Gli occhi della vita

di I_am_the_darkness
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO

Migliaia di schegge di vetro attorno ai miei piedi.
Delle urla mi arrivano alle orecchie. Di paura? Forse di dolore.
Mi guardo attorno. Sono stata io a fare questo? Osservo i muri sporchi di sangue e le finestre senza vetri, questi ultimi sparsi a terra, come se un'esplosione fosse avvenuta nell'aula, e mi rendo conto che, senza neanche accorgermene, avevo perso il controllo. Di nuovo.
Il maestro e altri jonin sono davanti a me, armati di kunai e katana, e mi urlano qualcosa, ma dalle loro bocche non sento provenire alcun suono. Sono loro che muovono solo le labbra senza parlare? O sono io che non li sento?
Vedo tutto sfocato, le sagome non sono più ben definite e non più a distinguere neanche i volti, mi chiedo per quanto riuscirò a rimanere cosciente ancora. Vorrei dire a tutti che mi dispiace, che non sono pericolosa, ma la bocca è impastata e la gola è arida, talmente arida che mi fa emettere solo qualche verso e dolere la gola.
Se muovessi anche solo un passo i jonin mi attaccherebbero e creerei solo danni e paura in più. La testa inizia a girarmi e insieme ad essa anche la stanza inizia a vorticare attorno a me.
Chiudo gli occhi e il buio mi avvolge in un abbraccio oscuro e confortevole, il sonno mi assale e la voglia di lasciarmi andare a quell’oscurità è forte. Le gambe cedono e con esse la mia forza di volontà, che fino ad allora mi aveva tenuta sveglia.
Lascio che l’oscurità avvolga anche la mia mente e prima di toccare terra non sento più nulla se non delle braccia forti che mi impediscono di ferirmi con i vetri e che mi stringono forte in un abbraccio senza tempo.
Sento una frase sussurrata al mio orecchio: “Andrà tutto bene…”. Una lacrima mi solca il viso.
 

