesse sistemando.
«Il tuo atelier, praticamente» commentai.
«No, non sono un’artista e non ho un atelier» si oppose «È solo uno sfogo che coltivo da qualche anno.»
«Come preferisci» ribattei «Comunque sono bei lavori, giusto per fartelo sapere.»
«Beh, grazie» sussurrò, mostrandomi per la prima volta un sorriso rilassato e genuino, che, però, durò poco, sostituito dall’espressione da dura con cui mi aveva accolta «Ora è meglio che tu vada, Rachel dovrebbe rientrare tra poco e non le piace avere estranei per casa.»
«Certo, levo le tende immediatamente» assicurai, avviandomi verso l’uscita «Quindi mi assicuri che tra un paio di giorni arriverà questo Boris e risolverà il problema?»
«Lui darà un’occhiata e stimerà i danni» ribattè «Poi si occuperà di chiamare chi di dovere.»
Annuii, accontentandomi di quell’informazione.
«Allora, credo che questo sia un arrivederci, Max» disse, fermandosi sulla soglia, rigirandosi tra le mani la tazza da cui avevo bevuto.
«Già» risposi, ma con poca convinzione. Avrei voluto indagare di più su di lei e sul suo lavoro e andandomene sarei rimasta a rimuginare con la mia curiosità, ma non potevo fare altrimenti. «Spero di rivederti, magari non per un soffitto che gocciola.»
«Sì» mormorò «Per me è lo stesso…»
«Allora, arrivederci, Chloe» mi congedai, iniziando a scendere le scale.
«Ci si vede.»
Tornai in casa e mezzo minuto dopo Warren emerse dal suo antro.
«Risolto?» domandò, massaggiandosi la base del naso dove gli occhiali avevano lasciato un segno rosso.
«Per ora no» iniziai a spiegargli «Non possiamo sistemare il problema subito, ma a breve passerà il responsabile dello stabile a controllare e ci dirà cosa fare.»
«Quindi, per adesso che facciamo?»
«Mettiamo una bacinella e abituiamoci al rumore delle gocce che cadono» conclusi con un sospiro.
Rimediammo piazzando un recipiente sotto la macchia, ma la nuova sistemazione rese ancora più difficile la circolazione nello stanzino. Purtroppo non avevamo altro modo di risolvere la questione.
Mentre ero in bagno, approfittai per asciugarmi i capelli con il phon, dato che, nonostante avessero smesso di gocciolare, erano ancora bagnati.
Finalmente, quando ormai il sole era tramontato da un pezzo, mi preparai a rilassarmi sul letto. Con un brontolio recuperai il cellulare abbandonato da prima che mi facessi la doccia, notando una serie di messaggi.
Risposi ai miei genitori che volevano sapere come fosse andata con FRAME, chattai brevemente con alcuni ex-compagni del college e poi avviai una chiamata.
«Pronto?» mi rispose la ragazza dall’altro capo.
«Kate, ciao, sono Max» mormorai nell’apparecchio, abbandonandomi sul materasso.
«Max!» esultò la mia amica «Allora, è andato tutto bene?»
Le raccontai brevemente la mia giornata, includendo l’incidente del bagno e la scoperta della curiosa artista del piano di sopra.
«Una storia davvero notevole… Prova a fare qualche ricerca tra gli archivi di FRAME» mi suggerì la Marsh «Magari in passato ha esposto qualche lavoro in una galleria e se lo ha fatto, ci saranno certamente delle tracce tra gli articoli della rivista.»
Ponderai quel consiglio e lo accolsi con piacere. Era pur sempre un punto di partenza. «Grazie, Kate, sai sempre cosa dirmi al momento giusto. Sei l’amica migliore che potessi desiderare.»
«Lo stesso vale per me, Max» replicò con gentilezza «Adesso ti va di sentire delle mie solite avventure?»
«Ma certo!» esclamai «Anche oggi i bambini del “Saint Mary Kindergarten” di Great Falls si sono cacciati nei guai?»
«Naturalmente! Jennifer ed Allison si sono azzuffate di nuovo…» iniziò a raccontare.
La Marsh, concluso il percorso alla Blackwell era tornata alla sua città di origine, nel Montana, aveva frequentato un college della zona e si era data all’insegnamento, o, come lo vedevo io, al babysitting mattutino. Gestiva una classe dell’asilo con venticinque piccole pesti che avrebbero mandato ai pazzi anche il più zen degli esseri umani, ma Kate era riuscita a farli affezionare a sé e a renderli gestibili. Le sere dopo quelle giornate le impiegava per portare avanti la propria passione: illustrare libri per i più piccoli. Naturalmente buona parte del suo tempo libero lo impiegava in attività della chiesa come volontaria. Mi sembrava impossibile che riuscisse a orchestrare il tutto con tale naturalezza ed in più riuscire comunque a ritagliare un po’ ti tempo per chiacchierare con me.
Andò avanti a raccontarmi del litigio delle due bambine per una scatola di pastelli a cera, poi concludemmo la chiamata, dato che per me era giunta l’ora di cena.
Uscii dalla camera e raggiunsi Graham, che si era già stravaccato sul divano, davanti al televisore, con un pacchetto di popcorn.
«Cosa c’è di buono, stasera?» domandai, sbirciando in frigo.
«Nulla, visto che non abbiamo fatto la spesa» rispose, prima di cacciarsi in bocca una manciata di snack.
Sarebbe stato difficile, in effetti, ricavare una cena da un panetto di burro, una bottiglia di ketchup e un paio di carote crude.
«Lasciamene un po’!» gridai, lanciandomi verso Warren e quella che sarebbe stata anche la mia cena.
«Woah, a cuccia, Maxine!» mi rimproverò, cercando di tenermi alla larga.
«Ho fame e quei popcorn sono tutto ciò che abbiamo!» sottolineai «Non lasciarmi morire di stenti.»
«Quanto sei petulante…» borbottò bonariamente, lasciandomi attingere dal sacchetto.
«Allora, che guardiamo?» domandai poi, accoccolandomi nel mio, ormai stabilito ed intoccabile, angolo di divano.
«Avevamo in programma il primo Alien, sei ancora d’accordo?»
«Certo» concordai «Fallo partire.»
Non feci in tempo a vedere neppure la distesa di uova aliene che crollai addormentata.
Mi risvegliai nel mio letto ed intuii che il mio coinquilino mi avesse trasportata di peso fino in camera. Doveva essere stata un’impresa tutt’altro che semplice, nonostante io fossi piuttosto minuta e leggera.
Indovinai che fosse ancora notte e mi rigirai, nel tentativo di tornare a riposare.
Nel buio, prima di ripiombare nel sonno, mi parve di veder svolazzare una farfalla dalle ali blu cobalto.



Note dell'autrice: ebbene, sono lieta che siate arrivati alla fine di questo capitolo, perchè se state leggendo qui dovete esserci arrivati per forza. Vorrei presentarmi brevemente, essendo questo un territorio nuovo per me: ho già scritto fanfiction, ma mai ispirate ad un videogame ed ho ritenuto che questo fosse il migliore con cui cominciare, visto il modo in cui ha saputo emozionarmi. In realtà la mia intenzione era quella di dedicarmi interamente ad una storia che fosse seguito del videogioco (e lo sto facendo), ma ho scelto di proporre prima questa mini-long, composta di cinque capitoli, per "presentarmi" a voi, cari lettori.
Passando a cose più serie: la storia è in parte ripresa dal film "High Art", quindi, nel caso lo aveste visto, non sorprendetevi di trovare similitudini o affinità per quanto riguarda i punti salienti della trama; anche il fumetto "Blue is the Warmest Colour" ha avuto una discreta influenza su di me durante la scrittura, quindi ci sarà qualche riferimento qua e là.
Passando alle note tecniche: la fanfiction verrà aggiornata una volta a settimana, ogni venerdì a partire, naturalmente, da questo. Mi spiace non rilasciare subito di più, ma devo lasciare che si crei un minimo di suspense, siate clementi.
Ringraziamenti: questa parte è quella che di solito mi porta via più spazio, quindi inizierò ringraziando chiunque si sia sottoposto alla tortura di queste note, siete dei veri eroi; poi un grazie va alla mia fidata beta wislava che non manca mai di correggermi dove necessario e di darmi il proprio parere su ogni cosa che scrivo; aggiungo un grazie particolare all'autrice della copertina, GingerPhoenix (la cui pagina di DeviantArt trovate cliccando sul nome), che capita casualmente essere la mia sorellina, che ha anche dato la sua benedizione per la storia e ha minacciato ritorsioni nel caso in cui non l'avessi inserita nelle note.
Concluso questo papiro, rinnovo i miei ringraziamenti e vi do appuntamento a settimana prossima.

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Capitolo 2
*** Alluring Roses' Thorns ***


II: Alluring Roses’ Thorns | Affascinanti spine di rose
 
Uno scossone mi destò, strappandomi da un sogno troppo confuso per essere ricordato con precisione. Stavo camminando da qualche parte, dentro un edificio, quando aveva iniziato a piovere dal soffitto, ma non avevo fatto in tempo ad alzare la testa che ero ormai sveglia.
«Max!» gridava il mio coinquilino, scuotendomi «Devi andare al lavoro!»
Il mio cervello iniziò a funzionare all’improvviso udendo quelle parole. Non potevo essere in ritardo già il primo giorno.
«Merda!» imprecai «Che ore sono?»
«Le otto e mezza» rispose, facendo un passo indietro, cosicché potessi alzarmi «Se ti sbrighi, posso guidare come un matto e farti arrivare in tempo, ma devi essere pronta tra meno di un quarto d’ora.»
«Agli ordini!» esclamai, scattando in bagno.
Dieci minuti dopo ero nuovamente in camera, mi stavo infilando le scarpe e nel frattempo lavando i denti. L’operazione era tutt’altro che semplice: rigiravo lo spazzolino in bocca, con la schiuma che rischiava di colare a macchiarmi la camicetta, mentre le mani erano impegnate a stringere i lacci delle scarpe che non volevano proprio collaborare.
Saltellai ancora una volta fino in bagno, rischiando di rovesciare la bacinella e di schiantarmi contro il bordo rialzato della doccia, non riuscii a comprendere quale forza invisibile mi permise di restare in piedi.
Arrivai al lavandino e sputai spazzolino e schiuma, sciacquando rapidamente il tutto, poi mi spruzzai il viso e lavai le mani. Le asciugai addosso a Warren che mi seguiva come un’ombra, incitandomi a far presto.
«Andiamo» dissi, agguantando la borsa e la giacca, uscendo sul pianerottolo.
Ero talmente sovrappensiero che quasi non mi accorsi di aver urtato una persona che stava salendo le scale.
«Guarda dove vai, idiota!» urlò un uomo.
Mi soffermai a guardarlo per pochi istanti. Aveva una zazzera biondo sporco che faceva compagnia ad una barba ispida, indossava abiti anonimi e stringeva al petto uno zaino logoro.
«Fatti da parte, stronzo» intervenne Graham, spuntando alle mie spalle.
«Ragazzini balordi» commentò ancora lo sconosciuto, riprendendo l’ascesa «Muoviti, Pompidou!»
Un istante dopo, un cane meticcio, scodinzolando, raggiunse il padrone.
«Non sono permessi animali nel condominio» fece presente il mio amico in tono polemico.
«Cosa fa il mio cane non è affar tuo, moccioso» replicò l’altro «Andate all’inferno.»
Afferrai Warren per una manica, facendogli segno di lasciar perdere e tirandomelo dietro nello scendere le scale.
Arrivammo all’automobile e ci fiondammo verso il palazzo di FRAME.
Il mio coinquilino mi lasciò esattamente di fronte al portone, permettendomi di scattare con un balzo verso l’interno, alla volta dell’ascensore.
Dovetti aspettare un minuto prima che le porte dell’elevatore si spalancassero con il tipico ding. Entrai, realizzando di essere rimasta praticamente in apnea per tutto quel tempo. Tirai un profondo sospiro di sollievo, che durò fino a che non raggiunsi il quattordicesimo piano.
La mia corsa riprese, portandomi al banco dietro cui Taylor era già sistemata, intenta, questa volta, a limare le preziose unghie.
«Salve, Maxine Caulfield» mi sorrise «Col fiatone già oggi?» commentò notando il mio viso stravolto.
«Mi sono dimenticata di puntare la sveglia» spiegai «Jefferson si è accorto della mia assenza?»
«Oh, lui non è ancora arrivato… Di solito, a meno che non abbia qualche riunione, non si fa vedere prima delle undici» mi spiegò la segretaria «Però Victoria ha chiesto di lei.»
«Dammi pure del “tu”» rantolai, cercando di regolarizzare la respirazione «E dove posso trovarla? Devo spiegarle cosa è successo e farmi assegnare i compiti.»
«Ultima porta a destra nel corridoio di ieri» mi comunicò «Buona fortuna» aggiunse «La signorina Chase mi è sembrata piuttosto tesa prima.»
«Grazie» mormorai, iniziando ad avanzare nella direzione indicatami.
Raggiunsi l’ufficio con la targhetta “V. Chase” e bussai.
«Avanti.»
Presi l’ennesimo respiro profondo ed entrai.
«Qui non tolleriamo i ritardatari» furono le parole con cui venni accolta.
Avrei voluto sprofondare nel pavimento, pur di non dover affrontare la mia ex-compagna di classe.
«Tuttavia Mark ha insistito affinchè ti dessimo una possibilità, quindi per questa volta lascerò correre» proseguì Victoria, sistemandosi la spilla d’oro attaccata al maglioncino di cachemire.
«Grazie, mi spiace davvero, non si ripeterà più» sciorinai rapidamente, piegando il capo più e più volte in segno di scusa.
«Adesso puoi anche andare» mi disse la Chase «Chiedi a Taylor che ti indirizzi verso la sezione editing. Dovrai cominciare leggendo e selezionando alcuni articoli dei numeri passati, cercando qualche artista che potremmo ricontattare per i fascicoli futuri, poi dovrai assistere uno dei nostri senior editor per sistemare un articolo per il numero del prossimo mese.»
Senza possibilità di rispondere, la fotografa mi invitò ad uscire ed io la lasciai sola, tornando dalla Christensen.
«Devi scendere sesto piano» mi spiegò la segretaria «Cerca Juliet Watson o Dana Ward, ti aiuteranno ad orientarti.»
La ringraziai ancora una volta e ripresi l’ascensore.
Al decimo piano, l’elevatore fece una tappa imprevista, facendo salire un giovane uomo con le braccia colme di vecchie riviste di FRAME.
Mi osservò incuriosito, per poi domandare: «Sei quella nuova?»
Annuii, tendendogli la mano, senza pensare. «Max Caulfield.»
Lui ridacchiò, rinsaldando la presa sui magazines. «Ti stringerei volentieri la mano, ma come vedi sono occupato.»
Mi diedi della stupida, cercando di mascherare l’imbarazzo con un sorriso.
«Sono Daniel DaCosta, consulente artistico» continuò.
«Che cosa fai esattamente?» domandai, rinunciando a qualsiasi formalità.
«Perlopiù seleziono le opere da inserire e decido quali scatti siano migliori, per esempio nel caso di sculture che necessitano di essere esaminate da diverse angolazioni. In più, ogni tanto, il capo mi lascia infilare i miei disegni tra i lavori degli emergenti, facendo circolare il mio nome tra la gente che conta.»
«Un compito importante, quindi» commentai.
«Sì, non sono certo una celebrità come Nathan o Victoria» si affrettò ad aggiungere «Ma ho una certa influenza nell’ambiente.»
Continuai a sorridere, osservandolo. La corporatura robusta e il viso rotondo su cui spiccava un paio di occhiali spessi mi davano l’idea di qualcuno che fosse stato preso molto in giro da ragazzo, ma l’uomo di fronte a me sembrava sicuro e molto a proprio agio. L’arte doveva avergli davvero cambiato la vita, rendendolo fiero ed orgoglioso di sé.
«Siamo arrivati» mi riscosse, dandomi una lieve spallata «Sesto piano.»
Scendemmo entrambi e Daniel mi accompagnò ad una delle scrivanie libere, isolate le une dalle altre da alcuni divisori piuttosto anonimi per essere quelli del centro operativo di un mensile di arte.
«Immagino che mi abbiano chiesto di portare in giro queste perché tu potessi averle» sbuffò DaCosta, appoggiando il pesante fardello «Le stavo riguardando per trovare un po’ di ispirazione, ma saranno decisamente più utili a te.»
Si congedò poco dopo, tornando ai piani alti per continuare con il proprio lavoro.
«Quella nuova!» esordirono alle mie spalle due nuove voci.
Voltandomi, vidi due donne, una dai capelli rossi e gli occhi blu, l’altra con una ordinata chioma castana ed iridi della stessa tonalità, che mi si avvicinavano.
«Dana Ward» si presentò la prima.
«E Juliet Watson» fece altrettanto la seconda.
«Max Caulfield» replicai automaticamente.
«Sua stronzaggine suprema ci ha ordinato di tenerti d’occhio per oggi, dicendoti anche come sbattere le palpebre» riprese Juliet, in tono scocciato «Victoria sa essere una vera e propria spina nel culo.»
Non mi parve possibile che dopo neppure un minuto di conoscenza, già fossi coinvolta nelle critiche ai superiori.
«Comunque» si intromise Dana «Sappiamo che ti avrà affibbiato qualche lavoro barboso, tipo analizzare tutta quella pila di roba» andò avanti, indicando le riviste «Per poi fare l’avvoltoio ad osservare una di noi che si guadagna la paga.»
«In effetti, è andata proprio così» risposi.
«Allora prendi una ciambella» continuò la rossa, allungandomi una scatola rosa «E poi mettiti d’impegno. Se sopravvivrai alla prima settimana, il resto sarà tutto in discesa.»
Aprii il contenitore e scelsi un grosso, unto, donut ricoperto con scagliette di cioccolato.
«Benvenuta nella famiglia di FRAME!» strillarono all’unisono, prima di scomparire in mezzo alla selva di scrivanie.
Studiai l’ambiente circostante, notando diversi impiegati, per la maggior parte giovani, intenti a passarsi fogli pieni di scritte e di immagini riproducendo il brusio di un enorme alveare. Ognuno aveva il proprio compito e sapeva esattamente come muoversi e cosa fare. Avrei dovuto iniziare anche io a cercare di integrarmi.
Mi buttai anima e corpo nella ricerca, come mi era stato suggerito di fare.
Iniziai dall’ultimo numero uscito, il trentottesimo, datato febbraio 2019. La star del fascicolo era una donna africana che aveva iniziato a costruire sculture con i rifiuti rinvenuti nel proprio villaggio, assemblando gli scarti insieme a bastoni intagliati ed ossa di animali.
Lessi qualche brano qua e là, soffermandomi in particolare su quelli inerenti alla fotografia, il mio campo di specializzazione, poi passai ad un altro numero.
Retrocedetti fino al trentesimo quando iniziai un po’ ad annoiarmi, notando che non erano neppure le undici e mezza. Doveva passare ancora più di un’ora prima della pausa pranzo.
Decisi di prendere un numero a caso, che mi ispirasse particolarmente.
Scelsi il ventiquattro.
Scorsi le pagine di un pittore surrealista polacco, la cui opera in copertina mi aveva spinto a scegliere quella rivista. I suoi lavori erano bizzarri, ma sentiti, emozionanti, mi piacevano molto. Lessi con interesse le parti di intervista in cui l’artista raccontava di come avesse trovato l’ispirazione per il primo quadro osservando la nonna che passava l’aspirapolvere.
Andai avanti, trovando una lunga disquisizione su una mostra itinerante esposta al Guggenheim Museum di Bilbao. Sorvolai sul processo di decorazione della ceramica presentato, ironia della sorte, dal professor Howard Potter, vasaio di nome e di fatto.
Le ultime pagine erano dedicate alle “nuove proposte”, erano quelle in cui sarebbe stato più facile rinvenire quanto richiesto dalla Chase.
Uno dei disegni presenti attirò la mia attenzione, perché la figura ritratta era, senza dubbio, la mia nuova collega Dana. In basso a destra c’era la firma dell’autore. Riconobbi una D, una A e un’altra D, una sigla quanto mai originale.
Mi feci un appunto mentale ed andai avanti, affrontando il numero quindici, che mi aveva attirato con la sua scultura di stampo futurista.
La pausa pranzo arrivò prima che me ne rendessi conto. Come ad un segnale convenuto, una dozzina di teste di alzò da schermi ed appunti per concentrarsi sull’azione del masticare i più diversi cibi.
Al mio naso giunsero sentori di spezie sconosciute, profumi di oli, aceti e salse varie, odori di fritti ed insalate.
Il mio stomaco brontolò in protesta. Nella fretta della fuga da casa, avevo dimenticato di prendere il pranzo, che comunque non sarebbe stato gran che vista la penuria contenuta nel frigorifero dell’appartamento.
«Fame?» domandò una voce nota.
«Warren!» esclamai «Cosa ci fai qui?»
«Ho pensato di rifocillarti» sorrise, porgendomi un panino ben imbottito e una bottiglietta d’acqua.
«Grazie, mi serviva proprio» mormorai, iniziando a mangiare.
«Di nulla, milady» replicò «Allora, ti piace qui?»
«Più o meno» borbottai «I capi non sono proprio dei pezzi di pane, ma sopravvivrò.»
«Ti hanno sepolta sotto questo mucchio di carta straccia?» disse, indicando la pila di magazines «Che noia.»
Ero sul punto di replicare, quando notai un giovanotto sventolare la mano, salutandomi.
«Ciao, Daniel» lo accolsi «È un piacere rivederti.»
«Salve, sono Warren» si presentò il mio amico.
«Daniel» ribattè DaCosta «È il tuo ragazzo? Carino da parte sua portarti il pranzo.»
«Oh, no, non stiamo insieme» mi affrettai a spiegare «È solo un amico molto premuroso.»
Quella frase dovette dare piuttosto fastidio a Graham, che si affrettò, subito dopo, a sgusciare via, adducendo scuse di lavoro.
Lo salutai, facendomi promettere che sarebbe venuto a prendermi a fine turno alle cinque.
«Imbarazzante…» commentò il disegnatore, grattandosi la nuca «Mi spiace aver combinato questo pasticcio.»
«Tranquillo, non è niente» lo rassicurai, dando un altro morso al mio panino.
«Tutto bene in queste prime ore?»
«Sì, direi di sì… Ah!» esclamai poi «Credo di aver trovato una delle tue opere.»
Recuperai il numero ventiquattro e gli indicai il disegno che intendevo.
«È Dana Ward, vero?»
Lui annuì.
«Quindi è tuo?»
«Già, proprio così» gongolò, infilandosi le mani in tasca.
«Perché DAD come firma?» domandai, curiosa.
«Daniel Alonso DaCosta, una maniera originale di firmare» spiegò, agguantando una matita e riproducendo la sigla su un post-it.
In quel momento qualcosa scattò nel mio cervello.
«Hai mai sentito di qualcuno che firmasse con una farfalla e le lettere B e P?» chiesi.
Il ragazzo si grattò l’accenno di barba scura sul mento, riflettendo. «Mi pare di aver visto qualcosa del genere… Ma parliamo di anni fa…»
Fremevo all’idea di scoprire qualcosa di più. La sera prima avevo riflettuto sul perché Chloe avesse siglato i suoi quadri con quel simbolo, ma soprattutto con quelle lettere che, ad un primo sguardo, non avevano nulla a che vedere con il suo nome.
«Ah!» esultò Daniel schioccando le dita «Ora ricordo! C’era qualcosa su uno dei primi numeri… Una certa Beth qualcosa usava la farfalla come marchio distintivo.»
Si mise a sfogliare un magazine e poco dopo passò ad un altro.
«No, no, no» borbottava tra sé e sé, proseguendo nella ricerca.
Decisi di imitarlo, afferrando il terzo volumetto di FRAME.
In copertina c’era un dipinto ad olio in stile romantico, che ricordava un po’ i lavori di Blake e Turner. La mano che lo aveva impresso su tela mostrava qualche incertezza e diversi tentativi di correggere le imprecisioni, ma nonostante ciò il talento che ne traspariva era innegabile. Il soggetto era uno scorcio di Arcadia Bay, visto da un punto sopraelevato. Nella parte destra, le barche ormeggiate nel porto erano definite da tocchi decisi di diverse tonalità di bianco e grigio, in contrasto con l’oceano, una distesa scura animata da frammenti celesti che simulavano le onde. Dal lato opposto del quadro c’era una serie di edifici, quelli che davano sulla spiaggia, ma erano avvolti da una nebbia mistica, che li rendeva anonimi, come se l’artista ci avesse tenuto a sottolineare quanto le opere dell’uomo fossero d’intralcio al suo intento di catturare l’essenza della natura. Il cielo, tetro quasi quanto il mare, era animato da qualche stella, che trapuntava il velo scuro con eleganza.
Era un lavoro notevole, senza dubbio.
Arrivai alla pagina dell’indice e individuai l’articolo che mi interessava: “La giovane anima della baia”.
Pagina 7 era il mio punto di partenza. Una foto della pittrice apriva il brano, intramezzato da foto di diversi lavori.
Lessi la riga in carattere microscopico sotto lo scatto: Beth Price.
Anche se di qualche anno più giovane, tre, stando alla data della rivista, quella era decisamente Chloe, o una sua sosia o la sua sorella gemella. I capelli erano già tinti di blu e gli abiti in stile punk, indossava una giacca di pelle borchiata e teneva nella mano sinistra un pennello. Con la sua espressione impertinente sembrava sfidare apertamente chiunque si trovasse dall’altra parte dell’obbiettivo.
«Trovato» dissi «Eccola qui.»
DaCosta si sporse sopra la mia spalla, curiosando. «Sì» confermò «È proprio lei» proseguì indicando la firma che si trovava in basso a sinistra in ogni dipinto.
Avrei iniziato a tempestarlo di domande, ma un tizio allampanato, con una matita dietro l’orecchio, lo chiamò dall’ascensore per farlo tornare al decimo piano.
«Potremmo discuterne davanti ad un caffè domani mattina, che ne dici?» propose, facendo cenno al collega che lo avrebbe raggiunto a breve.
«Molto gentile da parte tua» replicai «Accetto volentieri.»
«Che ne dici alle otto al Two Whales?»
Annuii e Daniel, dopo avermi sorriso un’ultima volta, fece dietrofront per andare a riprendere il proprio lavoro.
La pausa pranzo terminò presto, ma a me importò poco perché comunque ero immersa nella ricerca, assorbendo ogni aneddoto su Beth Price.
Era nata ad Arcadia Bay nel marzo del 1994 e aveva iniziato a dipingere fin da bambina, insieme a suo padre. L’articolo sorvolava sugli anni dell’adolescenza e passava direttamente al momento in cui era stata scoperta da Mark Jefferson, nel 2013. Dopo un paio di anni spesi sotto la tutela del fotografo, aveva finalmente ottenuto la possibilità di allestire una propria esposizione a San Francisco ed era su quella che l’autore del pezzo si concentrava. Il brano si chiudeva con la promessa di nuovi sviluppi sulle intenzioni di Beth, ma leggendo i fascicoli successivi non c’era più traccia della giovane Price.
Avevo per le mani un bel mistero: una stella nascente dell’arte americana scomparsa per tre anni, poi riapparsa come vicina molesta proprio sopra la mia testa.
L’unico che poteva fornirmi qualche delucidazione era il mio ex-professore.
Abbandonai la mia postazione con il numero tre di FRAME sottobraccio. Salii fino al quattordicesimo piano e domandai a Taylor se Jefferson fosse in ufficio.
«È arrivato un’ora fa, dovrebbe essere libero» mi comunicò «Ti devo annunciare?»
«Sì, per piacere.»
Lei pigiò qualche tasto lì accanto e gracchiò dentro l’interfono: «Maxine Caulfield vorrebbe vederla, la lascio passare?»
«Sì» fu la lapidaria risposta.
Per l’ennesima volta, percorsi il corridoio dei grandi capi, arrivando alla porta in fondo. Bussai ed entrai senza aspettare una risposta.
Mark si trovava seduto dietro la propria scrivania, posizionata sulla destra della stanza, aveva davanti a sé una macchina fotografica con obbiettivo telescopico smontata, sembrava ne stesse studiando l’anatomia come un coroner avrebbe fatto con un cadavere.
«Che nuove hai, Max?» mi chiese, senza togliere lo sguardo dal proprio anomalo soggetto.
«Potrei aver trovato l’artista per il numero di aprile» esordii, avvicinandomi «Posso?» mormorai, indicando il ripiano.
«Certo» replicò lui, spostando l’apparecchio scomposto e lasciandomi lo spazio di spiegare le pagine.
«Beth Price» dissi, indicando la foto «Posso convincerla a collaborare per mostrare le sue nuove opere.»
Jefferson assunse un’espressione sconvolta. Le iridi color cioccolato si dilatarono per la sorpresa, facendolo assomigliare ad un gufo occhialuto.
«Beth ha smesso di dipingere molto tempo fa» mormorò dopo aver dato un lieve colpo di tosse «E se anche avesse continuato non vorrebbe mai collaborare con FRAME.»
«Perché?» mi venne spontaneo domandare.
«Diciamo solo che abbiamo avuto delle divergenze qualche anno fa…» rispose vago «In ogni caso non lascerebbe mai che mettessi il naso nei suoi affari.»
«Ma è un vero peccato, alcuni dei suoi lavori farebbero impallidire molti degli artisti che abbiamo esposti qui» commentai.
«Non si può fare, Max» ribadì «Mi dispiace, dovrai trovare qualcun altro.»
Con il morale sotto i tacchi, feci per congedarmi ed andarmene, ma qualcosa dentro di me urlò di non arrendermi con tanta facilità. La mia impulsività, che era capace di cadere in letargo per anni prima di riaffiorare, esplose. «E se io la convincessi?»
Il direttore mi fissò, scuotendo la testa. «Non funzionerà…»
«E se invece funzionasse?» lo punzecchiai «Riuscirò a portarla qui per un colloquio faccia a faccia.» Non era una richiesta o un suggerimento. Era un certezza, avrei portato Chloe da Jefferson, anche se avessi dovuto tramortirla e trascinare fin là il suo corpo incosciente.
Le labbra di Mark si incurvarono in un sorriso di sfida. «Sei audace» sussurrò «Se riuscirai davvero in questa impresa, prenderò molto più che in considerazione l’idea di assumerti.»
Sentii un moto di orgoglio. Avevo fatto colpo. A quel punto non mi restava che convincere la Price e avevo lo strano presentimento che ciò si sarebbe rivelato molto più arduo di quanto volessi ammettere.
Tornai alla mia scrivania al sesto piano camminando ad un metro da terra. Se tutto fosse andato per il meglio, in meno di un mese mi sarei trovata ad avere un ufficio tutto mio, orari flessibili, una buona paga e, soprattutto, la possibilità di farmi strada anche come artista.
Per eseguire gli ordini di Victoria trascorsi le ore seguenti respirando sul collo di Juliet Watson che stava lavorando ad un pezzo su un fotografo brasiliano. Osservai la mia collega con finto interesse, avendo la testa da tutt’altra parte. Nella mia mente stavo già analizzando tutto ciò che avrei potuto dire alla mia vicina di casa per convincerla a concedere a FRAME almeno un incontro.
Non appena la lancetta dell’orologio segnò le cinque in punto, l’ufficio si svuotò come per magia, sembrava che tutti si fossero dissolti nell’aria.
Mi affrettai a radunare le mie cose e corsi fuori, verso la macchina di Warren che mi attendeva paziente come al solito.
«Sei sopravvissuta, allora!» esultò non appena mi abbandonai sul sedile «Ho visto uscire un fiume di gente e pensavo che ti avessero calpestata a morte lasciandoti agonizzante nell’androne.»
«Scemo» ridacchiai, tirandogli un pugno sul braccio.
«Ehi, attenta!» brontolò «Chi rompe, paga.»
«Ma fammi il piacere!» risi «Metti in moto, che ho fretta di tornare a casa.»
Giunti all’appartamento, lasciai che il mio coinquilino riprendesse a bruciarsi i neuroni sui propri schermi, mentre io mi preparavo psicologicamente per affrontare Chloe.
Passai in bagno ad osservare la situazione e notai che il gocciolio era proseguito imperterrito e la macchia si era espansa di almeno mezza spanna. Se avesse continuato così, ci saremmo ritrovati con un buco nel soffitto e una doccia piovuta dal cielo. Quando i Prescott avevano finanziato quei palazzi si erano impegnati a farli proprio male.
Andai in camera a cambiarmi, tornando ad indossare gli stessi abiti informali del giorno precedente, a cui aggiunsi una felpa visto che il cielo si era andato rannuvolando, nascondendo il sole e facendo calare la temperatura.
Forse sarebbe stato meglio presentarmi a Chloe in veste ufficiale, conciata per bene quale ambasciatrice di FRAME, ma avevo l’impressione che avvicinandola semplicemente come “Max” avrei ottenuto di più. Al momento opportuno le avrei lanciato la proposta, facendola sentire obbligata a concedermi almeno il famoso incontro.
«Warren!» urlai per farmi sentire oltre la porta chiusa «Vado un attimo dai vicini di sopra, ok?»
«Va bene» gridò in risposta.
Mi feci coraggio e lasciai casa, iniziando a salire le scale.
La prima volta non avevo notato che sulla porta, al contrario della piccola targhetta con numero e lettera corrispondenti all’interno, come avevamo tutti, l’appartamento della Price avesse le informazioni incise direttamente nel legno, un tocco piuttosto vandalico. Il 3 era di forma simile ad una saetta, mentre la A, lettera che naturalmente corrispondeva anche al nostro locale, era leggermente inclinata, come se stesse traballando per una sbronza. Quello, unito al campanello sradicato, sembravano rappresentare un’accurata premessa di quanto si sarebbe trovato dentro.
Inspirando a fondo, bussai.
Aspettai per un minuto, poi ritentai, sempre senza ricevere risposta.
Pensai che non ci fosse nessuno in casa e avrei dovuto riprovare più tardi, ma poi un guaito canino rivelò la presenza di qualcuno all’interno.
Udii voci ovattate e rumore di passi.
«Chi è?» sussurrò qualcuno oltre l’uscio chiuso.
«Max» risposi «La vicina del piano di sotto.»
La serratura scattò e la maniglia girò, facendo comparire di fronte ai miei occhi la ragazza dai capelli blu.
«Ciao» mi salutò con un sorriso «Scusa, ma pensavamo fosse Boris» aggiunse, facendomi segno di entrare.
L’odore di fumi diversi mi investì, stordendomi.
Una voce roca sbuffò, attirando la mia attenzione: apparteneva all’uomo che avevo urtato quella mattina. Era seduto sul divano e mi fissava in cagnesco.
«Frank!» lo ammonì la padrona di casa «Comportati bene.»
Lui grugnì qualcosa e tornò ad accarezzare il cane che gli stava accucciato ai piedi.
«A cosa devo questo onore?» domandò la Price, trascinandomi verso l’altro sofà.
Titubai un momento, indecisa se seguire il mio piano, cercando di rabbonirla, o passare direttamente al fulcro della questione.
Buttai l’occhio su altri dei suoi lavori appesi, una tela astratta, una composizione di forme geometriche colorate, accanto a cui era stata piazzata una natura morta, con un vaso di fiori decorato da figure in stile greco. Meritavano di essere esposti in una galleria e io dovevo fare sì che accadesse.
«Max?» mi riscosse, sfiorandomi una gamba «Ancora problemi con il bagno?»
«Ahm, sì, più o meno» replicai «La bacinella ha arginato il problema, ma la macchia d’umido si è espansa. Se non interveniamo in fretta, il vostro bagno potrebbe sprofondare in casa nostra.»
«L’importante è che non accada mentre sono sul cesso» ridacchiò la punk.
All’improvviso, il meticcio di Frank, Pompidou mi sembrava fosse il nome, balzò in piedi e si avvicinò alla porta, scodinzolando.
Un istante dopo, sentii il rumore di chiavi che giravano nella serratura.
«Sono a casa» esordì la nuova arrivata.
Posò un paio di sacchetti della spesa e si inginocchiò per coccolare l’animale.
Quando si rialzò, mi mozzò il fiato in gola.
Definirla bellissima sarebbe stato riduttivo, era la classica ragazza che chiunque avrebbe voluto essere o avrebbe voluto portarsi a letto. Non era particolarmente alta, ma la sua figura era semplicemente perfetta: longilinea, con le giuste curve messe in risalto dagli abiti che la fasciavano ad arte. La brillante chioma bionda cadeva morbida sulle spalle, ondeggiando come un’aura dorata ad ogni suo movimento.
Ma quell’aria angelica si infranse non appena potei osservarne meglio il viso. Le guance erano scavate, la pelle attorno alle narici screpolata, gli occhi da cerbiatta gonfi, arrossati e contornati da profonde occhiaie scure in netto contrasto con la carnagione innaturalmente pallida.
«Chloe» soffiò, avvicinandosi alla ragazza per lasciarle un bacio sulla guancia «Non mi avevi avvisato che avremmo avuto compagnia.»
«Frank non ha voluto schiodare il culo» spiegò l’artista «Mentre Max è qui per… Beh, in realtà non lo so» concluse, tornando a fissarmi incerta.
«Piacere Max, sono Rachel» disse la bionda, tendendomi la mano.
«Il piacere è tutto mio.»
«Quindi, perché sei qui?» ribadì la Price, mentre la sua ragazza recuperava la spesa da sistemare, aiutata da Frank.
«A dire il vero è una questione piuttosto delicata…» mormorai, indecisa su come porre la mia domanda «Potremmo parlarne in privato? Magari nel tuo safe space
La giovane dai capelli blu lanciò un’occhiata agli altri due e, vedendoli intenti a chiacchierare, mi afferrò per un braccio e mi trascinò fino a quello che non mi era concesso definire atelier.
La luce aranciata del sole entrava dalla finestra, mostrandomi che il tramonto non era lontano. Mi pareva che alcune tele fossero state spostate rispetto al giorno precedente, ma non potevo dirlo con certezza.
«Si può sapere che c’è?» chiese con una specie di ringhio.
Quel tono aggressivo mi spaventò, facendo vacillare ogni oncia di coraggio che mi ero sforzata di raccogliere.
La mia paura ed insicurezza dovevano essersi palesate perché Chloe cambiò rapidamente espressione, mostrandosi sorpresa.
«Non volevo suonare aggressiva» si affrettò a dirmi «È solo che non mi piacciono i raggiri e le moine, per cui vai al sodo… Per piacere.»
Quell’ultima mancia di sillabe servì a tranquillizzarmi. Era giunto il mio momento.
«Io lavoro nel campo dell’arte» esordii «Per una rivista piuttosto nota…»
Le sue iridi celesti ebbero un guizzo, lasciandomi intendere che avesse già capito dove stessi portando il discorso.
«Mi è capitato tra le mani l’articolo riguardante Beth Price… Si tratta di te, non è vero?»
Un misto di rassegnazione e dolore le attraversò gli occhi prima che mi rispondesse: «Complimenti, Sherlock. Avevi già orchestrato tutto o la bella idea ti è balzata in testa quando hai messo le mani su quel numero di FRAME? Aspetta! Non dirmelo: non c’è nessun problema al tuo bagno, ti serviva solo una scusa per avvicinarmi!» La sua voce si era alzata di quasi un’ottava. Era arrabbiata, nel suo cervello si era convinta, in qualche contorta maniera, che avessi tradito la sua fiducia.
«No, aspetta!» tentai di calmarla «Sono qui per parlarne, non voglio costringerti a fare niente!»
Il suo viso continuava ad essere agitato da una profonda rabbia, ma sembrò trattenersi abbastanza per lasciarmi continuare.
«Il capo mi ha chiesto di scovare un artista emergente e incentrare su di lui il numero di aprile» sussurrai con un filo di voce «Appena ho visto i tuoi dipinti ho capito quanto talento ci fosse dietro ogni singola pennellata e ho pensato che saresti potuta essere il soggetto perfetto, ma non avevo idea che avessi già collaborato con FRAME.»
Lei sbuffò, però non mi interruppe.
«Volevo chiedere qualche delucidazione su Beth, sul perché tu abbia scelto questo nome d’arte e, sì, avevo intenzione di proporti di tornare a condividere le tue opere tramite la rivista, ma non ci voleva essere nessun obbligo.»
Impulsivamente, portai la mano sinistra a stringere il suo braccio destro là dove aveva il tatuaggio. Il mio gesto avrebbe potuto farla scattare, avrebbe potuto spingerla magari a farmi del male, ma pur di cogliere quella rosa avrei rischiato di pungermi con le spine.
«Ti prego di credermi» sospirai «L’ultima delle mie intenzioni era di ferirti in qualche modo.»
La furia nelle sue iridi parve placarsi, strisciando verso gli abissi segreti da cui era emersa.
«Non ho bisogno che tu lo dica a parole» ripresi dopo qualche minuto di silenzio, speso a fissarci intensamente «Ho capito che non ti interessa la mia proposta, mi arrangerò, ma grazie per avermi aperto casa tua e mostrato il tuo safe space. Non ho intenzione di tradire il tuo segreto, per cui Beth Price può rimanere là dov’è, a me basta restare in buoni rapporti con la mia vicina Chloe.»
«Ho capito che le tue intenzioni non fossero cattive, Max» disse, facendo un passo indietro e sfuggendo al mio tocco «Mi spiace di aver reagito così… Ho dei problemi a gestire le emozioni in certi frangenti… Cazzo, direi degli stra-grandi problemi» ridacchiò nervosamente.
Tesa come una corda di violino, attesi che continuasse.
«Senti» proseguì «Sono lusingata per le tue attenzioni, ma non voglio tornare a fare la pittrice per campare, non penso di essere ancora pronta… Però voglio lasciarti qualcosa.»
Sollevò un tubo di cartone da terra, ne aprì il tappo di plastica all’estremità e ne estrasse diverse tele arrotolate.
«Queste mi sono rimaste dai tempi della galleria, sono le tele invendute» disse, spiegandone alcune «Scegli pure quella che preferisci. Considerala come un segno di pace.»
Erano una decina di dipinti ad acrilico, nature morte per la maggior parte. Seppi subito quale avrei voluto prendere con me.
«Non ci credo che lavori per FRAME» parlottò in tono ironico «Hai un gusto davvero di merda.»
Scoppiai a ridere, un po’ perché divertita da quel commento, un po’ per allentare la tensione che mi aveva stretto la gola fino a quell’istante.
Stringendo il trofeo tra le mani, misi piede fuori dall’atelier, mentre il braccio tatuato della punk si posava amichevolmente sulle mie spalle, accompagnandomi fino all’uscita dall’appartamento.
Con un ultimo colpo d’occhio individuai Rachel e Frank piegati sul tavolino accanto al divano, intenti a sniffare quella che quasi certamente era cocaina. Capii per quale ragione la bella modella avesse quell’aria consumata ed intuii che l’uomo dovesse essere il suo spacciatore e non solo il suo compagno di sballo. Mi domandai se anche Chloe prendesse parte a quei malsani rituali, ma non avrei più avuto modo di indagare.
Senza aggiungere altro, spingendomi delicatamente, la Price mi fece uscire e mi chiuse la porta alle spalle.
Tornai al piano inferiore con la coda tra le gambe, sentendo un senso opprimente di sconfitta al petto, ma non solo. Mi ero inconsciamente convinta che quella collaborazione non avrebbe fatto bene solo anche a me, ma anche alla scapestrata ragazza dai capelli tinti. Non sapevo spiegarmi per quale ragione avessi fatto mia la missione di redimerla in qualche modo, di salvare lei e la sua arte dal vortice dell’oblio in cui Beth Price sarebbe altrimenti precipitata.
Rientrai senza che Warren se ne accorgesse e mi chiusi in stanza.
Seduta sul letto, spiegai nuovamente il dipinto e lo ammirai.
Su uno sfondo nero, reso lucido come una lastra di ossidiana, si stagliava un lungo stelo spinato color verde smeraldo, che culminava con una rosa blu su cui era tinta una singola goccia scarlatta.
Era vero, non era la sua opera migliore, ma per me aveva un significato: mi ero punta, ma ero comunque riuscita a sfiorare i petali del suo animo e avrei tentato e ritentato, fino a che non fossi riuscita ad inspirare la fragranza di quel magnifico e raro fiore.

