Dreamworld

di Peppermint_Angel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** La Prima Notte - Parte Prima ***
Capitolo 3: *** La Prima Notte - Parte Seconda ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


Ricordo come fosse ieri: un trono di legno, apparentemente realizzato da un tronco caduto o stroncato da un fulmine, con intarsi d’oro colato a caldo e poi solidificato tra le venature della corteccia. Su di esso, la creatura più curiosa che avessi mai visto: pelle candida, sottile come un giunco, eppure così regale da non poter nemmeno credere di sfuggire al suo sguardo, o alla sua furia. Mi guardava, il viso affilato appoggiato alla mano, pensieroso, come se si chiedesse cosa farsene, di una come me. Non so perché, avevo i brividi.
 
“Siamo in un sogno, non fa freddo”
 
Dissi a me stessa, cercando di controllare il mondo intorno a me come avevo già fatto centinaia di volte, eppure la sensazione non passava.
Notai solo a quel punto le grandi corna che gli sovrastavano il capo. Dovevano essere state bianche, come lui, una volta. Ma ora il muschio le aveva invase, come una pietra lasciata in un fiume per troppo tempo, rendendole viscide e verdi.
 
Forse.”
 
Fu la prima parola che gli sentii pronunciare.
Cosa voleva dire “forse”? Avevo fatto una domanda che non ricordavo?
Ma era troppo tardi.
Stavo già tornando indietro.

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Capitolo 2
*** La Prima Notte - Parte Prima ***


“…E ti dico, non me lo dimenticherò mai!” aggiunsi, con veemenza “Quel sogno l’ho fatto anni fa, eppure è nitidissimo.”
“Io non sogno mai!” Mormorò Nimue a bassa voce, sollevando gli occhi pensierosa.
“A volte è un bene…” la consolai, con un sorriso.
 
*
 
Mi chiamo Arielle, ho 24 anni.
Sono una ragazza come tutte le altre: forse l’unica cosa che mi distingue dalla massa a un primo sguardo sono i capelli color rame, ma è cosa di poco conto.
Amo viaggiare, e per fortuna ho un lavoro che mi permette di farlo molto spesso.
 
Nimue è la mia migliore amica. Non c’è niente che non le direi, ed ecco il motivo per cui le stavo raccontando il mio strano sogno. L’ho fatto una notte, tanto tempo fa, mentre ero ancora alle scuole medie…e il suo ricordo non mi ha mai abbandonato.
Parliamo spesso di sogni, io e lei, che siano reali o meno. I miei di solito sono quelli meno terra terra! Questo perché il dono che ho, forse il più grande che abbia ricevuto finora in vita mia, è il saper sperimentare quelli che vengono definiti “sogni lucidi”.
 
Alcune persone allenano la propria mente per arrivare a sperimentare quello che io faccio ogni notte quando mi addormento, ma per me è completamente naturale: ho la capacità di rendermi conto che sto sognando, e di manipolare il sogno a mio piacimento.
Posso volare su un drago, far crescere montagne, giocare con le fate e vivere i mondi che voglio non appena chiudo gli occhi.
Ci sono volte, tuttavia, in cui non riesco a cambiare quello che vedo. Sono rare, ma questo sogno era una di esse.
 
*
 
“Quando ci rivedremo Ari?” Nimue interruppe il filo dei miei pensieri.
“Oh…tra due giorni parto per Parigi. Starò via una settimana, poi sarò di nuovo a casa.” Le risposi, finendo di bere la mia tazza di the caldo. Verde al gelsomino, il mio preferito. 
Nimue fece il broncio.
“E dire che io devo stare chiusa in ufficio da mattina a sera.”
“Oh, dai! Come se io fossi in giro a divertirmi!” la rimbeccai ridendo “A proposito di viaggi, però, devo andare. Domani sistemo gli ultimi documenti e preparo i bagagli…mi alzo presto”.
 
Mi alzai, con calma, evitando abilmente gli assalti giocosi dei suoi due cuccioli di border collie, e mi avviai verso la porta.
 
 _____________________________
Ero immobile sull’orlo di un precipizio.
 
Un momento.

