Alla Luce del Sole

di Cioppys
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Disclaimer
Tutti i personaggi appartengono all’immenso Inoue-sensei.

Sproloqui di un’autrice
La seguente fan fiction fu pubblicata per la prima volta alcuni anni fa su altri siti. Nonostante la trama non sia cambiata molto, il testo è stato completamente riscritto: era pesante, poco scorrevole e infantile, tanto che io stessa, nel rileggere l'originale, ho faticato ad arrivare in fondo. Era anche la mia prima fan fiction, per cui la trama non brilla certo di originalità, e non ha nemmeno aiutato la scelta di impostarla dal punto di vista di Hanamichi, un personaggio che non credo di aver interpretato al meglio a causa del carattere non proprio nelle mie corde da riuscire ad immedesimarmi in lui come si deve. La speranza è che sia comunque una piacevole lettura se, nonostante le premesse, deciderete di leggerla!
Buona Lettura.

~ * ~ * ~ * ~

 

Alla Luce del Sole
di Cioppys

 

Capitolo 1

31 Dicembre. Notte di Capodanno.
Mi affaccio alla finestra, sul cui vetro si addensa il mio respiro. Osservo spensierato i fiocchi cadere dal cielo e posarsi su ogni cosa. Tutto è bianco e omogeneo. E’ una serata fredda, ma non resterò chiuso in casa, sdraiato sul tatami ad osservare svogliato la tv. In centro si terrà una festa per celebrare l’arrivo del nuovo anno, ed è lì che trascorrerò le prossime ore in sua compagnia.
Esco di casa che sono da poco passate le nove.
Anche se ha smesso di nevicare e l’aria non è così fredda come pensavo, sono ben coperto dal mio piumino nero, il cappello di lana in testa e una sciarpa intorno al collo, entrambi rosso fuoco. Tengo le mani al caldo in tasca: non sopporto di indossare i guanti.
Lungo la strada, di tanto in tanto, mi volto a guardare le orme che lascio nella neve fresca, come segno del mio passaggio. E in quei momenti ripenso agli ultimi mesi passati in clinica per la riabilitazione alla schiena. E’ stato un periodo duro, ma ormai sono completamente guarito e presto potrò tornare sul campo da gioco.
Sono impaziente. Non vedo l’ora di quel giorno.
Ma è davvero solo voglia di giocare di nuovo? O il motivo è un altro?
Sbuffo. Ultimamente ho strani pensieri per la testa.
Dovrei essere felice per come mi stanno andando le cose – sono insieme alla persona che amo, riprenderò a giocare a basket – eppure è come se mancasse qualcosa, o che ci sia qualcosa di sbagliato. Ci sono momenti in cui mi sento tremendamente insoddisfatto, di tutto e di tutti, e fatico a capirne il motivo.
Scuoto la testa e mi libero da questi pensieri nell’attimo in cui oltrepasso il cancello di casa sua.
Arrivo alla porta e suono il campanello. Passano alcuni secondi, poi l’uscio si apre e mi ritrovo il Gorilla a fissarmi storto. A lui non è ancora andata giù l’idea che io stia insieme a sua sorella, proprio non riesce a digerirlo.
«Ah, sei tu» mi dice contrariato, appoggiandosi alla porta.
I miei occhi si assottigliano in due fessure. «E chi credevi che fosse, scusa?».
«Chiunque andava bene, a parte te».
Sbuffo. Avrei voglia di rifilargli una testata, ma mi trattengo. Rimane pur sempre il fratello della mia ragazza.
«Tua sorella è pronta?» chiedo, allungando il collo e osservando l’ingresso alle sue spalle.
«Aspetta qui» mi risponde, richiudendomi la porta praticamente in faccia.
Che gran maleducato! Neanche mi fa accomodare! Mi lascia qui fuori al freddo a congelare!
Sento la voce del Gorilla che chiama la sorella, poi dei passi che scendono le scale. La porta si spalanca e vedo il suo viso sorridente.
«Ciao Hanamichi!». Con un salto, mi butta le braccia intorno al collo e mi da un fugace bacio.
«Harukina cara!» rispondo, sorridendo come un ebete. «Allora, sei pronta?».
«Prendo il cappotto e sono da te!».
La osservo rientrare in casa mentre ripenso al giorno in cui sono riuscito a dichiararmi.
Sembra passato un secolo, eppure è accaduto solo qualche mese fa.

[Flashback]

Finalmente mi hanno dimesso e, più in forma che mai, mi dirigo allo Shohoku.
In questo periodo trascorso in clinica ho avuto molto tempo per pensare, a me, al basket, a cosa desideri davvero, e alla fine ho deciso di dichiararmi ad Haruko! Ci siamo scambiati spesso delle lettere, raccontandoci stralci di vita quotidiana, dei miei miglioramenti, dei progressi della squadra, in cui è entrata a far parte in qualità di seconda manager. E’ indubbio che il nostro rapporto sia passato ad un livello superiore, sia più intimo e confidenziale.
Quando entro in palestra, mi fermo sulla porta ad osservare i miei compagni che, presi dall’allenamento, non si accorgono della mia presenza. Sorvolo su tale affronto, non si può certo ignorare il Genio, ma in fondo devono farne di strada per arrivare al mio livello, quindi è più che giusto che sputino sangue!
Divisi in due squadre, stanno facendo una partita: da una parte quella del Gorilla, composta dai membri del terzo anno e alcuni del secondo, dall’altra quella di Ryota, composta dai restanti del secondo anno e quelli del primo.
In quel momento è il Quattrocchi ad avere la palla: avanza per il campo mentre i compagni raggiungono le loro posizioni. Il Gorilla, che come sempre si trova al centro, è marcato da Rukawa. Chiama la palla e Kogure gliela lancia, ma la stramaledetta Volpe riesce ad intercettare il passaggio e inizia il contropiede. Quando arriva nell’area avversaria Mitsui tenta di fermarlo, ma lui, con una finta, riesce a liberarsi della guardia e andare a canestro con una schiacciata.
Dannazione! Quella maledetta stupida Volpe si deve sempre mettere in mostra!
Mentre raccoglie la palla, Rukawa si volta dalla mia parte e mi vede.
«Hanamichi».
E’ solo un sussurro, talmente lieve che non arriva alle mie orecchie, ma dal movimento delle labbra capisco che mi ha chiamato per nome. E da quando in qua la Volpe mi chiama per nome?! Rimango così sbalordito a fissarlo, fermo come uno stoccafisso, che non mi rendo conto del resto della squadra intorno a me.
«Hanamichi! Allora ti hanno dimesso!» mi dice Ryota, dandomi una pacca sulla spalla.
Quel gesto mi scuote, facendomi tornare con i piedi per terra. Nonostante ciò, non riesco a togliermi dalla testa quello che ho appena visto. E’ come un tarlo che scava in profondità, e non c’è modo di fermarlo.
Cerco di dissimulare eventuali sospetti, esplodendo nella mia solita risata. «Eh si, il Genio è tornato!» esclamo, mettendomi in posa: gambe divaricate, mani sui fianchi e testa alta. «Ma per vedermi all’opera dovrete aspettare l’anno nuovo. Riuscirete a resistere fino ad allora senza la vostra punta di diamante?».
«Stai sicuro che ce ne faremo una ragione!» ribatte Mitsui, sarcastico, con quel ghigno in faccia che mi viene voglia di cancellare a suon di calci.
Le domande si susseguono incessanti, fino a quando il Gorilla non richiama tutti all’ordine e riprendono l’allenamento.
E’ a questo punto che mi accorgo di una persona rimasta in disparte, la quale non si è degnata nemmeno di rivolgermi la parola. Ok, non che normalmente lo faccia, sia chiaro, ma è strano, quasi innaturale, che da quando ho iniziato a dispensare il verbo del Genio non abbia sentito anche solo un “do’aho”.
Guardo Rukawa che, faccia espressiva come un muro dipinto di bianco, mi osserva da sotto il canestro dove l’ho visto raccogliere la palla, mentre con il collo della maglietta si asciuga il sudore sul mento.
Non so perché, ma un brivido mi corre lungo la schiena.
L’arrivo di Haruko al mio fianco mi riscuote da pensieri che, definire bizzarri, è poco. Parliamo del più e del meno,  quando decido che è giunta l’ora. E’ la mia occasione.
«Senti Haruko, possiamo parlare un attimo in privato?» e sfodero uno dei miei migliori sorrisi.
Lei acconsente e ci accingiamo ad uscire insieme dalla palestra. Mentre varchiamo la porta, succede qualcosa di decisamente fuori dall’ordinario di cui, forse, solo io mi accorgo: Rukawa manca un canestro che pure mia nonna, che neanche sa come è fatta una palla da basket, avrebbe infilato. Ciò che però mi turba più di ogni altra cosa è quel perenne sguardo inespressivo che mi segue fino a che non esco dalla sua visuale.
Con una scrollata di spalle, mi tolgo dalla testa quella maledetta Volpe.
Mi fermo con Haruko vicino ad un albero, a ridosso della cancellata che delimita il confine della scuola. Nonostante sia ormai autunno inoltrato, il sole è ancora caldo, ma i rami da tempo si stanno spogliando delle foglie, ora ammucchiate una sulle altre a terra. Vibro un calcio ad un cumulo, scostandone alcune, mentre penso a come iniziare il discorso. E’ assurdo: ho passato notti intere a cosa dirle ed ora non riesco a proferire una parola.
«Cosa volevi dirmi?» mi chiede lei, interrompendo quel silenzio così imbarazzante.
«Ecco io…» farfuglio, passandomi una mano tra i capelli corti.
Avevo pensato di farli ricrescere, ma così sono più comodi e non mi stanno affatto male.
Lei mi guarda ma non capisce. E’ strano che non si sia mai accorta dei sentimenti che provo nei suoi confronti. Che sia ancora invaghita di quel ghiacciolo? E perché mai dovrebbe desiderarlo quando può avere al suo fianco il Genio incontrastato del basket, e non solo? Ma soprattutto… perché sto ancora pensando a quella stupida Volpe?
Sospiro e prendo coraggio. Non posso più rimandare.
«Haruko, tu mi piaci! Vuoi diventare la mia ragazza?».
Dalla foga non mi rendo conto nemmeno di urlare, tanto da far sobbalzare di un passo indietro la ragazza a cui mi sono appena dichiarato. Mi guardo intorno nella speranza che nessuno mi abbia sentito, speranza che si dissolve come neve al sole nel momento in cui noto sulla porta della palestra tutta la squadra e quei cretini dei miei amici.
«Certo che ce ne hai messo di tempo!» è il commento di un sorridente Yoehi.
«Ma proprio mia sorella…» sbuffa il Gorilla, contrariato all’idea di noi due insieme.
Nel frattempo Haruko ed io stiamo contando i sassolini del terreno, entrambi con una faccia dello stesso colore dei miei capelli. Che diamine! Se non fosse che attendo una risposta, avrei già preso a testate tutti quanti!
«Beh, forse è meglio tornare ad allenarci!» dice Ryota rivolgendosi agli altri e invitandoli ad entrare, ma prima di sparire dietro la porta mi fa un occhiolino.
Rimasti soli, è il silenzio che prende il sopravvento. Un lunghissimo silenzio. Un’eternità.
«Sai Hanamici» mi dice ad un tratto, torcendosi le mani davanti al petto. «Ultimamente ti ho pensato spesso e, come dire, ho iniziato a guardarti in modo diverso».
Sono quasi sorpreso quando la vedo fare un passo nella mia direzione. Dal canto mio, mi viene stranamente naturale accorciare quella distanza, metterle le mani sulle spalle e chinarmi in avanti, forse perché è una scena che ho immaginato infinte volte. Poco dopo le sue labbra si posano sulle mie: sono calde e vellutate.
Pero…
Si, perché c’è un “però”.
Il mio cure non sta scoppiando di gioia come ho sempre immaginato. Sono contento, davvero, ma non sento quello sfarfallio allo stomaco di cui spesso parlano, né tanto meno le gambe cedermi dall’emozione.
Ignoro tali mancanze, considerandole del tutto soggettive, mentre sposto una mano sul collo di Haruko e, inclinandole lievemente il capo, approfondisco il nostro primo bacio.