NdA: ben ritrovati, signore e signori, con questo secondo capitolo di Life is Art. Come avevo precedentemente annunciato, la storia si compone in totale di cinque capitoli che verranno pubblicati a scadenza settimanale, giusto per ricordarlo. Spero che l'intreccio risulti ben strutturato e coinvolgente, ma soprattutto chiaro, nel caso in cui non lo fosse vi invito a farmelo sapere e vedrò di sciogliere eventuali dubbi quanto prima. Ora, i ringraziamenti: un grazie a tutti coloro che hanno letto questo capitolo e quello precedente, la paura nel lanciare una nuova storia è sempre quella che non piaccia, ma mi sembra di essere riuscita ad attirare l'attenzione di alcuni di voi e ciò è cosa buona; un grazie a chi ha aggiunto la storia tra le seguite/ricordate/preferite per la fiducia accordatami; un grazie a wislava per il suo lavoro di correzione e i suoi commenti; infine un grazie a Camyglee per la sua gentile recensione. Con la speranza di trovarvi anche al prossimo aggiornamento, vi saluto e vi auguro, nel frattempo, buona lettura e buone cose. A venerdì prossimo.

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Capitolo 3
*** Again Recklessness Triumphs ***


III: Again Recklessness Triumphs | L’impulsività trionfa di nuovo
 
Un rumore insistente mi destò dal sonno leggero in cui ero scivolata. Stiracchiandomi, arrivai ad afferrare il cellulare che avevo lasciato nella giacca, abbandonata per terra.
L’ora di cena era vicina, quel riposino imprevisto, compiuto subito dopo la visita da Chloe, era servito a rigenerarmi le forze.
Feci scivolare il dito sullo schermo, accettando la chiamata.
«Pronto?» biascicai.
«Maxine Caulfield» mi redarguì la voce dall’altro capo «Avevi promesso che mi avesti chiamata appena finito il turno per raccontarmi il tuo primo giorno di lavoro.»
Mi stropicciai gli occhi e poi passai la mano a scarmigliarmi i capelli. «Lo so, Kate, mi dispiace…» mormorai, trattenendo uno sbadiglio.
«Hai idea di tutte le cose che mi sono passate nella testa in queste ore?» continuò la mia amica, decisa a farmi una bella ramanzina «Potevano averti drogata, rapita, magari persino uccisa!»
«Ok, Katie, ora stai esagerando» bofonchiai, mentre tentavo di alzarmi dal letto «Sono viva, sto bene. Dopo il lavoro sono stata distratta da una cosa e appena rientrata in casa sono crollata addormentata.»
«Che cosa hai combinato per avere la testa da tutt’altra parte?» domandò, tornando ad assumere il suo solito tono gentile.
«Sarà meglio che cominci da capo» dissi, radunando i pensieri.
Le raccontai di Victoria, di Juliet e Dana, di Daniel e della sua figuraccia con il povero Warren e, naturalmente, le parlai di quanto avevo scoperto dall’articolo su Beth Price. Proseguii narrando ciò che era accaduto nell’appartamento di sopra, dall’incontro con Rachel agli scatti di rabbia di Chloe.
«Certo che la tua vita è sempre un’avventura» commentò la Marsh quando ebbi concluso il resoconto «Solo tu potevi scoprire di avere un genio dimenticato dell’arte che ti cammina sopra la testa.»
«E in tutto ciò» sbuffai «Il bagno continua a gocciolare come un ossesso.»
Kate tacque un secondo.
«Lo so che stai sogghignando, Kate Beverly Marsh» brontolai «Posso capirlo dal tuo respiro.»
Lei si arrese e si lasciò andare ad una fragorosa risata.
«Ridi, ridi…» borbottai «Prenditi pure gioco di me! Potremmo farne uno sport nazionale.»
«Scusa, Max» sogghignò, tentando di placare le risa «Però devi ammettere che la situazione è bizzarra.»
«Già, come minimo… Tutta la mia vita è strana, mai una cosa che vada come dovrebbe.»
«È proprio questo il bello dell’esistenza: non sai mai cosa aspettarti» sentenziò la ragazza «Per esempio, chi l’avrebbe mai detto che ti saresti presa una cotta per una scontrosa punk con problemi di gestione della rabbia?»
Rimasi di sale. «P… Puoi… Ripetere?» balbettai, sicura di aver capito male.
«Oh, andiamo, Max!» replicò Kate «Ti conosco da troppo tempo per non leggere i segnali.»
«Ma se non mi hai neppure vista in faccia» obiettai, poco convinta.
«Mi hai parlato di lei in modo ossessivo» sottolineò «Mi hai ripetuto ogni singola parola letta su di lei, come a memoria. È stato inquietante. E poi quando mi hai detto di averle posato la mano sul braccio… Sembrava che stessi toccando con mano un angelo tanto eri rapita dal rievocare la scena.»
Rimasi muta, riflettendo su quelle frasi.
«L’ho fatto davvero?» sussurrai incredula dopo una trentina di secondi.
«Croce sul cuore.»
«No, Katie, ti sarai fatta un’impressione sbagliata» tentai di difendermi «La ammiro molto come artista, ma la conosco da ventiquattro ore e neppure così bene…»
«Andiamo! È il classico colpo di fulmine!» esclamò la Marsh, convinta della propria teoria.
«No, no e poi no» negai, scuotendo il capo per enfatizzare il concetto «È tutto nella tua testa.»
«Non mi parlavi così di qualcuno dai tempi di Tom» ribattè «E sappiamo tutti com’è andata con lui.»
Thomas Harris era stato un mio compagno di college a Seattle, ci eravamo conosciuti due settimane dopo l’inizio dei corsi, ad una lezione di arte moderna. All’inizio dell’ora io, sovrappensiero come al solito, mi ero seduta dietro un banco senza badare a cosa stessi facendo ed avevo brutalmente deformato un paio di costosi occhiali da sole che qualcuno aveva poggiato sulla sedia. Dieci minuti dopo era entrato in aula, reggendo un caffè in una mano e il libro di testo nell’altra, un ragazzo alto, con una scompigliata zazzera nera in testa, avvolto in una gigantesca felpa scura. Mi aveva riempita di insulti per avergli rovinato gli occhiali e a nulla erano serviti i miei mille e più tentativi di scuse. Ma da quel momento il destino aveva iniziato a farci incrociare sempre più spesso, fino a farci stringere amicizia, nonostante l’incidente all’origine del nostro incontro. Il piccolo gruppo di amici di cui facevo parte aveva accolto volentieri Tom tra le proprie file e così avevo iniziato a frequentarlo anche fuori dall’università. Kate mi aveva fatto notare subito quanto fossi ossessionata da quel tipo, ma avevo negato tutto.
Sei mesi dopo il disastro degli occhiali ci fu il nostro primo bacio, seguito da molti altri. Per mesi non ero riuscita a rimuovere dalla testa la voce della mia amica che ripeteva “te lo avevo detto” fino alla nausea.
Dopo un anno e mezzo di rapporto, proprio quando stavamo per iniziare insieme il terzo anno, la storia si concluse. Nessuno di noi due aveva saputo dire quale fosse stato il fattore scatenante, ma la nostra relazione era diventata una semplice convenzione, ci davamo per scontato e non mi ero sorpresa di sapere che aveva iniziato da un po’ a vedersi spesso con un’altra.
Quella era stata la mia prima ed unica relazione e ne ero rimasta talmente segnata da non permettere a nessun altro di prendere posto nel mio cuore. Eppure sembrava che una certa rosa blu avesse piantato radici in fretta, totalmente a mia insaputa.
«Non è per niente come con Thomas» mi opposi, tornando a concentrarmi sulla conversazione.
«Come vuoi» fischiettò Kate «Ma poi non venire a piangere da me quando realizzerai che avevo ragione fin dal principio.»
«Invece di inventare storie sui miei rapporti personali» cambiai prontamente argomento, vedendo uno spiraglio di salvezza «Che mi dici dei tuoi mocciosi? Sempre a rincorrersi e a litigarsi le matite?»
«Jennifer ed Allison hanno di nuovo bisticciato e questa volta si è messo in mezzo anche Omar» iniziò a raccontare, infervorata.
Ascoltai di come i tre bambini si fossero accapigliati per una boccetta di colla col glitter, finendo col spargerne il contenuto in giro per tutta l’aula. Kate aveva passato quasi un’ora a levarsi brillantini dalle scarpe e dal maglioncino.
«Yo, Max!» mi richiamò Warren mentre la Marsh era sul punto di cominciare a raccontarmi della recita del suo gruppo di preghiera «La cena è servita!»
«Scusa, Katie» mormorai «Devo andare. Il gran predatore Graham deve aver procacciato il pasto.»
«Certo, nessun problema» replicò la ragazza «Buon appetito, Max. A domani… E salutami la tua preziosa punk!»
Attaccai ed uscii, raggiungendo il mio coinquilino, che stava spacchettando la spesa, mettendo a posto i diversi prodotti alimentari.
«Sono passato dal ristorante giapponese in fondo alla strada e ho preso del sushi» mi informò, indicando un sacchetto a parte.
Mi leccai i baffi all’idea e a tempo di record ci ritrovammo sul divano ad abbuffarci di riso e pesce, guardando insieme un po’ di televisione.
Trascorremmo una serata tranquilla, ritrovando quell’intesa che avevamo i tempi della Blackwell, interrompendoci l’un altro a suon di citazioni nerd.
Andai a letto tutto sommato contenta della mia giornata, puntando la sveglia per essere in tempo al Two Whales per la colazione con Daniel.
Prima di chiudere gli occhi, osservai ancora una volta il dipinto della rosa, che avevo steso alla bell’e meglio e appoggiato accanto al mio equipaggiamento fotografico. Mi addormentai ripromettendomi di comprare una cornice che gli rendesse giustizia.
Il trillo dell’infernale strumento di tortura atto a strapparmi puntuale dal mondo dei sogni giunse inatteso. La mia mente stava vagando felice, trascinata tra le rapide di un fiume di petali turchini, quando l’infido oggetto aveva iniziato la propria danza impazzita.
Disinnescai la sveglia, con il vago timore che altrimenti sarebbe esplosa o avrebbe fatto esplodere il mio cervello. Mi trascinai assonnata fino in bagno e feci una rapida doccia, cogliendo l’occasione per notare la macchia in imperterrita espansione.
Dopo che ebbi finito di lavarmi e vestirmi, quando erano ormai le otto meno un quarto, bussai alla porta della camera di Warren.
«Ehi, senti» dissi, contando sul fatto che fosse già in piedi «Prendo la macchina per andare al Two Whales e poi la uso per andare al lavoro, ci rivediamo questa sera.»
Afferrai le chiavi del veicolo, controllai di avere tutto lo stretto indispensabile con me e lasciai casa, dirigendomi verso il diner.
Il Two Whales era ad Arcadia Bay da tempo immemore, probabilmente era stato proprio lui a dare il via alla costruzione della città. Era un punto di ritrovo per tutti gli abitanti, faceva parte dello spirito stesso della cittadina.
Raggiunsi il parcheggio della tavola calda in una decina di minuti, guidando piuttosto spedita, nel timore di fare tardi.
Piazzai l’automobile in uno dei numerosi spazi disponibili e mi presi in un momento di tranquillità per fare il punto di ciò che avrei dovuto concludere durante la giornata: passata la colazione, sarei andata da FRAME e non avevo idea se rivelare a Jefferson che l’affare con Beth Price era andato in fumo ancor prima di cominciare. Non volevo ammettere una simile disfatta.
Sospirai, amareggiata. I miei buoni propositi erano stati spazzati via da quello sguardo furente e quelle parole dure.
Sfilai le chiavi dal quadro di accensione ed aprii la portiera, aspettandomi di poter poggiare un piede sull’asfalto senza correre pericolo. Mi sbagliavo.
Con una sgommata degna di un campione di rally, un malconcio pick-up si piazzò alla mia sinistra, ad un soffio dalla portiera semiaperta. Se avessi teso il braccio qualche centimetro in più, la demoniaca vettura me lo avrebbe tranciato via.
Mi fiondai fuori dal veicolo, pronta a lanciarmi in un’epica disputa con lo scellerato autista. Chiusi lo sportello dell’auto con una tale rabbia che pensai di averlo in qualche modo rovinato, ma non avevo tempo per preoccuparmi di un eventuale graffietto.
«Chi ti ha dato la patente, razza di idiota!?» sbottai, sentendo qualcuno scendere dal pick-up «Non hai visto che stavi per ammazzarmi?»
«Che cazzo di esagerazione…» mi rispose il potenziale criminale, anzi, la potenziale criminale, compresi nel sentire una voce fin troppo familiare.
Quando Chloe si voltò per osservare chi fosse ad avercela con lei, i suoi occhi si spalancarono per la sorpresa. Si limitò ad accompagnare quella scoperta con un: «Oh.»
Mi passai una mano sul viso, nel tentativo di cancellare l’enorme, confusa, matassa di pensieri e parole che mi stava affollando la mente. La pittrice era l’ultima persona che avevo voglia di vedere, dopo tutti gli stupidi discorsetti di Kate.
«Voglio che tu sappia una cosa: questo non è il mio consueto modo di augurare il buongiorno» borbottai, cercando di ritrovare un briciolo di contegno dopo averle urlato contro.
«Tranquilla» rispose «Avevi stra-ragione ad avercela con me, non avrei dovuto sgommare in quel modo, non così vicino alla tua macchina.»
Sventolai la mano, per farle intendere che la questione fosse ormai risolta.
«Posso… Magari… Sì, cioè…» iniziò a balbettare, calcandosi ancor più in testa il cappello scuro che teneva in parte nascosta la sua chioma colorata «Farmi perdonare offrendoti la colazione?»
Avvampai. «Molto gentile da parte tua» replicai, combattendo contro la timidezza che stava tentando di ammutolirmi «Ma ho già un appuntamento.»
Per la seconda volta, la Price emise quello strano verso di stupore, quasi di disappunto. O forse stavo vedendo solamente ciò che volevo vedere. «Chiunque sia, è un uomo fortunato»  disse, cacciandosi le chiavi della vettura in tasca con quella che mi parve un po’ troppa enfasi.
«Non è  un appuntamento appuntamento» tentai di chiarire «Mi vedo con un collega per un caffè.»
Per la terza volta, quel suono bizzarro lasciò le sue labbra.
«Allora» proseguii, tentando di allontanare l’imbarazzo che rischiava di farci collassare entrambe «Sei qui per la colazione?»
«Sì, come quasi ogni giorno da quando sono tornata a vivere in questo buco di città» ribattè «Immagino tu abbia letto su FRAME che sono nata qui, beh non c’è scritto che ho praticamente passato la mia infanzia là dentro» continuò indicando il diner «Per te è la prima volta al Two Whales?»
Avrei voluto trattenermi dallo scoppiare a riderle in faccia, ma non ci riuscii.
«Cosa ho detto di così divertente?» domandò, sconcertata.
«Niente» mormorai «Ma decisamente non è la prima volta che metto piede là dentro.»
«Avevi detto di esserti trasferita ai Pan Estates da poco e ho immaginato che tu venissi da qualche posto lontano…» tentò di giustificarsi.
«Tranquilla, non potevi saperlo, ma sono anche io originaria di qui» le spiegai «Posso dire anche io di essere cresciuta in quella tavola calda. Anzi, vista la quantità di sabati mattina che ho passato seduta a quei tavolini, potrei averlo segnato come residenza. Mio padre mi ci portava e mi affidava alle cure della cameriera, una donna buonissima che mi faceva avere sempre qualche fetta di bacon in più, fino a che poi lui non tornava a riprendermi dopo le commissioni.»
Non sapevo per quale ragione avessi sommerso la punk con tutte quelle frasi, quando mi sarebbe bastato fermarmi alla prima.
«Sai cosa? Mia madre ha lavorato al Two Whales per una schifosa quantità di anni!» esclamò «Magari era lei.»
Rievocai l’immagine sorridente della donna che mi serviva quando ero piccola e, come mettendo a fuoco una fotografia, arrivai a leggere il nome sulla targhetta. «Tua madre è Joyce?» chiesi.
«Così risulta all’anagrafe» sussurrò «Era lei?»
Annuii, riprendendo con il mio sproloquio: «Era la migliore cameriera del mondo, le ero molto affezionata. Una volta le avevo proposto di presentarsi per il career day alla mia scuola…» Fui costretta a lasciare in sospeso il pensiero, ricordandomi che Joyce mi aveva risposto declinando gentilmente, ma aggiungendo che sua figlia non glielo aveva mai proposto ed avrebbe preferito avere una “brava ed educata bambina come me” invece del suo terremoto.
«Conoscendo mamma ti avrà detto che non poteva permettersi di saltare un turno di lavoro per una simile pagliacciata.»
«Una cosa del genere…» risposi, tenendomi sul vago.
«Comunque non ci saranno fette di bacon in più, oggi» annunciò «Mia madre e il mio patrigno si sono trasferiti nel Maine ormai da qualche anno.»
Mi spiacque sentire ciò e una nuova serie di domande iniziò a frullarmi in testa, ma non potevo entrare in modalità stalker ossessiva o avrei dovuto dare ragione a Kate, per cui mi limitai ad accennare col capo di aver inteso.
«Ti ho trattenuta anche troppo» riprese «Il tuo non appuntamento ti starà aspettando.»
«Certo» bisbigliai tra me e me.
«Allora… Ciao e buona giornata» tentò di congedarsi la punk, avviandosi verso l’interno del locale.
«In realtà» appuntai «Andiamo dalla stessa parte, per cui…»
La affiancai e, ridacchiando per allontanare nuovamente l’imbarazzo, ci muovemmo a grandi passi verso la tavola calda.
Entrando fui investita da un fiume di ricordi, di mattinate passate a dondolare i piedi dalle poltroncine mentre con la forchetta muovevo nel piatto i bocconi di cibo per crearne delle figure.
Il sentore di caffè, misto a quello dei piatti salati, servì a rivitalizzarmi all’istante.
«A questo punto ti saluto davvero» rise, appoggiandomi una mano sulla spalla «Anche perché vedo un tizio sbracciare come un matto per farsi vedere ed immagino non sarebbe carino trattenerti ulteriormente.»
«Buona giornata, Chloe» mormorai con un sorriso, dimentica di quanto accaduto appena qualche minuto prima nel parcheggio, quando sarei saltata al collo del pirata della strada per fargliela pagare.
«Altrettanto a te, Max» disse, facendo poi un cenno al cameriere, come se stesse confermando il proprio ordine abituale.
Raggiunsi Daniel che, come la pittrice aveva brillantemente osservato, stava quasi rischiando di ribaltarsi, tanto si stava sporgendo nella mia direzione.
«Sei venuta!» esultò «Cominciavo a temere che te ne fossi dimenticata.»
«No, figurati… Sono uscita un po’ tardi e mi sono trattenuta a chiacchierare nel parcheggio» replicai, accomodandomi di fronte a lui.
Il giovanotto adocchiò la punk, spostando poi lo sguardo su di me, chiaramente indeciso se lasciarsi andare ad un commento rischioso come quello del giorno precedente.
«È una mia vicina di casa» lo anticipai, per prevenire qualsiasi tipo di equivoco.
«Sembra proprio una persona… Ahm… Originale» balbettò «E ha qualcosa di noto… Potrei averla già vista da qualche parte?»
«Non che io sappia» mentii, dovendo proteggere l’identità di Beth Price.
Il discorso venne interrotto dal cameriere, che si avvicinò al nostro tavolo con il blocco delle ordinazioni alla mano.
Per quanto la chiacchierata con Chloe avesse risvegliato in me una voglia matta di omelette e bacon, mi limitai a chiedere un caffè e un muffin, mentre il mio collega prese una pila di pancakes grondanti di sciroppo.
Quando DaCosta allungò la mano sinistra per portarsi alle labbra la tazza, il gesto mise in risalto l’anello d’oro che sfoggiava all’anulare.
«Non avevo notato che fossi sposato» osservai.
«Fidanzato ufficialmente» mi corresse «Stiamo decidendo una data per il prossimo autunno.»
«La tua futura moglie è già entrata in modalità Bridezilla?» chiesi.
Mi sarei aspettata una risposta ironica, ma non che Daniel scoppiasse a ridere sguaiatamente.
«Scusami, Max » mormorò, continuando a sogghignare «Ma davvero non ho saputo resistere…»
Confusa, aggrottai le sopracciglia, sforzandomi di capire cosa non avessi colto.
«Bruce si piegherà dalle risate quando glielo racconterò.»
A quel punto, tutto mi fu chiaro. Aprii bocca, decisa a cominciare con una sequela di scuse, ma DaCosta mi stoppò prima che potessi emettere anche una sola sillaba.
«Non c’è bisogno di sprecare il fiato con quisquilie del genere» disse «Visto che ci conosciamo da pochissimo non potevi saperlo, comunque, per il bene dell’onestà… Max, devi sapere che sono gay e quello che tu hai insinuato essere preso dalla febbre del matrimonio è il mio compagno Bruce, l’uomo più tranquillo della terra. Io, piuttosto, sto diventando pazzo all’idea di tutti quei posti da assegnare, il servizio catering da prenotare e via dicendo.»
Iniziò a parlarmi del proprio partner con un sorriso sornione, raccontandomi di come, in quel momento, fossero costretti a vivere separati per via del lavoro di Bruce, che era stato trasferito in Minnesota, ma appena ufficializzate le nozze sarebbe tornato ad Arcadia Bay.
La sua narrazione si interruppe all’improvviso, facendomi preoccupare per un momento. «Cosa c’è?» domandai.
Lui tenne lo sguardo fisso oltre le mie spalle. «La tizia dai capelli blu ha finito di mangiare almeno cinque minuti fa e non ha mai smesso di fissarti, mi sembra un comportamento un po’ insolito, per non dire inquietante.»
Avrei dovuto mantenere il sangue freddo, ignorando quel fatto, ma, invece, la mia testa scattò ruotandosi insieme al mio busto di centottanta gradi.
Non appena i nostri sguardi si incrociarono, Chloe sbattè le palpebre, si cacciò le mani in tasca ed uscì.
«Bizzarro, decisamente bizzarro» constatò il ragazzo «Vi conoscete da tanto? Ne dubito.»
«In effetti sono passati solo due giorni dal nostro incontro.»
«Lo sospettavo… Eppure sembra proprio che lei si sia presa una cotta per te.»
Il sangue mi si gelò nelle vene.
«A questo punto Bruce interverrebbe dicendomi che vedo sempre cose che non ci sono» riprese «E che sono un romantico senza speranza.»
«Lei ha una ragazza» gli dissi.
«Questo non vuol dire niente» ribattè «Anche io ero impegnato quando conobbi Bruce, ma appena posai gli occhi su di lui e gli parlai, seppi immediatamente che, alla fine, in un modo o nell’altro sarebbe stato l’amore della mia vita.»
Deglutii un sorso di caffè bollente, pensando che Daniel e Kate sarebbero andati estremamente d’accordo e sarebbero stati il perfetto Dinamico Duo per tormentarmi.
«Un mese dopo ho rotto con il mio fidanzato di allora e ho iniziato ad uscire con quello che, a breve, sarà mio marito.»
Dialogammo ancora per una ventina di minuti, poi pagammo ed uscimmo, raggiungendo le nostre vetture nel parcheggio. Guidammo fino al palazzo di FRAME e, nuovamente riuniti, salimmo in ascensore.
«Ti auguro buona giornata, Max» sorrise, una volta giunti al sesto piano «Se non hai da fare, vieni a trovarmi al dieci durante la pausa.»
«Contaci» gli assicurai, andando poi a prender posto alla mia scrivania.
Trascorsi le ore alla ricerca di un nuovo artista su cui basare il mio articolo, con risultati pessimi. Giunta la mezza, raggiunsi Daniel e mangiammo insieme, continuando le ciarle della mattinata.
Alle cinque rientrai a casa, scambiai qualche battuta con Warren, chiamai Kate e mi misi ad osservare i miei vecchi scatti fotografici. Tramontato il sole, Graham ed io ci riunimmo per cena davanti al televisore e poi mi trascinai fino al letto, in attesa di cominciare una nuova giornata.
Quelle azioni, praticamente identiche a loro stesse e in quel preciso ordine, si ripeterono per un’intera settimana. La monotonia di quella routine venne spezzata solamente dalla visita di Boris che assicurò che prima o poi un idraulico si sarebbe fatto vivo, per il resto nulla venne a turbare la mia nuova quotidianità. Jefferson  non aveva insistito per la storia di Beth Price, anzi, sembrava quasi averla rimossa, il che giocava a mio vantaggio visto che non ero riuscita nel mio pretenzioso intento.
Dieci giorni dopo il mio arrivo a FRAME, un mercoledì, mentre ero impegnata a seguire Dana come un’ombra, assistendola come Victoria voleva, Taylor venne a chiamarmi per conto di Jefferson.
Con passo pesante, mi feci strada fino al quattordicesimo piano e da lì proseguii fino all’ufficio del capo.
Quando entrai, notai subito Nathan Prescott che, seduto sul divanetto sulla sinistra, stava sfogliando un book di fotografie che sembrava fresco di stampa. Da dietro la scrivania, Mark, intento a parlare al telefono, mi fece segno di aspettare un momento.
Sbirciai la lettura del giovane ereditiero, catturando il nome stampato sul dorso del volume: il suo.
«Nathan, era l’editore» alzò la voce il direttore «Se approvi questa versione, manderanno il libro in stampa cosicché sia pronto per la tua esposizione di luglio.»
Il ragazzo scorse qualche altra pagina, permettendomi di notare i numerosissimi scatti in bianco e nero dai temi vagamente gotici ed inquietanti, il soggetto preferito di Prescott da quello che avevo osservato anche dalla galleria all’undicesimo piano.
«Mi pare che sia buono, tutto sommato» sbuffò, chiudendo il tomo «Dirò a mio padre di confermare la stampa.»
Il ragazzo si alzò, salutò Jefferson ed uscì, ignorandomi completamente, come se fossi trasparente.
«Perdona le maniere del mio giovane amico» mi disse il fotografo, invitandomi a prendere posto sulla sedia opposta alla propria «Non è molto socievole e tende a vivere in un mondo tutto suo.»
«Credo che non mi abbia fatto chiamare per discutere di Prescott, però» osservai.
«Vero, Max» mormorò, incrociando le braccia sul piano della scrivania «Victoria mi ha informato che ancora non hai individuato un artista per il tuo pezzo…»
Deglutii sonoramente, sapendo dove sarebbe andato a finire quel discorso.
«Non avevi già in ballo qualcosa con Beth Price? Che fine ha fatto quel progetto?»
Abbassai lo sguardo, assumendo la mia peggiore aria da cane bastonato. «Non è andato molto bene» bofonchiai «Mi dispiace…»
«Suvvia, non è niente di grave» mi rassicurò l’ex-professore «Sarebbe stato un gran colpo per FRAME, ma possiamo cavarcela con altro… Sai cosa dovresti fare?»
Rialzai la testa, pronta a venire illuminata dalla saggezza dell’uomo.
«Passare un po’ di tempo nei piani sotterranei, nell’archivio. Oltre ad esserci parte delle opere non esposte ci sono anche articoli mai pubblicati che potrebbero farti rintracciare qualche volto ormai lontano dai riflettori da qualche tempo.»
Soppesai quella proposta: era molto valida, in più mi avrebbe dato modo di lasciar respirare le povere Juliet e Dana che non ne potevano più di avermi a ronzare là intorno.
«Domani prenditi la giornata per muoverti in libertà in quel labirinto» propose il capo «Ho fiducia in te, Max, so che alla fine mi consegnerai un lavoro eccellente.»
Lo ringraziai e poi fui congedata, così da poter tornare al sesto piano per ultimare la mia infruttuosa ricerca della giornata.
Tornai a casa in auto e salii le scale in un lampo, dopo aver letto sul cellulare un messaggio di Warren che mi pregava di sbrigarmi.
Aprii la porta e rischiai di inciampare in un paio di valigie.
«Che sta succedendo?» domandai, recuperando l’equilibrio.
Il mio coinquilino si stava muovendo come una trottola impazzita, vorticando da un lato all’altro dell’alloggio, ammucchiando vestiti e fogli in giro, portando ancor più caos in casa.
Lo afferrai per le spalle mentre trasportava una palla fatta di calzini e chiavette USB. «Warren, vuoi dirmi che ti è preso?»
«Mamma» rantolò.
Il mio cuore mancò un battito. Benché avessi visto la signora Graham solo un paio di volte, le ero affezionata fin dai tempi della Blackwell e non potevo tollerare che le fosse capitato qualcosa di male. Lei e il marito avevano lasciato Arcadia Bay per raggiungere alcuni parenti nello Utah e vivevano a Salt Lake City ormai da anni, ma erano ancora molto legati al figlio e, di conseguenza, ai suoi amici.
«È inciampata sul vialetto di casa» esplose, tornando a correre in tondo «Adesso è in ospedale, devo andare subito da lei. Papà deve restare in negozio e non potrà assisterla a casa… Appena mia zia rientrerà dal viaggio in Europa, potrò tornare, ma fino ad allora rimarrò con lei, intanto per lavorare qua o là, mi fa poca differenza.»
«Ma non è nulla di grave, vero?» chiesi per avere conferma.
«Frattura scomposta dell’omero, un po’ una scocciatura visto che le hanno dovuto bloccare tutta la spalla» spiegò, cacciando una manciata di cose nella borsa da viaggio «Ho già impacchettato tutto, parto immediatamente. Dovrò portarmi via la macchina, mi dispiace» continuò «Per qualsiasi evenienza, spese impreviste o simili, ci sono un po’ di spicci nella scatola in fondo al mio armadio.»
Si caricò in spalla i bagagli e, naturalmente, gli diedi una mano vedendolo incespicare dopo il primo gradino.
«Ti chiamo appena arrivo» promise, prima di abbracciarmi e balzare in auto.
«Salutami tutti, soprattutto tua madre.»
«Sarà fatto» mi assicurò, mentre il rombo del motore copriva le sue ultime sillabe.
«Fa’ buon viaggio» gli augurai, quando ormai non era che un puntino blu perso nel mio campo visivo.
Con un sospiro, risalii fino all’appartamento ed iniziai a fare un po’ di ordine.
Mangiai poco e malvolentieri, aspettando la quotidiana chiamata di Kate e dopo aver condiviso gli eventi della giornata con la mia amica, crollai in un sonno profondo e senza sogni.
Alle sei del mattino venni svegliata da un’altra chiamata, quella di Warren, che dopo tredici ore di guida era finalmente arrivato dai suoi e mi porgeva i saluti della sua cara mamma.
Nonostante fosse piuttosto presto, decisi di alzarmi a quell’ora, approfittando per farmi una lunga doccia calda e nutrirmi a dovere con una colazione a base di waffle e frutta fresca.
Alle otto e venti, per essere sicura di non fare tardi, mi avviai verso la fermata dell’autobus e in mezz’ora arrivai da FRAME.
Mi fiondai direttamente nei sotterranei e mi lasciai assorbire dai preziosi tesori là sotto sepolti, trovandomi a girovagare tra cornici polverose, stampe ingigantite di fotografie e persino qualche articolata scultura dalle forme insolite. C’erano poi pile e pile di fogli contenenti appunti dei colleghi che mi avevano preceduta ed informazioni sugli artisti su cui avevano concentrato il proprio lavoro. Mi sembrava così strano che in una struttura aperta solamente da tre anni si potesse essere accumulata tanta roba, soprattutto vista la quantità di informazioni che doveva trovarsi anche in forma digitale. Jefferson, però, era un uomo della vecchia scuola, ancora affezionato alla pellicola, un vero patito dello sviluppare i propri lavori nella camera oscura, quindi non c’era da sorprendersi poi molto se insistesse per avere una copia fisica di quasi ogni lavoro.
Spulciai i fascicoli dei primi mesi di attività della rivista, scoprendo diversi talenti di cui non avevo mai sentito parlare. Mi appuntai qualche nome per ragionarci quella sera con calma, nella solitudine e malinconia dell’appartamento vuoto.
Appena scattarono le cinque, sgattaiolai fuori dall’edifico, evitando ogni contatto umano. Se avessi incrociato Daniel si sarebbe messo a chiacchierare ed io volevo solamente tornare a casa per starmene tranquilla.
Ripresi l’autobus e quaranta minuti dopo mi trovai davanti al portone del condominio.
«Porca miseria» imprecai a denti stretti, cercando le chiavi nella borsa. Ogni volta che riuscivo a sfiorarne il metallo, le sentivo scivolare nuovamente al fondo, confondendosi con le varie cianfrusaglie che mi portavo dietro.
«Vicina di casa alla riscossa!» intervenne alle mie spalle una voce squillante.
«Mia salvatrice» ringraziai quando Chloe, con gesti esagerati, aprì la porta, facendo un inchino per lasciarmi passare.
«È sempre un piacere aiutare una donzella in difficoltà» replicò, strizzandomi l’occhio «Devo ricordare al mondo che la cavalleria non è ancora morta.»
«Vuoi una mano?» domandai, notando la spaventosa quantità di sacchetti che si apprestava a portare con sé.
«Non devi farlo solo perché ti senti in dovere di ricambiare il favore» ridacchiò.
«Devo ricordare al mondo che la cavalleria non è morta» le feci il verso.
Insieme, salimmo fino al terzo piano, fermandoci alla porta del 3A.
Annaspando per lo sforzo compiuto, mi appoggiai alla ringhiera delle scale, mentre la punk armeggiava con la serratura.
Portai le sporte dentro l’alloggio, poi feci per andarmene, decisa a tornare ai miei programmi di depressione in solitaria, ma una mano smaltata di blu mi afferrò il polso, bloccandomi.
«Ehi, non è che ti andrebbe di fermarti un momento?» domandò la Price, masticando qualche sillaba nella fretta di formulare la frase.
Gettai lo sguardo intorno, indecisa sul da farsi. «Non vorrei dare fastidio…» balbettai nel tentativo di accampare una scusa.
«Rachel è a Los Angeles per un casting» disse, quasi volesse giustificare quell’invito, rendendolo ai miei occhi ancor più pericoloso «Non ho voglia di bere da sola, dai… Puoi chiamare anche il tuo amichetto, se ti va. Mi piacerebbe conoscerlo.»
«Anche Warren è fuori città» risposi «Sono da sola a casa.»
«Un motivo in più per restare!» esultò «Forza, stappo le prime birre!»
Si allontanò ancheggiando, forse un po’ troppo vistosamente, fino all’angolo cucina. Estrasse due bottiglie dal frigorifero e afferrò un apribottiglie a forma di faro appeso vicino ai fornelli.
«Alla miglior serata tra ragazze della storia!» brindò porgendomi una Blue Moon.
Infervorata da quel suo spirito festaiolo non potei che rispondere prendendo un lungo sorso della fresca bevanda. Non ero tipo da eccedere con l’alcol, anzi, solitamente me ne tenevo abbastanza alla larga, se non durante le rare feste a cui prendevo parte.
«Giù, giù, forza» mi incitò la pittrice, sollevando leggermente il fondo della mia bottiglia, spingendomi a bere di più «Ci sono almeno altre dieci di queste bellezze che ci aspettano.»
Per una volta, decisi che mi sarei concessa un po’ di svago.
«Allora, Max…» iniziò Chloe, dopo che ebbe tracannato la prima birra «È l’abbreviazione di qualcosa? Maxella?»
«Maxella?» risi «Che ti viene in mente?»
La ragazza sghignazzò a propria volta.
«Sta per Maxine» proseguii «Maxine Caulfield.»
«Piacere di conoscerti, Maxine Caulfield» disse, afferrandomi la mano e stringendola «Questo evento merita un’altra birra.»
La cosa era a dir poco ridicola, ma preferii non contraddirla, lasciando che mi stappasse e piazzasse in mano un’altra bottiglia.
«Io sono Chloe» mormorò.
«Lo so già» ribattei «E il tuo cognome è Price.»
«Giusto, giusto, tu hai fatto le tue ricerche da brava cacciatrice di talenti» commentò «Comunque il nome completo è Chloe Elizabeth Price.»
«Beth!» esclamai, illuminata «Ecco il perché del tuo pseudonimo!»
Un sorriso nostalgico si dipinse sulle sue labbra. «Vuoi sapere perché l’ho scelto?»
Non potevo non approfittare di quell’occasione. Annuii, tendendo le orecchie, pronta a carpire ogni informazione.
«La storia ha inizio quando ero solo una bambina che si divertiva a giocare con suo padre» cominciò a raccontare «Papà lavorava molto per far vivere bene mia madre e me, giostrandosi tra due lavori per sette giorni su sette…»
Bevve fino al fondo la seconda Blue Moon ed io mi alzai per prenderle la terza, mentre continuava nella narrazione.
«Ogni momento libero lo trascorreva con me, assecondando ogni mio capriccio. Iniziai presto a mostrare un interesse per la pittura e mio padre lo coltivò con me. Sceglievamo un soggetto e facevamo a gara a chi lo rappresentava meglio su tela. Si chiamava William, ma per tutti era Bill, Bill Price, B e P, le due lettere con cui firmava i suoi lavori… Quando morì, in un incedente d’auto, durante la mia adolescenza, tutto ciò che mi rimase di lui fu quella sigla, così la assunsi come mia.»
«Perché la farfalla?» chiesi, indicando con la testa gli insetti tatuati sul suo braccio.
«Un tocco personale» spiegò «Mi è sempre piaciuto come animale.»
«Credo ti si addica» affermai «Colorata, fragile, in grado di generare un uragano…»
«Ma che vai blaterando, Max?» ghignò «Sei già ubriaca dopo solo due birre?»
«Che cosa ti ha fatto Jefferson per farsi odiare tanto?» domandai, cambiando totalmente argomento. Nella mia testa le trame cominciavano ad intrecciarsi, facendo emergere quesiti che mi premevano dentro da diversi giorni e i fumi etilici mi stavano spingendo a cercare finalmente delle risposte.
«Di questo non mi va di parlare» chiuse il discorso, passando alla bottiglia numero quattro «Tocca a me a fare una domanda.»
«Ma andiamo!» obiettai «Nessuno ha stabilito di fare domande a turno.»
«Va bene, se vuoi delle regole allora ti sfido a Truth or Dare» affermò con aria provocatoria.
«Quanti anni hai? Dodici?» sbuffai divertita «Di più infantile ci sarebbe solo il gioco della bottiglia.»
«Non tentarmi…» sussurrò a pochi centimetri dal mio volto, poi si allontanò borbottando: «Comunque capisco che tu voglia rifiutarti, non sei in grado di reggere gli obblighi e le verità.»
«Ti piacerebbe!» replicai alzando la voce «Spara, non ho paura del confronto.»
«Obbligo o verità?»
«Verità, ovviamente.»
«Hai ancora intenzione di provare a farmi collaborare con FRAME?» chiese, passandomi un’altra Blue Moon.
Bevvi un sorso, chiusi gli occhi ed inspirai. «Sì, non voglio arrendermi. Il tuo talento è troppo prezioso per restare relegato tra queste quattro mura.»
«Apprezzo l’onestà» ammise «È il tuo turno.»
«Obbligo o verità?» domandai, come da rito.
«Verità» scelse.
«Dimmi di Jefferson, avete avuto un qualche diverbio?»
«Sì» fu la risposta lapidaria.
«E quindi?» insistetti.
«Ah, Maxine» mormorò con aria compiaciuta «Una sola domanda per volta.»
«Ma non mi hai risposto» obiettai.
«Sì invece, non è colpa mia se non hai posto la domanda nella giusta maniera» gongolò «Si vede che non hai fatto molta pratica con questo gioco.»
Sbuffai, incapace di ribattere.
«Obbligo o verità, Max?»
«Verità.»
«C’è qualcuno di speciale nella tua vita, al momento?»
Trasalii. Non avevo proprio intenzione di rispondere, almeno non onestamente. «No, direi di no…»
«Bugiarda» mi smascherò subito «Te lo leggo in faccia che stai mentendo. Sputa il rospo.»
«Obbligo, allora» ribattei.
«Sarò buona» stabilì, alzandosi e barcollando leggermente verso il frigo, tirandone fuori altre quattro birre. Pensai che non ci fosse altro là dentro se non alcolici.
«Bevine due, per stare al pari con me» ordinò, cominciando a svuotare una delle bottiglie, per poi passare subito a quella seguente.
Soddisfai la richiesta. Nel giro di qualche momento percepii il mio mondo farsi meno stabile e leggermente vorticoso.
«Obbligo o verità?» mi sforzai di articolare senza invertire qualche lettera all’interno della frase.
«Verità» decise, accendendosi una sigaretta.
«Stai cercando di farmi ubriacare?»
Chloe aggrottò le sopracciglia, spiazzata dalla mia domanda.
Io tentai di fare la mia più convincente espressione seria.
«Va bene, mi hai scoperta» ridacchiò «Sta funzionando?»
«Per niente» risposi «Obbligo o verità?»
«Non imbrogliare, Max» contestò «Hai avuto la tua risposta.»
«E tu mi hai fatto una domanda» ribattei trionfale «Quindi è di nuovo il mio turno.»
Le labbra ancora umide di birra si incurvarono verso l’alto. «Bene, le regole sono regole… Verità.»
«Approvi il comportamento di Rachel e il suo abuso di droghe?»
La Price impallidì.
Attesi in silenzio.
«Obbligo» rettificò, mal celando il proprio turbamento. Nei suoi occhi potevo leggere quante ferite avesse esposto quella mia domanda.
«Niente più fumo fino a che sarò qui» dissi, costringendola a spegnere la seconda sigaretta che si era appena accesa.
Ubbidendo, spense il mozzicone, tenendo lo sguardo fisso su di me. «Obbligo o verità?» mi chiese.
«Verità.»
«Ti piaccio?»
Toccò a me impallidire quella volta, per poi arrossire violentemente, incapace di trovare una risposta sensata da dare.
«Sto aspettando» mi stuzzicò, avvicinandosi nuovamente, talmente tanto che le punte blu arrivavano a lambirmi la mandibola.
Se fossi stata nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, avrei sputato la parola “obbligo” senza rifletterci troppo, ma le Blue Moon già in circolo nel mio sangue servirono a spezzare la catena che teneva a freno i miei istinti.
La mia impulsività vinse.
Mi sporsi colmando i pochi centimetri che mi separavano da Chloe, portando le nostre labbra a combaciare.
Fu questione di un istante, poi mi tirai immediatamente indietro.
«Una risposta più che esaustiva» commentò, sorridendo.
Non riuscivo a comprendere come potesse restare tanto calma. Il mio cuore aveva iniziato a galoppare come un pazzo e minacciava di esplodermi nel petto.
Non potevo restare, sentivo un desiderio risvegliarsi in me e con l’inibizione dell’alcol avrei rischiato di combinare un bel guaio.
Mi alzai, indietreggiando senza smettere di fissare la punk, che manteneva stampato in faccia quel sorriso serafico. Afferrai la borsa che avevo appoggiato vicino alla porta, girai la maniglia e me ne andai senza dire una sola parola.
Scesi le scale reggendomi al corrimano, schiantandomi contro l’uscio del 2A mentre recuperavo le chiavi.
Ruzzolai all’interno e mi affrettai a chiudere la porta, sperando che nessuno mi vedesse incespicare in quel modo.
Mi trascinai fino al letto con estrema fatica, mentre la nebbia che avvolgeva ogni mio tentativo di pensare si faceva più fitta ed impenetrabile.
Sfilai il telefonino che avevo in tasca, notando solo in quel momento la data.
«Ma vaffanculo» imprecai, scagliando l’apparecchio sul materasso.
Pochi minuti dopo, mentre tentavo di seppellire la testa nel cuscino, udii bussare alla porta dell’alloggio. Poteva trattarsi del famoso idraulico, sebbene fosse abbastanza tardi, per cui mi alzai.
Strascinai i piedi fino all’entrata e notai un foglietto che era stato fatto passare sotto la porta.
Lo raccolsi, sapendo che sarebbe stato più saggio non farlo, e lo lessi, pur essendo consapevole che fosse la cosa più sbagliata da fare.
“Grazie per la serata. Miglior San Valentino di sempre.”
In basso a sinistra c’era una farfalla stilizzata insieme ad una B ed una P.
Un uragano di emozioni mi investì, sollevando nuove domande e nuovi dubbi. Sarei voluta tornare a quell’istante in cui avevo baciato Chloe, avrei voluto fermare il tempo, arrestarmi a quel minuscolo frangente perché, per un battito di ciglia, tutto mi era sembrato perfetto.