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


CAP 1
Mi ritrovai su una superficie morbida, che realizzai infine essere un futon. Le coperte mi avvolgevano in un abbraccio caldo, quasi protettivo. Per un istante immaginai che fossero le braccia amorevoli di mia madre a stringermi in quell’abbraccio, per darmi conforto, per darmi un po’ di forza anche solo per aprire le palpebre e ritornare alla realtà di tutti i giorni.
Aprii con fatica le palpebre, appesantite dalla stanchezza, che adesso mi opprimeva. Mi costrinsi a rimanere con gli occhi aperti e a sedermi per tentare di scacciare anche gli ultimi residui di sonno. Il buio avvolgeva ogni cosa, me compresa, rendendo gli anfratti della stanza inquietanti ai miei occhi, facendomi immaginare strane e orribili creature che sbucavano fuori per portarmi via. Mi guardai intorno con circospezione, mentre i miei occhi pian piano si abituavano al buio, e capii di essere nella mia stanza. Mi strofinai gli occhi con la mano, togliendo le cisti che si erano accumulate agli angoli dei miei occhi e sbadigliai. Il silenzio era irreale e piacevole nella casa, non so cosa avrei dato per averlo anche di giorno, per stare nel silenzio più totale e poter leggere in pace i libri in cui trovavo sempre conforto e compagnia, quella che le persone non erano in grado e non volevano darmi. 
Un raggio di luna, fino ad allora probabilmente nascosta dalle nuvole, quasi volesse fare un dispetto a non far vedere la sua bellezza mozzafiato, filtrò dalla finestra della mia camera, illuminandola quasi a giorno. Mi alzai togliendomi di dosso le coperte color blu elettrico, e andai alla finestra. Mi misi in punta di piedi per poter vedere meglio il paesaggio notturno che si stagliava al di fuori della mia camera, gli alberi erano immobili, non un soffio di vento li smuoveva, i raggi della luna rendevano l’erba argentata e facevano brillare la brina che si era formata sulle foglie e sui fili d’erba, ma non era il paesaggio terreno quello che mi interessava, oh no, per quanto magnifico e affascinante fosse, ciò che c’era in cielo mi intrigava di più. La luna che con i suoi bagliori argentei donava la sua luce alle piante, alle case e al villaggio intero, e mi incantava, sarei potuta rimanere ore ad osservare quello spettacolo di pura bellezza che solo pochi prescelti potevano davvero notare in tutte le sue sfumature. Cos’era il cielo senza la luna? Solo una distesa di blu profondo che poteva farti annegare a guardarlo a causa della sua oscurità, solo una tela nera senza colori, solo il nulla che ti avvolgeva e ti stremava. Alla luna tutto era concesso, lacrime, sorrisi, sogni e pensieri, lei li prendeva e li teneva al sicuro senza dirli a persona alcuna, come una confidente sempre pronta ad ascoltarti e senza mai giudicarti, la luna vecchia consigliera delle notti più buie o più luminose.
Chiusi gli occhi per un attimo godendomi la sua luce sulla mia pelle, un attimo di relax che poteva rinvigorirmi corpo e anima. Udii a un certo punto voci provenire dal piano inferiore, voci sommesse probabilmente per non farsi sentire da nessuno, cioè da me. Mi avvicinai alla porta facendo meno rumore possibile, per non far scoprire il fatto che stavo origliando, e misi poi un orecchio su di essa per sentire meglio. 
-Come mai questa visita a quest’ora di notte?- chiese una voce profonda. Mio padre, un uomo burbero ma di buon cuore, con capelli e occhi neri come la pece, che tuttavia avevano sempre una luce vivace in essi, che notavo subito appena lo guardavo negli occhi. 
-Lo dovrebbe sapere il motivo, visto quanto accaduto ieri mattina.- rispose un uomo a me sconosciuto, probabilmente un jonin. Mi sorpresi quando disse ieri mattina. Ma quanto ho dormito? 
-Già… ieri mattina. Beh ma è stato un incidente, non è di certo colpa di mia figlia. E poi non poteva venire questo pomeriggio o domani, invece di piombare qua senza preavviso?- 
-Dovevano fare una riunione per decidere cosa fare, e sono venuto qua per informarla che la decisione che è stata presa è per il bene, oltre che per il villaggio, per voi.- 
-E quale sarebbe questa decisione, sentiamo che precauzioni sono state prese per far sentire la gente più protetta da una bambina di otto anni.- disse mio padre infastidito e colpito sul vivo da quello che sapeva stava per dirgli lo sconosciuto. Ero indecisa tra la decisione di farmi seguire ovunque da una squadra di jonin e la decisione di rilegarmi in casa a vita, se non per qualche uscita sporadica. Mi appiattii ancora di più alla porta. Sentii il jonin ridacchiare per la reazione di mio padre per poi smettere subito dopo.