Finiti gli allenamenti, Ryota mi raggiunge ad uno degli ingressi della palestra dove mi sono fermato a parlare con quei nullafacenti della mia banda. Il fatto che Haruko sia al mio fianco dovrebbe già essere un indizio di come sia andata, ma si sa, il Nano a volte è un po’ tardo!
«E bravo il nostro Hanamichi!!» commenta, dandomi una pacca sulla spalla.
Io esplodo nella mia fragorosa risata, mostrando il simbolo della vittoria con una mano. Tutti si voltano, chi – come il Quattrocchi – con un sorriso sulla faccia felice per me, chi – come il Teppista – scuotendo la testa per schernire inutilmente il Genio, chi – come il Gorilla –  con una smorfia per nulla contento di quella unione.
Tutti si voltano, vero.
Tutti tranne uno.
Rukawa, in piedi a bordo campo, prende il suo asciugamano da una delle sedie e s’incammina verso gli spogliatoi, scontrandosi spalla a spalla con Mitsui durante il tragitto.
«Ehi! Guarda dove vai!» lo riprende il senpai.
Nessuna risposta, non un “Mh!”, non uno sguardo glaciale.
In lontananza si sente la porta degli spogliatoi sbattere.
Ok, sono un attimo perplesso. Oltre a questo strano comportamento e quel canestro mancato, mi rendo conto solo  ora che oggi non mi ha ancora dato del “do’aho” nemmeno una volta. Eppure di opportunità ne ha avute diverse.
No, non è proprio da lui.
Con la domanda “perché cazzo lo stai facendo” che mi frulla con insistenza in testa, lo seguo negli spogliatoi, trovandolo seduto su una panca, di spalle all’entrata, testa sorretta dalle mani e gomiti appoggiati sulle ginocchia.
«Ehi stupida Volpe!» lo chiamo.
Lui rimane nella stessa posizione, il petto che si allarga e stringe seguendo il ritmo del respiro.
«Hai perso la parola? O finalmente hai capito che il Genio non può essere superato e issi bandiera bianca?».
«Do’aho».
Una sola parola, detta con stizza, che basta a farmi perdere le staffe.
«Se devi insultarmi, abbia almeno il coraggio di guardarmi in faccia!» gli urlo.
Con un passo gli sono addosso: lo afferro per una spalla e lo costringo a voltarsi, pronto a calare il pugno sulla sua faccia tosta. Lui però si libera della mia presa e si alza di scatto, puntandomi addosso quei suoi occhi di ghiaccio.
Ma, stavolta, non è gelida indifferenza quella che mi inchioda sul posto. E’ rabbia, pura e semplice.
Io rimango di stucco, incapace di dire o fare qualsiasi cosa, tanto sono meravigliato da quella espressione.
Rukawa prende la sua borsa abbandonata a terra ed esce, sbattendo nuovamente la porta.

[Fine Flashback]

Sento tirare una manica del mio piumino nero.
«Ehi, Hanamici!» mi chiama Haurko. «Io sono pronta. Andiamo?».
La guardo e, dopo un istante di smarrimento, ricordo dove sono e cosa stavo facendo.
«Ah! Scusami, ero sovrappensiero» dico, passandomi una mano tra i capelli corti per nascondere l’imbarazzo.
«Ho notato!» ride. «A che stavi pensando?».
Già, a che stavo pensando?
«Nulla di speciale!» le rispondo, scuotendo la mano aperta nel tentativo di minimizzare.
Più di una volta ho ripercorso quella giornata, e non per ricordare la dichiarazione che feci alla mia attuale ragazza. Rukawa non era il solito Rukawa. E, per quanto illogico sia, quel comportamento non riesco a togliermelo dalla testa. E, soprattutto, non riesco a capirne il motivo.
Dopo quell’evento, a scuola non di rado ci siamo incrociamo nei luoghi più disparati – all’ingresso, sulle scale, nei corridoi, sulla terrazza, in giardino, in palestra – e ho notato che ha cambiato atteggiamento nei miei confronti: se prima, il più delle volte, mi ignorava ma rispondeva alle mie provocazioni, ora spesso lo trovo che mi osserva di sottecchi, salvo poi distogliere lo sguardo quando lo fisso, ed evita in modo palese di darmi corda. Ormai, alle mie esternazioni da Genio, raramente sento un “do’aho”: potrei contare le volte che lo ha detto negli ultimi mesi su una sola mano, il che è sconvolgente.
Ora, la domanda che invece mi pongo è: perché cazzo sto pensando a quella stramaledette Volpe?
Sono qui, con la mia ragazza, Haruko, e penso a Rukawa?
Ma sono impazzito o cosa?
Di nuovo, sento tirare la manica del mio piumino nero.
«Hanamichi!» mi richiama Haruko. «Ma ci sei stasera?».
«Eh?» esclamo, tornando con i piedi per terra. «Si, si. Ci sono, scusa. Ero ancora sovrappensiero».
«A volte mi piacerebbe proprio sapere cosa ti passa per quella testa, sai?» domanda, sorridendo.
Anche a me piacerebbe saperlo.

Continua

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


 

Alla Luce del Sole
di Cioppys

 

Capitolo 2

Usciamo dalla stazione che sono quasi le undici di sera e troviamo la zona più affollata che mai: sembra che in questo angolo di mondo si sia riversato l’intero Giappone. Io e Haruko ci facciamo trasportare dalla corrente, in direzione del mare, luogo in cui ci sarà uno spettacolo pirotecnico allo scoccare della mezzanotte.
Stiamo parlando del più e del meno, quando sento qualcuno che mi chiama.
Mi volto e vedo arrivare Ryota accompagnato da Ayako. Subito dietro scorgo Mitsui e… Rukawa?
Sono sorpreso: non sapevo che frequentasse i compagni di squadra al di fuori del campo da basket.
«Che ne dite di unirvi a noi, piccioncini?» propone Mitsui, sottolineando con ironia l’ultima parola.
Ammetto che in un primo momento ho avuto l’impulso di rispondere un “no” secco, volendo trascorrere la serata solo con Haruko. Poi, quando il mio sguardo ha incrociato per un istante quello della Volpe, in me è scattato qualcosa: rimanere con loro mi avrebbe permesso di stare con lui. E la consapevolezza di ciò è stato come un pugno in pieno stomaco.
Ora, che cazzo è questo desiderio impellente di voler passare del tempo con Rukawa?
No, no, devo essere completamente impazzito!
Comunque, non faccio in tempo a prendere una decisione che Haruko sta già parlando con Ayako. Come a dire: non c’è nessun problema, e poi più siamo, più ci divertiamo! Io alzo le spalle e mi scambio con un cinque con Ryota e un cenno con Mitsui, mentre Rukawa è fermamente impegnato a fissare il terreno.
Non resisto, io devo provocarlo. «Ehi Volpe! Cosa c’è di così interessante sull’asfalto?».
Per un attimo sembra irrigidirsi, poi sospira.
«Do’aho».
Oh! Il primo dito della seconda mano! Un vero record!
Non faccio in tempo ad aprire bocca per ribattere che lui ha girato i tacchi e si allontana, perdendosi tra la folla.
Lo ammetto: sono semplicemente sconcertato da codesta fuga. Perché si, di una fuga si tratta, è palese.
Ayako punta le mani sui fianchi. «Possibile che voi due non riuscite proprio ad andare d’accordo? Ancora non so come, l’abbiamo convinto ad uscire con noi e tu, con un solo stupido commento, lo fai innervosire?» mi rimprovera.
Seccato, infilo le mani nelle tasche. «Uffa! Che lagna che sei! Avessi detto chissà cosa!».
Non passa un secondo che sento un dolore lancinante sullo stinco, dove Ryota mi ha dato un calcio!
«Ahia! Maledetto Nano! Mi hai fatto male!» esclamo, contrariato.
Lui mi mostra un pugno. «Prova ancora a dire una cosa del genere alla mia Ayakuccia e vedi che ti faccio!».
«E chi sarebbe “tua” scusa?».
Mentre gli altri – ad eccezione di Ryota – ridono alla riposta di Ayako, inconsciamente mi stacco dal gruppo vado alla ricerca di Rukawa. Alla solita domanda “perché cazzo lo stai facendo” ovviamente non ho risposta.
E come un mantra continuo a ripetermi: da quando mi frega qualcosa di quella stupida Volpe?
Certo che, con tutta questa gente, non sarà facile trovarlo. Ed infatti è più di venti minuti che giro a vuoto come un imbecille, senza uno schema preciso, per le vie della zona. Ormai avrò percorso la strada che va dal mare alla stazione e le vie limitrofe due volte, andata e ritorno, nella speranza di intravedere un ragazzo moro racchiuso come un sacco in un lungo cappotto grigio. Mi fermo un attimo a pensare dove la Volpe possa essersi rintanata, ma non mi viene in mente nulla. Il che è impossibile: sono o non sono il Genio? Qualcosa dovrà pure venirmi in mente, no? E invece niente. Il vuoto più assoluto.
Più il tempo passa, più inizio a pensare che sia tornato a casa. E ormai non manca molto a mezzanotte.
Alla fine decido di tornare dagli altri,  i quali si staranno chiedendo che fine abbia fatto pure io. La speranza è che non si siano mossi dal punto in cui li ho lasciati, altrimenti non troverò più nemmeno loro!
E’ quando passo davanti ad un piccolo parco che ho l’illuminazione.
Quale posto migliore per stare tranquillo e lontano dalla gente, se non in un parco semideserto?
Non ci penso due volte e mi fiondo all’interno, iniziando a girare per i vialetti e guardandomi avidamente intorno, ma non vedo nessuno. Nel momento in cui torno al punto di partenza sono deluso, ma soprattutto arrabbiato.
Sto solo perdendo tempo!
«Ma dove cazzo ti sei cacciata, stupida Volpe?!» urlo, pugni stretti, al cielo.
Mi volto per uscire ed eccolo lì, fermo davanti a me, immobile.
Rukawa mi guarda, dritto negli occhi, come stupito di vedere che sia proprio io quello che lo sta cercando.
Io, invece, aspetto in silenzio che mi dica qualcosa, qualsiasi cosa.
Per la prima volta, lo ammetto: speravo che dopo la partita contro il Sannoh il nostro rapporto sarebbe cambiato. Mi immaginavo di giocare insieme come buoni compagni di squadra, quasi amici, e smettere di litigare in continuazione… beh, forse quello no, considerando che un nostro modo di esprimerci.
Resta il fatto che il nostro rapporto è davvero cambiato, ma non come mi aspettavo: è addirittura regredito.
In particolare, questo suo atteggiamento scostante, fa male.
Ad un certo punto, lui abbassa la testa e fissa il terreno.
«Do’aho» sussurra.
Ok, due volte in una sera è più di un record, è un miracolo. Però da mesi non sa dirmi altro, e la cosa mi infastidisce parecchio. Cos’è, gli si è resettata la memoria del vocabolario? Di sicuro quella che mi riguarda perché con le altre persone, seppur poco, parla normalmente!
Al diavolo tutti i buoni propositi!
Mi fiondo su di lui e lo afferro per il colletto del cappotto, sbattendolo con la schiena contro il tronco di un albero.
«Si può sapere che cazzo ti prende?» gli urlo, ormai fuori di me. «Mi ignori, e quelle rare volte che non lo fai sai darmi solo dell’idiota! Dov’è la stupida Volpe che conoscevo? Dannazione, la rivoglio!».
Quello sfogo ha avuto l’effetto di farmi sbollire un po’ di rabbia, ma l’agitazione permane. Sento le spalle contratte, le braccia rigide e il mio respiro pesante. Con frequenza regolare si forma una nuvola bianca davanti alle mie labbra che si mischia con quella emessa da Rukawa, tanto i nostri volti sono vicini.
Ero pronto alla sua reazione violenta, per cui quando lo vedo arrossire rimango decisamente spiazzato.
Rukawa approfitta del mio attimo di distrazione per spingermi lontano di un passo. Io però reagisco con prontezza e lo afferro per un braccio, mentre con l’altra mano blocco il pugno che mi sta per arrivare in faccia. Con una mossa, gli torco la spalla e lo faccia girare, sbattendolo ancora contro il tronco, stavolta di petto.
«Ora basta! Mi sono davvero stancato!» gli grido nell’orecchio. «Cazzo, vuoi parlarmi?!».
Lo sento divincolarsi e poi irrigidirsi quando, spostando maggiormente il mio peso su di lui, cancello ogni speranza di fuga. Rimaniamo in questa posizione per un tempo indefinito, ovviamente in silenzio.
Sbuffo, spazientito. «Senti, lo so che tra noi due non c’è poi questo gran rapporto» inizio a parlare, non sapendo bene nemmeno che dirgli. «Però, dannazione, non possiamo continuare così! Siamo o no compagni di squadra?».
A quel punto mollo la presa e faccio due passi indietro. Osservo la sua schiena mentre muove la spalla e si massaggia il braccio nel punto in cui lo tenevo stretto, forse troppo. E, come prima, rimango in attesa anche solo di una parola.
Perché mi sento così triste? E’ la mia nemesi, cazzo!
Eppure capisco solo ora quanto conti per me questo rapporto.
Non importa che siano solo schermaglie verbali o anche fisiche, con calci e pugni. Non importa che non siamo in grado di fare un discorso senza insultarci almeno una decina di volte. Non importa nemmeno che ogni volta che professo il mio Genio, lui mi contraddica con quel modo di fare glaciale e indisponente.
E’ il nostro rapporto.
E se non si evolve, allora preferisco che rimanga così, piuttosto che regredire a questo. Non mi piace. Per nulla.
Mi passo entrambe le mani nei capelli, esasperato, per poi lasciare che ricadano lungo il corpo.
«Basta! Me ne vado!» esclamo, incamminandomi verso l’uscita.
Faccio in tempo a fare qualche passo quando due braccia mi cingolo la vita e una testa si appoggia tra le scapole.
«No, aspetta» sussurra Rukawa, fermandomi.
Sono sbigottito da questo abbraccio, perché si, la stramaledetta Volpe mi sta abbracciando.
Il primo istinto è quello di allontanarlo il più possibile da me, con sdegno, ma quando una sensazioni sconosciuta si impadronisce del mio stomaco nello stesso istante in cui le gambe mi cedono leggermente, spalanco gli occhi.
E’ questo il fatidico sfarfallio? E’ strano, ma inebriante. Il mio cuore perde un battito, poi sembra galoppare.
Ci sono tante domande che mi frullano in testa, ma non le voglio sentire, non ora.
Chiudo gli occhi e assaporo l’intensità di questo momento.
Senza accorgermene, le mie mani cercano le sue e le stringono. Appoggiato a me, Rukawa sussulta.
Sono i botti dei fuochi artificiali a spezzare l’incanto. Senza che ce ne accorgessimo, è giunta mezzanotte.
Sollevo le palpebre e osservo i lunghi filamenti che colorano di tante sfumature il cielo nero.
«Beh, buon anno Volpe».
Sento il suo viso staccarsi dalla mia schiena.
«Buon anno Hanamichi».
Come mi ha chiamato?
Mi volto verso di lui, tanto basta per perdermi in quei pozzi blu che sono i suoi occhi.
Ma è il lieve sorriso, appena accennato sulle sue labbra, a far crollare ogni barriera.
Non so cosa sia successo esattamente, se sia stato solo Rukawa a sporsi o anche io mi sia avvicinato. L’unica cosa certa è che la distanza tra di noi si è annullata e ora ci stiamo baciando, senza alcuna remora.
«Hanamichi, ma cosa…».
Una frase si interrompe fra i singhiozzi. Una voce che conosco molto bene.
Mi volto e la vedo: Haruko.
Ayako è al suo fianco, ed entrambe ci fissano ad occhi sgranati, ma nello sguardo di quella che è la mia ragazza c’è molto altro: delusione, tristezza, forse anche odio per ciò che ha visto. Non faccio in tempo ad elaborare un solo pensiero che lei gira i tacchi e corre via. Dovrei seguirla, ma rimango lì, imbambolato, con Rukawa che tiene ancora un braccio intorno alla mia vita.
Ayako si avvicina e mi rifila uno schiaffo, così forte da voltarmi la faccia dall’altra parte.
«Ma che diavolo stai facendo?!» esclama.
Quel gesto e quelle parole mi riportano con i piedi per terra: mi libero da Rukawa e corro dietro alla mia ragazza.
Subito fuori dal parco incontro Ryota e Mitsui che, sorpresi, mi chiedono come mai Haruko stesse scappando piangendo. Io li ignoro e proseguo per la mia strada, ma l’ho persa di vista e non la trovo da nessuna parte. Decido quindi di andare a casa sua, ma quando arrivo mi manca il coraggio di suonare il campanello. Rimango lì, in strada, per non so neanche quanto tempo, pieno di dubbi e pensieri, prima di incamminarmi mesto verso casa.