Non era un precipizio…quello intorno a me non era bosco, quelle a terra non erano semplici rocce.
Erano travi, che dovevano aver sorretto il tetto di una casa, tempo fa. Ora erano nere, consumate da pioggia e vegetazione, che le aveva invase rendendole un piccolo ecosistema a se stante.
E a terra, invece della nuda roccia, c’era marmo. Forse era stato bianco una volta, ma gli arbusti avevano trovato la loro strada tra le pietre, e in ogni crepa, ogni fessura di quelle rovine distrutte, ora cresceva una pianta, o un fiore. Vi era un senso di abbandono che permeava ogni cosa, eppure non era una sensazione spiacevole. Sembrava di essere in un mondo sperduto e dimenticato da ogni dio esistente, eppure allo stesso tempo così bello che sembrava essere stato custodito gelosamente da esseri sovrannaturali.
 
Mi era chiarissimo, quello era un sogno.
 
Il salto di fronte a me, tuttavia, non mi tentava. Prima di piegare un mondo alle mie regole, cerco sempre di esplorarlo nella sua follia.
Mi voltai, e vidi che poco distante da me c’era un’intera foresta di travi come quelle che avevo accanto. Mossi qualche passo nella loro direzione, intenzionata a dare un’occhiata più da vicino. I miei piedi, nudi e pallidi, poggiavano sul marmo sentendo ogni più piccola crepa. Ancora non sapevo a cosa andavo incontro.

Le travi non formavano nessun percorso da seguire. Sembrava proprio che qualcosa di immenso fosse crollato, in modo tanto grave che, più che creare un sentiero, ostruivano qualsiasi via possibile. Mi arrampicai su una trave dopo l’altra, scostando spesso rami e rampicanti con le mani mentre scavalcavo i pezzi di legno.

Finalmente, giunsi in una radura.

“Che strano” pensai, “una radura?” Mossi qualche passo verso il centro dello spiazzo.

*

Prima che potessi guardarmi intorno e cercare di capire dove mi trovavo, qualcosa all’improvviso si mosse sotto di me. Dalla sorpresa mi sfuggì un grido!

Una rete, fissata a uno dei pochi alberi robusti che avevo visto finora, si era sollevata da sotto i miei piedi e ora mi teneva imprigionata a mezz’aria. Era successo tutto così in fretta che prima che pensassi di reagire passò qualche secondo. Siccome non mi piaceva la piega che aveva preso il sogno, e non volevo si trasformasse in un incubo, cercai di far si che la rete si aprisse, e immaginai di dirigermi verso il suolo lentamente, per evitare lo schianto. Avrei sistemato le cose in un batter d’occhio.

Eppure, nonostante la mia buona volontà, la rete non si mosse di un millimetro. Sollevai le mani, e la tastai, per capire di cosa fosse fatta. Sembrava erba essiccata, ma aveva anche un aspetto parecchio resistente.
Mentre mi ponevo mille domande su perché non riuscissi a controllare il sogno come ogni volta che ci provavo, dal bosco emersero alcune creature.

Erano sottili, e la loro pelle era assolutamente candida. Certo, forse non la loro in particolare...cercando di mimetizzarsi, si erano ricoperti di terriccio, fuliggine, foglie secche. Ma sotto la sporcizia si intravedeva comunque l’incarnato bianco come neve. Le gambe lunghe si posavano sul terreno con una leggerezza e elasticità che non avevo mai visto prima. A differenza delle mie, parevano fatte apposta per scavalcare quelle travi che ci circondavano, ed arrampicarsi sulla poca vegetazione che lo consentiva. Le loro braccia non erano diverse, lunghissime e affusolate. Le mani, dalle dita sottili, stringevano archi e frecce, tutti puntati nella mia direzione. Un paio di loro avevano una fionda realizzata in legno nodoso. Gli archi, invece, sembravano avere una particolare attenzione nella manifattura. Erano rozzi, intagliati nel legno senza troppi complimenti, eppure qualcuno aveva utilizzato del tempo per incidervi sopra degli strani ghirigori, che avrebbero potuto essere semplici decorazioni quanto formule magiche, per quanto potevo leggere da dove mi trovavo.
Erano una decina scarsa, in tutto.

Rimasi a fissarli, immobile, spaventata dalle armi che portavano.