-Dovete andarvene.- disse piatto l’uomo, come se quella che avesse detto fosse una cosa senza importanza, come se stesse chiedendo che tempo faceva fuori. Strinsi i denti e continuai ad ascoltare, ma tutto quello che seguì fu un lungo silenzio, in cui immaginai la faccia di mio padre sbiancare sempre di più, le sue mani strette a pugno, quasi volesse frenare l’impulso di prendere a pugni l’uomo davanti a lui.
-E lo dice così? Come se questo non comportasse una vita praticamente distrutta? Mia figlia… mia figlia ha subito la perdita di sua madre da poco tempo e adesso lei vorrebbe che ce ne andassimo, lasciando qua i suoi amici, per quanti pochi siano?- chiese mio padre incredulo con la voce rotta. Strinsi le labbra. In questo posto non avevo neanche un amico, le persone mi stavano alla larga a causa della mia diversità e a me stava bene così. Credo.
-Non io. Lo vuole la gente, oltre che al capo di questo villaggio e un buon capo ascolta sempre il popolo, non crede anche lei?- disse ridacchiando. Strinsi i pugni talmente forte da conficcarmi le unghie nei palmi. Sembrava quasi che gli piacesse prendere in giro mio padre. Anzi ero sicura fosse così. Professionalità zero inoltre…
-Non mi prenda per il culo.- ringhiò mio padre in un impeto di rabbia. Potevo quasi vedere il suo volto ora rosso di rabbia e i suoi occhi luccicare dalla rabbia impetuosa che teneva in corpo. Il jonin ridacchiò ancora, come se trovasse la rabbia di mio padre esilarante.
-Mio figlio è stato quasi ucciso da quel mostro che adesso è probabilmente addormentato in camera sua tranquillo come se niente fosse, dormendo sonni tranquilli mentre mio figlio è in terapia intensiva lottando per la vita. È già un’ingiustizia che la lascino andare semplicemente in un altro villaggio, anziché ucciderla seduta stante, visto il pericolo che è per le persone intorno a lei.- sibilò l’uomo a mio padre con cattiveria e rabbia. Quelle parole ammutolirono mio padre e trafissero il mio cuore, perché in fondo era una verità che sapevo e non avevo il coraggio di dire a me stessa, una verità che faceva male più di ogni altra cosa, la verità di essere un pericolo, un mostro e che quando te la sbattono in faccia senza peli sulla lingua è come ricevere una pugnalata. 
-Mia figlia non è un mostro… è stato un incidente. Se suo figlio non fosse stato così stupido da infastidire mia figlia fino a farla scoppiare, non è un problema nostro.- gli risposte non troppo convinto, perché in fondo lo sapeva anche lui che quello che aveva detto era la verità, ma l’affetto paterno che provava nei miei confronti, il fatto di essere l’unica adesso a ricordargli la mamma, lo spingeva ad arrampicarsi sugli specchi nel tentativo di difendermi da quelle accuse fondate. 
-Lei è cieco. È accecato dall’affetto che prova per sua figlia e non si rende conto del pericolo che realmente è. Domani mattina dovete fare le valigie e andarvene da questo villaggio, se sarete ancora qui allora dovremo mandarvi via con la forza…- disse sottovoce il jonin, ormai esausto quanto mio padre, che rimase in silenzio e chiese dopo un po’ dove saremmo dovuti andare. -Villaggio della Sabbia.- ottenne questo come risposta. E poi nient’altro. Sentii la porta di casa aprirsi per poi richiudersi subito dopo, lasciando solo un silenzio insostenibile, che avvolgeva i pensieri miei e di mio padre, un silenzio che avrei rotto volentieri questa volta se avessi potuto, per non sentire più il senso di pesantezza che mi opprimeva. La cosa peggiore era che non mi sentivo in colpa per ciò che avevo fatto, non mi sentivo pentita di aver mandato in terapia intensiva quel bambino, mi sentivo in colpa tuttavia per le conseguenze che avrebbero portato le mie azioni.
Mi staccai dalla porta e tornai alla finestra, dalla mia luna, dal mio cielo, stavolta con i singhiozzi trattenuti di mio padre a fare da sottofondo e i miei occhi rossi, che scrutavano il cielo, erano attratti come una calamita, ora più che mai, da quello spettacolo e le mie lacrime silenziose offuscavano la mia vista, che ormai vedeva solo un nuovo giorno all’orizzonte, una nuova vita, una nuova casa.