Continua

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


 

Alla Luce del Sole
di Cioppys

 

Capitolo 3

Un fiocco bianco mi passa davanti agli occhi fissi sull’asfalto. Mi fermo ed osservo il cielo. Ha ripreso a nevicare.
Sospiro, lasciando che la testa ricada in avanti. Con una mano mi sfioro le labbra e un brivido – il cui significato non lo riesco bene a identificare – mi percorre la schiena ricordando quello che è successo meno di un’ora fa.
Sono tremendamente confuso. I miei pensieri son una massa ingarbugliata in cui fatico a trovare il capo e la fine, ma da qualche parte devo pur iniziare, altrimenti la nebbia non si diraderà mai e io non avrò le risposte che cerco.
Infilo le mani nelle tasche e riprendo a camminare. La strada è quasi deserta: oltre al sottoscritto non vi sono altri pedoni e di rado passa qualche macchina. Poco più avanti un gatto dal manto grigio esce dalla cancellata di una casa: si ferma e mi osserva guardingo, prima di catalogarmi come essere non pericoloso e procedere qualche metro avanti a me nella mia stessa direzione. Per un momento rimango incantato dalla lunga coda dritta verso l’alto, che oscilla da desta a sinistra.
Allargo i polmoni in un profondo respiro, poi lascio l’aria fuoriuscire lenta, mentre svuoto la mente.
Prima domanda: perché cazzo ho baciato Rukawa?
Al solo pensiero, sento il cuore accelerare il battito e mi rendo conto che, per qualsiasi ragione l’abbia fatto, non posso affermare che non mi sia piaciuto. Tutt’altro. Se la Volpe fosse qui davanti a me ora e volesse baciarmi, non solo glielo lascerei fare, ma lo ricambierei.
A questa consapevolezza sento il bisogno impellente di sedermi.
Mi appoggio con la schiena al muro di cinta di una casa e mi lascio scivolare a terra, sedendomi sulla neve fresca. I pantaloni non ci mettono molto a bagnarsi e il freddo si propaga in fretta sulla pelle, ma non me ne curo.
La seconda domanda riguarderebbe ancora Rukawa, ma al momento non solo non ho il coraggio di pormela, ho paura della risposta, per cui procedo per gradi e passo alla successiva.
Terza domanda: cosa provo per Haruko?
E’ chiaro che tengo molto a lei e non solo per la riconoscenza di avermi fatto conoscere il basket, uno sport che è diventato un tassello importante della mia vita. Nutro dell’affetto, profondo, e anche su questo non c’e dubbio.
Ma la amo davvero come ho sempre professato fin dal primo giorno che l’ho incontrata?
Mi concentro per un attimo e la risposta arriva da sola: no, non la amo.
Nascondo il volto nei palmi delle mani. Sono proprio uno stronzo.
E qui capisco la prima cosa che devo fare: dirglielo. Non merita di essere trattata così.
Mi tolgo sciarpa e berretto con un gesto di stizza. Sono così agitato che mi è venuto caldo. Ora il bisogno è quello di camminare, per cui mi rialzo in piedi, togliendomi con le mani la neve che mi si è depositata addosso. Mi rendo conto di avere il culo fradicio, ma tanto non posso farci granché, per cui alzo le spalle e riprendo il tragitto verso casa.
Procedo un passo dopo l’altro, tentando di soffocare quella dannata domanda che ho saltato. Sento che oggi non riuscirei a sopportare altre rivelazioni, ma lei preme con insistenza di avere una risposta. E alla fine crollo.
Seconda domanda: cosa provo veramente per Rukawa?
In un attimo vengo travolto da numerose considerazioni: la tristezza nel capire che mi evitava, il desiderio di avere un qualsiasi tipo di contatto con lui, l’emozione di quell’abbraccio, la sensazione di completezza in quel bacio.
Mi blocco in mezzo al marciapiede e chiudo gli occhi. Quello che emerge non è solo un pensiero, ma parole, che rendono il tutto ancora più reale, concreto.
«Mi sono innamorato di Kaede Rukawa».
Non so quanto per quanto rimango lì fermo a rimuginare su quella verità. Forse pochi secondi, forse diversi minuti, alla fine non ha importanza: non cambierà. Non posso né negarla né ignorarla. E ne ho paura.
Sento le mie guancie bagnate dalle lacrime. Mi do’ dell’idiota e le asciugo con le mani tremanti. Piangere non serve, sarà anche vero, ma rimane il fatto che non so cosa fare. E ho paura.
La quarta domanda arriva spontanea, senza che l’avessi preventivata: cosa prova Rukawa per me?
Beh, il fatto che mi abbia baciato è sintomo quantomeno di qualcosa. O almeno spero.
Sbuffo, passandomi una mano sulla testa: ci manca solo che dopo le ragazze inizi a farmi scaricare dai ragazzi.
A questo pensiero, sobbalzo. Inconsciamente sembra che abbia già deciso di affrontare Rukawa e digli quello che provo nella speranza di… cosa? Essere ricambiato e mettermi con lui? Un uomo? Sono davvero convinto di questo?
Se la ragione cerca di porre un freno a questa follia, il sentimento spinge per lanciarsi nel fuoco, ora più che mai.
Ancora tormentato dai dubbi, mi avvicino a casa. Fortuna vuole che mia madre è dai nonni per festeggiare con loro l’arrivo del nuovo anno e non rientrerà prima di metà gennaio. Considerando quanto mi senta uno straccio, sono felice di non dover dare spiegazioni a nessuno per l’orribile aspetto che sicuramente avrò.
Adesso, l’unica cosa che desidero, è infilarmi sotto le coperte: forse un po’ di sonno mi aiuterà a schiarirmi le idee.
Svolto l’ultimo angolo e noto una persona ferma davanti all’ingresso del complesso di appartamenti dove si trova casa mia. Quando la sagoma si fa più nitida e riconosco il ragazzo moro chiuso nel suo lungo cappotto grigio, mi blocco, completamente nel panico.
Come un vigliacco, penso di darmi alla fuga ed entrare in casa passando attraverso le proprietà confinanti sul retro, quando anche lui mi nota. Lo vedo scostarsi dal muro e venirmi incontro. L’ansia mi assale, mozzandomi il respiro. Incapace di guardarlo, abbasso il capo e fisso la strada imbiancata davanti ai miei piedi. Poco dopo entra nella mia visuale la sua ombra, proiettata dal lampione situato a neanche un metro alle sue spalle, e quella della testa si ferma sulle mie scarpe. Sarà si e no a un passo da me.
Io rimango fermo, rigido come un palo.
Lo sento sospirare. Poi, dal movimento dell’ombra, capisco che si stringe nelle spalle.
«Hanamichi» mi chiama ancora una volta per nome, e la cosa non mi dispiace affatto. «Io non posso più nascondere quello che provo: sono innamorato di te».
Lui… cosa?!
Alzo di colpo la testa e mi ritrovo il viso di Rukawa più vicino di quando pensassi. I suoi occhi blu mi fissano con tanta intensità da immobilizzarmi. E’ allora che solleva le mani e, con un movimento fluido, mi afferra il volto per baciarmi.
La gioia mi travolte, tanto che il cuore sembra scoppiare, e il mio corpo agisce da solo: cigno la vita di Rukawa con le braccia e gli accarezzo la schiena, tirandomelo contro, poi schiudo le labbra e assaggiamo l’uno il sapore dell’altro.
Vorrei che questo momento, così inebriante e intenso, non finisse mai.
Quando ci separiamo, respiriamo entrambi con affanno.
Rukawa appoggia la sua fronte alla mia e socchiude gli occhi, passandomi un dito sulla guancia.
«Stai tremando» mi dice, ed entrambi sappiamo che non è per il freddo.
«Entriamo in casa» propongo, con voce più roca di quello che vorrei. «Mia madre è dai miei nonni» aggiungo.
Lui annuisce e faccio strada. Dopo aver chiuso la porta alle nostre spalle, appendo il piumino e mi tolgo le scarpe che mollo all’ingresso. Recupero due paia di pantofole, una delle quali la lascio al mio ospite, mentre io mi incammino verso la mia camera.
«Accomodati in salotto» dico, indicando la prima porta a destra «Io mi cambio i pantaloni e arrivo».
Quando torno lo trovo che si osserva in giro curioso. Beh, in fondo è la prima volta che viene a casa mia, per cui è più che normale. Mi appoggio allo stipite nel momento in cui finisce di consultare i titoli dei cd musicali posti nella parte bassa della libreria e, avendo già notato il mio arrivo, mi lancia un’occhiata.
«Non immaginavo che ti piacesse il Jaz» commenta, rialzandosi in piedi. «Non mi sembri il tipo».
«Infatti non mi piace. Quei cd sono di mio padre» rispondo, pentendomi all’istante di averlo tirato in ballo.
«E dov’è? Con tua madre?».
Ecco appunto.
«E’ morto» dico, con una smorfia. «Infarto» aggiungo con un soffio, abbassando il capo.
Ancora oggi il senso di colpa di quello che è successo mi grava addosso con tutto il suo peso.
«Mi dispiace, davvero» sussurra. «Io non volevo…» ma non termina la frase.
Lo guardo e capisco che è veramente rammaricato per l’accaduto, oltre che in imbarazzo per l’argomento chiaramente doloroso per me. Sorrido: fino a ieri avrei giudicato quell’espressione fredda e insensibile, quando, osservandola bene – gli occhi un po’ schivi, la tenue piega della bocca, la fronte increspata, le spalle e la schiena insolitamente rigide – non è affatto così.
E proprio vero: l’amore fa miracoli.
«Non preoccuparti. Non potevi saperlo» cerco di tranquillizzarlo.
Lo vedo rilassarsi e riesco a farlo anche io. Peccato che uno strano silenzio, carico di aspettativa, piomba tra noi.
«Do’aho, non hai nulla da dire?» esordisce Rukawa, dopo diversi minuti che entrambi fissiamo il tatami.
Io lo guardo e alzo un sopracciglio, non capendo. «Cosa dovrei dire?».
Lui mi punta gli occhi addosso. «Secondo te?» chiede con un pizzico di ironia.
E’ a quel punto che comprendo l’argomento della discussione.
«Senti, sono confuso, va bene?» esclamo con uno sbuffo. «E’ successo tutto così in fretta!».
Lui stringe i pugni. «Se non mi ricambi, dillo subito e finiamola qui» sputa, con rabbia.
Quelle parole, ma soprattutto l’atteggiamento, mi feriscono.
«Stupida Volpe!» gli urlo, fuori di me. «Ti avrei forse baciato in quel modo se non provassi nulla?».
E’ evidente che ci pensa, perché la sua postura cambia: le spalle si abbassano e allenta le mani.
«E allora qual è il problema?» chiede, confuso.
Lui la fa semplice: ci è già passato, magari impiegandoci mesi o addirittura anni, io l’ho capito meno di un’ora fa!
«Siamo due maschi!» sibilo. «Cazzo! Non è una cosa facile da accettare!».
Stizzito, mi passo una mano tra i capelli. Come se non bastasse aver messo in dubbio il mio orientamento sessuale, ho anche un altro problema da risolvere prima di poter stare insieme a lui, nel modo corretto.
«E poi devo ancora parlare con Haruko» lo rendo partecipe che non ho avuto l’occasione di farlo.
L’avessi mai fatto: lo sguardo che mi punta addosso mi gela le ossa.
«Che intenzioni hai?».
«La lascio, no?» dico, credendo che fosse ovvio. «E’ chiaro che non sono innamorato di lei».
Sono così stanco e spossato da questa serata che mi avvicino al divano e mi lascio cadere nel centro, appoggiando la testa all’indietro sullo schienale. Mi massaggio il viso con le mani prima di portarle dietro la nuca e stirarmi la schiena, emettendo un forse sospiro.
Non faccio in tempo a sentire il divano muoversi che Rukawa è seduto a cavalcioni sopra di me. Mi prende il viso tra le mani e subito si avventa sulla mia bocca. Superato l’attimo di stupore, lo assecondo dischiudendo le labbra e cingendogli la vita, un movimento quest’ultimo che fa strusciare il suo bacino contro il mio. Entrambi non riusciamo a trattenere un gemito di piacere, che soffoca nel bacio appassionato che ancora ci scambiamo.
E’ a questo punto che sento le sue dita come velluto infilarsi sotto il maglione e l’intimo, toccare la mia pelle e risalire verso i capezzoli. Non so come, riacquisto abbastanza lucidità da afferragli le mani e allontanarle.
Butto indietro la testa e staccando le mie labbra dalle sue. «Kaede, fermati!» esclamo, con il fiato corto.
«Mh» mormora, baciandomi il collo ora scoperto. «E’ bello sentirti pronunciare il mio nome».
Diamine, mi sta letteralmente torturando! Nel tentativo di sottrarmi al suo contatto, scivolo sullo schienale del divano fino a ritrovarmi sdraiato per il lungo, con Rukawa ancora sopra di me che, prendendomi alla sprovvista, si libera dalla mia presa e appoggia i gomiti ai lati della mia testa, chinandosi su di me. Insomma, dalla padella alla brace!
Quando lo vedo avvicinarsi con fame alla mia bocca, lo blocco mettendogli entrambe le mani sul petto.
«T-ti prego! Ho bisogno di un po’ di tempo!» balbetto, sentendo il viso andarmi in fiamme per la vergogna.
Fino a qualche ora fa avrei preferito tagliarmi le vene piuttosto che umiliarmi in questo modo davanti alla Volpe!
Lui mi fissa qualche secondo prima di pronunciare un molto espressivo “Mh” e posarmi un bacio sulla fronte.
«Posso restare da te stanotte?» chiede, come se nulla fosse.
Io sgrano gli occhi. Ma come? Ho appena detto di aver bisogno di tempo e…
«A dormire, do’aho» aggiunge lui, sbuffando.
Sento i muscoli delle spalle rilassarsi. «M-ma certo» rispondo.
Non riesco a nascondere l’ansia che ancora mi agita la domanda precedente, e lui se ne accorge. Lo capisco da quel sorrisetto carico di malizia che fa prima di alzarsi in piedi, a seguito del quale inizio ad avere terribilmente caldo. Forse dovrei uscire in giardino e buttarmi mezzo nudo in un cumulo di neve!
Raggiungiamo la mia camera dove cerco nei cassetti qualche indumento da prestare a Rukawa per la notte. Non ha nulla con sé, e non può certo dormire con il maglione e i jeans! Fortuna che siamo all’incirca della stessa altezza, per cui la maglietta e i pantaloni che gli passo gli vanno solo un po’ larghi, essendo io più robusto di lui.
Poi dall’armadio prendo due futon e li stendo sul tatami, sotto lo sguardo accigliato di Rukawa.
«Guarda che ne basta uno» mi dice.
All’idea, sobbalzo. «Non ci stiamo in uno solo! Non siamo mica grandi come il Nano!».
«Non se ci stringiamo» insiste, infilandosi sotto quello di sinistra e facendomi segno di sdraiarmi accanto al lui.
Quello sguardo smaliziato mi fa desistere dal protestare prima ancora di pensarci. Scuoto il capo e, mentre lo raggiungo, mi impongo di imparare quanto prima ad avere più spina dorsale nei suoi confronti: non posso acconsentire così ad ogni sua richiesta!
Una volta sotto la coperta, Rukawa appoggia la testa sulla mia spalla e mi si stringe contro.
«Non voglio perderti» lo sento mormorare prima che il suo respiro si regoli e il sonno lo prenda.
Per la prima volta mi rendo conto della fragilità che si nasconde dietro quella maschera di indifferenza che Rukawa ha sempre indossato con me, e non solo. Con il timore quasi di toccarlo, gli accarezzo i capelli per poi cingerli le spalle e chiudere gli occhi. Nel mio cuore ora più che mani avverto il desiderio di proteggerlo e non lasciarlo mai più.

Continua

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


 

Alla Luce del Sole
di Cioppys

 