NdA: ben ritrovai, signori lettori, spero che il capitolo vi sia piaciuto e che la storia nel suo complesso stia risultando interessante. Come è giusto ricordare, ormai mancano solamente due capitoli, anche se l'ultimo sarà ben più lungo dei precedenti e varrebbe quasi la pena dividerlo in due, ma non credo che lo farò. In ogni caso, venerdì prossimo arriverà il quarto aggiornamento, per cui spero di ritrovarvi tra una settimana. Nel frattempo devo sciorinare come è giusto la mia sequela di ringraziamenti: a wislava per il suo aiuto con commenti e correzioni, a Camyglee e Hydro_Warner per le loro gentili recensioni, a tutti coloro che hanno aggiunto la storia tra le seguite/preferite/ricordate e un ultimo grazie anche a coloro che leggono in silenzio ma che comunque si sono appassionati a questa storia. Conclusa la mia routine, vi auguro una buona settimana e spero di ritrovarvi al prossimo capitolo, nel frattempo buone cose e buona lettura.

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Capitolo 4
*** Alliances Require Trust ***


IV: Alliances Require Trust | Le alleanze richiedono fiducia
 
L’indomani, quando mi alzai per andare al lavoro, la testa mi pulsava oltre ogni limite, avevo uno strano senso di nausea, non sapevo se causato dal non aver mangiato o dall’aver esagerato con la birra.
Il telefonino, scarico, giaceva senza vita accanto al mio viso. Non appena lo avessi acceso ci avrei trovato come minimo un centinaio di chiamate di Kate, ma non potevo affrontare una discussione con la Marsh in quello stato.
Rantolando, mi trascinai in bagno per tentare di svegliarmi con una doccia fredda, che non ebbe altro risultato se non quello di farmi sentire ancora peggio. Cercai qualcosa da indossare che non fosse troppo spiegazzato e poi uscii, più demoralizzata che mai.
Il viaggio in autobus mi rese ancora più di malumore, probabilmente ciò fu accentuato dalla pioggia battente che era riuscita ad infradiciarmi nel tragitto fino alla fermata nonostante l’ombrello.
Entrai nel palazzo sperando di riuscire a scivolare inosservata fino alla mia scrivania, dove poi mi sarei accasciata, pregando che qualche divinità decidesse di porre fine alle mie sofferenze.
«Ma guarda un po’ chi ha fatto baldoria fino a tardi!» mi accolse al sesto piano la voce trillante di Dana «Passato un buon San Valentino?»
«Per forza» si aggiunse Juliet «Quella ti sembra la faccia di qualcuno che ha dormito? Se la sarà spassata alla grande!»
Mugugnai una risposta che a nessuna delle due interessò realmente, dato che la loro attenzione era già stata calamitata dal nuovo outfit di una delle altre colleghe.
Arrivai alla mia sedia e ci sprofondai con un sospiro, appoggiando poi la testa vicino allo schermo già accesso del pc. Tirai fuori dalla borsa il cellulare e il cavo per metterlo in carica, pronta ad affrontare le conseguenze del mio eccesso di riposo.
Sei chiamate perse: quattro di Kate, una di Warren ed una di Daniel.
Liquidai i primi due con un messaggio, promettendo di spiegare più tardi le ragioni della mia mancata risposta, decisi, invece, di affrontare DaCosta faccia a faccia. Con una scusa, salii al decimo piano, facendomi poi indicare la sua postazione di lavoro.
«Max!» mi salutò «Che fine avevi fatto? Mi sono preoccupato.»
«Ho trascorso la giornata in archivio» gli spiegai «E ieri sera non mi sono accorta di avere il telefono scarico.»
Il giovane mi studiò con gli espressivi occhi scuri, sondando la verità delle mie parole. «Ma la storia non è tutta lì, vero?» mormorò.
Alzai lo sguardo al cielo, non sapendo che altro fare.
«È coinvolta la bella donna dai capelli blu?» domandò con fare cospiratorio «Oh, ti prego dimmi che hai passato la notte con lei!»
«Daniel!» lo richiamai, tirandogli un colpo al braccio «Ma ti sembrano cose da dire?»
«Se hai reagito così può esserci una sola spiegazione» gongolò ignorando il dolore «Ci ho preso in pieno.»
«No, non potresti essere più lontano dalla verità» sbuffai «Ho solo esagerato col bere.»
Mi scrutò scettico, inarcando il sopracciglio destro al di sopra della linea degli occhiali. «Tu non me la conti giusta, signorina…»
«E va bene» capitolai, sapendo che in un modo o nell’altro mi avrebbe costretta a cedere «Mi ha invitato da lei a bere qualche birra…»
«Lo sapevo!» esultò trionfante «Ho fatto lo stesso con Bruce e ha funzionato alla perfezione.»
Sorrisi nel vedere il suo viso illuminarsi nel semplice gesto di citare il futuro marito.
«E poi che è successo?» chiese «Voglio ogni dettaglio.»
«Non ti avevo preso per una simile pettegola, Dan» mormorai.
«Oh, Max, non farmi stare sulle spine! Se mi intrometto nella tua vita sentimentale è solo perché sono un tuo amico.»
Accolsi quelle parole con un nuovo sorriso. Benché lo conoscessi solamente da una settimana o poco più, mi ero molto affezionata a lui e non potevo nascondergli quanto avevo fatto, anzi, forse parlarne ad alta voce mi avrebbe aiutato a lasciarmi quell’evento alle spalle.
«Lo so, lo so» replicai «Sicuro di volerlo sapere?»
Lui annuì con un’enfasi tale che le lenti sobbalzarono leggermente, scivolandogli fin sulla punta del naso.
«Dopo aver bevuto un po’» raccontai «Mi ha sfidata ad “Obbligo o verità”, una cosa che solo un’adolescente sbronza avrebbe proposto, e mi sono vista costretta a stare al gioco. Dopo qualche scambio di battute, mi ha fatto la domanda da un milione di dollari…»
«“Ti piaccio?”»
Spalancai le palpebre, stupita. «Come lo sapevi?»
«È il trucco più vecchio del mondo!» ribattè, come se stesse spiegando la nozione ad un bambino «È un trabocchetto senza uscita: la vittima o è costretta a dire la verità, e fidati, si capisce lontano mille miglia nel caso menta, oppure è costretta a scegliere l’obbligo e lì si sfodera la carta del bacio.»
Ammutolita, compresi che in un modo o nell’altro la Price avrebbe ottenuto un mio bacio o una mia confessione.
«E quindi che hai risposto?» insistette, facendomi tornare con i piedi per terra.
«Ero brilla, resa audace dalla birra…» tentai pateticamente di giustificarmi «Era così vicina che non ho resistito. L’ho baciata.»
Pronunciare quelle parole mi tolse un peso dal cuore, permettendomi di condividere quel segreto con qualcuno, ma l’oppressione al petto tornò presto quando la consapevolezza mi scosse l’anima facendola vibrare con un rombo di tuono. Con quel bacio avevo compromesso ogni possibilità di farla tornare a collaborare con FRAME, avevo incrinato quella che sarebbe potuta essere un’amicizia e nulla di più, perché, per quanto odiassi ricordarlo a me stessa, c’era pur sempre Rachel.
«Che coraggio!» commentò il disegnatore «Posso dire che non me lo sarei aspettato da parte tua? Insomma, se lei ti fosse saltata addosso e tu avessi ceduto, lo avrei anche capito… Ma, Max, da ubriaca devi essere tutta un’altra persona! Devo assolutamente conoscere questo diverso lato di te» concluse ridacchiando.
Stavo per rispondergli, quando una mano sulla spalla mi fece sobbalzare.
«Taylor» salutò Daniel diretto alla persona dietro di me.
«Il signor Jefferson vorrebbe vederti, Max» mi disse la segretaria, facendo un cenno di buongiorno a DaCosta «Sembrava avesse fretta. Ho provato a cercarti alla tua scrivania, ma mi hanno detto che ti avrei trovata qui.»
Mi diedi della scema, ricordando a me stessa che ero pur sempre in prova per un lavoro molto ambito e non potevo permettermi di assentarmi per diversi minuti senza alcuna ragione. Probabilmente il capo aveva intenzione di darmi una bella strigliata o forse, addirittura, di dirmi che potevo tranquillamente prendere i miei averi e tornare a casa perché i miei servigi presso FRAME non erano più richiesti.
Chiesi alla biondina il permesso di radunare le mie cose, così dopo una rapidissima sosta al sesto piano, mogia mogia, camminai dietro alla Christensen, risalendo verso quattordicesimo piano e proseguendo poi verso l’ufficio del direttore.
Bussai alla porta e, dopo aver ottenuto il via libera, entrai.
«Max!» mi accolse Mark, con un sorriso a trentadue denti «Sei arrivata, finalmente.»
Ero sconcertata, non pensavo che la conversazione sarebbe iniziata con tale leggerezza.
«Ciao, Max.»
Sbarrai gli occhi.
Una testa blu comparve a lato dell’uomo, seguita naturalmente da un corpo che sfoggiava abiti scuri.
«Chloe…» mormorai incredula.
«Beth» mi corresse «Qui sono Beth.»
«Avevi detto che l’avresti riportata da noi» si congratulò l’ex-professore «Davvero un gran bel colpo, signorina Caulfield.»
«Ora che ci siamo tutti» riprese la parola la pittrice «Possiamo discutere i termini di questa collaborazione.»
«Molto bene, signorina Price» replicò Jefferson, invitandoci a prendere posto sul divano per discutere comodamente «Quali sono questi termini?»
«Primo» stabilì, fissando l’uomo con una freddezza quasi inquietante «Questa collaborazione non implica che tu ed io siamo tornati amici come ai vecchi tempi, per cui dovrai starmi fuori dai piedi.»
Il capo sembrò scocciato da quelle parole, ma non potè far altro che annuire per lasciarla proseguire.
«Secondo: sarà Max, lei solamente, ad occuparsi dell’articolo su di me. Selezionerà le opere, le fotograferà e scriverà il pezzo. Sono disposta a cooperare con lei soltanto, quindi non si transige.»
«Certamente» acconsentì Mark «Altro?»
«Terzo: le pagherai questo lavoro come fosse quello di uno qualsiasi dei tuoi editor, anzi, dovresti darle un bonus per essere riuscita a scovarmi.»
Rimasi molto colpita da quelle richieste, che erano chiaramente fatte nel mio interesse e non nel suo.
«Quarto: qualsiasi possibile acquirente interessato ai miei quadri dovrà rivolgersi alla sottoscritta, passando per il minor numero di intermediari. Non mi lascerò fottere come l’ultima volta.»
«Mi sembrano richieste…» sibilò il direttore «Ragionevoli» terminò con una nota acida.
«Sapevo che saremmo stati d’accordo» sorrise trionfale la ragazza, incrociando le braccia al petto.
Seduta accanto a lei, osservai la battaglia di sguardi proseguire sostenuta. Se l’accordo era stato formulato e teoricamente accettato a parole, i loro animi in guerra erano ben lontani dal posare le armi.
«Vogliamo sigillare questo accordo con una stretta di mano?» propose Jefferson, sostenendo le occhiate cariche di disprezzo dell’interlocutrice.
«Sono a posto così, grazie» ribattè lei dura «Nessuna ragione sarà mai troppo buona per farmi fare una cosa simile. Piuttosto, metti per iscritto quanto abbiamo stabilito e mettiamoci tutti una firma, tanto per essere sicuri.»
Quando il foglio fu pronto, Chloe lo ricontrollò diverse volte, come se stesse cercando una qualche fregatura inesistente, poi alla fine siglò con il suo solito simbolo ed io apposi una firma poco distante.
«Allora, qui abbiamo finito» stabilì la pittrice, afferrandomi il braccio, senza lasciarmi tempo di dire la mia «Noi due andiamo a cominciare il lavoro. Inutile dire che Max sarà molto presa, per cui potrebbe mancare qualche turno in ufficio, ma non sarà un problema, vero?»
Con un verso scocciato, Mark capitolò ancora una volta.
«Perfetto» trillò l’artista, rinsaldando la presa su di me «Ce ne andiamo. Arrivederci Mark, è stato un piacere rivederti» concluse con il tono più falso possibile.
«Lo stesso vale per me, Beth» replicò lui allo stesso modo «A presto, Max» aggiunse, facendomi un saluto con la mano.
Non ebbi modo di aprire bocca e venni trascinata fino all’ascensore, passando davanti alla scrivania di Taylor che mi lanciò uno sguardo preoccupato vedendomi andar via in quel modo.
«Hai qualcosa da prendere?» mi chiese Chloe una volta che fummo sole in ascensore.
Scossi la testa, pronta ad aggiungere che, però, avevo comunque dei compiti affidatimi da Victoria e non potevo volatilizzarmi senza una spiegazione.
Come intuendo i miei pensieri, lei mi fermò prima che potessi parlare. «Il grande capo si occuperà di informare gli altri del tuo nuovo lavoro» mi assicurò «Conosco Mark, dagli trenta secondi e tutto il palazzo saprà di me, del mio ritorno e della tua occasione d’oro. Alcuni dei tuoi colleghi potrebbero non prendere bene la tua nuova posizione, sappilo. Ho visto amici rivoltarsi contro amici per anche solo la remota possibilità di gestire uno scoop come questo.»
Sembrava avesse assunto una nuova, diversa personalità. Era sicura di sé, fiera e decisa, sembrava persino più alta mentre mi si stagliava di fronte, con il petto gonfio di orgoglio per la vittoria ottenuta contro Jefferson.
Il ding ci segnalò di essere arrivate al piano terra e la mano della punk mi si appoggiò alla schiena, spingendomi gentilmente fuori, prima nell’atrio e poi verso il diluvio che proseguiva ad infuriare.
Non erano neppure le dieci quando ci lasciammo alle spalle il complesso di FRAME, sgommando sotto la pioggia all’interno del malconcio pick-up.
«Questo è un rapimento, per caso?» trovai la forza di rompere il silenzio, dopo qualche minuto che eravamo in macchina.
L’autista si voltò per un secondo nella mia direzione, scoccandomi un’occhiata di fuoco, resa ancor più efficace da quelle sue espressive iridi celesti. «No, ma posso sempre farlo diventare tale. Tengo del nastro isolante nel cruscotto, nel caso decidessi di doverti imbavagliare e immobilizzare.»
Avrei voluto ridere, ma il tono con cui venne pronunciata quella finta minaccia sembrò inquietantemente serio.
«Cosa c’è? Il gatto ti ha mangiato la lingua?» domandò, notando l’assenza di una mia reazione.
In effetti, in quel momento, avrei preferito essere incapace di parlare, almeno il mio silenzio avrebbe avuto una valida giustificazione.
Chloe non insistette nel farmi parlare, tornò a concentrarsi sulla guida fino a che non arrivammo al parcheggio del nostro condominio.
Dopo aver arrestato il veicolo, mi invitò a seguirla, offrendomi la mano per aiutarmi a scendere. La studiai, in piedi davanti a me, incurante della pioggia che la stava infradiciando. Era sorridente, rilassata, genuinamente amichevole, dunque, rassicurata da quella facciata, le porsi la mano e lasciai che mi avvicinasse a sé, mentre aprivo l’ombrello per ripararci entrambe, seppur con scarsi risultati.
Appiccicate l’una all’altra, gocciolanti, raggiungemmo il portone.
Mentre eravamo alla ricerca delle chiavi ognuna nella propria borsa, l’uscio si aprì, rivelando il pescatore, vicino di casa mio e di Warren.
«Salve» lo salutai, come da buona educazione.
Lui grugnì una risposta, scansandoci per lanciarsi sotto l’acqua, verso la propria autovettura.
«Stronzo» commentò la Price a denti stretti «Mi ha fatto un sacco di storie per i maledetti bidoni del riciclaggio.»
Mi trovai nuovamente a corto di parole. Non sapevo per quale ragione mi facesse quell’effetto, ma sembravo incapace di mettere insieme una manciata di sillabe che avesse un senso, forse perché nella mia testa, ogni volta che mi fissava, si ripeteva come in un film la scena del bacio.
Mossa da istinto automatico, presi a salire le scale, mentre sentivo la presenza della pittrice alle mie spalle. Passai il pianerottolo del primo piano e non mi arrestai neanche al secondo, avevo capito che volesse parlarmi e lo avrebbe fatto solamente in casa propria.
Lasciai che mi sorpassasse per andare ad infilare le chiavi nella serratura, facendola scattare.
Entrai, pronta a togliermi le scarpe per evitare di lasciare impronte bagnate in giro, ma una simile accortezza sembrò non sfiorare minimamente il cervello della padrona di casa, i cui stivali iniziarono a lasciare grosse chiazze d’acqua in giro.
«Accomodati pure sul divano» esordì, andando a recuperare un pacchetto di sigarette abbandonato sul ripiano della cucina.
Dopo essermi tolta la giacca, che aveva assorbito la maggior parte della pioggia, ed averla sistemata su un appendiabiti poco lontano dall’entrata, mi sedetti sul sofà, ripiombando per un istante nel passato, rivedendo il viso di Chloe così vicino al mio, così invitante.
«Prima di parlare di affari» riprese, sprofondando al mio fianco «Vorrei spendere due parole su quanto accaduto ieri.»
Gelai sul posto, irrigidendomi come una statua. Se qualcuno avesse tentato di scalfirmi con uno scalpello, in quel momento, mi sarei frantumata in migliaia di schegge.
«Devo farti le mie scuse» mormorò con aria colpevole.
Rimasi ancor più spiazzata. Quella che doveva scusarsi, semmai, ero io.
«Ieri non ero in me» balbettò «Ero un po’ sbronza, mi sentivo piuttosto audace, però non avrei dovuto comunque baciarti… Spero che la mia avventatezza non rovini questo rapporto di lavoro.»
Spalancai gli occhi. Non era stata lei a baciare me, ma viceversa. La situazione mi sembrava paradossale.
«Non so dirti esattamente perché io lo abbia fatto» proseguì, levandosi il capello e passandosi una mano tra i capelli bagnati «Ma vorrei che mi perdonassi, prometto che non si ripeterà.»
Sbattei le palpebre, sconvolta. Quella conversazione aveva preso una piega più che inaspettata.
«Quindi, Max?» domandò «Mi perdoni?»
«Certo, naturalmente» risposi meccanicamente, senza riflettere veramente.
«Grazie» mormorò sorridendo «Significa molto per me.»
«Figurati» bisbigliai, cercando ancora di capire con quale intento mi avesse riportata lì.
«Ora, vorrei darti la possibilità di conoscermi meglio, come artista» riprese «Come Beth. Devi conoscere l’artista per comprenderne l’arte, no?»
Annuii, incapace, ancora una volta, di dare un senso a tutto ciò.
Mi raccontò brevemente della propria infanzia, della tranquilla vita famigliare che aveva condotto fino ai quattordici anni facendo impazzire sua madre con dispetti e marachelle.
«Tutto è cambiato dalla morte di papà, nel 2008» disse, lasciando che un tono malinconico allontanasse tutta la spensieratezza della più tenera età «Mamma ha iniziato a chiudersi in se stessa ed io ho fatto lo stesso e abbiamo finito per allontanarci. Lei ha poi trovato conforto in David Madsen, un uomo che ha conosciuto al diner e che ha finito per sposare, mentre io ho accantonato la pittura e ho iniziato a frequentare brutte compagnie… Con loro sono arrivate prima le sigarette, poi le birre e infine le droghe via via più pesanti.»
Le si leggeva in faccia che avesse avuto un passato tormentato e non le facesse piacere parlarne, ma si stava aprendo con me, forse perché in parte si sentiva in colpa, in parte dimostrare che si fidava di me tanto da affidarmi non solo la sua arte, ma anche i segreti dietro la sua vita.
«A diciassette anni precipitai in una spirale discendente, iniziai a farmi del male, ad avere pensieri suicidi…» sussurrò, abbassando lo sguardo «E sarei arrivata a togliermi la vita, se non avessi conosciuto Rachel.»
Al sentir pronunciare quel nome la mia schiena venne percorsa da un brivido freddo, come se la presenza della modella fosse stata evocata all’improvviso.
«L’ho incontrata al Two Whales, era venuta per fare colazione mentre io ero lì per scroccare un altro pasto gratis a mia madre. Mi ha vista sedere da sola e ha deciso di farmi compagnia, attaccando bottone con una scusa patetica… Siamo state unite da allora, prima come amiche, poi come coppia.»
«È una cosa molto dolce» commentai «Dovete essere davvero innamorate.»
Quella mia osservazione la portò a rialzare gli occhi, per puntarli verso di me. Mi parve che volesse perforarmi con quelle iridi di ghiaccio, come se l’avessi offesa in qualche modo. Dal poco che le avevo viste interagire non potevo realmente sapere quanto profondo fosse il loro legame, ma pensavo che la mia intuizione fosse accurata.
«È complicato.» Pronunciò quella frase come un bisbiglio, quasi lei stessa non lo volesse ammettere.
Restammo in silenzio qualche minuto, Chloe con la testa tra le mani, presa da chissà quale ragionamento, ed io intenta a studiarla con nascente preoccupazione per quel mutismo improvviso.
Mi alzai, poggiandole una mano sulla spalla. Lei sollevò il capo, permettendomi di notare i suoi occhi lucidi.
«Ti prendo una birra» dissi, dirigendomi verso il frigorifero. Aprii lo sportello, afferrai una delle numerose Blue Moon in fresco, che sembravano non mancare mai, artigliai l’apribottiglie e la stappai, porgendola poi all’artista.
«Grazie, Max» mormorò, prendendone un primo sorso «Vuoi che continui?»
«Mi farebbe piacere, ma solo se te la senti» risposi.
La punk annuì, portando nuovamente la bottiglia alla bocca. «Dopo che conobbi Rach, ripresi a dipingere, lasciando che qualche volta posasse come mia musa. Ritrovai una ragione per vivere, ma non bastò per sistemare tutti i casini in cui mi ero cacciata. Avevo problemi di soldi, in particolare con il mio spacciatore, Frank.»
Quel nome mi suonò familiare e mi ricordai dell’uomo con il cane che avevo incontrato la settimana passata.
«È stata Rachel a salvarmi, ancora una volta. Frequentando la Blackwell aveva conosciuto Jefferson e lui l’aveva presa in simpatia, così mi propose di incontrarlo per fargli vedere qualcuno dei miei lavori. Mark rimase molto colpito soprattutto dai miei ultimi quadri, quelli che ritraevano la mia nuova musa e, sicuro che il mio fosse un ottimo potenziale, mi prese sotto la propria ala. Mi fece consultare libri di arte, mi accompagnò a diverse mostre e mi presentò a molti galleristi ed artisti famosi, permettendomi di farmi un nome, fino a che nel 2015 non si iniziò a parlare di una mia possibile installazione. Nel frattempo Jefferson aveva cominciato a mettere da parte il capitale per FRAME e aveva già dato il via ai lavori per il palazzo e le prime bozze editoriali, ma non mi aspettavo che quel suo sogno avrebbe finito col degenerare nel mio peggiore incubo.»
Fece un’altra pausa, chiedendomi con lo sguardo di portarle un’altra birra. Mi tirai in piedi e tornai con due bottiglie: una per lei e una per me.
Incoraggiata dall’alcol, riprese a raccontare. «Mark mi promise che dalla vendita delle mie opere avrei ricavato un bel mucchio di soldi, che mi avrebbe permesso di lasciare Arcadia Bay una volta per tutte e dedicarmi al mio lavoro in una città più vitale, magari persino frequentare una vera scuola d’arte. Mi riempì di belle speranze e vane promesse, che mi parvero vere fino all’ultimo momento. La mia esposizione a San Francisco, inaugurata nel gennaio del 2016, servì per lanciare ufficialmente FRAME, attirando su di me l’attenzione della critica.»
A quel punto mi aspettai che crollasse sotto il peso di un fallimento epocale, per cui mi preparai a consolarla se necessario.
«Fu un successo strepitoso.»
Decisamente non le parole che mi sarei aspettata.
«Le mie tele andarono vendute quasi tutte per prezzi da capogiro e FRAME partì con il piede giusto, imponendosi fin da subito su tutte le altre riviste del settore.»
Non capivo dove volesse andare a parare con quel discorso.
«Pensai di avercela fatta, di essere riuscita a combinare qualcosa di buono…» sussurrò con tono nostalgico «Poi, in un istante, mi crollò tutto addosso.»
Ispirata da non so quale istinto, le afferrai la mano destra e gliela strinsi, facendo intrecciare le mie dita con quelle smaltate di blu.
«Scoprii che il mio conto in banca non si era riempito quanto mi era stato promesso, così affrontai Jefferson per chiedere spiegazioni. Feci irruzione nel suo appartamento, all’ultimo piano di quel palazzo maledetto, essendo riuscita ad ottenere un duplicato della chiave e il codice di sicurezza dalla segretaria.»
Temetti cosa potesse seguire quelle frasi.