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


CAP 2
Ero seduta al primo posto, di fianco al grande finestrone, da cui si poteva ammirare in lontananza il bosco, chiamato dalla maggior parte dei ragazzini: “La foresta incantata”, il nome dovuto al fatto che quando ci entri puoi sentire attorno a te un alone di magia, che ti entra nella pelle fino ad arrivarti nelle ossa. Il posto è così verde e luminoso che ti da l’impressione che una qualche creatura delle fiabe possa spuntare da un momento all’altro da dietro un cespuglio. Molti dicono di aver intravisto delle ali di fata con la coda dell’occhio, di aver trovato le tane di gnomi e folletti, di aver visto dei fiori un momento prima appassiti, prendere nuovamente vita e tornare colorati e luminosi come prima, raccontano di aver intravisto nel laghetto al centro del bosco code iridescenti di sirene, di aver trovato scaglie di drago nel sentiero che porta al centro della foresta, o ancora di aver sentito alberi sussurrarsi storie antiche a vicenda, di quello che avevano visto e sentito in quel bosco centenario. Erano tutte fantasie ovviamente, ma mi piaceva pensare che esistesse veramente della magia in quel bosco e fantasticare su come sarebbe potuto essere incontrare queste creature incantate e passare del tempo con loro, anziché con le persone.
Il maestro spiegava i differenti tipi di chakra con tono piatto e atono, che faceva da soporifero alla maggior parte della classe, mentre io mi divertivo a fantasticare guardando fuori dalla finestra. In cielo le nuvole grigie talvolta passavano davanti al sole, portando ombra e non lasciando modo ai suoi raggi di illuminare la classe, dove il silenzio veniva spezzato solo dallo scribacchiare occasionale delle matite sui fogli e dalla voce del maestro.
Quando egli si girò verso la lavagna, il compagno seduto due bancate più in alto prese al volo l’occasione e mi tirò una pallina di carta dove c’era scritto qualcosa. Mi girai e lo fulminai con lo sguardo, prima di srotolare il foglio e leggere ciò che c’era scritto: “Mostro”. Questa era l’unica parola scritta su quel semplice foglietto di carta. Lo accartocciai nuovamente e resistetti alla tentazione di rilanciarglielo indietro mettendolo sotto il banco. A quei tipi di insulti ero ormai abituata e non mi facevano più effetto. È una cosa triste, essere continuamente ferita dalle parole delle persone e dire o pensare di esserci abituata. “Abitudine” una triste e brutta parola, con un significato ancor peggiore. Chiusi gli occhi e sospirai.
Mi arrivò un'altra pallina, seguita da altre in rapida successione. Presi un respiro profondo cercando di calmarmi. Non potevo perdere il controllo. Non dovevo perderlo. Dietro di me si potevano sentire chiaramente degli sghignazzi. Un calore a me ben noto incominciò a salire dal mio stomaco fino alla testa e, senza neanche accorgemene, cominciai a grattare il banco di legno lucido con l’unghia, creando dopo alcuni secondi un solco.
Guardai l’orologio posto sopra la lavagna: le 12: 25. Dovevano passare ancora due ore per poter tornare a casa, per uscire da quel luogo orribile. Le risatine dietro di me continuavano, si arrestavano di colpo solo quando il maestro si girava verso la classe per riportare il silenzio, per poi ricominciare pochi istanti dopo, facendo aumentare la mia rabbia e irritazione. Quelle risate mi entravano in testa, creavano echi dentro la mia mente, che si surriscaldava sempre di più col passare dei secondi, e si disperdevano susseguiti da altre risate e prese in giro.
Una pallina intrisa di saliva mi arrivò in testa, bagnandomi i capelli color bianco avorio. Schifata, presi la pallina e la buttai per terra. Guardai la mia compagna di banco con la coda dell’occhio, il viso contratto nel tentativo di reprimere il riso, gli occhi puntati sul banco, cercando insistentemente di non incrociare il mio sguardo, che sapevo, lei sentiva addosso come un macigno. Adesso basta…
Sbattei violentemente una mano sul banco, creando un tonfo che si disperse nell’aula fino a scomparire in un eco lontano. Immediatamente tutte le voci, compresa quella del maestro, si zittirono e sentii puntati addosso a me una ventina di occhi. Io lo sapevo, io lo sentivo, tutte le persone in quell’aula erano terrorizzate. Ridacchiai, potevo sentire perfettamente la loro paura, il loro terrore, memori di quel che successe l’ultima volta, spruzzare dai loro pori e io mi nutrivo di quella paura, diventavo più forte grazie ad essa, inebriava i miei sensi rendendoli più acuti. Alzai gli occhi verso la mia compagna di banco e lei l’unica cosa che riuscì a fare fu alzarsi di scatto e urlare, creando il panico generale, per quello che vide sul mio volto, un sorriso folle lo distorceva, dai miei occhi, completamente neri, usciva un liquido altrettanto scuro, più del catrame, più del cielo senza le stelle. Decine di urla si unirono alle sue mentre la maggior parte dei loro proprietari si dirigevano verso la porta, cercando una via di fuga, cercando un modo di scappare da me, come ovvio farebbe una qualsiasi normale persona con un briciolo di intelligenza o istinto di sopravvivenza. Non erano loro tuttavia le persone che mi interessavano maggiormente.
Mi guardai intorno cercando i soggetti che mi interessavano. Le persone si accalcavano sulla porta urlando e strepitando cercando di uscire per primi, per salvarsi per primi, non badando minimamente ai rapporti che avevano con quelli che spintonavano. Tipico, quando la propria sicurezza è messa a rischio non ci si preoccupa più degli altri, ma solo di se stessi. Provai tristezza e disgusto in quel momento, avendo l’ennesima prova di quanto fossero meschini, egoisti e egocentrici gli esseri umani. Non vidi i ragazzini che mi interessavano nella folla.
Notai una chioma di capelli neri sotto un banco. Sorrisi. Trovato. Con un semplice gesto della mano  sollevai il banco, facendolo schiantare per mio volere contro la parete. Un kunai con attaccata una carta bomba mi si diresse contro a rapida velocità; mi chiesi dove l’avesse recuperata. Un esplosione rimbombò per tutta la classe, perforandomi i timpani e creando una  nube di fumo denso e nero, senza tuttavia crearmi alcun danno serio. Risi, vedendolo poi emergere da quel fumo con un kunai in mano, pronto ad attaccarmi, con lo sguardo di chi era sicuro di potercela fare. Che sciocco. Un altro gesto della mia mano e lo bloccai a mezz’aria. Gli sorrisi, provando tenerezza per quell’attacco tanto ovvio quanto stupido, e lo sbattei con violenza contro il muro con un altro gesto, sentendo le sue ossa rompersi nell’impatto, sentendo il suo respiro mozzato da quel colpo violento, che l’unica cosa che poté pronunciare furono solo versi gutturali al posto delle urla di dolore. Il sangue sgorgava dalla sua bocca e dalle sue ferite ed io non provai alcuna pena vedendolo in quello stato. Forse fu proprio questo il motivo per cui mi fermai: per paura. Una paura verso me stessa, verso ciò che ero diventata a causa della mia perdita di controllo, a causa della mia freddezza e del mio sadismo verso quel ragazzo. Lo liberai dalla mia presa, facendolo cadere a terra con un tonfo e mi diressi verso la finestra da cui arrivavano molteplici voci, non curandomi più di quel ragazzino.
La mia vista cominciò ad offuscarsi e sentii che la rabbia era evaporata, come il mio autocontrollo poco prima. Sospirai pensando che quella volta neanche mio padre avrebbe potuto far qualcosa per proteggermi. Una luce argentea si propagò dinanzi ai miei occhi, accecandoli e costringendomi a chiuderli, proteggendomi anche con le mani, per poi farmi svegliare con un vago sentore di malessere verso me stessa, e ritrovare nella mia stanza dai muri bianchi e spogli, senza più quelle tante decorazioni con cui l’avevo arredata negli anni. Era ora di partire.
 