Capitolo 4

E’ trascorsa una settimana dalla notte di capodanno e, da allora, non passa giorno che non veda Kaede.
Lo ammetto: non immaginavo di trovarmi così bene in sua compagnia.
Spesso ci troviamo al campetto vicino alla spiaggia non lontano da casa sua dove, tempo permettendo, ci alleniamo nei tiri a canestro e disputiamo qualche partita, senza però esagerare con la competizione: fa ancora freddo e, in alcuni punti, l’asfalto è scivoloso per il ghiaccio che si forma di notte. Io sono appena uscito da un serio infortunio e non nessuna voglia di farmi di nuovo male, men che meno desidero che se ne faccia lui.
Il resto del tempo insieme lo passiamo o sugli scogli, dove restiamo seduti a rilassarci, ascoltando le onde infrangersi sulla battigia, o a casa di uno dei due, a chiacchierare, ascoltare musica, guardare qualche film, sempre che riesca a evitare che la Volpe si addormenti. E’ incredibile come gli basti appoggiare la testa da qualche parte – sempre più spesso è una porzione del mio corpo! – per scivolare nel mondo dei sogni.
Inoltre, durante questi giorni, sono venuto a conoscenza di tante cose di lui che ignoravo. Una in particolare.
La prima volta che andai a casa sua – una bella villetta di due piani in uno dei migliori quartieri della zona – gli chiesi dove fossero i suoi genitori: scoprì così che suo padre viaggiava spesso per lavoro, mentre sua madre era morta quando frequentava la seconda elementare. Quel fatto mi colpì parecchio, tanto che per ore non dissi quasi una parola. Kaede, intuendo il problema, mi raccontò che quella perdita fu uno dei motivi per cui iniziò a giocare a basket l’anno successivo, divenendo la sua valvola di sfogo. A distanza di tanti anni, la passione per quello sport e il tempo avevano cancellato il dolore, lasciandogli un senso di amarezza per i pochi ricordi che aveva di lei. Mi confessò che a volte faticava a ricordarne perfino il viso.
Non so perché quel giorno le parole uscirono spontaneamente dalla mia bocca. Mi ero sempre vergognato così tanto dell’accaduto che non l’avevo mai raccontato a nessuno, nemmeno a Yoei: lui aveva capito che era successo qualcosa, ma non ha mai chiesto i dettagli. Ha accettato il mio silenzio e mi è stato vicino nel dolore, come un migliore amico sa fare. Quel giorno, invece, ebbi il desiderio di confidarmi con Kaede, volevo che lui sapesse che mio padre era morto a causa mia. Ho pianto, quel giorno, come non avevo mai fatto, mentre il ragazzo che mi ha rubato il cuore mi stringeva con tutta la sua forza a sé dandomi del “do’aho”.
Sospiro, fermandomi ad osservare il mio riflesso in una vetrina mentre rientro a casa.
Se con la Volpe le cose vanno a gonfie e vele, il problema “Haruko” è tutt’altro che risolto.
Avrò chiamato casa Akagi tante di quelle volte che ho perso il conto, ricevendo come risposta dai suoi genitori che non poteva parlarmi per i più svariati motivi – è fuori, sta dormendo, studiando o facendo il bagno – mentre dal Gorilla un diretto “non vuole parlarti né tantomeno vederti, quindi smettila di chiamare”, senza tanti fronzoli, insomma.
Mi era venuta anche la malsana idea di appostarmi davanti a casa sua, nella speranza di incrociarla mentre entrava o usciva, ma se a beccarmi fosse stato suo fratello era probabile che non uscissi vivo dall’incontro.
Sospiro di nuovo. Kami! Non posso aspettare l’inizio della scuola per parlarle! E mancano solo tre giorni!
«Ehi Sakuragi! Ancora in giro a quest’ora?».
Mi volto, ritrovandomi Mitsui con quel suo sorriso da “tu sai che io so” che non sopporto.
«Oh, Mitchi» rispondo con così tanto entusiasmo che lui alza un sopracciglio.
«E smettila di chiamarmi in quel modo, scimmia!» mi riprendere, sbuffando. «Problemi?» chiede poi.
Abbasso il capo. Il mio silenzio è più eloquente di mille parole.
«Hai già cenato?» domanda, e al mio cenno di diniego sorride, stavolta in modo cordiale. «Ti va di mangiare qualcosa insieme? Così parliamo un po’. In fondo, non ci vediamo dalla notte di capodanno».
Lo guardo con sincera meraviglia. Da quando Mitsui ha così a cuore i miei problemi?
Socchiudo le palpebre e lo fisso con sospetto. «Cosa vuoi davvero?».
Lui alza gli occhi al cielo e sospira. «Te l’ho detto: parlare un po’».
Senza aspettare una mia risposta, si incammina, fermandosi poco più avanti quando nota che non lo sto seguendo.
Ed è allora che lancia il sasso.
«Davvero non vuoi sapere cosa è successo dopo che sei corso dietro ad Haruko?» dice, sornione.
Effettivamente sono molto curioso, anche perché Kaede non ne ha mai fatto parola.
«Dai, vieni!» insiste lui. «E non ti preoccupare: per stavolta offro io. Ma solo una portata, quindi evita di ordinare l’intero menù perché non lo pago!».
Oh, beh, se la mettiamo su questo piano, come posso rifiutare?
Prima di raggiungere il locale suggerito da Mitsui, questi chiama casa per avvisare che non sarebbe rientrato per cena. Deve averne combinate davvero tante nei due anni da teppista, perché il padre non voleva credere che fosse in compagnia di un kohai del club di basket. Alla fine è dovuto intervenire il Genio che, strappando il telefono di mano, ha parlato direttamente al genitore. Nonostante abbia risolto la situazione Mitsui, con un calcio nel sedere, mi ha fatto capire di non essere particolarmente contento del mio contributo. Che ingrato!
«Allora Mitchi?» dico battendo nervoso le bacchette sul tavolo, dopo aver ordinato entrambi una porzione di tempura udon. «Svuota il sacco!».
Lui si appoggia allo schienale con un sospiro, bofonchiando un “ci rinuncio!” prima di iniziare a parlare.
«Io e Ryota vi stavamo cercando quando, passando vicino al parco, abbiamo visto Haruko uscire correndo. Piangeva. Ho cercato di fermarla, ma non sono riuscito a prenderla per un braccio e lei ha tirato dritto. Poco dopo sei apparso tu e le sei corso dietro, senza nemmeno calcolarci. Ayako, invece, siamo riusciti a bloccarla, ma l’unica cosa che ha fatto è sussurrare un “povera Haruko” prima di chiudersi in uno strano silenzio. A quel punto ho mollato Ryota con lei e sono entrato». Il suo sguardo si illumina. «Sapevo che avrei trovato Rukawa».
Mi irrigidisco e sgrano gli occhi.
«Non essere così sorpreso, Sakuragi» sorride compiaciuto, massaggiandosi il mento. «Da un po’ di tempo sospettavo che Rukawa fosse innamorato di te e la “scenata” il giorno in cui ti sei messo con Haruko me lo ha confermato. Certo, non avrei mai pensato che tu potessi ricambiarlo, almeno fino a quando quella sera non l’hai seguito».
Le bacchette scivolano dalla mia mano e cadono sul pavimento con un rumore sordo mentre sento il viso  andarmi letteralmente in fiamme, tanto è l’imbarazzo nello scoprire che lui sa.
Mitsui mi guarda e non riesce a trattenersi, scoppiando in una fragorosa risata.
«Vaffanculo!» urlo, sbattendo le mani sul tavolo e alzandomi in piedi con tanta veemenza da far cadere la sedia per terra, trattenendomi a stento di assestargli una violenta testata. «Non c’è un cazzo da ridere!».
Ovviamente la mia performance attira l’attenzione dell’intero locale.
Con una mano Mitsui mi fa segno di calmarmi. «Dai, siediti, altrimenti ci buttano fuori! E io ho fame!» dice, appena riesce a riacquistare un minimo di contegno.
Rimaniamo in silenzio per diversi minuti, durante i quali ci servono la nostra ordinazione. Il mio compagno di squadra non fa complimenti e inizia a mangiare di gusto. Io, al contrario, fisso smarrito la mia ciotola fumante: mi è passato l’appetito.
«Mangia» mi intima Mitsui. «Altrimenti lo paghi tu: non ti offro la cena se la fai finire nel cestino!».
Ricattatore di merda! Con una smorfia afferro un nuovo paio di bacchette dal contenitore posto nell’angolo del tavolo e, anche se di malavoglia, inizio a mangiare. Il brodo è davvero caldo, e gli udon scottano!
«Ah, che buono! Ci voleva proprio!» esclama lui, quando finisce.
«Ora che sei rimpinzato per bene, che ne dici di continuare?» lo esorto con un cenno della mano, anche se io non ho ancora finito, tanto è lui che deve parlare.