«Lo trovai a letto con Rachel.»
Fu lapidaria, distaccata, quasi stesse descrivendo la scena di un brutto film che avrebbe voluto a tutti i costi dimenticare.
«Naturalmente persi le staffe ed iniziai a demolirgli il fottuto super attico lanciando in giro tutto ciò che mi capitasse a tiro. Fu Rach ad impedirmi di sfracellargli la faccia a pugni. Ovviamente, provavo un odio bruciante anche nei suoi confronti, ma lei era pur sempre il mio angelo, la ragazza sorridente che mi aveva risollevata dal fondo e avrei potuto perdonarle qualsiasi cosa, compreso il tradimento. Ciò che non potevo perdonare, però, era il fatto che Mark si fosse preso non solo la mia donna, ma anche i miei soldi e i miei diritti artistici. Scoprii, e con ciò intendo che glielo feci confessare con la forza, che lo stronzo mi aveva convinto a firmare una serie di carte tramite cui gli cedevo più della metà dei miei profitti e qualsiasi introito relativo alla notorietà ottenuta per mezzo di FRAME. Mi aveva fottuta alla grande e non potevo farci niente.»
Mi diedi della stupida per aver anche solo pensato di proporle di tornare da FRAME. Se avessi saputo tutto quel retroscena, non le avrei neppure permesso di farsi avanti per la collaborazione a cui avremmo dovuto lavorare.
«Quel giorno presi una decisione drastica: avrei lasciato Arcadia Bay e non sarei tornata indietro… Naturalmente, in seguito, ho dovuto riconsiderare quella decisione, ma ci arriverò con calma… Dopo la scenata nell’attico di Jefferson, inseguita da Rachel che mi scongiurava di perdonarla, tornai a casa e feci i bagagli in fretta e furia. Caricai i bagagli sul pick-up e dissi a Rach che me ne sarei andata, stava a lei decidere se venire con me o dirmi addio, inutile dire che scelse di seguirmi, soprattutto dopo aver sentito del piano di Mark per arricchirsi alle mie spalle. Partimmo insieme alla volta di Los Angeles, convinte che tutto si sarebbe sistemato: lei avrebbe finalmente potuto lanciare la propria carriera di modella ed io avrei continuato a vendere arte nel mio piccolo. Le prime settimane andarono bene, insomma, avevamo comunque una discreta somma da parte e potemmo permetterci di tenere un buon tenore di vita. I problemi arrivarono quando Rachel iniziò a ricevere una serie di rifiuti: era troppo bassa, troppo inesperta, troppo arrogante; ogni casting director aveva da dire la sua, minando la sua inattaccabile fiducia in se stessa. Dapprima cominciò a fumare una canna ogni tanto, poi passò ad inghiottire antidepressivi come caramelle. Non ci volle molto prima che sprofondasse nella stessa spirale da cui mi aveva salvata anni prima, ma io non fui in grado di aiutarla, anzi, mi feci risucchiare verso il fondo con lei. Bruciammo tutti i nostri risparmi in droghe sempre più pesanti, sempre più potenti, per staccarci dalla deludente realtà che ci stava lentamente uccidendo.»
Mi chiesi come potesse non piangere rivangando quei ricordi. Dietro la maschera di punk tosta ed irascibile si nascondeva una ragazza spezzata che non era mai riuscita a ricomporsi del tutto. Era il classico ritratto dell’artista tormentato che traeva ispirazione proprio dal dolore.
«Mi capitò un paio di volte di risvegliarmi in ospedale, attaccata a flebo e macchinari vari senza idea di cosa fosse successo, ma ciò nonostante non riuscivo a smettere. Rachel ed io eravamo interdipendenti, l’una dall’altra ed entrambe dalla droga. Tentammo con la riabilitazione, ma ogni volta che ne uscivamo, in qualche maniera, finivamo per ricascarci, eravamo quasi senza speranza… Se non fosse stato per Cory, avremmo fatto tutte e due una fine miserabile. Il nostro amico morì per overdose a metà del 2017 e fu allora che prendemmo la decisione di tentare seriamente di smettere. Io non toccai più eroina, pasticche varie e qualsiasi altra schifezza il nostro pusher fosse solito rifilarci, all’oggi mi concedo una canna nelle giornate nere, ma nulla di più…»
Sapevo che sarebbe arrivato a breve un “ma”.
«Ma Rach…» proseguì «Lei non ci riuscì. Decisi che fosse inutile restare ad L.A. dove eravamo costantemente circondate da tentazioni che si sarebbero potute rivelare fatali, così le proposi di tornare qui. All’inizio non ne fu entusiasta, tutt’altro, mi accusò di volerla portare via dal suo mondo proprio nel momento in cui iniziava ad emergere, ma io lo facevo per il suo bene. Tornammo qui ed affittammo questo buco di merda ad un buon prezzo su gentile concessione dei Prescott, visto che Nathan era stato nostro amico prima della fuga. Il resto della storia credo tu lo conosca.»
Anche se non lo aveva detto esplicitamente, era chiaro cosa fosse successo: lei aveva cercato di rimettere insieme i pezzi, tornando a dedicarsi alla pittura, mentre Rachel aveva continuato a tenere vivi i propri vizi senza rinunciare al sogno di modella.
«Puoi ricavarci qualcosa di buono per il tuo articolo?» mi domandò, finendo le ultime gocce di birra.
«Decisamente sì» risposi «Mi servirebbe solamente qualche informazione in più sull’evoluzione della tua arte durante questi cambiamenti, poi, ovviamente, citerò solo le parti salienti e lo farò nel massimo rispetto della tua persona.»
Sorrise, stringendo più forte la mano che le avevo offerto per conforto. «Allora, iniziamo a dare un’occhiata a queste vecchie croste e dimmi quale potremmo schiaffare sulla maledetta rivista di Jefferson.»
Mi mostrò alcune delle tele non esposte che teneva nel proprio safe space e mi raccontò le storie dietro alcune di quelle appese ai muri, lasciando che la mia giornata scorresse senza che quasi me ne accorgessi. Ad un certo punto Chloe si lasciò scappare che ci fossero altri quadri in un luogo che ancora non avevo visto, ma si affrettò a liquidare la questione con un borbottio incomprensibile. Quando ci stancammo di parlare di lavoro, ci mettemmo a chiacchierare del più e del meno, sgranocchiando patatine innaffiate con un altro po’ di Blue Moon e guardando qualche programma in tv, come avrebbero fatto due vecchie amiche. In quel frangente, per pareggiare un po’ le cose, le narrai dei miei anni a Seattle, il breve ritorno in città per il diploma alla Blackwell e poi la mia esperienza al college. La fiducia doveva essere bilaterale e mi sembrava il minimo condividere il mio passato come lei aveva fatto con me.
Ci tenemmo compagnia, il che risollevò decisamente il morale ad entrambe, che non era esattamente alle stelle dopo la conversazione sul passato della pittrice.
Verso le tre del pomeriggio decisi di scendere a casa, per cominciare a scrivere il pezzo per FRAME.
«Domani possiamo trovarci di nuovo per iniziare a fotografare i tuoi lavori?» le domandai, quando ormai ero sulla soglia dell’alloggio.
«Se non hai da lavorare, con molto piacere» ribattè, giocherellando con la sigaretta che le si stava consumando tra le dita.
«È sabato, non ho doveri d’ufficio nel weekend» le spiegai «Quindi sarò tutta tua.»
Mi resi conto di quanto ambigue potessero suonare quelle parole solo dopo che le ebbi pronunciate.
La Price arrossì, ma non si fece bloccare la voce dall’imbarazzo: «Perfetto, partner, ti aspetterò con impazienza.»
Sentendo la mia pelle prendere fuoco fino alla punta delle orecchie, lusingata all’idea che, sebbene separate solo da qualche metro e da un soffitto, lei sarebbe stata ad attendermi, mi fiondai giù per le scale.
Entrai nel 2A e per prima cosa mi andai a sciacquare il viso, come se dovessi ad ogni costo cancellare le tracce di quell’ultimo scambio di battute. L’acqua fredda servì a fare chiarezza nella mia testa, ricordandomi che avevo promesso a Warren e Kate che mi sarei fatta viva dopo il lavoro e, seppure fosse presto rispetto al mio solito orario, decisi di provare a sentirli.
Mi cambiai indossando il pigiama, intenzionata a non dover mettere più piede fuori casa durante tutto il resto della giornata, ed iniziai componendo il numero di Graham.
«Alla buonora, Caulfield!» mi rispose, come se non stesse aspettando altro che la mia chiamata «Cosa ti è capitato?»
«Ieri sono stata fuori casa durante il pomeriggio e la sera sono collassata» gli spiegai «Ma dimmi di te!» deviai il discorso «Come sta tua madre?»
«L’ho vista bene» replicò «Nonostante la frattura, si ostina a dire che non hanno motivo di tenerla sotto osservazione, quindi domani dovrebbero dimetterla e ciò per me vorrà dire passare il mio tempo ad assicurarmi che non si sforzi…»
«Sei proprio un bravo figliolo» commentai.
«Puoi dirlo forte! Dovrebbero farmi santo! Ho passato le ultime due ore ad aiutarla a fare un giornaletto di parole crociate. Se non mi avessi dato una scusa valida per distrarmi, mi sarebbe esploso il cervello.»
«Sei ancora in ospedale, quindi?»
«Sì» ribattè «Resto ancora un’oretta, per lasciare a papà il tempo di chiudere il negozio ed arrivare qui prima della fine delle visite.»
«Hai già un’idea di quando rientrerai ad Arcadia Bay?» chiesi, sprofondando sempre più nel divano su cui mi ero sdraiata.
«Mia zia dovrebbe tornare tra cinque giorni» rifletté «Ma mi fermerò almeno un giorno in più per assicurarmi che se la cavi bene anche senza di me… Insomma, tra una settimana potremo tornare a guardare la tv insieme.»
«Molto bene» sorrisi, premendo una serie di tasti del telecomando.
«Ora dimmi del lavoro: cos’hai combinato nelle ultime quarantotto ore?»
Non sapevo esattamente cosa raccontargli, ma non potevo evitare di spiegargli la storia della mia collaborazione con Chloe, per cui mi decisi a dirgli che avevo trovato l’artista da presentare e avevo già preso accordi con Jefferson. Non reagì in maniera particolare nel sentire che si trattava della nostra vicina di casa, mi raccomandò solamente di fare la brava e di non lavorare troppo.
Dopo qualche altro minuto di chiacchiere, ci congedammo con la promessa di risentirci l’indomani.
Sbadigliai, tentata dall’idea di concedermi un po’ di sonno, ma poi ricordai a me stessa di avere ancora una persona da chiamare e poi avrei dovuto tenere fede alle mie parole e dunque iniziare a lavorare al pezzo.
«Katie? Ci sei?» domandai nell’apparecchio, sentendo un rumore di sottofondo.
«Ciao, Max» udii poco dopo «Scusa, ma sono al supermercato, il segnale è pessimo.»
«Non ti preoccupare» replicai prontamente «Possiamo sentirci dopo.»
«Ti richiamo» concluse, prima di interrompere la connessione.
Visto che non avevo voglia di alzarmi, mi lasciai prendere dalla pigrizia e mi ritrovai a guardare la maratona di un banale programma di cucina, fatto più di insulti che non di cibo e fornelli. Ogni tanto allungavo l’orecchio, come se potessi sentire la Price combattere anche lei la solitudine con la compagnia del televisore.
Quando si fece sera, aspettando ancora notizie della Marsh, pensai, per distrarmi ulteriormente, di tornare al piano superiore, ma alla fine decisi di rimanere dov’ero.
Come per premiare la mia perseveranza, il telefono squillò.
«Ehi, Max» mi salutò Kate dall’altra parte «Sei ancora viva?»
«Dovrei essere io a farti questa domanda!»  sbottai «Che fine avevi fatto?»
«Mentre ero alle casse ho incontrato un ragazzo del mio gruppo di preghiera e abbiamo passato un po’ tempo insieme, niente di che…»
«Certo, come no, “niente di che”» cantilenai «Mi nascondi qualcosa, Katie?»
«Io?» ridacchiò «Non lo farei mai!»
«Ti caverò la verità a forza» scherzai «Anche dovessi venire fino in Montana a piedi.»
«Ma la misteriosa punk non sentirebbe la tua mancanza?» mi prese in contropiede.
La risposta mi morì in gola.
Dal mio silenzio, la Marsh intuì che qualcosa bollisse in pentola. «Uh! È successo qualcosa, lo sapevo!» gongolò.
«No, niente di ciò che credi» frenai il suo entusiasmo «Abbiamo passato un po’ di tempo insieme, tutto qui.»
«A San Valentino?» mormorò con tono cospiratorio «Ieri eri con lei, vero?»
Arrossii e fui lieta che la mia amica non fosse lì per vederlo. «Beh, ero con lei, sì» ammisi, negarlo non sarebbe servito a nulla, anzi, avrei dovuto svelare subito le mie carte «Abbiamo bevuto qualche birra e giocato a Truth or Dare» le raccontai «E… C’è stato un bacio.»
Un verso acuto partì dall’altra parte della linea telefonica, un misto tra un grido di gioia e uno squittio eccitato. «Lo sapevo! Ci avrei scommesso la coda pelosa di Alice!»
«Non mi hai lasciato finire» brontolai «Abbiamo deciso di comune accordo di lasciarci alle spalle la faccenda… Adesso collaboriamo solo per lavoro.»
«Oh, Max, devo proprio venire di persona a cacciarti a forza un po’ di sale in zucca? Perché non potete provare con qualcosa di più?»
«Lei ha già una ragazza» le ricordai «E comunque non voglio nulla di più, mi va bene così come stanno le cose.»
«Bugiarda» disse «Sai che mentire è peccato.»
Sbuffai. «Quand’è che vieni a trovarmi?» chiesi, cambiando argomento.
«Le vacanze di primavera sono ancora lontane» ribattè «Ma potrei prendermi un paio di giorni di permesso tra qualche settimana.»
«E allora scendi dai monti e vieni a prendere un po’ di sole in spiaggia!»
«Ma se ci saranno sì e no dieci gradi!» rise «Vuoi che mi prenda una polmonite?»
«Oh no!» esclamai «Hai scoperto il mio diabolico piano per liberarmi di te.»
«Molto spiritosa, Caulfield» mormorò «Frequentare quella punk sta tirando fuori il peggio di te.»
«Adesso basta parlare di Chloe o ti tirerò fuori ogni informazione riguardo il misterioso ragazzo del gruppo di preghiera.»
«Va bene, tregua» accettò Kate «Vuoi sentire che cosa hanno combinato oggi i miei bambini?»
«Certo.»
Lasciai che mi raccontasse della propria giornata, degli ennesimi litigi tra i suoi studenti e di qualche dramma dei suoi colleghi. C’era sempre qualcosa di nuovo in quella piccola scuola.
Quando ci salutammo era ora di cena, così mi alzai dal divano e per combattere il senso di fame recuperai un barattolo di gelato dal freezer. Non mi preoccupai di prendere una coppetta in cui metterlo, intenzionata a mangiarlo direttamente a cucchiaiate giganti dal contenitore. Non era il pasto più salutare che potessi fare, ma era ciò di cui avevo bisogno.
Il giorno seguente, a metà mattina, mi presentai davanti alla porta della Price e fin oltre mezzogiorno andammo avanti a fare foto per l’articolo. Erano passate settimane dall’ultima volta che avevo realizzato uno scatto. Da quando ero tornata ad Arcadia Bay mi ero sentita poco ispirata, quasi intimorita all’idea di tornare a dedicarmi a quella passione che non era mai riuscita a darmi le soddisfazioni che avrei voluto. Ma grazie alla presenza di Chloe era cambiato tutto: la sua fiamma interiore, che le ardeva negli occhi, mi aveva ridonato la confidenza che mi serviva, facendomi divertire nello svolgere il lavoro, rendendolo un vero e proprio piacere; in più, la giovane artista era di ottima compagnia, il che mi invogliava ancor più a trascorrere del tempo con lei.
Anche la giornata seguente la trascorsi insieme alla pittrice, raccogliendo qualche altra informazione e continuando con la serie di fotografie. Più tempo trascorrevo accanto a lei, più mi rendevo conto di esserne affascinata. Chloe era una donna molto particolare: un momento prima poteva essere tranquilla e giocherellona, ma bastava un nonnulla per farla scattare e farle tirare fuori zanne ed artigli e poi, qualche istante dopo, diventava civettuola e maliziosa. Ogni aspetto della sua personalità mi calamitava e, nonostante cercassi di non lasciarmi incantare troppo, era difficile ignorare i battiti del mio cuore che acceleravano ogni volta che lei mi sfiorava.
Il lunedì ripresi a fare i turni in ufficio, decisa comunque a proseguire con il mio “stage”, se così potevo definirlo. Jefferson mi aveva inviato una mail informandomi che avrebbe provveduto a farmi percepire un salario minimo durante il tempo che ci separava dal numero di aprile, garantendomi una piccola rendita e per ciò dovevo ringraziare la Price e la sua determinazione.
Il giorni iniziarono a scorrere tranquilli, diventando settimane. Tra me e la vicina dai capelli blu si era creato uno strano equilibrio rinsaldato dalla reciproca fiducia e complicità che non venne minimamente turbato dal ritorno di Warren e, poi, da quello di Rachel. L’artista ed io continuavamo a passare molto tempo insieme. Ero talmente assorbita da quella nuova conoscenza che quasi non mi accorsi del momento in cui la bacinella sparì dal centro del bagno perché l’idraulico era finalmente venuto a riparare la perdita.
La mia vita sembrava aver trovato una stabilità che mai mi sarei aspettata di sperimentare, mi ero convinta che nulla sarebbe potuto cambiare e avrei vissuto in quello stato di quiete perenne.
Ovviamente scoprii presto di essere in errore.
Venerdì 8 marzo iniziò come un giorno qualsiasi: mi svegliai presto per avere tempo di farmi una rapida doccia e prepararmi il pranzo, salutai Graham da poco sveglio, presi l’auto e mi recai al lavoro.
In ufficio avevo preso l’abitudine di fare da tramite tra gli editor e il reparto artistico, in particolare Daniel con cui avevo sviluppato un ottimo rapporto, e mi trovavo spesso a fare su e giù con l’ascensore, cogliendo ogni buona occasione per fare quattro chiacchiere con i miei colleghi. Quando non ero presa da fare il galoppino, mi trovavo alla scrivania di Dana o Juliet per revisionare i loro lavori, oppure ero al pc a ritagliare, incollare e riscrivere tutto il materiale per il mio pezzo, che sarebbe dovuto essere pronto in meno di due settimane, ma di cui non riuscivo ancora ad essere soddisfatta.
Anche durante quella giornata lavorativa, come quelle venute prima, non accadde nulla di rilevante. Alle cinque, seguendo la fiumana sbuffante per la settimana appena conclusa, tornai alla mia autovettura, dirigendomi poi verso casa.
Avevo preso l’abitudine di passare dalla Price direttamente dopo l’orario di ufficio, per tenerla aggiornata sui miei progressi dell’articolo e per chiacchierare un po’ e quel giorno feci lo stesso.
Arrivai davanti alla porta del 3A, bussai ed aspettai che qualcuno mi venisse ad aprire.
Quando la porta si aprì notai la faccia scocciata di Chloe che sembrava pronta a sbattermi l’uscio in faccia senza tanti complimenti.
«Ah, Max, sei tu» esordì, sorpresa «Pensavo fosse qualche altro festaiolo del cazzo.»
Sbirciai oltre le sue spalle. Percepii un rumore di sottofondo a cui non avevo fatto minimamente caso: c’era musica molto ritmata, come da discoteca, che sovrastava il parlottare di diversi presenti, giovani uomini e donne intenti a divertirsi con alcolici, fumo e chissà che altro.
Una creatura trotterellante arrivò a verificare chi avesse interrotto il divertimento.
«Ciao, Pompidou» salutai la bestiola, mantenendo comunque una certa distanza di sicurezza.
Dopo avermi dato un’annusata sommaria, il cane tornò zampettando tranquillo ai piedi del proprio padrone, che naturalmente non poteva mancare a quel genere di evento.
Frank, Rachel ed un altro paio di persone erano assiepati attorno al tavolino e si passavano una specie di tavoletta a cui, a turno, si avvicinavano con il viso, inspirando profondamente.
«Sei capitata in un brutto momento» mi invitò ad entrare la padrona di casa, guardandosi attorno apprensiva, come per assicurarsi che non vedessi qualcosa che avrebbe potuto turbarmi «Rach ha invitato un po’ di gente per festeggiare l’ultimo contratto che il suo agente le ha procurato.»
I miei occhi dardeggiarono a destra e sinistra, registrando quanto stava avvenendo introno a me. I presenti sembravano tutti talmente fatti da non essersi accorti della mia presenza.
«Quelli sono Trevor, Justin, Evan» iniziò a farmi le presentazioni a distanza, indicando gli indesiderati ospiti «Quelli invece sono Logan, Courtney e Sarah.»
«Un mucchio di amici per un appartamento piccolo come questo» commentai.
«Lo so» sbuffò la pittrice, infilandosi le mani nelle tasche dei jeans «Allora, com’è andata oggi nella prigione di FRAME?»
Provai a raccontarle della mia giornata priva di particolari eventi, ma fummo interrotte a più riprese dai festaioli che, in preda ad un’euforia giustificata dall’alcol e le droghe, si sforzavano in ogni modo per fare più rumore possibile.
«Che cazzo!» imprecò Chloe, allontanandosi improvvisamente da me per raggiungere la propria ragazza «Rach, io e Max stiamo cercando di parlare! Spiega a questi idioti che non si può fare tutto questo bordello.»
La modella alzò la testa e fissò l’artista con sguardo vacuo, bofonchiando una serie per me incomprensibile di parole.
«Ma vaffanculo» ringhiò la Price tornando nella mia direzione.
«Vieni» disse, afferrandomi per un polso e trascinandomi verso il suo atelier.
Venni sballottata all’interno della camera e, prima che potessi rendermene conto, mi ritrovai in mezzo alle tele, mentre la porta sbatteva, chiudendo lontano da noi il caos del resto dell’alloggio.
«Tutto bene?» mi venne istintivo domandare, vedendo che la ragazza dai capelli blu era ancora tesa dal breve scambio di battute avuto poco prima con la compagna.
La luce del tramonto, proveniente dalla finestra alle mie spalle, illuminò il viso furente della pittrice. Rachel doveva averla fatta davvero incazzare.
Senza darmi una risposta, spostando le iridi da un punto indefinito al mio viso, Chloe iniziò ad avvicinarsi, la sua espressione adirata ancora stampata sulla faccia.
Per un momento ebbi paura ed indietreggiai, come se volessi darle spazio per calmarsi, ma lei avanzò, riducendo sempre più la distanza tra di noi.
Arrivai con le spalle al muro, urtando qualche cornice e una tavolozza, che emise uno strano scricchiolio quando minacciai di spezzarla col piede.
I pozzi blu di fronte al mio volto si fecero sempre più vicini.
«Chloe, che cosa…?» chiesi, non riuscendo, però, a finire di pronunciare la frase.
La mano destra della Price si stampò contro la finestra, situata immediatamente accanto al mio braccio sinistro. Il corpo tatuato e avvolto in abiti scuri mi aveva bloccata contro la parete e l’arto teso mi aveva tagliato l’unica via di fuga. Non che io, in realtà, volessi scappare. Tutt’altro.
«Io non credo sia una buona idea…» mormorai, sentendo un nodo stringersi alla bocca dello stomaco.
L’artista ignorò le mie parole, portandosi ogni secondo sempre più dolorosamente vicina.
«Dovresti dare retta al buon senso…» sussurrai con le sue labbra ad un soffio dalle mie.
«Al diavolo il buon senso! Ho aspettato anche troppo» replicò.
Il suo respiro, lievemente accelerato, come il mio, si infrangeva contro la mia pelle, solleticandomi, facendomi rizzare i capelli sulla nuca, come se mi stesse trasmettendo un senso di agitazione, eccitazione e pericolo.
«Chloe, pensaci bene…» tentai un’ultima volta di dissuaderla, ma quando notai il luccichio nei suoi occhi, lo stesso che lei doveva vedere nei miei, mi arresi.
La mano destra della giovane punk scivolò lungo la parete fino ad arrivare alla mia collottola, portando i nostri volti ad avvicinarsi, mentre con l’altra mi cinse gentilmente il fianco facendo sì che il suo corpo si scontrasse con il mio.
Dopo quelli che mi parvero secoli, momenti dilatati all’infinito durante i quali le mie sensazioni si amplificarono per permettermi di cogliere ogni particolare, finalmente le nostre labbra si incontrarono.
Per  un istante, dalla mia mente scomparve ogni altro pensiero che non fosse Chloe e per la prima volta dopo molto tempo mi sentii incredibilmente felice.
 