Nota dell’autrice:
Ciao a tutti! Ed eccoci qua in questo nuovo capitolo della mia primissima fan-fiction, dove ho deciso di “spiegare” gli avvenimenti che hanno costretto la protagonista e suo padre ad andarsene dal loro villaggio natale, tanto per mettere un po’ di chiarezza.
Ringrazio di cuore le persone che hanno deciso di seguirmi e coloro che hanno recensito: grazie! *^*
Dal prossimo capitolo verranno svelate alcune cose sulla protagonista e ci saranno anche nuovi personaggi, che nuovi in realtà non sono e beh, detto questo al prossimo capitolo!

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


CAP 3
Arrivammo alla meta designata quattro giorni dopo un lungo, silenzioso ed estenuante viaggio, con due jonin del Villaggio della Sabbia a farci da scorta che non erano di certo loquaci. Per tutto il viaggio avevo sentito sulla mia pelle il loro disagio, il loro astio, verso di me. Un astio che forse nascondeva solo timore, una paura recondita in loro che magari non si accorgevano neanche di avere. Non potevo di certo dargli torto visti i recenti avvenimenti, l’unica cosa che potevo fare era sopportare. Questi loro sentimenti nei miei confronti avevano portato in mezzo al gruppo, oltre che un alone di disagio generale, un silenzio che potevi respirare, ti entrava nelle ossa, minacciava di soffocarti, ed era impossibile per me e mio padre romperlo, se non per qualche sporadica ed essenziale domanda seguita da una loro breve risposta: “si”, “no”, “manca poco ad arrivare”. 
Non era difficile capire perché mi avevano spedito al Villaggio della sabbia, luogo dove risiedeva il Kazekage e la sua famiglia, di certo non avevano scelto a caso quella destinazione, l’avevano scelta probabilmente per richiesta dello stesso Kazekage. Per osservarmi, studiarmi, capire se ero troppo pericolosa per lasciarmi in vita, per capire fino a dove arrivavano le mie capacità e allenarmi per farmi diventare più forte e per insegnarmi a controllare i miei istinti. Come si poteva tenere a bada un istinto? Soprattutto uno così forte come la rabbia, il fattore principale che mi faceva perdere del tutto il controllo e la lucidità. Non era possibile. Tuttavia dovevo riuscirci, dovevo imparare, non solo per il mio bene, ma anche per quello di mio padre.
Eravamo arrivati al villaggio da un paio di giorni, sufficienti per capire come andavano le cose all’interno di esso e per farmi desiderare di non incontrare più nessuno. Le notizie giravano velocemente e da bocca a bocca la notizia del mio arrivo era arrivata a tutti e insieme ad essa anche la notizia dell’incidente avvenuto nel mio villaggio natale, il Villaggio d’Inverno. Il nome era dovuto al costante freddo che portava con sé neve, vento e pioggia. Solo un mese su dodici si poteva dire di essere in estate e anche in quel breve periodo, un vento freddo ti sferzava la pelle costringendoti a mettere vestiti pesanti. Comunque adesso si poteva anche dire che la gente aveva paura di me. La maggior parte delle persone quando passavo aprivano un varco, lasciandomi così passare, e mi fissavano con diffidenza, stringendo a sé i propri figli, come se fossero pietre di inestimabile valore ed io il ladro che poteva portarglieli via in un loro momento di distrazione. Cercavo di non badarci più di tanto, ma quella situazione stava divenendo fastidiosa, mi veniva quasi voglia di urlare in mezzo alla strada: “guardate che non ho la lebbra e non sono pericolosa!”. Tuttavia mi rendevo conto che farlo non avrebbe portato a nulla se non a spaventare e intimidire le persone attorno a me, rendendo la mia fama ancor peggiore. Quindi restavo buona e sopportavo in silenzio, nonostante dentro me avessi voglia di urlare.
-Shika, hey?- la voce squillante e fastidiosa di Nensi, l’unica persona in tutta l’accademia che mi aveva rivolto la parola, e che avrei preferito non lo avesse mai fatto, mi arrivò alle orecchie facendomi sussultare sul posto. -Terra chiama Shika?! Sai dovresti ascoltare quando la gente ti parla, è maleducazione non farlo!- continuò con tono cantilenante. Mi guardai intorno accorgendomi che tutti i miei compagni se n’erano andati.
La guardai infastidita e sospirai esasperata. Fin dal primo giorno era venuta da me con al suo seguito altre due ragazzine, di cui non mi ero premurata neanche di ricordare i nomi, per farmi “capire come funzionavano le cose là dentro”. Non c’è neanche bisogno di dire che quasi le risi in faccia quel giorno, e quel mio gesto, secondo lei, e di conseguenza anche per le sue “amiche”, significava guerra aperta. 
-Cosa c’è adesso Nensi? Conoscendoti sei venuta qua per distruggere la mia tranquillità.- le chiesi cercando di rimanere calma. Avevo promesso al maestro Baki, un uomo dall’espressione dura e severa che non lasciava trapelare nulla, che avrei cercato di controllarmi. Più che a lui l’avevo promesso a me stessa a dir la verità. Baki si occupava dei miei allenamenti per ordine del Kazekage, e non erano rare le volte in cui, secondo me, avrebbe desiderato poter rifiutare quell’ordine. C’ero anch’io il giorno in cui il kage gli aveva dato quell’ordine. Io e mio padre. Ci aveva convocati entrambi il terzo giorno del nostro arrivo, con nostra sorpresa, per conoscere me… 