Lo vedo pensare un attimo, prima di riprendere il discorso da dove lo aveva lasciato.
«Quando sono entrato nel parco, Rukawa era seduto vicino ad un albero, con lo sguardo perso. Era ovvio che fosse successo qualcosa tra voi due». Con i gomiti si appoggia sul ripiano del tavolo e mi fissa dritto negli occhi, sfoderando un sorriso malizioso che non mi piace per nulla. «Per spezzare il ghiaccio e farmi raccontare l’accaduto, gli ho chiesto come baciavi».
A quelle parole, mi strozzo con l’acqua che sto bevendo. Mi do un paio di colpi sul petto e riprendo a respirare.
Ma che cazzo di domande gli vengono in mente?!
«Mi aspettavo una reazione, ma non che mi guardasse con occhi sgranati, trasalendo in modo così evidente» dice, sottolineando le ultime parole «Però almeno ho avuto la conferma dei miei sospetti, senza che proferisse parola, cosa che ovviante non ha fatto».
Mitsui si tira indietro, appoggiandosi nuovamente allo schienale e infilando le mani nelle tasche dei pantaloni. Assorto, osserva oltre il vetro alla nostra sinistra la strada ormai buia, dove ogni tanto transita un’auto.
«Per un attimo ho avuto pena per lui» ammette, socchiudendo gli occhi. «Per cui, in uno slancio di commovente altruismo, gli ho consigliato di confessarti quello che provava, tanto ormai che aveva da perdere? Il danno era fatto e, beh, c’era pur sempre una possibilità che tu lo ricambiassi. Perché rinunciare a sperare?».
Non riesco a crederci: Kaede è venuto a casa mia convinto dalle parole di Mitsui.
Lui mi lancia un’occhiata. «Quando vi siete visti?» chiede, vedendomi pensieroso.
«Quella notte stessa» rispondo, non riuscendo a nascondere l’imbarazzo.
«Ah» proferisce lui, poi sorride soddisfatto. «Ecco dove è scappato in tutta fretta».
Quando noto che mi fissa con insistenza, come aspettandosi che dica altro, io riprendo a mangiare, ma non posso fare a meno di sentire il volto caldo. E no, non è il vapore del brodo sulla mia faccia a farmi questo effetto.
Mitsui ride. «Tanto poi me lo racconti quello che è successo!».
Io risucchio l’ultimo spaghetto con foga, schizzando gocce do brodo ovunque. «Te lo scordi! Nemmeno se è grazie a te che è venuto a cercarmi!».
«Sei un ingrato!» mi sfotte sempre con il sorriso, tornando poi serio. «E Haruko? Hai visto anche lei quella notte?».
Io faccio un cenno negativo con la testa. «E’ proprio lei il problema. Non sono ancora riuscito a parlarle».
«Cosa?!» esclama, più che sorpreso. «E che cazzo aspetti? Capodanno dell’anno prossimo?!».
Così gli spiego delle difficoltà di contattarla o vederla.
Mitsui incrocia le braccia dietro la testa. «Effettivamente, se avessi tradito la sorella del Gorilla, sarei già emigrato».
«Grazie per l’incoraggiamento!» sbotto. «Non ho nemmeno idea di cosa le abbia raccontato».
«Se non lo ha fatto lei, ci ha pensato Ayako» sentenzia lui. «Alla fine, a Ryota l’ha detto».
Un brivido di terrore mi scorre lungo la schiena. «E il Nano?».
Lo vedo sospirare, e non è una bella cosa. «Beh, era abbastanza sconvolto» afferma.
Con entrambe le mani mi arruffo i capelli e appoggio la fronte sul piano del tavolo: questa situazione mi sta logorando.
«Mitchi, non so cosa fare!».
Lui mi guarda un secondo, quanto basta prima che appaia quel ghigno insopportabile.
«Beh, con Haruko posso aiutarti io» dice, inclinandosi verso di me. «Ma ad una condizione».
Alzo il capo e, quando lo osservo negli occhi, sbianco. Maledetto impiccione!
La sua risata non tarda ad esplodere nel locale. «Te lo avevo detto che tanto me lo avresti raccontato!».

Continua

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


 

Alla Luce del Sole
di Cioppys

 

Capitolo 5

Sono passati due giorni dalla chiacchierata con Mitsui, quando ricevo una sua telefonata.
«Il Gorilla è stato un osso duro da superare, ma alla fine sono riuscita a parlarle e ho organizzato un incontro per oggi pomeriggio» mi racconta attraverso il cordless, mentre sono sdraiato sul divano con le gambe a penzoloni oltre il bracciolo. «Sappi però che non le ho detto che ci sarai anche tu».
Con un colpo di reni mi tiro su a sedere, stringendo con foga la cornetta. «Non so se esultare o spaccarti nuovamente la dentiera!» rispondo, immaginando già la scena apocalittica di quando mi vedrà.
«Continua pure ad essere così ingrato» lo sento sbuffare. «Me le sto segnando tutte, scimmia, poi ti ripago con gli interessi!».
«Va bene, va bene!» lo fermo. «Dimmi dove e quando».
E così eccomi qui, al campetto vicino alla spiaggia dove ogni tanto io e Kaede ci alleniamo.
Ma, io dico, con tutti i luoghi che ci sono al mondo, proprio qui ci dovevamo incontrare? Non ho parole.
Sospiro pensando che a quest’ora avrei dovuto vedere proprio la Volpe per passare il pomeriggio insieme, come sempre. Quando l’ho chiamato per annullare l’uscita, non ho avuto il coraggio di dirgli che dovevo incontrare Haruko. Non volevo nasconderglielo, ma evitare che si preoccupasse: ancora adesso, se chiudo gli occhi, vedo lo sguardo gelido che mi puntò addosso quel giorno quando parlammo di lei. Non che raccontagli una bugia sia stato geniale, ma che potevo fare?
Guardo l’orologio spazientivo. E’ venti minuti che aspetto e ancora non si vedono. Dove cazzo sono finiti?
Ad un tratto sento un rumore famigliare. E’ lo strido di un freno di una bicicletta.
No, non può essere…
«Hana, ma che ci fai qui? Non dovevi andare da Yoei?».
Lo osservo smontare dal suo mezzo, vestito con la tuta nera dell’Adidas – la sua preferita – sotto il cappotto grigio. In spalla ha la sacca degli allenamenti: è impossibile non notare il rigonfiamento della palla da basket al suo interno. Proprio ora doveva venire a fare due tiri?
«Kaede?!» sussurro, nel panico più totale.
La scena apocalittica che immaginavo quella mattina muta con l’aggiunta della nuova variabile. Ed è terrificante.
Sto ancora cercando di elaborare un pensiero, che sia uno, quando il primo tassello del domino viene spinto.
«Ehi Sakuragi!» sento Mitsui chiamarmi. «Scusa se ti abbiamo fatto aspettare, ma sai, il Gorilla…» non termina la frase, notando la presenza di una quarta persona che no, non doveva proprio esserci.
Haruko, che non sembrava affatto sorpresa di vedermi, alla vista di Kaede impallidisce, e i suoi occhi si riempiono di lacrime. Di sicuro penserà che sono un’insensibile presentandomi con il ragazzo per cui la sto scaricando.
Ora ci manca solo che la Volpe pensi voglia rimettermi con lei e siamo a cavallo!
«Hana, che significa?» lo sento sibilare, con un tono che definire glaciale è troppo poco.
Basket? Da domani mi do’ all’ippica, forse è meglio.
Kaede mi fissa con una espressione così seria che sento le ginocchia cedere. Ma è il suo sguardo, ghiaccio puro, che mi inchioda sul posto impedendomi di accasciarmi a terra, oltre che di dire qualsiasi cosa di senso compiuto.
«Pensavo fossi sincero» continua, interpretando erroneamente il mio silenzio come una conferma ai suoi dubbi. «Ma sei libero di tornare da lei, se tanto ci tieni. Non parlarmi, non farti mai più vedere… hai capito do’aho?» conclude, quell’ultima parola che è quasi un ringhio.
Con un balzo, risale sulla bicicletta e si allontana, a tutta velocità. Ed è quando vedo la sua schiena sempre più piccola che qualcosa in me si spezza, svegliandomi da quello stato di catalessi. No, non può finire così.
«Kaede, aspetta!» lo chiamo, ma lui non mi sente o, peggio, non si ferma.
Sto per corrergli dietro quanto sento qualcuno aggrapparsi al mio braccio.
Mi volto e vedo Haruko che mi fissa con gli occhi gonfi di pianto e una espressione che non riesco a decifrare.
«Hanamichi, che cosa c’è tra voi due?» mi chiede, con le labbra che tremano ad ogni parola.
Con delicatezza la invito a lasciare la presa e le stringo le mani.
«Haruko, io…» mi sento un verme, ma è una cosa che devo fare, adesso. «Era proprio di questo che volevo parlarti: ho capito quali sono i miei veri sentimenti. Mi dispiace, ma non è te che amo».
Non attendo nemmeno una risposta: le lascio le dita e mi volto, lanciandomi all’inseguimento di Kaede.