NdA: rieccomi, signore e signori, con il nuovo capitolo di questa storia, che ricordo essere il penultimo, settimana prossima, infatti, pubblicherò l'ultimo aggiornamento che giusto per farvelo sapere sarà piuttosto lunghetto, circa il doppio di quello di oggi... Ma non posso aggiungere altro, devo lasciare un minimo di aura di mistero. Ora, la mia cara parte dei ringraziamenti: a wislava per il suo lavoro di beta sempre preciso e puntuale, a Camyglee e Hydro_Warner per le loro recensioni, a coloro che hanno aggiunto la storia tra le preferite/ricordate/seguite e naturalmente un ringraziamento anche a chi legge in silenzio, perchè un grazie è dovuto, se vi state sorbendo tutta questa roba. Bene, spero di cuore di ritrovarvi fra sette giorni per la conclusione, nel frattempo buona lettura e buone cose.

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Capitolo 5
*** Alas Remains Truth ***


V: Alas Remains Truth | Ahimè rimane la verità
 
La consapevolezza piombò su di me come il colpo di frusta a seguito di una brusca frenata. Fu come se, dopo un singolo secondo di perfetta beatitudine, la realtà dei fatti mi avesse colpita con una martellata in testa, facendo rimbombare ogni cosa all’interno della mia scatola cranica, scuotendomi fino ai piedi.
Con estremo dispiacere, portai le mani verso le spalle di Chloe e la allontanai.
«Non posso» dissi con voce grave, per farle intendere quanto seria fosse la questione.
La luce nei suoi occhi ebbe un fremito e poi scomparve. Di propria iniziativa, la pittrice fece qualche passo indietro con un’espressione sconvolta sul viso. «Io… Merda… Non volevo, mi dispiace… Non so cosa mi abbia preso…» balbettò, gesticolando come se quell’azione aiutasse ad enfatizzare il concetto.
Senza lasciarle modo di parlare oltre, sgattaiolai verso la porta e me ne andai. Ignorai il gruppo ancora intento a fare baldoria, dirigendomi alla svelta verso la mia unica via di fuga.
«Vai di fretta?» mi bloccò una voce, proprio quando ormai credevo di essere salva.
Strinsi con forza la mano che avevo appena poggiato sulla maniglia, poi mollai la presa e mi voltai, stampandomi un falso sorriso sulle labbra. «Sì, Rachel, ho un paio di commissioni da fare prima che sia troppo tardi» mentii, sperando che decidesse di non trattenermi oltre.
I gonfi occhi arrossati della modella corsero lungo la mia figura. Ero inquieta, come se ad un semplice sguardo lei fosse in grado di scoprire quanto era avvenuto appena qualche minuto prima, a distanza di una parete.
«Buona giornata, allora» biascicò, passandomi affianco ed aprendo la porta per me.
Senza farmelo ripetere due volte, mi fiondai lungo le scale e mi rintanai in casa.
Tentai di ignorare il più possibile la miriade di messaggi che mi arrivarono dal numero della Price, dovendomi fare molta forza per non cedere e tornare sui miei passi. Non aveva senso negare a me stessa la verità: provavo qualcosa per la punk, ma lei era già in una relazione, per quanto potesse essere complicata, in più dovevamo lavorare insieme, quindi non c’era spazio per una tresca.
Provai a mettermi d’impegno per scrivere, ma lasciai perdere dopo tre minuti, quando mi resi conto che non stavo facendo altro che aprire e chiudere alcuni selfie che Chloe si era fatta usando la mia fotocamera. Aveva fatto le facce più stupide e buffe del proprio repertorio dicendomi ogni volta che avrebbe voluto quella come apertura dell’articolo, al posto di una posa seria di presentazione come di solito era riservata agli artisti.
Nei suoi occhi quel guizzo malandrino si poteva percepire anche attraverso l’obiettivo, il che mi distraeva ulteriormente, impedendomi di muovere il progetto avanti anche di un solo centimetro.
Sconfitta, mi abbandonai sul materasso, sperando che decidesse di inglobarmi per annullare la mia miserabile condizione.
«Tutto bene, Mad Max?» sentii Warren domandarmi da oltre la soglia chiusa.
Rimasi in silenzio, incapace di mentirgli e dire che andava tutto bene.
«Posso entrare?»
«Accomodati» ribattei sprofondando ancora di più nel mio letto.
«È capitato qualcosa?» chiese entrando «Un problema al lavoro?»
«No, da FRAME va tutto bene» replicai.
«È per via dell’articolo?»
«In un certo senso…»
Lui inclinò la testa, cercando di capire cosa intendessi. «Hai litigato con Chloe?»
Aggrottai le sopracciglia, domandandomi come avesse fatto a capire che il problema ruotasse intorno alla pittrice.
«Di solito quando scendi dal 3A hai sempre una faccia contenta, ma oggi…» mi spiegò, avvicinandosi «C’è qualcosa che non va. Perché sei stata al piano di sopra, giusto?»
Annuii.
«Devono star facendo una festa, visto il rumore che sento» proseguì «Ti hanno cacciata via perché rovinavi l’atmosfera, guastafeste?»
Feci una smorfia divertita.
«Beh, sappi che noi possiamo fare un party molto migliore del loro in qualsiasi momento» affermò «Basta un tuo cenno e chiamerò mezza città per fare casino.»
«Molto gentile da parte tua, Warren» mormorai.
«Allora non hai tanta voglia di parlarne, eh?» constatò, incrociando le braccia al petto «Fa niente, io sarò di là se avrai bisogno di me.»
Lo ringraziai, ma invece di restare a crogiolarmi nella mia malinconia scelsi di seguirlo, andando a punzecchiarlo mentre si impegnava a correggere alcune stringhe di codice. Dopo una mezz’ora si arrese e decise di guardare un po’ di televisione con me.
Guardammo puntate di diverse serie tv, dibattendo sull’utilità e la credibilità dei vari personaggi, tornando i due nerd che si erano conosciuti alla Blackwell Academy sei anni prima.
Giunte le sette e mezza, il mio cellulare squillò e mi toccò l’ardua impresa di affrontare Kate. La mia amica capì subito, dal mio tono, che fosse accaduto qualcosa e non mi azzardai a negare perché sapevo che avrebbe fiutato la mia menzogna a miglia di distanza.
Quando le raccontai quanto capitato nel safe space percepii lo sforzo nella sua voce per non urlarmi nei timpani quanto fossi stata stupida a non tentare un confronto. Andò avanti quasi un’ora a ripetermi che come prima cosa l’indomani avrei dovuto parlare con Chloe per chiarire. Era talmente presa da quella storia che le passò totalmente di mente di raccontarmi della sua giornata a scuola e dei suoi marmocchi litigiosi.
Dopo che le ebbi promesso almeno una decina di volte che non avrei ignorato la situazione, ma avrei agito per trovare una soluzione, Katie disse di dover andare perché lei e i suoi amici della chiesa si sarebbero riuniti per la prova generale del loro spettacolo primaverile.
Trascorsi la serata con Warren, continuando a godermi il clima di complicità ritrovata, chiudendo ogni altra riflessione in un cassetto inaccessibile del mio cervello.
Fu solo quando andai a dormire che la Price potè tornare ad insinuarsi nello spazio tra i miei pensieri, procurandomi una notte di sonno agitato.
Sabato e domenica trascorsero tra una tazza di caffè e l’altra, mentre mi impegnavo per sistemare i pochi passaggi dell’articolo che ero riuscita a far filare.
Lunedì avvisai Jefferson che non sarei andata in ufficio per potermi concentrare meglio sul pezzo, dato che mancava una sola settimana al termine stabilito.
Dopo essermi spremuta le meningi per tutta la mattina su quel brano che si rifiutava di lasciarsi scrivere, mi presi una pausa per mangiare e riposare un po’. Dormii più di quanto avrei dovuto, risvegliandomi quando ormai era tardo pomeriggio.
Notai, appiccicato allo schermo del televisore, un bigliettino del mio coinquilino, che mi avvisava che avrebbe passato la serata fuori con un gruppo di suoi ex compagni del college dato che erano di passaggio nelle vicinanze.
L’idea di restare sola mi avvilì. Ragionai su cosa potesse distrarmi abbastanza da non farmi notare quanto fossi indietro con il lavoro e trovai la risposta in camera mia, in una vecchia scatola su cui ormai si era accumulato un sottile strato di polvere.
Soffiai, sollevando una nube di microscopici detriti che mi causò una serie di starnuti, poi aprii il coperchio.
All’interno, avvolta in un panno delicato, c’era la mia vecchia Polaroid, la prima macchina fotografica da me mai posseduta, che i miei genitori mi avevano regalato molti anni addietro. Nonostante da qualche tempo fossi passata ad un dispositivo digitale di ultima generazione per i miei rari lavori freelance, non ero riuscita a liberarmi di quel “ferro vecchio”, come lo definiva mio padre. Insieme all’apparecchio, nella scatola, c’erano molte fotografie, principalmente dei miei anni a Seattle, ma tra loro si trovava anche qualche scatto fatto ad Arcadia Bay durante la mia permanenza alla Blackwell.
Scorsi tra quell’album scomposto di ricordi, giocando a ritrovare gli elementi che all’epoca mi avevano portato a premere il pulsante dello scatto. Sorrisi tra me e me, riscoprendo tutti quei dettagli che, nel corso del tempo, erano andati sfocandosi nella mia memoria.
Ero intenta a rimirare la fotografia di un tramonto che immortalava il faro svettante sulla baia, quando udii il suono di un bussare insistente alla porta.
Mi strascinai fino all’entrata, cercando di infilare la pantofola sinistra che si ostinava a scivolare via dal mio controllo.
«Un momento!» gridai, sentendo il rumore proseguire imperterrito.
Girai le chiavi nella serratura e schiusi l’uscio. Con il pungo levato ancora in alto, pronto ad abbattersi nuovamente sul legno, Chloe abbozzò un timido sorriso.
«Ciao» mormorai.
«Ehi» replicò, portando la mano verso il basso e cacciandosela in tasca «Cominciavo a pensare che non fossi in casa.»
Sollevai lievemente le spalle. «Invece sono qui» risposi «Stavo riguardando qualche vecchia fotografia.»
«Bello…» commentò.
«Vuoi entrare a vederle?» pronunciai, prima ancora che il mio cervello potesse realizzare quel pensiero.
«Ahm… Ok» balbettò la Price, seguendomi.
Con la coda dell’occhio la vidi studiare l’ambiente, dopotutto non era mai stata nell’appartamento e probabilmente si era domandata in che stato fosse il luogo in cui vivevo.
La invitai a varcare la soglia di camera mia, accogliendola nel mio caos naturale, accentuato dagli scatti che avevo sparpagliato sul pavimento.
«Bella bestia!» esultò individuando la Polaroid e rigirandosela tra le mani «Mio padre aveva una roba simile quando ero piccola.»
Feci cenno di aver compreso ed iniziai a raccogliere le istantanee per raggrupparle in piccole pile.
Notai che la punk ne aveva individuata una e la stava fissando intensamente, quasi volesse perforarla con lo sguardo. «Bel soggetto» constatò, mostrandomi cosa l’avesse catturata tanto.
Era lo scatto del faro al tramonto.
«Somiglia molto ad uno dei miei lavori» proseguì, porgendomi la foto.
Inarcai le sopracciglia, confusa. «Non me lo hai mai mostrato.»
Chloe mutò rapidamente espressione, passando dall’essere rilassata ad essere tesa come una corda di violino. «Giusto, giusto» borbottò tra sé e sé.
«Vorresti farmelo vedere?» domandai.
Lei deglutì rumorosamente. «In realtà ero passata solo per assicurarmi che il tuo articolo fosse a buon punto…»
«Oh» sussurrai con un certo disappunto «In realtà sono proprio messa male da quel punto di vista… Magari» tentai di convincerla con tono delicato «Vedere qualche tua altra tela potrebbe darmi la spinta giusta per migliorare il pezzo.»
La pittrice tornò a sorridere, ma mi era chiaro che fosse combattuta, anche se non riuscivo a comprenderne il motivo. «Non sono convinta che…» Le sue parole si persero nell’aria.
«Se è per quello accaduto l’altro giorno, non temere» tentai di annullare l’imbarazzo «Concordiamo che non sia successo nulla.»
Lei annuì, rilassandosi. «Allora, vestiti» disse, indicando in modo vago il pigiama che avevo ancora indosso «Dobbiamo fare un viaggetto.»
La feci accomodare in salotto e mi cambiai rapidamente, cacciando in borsa anche la macchina fotografica e lo scatto che aveva originato la questione.
«Dove si va?» domandai, quando, ormai fuori dal condominio, in sella al pickup, imboccammo una strada che conduceva fuori città.
«Ti fidi di me?» mormorò con fare cospiratorio.
Sorrisi, intrigata, godendomi il paesaggio dei boschi che si incontravano appena fuori dai limiti urbani.
Ci inoltrammo lungo una via sterrata, lievemente in salita, che non riuscivo a comprendere dove conducesse.
Giunte ad uno spiazzo circondato da alcune rudimentali transenne di legno, la punk mi fece scendere, guidandomi poi su un sentiero un po’ sconnesso, che si inerpicava sull’altura di fronte a noi.
Il tappeto di erba incolta e aghi di pino sprigionava un forte sentore di natura, facendomi ricordare quelle rare volte in cui ero stata in campeggio, totalmente immersa nello splendore delle foreste dell’Oregon. Diversi scoiattoli facevano scricchiolare i rami degli alberi, lanciandosi dall’uno all’altro sopra le nostre teste. Era quasi un peccato che stessimo turbando quella quiete a cui gli esseri umani sembravano non dover prendere parte.
Così presa dall’ammirare quanto intorno a me, non mi accorsi di un sasso sporgente e lo colpii in pieno con il piede destro, inciampando.
«Attenta!» gridò Chloe, allungando la mano giusto in tempo per soccorrermi.
Afferrai l’aiuto all’ultimo istante, lasciando che le braccia della pittrice mi accogliessero, per farmi ritrovare stabilità.
Avvolta in quell’abbraccio tornai a sentire tutta le serie di emozioni che avevo tanto faticato ad allontanare. Non avevo la forza di staccarmi dal corpo della Price, perché, anche se il contatto era stato del tutto dettato dall’urgenza di non farmi schiantare, era bastato a farmi sentire al sicuro.
Con un colpo di finta tosse, l’artista mi fece staccare. «Qualche danno?»
Scossi la testa, bisbigliando: «Grazie.»
Riprendemmo l’ascesa e a poco a poco qualcosa nella mia mente si smosse, ricordandomi di aver già visto quello scenario.
«Ci siamo quasi» mi comunicò dopo una decina di minuti dall’inizio della nostra salita.
Come evocato da quelle parole, comparve alla mia vista il promontorio del faro.
Il sole, che aveva già iniziato ad avvicinarsi alla linea dell’orizzonte per tuffarsi nell’oceano, riluceva contornando le cime degli ultimi alberi e facendo brillare il bianco accecante della lighthouse.
«Wowser!» esclamai, tornando ad utilizzare un’espressione che avevo accantonato da anni ormai.
«Puoi dirlo forte» gongolò la ragazza dai capelli blu, osservando il panorama con il mio stesso trasporto «Forza, seguimi.»
Arrivammo ai piedi del faro e ci arrestammo davanti alla porta chiusa.
Aggrottai la fronte. La lighthouse era chiusa al pubblico da molti anni ormai. Un tempo il guardiano che vi abitava lasciava che i bambini potessero correre su e giù lungo la rampa di scale interna, ma da quando la struttura era stata automatizzata e l’uomo congedato, nessuno aveva potuto mettervi piede.
«Cosa ci facciamo qui?» chiesi, alzando la testa verso la ringhiera che sovrastava le nostre teste.
«Dammi un momento» disse, cacciandosi per l’ennesima volta le mani nelle tasche.
Cominciavo a meravigliarmi di cosa potesse estrarvi: una volta erano le chiavi del pickup, un’altra un pacchetto di sigarette, un’altra ancora un piccolo foglio spiegazzato con una matita. Sembravano quasi non avere fondo.
«Ecco!» esultò, portando alla luce una chiave color ottone, che si andò ad inserire con un lieve tintinnio metallico nella serratura.
«Prego» mormorò, inchinandosi galantemente per lasciarmi passare.
Varcata quella soglia non potei trattenere un verso di sorpresa.
Lo spiazzo centrale, che ricordavo essere occupato da un vecchio letto sgangherato, un fornello da campo e poco altro, era stato trasformato in un vero e proprio appartamento, con tanto di frigorifero, televisore e comodo divano in pelle. Una sezione a parte, divisa da tre pareti di legno, doveva ospitare un piccolo bagno, probabilmente con doccia. Un paio di morbidi tappeti servivano a coprire il vecchio pavimento in cemento rovinato. Ma la cosa più straordinaria era la quantità di schizzi, abbozzi e mezzi progetti abbandonati in giro; se la stanza del 3A mi era sembrata un piccolo atelier, quello era la sua versione amplificata di cento volte.
«Sei la prima persona, dopo gli addetti ai lavori, che ci mette piede» mi informò, mostrandomi lo spazio passo per passo «Quando siamo tornate ad Arcadia Bay, circa un anno fa» raccontò «Ho deciso di investire tutti i miei risparmi in questo piccolo progetto. Avevo ottenuto la concessione di rimodernare questo posto agli inizi della mia carriera artistica, il vecchio guardiano mi aveva venduto il posto per una miseria e mi ero ripromessa di metterlo in ordine per venirci a vivere. Mia madre mi ha fatto avere un po’ di soldi ricavati dalla vendita della nostra vecchia casa ed io ho deciso di tenerli lontani da Rach… Beh, per evitare che sparissero in droga e festini, così li ho investiti qui.»
La ascoltavo ammaliata, da lei, dal luminoso sorriso che le marcava il viso, dalle meraviglie artistiche che si presentavano ai miei occhi.
«Ti ricordi il quadro sulla copertina di Frame?» mi domandò.
Annuii, riportando alla mente la tela in questione.
«L’ho dipinta dalla balconata al piano di sopra» spiegò, indicando la rampa di scale che si inerpicava lungo la parete del faro «Vuoi vedere?»
La seguii come in trance, incapace di convincermi che quello non fosse solamente un sogno.
Salimmo diversi gradini ed arrivammo al secondo piano, dove era stata approntata una rustica camera da letto, popolata, però, perlopiù da cavalletti e tavolozze. Tubetti, barattoli, pennelli di ogni tipo e genere erano disseminati qua e là, dando l’impressione che fosse appena passato un uragano.
«Su di là» proseguì, indicandomi una serie di pioli di ferro che sporgevano dal muro «Si arriva al vano della lanterna vera e propria, ma non ci vado mai. Di qua, invece» continuò, prendendomi per mano «Si arriva al punto migliore.»
Mi spinse oltre la portafinestra che si spalancava verso la baia, garantendo una visuale perfetta sull’intera città.
Percorremmo quel breve camminamento un paio di volte, girando in tondo affinché io potessi cogliere i singoli dettagli da ogni angolazione possibile.
Alla fine, mi arrestai, afferrando la barriera di ferro gelido con le mani, lasciando che il mio sguardo si perdesse oltre la linea dell’orizzonte, tra le onde placide del Pacifico. La brezza salmastra e frizzante mi solleticò la testa, come se invisibili dita di vento stessero giocando con le ciocche dei miei capelli.
«È bellissimo» mormorai rapita. L’istinto di una volta tornò a premere dentro di me, portandomi a scattare una foto a quello spettacolo magnifico.
«Lo so» ribattè la Price, alle mie spalle «Ho sempre voluto condividere questo posto, la sua magia, con qualcuno…» proseguì.
Mi voltai, per tentare di capire se il suo viso lasciasse trasparire quel qualcosa che le sue parole stavano con buona probabilità insinuando.
Sembrò pentirsi immediatamente di quanto detto e si mise a balbettare frasi incomprensibili.
Notai il suo sorriso, che da genuino si era fatto nostalgico, quasi amaro. Le sue iridi azzurre, splendide come il mare che si infrangeva in volute di spuma a decine di metri sotto di noi, cercavano di comunicarmi quanto le parole stavano tacendo.
«Ti prego» la supplicai «Dimmi quello che pensi… Sono tua amica, dimostrami che ti fidi di me quanto io mi fido di te. Dopotutto ho lasciato che mi portassi fin quassù, potresti spingermi di sotto e nessuno sospetterebbe mai nulla» conclusi, ridacchiando per alleggerire l’atmosfera.
Gli angoli della bocca della pittrice si incurvarono all’insù. «Quando ti innamorerai» mormorò, mal celando una nota di disillusione «Il prescelto sarà un uomo davvero fortunato, il bastardo più fortunato di tutti.»
Spalancai gli occhi. Quel discorso non aveva senso.
Con un sospiro, Chloe si voltò, tornando verso la portafinestra.
E fu allora che mi colpì: il problema che lei aveva con me non aveva nulla a che vedere con Rachel, come pensavo. Probabilmente tra le due c’era una specie di tacito accordo che le faceva rimanere insieme più per lealtà e convenienza che non per vero amore, quindi i miei presupposti erano totalmente errati. La Price aveva continuato a scusarsi e ad agire in modo scostante perché credeva non fossi interessata a lei. In sua difesa, l’unica storia che avessi mai avuto era stata con un ragazzo e lei lo sapeva, per cui si era probabilmente convinta di non avere alcuna possibilità. Si era, quasi certamente, messa in testa che tutti i miei patetici tentativi di flirt, portati avanti con pochissima efficacia nel corso delle settimane passate, fossero frutto della propria immaginazione.
L’avevo ferita oltre l’immaginabile e la cosa assurda era che non l’avevo fatto davvero.
Illuminata da quella improvvisa rilevazione, le corsi dietro.
«Chloe, aspetta!» gridai a pieni polmoni, raggiungendola dentro la lighthouse, chiudendo la porta finestra per allontanare il freddo della sera che si stava facendo largo tra i raggi del sole morente.
La punk mi osservò con curiosità, non aspettandosi di essere inseguita in quel modo.
«Sei tu» dissi con decisione.
«Cosa?» chiese, levandosi il cappello e lanciandolo lontano per potersi passare una mano nella chioma colorata.
«Sei tu» ribadii, portandomi vicina a lei, lasciando che fossero le mie dita a districare i nodi celesti.
La pittrice continuò a studiarmi, rimanendo in silenzio.
«Sei tu il bastardo più fortunato di tutti.»
Non appena le ultime sillabe lasciarono le mie labbra, l’espressione di Chloe venne stravolta, sorprendendomi per quanto quel volto potesse apparire bello nello specchiare la felicità.
Le mie parole riempivano ancora lo spazio quando iniziammo a baciarci. Non erano più baci ispirati dall’audacia dell’alcol o dall’impulsività, erano dettati da qualcosa di più forte, di più profondo, da ciò che ci aveva legate in così breve tempo.
Ero incapace di separarmi da lei, mi sentivo calamitata con ogni parte del corpo, quasi volessi starle talmente vicino fino a fonderci in un’unica entità.
Quando la mancanza d’aria iniziò a farsi sentire, i nostri volti si allontanarono di qualche centimetro, per permetterci di respirare.
«Wowser» ripetei per la seconda volta quel giorno.
«Hella awesome» ribattè la pittrice «Possiamo riprendere?» continuò con tono languido.
Mi fiondai nuovamente sulle sue labbra, decisa a non separarmene mai più.
Senza che ne fossi pienamente cosciente, prendemmo a muoverci verso il letto che giaceva sepolto sotto fogli e dipinti. Con un colpo di coperta ai limiti dell’inumano, la Price sollevò il tutto originando un turbine d’arte che ci avvolse, per poi scemare, ricadendo ai nostri piedi come in un balletto di foglie autunnali.
Il mio polpaccio andò a sbattere contro il bordo del giaciglio, strappandomi un piccolo verso di dolore. Probabilmente non mi sarebbe rimasto neppure il livido, ma era bastato a distrarmi da Chloe.
Lei mi osservò chiedendo tacitamente se stessi bene.
Per farle intendere che nulla di grave fosse successo, la attirai con più forza verso di me, sbilanciandomi poi per cadere insieme sul materasso.
Ridacchiammo tra un bacio e l’altro.
Stava accadendo tutto in fretta, tutto con una naturalezza che non avevo mai provato, era un’esperienza quasi magica.
Le mani della punk, sempre più audaci e sicure, scivolarono lungo il bordo della mia t-shirt, afferrandolo. Con un movimento fluido, mi sfilò la maglietta ed iniziò a posare le labbra dapprima sul mio collo per poi discendere verso il petto, mentre armeggiava per farmi scivolare via i jeans.
Nel turbinio di emozioni, trovai la lucidità di pensare che non fosse corretto che fossi solamente io ad essere mezza nuda, così portai le mani verso la sua giacca e gliela levai, dedicandomi subito dopo alla canotta leggerissima. Come facesse a non morire assiderata per colpa del clima rigido dell’inverno dell’Oregon era per me un colossale mistero.
Una specie di ringhio le salì dalla gola, quando le mie dita incespicarono cercando di sbottonarle i pantaloni. Le dita affusolate smaltate di azzurro giunsero in mio soccorso e mi aiutarono a compiere l’ardua impresa.
Liberate dell’impaccio degli abiti, tornammo a concentrarci l’una sull’altra, iniziando ad esplorare i rispettivi corpi, fino ad allora celati.
Percorsi con i polpastrelli l’intricato disegno del tatuaggio sul braccio, mentre i denti della Price, simili a quelli di un assetato vampiro, affondavano nella pelle del mio collo, dando origine ad una serie di brividi.
Con fare esperto mi slacciò il reggiseno e poco dopo mi aiutò a fare lo stesso con il suo.
Ormai ero completamente in balia di lei e delle sue mani, che sembravano in grado di plasmare una nuova me, come uno scultore avrebbe trasformato un mucchio di argilla in una maestosa statua. Le farfalle blu che mi balenavano davanti agli occhi mi fecero pensare che anche io, in quel momento, stessi subendo una trasformazione, abbandonando la mia crisalide per spiegare le ali e tutto ciò era merito di Chloe.
Le sue dita e la sua lingua presero a tracciare sentieri invisibili, rune magiche di un incantesimo che avrebbe legato le nostre anime per sempre. Stava pitturando con il suo tocco un nuovo dipinto: il nostro amore e il nostro desiderio.
Respirando sempre più profondamente, incuneando le spalle nel materasso, vidi la testa celeste e rosa portarsi sempre più in basso. La pittrice soffiò con fare giocoso sul mio ombelico, mentre le sue mani afferravano l’elastico dei miei slip.
Prima di andare oltre mi pose solamente una domanda: «Credi nell’amore eterno?»
Non seppi cosa dire, per cui tacqui, lasciando che fossero i nostri reciproci gesti a parlare, ma ero certa che, se fosse esistita una risposta, l’avremmo trovata insieme.
Chloe quella notte mi aprì le porte di un mondo nuovo, mi svelò arcani segreti su me stessa che mai altrimenti avrei indagato per scoprire, mi donò se stessa e molto di più, risvegliando in me una voglia di vivere che anni di fallimenti artistici e delusioni di ogni genere avevano attenuato.
Mi destai quando la luce del mattino arrivò a solleticarmi le palpebre.
Tentai di stiracchiarmi, sentendo che i miei arti, piacevolmente intorpiditi, avevano bisogno di sgranchirsi, ma realizzai presto di essere intrappolata in una morsa senza via di scampo. Il braccio sinistro della Price mi teneva ancorata a lei, mentre la sua testa era incastrata contro la mia nuca, facendo sì che il suo respiro caldo si infrangesse contro la mia pelle nuda. Le nostre gambe erano intrecciate, per intrappolare e trattenere il calore. Fuori dalla nostra piccola bolla di pace delimitata dalla coperta attorcigliata tra di noi, il mondo era vittima del gelo dell’aurora.
Rimasi ferma per un po’, godendomi il semplice contatto tra i nostri corpi, ma poi, comprendendo che la situazione non sarebbe cambiata entro breve, iniziai ad essere impaziente.
Con movimenti minimi e il più impercettibile possibili, sgusciai fuori da quella presa, fino a che non riuscii a sedermi sul bordo del letto, rabbrividendo per il forte sbalzo termico.
Mi voltai ed ammirai il corpo nudo della punk che riposava tranquilla lì accanto. La sua pelle di alabastro, punteggiata di piccoli nei rotondi, arricchita dall’inchiostro dei tatuaggi, ornata dalle ciocche blu che fluttuavano per via dei suoi respiri, era perfetta in ogni sua parte, dalla più esposta alla più segreta.
Con un sorriso, realizzai di avere finalmente sotto gli occhi la più bella opera d’arte al mondo.
Attenta a non fare rumore, mi alzai e mi rivestii, recuperando i miei vari indumenti, sparsi intorno, finiti a mescolarsi con i quadri abbandonati poco lontano.
Trovai il dipinto di cui mi aveva parlato il giorno precedente, quello del faro al tramonto. Era una tela all’apparenza finita, dato che portava già la firma, apposta in basso a sinistra in colore azzurro. Al centro dell’opera c’era l’aura brillante che il sole al tramonto proiettava intorno a sé, facendo risaltare le cime dei pini e tingendo di sfumature aranciate la lighthouse. Lo ritenni un lavoro splendido, degno di aprire l’articolo per FRAME.
«Ho cominciato a dipingerlo la sera che ti ho conosciuta.»
Mi girai, vedendo Chloe sveglia, puntellata sul gomito destro, in procinto di alzarsi.
«Dopo che sei andata via, ho aspettato che Rachel rientrasse e le ho detto di volermi schiarire le idee, così sono venuta qui, ho preso una tela bianca e ho iniziato ad imbrattarla di colore.»
La pittrice si levò in piedi, mi posò un bacio sulla bocca per poi recuperare a propria volta gli abiti, stirando i propri lunghi arti come avrebbe fatto una gatta dopo una lunga dormita.
«Mi pare sia venuto piuttosto bene» concluse, cercando nella tasca dei jeans una sigaretta da accendersi.
«Più che bene» concordai «Pensavo di usarlo come quadro di apertura.»
Lei levò lo sguardo, sogghignò, poi scosse il capo. «No, ho in mente un altro dipinto che meriterebbe quel posto.»
«Quale?» chiesi.
L’artista si picchiettò una tempia con un dito e sorrise. «È qua dentro e dopo colazione gli faremo vedere la luce.»
Scendemmo al piano inferiore e mi sorpresi di scoprire che il frigorifero, oltre, naturalmente, una scorta a vita di birra, conteneva effettivamente cibo commestibile.
«Non saranno buoni quanto quelli che facevano i miei genitori» disse, iniziando a versare in una padella un impasto beige, pronto da cuocere sul fornetto a gas «Ma almeno sono commestibili.»
Dopo qualche minuto, mi trovai ad osservare, perfettamente impilati in un piatto di carta, sei deliziosi pancake, accompagnati da due bicchieri di latte.
Chloe senza tante storie versò sopra le frittelle mezzo litro di sciroppo d’acero, poi mi porse una forchetta per favorire. Facemmo colazione in quel modo, mangiando dallo stesso piatto, combattendoci con le posate fino all’ultima briciola. Fu un momento divertente, giocoso e sereno, tutto ciò che mi sembrava fosse mancato nella mia vita fino a quel punto.
Spendemmo ancora un po’ di tempo al piano terra ed io ne approfittai per usare il bagno, rinfrescarmi ed indagare ancora su qualche altro disegno abbandonato a se stesso, poi giunse il momento di tornare di sopra.
Risalii le scale, incalzata da Chloe che mi pizzicava i fianchi.
Tornate nelle vicinanze del letto, mi sembrò di vivere un déjà vu, trovandomi nuovamente con la schiena contro il materasso, mentre le labbra della Price, sempre più avide, andavano mappando ogni centimetro libero del mio corpo.
Ad un tratto, senza preavviso, levò la testa. «Adesso basta giocare» annunciò in tono serio, lasciandomi più che confusa «Prima il dovere, poi il piacere.»