Flashback  
Il Kazekage, metà volto coperto da un velo nero e gli occhi di chi sapeva di aver trovato un tesoro antico e prezioso, iniziò a parlare eccitato con voce profonda:
-Sono lieto che abbiate accettato di trasferirvi al Villaggio della Sabbia.- in realtà non avevamo avuto scelta, e lui lo sapeva benissimo. Tenni questo pensiero per me per non risultare sgarbata. -Spero che vi troviate a vostro agio nella vostra nuova abitazione.- nessuno disse nulla e lui continuò spostando la sua attenzione su di me -E questa deve essere la piccola Shika! Quando sono venuto a sapere delle tue capacità ho subito desiderato di poterti conoscere e adesso eccoti qua…- lo guardai nei suoi occhi scuri e profondi, che mi risucchiavano in vortice nero e senza via d’uscita. Mi sentii a disagio a guardarlo. Distolsi lo sguardo. 
-Vorremmo sapere perché ci ha convocati signor Kazekage se non le dispiace…- disse mio padre con quanta più educazione possibile, sapendo bene quanto me nonostante tutto il motivo di quel colloquio. 
-Oh, giusto. Beh vedi vi ho convocati per tastare e comprendere le capacità di tua figlia. Da quanto sono riuscito a capire la bambina non utilizza nessun tipo di chakra, sembra quasi avere dei poteri… soprannaturali.- ridacchiò in un modo che mi fece rabbrividire. A dir la verità neanche io sapevo da dove provenivano i miei poteri, da quanto riuscivo a ricordare li avevo sempre avuti. Mio padre mi raccontava che da piccola riuscivo a spostare gli oggetti che guardavo senza toccarli, che avevo rotto un paio di finestre quando mi arrabbiavo, sempre senza toccare nulla, e che avevo da sempre avuto una forte empatia nei confronti delle persone. Un’empatia che provavo tuttora e che talvolta mi faceva stare male.
-Beh… non sono niente di particolare, ne sono sicuro. Probabilmente altri nel nostro mondo avranno le sue stesse capacità…- rispose mio padre poco convinto cercando di sminuire i miei “poteri” per proteggermi.
-Eppure non mi è giunta voce alcuna di soggetti in grado di utilizzare il suo potere e anche se ci fossero devono essere molto rari. Comunque, vorrei poter vedere fino a dove, e da dove, arrivano le sue capacità con i miei stessi occhi. Forse potresti superare in abilità persino Gaara, sperando tu possa acquisire più autocontrollo col tempo.- disse spostando la sua attenzione su di me. A quel nome sussultai e lo guardai negli occhi, parlando per la prima volta da quando ero lì.
-Gaara?- 
-Sì, mio figlio. Voi vi siete già incontrati tempo fa se non sbaglio, giusto? Ricordo che gli donasti un orsacchiotto di peluche. Fino a due anni fa se lo portava sempre dietro quasi fosse un tesoro di inestimabile valore.- disse lui con finta indifferenza abbandonandosi per un attimo ai ricordi del passato. L’immagine di un bambino, dai corti e rossi capelli sbarazzini, che sorrideva felice mi saltò alla mente di prepotenza. Ricacciai indietro l’immagine e i ricordi per mantenere un contegno di fronte al Kazekage. Non mi ero mai scordata di Gaara e ricordo che soffrii molto quando dovetti tornare al mio villaggio d’origine.
-E, se posso permettermi, come sta adesso Gaara?- chiesi titubante. Avrei voluto vedere come era cambiato in quegli anni, adesso che mi sarei stabilita al Villaggio della Sabbia avremmo avuto più tempo per parlare e stare insieme. Ero felice di conoscere qualcuno in quel posto “nuovo” per me.
-Beh, se ne sta sempre da solo, è diventato più freddo e solitario…- non mi sembrava molto interessato a suo figlio -Ma non parliamo di lui, parliamo di te invece.- riprese con più entusiasmo -I tuoi allenamenti saranno seguiti da Baki.- indicò con un gesto della mano l’uomo che non aveva proferito parola per tutto il tempo ed era rimasto a fissare il Kazekage con sguardo assente. Aveva i lineamenti duri di chi aveva addosso anni di esperienza e sofferenza, metà volto era coperto da una tendina, probabilmente per coprire una cicatrice o la perdita dell’occhio destro in battaglia e dal suo sguardo non trapelava alcuna emozione. Baki mi guardò con sguardo severo ed io mi limitai a fargli un cenno di saluto con la testa guardandolo. Il Kazekage ricominciò a parlare, a chiedere cosa riuscivo a fare, ma io a quel punto non lo ascoltavo già più, avevo solo una cosa in testa: Gaara. Volevo rivederlo, parlargli, chiedergli come se l’era passata in quegli anni da solo. 
Io e mio padre eravamo giunti al Villaggio della Sabbia quattro anni prima per comprare delle medicine a mia madre, malata di cancro al cervello. Il medico non aveva le medicine necessarie e non poteva allontanarsi dal villaggio, in quanto i pazienti che aveva non poteva abbandonarli e mio padre, non accettando il fatto di vedere sua moglie star più male del solito, era partito assieme a me alla volta del Villaggio della Sabbia. Saremmo dovuti rimanere là una settimana. Sette giorni lontani da casa, da mia madre, dalla familiarità di quel bosco che aveva ascoltato i miei pianti, le mie risate e le mie nenie.
Facendomi un giro per il villaggio, notai un bambino con profonde occhiaie e capelli rossi seduto su un’altalena in compagnia della sua solitudine, che fissava il vuoto con sguardo assente e triste. Quel giorno mi avvicinai a quel bambino e, con un sorriso sul mio volto e uno sguardo di sorpresa e scetticismo sul suo, conobbi Sabaku no Gaara. Da quel giorno ci incontrammo sempre in quel luogo, un luogo di ritrovo che avevamo scelto silenziosamente, senza dirci nulla, consapevoli inconsciamente che ci saremmo rincontrati sempre in quel parco. 
Con me avevo sempre l’orsacchiotto che mia madre mi aveva regalato prima di venir colpita dal cancro, ci tenevo molto, erano racchiusi in quel peluche tutti i sentimenti che mia madre provava per me, portava addosso il suo profumo di pesca, ed era morbido quanto i suoi capelli biondo platino. L’ultimo giorno del mio soggiorno al villaggio, decisi comunque di lasciarlo a Gaara, un oggetto che avremmo sempre riconosciuto come nostro, e che avrebbe racchiuso il sentimento della nostra amicizia. Un oggetto che non era un semplice oggetto, bensì un’urna contenente tutte le sensazioni, emozioni, parole, segreti, sogni e tanto altro. Un oggetto intriso di cose eteree, che sapevano di eternità. 