Mi fermo davanti a casa sua con le mani sulle ginocchia, a riprendere fiato. Ho corso come un matto, tanto che il cuore sembra dover scoppiare da un momento all’altro. Faccio un ultimo profondo respiro ed entro nel vialetto, il cui cancello di ingresso è spalancato. La sua bicicletta è abbandonata a terra, a lato della porta, davanti a cui mi fermo titubante per un secondo prima di premere il pulsante del campanello. Lo sento oltre l’uscio e attendo, ma non ricevo risposta.
Rukawa mi aveva accennato che suo padre era via per lavoro e non sarebbe rientrato prima del week-end.
Riprovo una, due, tre volte, ma non cambia nulla.
Una terribile ansia inizia a salirmi dalla bocca dello stomaco. Inspiro profondamente e chiudo gli occhi, cercando di calmarmi. Se mi agito non risolverò il problema, anzi, conoscendo quanto sia impulsivo peggiorerò solo le cose.
Istintivamente poso la mano sulla maniglia e giro: è aperta. Entro chiedendo permesso, ma mi risponde solo il silenzio. Chiudo la porta alle mie spalle e mi avvio sulle scale. Qualche passo e sono davanti alla sua camera. “Magari sono fortunato” mi dico impugnando la maniglia, ma stavolta la porta è chiusa a chiave.
«Kaede, per favore, aprimi» sento la mia voce tremare. «Non è quello che pensi».
Attendo per dei minuti che sembrano giorni, ma lui non risponde e l’uscio rimane chiuso.
Gli occhi mi pizzicano mentre, sconsolato, mi appoggio con la schiena alla porta per poi lasciarmi scivolare a terra.
«Non ho nessuna intenzione di tornare con lei» dico, fissando il muro del corridoio davanti a me. «Mitchi mi ha aiutato a vederla proprio per dirle che non la amo, cosa che ho fatto prima di venire da te».
Sento un movimento, forse dei passi, o forse è solo frutto della mia immaginazione che vuole farmi credere che tutto si risolverà per il meglio, perché quella dannata porta continua a rimanere chiusa e lui non proferisce parola.
«Sono un idiota!» esclamo, appoggiando le braccia sulle ginocchia piegate e prendendomi il viso tra le mani. «Ti ho mentito, e per cosa poi? Perché non volevo che ti preoccupassi? Bell’idea, eh? Bella idea del cazzo!».
Quando le lacrime mi scorrono sulle guance, fatico a trattenere i singhiozzi. Mi sento così stupido, e tremendamente in colpa per non aver avuto fiducia nel ragazzo che amo. Perché si, è quello che provo. E l’idea di poterlo perdere per una cazzata simile mi sta dilaniando.
Sono così preso dal commiserare me stesso da non accorgermi di quello che accade intorno. Solo quando due braccia mi cingono il collo e un bacio si posa sotto il mio orecchio destro, noto che la porta si è aperta e Kaede è qui con me.
«Do’aho» sento sussurrare tra una carezza l’altra.
Io mi volto e cerco le sue labbra. Quando le trovo, approfondisco subito il contatto e sfioro la sua lingua con la mia. Lo stringo a me, con possesso, accarezzandogli la schiena. Nella foga di sentire di più il suo corpo contro il mio, lo spingo sul pavimento e io gli finisco sopra. Allontano quanto basta il mio viso dal suo per guardarlo e assicurarmi di non avergli fatto male, e rimango senza fiato: due occhi profondi mi scrutano con voglia ardente, quelle gote un po’ rosse dall’eccitazione e la bocca schiusa dall’affanno per la frenesia del momento.
Kami, quanto lo desidero!
Un calore immenso si sprigiona nel mio basso ventre e le mie mani agiscono da sole: con smania gli sfilo sia la felpa della tuta che la maglietta sotto, arrivando così a toccare quella pelle candida e morbida. La mia bocca scende dal collo fino al torace, dove mordicchia un capezzolo, facendo gemere Kaede sempre più forte. Le sue dita mi arpionano la base del collo, come a chiedermi di non fermarmi, e io lo accontento.
Quando torno ad assaporare la sua bocca, armeggio con il bordo dei pantaloni e inizio ad abbassarli. E’ a questo punto che una mano mi afferra il polso, bloccandomi. Lo guardo e nei suoi occhi scorgo il dubbio.
«Sei davvero convinto?» mi domanda, con affanno. «Posso aspettare se hai ancora bisogno di tempo».
Sorrido, felice che me lo abbia chiesto. «Non sono mai stato così convinto di qualcosa come adesso».

E’ mattino. Un raggio di sole filtra tra le tapparelle e mi illumina il viso, riscaldandolo. Apro gli occhi. Lentamente si abituano alla luce e inizio a distinguere le forme che mi circondano: la porta della stanza spalancata, un armadio a tre ante sul muro opposto con davanti abbandonata la sacca della palestra, poster di giocatori di basket appesi alle pareti, la scrivania sotto la finestra, a fianco del letto occidentale in cui sono supino. Non è la mia camera, e non sono solo.
Sul mio petto sta dormendo un angelo, il mio angelo.
Gli accarezzo quei capelli corvini morbidi come seta, arruffati dalla notte, mentre ripenso alla giornata appena trascorsa e alla sua conclusione. Un turbinio di emozioni mi assale: il cuore batte più forte, come impazzito, mentre sento le spalle irrigidirsi e mancarmi il fiato, tanto che mi sembra di soffocare. Sono agitato, come se la realtà di quello che è successo mi si presenti di colpo. Una consapevolezza così pesante che fatico a reggerne il peso.
Due braccia mi stringono forte.
Abbasso lo sguardo e incontro quelle splendide pupille blu che mi fissano intensamente.
Lo vedo incupirsi e sento i suoi muscoli tendersi. «Cos’hai?» mi chiede, circospetto.
«Nulla» rispondo, alla ricerca di quella pace interiore che però non trovo.
«Bugiardo» mi accusa, capendo meglio di me il problema. «Avevi detto di essere convinto».
«Lo ero!» esclamo. «E lo sono!» aggiungo, cercando di abbracciarlo.
Lui si scosta da me e si allontana, bloccandosi con una smorfia evidente di dolore che tenta di nascondermi. Nel movimento dei nostri corpi, le coperte si spostano rivelando il lenzuolo sottostante macchiato di sangue.
Sgrano gli occhi. Il solo pensiero di avergli fatto del male mi spezza il cuore.
Gli afferro il viso e chiudo la mia bocca sulla sua, in un bacio appassionato.
«Ti amo Kaede» gli sussurro a fior di labbra, quando ci separiamo. «Non dubitarne, mai».
Lui è esterrefatto, ma molto confuso. «E allora qual è il problema?» domanda, quasi supplicandomi una risposta.
Io trattengo il respiro. «Ho paura» mormoro, intimorito dalle mie stesse parole.
Mi guarda ma non capisce. Sospiro, facendo combaciare le nostre fronti.
«Non ho mai provato un sentimento simile, così profondo, intenso» gli spiego. «E vorrei tanto poterlo condividere con il mondo intero, con serenità, senza dovermi…» la vergogna non mi permette di finire la frase.
Per fortuna lui comprende il senso del discorso. «Preoccupare del giudizio degli altri?» conclude per me.
Io annuisco.
«Do’aho».
Spalanco la bocca. «Stupida Volpe!» esclamo, irritato. «Perché continui a darmi dell’idiota?!».
«Perché lo sei» risponde Kaede, avvicinando le labbra alle mie. «Sei il mio do’aho e ti amo, anche per questo».
Mi lascio travolgere dalla passione con cui mi bacia, ma non passa molto che il desiderio di ricambiarlo e avere di più prende il sopravvento. Lo stringo con forza, forse troppa, perché il suo corpo si irrigidisce. Gli lancio un’occhiata e capisco che qualcosa non va. E’ allora che mi ricordo del lenzuolo.
«Come stai?» gli chiedo, prendendogli il volto tra le mani e accarezzandolo. «Fisicamente intendo».
«Sto bene» risponde, evitando il mio sguardo, e io so che sta mentendo.
Faccio per protestare, ma lui mi posa un dito sulle labbra.
«Davvero, Hana, non ti preoccupare».
Non è un’espressione seria o gelida a convincermi, ma il sorriso più bello che abbia mai visto.
Ci sdraiamo e Kaede si chiude nel mio abbraccio, appoggiando la schiena al mio petto. Io copro entrambi con la coperta, poi affondo la testa nei suoi capelli e inspiro: mi solleticano il naso, ma hanno un profumo così buono. Lentamente i nostri respiri si regolarizzano e, convinto che lui sia già nel mondo dei sogni, socchiudo gli occhi e mi rilasso, pronto per raggiungerlo.
E’ allora che, con mia sorpresa, mi pone una domanda.
«Che giorno è oggi?» sussurra, già mezzo addormentato.
Io soffoco uno sbadiglio. «Dovrebbe essere il 10, perché?».
Uno strano prurito si diffonde tra le mie scapole, come se dovessi ricordarmi di qualcosa.
«Cazzo!» esclamo, coprendo la voce di Kaede che, nello stesso momento, dice: «La scuola!».
Eh si, purtroppo oggi riprendono le lezioni.
Ci alziamo dal letto, vestendoci in fretta e furia. Neanche dieci minuti dopo siamo già fuori dalla porta di casa.
E’ qui che mi rendo conto di non avere con me nulla: né la cartella, né la borsa degli allenamenti per il pomeriggio. Kaede, inoltre, mi fa notare che non indosso nemmeno la divisa. Siamo così costretti ad allungare il giro e passare da casa mia. Nonostante la bicicletta, arriviamo che la campanella è già suonata da un pezzo. Da una parte però è meglio così: se qualcuno ci avesse visto frecciare su quel mezzo insieme, penserebbe di avere un’allucinazione.
Entriamo nell’atrio e cambiamo le scarpe, per poi salire i gradini che ci portano al secondo piano.
«Ci vediamo a pranzo in terrazza» mi saluta, sfiorandomi la mano con la sua.
Vorrei tanto afferrarla, tirarmelo addosso e baciarlo, ma la paura di essere visti frena l’impulso. Rimango immobile ad osservarlo: raggiunge la sua classe, in fondo al corridoio, e vi entra. Con un sospiro, varco la porta della mia.
Il professore mi squadra dalla testa ai piedi, rimproverandomi di essere arrivato in ritardo anche il primo giorno di scuola dopo le vacanze e mi inviata ad accomodarmi al mio posto, l’ultimo banco della fila vicino alla finestra.
Faccio un cenno di saluto quando passo a fianco di Yohei, ma l’occhiata gelida che ottengo in risposta mi blocca.
Un cancellino vola per l’aula e finisce la sua corsa sulla mia testa.
«Sakuragi! Vogliamo sbrigarci?» mi intima il professore, alquanto scocciato.
Arrivo al mio banco e mi siedo, ma non riesco a togliermi dalla testa quello sguardo. Sono spiazzato da questo suo atteggiamento. E’ vero che, da capodanno, non sono più uscito con lui e il resto della banca essendo sempre in compagnia della Volpe. L’ultima volta che l’ho sentito è stato per telefono qualche giorno fa, e gli promisi che gli avrei parlato appena ci saremmo visti. Non mi sembrava corretto aggiornarlo su novità così importanti, se non di persona.
Le lezioni trascorrono noiose come sempre. Fatico a trattenere gli sbadigli che, sempre più spesso, allargano la mia bocca. Dovrei fare come qualcuno di mia conoscenza: appoggiare la testa sul banco e dormire.
«Sakuragi!» urla il professore dell’ultima ora. «Si può sapere cosa c’è di così divertente nella mia lezione?».
Il riflesso della finestra mi restituisce il mio volto con un sorriso ebete sulle labbra.
Fortuna vuole che arrivi la campanella in mio soccorso.
Tutti si alzano e io mi avvicino a Yohei, il quale esce dalla classe senza nemmeno degnarmi di uno sguardo.
Ok. Che cazzo sta succedendo?
Lo seguo. «Ehi, Yohei! Ti devo parlare!» urlo, attirando la sua attenzione.
«Io e te non abbiamo niente da dirci» risponde, a testa china, prima di voltarsi e andarsene.
Io rimango come un deficiente, fermo in mezzo al corridoio, a fissare il mio migliore amico allontanarsi.
Ho sempre pensato che se c’era una persona su cui potevo contare, con cui confidarmi, quella fosse Yohei. Lo conosco da una vita, siamo praticamente cresciuti insieme. Non credevo che qualcosa potesse intaccare la nostra amicizia, eppure è successo, solo non capisco cosa.
Con passo malinconico, imbocco le scale verso la terrazza dove Kaede mi aspetta. Certo, non è proprio stagione per stare all’aperto, e di sicuro non ci sarà nessuno oltre a noi due, il che non mi dispiace affatto: potremmo trascorre del tempo insieme, senza dover fingere di odiarci. E poi, un po’ di aria fresca mi aiuterà a schiarirmi le idee.
Arrivo alla porta e la spalanco, ritrovandomi davanti una scena che mi ghiaccia il sangue nelle vene.
Yohei, il mio migliore amico, tiene con rabbia il colletto della divisa di un contuso Kaede, il mio ragazzo.
Il primo si volta e, quando mi vede, spalanca gli occhi, allontanandosi subito dal secondo di qualche passo. Questi, libero dalla presa e senza alcun sostegno, si accascia al suolo: con un colpo di tosse, sputa alcune gocce di sangue sul pavimento. Preoccupato, mi precipito in ginocchio davanti a lui e gli poso entrambe le mani sulle spalle per sorreggerlo. Ma è la rabbia che, dalla bocca dello stomaco, mi sale implacabile.
«Yohei! Spiegami cosa cazzo stavi facendo?!» urlo, voltandomi.
Lui però non c’è. Se n’è andato.
Riporto la mia attenzione su Kaede: la sua bocca è piegata da una smorfia, gli occhi sono contratti dal dolore e tiene stretto il braccio destro al petto, sorreggendolo con l’altra mano. Gli chiedo dove gli fa male ma non mi risponde. Una strana angoscia mista a panico mi travolge, serrandomi la bocca. In silenzio, lo aiuto ad alzarsi e lo accompagno in infermeria, dove veniamo subissati di domande sull’accaduto. Mentre la Volpe rimane chiusa nel suo mutismo, io racconto di averlo trovato conciato così da solo sul terrazzo, evitando di fare il nome di Yohei.
Non voglio metterlo nei guai, non prima di averci parlato e chiarito questo casino.
Alla fine l’infermiera demorde e si concentra sulle ferite di Kaede, invitandomi a uscire e aspettare in corridoio.
Prima di chiudere la porta, lancio un ultimo sguardo al bel ragazzo dai capelli corvini seduto sul lettino, a cui, ora dopo ora, mi sento sempre più strettamente legato.