Mi sollevai leggermente per osservarla prendere un cavalletto e una tela bianca.
«Cosa stai facendo?» le domandai.
«Non è ovvio?» ribattè con un sorriso «Devo lavorare.»
Inclinai il capo, nel tentativo di capire.
«Voglio farti un ritratto» spiegò, rigirandosi tra le dita diverse matite per decidere quale utilizzare per tracciare le prime linee guida.
Arrossii ed afferrai un lembo di coperta per seppellirmici. «No e poi no» mugugnai da dietro la stoffa «Non voglio.»
Il mio morbido scudo mi venne strappato di dosso poco dopo.
«Andiamo, Max, sarà una cosa rapida, te lo prometto» giurò, portandosi la mano destra al petto «Giusto il tempo di approntare il disegno preparatorio, poi sarai libera.»
Borbottai il mio dissenso, ma fui costretta a cedere quando i suoi occhi azzurri presero a fissarmi con insistenza, scrutandomi l’anima, disintegrando le mie difese.
Mi abbandonai sul materasso con un sospiro. «Come vuoi che mi metta?»
«Mettiti la coperta a mo’ di drappo» mi ordinò «E sdraiati su un fianco… Quello sinistro direi… E guarda verso di me.»
Feci quando mi veniva richiesto.
«Perfetto» commentò, spostando ripetutamente lo sguardo da me alla tela e viceversa.
Era talmente assorta nel suo compito da apparire come una persona totalmente differente, un corpo animato da pura ispirazione artistica. Quella di fronte a me era Beth Price.
Non resistetti al desiderio di immortalare quell’istante, così, sperando che il mio gesto non mandasse a monte il suo lavoro di preparazione, mi allungai oltre il bordo del letto, raggiungendo con la punta delle dita la tracolla della mia borsa. Attirai a me la sacca, facendola strisciare sul pavimento chiazzato dei più vari colori, probabilmente condannandola a morte, e ne estrassi la Polaroid, pronta a mettere a fuoco Chloe per rubarle una foto.
Ero sul punto di realizzare lo scatto, quando giunse alle mie orecchie un imperativo perentorio: «Non ti muovere di un solo millimetro.»
Avevo l’apparecchio ormai in posizione davanti al viso, già vicino all’occhio per inquadrare la figura della pittrice.
«Verrà ancora meglio di come me l’ero immaginato» gongolò, andando avanti a muovere la mano sinistra, armata di matita, come fosse impazzita «Sarà il più bel dipinto dei miei ultimi anni.»
Dopo qualche minuto, essendosi assicurata che tutto fosse pronto per dare vita al quadro effettivo, la Price mi ridonò la libertà, concedendomi finalmente di scattare la fotografia.
«Sei bellissima quando lavori» mormorai «Sei così presa da ciò che fai che quasi mi fai dimenticare chi tu sia in realtà.»
La ragazza dai capelli blu mi sorrise, divertita. «E chi sarei in realtà?»
«Una punk tatuata dal pessimo carattere, con un ottimo gusto in fatto di donne.»
Scoppiammo a ridere entrambe.
«Sull’ultima parte non posso proprio darti torto» concordò, togliendomi dalle mani la Polaroid, appoggiandola per terra «Grazie per ieri sera, è stato il miglior compleanno della mia vita e tu il miglior regalo.»
Mi allontanai dalle sue labbra che erano già pronte a tornare a riprendere quanto interrotto per la stesura del disegno. «Compleanno?» chiesi perplessa.
«Sì, ieri era il mio compleanno» replicò, come si trattasse di un nonnulla «Non è un fatto poi così straordinario, è solo una convenzione sociale… Cosa ti cambia sapere che sono idealmente più vecchia di un anno?»
«Ma ieri era il tuo compleanno» ribadii «E non me lo hai detto!? Ti avrei offerto la cena, o almeno comprato un dolcetto per festeggiare! Ora mi sento una persona orribile… Non mi è neppure passato per la testa…» Andai avanti a blaterare frasi senza senso mentre cercavo di mettere insieme qualche indizio che mi fosse sfuggito, per esempio un avviso dai social network o un appunto sul calendario e fu allora che mi ricordai di un’altra cosa: era martedì, un giorno di lavoro.
«Oh, merda» imprecai «Dov’è il mio cellulare?»
Afferrai nuovamente la borsa e trovai il telefonino, che naturalmente aveva la batteria morta. Quando ero uscita la sera prima non avevo previsto ciò che sarebbe successo e non avevo portato con me il caricabatterie, in più non avevo avvisato nessuno dei miei piani. Per quanto ne sapevano i miei amici potevo essere stata rapita.
«Posso usare il tuo?» domandai a Chloe, sventolando l’inutile aggeggio.
«Certo, non c’è problema» rispose, tirando fuori uno smartphone dalla tasca dei pantaloni.
Per prima cosa mi sforzai di ricordare il numero di Jefferson, per avvisarlo che mi sarei presa un’altra giornata libera. Anche se avrei avuto, materialmente, il tempo di tornare a casa per cambiarmi e poi uscire per arrivare in ufficio in orario, avevo pur sempre una scadenza in pericoloso avvicinamento e avrei dovuto concentrarmi sull’articolo. Visto che la Price era riuscita a garantirmi una certa flessibilità con i doveri di ufficio, tanto valeva approfittarne.
«Beth?» gracchiò scocciata la voce dall’altra parte dell’apparecchio «Che cazzo vuoi?»
«Mr. Jefferson» dissi «Sono Maxine Caulfield, sto usando il cellulare di Beth Price.»
Il tono dell’uomo cambiò immediatamente, diventando più gentile. «Max! A cosa devo l’onore?»
«Avrei bisogno di chiederle un’altra giornata di permesso» mormorai, sperando di suonare convincente «Sto lavorando al pezzo con la signorina Price e visto che il termine per consegnare il tutto è tra meno di una settimana…»
«Ho capito, va bene» mi interruppe senza tante storie «Non ti preoccupare, buon lavoro» chiuse, senza darmi tempo di aggiungere altro.
«Allora, Jeffer-son-of-a-bitch ti ha lasciato a guinzaglio sciolto anche per oggi?» chiese la pittrice, facendo ciondolare un pennello tra l’indice e il pollice.
Annuii, poi mi affrettai a digitare il recapito di Warren.
«Pronto?»
«Warren, sono Max» risposi, riconoscendo la voce del mio coinquilino.
«Mad Max! Dovei sei? Di chi è il cellulare? Stai tornando a casa?» iniziò a tempestarmi di domande, mettendomi in agitazione.
«Calmati, ti prego» dissi, pur sapendo che sarebbe stato poco efficace «Dammi il tempo di spiegare.»
«Dimmi dove sei, vengo a prenderti» sovrastò la mia voce.
«Non ce n’è bisogno» lo rassicurai «Lascia che ti spieghi…»
«Oh!» esclamò come fosse stato colpito di punto in bianco da una rivelazione «Sei a casa di qualcuno? Ci hai passato la notte?»
Non pensavo fosse il caso di fornirgli tutti i dettagli di quanto accaduto, ma si meritava comunque una risposta. «Sì, Warren, sono fuori da ieri sera in compagnia di un’amica, il telefonino è suo.»
«Ah, capisco» borbottò un po’ incerto «Allora quando torni?»
«Ancora non lo so» replicai «Ma prometto di rientrare per cena.»
Lui sospirò nella cornetta. «Non fare stupidate, mi raccomando. Ti aspetto e se per le sette non sei qui chiamo il 911, sappilo.»
«Certo, mamma» lo schernii «Grazie per guardarmi sempre le spalle» mormorai dopo «Ti voglio bene.»
«Anche io, Max» ribattè «Ora torna pure dalla tua amica, io ho da lavorare.»
Non commentai le sue parole e lo salutai. Digitai rapidamente un nuovo numero.
«Se mi esaurisci il credito dovrai muovere quel bel sederino per andare a comprarmi una ricarica» mi ammonì la Price, che nel frattempo aveva spalmato sulla tavolozza diversi colori per cominciare il quadro.
Le feci la linguaccia e aspettai che dall’altra parte qualcuno mi rispondesse.
«Chi è?» domandò una voce apprensiva.
«Ehi, Katie» salutai «Sono Max.»
«Max? Di chi è questo numero? Perché ieri eri irraggiungibile? Non lo sai che sono a scuola? Ho dovuto lasciare da soli i bambini e adesso si staranno facendo la guerra!»
Non era proprio la reazione che mi sarei aspettata, ma dopotutto non aveva tutti i torti, era pur sempre un giorno scolastico e lei doveva guadagnarsi da vivere.
«Scusa, non ci ho minimamente pensato» tentai di giustificarmi «Nelle ultime ore ho avuto la testa completamente tra le nuvole.»
«L’ho notato… Si direbbe quasi che tu sia stata troppo presa da qualcosa, o da qualcuno, per prestare attenzione al resto del mondo» rispose.
«Ti racconterò tutto, promesso» sussurrai.
«Non sarà necessario, ho già capito tutto» disse in tono disteso «Sono molto contenta per voi.»
Deglutii, colpita da quanto quella giovane donna fosse in grado di leggermi come un libro aperto.
«Sarà meglio che torni dai bimbi, prima che Jennifer ed Allison si mettano nuovamente le mani addosso» proseguì «A più tardi, Max.»
«Va bene, a più tardi, Katie.»
Riagganciai e mi rilassai, abbandonandomi nuovamente sul materasso.
«Finito?» domandò l’artista.
«Sì» confermai «Grazie» aggiunsi, porgendole il telefono.
Lei mi fece cenno di lasciarlo per terra, poi, con la mano sinistra, portò il pennello che stringeva tra le dita vicino al mio viso e mi pitturò la punta del naso. «Direi che come colore per la tua carnagione ci sono andata piuttosto vicina» contemplò, poi intinse nuovamente lo strumento nel colore, mescolando diverse tinture e tornando ancora una volta dipingere la mia faccia invece della tela. «Così va persino meglio» gongolò.
«Chloe…» brontolai, tentando di ripulirmi «Ma ti sembra il caso?»
«Dai, Max, è divertente» ridacchiò «Almeno per me.»
«Ah, sì?»
Non le diedi tempo di comprendere quanto stava accadendo. Mi lanciai verso la tavolozza e dopo aver intinto il palmo nel colore, le accarezzai la guancia, lasciando al mio passaggio un alone arcobaleno.
«Oh, Caulfield, così ti metterai nei guai…» soffiò, concedendomi un sorriso malandrino.
Iniziò una guerra senza quartiere a colpi di ditate e pennellate. In breve la stanza fu invasa di colori e i nostri vestiti impregnati delle più svariate tinture. Ci rincorrevamo come due bambine, ridendo, sporcandoci a vicenda, facendo attenzione ad evitare di rovinare i dipinti sparsi in giro.
Dopo un quarto d’ora speso a giocare, implorai una tregua.
«Mammoletta» mi prese in giro la Price, benché fosse chiaro che anche lei non sarebbe stata in grado di andare avanti a lungo.
«Dobbiamo assolutamente darci una lavata» constatai, passandomi una mano tra i capelli, impiastricciati di colori ad olio.
«Giù c’è un box doccia, nel bagno.»
«Sì, l’ho notato» replicai.
«Credi che riusciremmo a starci in due?» domandò.
Mi avvicinai per tirarle uno scappellotto. «Sei terribile» commentai, iniziando a dirigermi verso il piano inferiore «Dato che sono tua ospite mi concederai l’onore di lavarmi per prima.»
«Certamente» concordò, affrettandosi ad aggiungere: «Non mi opporrei mai al tuo volere, mi piacciono le ragazze autoritarie.»
«Scema» sbuffai, proseguendo nella discesa.
«Gli asciugamani li trovi nell’armadietto sotto il lavandino!» mi gridò la padrona di casa «E non toccare la mia spugna!»
Mi avviai verso il bagno e mi lavai abbastanza in fretta, raschiandomi fino alle ossa con la fantomatica spugna da cui dovevo tenere lontane le mani. Quando giudicai di aver nuovamente assunto un aspetto presentabile, meno simile ad un dipinto ambulante, sgusciai fuori dal box e mi avvolsi in un telo bianco. Mi rimirai nello specchio rotondo situato sopra il lavabo e notai il sorriso che non sarei riuscita a cancellarmi neppure a forza, non dopo la notte e la mattina passate. Quello significava essere felici.
Uscii nella sala centrale, trovandola vuota.
«Chloe?» urlai, per farmi sentire «Ho finito, è il tuo turno!»
«Arrivo!»
Iniziai a passeggiare su e giù lungo il piccolo spazio, iniziando a pensare a come avrei potuto impiegare il mio tempo. Il meglio sarebbe stato mettere mano all’articolo, finchè avevo fresche in testa le nuove tele da aggiungere.
«Hai un computer qui da qualche parte?» chiesi, sentendo i passi della punk lungo le scale.
«Oh, sì, sul fondo della scatola vicino al fornello» mi spiegò, parlando fuori dal mio campo visivo «C’è il mio vecchio portatile. Sarà un po’ datato, ma dovrebbe funzionare ancora e ti va pure bene che ho fatto installare la rete wi-fi proprio poco fa.»
In effetti era una gran fortuna per me. Avevo l’ossessiva mania di salvare i miei lavori, alla fine di ogni stesura, inviandomi una copia via mail, così da averli a mano in qualsiasi momento. Accedendo alla mia casella di posta elettronica avrei ripreso il pezzo da dove lo avevo lasciato l’ultima volta.
«Tutto chiaro?» volle avere conferma la pittrice, parandosi di fronte a me.
«Sì…» risposi, lasciando che qualsiasi seguito mi morisse in gola.
«Oh, andiamo, come se non avessi già visto tutto quello che c’era da vedere» mi punzecchiò divertita.
Osservai il suo stupendo corpo nudo ancheggiare con grazia in direzione del bagno, lasciandomi completamente inebetita. Mi ci volle qualche minuto per riconnettere tutti i neuroni ed approntare il mio piano di lavoro.
Attaccai il pc alla presa, lasciai che la batteria si riprendesse un po’, lo accesi e mi diedi da fare per recuperare il file. Quando lo ebbi per le mani, mi misi a cambiare l’introduzione, per abbozzare qualche riferimento al mio simil-ritratto che aveva appena iniziato a prendere forma, poi passai ad inserire il dipinto del promontorio al tramonto, portando avanti il contrasto tra quell’opera e quella che aveva presentato Beth Price al mondo tre anni prima.
Non mi accorsi di Chloe quando uscì dalla doccia e venne a lasciare che le sue ciocche colorate gocciolassero sulla tastiera consumata.
«Come va?» bisbigliò al mio orecchio sinistro, poggiando parte del proprio peso sulla mia spalla. Sentii le punte umide dei capelli sfiorarmi la guancia, solleticandomi, mentre un delicato aroma di cannella, l’essenza dello shampoo, iniziava ad aleggiare intorno a noi.
«Mi stai distraendo» tentai di dissuaderla dal gioco di seduzione che stava palesemente tentando di mettere in piedi «Sono già molto indietro e così non mi aiuti, anzi. Dovresti metterti d’impegno anche tu per finire quel quadro» proseguii, facendo riferimento alla copertina che aveva deciso.
«Oh, quello» disse con noncuranza, allontanandosi da me «È finito.»
Mi voltai dallo schermo per poterla osservare in viso, convinta di notare la sua espressione compiaciuta nel vedere che avevo creduto a quella sua bugia colossale, ma rimasi molto contrariata nello scoprire che, apparentemente, mi stava dicendo la verità.
«Di già?» mormorai stupita.
«Certo!» esultò «Vuoi vederlo?»
Non potei resistere alla curiosità e ci lanciammo in una gara a chi fosse riuscita ad arrivare per prima alla stanza da letto.
Grazie alla mia scattante agilità e i miei balzi da lepre lungo i gradini, vinsi.
Mi precipitai davanti al cavalletto ad osservare l’opera ancora intenta ad asciugarsi.
Sgranai gli occhi.
Era stupenda.
La protagonista della scena era la Polaroid, che riluceva di un nero profondo, ipnotico. Nel vetro dell’obiettivo, così piccolo quasi da non farci caso, si vedeva riflesso un rettangolo bianco, dietro cui una punta di blu indicava la testa dell’artista immortalata dallo scatto dell’apparecchio dipinto. Dietro la macchina fotografica c’era una figura umana. Le mani erano l’unica parte dettagliata, precise dalle piccole rughe delle nocche, al colore bluastro delle vene che si intuivano passare sotto la pelle diafana. Il resto della persona era lasciato piuttosto indefinito. Il volto era per buona parte nascosto dalla Polaroid, ma una cascata di capelli castani, stesi con lunghe e sinuose pennellate, faceva da contorno, permettendomi di rispecchiarmi. Parte del busto, che era rappresentato coperto con una specie di drappo color avorio per mascherare il seno, era morbidamente ritratto sul materasso, dando l’impressione che la donna catturata nella tela fosse sul punto di abbandonarsi completamente al candore delle coltri in cui era avvolta.
Non potevo credere che quel capolavoro fosse ispirato a me.
«Ho provato a riprodurre la tua bellezza, ma, in mia difesa, era un’impresa difficile» commentò la Price «E poi volevo dare spazio a quella bellissima macchina fotografica, è davvero un gioiellino.»
«Come lo intitolerai?»
Lei mi sorrise, passandomi un braccio attorno alla vita. «“Arte a confronto”.»
«Mi piace» concordai.
«Perfetto» sogghignò, rinsaldando la presa sui miei fianchi «Adesso che ti ho dimostrato di aver fatto i compiti, posso avere il mio premio?»
Le sue labbra iniziarono a posare una scia di baci delicati prima sulle mie scapole per poi risalire lungo il collo, fino alla mandibola.
«Sei davvero incredibile» sussurrai, con la sua bocca ad un soffio dalla mia.
«Ho intenzione di mostrarti che posso essere stra-incredibile» ribattè con un sorriso malizioso.
Smettendo di portare avanti quella blanda resistenza, mi lasciai trascinare ancora una volta sul letto.
Rimanemmo al faro fino alle cinque del pomeriggio, ora in cui ricevetti, sul cellulare di Chloe, una chiamata di Kate, che mi costrinse, controvoglia, a riportare l’attenzione su tutto il resto del mondo, che aveva continuato a girare fuori dalla lighthouse. Chiacchierai per una mezz’ora con la mia amica, subendomi una lunga serie di “te lo avevo detto” più che meritati.
Finita la telefonata, un po’ rattristata dall’idea di lasciare quel magnifico nido solitario, convinsi la pittrice a riportarmi ai Pan Estates.
Dopo un viaggio passato a canticchiare al ritmo delle diverse canzoni trasmesse alla radio, giunse il momento di congedarmi dalla punk. Salimmo insieme le scale fino al secondo piano, poi, davanti alla porta del 2A, lei mi sorrise ancora una volta, mi strinse leggermente la mano e mi lasciò lì, scomparendo su per la rampa silenziosa come un’ombra.
Aprii la porta e non feci in tempo a mettere un piede oltre l’uscio che mi ritrovai Warren parato davanti, con la sua migliore faccia da “poliziotto cattivo”. In realtà, somigliava più ad un bambino a cui il fratellino avesse rotto il giocattolo preferito e fosse pronto ad accusarlo di fronte ai genitori; insomma, più che intimidatorio sembrava solamente seccato.
«Lui chi è?» domandò in tono grave.
«Lui chi?» replicai, facendo finta di niente.
«Max» mi richiamò severo «Guarda come sei conciata! Chi ti ha ridotta così?»
Abbassai lo sguardo, realizzando solo allora di avere gli abiti intrisi di ogni tintura possibile. Ero stata talmente presa dalla pittrice e i suoi giochetti da non fare minimamente caso allo stato pietoso del mio outfit.
«Ehm…» farfugliai, cercando di rimediare una scusa. «È un progetto artistico» improvvisai.
«Certo, come no» ribattè «Voglio la verità, non la storiella della serie: “sono stata da un’amica”.»
«Sicuro di volere tutta la verità?»
Lui annuì.
«Ho passato la notte con Chloe» fu la mia risposta lapidaria.
Il ragazzo soppesò le mie parole. «Con “passato la notte”…» mormorò, quasi intimorito dal proprio stesso ragionamento «Intendi che avete letto giornaletti e vi siete messe lo smalto a vicenda?»
Scossi la testa e lo vidi prima sbiancare, poi arrossire violentemente.
«Quindi, “passato la notte” vuol proprio dire quello che penso?»
Fu il mio turno di arrossire.
«Beh, ecco, insomma, sì, cioè» iniziò a balbettare, gesticolando come un matto «Non che io abbia qualcosa da ridire… Cioè, io sono a favore di tutto e di tutti e cose così…» continuò ingarbugliandosi in un discorso senza via d’uscita «E sono molto contento per te, per voi… Anche se io non sapevo che tu, insomma, non lo sospettavo proprio.»
Gli feci segno di tagliare lì, prima di rischiare di dire una frase di troppo.
Ritrovando un briciolo di controllo, Graham poi aggiunse: «Non spiega comunque la pittura sui vestiti.»
«Abbiamo fatto una specie di lotta con i colori» gli dissi «Tu che hai combinato?» rigirai completamente la conversazione.
Il mio coinquilino mi raccontò della serata trascorsa principalmente tra qualche bicchiere e una serie di battute tra vecchi amici, un raduno come un altro.
Archiviando definitivamente l’argomento “passare la notte”, tornammo ognuno al proprio lavoro, solo dopo che, però, ebbi messo in ammollo i miei malconci abiti.
Rimaneggiai l’articolo fino all’ora di cena e poi anche dopo, arrivando alla mezzanotte con le palpebre pesanti e una innegabile necessità di sonno.
Spensi il computer, dopo aver salvato il file ed essermelo inviato per sicurezza, feci una rapida sosta in bagno e finalmente mi sdraiai a letto.
Decine di flash mi invasero la mente, facendomi piantare le unghie nei palmi delle mani al pensiero di Chloe che dormiva a qualche metro sopra di me, insieme ad un’altra donna. Naturalmente, dentro di me sapevo di non poter accampare alcun diritto sulla pittrice e meno che meno potevo pretendere in qualche modo che lei lasciasse Rachel per stare con me, ma l’idea di essere io quella ad addormentarsi con la Price ogni notte era troppo allettante per non essere considerata.
Mi costrinsi a prendere sonno, nonostante il mio cervello continuasse a funzionare a pieno regime. Dovevo riposare perché avevo di fronte a me una settimana impegnativa.
Le mattinate seguenti le trascorsi in ufficio, passando poi i pomeriggi al faro, divisa tra il lavoro sull’articolo e la nuova intesa trovata con Chloe, ogni scusa per lei era buona per sfiorarmi, punzecchiarmi, distrarmi da tutto ciò che non fosse la sua persona.
Nonostante le continue e pressanti interruzioni, riuscii a concludere il pezzo sabato mattina, trovandomi così in perfetto orario per consegnarlo lunedì.
«Finito, finito?» volle conferma la Price, appollaiandosi sulla mia spalla, sbirciando il foglio digitale.
«Finito, finito» le assicurai, voltandomi verso di lei per lasciarle un bacio sulle labbra «Da adesso devi impedirmi di rimetterci le mani o non smetterò mai di apportare modifiche.»
«So come tenerti impegnata con altro…» mormorò, solleticandomi la schiena con le dita affusolate.
Seguendo il suo suggerimento, lasciai trascorrere la fine della mattinata senza più pensare al lavoro. Ci alzammo dal letto per pranzare e poi trascorremmo il pomeriggio a farci le coccole sul divano, guardando la televisione, come una coppia qualsiasi.
Ero convinta che nulla sarebbe venuto a turbare la nostra quiete, ma mi sbagliavo.
Il telefono di Chloe iniziò a trillare come impazzito. In un primo momento lei decise di ignorarlo, preferendo di gran lunga continuare a districare invisibili nodi tra i miei capelli, passando con insistenza le mani tra le ciocche castane, ma alla terza chiamata, esasperata, si vide costretta a rispondere.
«Rachel?» domandò nell’apparecchio, dopo aver letto il numero sullo schermo.
«Ehi!» udii gridare dall’altra parte. Il tono era talmente alto da permettermi di sentire tutto nonostante il cellulare non fosse in vivavoce.
«Cosa sta succedendo? C’è un rumore assordante» borbottò la pittrice, mettendosi a sedere ed assumendo un’espressione contrariata «Dove sei?»
«C’è una festa bellissima» rispose la voce un po’ distorta della modella «Vieni anche tu! Frank ha portato un sacco di roba buona e Mark…»
Nel sentire nominare Jefferson, l’artista impallidì, poi strinse i denti con un ringhio, chiudendo la conversazione.
«Devo andare» sentenziò, alzandosi di scatto ed afferrando la giacca abbandonata poco lontano.
«Vengo con te» stabilii, decisa a seguirla.
«Non credo sia una buona idea» commentò mentre si infilava le scarpe «Potrebbe essere uno spettacolo poco piacevole.»
Le afferrai il polso e la costrinsi a fissarmi negli occhi. «Non posso lasciarti affrontare questa situazione da sola, potresti di nuovo perdere la testa e fargli del male sul serio, questa volta. Lui rimane pur sempre il mio capo, mi serve vivo se voglio lo stipendio.»
La Price mi fissò scettica, soppesando le mie parole.
«Ti prego, Chloe» mormorai «Concedimi di starti vicino.»
L’espressione fredda che aveva assunto un attimo prima, venne spazzata via da un timido sorriso. «Ti odio, è impossibile negarti qualcosa.»
In fretta iniziammo a scendere dal promontorio, dirigendoci al pickup che era, come al solito, parcheggiato al fondo del sentiero che portava al faro. Balzammo sul mezzo e l’autista si lanciò a tutta velocità lungo il nastro d’asfalto.
«Dove stai andando?» domandai, notando come avesse mancato di svoltare in direzione del complesso dei Pan Estates.
«Lo vedrai presto.»
Zigzagando tra il traffico del sabato sera, giungemmo alla base di un palazzo fin troppo noto. Le decine di metri di vetro ed acciaio ci sovrastavano come un minaccioso mostro pronto a sfoderare un letale attacco con lucidi artigli affilati.
«Sono a casa di Jefferson» affermò convinta, spegnendo il motore del veicolo «Non avrebbe mai portato quello stronzo al nostro appartamento, per cui devono essere nel suo fottuto attico.»
La seguii senza proferire parola, mentre si dirigeva decisa verso l’androne. Sembrava un angelo vendicativo sceso da un qualche piano celeste per abbattere la propria furia. La schiena ritta e le braccia tese lungo i fianchi, con i pugni chiusi, ispiravano forza, mentre l’incedere misurato, ma risoluto, trasmettevano una profonda determinazione. Non avevo idea di cosa avrebbe potuto combinare una volta raggiunta la propria meta.
Salimmo sull’ascensore, passando davanti allo svogliato portiere che neppure si curò di noi, pensando che fossimo altri invitati per quel party esclusivo.
La pittrice premette il tasto che conduceva al quindicesimo piano.
L’ascesa mi parve lunga ed estenuante, forse per via del piede sinistro della ragazza che tamburellava infaticabile come per tenere il ritmo di una marcia di guerra che solo lei poteva sentire.
Uscimmo dall’ascensore ritrovandoci su un piccolo pianerottolo deserto. Sulla parete di fronte a noi si trovava una porta blindata, con un estroso sistema di sicurezza approntato vicino.
«Hai intenzione di bussare?» chiesi, nonostante avessi paura dell’eventuale risposta.
«Certo che no» replicò glaciale.
Per un istante pensai che avesse intenzione di abbattere l’uscio con la forza, poi notai che stava selezionando una delle chiavi dal nutrito mazzo che portava sempre in tasca.
«Sono certa che non avrà cambiato la serratura» mi spiegò «Sarebbe stato troppo lungo distribuire le nuove chiavi alle sue amichette.»
Uno scatto metallico mi illuse che la questione fosse chiusa.
«Ora bisogna inserire il codice sul tastierino» disse, sporgendosi verso il piccolo strumento incassato poco lontano.
«Non avevo idea che Jefferson disponesse di tutte queste misure di sicurezza» osservai ad alta voce.
«Ma gli servono a ben poco se rimangono le stesse per anni» sbuffò la pittrice, digitando quattro cifre «Egocentrico fino all’ultima fibra.»
Intravidi il numero 0411 e capii che si trattava di una data: l’undici aprile, il compleanno del mio ex-professore.
La porta emise un nuovo rumore, questa volta più simile ad un segnale elettronico.
Chloe spinse l’uscio e varcò la soglia, mentre io la seguivo come un’ombra.
La musica ad alto volume fece rimbombare talmente forte il mio cervello che temetti per un momento di aver perso la capacità di ragionare. Le luci psichedeliche che si incrociavano tra loro ricordavano l’ambiente di una discoteca, la cui aria festosa veniva però smorzata dalle decorazioni del locale: decine e decine di fotografie in bianco e nero di giovani donne, per la maggior parte in pose angoscianti.
Un brivido mi corse lungo la schiena, lasciandomi un senso sordo di inquietudine. Molti lavori di Mark erano stati ritenuti dalla critica un po’ troppo spinti, ma nessuno di quelli si avvicinava a quanto si presentava ai miei occhi. L’intermittenza dell’illuminazione deformava i visi delle modelle, facendole apparire, a tratti, come maschere urlanti di terrore.
Deglutii rumorosamente, desiderando ardentemente di voltarmi per poi correre via, senza curarmi più di altro.
La mano della Price trovò la mia, come se avesse intuito il mio titubare.
«Fai ancora in tempo ad andartene» dovette urlare, per farsi sentire.
Scossi la testa. Sarei rimasta, per lei.
Passammo oltre quello che identificai come ingresso, svoltando in direzione di quello che sembrava un salotto.
Individuai un paio di volti noti nel piccolo gruppo che si stava divertendo, ballando in maniera scomposta. Frank, lo spacciatore che più volte avevo incontrato nel 3A, stava un po’ sulle sue, muovendosi a malapena, passando di tanto in tanto qualcosa, pasticche immaginai, agli altri presenti, tra cui c’era la mia vecchia compagna di classe, Victoria. La Chase si agitava come un’indemoniata, lasciandosi palpare da un paio di tizi ed emettendo squittii talmente acuti da sovrastare il frastuono della musica.
«Non sono qui» constatai, ma le mie parole vennero pronunciate invano, la Price era troppo concentrata sulla propria missione per prestarmi attenzione.
Venni trascinata in un corridoio, ancora una volta ornato da scatti tutt’altro che rassicuranti, sembravano addirittura più inquietanti di quelli presenti all’entrata.
«Per di qua» disse la mia guida. Il suono pulsante dei bassi era meno invadente in quella parte dell’appartamento, permettendoci di mantenere un tono moderato.
«Qui» sentenziò, fermandosi di fronte ad una porta chiusa.
Inspirai a fondo, preparandomi per qualsiasi cosa avremmo incontrato là dentro.
«Toc, toc» ringhiò, calciando l’uscio, spalancandolo.
L’enorme finestra sulla parete di fondo, da cui provenivano le luci della baia, era l’unico elemento su cui potessi concentrarmi, tutto il resto era troppo assurdo per essere reale.
Rachel era legata mani e piedi, sdraiata sull’enorme letto che occupava il lato destro della camera. Nathan Prescott, visibilmente ubriaco ed esaltato da qualche sostanza ben più potente dell’alcol, le si strusciava addosso con fare animalesco, era uno spettacolo raccapricciante.
Jefferson si muoveva come un fantasma, passando da un lato all’altro del materasso senza fare il minimo rumore, segnalando la propria presenza solamente tramite gli abbaglianti flash della propria macchina fotografica. La luce bianca brillava a distanza di pochi secondi ogni volta, dandomi l’impressione di guardare una serie di macabre diapositive.
Non appena riuscii a riconnettere qualche neurone, afferrai Chloe per un braccio, per paura che si scagliasse sul trio per sfogare la propria rabbia. Sentii i muscoli guizzare sotto il mio tocco e temetti di non essere in grado di trattenerla, se fosse stato necessario.
«Guarda guarda chi ha deciso di venire a giocare con noi» esordì Mark, puntando l’obiettivo nella nostra direzione, iniziando a scattare per immortalarci.
«Sei venuta» rantolò Rachel «Vieni a sballarti con noi, Chloe.»
Lei rimase immobile e silenziosa. Non capivo cosa le stesse passando per la mente, sembrava come svuotata.
La modella fece un cenno al ragazzo sdraiato con lei, che la sciolse come se stesse eseguendo un tacito ordine.
La biondina si alzò, barcollando nella nostra direzione.
«Andiamo, forza» biascicò, afferrando il bordo della giacca della pittrice «Ti prometto che ti divertirai, hai solo bisogno di una spinta.»