“È solo un sogno!” ricordai a me stessa. Eppure avevo freddo, e nell’aria c’era una sensazione di pericolo che non riuscivo a scacciare. Ecco come si sente una preda di fronte al cacciatore.

La mia immobilità dovette convincerli che non costituivo un pericolo. Abbassarono appena le armi, ma vidi che non abbandonavano del tutto l’allerta.

“Chi siete?” 
Uno di loro parlò. La sua voce era cavernosa, come se venisse dal fondo dei suoi polmoni. Era profonda, con una nota vibrante, e dava un certo senso di inquietudine.

Lo osservai, senza sapere cosa dire, per qualche secondo.
“Sono Arielle” dissi, come se lo avessi anche io realizzato in quell’istante.

Le creature si guardarono tra loro. La mia risposta non li aveva impressionati, ed era chiaro che il mio nome per loro non significava assolutamente nulla.
La stessa creatura di poco prima, che doveva essere in qualche modo alla loro testa, parlò ancora.
“Cosa siete?”

Rimasi in silenzio, questa volta nemmeno uno sforzo considerevole mi consigliò quale fosse la risposta giusta da dare.

*

“E’ un essere umano”.

Una voce risuonò nella mia testa. Nessuno aveva parlato, eppure io l’avevo sentita.
A giudicare dalle reazioni dei guerrieri, dovevano averla percepita anche loro. Si voltarono tutti nella stessa direzione, e seguendo il loro sguardo vidi un diverso tipo di creatura. Aveva pressapoco le dimensioni di un gatto, ma sembrava più essere un piccolo cervo. Aveva delle lunghe corna, ma invece che essere orientate verso l’alto come quelle dei cervi, crescevano verso il basso, in una piccola, delicatissima spirale. Ma ciò che davvero impressionava era la bellezza del suo mantello: era cangiante, dal giallo crema al blu intenso, cosparso di quelle che sembravano stelle. E che in effetti avevano tutta l’aria di esserlo, visto che sulla fronte aveva, chiaramente, la costellazione dell’orsa maggiore.

Le parole che tutti gli avevano sentito pronunciare avevano creato dello scompiglio. Le creature parlottarono tra loro per qualche minuto, prima di sfoderare nuovamente arco e frecce.

E li puntarono contro di me.
 

Mi rannicchiai immediatamente, coprendomi la testa con le braccia, solo per scoprire che il loro obiettivo non ero io, quanto la corda che teneva appesa la rete. Purtroppo lo scoprii nel modo peggiore: sensazione di vuoto e dolorosissimo tonfo.

“Ah!” esclamai, presa nuovamente in contropiede.

Senza quasi guardarsi tra loro, e di sicuro non cercando di fornire una spiegazione a me, sollevarono la rete di peso. Ci vollero solo un paio di loro, eppure non sembrava uno sforzo insopportabile. Quelle membra sottili come giunchi dovevano essere molto più robuste di quanto sembravano. Mi allontanarono dalla radura.

Voltandomi, potei vedere ancora una volta il piccolo cervo coperto di stelle. Mi osservava, ma non si avvicinò, e dopo qualche istante scomparve nella vegetazione da cui era venuto.

Rivolsi quindi la mia attenzione al piccolo plotone che mi stava trasportando, decisamente contro la mia volontà.
“Ehi! Dove mi state portando??” esclamai, furiosa.
Inutile dire che non ricevetti risposta, e questa è una cosa che mi disturba moltissimo. Probabilmente avrei solo dovuto usare un po’ più di convinzione.
“Ho detto...dove - mi state – portando??” urlai di nuovo, rivolta in particolare a quello che avevo capito essere il loro capitano, e che mi camminava al fianco.
Non si degnò nemmeno di alzare lo sguardo su di me. Disse solo:

Nikolao”.