Continua

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


 

Alla Luce del Sole
di Cioppys

 

Capitolo 6

Dopo circa mezz’ora, l’infermiera esce a chiamarmi. Entro e occupo la sedia libera accanto al lettino dove Kaede è sdraiato. Osservo attentamente la testa fasciata, i due grossi cerotti sulla guancia e il braccio destro appeso al collo.
Yohei non ci è andato leggero, e questo mi fa ancora più male.
La donna ci osserva in piedi dal fondo del lettino. «Il tuo amico non ha detto una parola» dice seccata. «Sicuro che tu non hai visto nulla?» mi chiede, socchiudendo gli occhi.
Scuoto il capo. Sono troppo agitato per parlare e temo che la mia voce mi tradisca.
Lei sbuffa e finalmente sembra desistere. «Ho capito. Comunque Rukawa deve andare in ospedale».
Io la guardo a bocca aperta. «Cosa?!» sussurro, incredulo.
«Pur piccola che sia, sospetto abbia una frattura al braccio» dice, sistemandosi gli occhiali sul naso e guardando la cartella che tiene in mano. «Puoi rimanere con lui finché l’antidolorifico che gli ho dato non fa effetto. Ora vado ad avvisare i professori delle vostre classi» conclude, prima di tirare la tenda e lasciarci soli.
Una frattura al braccio?
Stringo i pugni sulle ginocchia, ma non riesco a fermare il tremore dettato dalla rabbia, dietro cui si nasconde il senso di colpa di quello che è successo. E’ vero, non sono stato io a picchiare direttamente Kaede, ma Yohei è il mio migliore amico, cazzo! Sarà forse un ragionamento stupido, infantile, ma io mi sento responsabile dell’accaduto.
Guardo con angoscia il ragazzo steso sul lettino con il volto girato dall’altra parte, nel tentativo di capire cosa stia provando e cosa possa fare. Il suo silenzio inizia a pesarmi come un macigno, ma non ho il coraggio di infrangerlo. Allungo una mano e gli tocco la spalla. Subito sento che si irrigidisce e so che è turbato. Non sapendo che altro fare, mantengo quel contatto, fino a quando non sento la porta aprirsi. L’infermiera è tornata.
Mi appoggio allo schienale e osservo fuori dalla finestra il cielo plumbeo, che rispecchia molto il mio umore del momento: grigio e cupo. Chissà se nevicherà oggi.
Rimaniamo in infermeria fino al suono della campanella pomeridiana. A quel punto Kaede si alza e mi lancia un’occhiata, pensando che non lo stessi osservando, poi si avvia verso il corridoio. Lo seguo, sempre in silenzio, fino a quando non raggiungiamo le scale.
«Ti accompagno» dico, e non è una domanda.
«Non è necessario» risponde lui atono, senza nemmeno guardarmi. «Se manchi anche tu agli allenamenti, chi lo sente il capitano».
«Sei sicuro?» chiedo, contrariato dal volermi escludere, mentre ci avviciniamo alla sua classe.
«Si». Non aggiunge altro e varca la decima sezione del primo anno.
Rimango a fissarlo mentre raccoglie le sue cose ed esce, incurante degli sguardi dei compagni di classe e non solo che osservano la scena da una certa di distanza, parlottando tra loro. Ovviamente il pensiero di tutti è che sia stato io a ridurlo in quelle condizioni, ma come biasimarli? Fino a dieci giorni fa, l’avrei pensato io stesso.
Raccolta la borsa in classe, raggiungo la palestra. Quando entro negli spogliatoi c’è solo Mitsui, che si sta infilando la maglietta. Raggiungo il mio armadietto e inizio a cambiarmi anche io.
«Ehi, Sakuragi» mi chiama corrucciato, notando la strana espressione sul mio volto.
«Non chiedermi nulla, Mitchi» lo anticipo.
Non ho molta voglia di parlare. Ma lui ovviamente non mi ascolta.
«Problemi con chi sappiamo noi?».
«Beh, non proprio» mi passo una mano tra i capelli, non sapendo che altro dire. «O meglio…».
«Hanamichi!»
Mi volto e vedo Ryota entrare nel locale come una furia, seguito a ruota da Ayako.
Il nostro playmaker mi viene incontro e mi afferra per la maglia con entrambe le mani, tirandomi verso di sé.
«Che cazzo gli hai fatto?» mi urla contro.
E’ ovvio che hanno saputo di Rukawa.
«Non sono stato io!» rispondo di getto.
«Si, certo, come no!» ribatte lui, strattonandomi con più forza.
Mitsui interviene e gli afferra un polso, cercando di allentare la presa.
«Si può sapere che è successo?» chiede.
Ryota si volta a guardarlo, ma non ha la minima intenzione di lasciarmi.
«Davvero non lo sai? Questo idiota ha pestato a sangue Rukawa! Ecco cosa è successo!».
Mitsui mi fissa incredulo. Io scuoto il capo e abbasso la testa.
«Si può sapere che ti è preso?» continua a accusarmi Ryota, digrignando i denti. «Capisco che essere baciato da lui sia stato uno shock…».
«Diglielo».
Tutti ci voltiamo verso Mitsui, mentre lui mi fa un cenno del capo scrutandomi negli occhi.
Eh? Dovrei dirgli che… no! Nono sono pronto!!
«Dirci cosa?» chiede Ayako, accigliata.
«Prima o poi lo verranno a sapere» insiste Mitsui. «Diglielo e chiudiamo qui questa discussione».
Nelle pupille della nostra manager passa un lampo e mi guarda a bocca aperta.
«Non dirmi che tu e Rukawa…» non conclude la frase, lasciando a me il compito di confermargli il dubbio con un cenno della testa.
Ayako chiude di scatto la bocca, mentre le sue gote si colorano di un tenue rosso.
«Qualcuno vuole spiegarmi?! » esclama Ryota, non afferrando il senso di quello scambio.
«Svegliati Miyagi!» sospira Mitsui, esasperato. «Sakuragi e Rukawa stanno insieme!».
Ryota fissa il compagno di squadra con occhi spalancati, ripetendo a bassa voce le sue stesse parole.
La presa sulla mia maglia si allenta, fino a scomparire, e io mi allontano di un passo, sistemandola.
«Ma Haruko?» chiede poi, quando finalmente riesce ad articolare una frase di senso compiuto.
«L’ho lasciata» ammetto, con sguardo schivo. «Senti, so che sembra assurdo, ma io…» non riesco a concludere la frase, troppo imbarazzato dalla verità che dovrei dire, ovvero che lo amo.
Direi che per oggi può bastare.
Nello spogliatoio cala il silenzio e io vorrei tanto svanire e levarmi da questa situazione spiacevole.
Purtroppo non faccio in tempo a fare un passo che sulla soglia della porta appare la figura minacciosa del Gorilla.
Ora che ci penso, è la prima volta che lo vedo da quando ho lasciato Haruko. Chissà cosa gli avrà raccontato. Che l’ho lasciata per Kaede? Ad essere sinceri, non ha importanza. Immobile, resto in attesa che cali i suoi pugni su di me.
Kogure, che entra subito dopo di lui, si mette in mezzo. «Akagi fermati!».
«Levati» gli intima, ma lui non si sposta.
Nel frattempo, altri componenti della squadra entrano negli spogliatoi, rimanendo ad osservare la scena.
Sospiro. «Senti Gori, mi dispiace per…».
«Brutto deficiente che non sei altro!» mi urla, con tanta rabbia. «Ho saputo che Rukawa è andato in ospedale!».
Eh? Rukawa?
Sbatto le palpebre, incredulo. Non è della sorella che sta parlando?
In mia difesa interviene Mitsui. «Akagi, per una volta non è lui ad averlo picchiato».
«E ci dovrei credere?!» ribatte il capitano. «Non fanno che litigare, venire alle mani appena ne hanno l’occasione! Era ovvio che prima o poi uno dei due si sarebbe fatto male seriamente! Ma non dovrei stupirmi di come l’ha ridotto dopo quello che mi ha detto mia sorella della notte di capodanno».
«Io e Kaede stiamo insieme, questo Haruko non te lo ha detto?».
Ok, sono stupito di me stesso per essere uscito con una frase del genere!
Guardo i miei compagni, uno più sorpreso dell’altro, e per un istante mi chiedo se ho fatto bene a chiarire la situazione. Ma il dubbio dura solo un battito di ciglia.
«Beh? E’ forse un problema?» chiedo corrugando la fronte e infilando le mani nell’elastico dei pantaloncini.
«Insomma, non proprio» mi risponde Kogure, sistemandosi gli occhiali sul naso. «Cioè, sorvolando sul fatto che siete due maschi – non che la cosa personalmente mi dia fastidio! – quello che più mi stupisce è il fatto che non vi sopportavate a vista e ora state… insieme? Scusa, ma questo ha davvero dell’incredibile!».
Il suo sorriso è sincero e, in parte, mi sento sollevato.
«Credi che la cosa non stupisca pure me?» gli dico, alzando le spalle. «Comunque è andato in ospedale per una lastra al braccio. Più tardi passo a sentire che gli hanno detto e vedere come sta».
La tensione che si respirava fino a qualche secondo prima svanisce di colpo. Vedo compagni di squadra annuire, altri farmi un sorriso, altri darmi una pacca sulla spalla. Nessuno sembra giudicarmi in malo modo o provare ribrezzo e ciò non può che rendermi felice. Solo, non vorrei che la voce si spargesse ai quattro venti.
Mi schiarisco la voce attirando l’attenzione di tutti. «Potete evitare di raccontarlo in giro?» chiedo, con la faccia che probabilmente è del colore dei miei capelli. «Insomma, un conto è che lo sappiate voi, un conto, ecco…» l’imbarazzo mi attorciglia la lingua e non riesco a dire altro.
Mitsui ghigna, dandomi una pacca sulla schiena. «Non ti preoccupare, scimmia! Sarà il nostro piccolo segreto».
Finiamo di cambiarci e, uno dopo l’altro, usciamo per iniziare gli allenamenti.
«Sakuragi» mi chiama il Gorilla, quando sono nel corridoio a pochi passi dalla palestra
Io mi fermo e, quando mi raggiunge, attendo che parli.
Lui rimugina un attimo prima di aprire bocca. «Senti, mi dispiace di averti accusato del pestaggio di Rukawa».
Ok, raccoglietemi la mascella dal pavimento! Cioè, il Gorilla sta chiedendo scusa a me?!
«Non fare quella faccia, razza di idiota!» e mi agita minaccioso un pugno davanti al mento. «D’altro canto, anche se ha sofferto, sono sollevato che tu non stia più con mia sorella. La anche sola remota possibilità di averti come cognato era terrificante!» conclude, entrando in palestra senza darmi possibilità di ribattere.
Lo seguo, varcando la porta proprio nel momento in cui arriva Haruko con le sue amiche per assistere agli allenamenti. Lei alza una mano e mi saluta, accennando un sorriso. Io ricambio il gesto, sollevato nel vedere che stia bene e non sia troppo arrabbiata con me. Poi mi guardo intorno e noto che, tra le fila della mia banda, manca proprio Yohei.