Jefferson le allungò una bustina contenente qualche piccolo oggetto tondeggiante e poi Rach prese a sventolare quel trofeo davanti al naso della Price.
«Ne bastano un paio per farti sentire un leone» le assicurò «Se vuoi possiamo darne qualcuna anche alla tua amica e divertirci tutti insieme» proseguì, posando lo sguardo su di me.
La sola idea mi causò una repulsione tanto forte da far nascere un conato di vomito alla bocca del mio stomaco.
«Forza, Maxine» mi invitò il direttore di FRAME, abbagliandomi con l’ennesimo flash «Aiutaci a convincere Beth, sappiamo che tu vuoi far festa insieme a noi.»
Il sorriso dell’uomo, che spesso avevo reputato affascinante, mi parve un perverso scorcio di quanto di più oscuro possibile si potesse celare nell’anima di un essere umano.
Nathan avanzò, afferrando Rachel per la vita, attirandola a sé. Mark si avvicinò ai due, baciando la guancia della modella e passando una mano tra i capelli del giovane Prescott, mentre con l’altra scattava un selfie.
«Molta brigata, vita beata» disse il ragazzo, con tono maligno.
Gli altri due sembrarono condividere quel pensiero, sporgendosi verso di noi. Pareva che stessero cercando di assorbirci in quella follia, come se volessero risucchiarci in una spirale senza possibilità di uscita. Sapevo che, se avessi accettato quell’offerta, avrei potuto non vedere l’alba del giorno seguente.
«Non aspettarti di trovarmi, quando o se tornerai a casa» annunciò Chloe con freddezza, rivolta alla propria ragazza «Avevamo un patto: ho sopportato le tue continue scappatelle, le tue dipendenze, le tue pessime compagnie, ma ero stata chiara su un punto in particolare.»
Sbattei le palpebre, infastidita ancora una volta dal lampo della macchina fotografica.
«Niente Mark Jefferson, mai più» continuò «Mi hai tradita una volta di troppo, Rach. È finita, anzi, sarebbe dovuta finire tempo fa» concluse amaramente.
«No, Chloe, andiamo» tentò di farle cambiare idea «Non puoi parlare sul serio… Prendi qualcuna di queste e andrà tutto bene.»
«No.»
Il trio assunse simultaneamente un’espressione di disappunto.
«Andiamo, Max, non c’è più niente da vedere» riprese la punk, dandomi una lieve gomitata, per farmi indietreggiare.
Annuii meccanicamente, facendo a fatica un passo indietro. Avevo paura di voltarmi, non volevo dare le spalle a quei tre.
«Forza, ti proteggo io» sussurrò la pittrice, circondandomi la vita con un braccio.
Quel gesto mi infuse un po’ di coraggio e mi sbloccò, mettendo in moto i piedi che fino a quel momento mi erano sembrati di piombo.
«Peccato, vi perderete tutto il divertimento» disse Jefferson, prima di scoppiare in una lugubre risata.
Quel suono mi gelò fin nelle ossa, ma la presa della Price rimase salda, invitandomi a proseguire.
Avanzai fino alla porta d’ingresso, mi fermai per un secondo davanti all’uscio chiuso, poi lo aprii, per riguadagnare la libertà, abbandonando quel luogo di orrore.
Come se avessi appena terminato una gara di apnea, inspirai a fondo, fino a che non sentii i polmoni premere contro le costole per via dell’espansione forzata. Dietro di me potevo percepire Chloe, tesa quanto me. La musica da discoteca e le luci filtravano ancora attraverso la soglia, ricordandoci che eravamo ancora troppo vicine per poter allontanare le nostre inquietudini.
Facendoci forza a vicenda, raggiungemmo l’ascensore e dopo qualche minuto ci ritrovammo fuori dal palazzo.
L’aria continuava ad essere frizzante, fredda per via del moderato vento che faceva ondeggiare le cime degli alberi dei boschi circostanti, originando un musicale fruscio che per me, in quel momento, era sinonimo di libertà. Il profumo salmastro, portato dalla brezza che spirava da ovest, sostituì l’odore di fumo e di chiuso che persisteva nelle mie narici.
«Tutto bene?» mi domandò la punk, cercando i miei occhi, persi nel vuoto.
«Dovrei essere io a farti questa domanda» ribattei piano, dopotutto avevamo trovato la sua ragazza ad un festino, alla mercé di un giovane riccastro dai modi perversi e di un uomo che mai avrei sospettato nascondesse un simile lato oscuro.
«Hai una faccia più che sconvolta, Max» replicò accarezzandomi il viso «Non ti aspettavi una cosa del genere, vero?»
Ero destabilizzata. Mi sarei aspettata che scoppiasse in un accesso d’ira, che iniziasse ad insultare Rachel, che spaccasse ogni cosa che le capitasse a tiro, ma invece era sorprendentemente tranquilla, sembrava solamente preoccuparsi per me.
«Non sono sicura che ciò che ho visto sia accaduto veramente» mi decisi a rispondere «Era così… Assurdo.»
La Price sospirò malinconicamente. «Purtroppo era tutto vero, te lo posso assicurare.»
La fissai intensamente, per capire come potesse mantenere i nervi saldi in quel frangente, dopo che l’avevo vista perdere le staffe per molto, molto meno.
Intuendo i miei pensieri, Chloe sollevò leggermente le spalle, per poi riabbassarle con un profondo respiro. «Era solo questione di tempo prima che accadesse, anzi sono sorpresa che non sia capitato prima» confessò «Sapevo che aveva ripreso i contatti con Jefferson e la cosa qualche mese fa mi avrebbe mandata su tutte le furie…»
Si interruppe, concedendomi un timido, sincero e disteso sorriso.
«Ma ora non mi importa più. Che quei due, o tre, facciano pure tutto ciò che vogliono, non mi interessa. Tutto ciò che conta al momento sei tu» continuò «Ed io non volevo che tu dovessi assistere a quella… Cosa» concluse.
I miei occhi si riempirono di lacrime, che fecero tremolare tutto quanto contenuto nel mio campo visivo.
«Stai piangendo?» chiese allarmata.
«No…» mentii, passandomi il dorso della mano sugli occhi.
Lei naturalmente indovinò immediatamente la menzogna, ma non le diede peso. Mi cinse con le braccia, stringendomi a sé. Avvicinò la mia testa al proprio petto, permettendomi di sentire il cuore che batteva calmo, come se nulla di male fosse accaduto.
«Andrà tutto bene, non devi preoccuparti per me, ciò che hai visto è un capitolo chiuso della mia vecchia vita» mi rassicurò «D’ora in poi non voglio vederti piangere per causa mia, ok?»
Non riuscii a risponderle per via della gola chiusa da un nodo di nervosismo.
«Devo passare ai Pan Estates» disse dopo una manciata di minuti, durante i quali avevo soffocato qualche singhiozzo contro la stoffa della sua maglia per scaricare tutta la tensione accumulata «Voglio prendere le mie cose prima che Rach torni a casa.»
«E dove andrai a stare?»
«Al faro» ribattè, come se si trattasse della soluzione più ovvia «Là ho tutto ciò di cui potrei avere bisogno, senza parlare del fatto che nessuno, a parte te, sa dell’esistenza di quel mio rifugio.»
Salimmo sul pickup e in un quarto d’ora ci trovammo a fare su e giù per le scale, trasportando palle di vestiti ingarbugliati e pile di tele. Warren, che venne disturbato dal mio ruzzolare per mezza rampa dopo essere inciampata in un paio di calzini, si offrì di darci una mano e ci aiutò a caricare la macchina con tutti gli averi dell’artista.
«Vuoi che rimanga con te per questa notte?» domandai a Chloe quando il trasloco last minute fu concluso.
Lei sorrise, poi lanciò un’occhiata obliqua al mio coinquilino che, paralizzato al mio fianco, era diventato rosso e stava balbettando qualcosa riguardo il doversene andare.
«No, tranquilla, mi sistemerò da sola con calma, ma tu sei la benvenuta se vuoi passare domattina per colazione» rispose.
«Certo» mormorai «Allora a domani.»
«Buonanotte, Max» si congedò, prima di baciarmi teneramente «E buonanotte anche a te Warren.»
Il ragazzo, inebetito, sventolò la mano in segno di saluto, ancora perso nei propri pensieri che preferii non sondare.
«Forza, a nanna» gli dissi, trascinandolo per una manica fino alla porta del 2A.
Trascorsi una notte tranquilla, nonostante gli eventi piuttosto turbolenti della sera passata. Il solo sapere che la Price era al sicuro nella sua lighthouse era sufficiente a garantirmi un sonno imperturbabile.
La mattina seguente mi alzai di buon’ora e, al volante dell’auto di Graham, passai al Two Whales per acquistare una bella dose di pancakes, annegati nello sciroppo, come piacevano alla punk, poi mi diressi al faro.
Bussai alla grande porta di metallo, aspettando una risposta.
«Ehilà!» sentii gridare da sopra di me.
Alzai la testa e vidi la giovane pittrice sporgersi dalla ringhiera.
«Raperonzolo, butta giù la tua treccia!» urlai, ridacchiando.
«Oh, mio principe!» replicò, fingendo di sciogliere la chioma per farmi salire «Affrettati, prima che la mia perfida matrigna faccia ritorno.»
«Non temere, mia diletta» continuai l’improvvisata scenetta «Ti libererò dalla sua opprimente schiavitù! Porto con me l’invincibile arma più incantata di tutto il reame» proseguii, mostrandole il sacchetto del diner «Frittelle avvelenate, ben più efficaci di una volgare mela.»
Ridemmo entrambe.
«Mio eroe!» esclamò, prima di scomparire all’interno del faro, per sbucare poco dopo dall’altro lato della porta «Entra, valente guerriero.»
Eseguii l’ordine e feci per dirigermi verso il tavolo, ma notai che l’operazione sarebbe risultata tutt’altro che semplice. Se già prima lo spazio era sovrappopolato per via delle opere d’arte abbandonate in giro, con l’arrivo di quelle provenienti dall’appartamento, era a dir poco straordinario che ci fosse modo di muoversi senza calpestare un dipinto.
«C’è un po’ di disordine» ammise, grattandosi la nuca «Ma ieri sera non avevo molta voglia di mettermi a sistemare.»
«Bene» affermai «Così avremmo qualcosa da fare, dopo mangiato.»
«Oh, Max» sbuffò, allungando a dismisura la “a” del mio nome per sottolineare il tono polemico «Dobbiamo proprio? Io avevo tutt’altro in mente» sussurrò ad un soffio dal mio orecchio.
«Cosa dirà Madre Gothel vedendo tutto questo caos?» la redarguii sghignazzando «Una brava principessa prima si occupa di sistemare, poi si concede gli svaghi.»
Mi fece la linguaccia, poi mi strappò dalle mani il sacchetto con la colazione, balzando tra gli ostacoli con una facilità sorprendente, atterrando, alla fine, in prossimità del tavolo senza aver intaccato un solo quadro.
Tentai di imitarla, ma mi resi presto conto che l’impresa fosse molto più ardua di quanto non lo avesse fatto sembrare. Mi mossi in punta di piedi, compiendo oculate rotazioni e piccoli balzelli per impedire alla mia goffaggine di combinare qualche disastro.
«Più in fretta o non ci saranno pancakes per te, mio principe» mi prese in giro, sventolandosi davanti al volto una forchettata di cibo grondante di sciroppo.
«Arrivo, arrivo» borbottai, macinando gli ultimi metri che ci separavano.
«Ti manca poco» mi stuzzicò, avvicinandomi alle labbra il prelibato boccone, quando ormai ero ad un passo dall’irraggiungibile tavola.
Mi preparai ad assaporare quella leccornia tanto faticosamente guadagnata, ma il mio pericolante equilibrio cedette, ostacolato da un pennello che finì sotto la suola della mia scarpa, facendomi scivolare all’indietro e sbattere il fondoschiena contro una cornice.
«Ouch» mi lamentai, rialzandomi e massaggiando la zona colpita.
Fulminai con lo sguardo Chloe che, dopo un primo attimo di sorpresa, aveva iniziato a ridere sguaiatamente della mia disavventura.
«Non è così che si dovrebbe comportare una principessa» le feci notare.
«E non è così che si dovrebbe comportare un principe» mi fece il verso.
Andammo avanti a punzecchiarci per un po’, mangiando le frittelle e poi cominciando a riordinare così da formare dei passaggi di modo che ci si potesse almeno muovere in discreta sicurezza. La televisione accesa ci teneva compagnia, dandoci ogni tanto qualche spunto per conversare o per tornare a stuzzicarci.
Dopo un pasto frugale e un'altra ora di riordino, concessi alla punk lo svago che tanto aveva bramato.
Mi sentivo spensierata, come se l’improvvisata a casa di Jefferson non fosse mai avvenuta, come se non avessi mai visto quelle scene che avrebbero lasciato basito chiunque. Eravamo solamente Chloe ed io, al sicuro nel nostro luogo segreto, finalmente libere di stare insieme senza la presenza di Rachel ad aleggiare tra di noi.
«Sai, stavo pensando…» mormorò l’artista ad un tratto, rigirandosi tra le coperte, permettendomi di posare la testa sul suo petto.
«Beh, questa sì che è una novità» bisbigliai «Tu che pensi, una vera rivoluzione.»
Aggrottando le sopracciglia con fare fintamente minaccioso e gonfiando le guance come un pesce palla, la Price mi soffiò in faccia tutto il proprio disappunto, scarmigliandomi i capelli già di per sé in disordine.
«Va bene, scusa» dissi, facendo scivolare una mano sulla sua bianchissima pancia, arrivando poi al fianco per abbracciarla e stringermi più a lei «Stavi dicendo?»
«Che stavo riflettendo» riprese «Su tutto quello che è capitato nell’ultimo paio di mesi… Se un anno fa qualcuno mi avesse detto che, tornando ad Arcadia Bay, avrei finito per riprendere a fare la pittrice, lasciare Rach e trovare la ragazza più straordinaria del mondo, gli avrei riso in faccia e probabilmente lo avrei pure insultato pesantemente.»
Rimasi in silenzio, curiosa di sapere se avesse qualcosa da aggiungere.
«E invece sono qui» riprese, stiracchiandosi leggermente «Ad un passo dal fare il grande ritorno nel mondo dell’arte, fresca fresca di rottura, avvinghiata ad una splendida donna… Insomma, meglio di così non potevo sperare.»
«Puoi sempre augurarti di vincere alla lotteria» commentai «Così potremmo comprarci un’isola e vivere per sempre felici e contente in un castello delle fiabe costruito apposta per noi.»
Le unghie smaltate di blu iniziarono a grattarmi piano la base del collo, delineando il contorno delle mie vertebre. «Ti piacerebbe una cosa del genere?» mi domandò.
«Perché no? Mi attira l’idea di stare in panciolle tutto il giorno, sorseggiando cocktail da una noce di cocco.»
Non gradendo la mia ironia, Chloe si puntellò sul gomito, costringendomi a cambiare posizione, trovandomi a confrontarmi con i suoi profondi occhi blu. «Io parlo sul serio.»
«Riguardo vincere la lotteria e comprare un’intera isola?» chiesi.
«Riguardo noi due, felici, insieme, per sempre.»
Sbattei le palpebre più volte, prendendo tempo. Non avevo ancora pienamente realizzato che, visti gli eventi della notte passata, si apriva per noi la possibilità di vivere davvero come coppia, pianificando insieme un futuro.
«Capisco che tu non sia pronta» sospirò, tornando a sdraiarsi «Non voglio metterti fretta in alcun modo, era pura curiosità…»
Il tono vagamente ferito della sua voce era più che palese.
«Chloe» mormorai «Non voglio che tu ti faccia un’idea sbagliata… Non mi sono mai trovata in una situazione come questa» le spiegai «Non ho mai dovuto fare progetti includendo qualcun altro all’infuori di me. Quando stavo con Thomas dovevo ancora finire il college, quello era il mio piano, poi ho sempre solo dovuto pensare a me stessa e poi… Beh, sei arrivata tu e hai sconvolto tutto quanto: mi hai fatto ottenere un ingaggio di prestigio, mi hai fatto ritrovare la passione per la fotografia e mi hai aperto gli occhi su tante cose…»
Sarei andata avanti a parlare, ma le morbide labbra della pittrice arrivarono ad interrompere il filo dei miei pensieri.
«Ti amo, Max.»
Rimasi di pietra. Non credevo possibile che così poche parole fossero in grado di avere un così potente effetto. Ogni fibra del mio corpo vibrò all’udire quelle sillabe, il mio cuore ebbe un guizzo tale nel mio petto da farmi credere di star avendo un infarto. Non me ne ero resa conto fino a che non era stata pronunciata, ma avevo atteso quella frase per tutta la vita.
«Ti amo anche io, Chloe.»
Le iridi celesti si assottigliarono, invase per una frazione di secondo dalla pupilla dilatata, poi tornarono ad espandersi, come un impetuoso fiume in piena. Il sorriso che trionfò sul viso della Price fu il più bello che avessi mai visto, il più genuino e splendente di tutti.
«Avevi paura che non ricambiassi, eh?» la punzecchiai.
Decisa a portare avanti un tipo di dialogo non fatto di parole, l’artista riprese a baciarmi, bloccando sul nascere ogni mio blando tentativo di tornare a parlare, voleva dimostrare coi fatti quanto aveva appena dichiarato dal profondo del proprio cuore ed io, naturalmente, volevo fare lo stesso.
La sera arrivò senza che ce ne rendessimo conto e presto calò la notte, avvolgendo il faro in una tenebra spettrale, che sembrava stonare con il nostro umore tutt’altro che cupo.
Cenammo con della pizza surgelata, riempiendoci reciprocamente di attenzioni, coccolandoci e scambiandoci frasi smielate ai limiti del ridicolo.
Guardando in televisione diverse puntate di telefilm polizieschi, arrivammo ad essere sveglie quando ormai la mezzanotte era passata da molto.
«Forse sarebbe ora di andare a letto» constatai, indicandole come ormai fossero quasi le tre del mattino.
«Ma se siamo state a letto tutto il giorno!» ridacchiò «Di’ la verità: non puoi averne abbastanza di me» sogghignò, facendomi l’occhiolino.
Scossi la testa, rassegnata. «Io vado a dormire, non ho la forza per contrastare queste battute di bassa lega…»
«Uno a zero per Price!» esultò «Ma non temere, avrai un bel premio di consolazione» continuò, poggiandomi un bacio sulla fronte.
Avrei voluto contestare, stabilendo delle regole per rendere ufficiale la competizione, ma un imprevisto arrivò a bussare alla porta.
Il rumore del metallo della porta scosso dall’insistente pugno di qualcuno rimbombò tra le pareti della lighthouse.
Istintivamente, cercai lo sguardo della mia compagna, che era calamitato verso l’uscio. Neppure lei aveva idea di chi si potesse trattare.
Con un balzo felino, dopo aver assunto la solita espressione da punk intrattabile, la giovane andò ad aprire.
«Chi cazzo è?» ringhiò.
«Apri, sono Frank.»
Corrugai la fronte. L’uomo non aveva motivo di trovarsi lì,
«Come hai fatto a trovarmi?» chiese, tenendo chiusa la porta.
«Aprimi e te lo dirò.»
La pittrice, incerta sul da farsi, picchiettò sulla maniglia più e più volte, fino a che non mi avvicinai a lei, sovrapponendo la mia mano alla sua, facendo sì che l’uscio si schiudesse.
Pompidou si infilò, scodinzolando, tra le nostre gambe, andando ad annusare tutto intorno.
Lo spacciatore fece per entrare, ma il braccio tatuato di Chloe lo inchiodò sul posto, impedendogli di avanzare oltre.
«Sputa il rospo, Bowers, o ti sbatto la porta su quel brutto muso che ti ritrovi» lo minacciò «Come facevi a sapere dove trovarmi?»
Frank si grattò la barba incolta. «So di questo posto da quando lo hai comprato dal vecchio ubriacone, gli ho estorto l’informazione con un paio di birre. Il primo dovere di un bravo uomo d’affari è sapere dove hanno invischiate le mani i propri migliori clienti.»
«Ho smesso di usare la tua roba, da tempo» replicò acida.
«Questo non mi ha fatto dimenticare del tuo bel nascondiglio» ribattè, indicando con la mano lo spazio alle nostre spalle.
«Perché sei qui?» deviò il discorso la ragazza.
«Rachel.»
A sentire quel nome, tutti i ricordi della sera precedente, che avevo ingenuamente relegato in un angolo oscuro del mio cervello, tornarono prepotenti a far sentire la propria presenza.
«Le ho detto chiaro e tondo che tra noi è finita, non c’è altro da aggiungere» decretò Chloe, riducendo gli occhi a fessure.
«Vuole vederti un’ultima volta, per parlare» disse l’uomo «Un’ora, non chiede di più.»
«No» fu la risposta secca.
«Immaginava che avresti reagito così» borbottò Bowers «Ma mi ha detto di ricordarti di tutto ciò che avete affrontato insieme, dice che lo devi al “tuo angelo”.»
La Price chiuse le mani a pugno, conficcandosi le unghie talmente forte nei palmi da far sbiancare le nocche.
«Forse dovresti andare» mi intromisi, poggiandole una mano sulla spalla «Per chiudere definitivamente…»
«Pensi che sia una buona idea?» mi domandò. Era visibilmente spaesata, aveva bisogno che la aiutassi a prendere quella decisione.
«Sì, ma non voglio che tu ti senta forzata, quindi la scelta finale resta a te.»
Lei riflettè per qualche momento, poi sospirò. «Va bene, poi taglieremo i ponti, per sempre.»
Frank annuì. «Ti aspetta a casa.»
«Quella non è più casa mia» commentò la pittrice.
«Sì, come ti pare» bofonchiò lui «Quanto ti serve per essere pronta?»
L’artista si scrutò rapidamente, poi scomparve per vestirsi con qualcosa di più della semplice t-shirt che stava indossando. In quel lasso di tempo io rimasi immobile, in silenzio, spostando ripetutamente gli occhi dall’inatteso ospite al suo compare canino e viceversa.
«Possiamo andare» annunciò Chloe, ricomparendo dopo qualche minuto.
«Bene, il mio camper è parcheggiato nello spiazzo, ti aspetto là» rispose l’uomo, voltandosi e richiamando l’amico a quattro zampe con un fischio.
«Sarò di ritorno il prima possibile» mi promise la ragazza «Giusto il tempo di darle di nuovo il benservito, poi saremo solo tu ed io.»
Mi posò un bacio sulla guancia, poi scomparve nell’oscurità del bosco che circondava la lighthouse, lasciandomi sola.
Chiusi la porta, che emise un cigolio sinistro. All’improvviso quel tanto accogliente nido parve tramutarsi in una pericolosa trappola, pronta a chiudersi su di me come un tenaglia.
«Va tutto bene» dissi per tranquillizzarmi «Non è la fine del mondo restare sola in un vecchio faro…»
Il rumore distante di un motore apparve all’improvviso e, rapidamente com’era apparso, scomparve.
«Tornerà presto, lo so» affermai «Un paio d’ore al massimo. Sarà qui prima dell’alba… Nel caso ritardasse, si ricorderà certamente di avvisarmi…»
Per distarmi, andai al piano di sopra, mi rivestii e feci qualche giro della balconata, godendo dell’aria fredda della notte. La mezza luna che brillava sospesa nel cielo scuro era impassibile, lontana dai miei drammi e turbamenti. La invidiavo.
Quando realizzai che avrei potuto prendere una polmonite, rientrai, mettendomi a guardare un altro po’ di televisione, nella speranza che il tempo scorresse più velocemente. A prendere sonno non ci pensavo neppure lontanamente.
Girai più e più volte tutti i canali, senza trovare alcunché di interessante.
L’ansia iniziò a vincere sui miei nervi ormai non più saldi. Se volevo riacquistare del tutto la mia stabilità emotiva, avevo bisogno di Chloe.
La attesi per tutto il resto della notte, tracciando solchi nel pavimento a furia di ripercorrere sempre gli stessi passi, ficcando convulsamente la mano in tasca sperando che il telefono squillasse, accarezzando la guancia su cui aveva posato quel bacio che ogni secondo di più mi sembrava d’addio.
Quando la luce del mattino iniziò a schiarire il cielo, ricacciando l’oscurità oltre la linea dell’orizzonte, capii, non mi rimaneva che la verità: Chloe non sarebbe tornata.
I miei tentativi di contattarla si rivelarono vani, aumentando ancor di più la tensione che mi contorceva lo stomaco.
Il tempo continuò a scorrere senza che io potessi fare alcunché.
Ero sul punto di perdere le speranze quando un bussare concitato spezzò la quiete in cui era piombato l’ambiente intorno a me.
Mi scagliai verso la porta, spalancandola senza riflettere.
La figura di Frank si stagliò di fronte a me.
«Che cosa è successo!?» strillai, sgranando gli occhi.
I suoi abiti che, sebbene spiegazzati e non freschi di bucato, erano stati in buone condizioni fino a qualche ora prima, erano macchiati, puzzolenti, come se si fosse immerso in un bidone dell’immondizia. Il suo volto, già di per sé poco colorito e piuttosto scavato, portava i segni di un forte trauma: era bianco, talmente pallido da apparire cadaverico, le rughe si erano fatte marcate, le occhiaie erano nere.
«Che cosa è successo!?» domandai ancora una volta, rischiando di perdere il controllo pur di ottenere l’informazione che volevo.
Lui balbettò poche parole: «Chloe… Rach… Overdose…»
Crollai sulle ginocchia, prendendomi il viso tra le mani. Non poteva essere vero.
«Dobbiamo andare» disse, afferrandomi il braccio.
Mi divincolai, impedendogli di rimettermi in piedi. «No, non è vero. Stai mentendo.»
«Ascoltami, ragazzina» sussurrò «Vieni con me, devi farlo.»
«No!» gridai «Dimmi che è tutta una bugia!»
Lui scosse la testa. «Ti sto dicendo la verità.»
«Non può essere morta…» mormorai, sentendo le lacrime iniziare a sgorgare copiose.
«Infatti è viva.»
Il tempo si fermò. In una frazione di secondo ogni momento passato con la pittrice mi si parò davanti agli occhi.
«Come!?»
«Non mi hai dato modo di spiegare» tentò di difendersi l’uomo «Ti racconterò in macchina. Adesso dobbiamo andare.»
Era tutto troppo assurdo, ma non avevo altra scelta. Recuperai la borsa come in trance e lo seguii fino al camper, che era parcheggiato accanto al malconcio pickup.
Bowers iniziò a parlarmi una volta alla guida del mezzo.
Capii solo a tratti la storia e rimisi insieme i pezzi solo in seguito. Essenzialmente, lui aveva accompagnato Chloe da Rachel, aveva aspettato da solo per un po’, ma vedendo che la Price non tornava, si era avventurato all’interno del 3A, trovando una scena a dir poco agghiacciante. La modella e la pittrice giacevano entrambe per terra.
«Rach aveva la siringa ancora piantata nel braccio» mi raccontò «Ho cercato di soccorrerla, ma… Non c’era più niente da fare. E allora mi sono concentrato su Chloe. Aveva anche lei una siringa mezza piena nel braccio e della schiuma alla bocca, ma i suoi occhi… Erano aperti, mi sembravano reattivi. L’ho stesa sulla schiena e ho provato a rianimarla. Non appena ho iniziato le compressioni ho sentito qualcosa muoversi, poi le ho soffiato aria nei polmoni, nella speranza che tornasse a respirare. Ha dato un colpo di tosse e si è messa a vomitare. L’ho aiutata a svuotarsi e poi ho immediatamente chiamato il 911. L’ambulanza è arrivata dopo pochi minuti e io l’ho seguita fino in ospedale. I medici mi hanno spiegato che hanno dovuto farle una lavanda gastrica d’urgenza per rimuovere tutti i residui dei sonniferi ingeriti e le hanno attaccato qualche flebo per farle smaltire gli effetti della droga iniettata… Poi mi hanno spiegato che, con la mia manovra di rianimazione, le ho incrinato due costole, però questo problema dovrebbe risolversi senza alcun bisogno di un intervento…»
Il resto del discorso finì perso nella fitta nebbia che stava avvolgendo il mio cervello.
Arrivammo in ospedale e poi fino alla camera della Price senza che sapessi spiegarmi cosa fosse accaduto. Frank mi fece accomodare accanto al letto e rimase al mio fianco fino a che non smisi di piangere e tremare.
Col passare delle ore, dopo che una delle infermiere mi ebbe dato una tazza di tè e un calmante, cominciai a mettere in moto qualche neurone: era lunedì, sarei dovuta essere da FRAME per consegnare l’articolo; dovevo chiamare Warren e far avere mie notizie a Katie; avrei dovuto cercare di contattare Joyce Price per farle sapere quanto accaduto alla figlia… Avevo una lunga lista di doveri, ma tutto ciò su cui riuscivo a concentrarmi era il corpo inerme che giaceva lì vicino.
La pittrice respirava piano, aiutata da una mascherina che serviva a compensare la minor quantità di ossigeno immagazzinata dai polmoni per via delle ossa danneggiate. L’effetto dell’anestesia sarebbe dovuto terminare verso sera, facendole riacquistare conoscenza.
Il giorno trascorse senza che io potessi agire in alcun modo, ero come paralizzata, stavo valutando la dinamica dei fatti: era stata Rachel ad impasticcare Chloe per poi tentare di iniettarle una dose letale o la pittrice se lo era fatto da sé? Poteva davvero aver deciso di abbandonarmi in quel modo? Aveva provato a scegliere la via più facile, rompendo la promessa di tornare, che mi aveva fatto?
Decisi che era inutile pormi tante domande, per cui, quando ormai il pomeriggio era inoltrato, iniziai a parlarle, per fare chiarezza tra i miei pensieri.
«Lascerò Jefferson e la sua rivista» dissi «Non posso collaborare con un soggetto del genere… Gli consegnerò il pezzo, come d’accordo, ma non firmerò il contratto da editor. Troverò un altro lavoro, qualcosa che non abbia a che vedere con il tuo passato… Potremmo andarcene da qui, sai? Magari andare a trovare tua madre in Maine sarebbe un buon punto di partenza, oppure potremmo andare a Seattle, o nel Montana dalla mia amica Kate, che non vede l’ora di conoscerti…»
Le accarezzai il dorso della mano sinistra, abbandonata inerte sulle coperte ruvide della clinica, risalendo fino all’incavo del gomito, dove i dottori avevano applicato un piccolo cerotto. Repressi un singhiozzo, sapendo che quello era il punto in cui l’ago l’aveva bucata.
Dovevo distrarmi, non pensare al pericolo che aveva corso.
Mi misi a blaterare sui nostri possibili progetti, costruendo astrusi e fragili castelli di carte.
Mi bloccai solo quando sentii qualcosa stringermi il dito indice della mano destra, che tenevo appoggiata sul lettino.
«Sei sveglia» mormorai con voce tremante.
Gli occhi celesti, semiaperti, mi fissarono, invitandomi a parlare ancora.
Ogni dubbio, ogni sospetto ed incertezza si dileguò, svanendo senza lasciare traccia. Non mi importava di come fossero andate le cose, me lo avrebbe spiegato un giorno, e per quanto concerneva il futuro avevamo tempo, l’unica cosa importante era che lei fosse viva e che io fossi al suo fianco.
Mi venne in mente la domanda che mi aveva fatto la prima notte passata al faro e lasciai la mente a briglia sciolta, permettendo ad una profonda realizzazione di prendere forma.
«Qualche tempo fa mi hai chiesto se credessi nell’amore eterno… Per me l’amore è qualcosa di astratto, indefinibile… Dipende da noi, dalle nostre sensazioni ed esperienze, un po’ come l’arte. In quest’ultimo periodo ho capito una cosa: se noi non esistiamo, lo stesso vale per l’amore e l’arte, e se noi cambiamo, ci evolviamo, lo stesso fanno loro. L’amore potrà non essere eterno, ma ci rende immortali, come l’arte permette all’autore di vivere nei secoli, resuscitandolo ogni qual volta qualcuno viene mosso ammirando il suo lavoro. Oltre le difficoltà, i drammi e persino la morte, il nostro amore resisterà. Questa è l’unica certezza che ho, l’unica verità di cui ho bisogno.»
Le dita della Price si strinsero ancora una volta intorno alle mie e lei sorrise debolmente da dietro la mascherina. Sentii le lacrime tornare a sgorgare ancora una volta e mi chinai per lasciarle un lieve bacio sul dorso della mano.
Quando risollevai il capo, nelle sue iridi blu vidi riflettersi il più bel tramonto che la natura avesse mai dipinto sulla tela del mondo, ma non mi voltai verso la finestra per osservarlo, perché era guardarlo attraverso quei pozzi azzurri, gli occhi della mia Chloe, a renderlo magico e speciale. Tutta la mia vita, riflessa in lei, sarebbe stata arte nella sua forma più pura.