Quel giorno lo lasciai, facendo la promessa silenziosa che sarei tornata un giorno. E adesso eccomi qua. Non avevo ancora nemmeno intravisto l’ombra di Gaara, mi chiesi quante volte fosse tornato in quel parco, per rivivere i bei momenti passati insieme. Dovevo farci un salto quello stesso giorno.
Nensi fece una risata che non avrebbe potuto essere più falsa, riportandomi bruscamente alla realtà. 
-Non dovresti fare la spiritosa in questo modo.- disse tentando di intimidirmi. Mi chiesi se avesse un cervello sotto quei capelli castani liscissimi, arrivando alla conclusione che non l’aveva.
-Dico solo quello che penso, non è fare la spiritosa. Comunque non hai risposto alla mia domanda.- le risposi perfettamente calma.
-Oh già. Volevo solo dirti che oggi dovrai pulire tu l’aula, io ho delle cose molto importanti da fare e non posso di certo stare qui!- ogni giorno facevamo a turno per pulire la classe, oggi era il turno di Nensi e se pensava che avrebbe saltato il suo turno si sbagliava di grosso, soprattutto se voleva far fare tutto a me.
-E cosa avresti di così importante da fare? Truccarti, smaltarti le unghie? O infastidire qualche ragazza che non si sottomette a te tanto facilmente?- lei sbuffò infastidita per questa mia risposta. 
-Quello che faccio non ti interessa, quello che devi sapere è che devi pulire l’aula tu oggi.- disse guardandomi con sfida e presunzione. Avevo perso anche troppo tempo con lei. Le sorrisi alzandomi. Presi la mia roba e con nonchalance la superai non aggiungendo altro e, uscendo dalla classe, sentii dirmi con voce che voleva essere minacciosa e velenosa un “te ne pentirai”. Già tremo di paura, pensai sarcastica.
***
Come da piani, raggiunsi il parco dove tempo avevo giocato, parlato, assieme a Gaara. Mi guardai intorno, era tutto come quattro anni prima, nulla era cambiato. La sola differenza era quello che provavo a stare in quel posto. Sentivo che tutto era cosparso da un alone di malinconia, di una felicità effimera passata troppo presto. I ricordi erano rimasti in quel parco, quasi potevo sentire le risate, che rendevano quel parco spoglio e arido un po’ più allegro. Tutto era arido, neanche un filo d’erba spuntava dalle crepe del terreno, e il silenzio veniva rotto solo dal cigolare delle altalene, mosse da degli sporadici soffi di vento caldo. Ricordai che era proprio su quelle altalene che Gaara mi parlò del motivo della sua  solitudine e del suo dolore…