Finiti gli allenamenti, lascio velocemente la palestra e raggiungo di corsa la casa della Volpe. Mentre mi avvicino alla porta cerco di essere positivo, con scarsi risultati. Il fatto che Yohei possa avergli fratturato il braccio, mi mette di cattivo umore. E la cosa non migliora affatto quando lui mi apre la porta e vedo il gesso che gli copre la pelle dal gomito alla mano.
«Kaede» sussurro, allungandomi verso il braccio, senza però toccarlo.
Lui non proferisce parola e arretra all’interno della casa, facendomi segno con la testa di seguirlo. Raggiungiamo il salotto e mi accomodo sul divano al suo fianco. Lui si rannicchia, portando al petto le ginocchia, e vi appoggia sopra la fronte, nascondendomi così il viso.
Sono in ansia, terribilmente in ansia.
«Hai parlato con Mito?» mi chiede.
«No» rispondo secco. «Perché ti ha picchiato?».
Ho bisogno di sapere.
«Devi parlarne con lui» insiste.
«Ma…»
Kaede alza la testa e mi guarda dritto negli occhi, con tanta serietà da spaventarmi.
«E’ il tuo migliore amico, no?» non è una domanda. «Dovete parlarne, Hana. E’ importante».
Annuisco e mi avvicino, prendendogli il volto tra le mani. Lo bacio, mentre calde lacrime mi solcano le guance. Quando mi allontano e lui le vede, le asciuga con una mano e le labbra, sussurrandomi parole dolci e numerosi “do’hao” nel tentativo di tranquillizzarmi, invano. I singhiozzi si fanno più forti. Lo abbraccio, affondando il volto nell’incavo tra la spalla e il collo. Una mano mi accarezza i capelli.
«Non è grave» mi sussurra all’orecchio. «Solo una micro frattura. Un mese e il braccio sarà come prima».
Io mi scosto e lo guardo. «E per un mese non potrai giocare a basket» gli dico, tra un sussulto e l’altro.
So quanto ci tiene, quanto sia importante nella sua vita quello sport. L’idea di non vederlo in campo a giocare fa soffrire me, non oso immaginare come si senta lui.
Con le braccia mi cinge il collo e mi tira verso di sé. «Vorrà dire che dovrai tenermi occupato come solo tu sai fare» sussurra malizioso, soffiandomi sul collo.
Sei una maledetta Volpe!
Lo stringo alla vita e lo bacio, chiedendo subito accesso alla sua bocca. Sposto le mani sui glutei sodi e la schiena, invitandolo a stendersi sul divano. Lui capisce le mie intenzioni e mi aiuta a togliere qualche indumento di troppo.
La camera è lontana e noi sentiamo la necessità di amarci ora, in questo preciso momento.

Mi alzo più presto del solito, con l’intento di incontrare Yohei prima dell’inizio delle lezioni e chiarire una volta per tutte questa situazione. Mi incammino verso l’istituto Shohoku, con l’aria fresca del mattino che mi accarezza il viso, arrivando di buon ora nel punto in cui le nostre strade si congiungono e proseguo verso casa sua.
Durante il tragitto, rimugino per l’ennesima volta sul motivo del suo comportamento. Ammetto di avere il vago sospetto che riguardi proprio la Volpe, ma fino a ieri solo quattro sapevano cosa fosse accaduto la notte di capodanno e solo Mitsui era a conoscenza dell’effettivo rapporto tra noi.
E se lo avesse scoperto in qualche modo? E se la cosa lo ripugnasse?
Questo pensiero mi travolge, tanto che mi blocco nel bel mezzo della strada a fissare l’asfalto.
L’idea che il mio migliore amico non possa accettarmi per quello che sono fa male.
Peggio, l’idea che possa addirittura perderlo mi mette addosso un’angoscia terribile.
Tremo, e non è per il freddo.
Serro i pugni dentro le tasche del mio piumino nero e, con un profondo respiro, riesco in qualche modo a calarmi.
Riprendo il cammino perso nei miei pensieri e, svoltando l’angolo successivo, non mi accorgo della persona che sopraggiunge di corsa dall’altra parte: irrimediabilmente ci finisco addosso ed entrambi roviniamo a terra. Mi alzo, pronto a scusarmi, quando mi ritrovo davanti proprio Yohei. Anche lui è già in piedi, ma non gli lascio il tempo di allontanarsi: lo afferro per un polso e una spalla, bloccandolo contro il muro perimetrale della casa che mi ha nascosto il suo arrivo. E’ inquieto: la mano trema, mentre stringe i denti ed evita di guardarmi negli occhi.
«Yohei, noi dobbiamo parlare» dico, stringendo la presa sulla spalla.
«Ti ho già detto che non abbiamo niente da dirci» sussurra, tenendo la testa bassa.
«Davvero?» chiedo, ironico. «Nemmeno del perché tu abbia preso a pugni Kaede?».
Lui sospira. «Adesso lo chiami per nome?».
«Tu sai di noi due, vero?».
Non è proprio una domanda, ma Yohei accenna un “si” con la testa.
«E allora perché?» chiedo, con una rabbia che mi monta dentro. «Cazzo, sei il mio migliore amico!».
«Appunto». Sospira di nuovo, poi mi guarda fisso negli occhi. «Sono solo il tuo migliore amico».
Sbatto le palpebre un paio di volte. Il dubbio si insinua nella mia testa, ma fatico a crederci.
«Erano alcuni giorni che non ti facevi sentire, per cui sono venuto a cercarti». Sento il suo corpo irrigidirsi, mentre lo sguardo si fa triste. «E vi ho visto. Al campetto. Lo stavi baciando. Stavi baciando Rukawa». Socchiude gli occhi e emette l’ennesimo sospiro. «Tu non hai idea di quanto avrei voluto essere al suo posto».
«Yohei, tu…» non riesco a concludere la frase.
Come ho fatto a non accorgermi di quello che provava per me? Ora che mi ha aperto gli occhi è così evidente e tante situazioni, gesti e parole assumono un significato diverso. Mi sento uno stupido.
 «Mi ero rassegnato quando ti sei messo con Haruko» continua. «Poi arriva quel “ghiacciolo” e capisci che non sono le ragazze ad interessarti davvero? Non sopportavo che lui fosse riuscito in quello che io desideravo da tempo».
Lascio liberi polso e spalla, allontanandomi di un passo.
«Mi dispiace». Sento una fitta al cuore. «Io non posso darti quello che mi stai chiedendo».
«Lo so». Yohei mi guarda, e un sorriso triste si allarga sul suo viso.
Rimaniamo uno di fronte all’altro in silenzio. Poi, Yohei raccoglie la cartella, caduta prima durante il nostro scontro, e si incammina verso la scuola. Senza che me lo chieda o altro, lo affianco.
«Come sta Rukawa?» domanda, quando l’edificio dello Shohoku è ormai visibile in fondo alla strada.
«Ha una micro frattura sul braccio: non potrà giocare per un mese, ma sta bene» rispondo, senza pensarci.
Lui si ferma e mi fissa a bocca aperta.
«Non volevo davvero fargli del male!» esclama. «Non mi odiare per questo».
Io gli poso una mano sulla spalla, sfoderando il mio miglior sorriso. «Non potrei mai odiare il mio migliore amico».

Con la schiena appoggiata al muretto della e le mani infilate nelle tasche, alzo la testa e osservo il cielo terso. Le poche nuvole bianche presenti sono sospinte veloci dal vento. Kaede, seduto al mio fianco, tiene gli occhi chiusi e si crogiola al sole che, nonostante la stagione, è piacevolmente caldo.
Sembra addormentato, ma so bene che invece non lo è.
«Davvero non ce l’hai con Yoehi?» gli chiedo.
Il mio migliore amico è venuto a porgere le sue scuse al mio ragazzo, ricevendo come risposta il classico “mh” che vuol dire tutto e niente al tempo stesso. Da quando ci ha lasciato soli, sarà la terza volta che pongo la stessa domanda.
«Si, davvero» mi risponde, scocciato. «E se me lo chiedi un’altra volta, ti chiudo la bocca a mio modo».
Io sento le guance farsi rosse e mi lascio scivolare a terra, avvicinandomi a lui. Allungo una mano verso i suoi capelli e afferro una ciocca della frangia, lisciandomela tra le dita. Lui solleva le palpebre e mi fissa con tanta intensità che sento il cuore saltarmi in gola.
«Sai, quest’anno ho ricevuto il più bel regalo di compleanno che potessi mai desiderare» dice, afferrandomi la mano e stringendola nella sua.
«Compleanno?» chiedo, confuso. Effettivamente non so quando sia. «Ma quando? E di che regalo parli?».
«Il 1 gennaio» risponde, non aggiungendo altro.
E io capisco, felice di essere così importante per lui.
«Il mio è il 1 aprile» faccio, allargando un sorriso. «Almeno puoi già pensare adesso a che regalarmi!».
«Do’aho» sbuffa, poi incurva le labbra. «Lo sapevo già».
Avvicino il mio viso al suo e lo bacio con dolcezza.
«Non hai paura che qualcuno ci veda?» mi chiede, un po’ sorpreso, quando ci separiamo.
«Beh, si» affermo, non senza imbarazzo, abbassando il capo. «Ma vorrei tanto poteri amare alla luce del sole, senza preoccuparmi degli sguardi o dei giudizi degli altri» sospiro, sapendo che non sarà affatto facile.
«Da quello che mi hai raccontato, con la squadra te la sei cavata bene, o sbaglio?».
Io alzo le spalle. Sinceramente con loro è successo e basta, non è che sia stata una cosa spontanea o premeditata.
Kaede mi afferra il mento e mi alza il viso, affinché possa guardarmi negli occhi
«Un giorno ci riuscirai» sussurra, avvicinando le sue labbra alle mie. «Ne sono più che sicuro, do’aho».
Mi bacia, con trasporto, mentre il sole, dal punto più in alto del cielo, risplende su di noi.

FINE

 

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