NdA: ed eccoci alla fine, signore e signori, un capitolo lungo, lo so, ma non volevo dividerlo in più parti e spero abbiate apprezzato questa scelta. Vi siete accorti del mio piccolo tocco artistico? Se non ci avete fatto caso ve lo faccio notare io: gli acronimi dei titoli di ogni capitolo (in poche parole le lettere iniziali delle parole) formano tutti la parola ART, era uno sfizio che volevo togliermi e l'ho fatto. Che altro aggiungere? Se la storia vi è piaciuta, vi invito a lasciarmi una recensione per farmelo sapere, ma moralmente mi è sufficiente sapere che abbiate apprezzato leggerla. Thanksgiving time: un milione di grazie a wislava che si è sottoposta per l'ennesima volta all'immane fatica di leggere, correggere ed aiutare a crescere l'intero racconto;  un altro milione di grazie a Camyglee e Hydro_Warner per le loro recensioni, voglio ribadire loro che le ho molto apprezzate; e per finire un milione di grazie a te che stai leggendo, per avermi accompagnata in questo viaggio. Come avevo già accennato nelle note del primo capitolo, sto tutt'ora lavorando ad un'altra storia di "Life is Strange", naturalmente sempre Pricefield, studiata per essere un seguito plausibile del gioco, in grado di dare risposta a tutte (o quasi) le domande che il videogame ha lasciato in sospeso. Non so ancora dirvi quando sarà pronta, perchè si prospetta lunga, ma potrei decidere di iniziare a pubblicare come work in progress, insomma è tutto in "forse", potrebbe comparire domani come tra un mese, chi lo sa... In ogni caso esplorare questo fandom è stato molto emozionante e spero lo sia stato per voi quanto per me. Mi auguo di ritrovarvi in futuro, qui o altrove, fino ad allora buona lettura a tutti, è stato un piacere scrivere per voi.
GirlWithChakram

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