-La gente mi evita e ha paura di me per quello che mi porto dentro, persino mio padre e i miei fratelli hanno paura di me… solo mio zio Yashamaru si prende cura di me e mi dona affetto e consigli, ma mi rendo conto che il suo affetto non compete con l’odio che mi riservano gli abitanti di questo villaggio. Il dolore nel mio petto non smette mai di farsi sentire.- mi disse mentre fissava con insistenza a terra, timoroso di incrociare il mio sguardo e di scoprire che non lo comprendevo.
-Ti capisco più di quanto tu creda. La nostra situazione è molto simile, anche io vengo sempre evitata e maltrattata nel mio villaggio. Tuttavia penso che il dolore che proviamo ci rende più forti, anche se vorremmo non provarlo mai. Secondo me bisogna far di questo dolore la nostra più grande forza, per andare avanti e non perdere la speranza, per scoprire che qualcuno ci comprende e rimarrà al nostro fianco nonostante tutto. Può essere difficile smettere di crederci, ma se perdi la speranza e ti chiudi in te stesso, non potrai scoprire il buono che c’è in certe persone.- lo guardai con un sorriso -Non credi Gaara?-
E lui finalmente mi guardò. Una scintilla si accese nei suoi occhi acquosi marchiati dalle occhiaie, e mi sorrise felice. Risi e alzandomi gli tesi la mano.
-Andiamo Gaara!-

Sorrisi a quel ricordo. Io e Gaara comprendevamo l’uno il dolore dell’altro, da questo era scaturita la nostra amicizia. Condividevamo il fatto di stare male, ci capivamo e ci ascoltavamo, questo ci univa e ci avrebbe uniti anche in futuro. Io alle parole che avevo detto a Gaara ci credevo e ci credo ancora, non ero riuscita a trovare nessuno fino a quel momento, a parte lui, che mi capisse, ma dovevo continuare a provare. Forse qualcuno c’era, anche in quel villaggio, che mi sarebbe rimasto vicino. Dovevo solo trovarlo.
Mi sedetti su una di quelle altalene, mentre il sole cominciava a calare dietro le case, andando a violentare altre notti. Rimasi a guardare assorta il tramonto, pensando che non bisognava andare molto lontano per godersi uno spettacolo mozzafiato. Pensavo a tutte quelle persone che non avevano neanche il tempo di rimanere a goderselo e  a quelle che non riuscivano ad emozionarsi dinanzi a uno spettacolo simile, provavo tristezza e pietà per loro.
Sentii dei passi dirigersi verso di me. Per un momento pensai, sperai, fosse Gaara, ma voltandomi riuscii a vedere solo del fumo, il che voleva dire che qualcuno vedendomi aveva utilizzato una tecnica per andarsene velocemente. Mi chiesi chi fosse e perché avrebbe dovuto andarsene vedendomi.
Il sole era calato portando con sé la notte, la luna, le stelle e un vento fresco che si poteva sentire solo di notte. Ma quel freddo che sentivo dentro a cosa era dovuto? Scossi la testa cercando di distrarmi e tornai a casa.

Nota dell’autrice
Ehilà! Finalmente si è scoperto il nome della giovane protagonista. Non credo che ci siano molte fan fiction dove per svelare un nome occorrono tre capitoli, forse solo la mia TuT
Il nome “Shika” sarebbero due parole giapponesi unite: “shi” che è “morte” e “aka” che è “rosso”. In pratica il nome della protagonista sarebbe “morte rossa”. Il nome dovuto ai suoi occhi rossi, che, secondo la gente del Villaggio d’Inverno, avrebbero portato solo morte e distruzione. 
Beh, alla prossima, fatemi sapere cosa ne pensate di questo capitolo, mi fa sempre piacere leggere le vostre recensioni e i vostri consigli! ^^

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