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Capitolo 3
*** La Prima Notte - Parte Seconda ***


Dopo una marcia relativamente breve (cos’è il tempo in un sogno? Quella marcia avrebbe potuto essere durata anni, oppure pochi secondi) ci ritrovammo dinanzi ad un edificio. Grezzo, interamente in legno, ricoperto di muschio come le travi crollate che lo circondavano. A differenza delle travi, tuttavia, non sembrava essere bruciato e scuro: pur essendo legno vecchio, era stato scelto con cura, e il portone era decorato con gli stessi intarsi che avevo visto sugli archi dei miei sorveglianti.
Prima che potessi dare loro una seconda occhiata, i battenti si aprirono, rivelando un corridoio scarsamente illuminato da torce appese alle pareti. Nella penombra, venni portata ancora più avanti, verso la porta direttamente opposta all’ingresso. Intravidi altre porte sui fianchi del corridoio, ma erano tutte chiuse. Poco importava; la mia attenzione era completamente attratta dalla stanza verso cui ci stavamo dirigendo. I battenti che la separavano dal corridoio erano dorati, e anche alla scarsa luce del luogo rilucevano come gioielli.
Li oltrepassammo.
 
La luce improvvisa della sala in cui entrammo mi abbagliò per qualche secondo.
Quando fui in grado di vedere dove mi trovavo, vidi che si trattava di una stanza grande e molto alta. La luce entrava da grandi vetrate opache sul soffitto, e pur essendo rinforzata da alcune torce alle pareti, non era abbastanza calda da riuscire a lenire l’umidità del luogo. I muri dorati erano invasi dal muschio che, umido, gocciolava e scrostava la pittura, donando alla stanza un aspetto decadente, ma bellissimo.
La marcia dei soldati che mi trasportavano non si fermò fino a quando non raggiunsero un tronco bruciato posizionato contro la parete di fondo della sala. Sembrava come essere stato stroncato da un fulmine, e qualcuno, per ripararlo, vi aveva fatto colare dell’oro fuso. Si combinava perfettamente con il resto della stanza…E su di esso sedeva qualcuno che avevo già visto.
 
“Tu!” esclamai.
La creatura aprì gli occhi pigramente, e mi osservò.
Sbattè le palpebre pesanti un paio di volte, senza scostare la testa dalla mano su cui era poggiata, annoiato. Mi guardava, senza il minimo interesse, eppure io lo avevo già visto. Quelle grandi corna, coperte di muschio, quella pelle candida, il trono stesso su cui sedeva. Era la creatura che avevo incontrato nel sogno più vivido che avessi mai fatto.
Lui però non dava segno di riconoscermi. Sollevò, infine, la testa, cinta dalle pesanti corna, scostando la mano. Si alzò in piedi con un movimento elegante e morbido. La sua figura era quasi scheletrica, eppure dava l’impressione di essere flessibile e forte come un giunco. Non potevo negarlo: la sua figura era regale. Fragile forse, ma il suo sguardo e i suoi gesti non lasciavano spazio a dubbi: la sua autorità sui presenti e sugli assenti era indiscussa.
 
Dopo che si fu alzato, si avvicinò a me. Non indossava nulla sul petto, solo un paio di pantaloni ampi che arrivavano al ginocchio, dove erano stretti da alcuni lacci. Non aveva scarpe.
“Un’umana.”
La sua voce era carezzevole, profonda. A differenza delle guardie che mi avevano fatta prigioniera, la sua non era una domanda. Sapeva benissimo che cosa aveva di fronte.
“…Curioso.” Aggiunse, mentre i soldati mi appoggiavano a terra, rete e tutto il resto.
Non potendo alzarmi, me ne rimasi rannicchiata sul pavimento, osservandolo in modo truce. Tutto a un tratto, non sapevo che dire, e lasciai che fosse lui a parlare.
“Nessun essere umano può mettere piede in questo luogo.” Proseguì, serio, rivolto al capitano del plotone che mi aveva trasportata lì
“Uccidetela.”
“COSA?!” Esclamai terrorizzata, cercando di alzarmi. Improvvisamente, sentivo freddo.
 
Era solo un sogno, eppure me ne ero dimenticata. Non si può aver freddo nei sogni.
Immaginai di scaldarmi, e funzionò. Questo mi lasciò perplessa, lì per lì. Forse stavo recuperando la facoltà di controllare il sogno in cui mi trovavo?
“Non possono toccarmi…” pensai, cercando di autoconvincermi e di fermare le mani delle guardie che cercavano di afferrarmi.
Ma niente poteva allontanare la loro presa gelida sulla mia pelle. Erano fuori dal mio controllo.
 “…NO!!!” questa volta serrai gli occhi e urlai a squarciagola.
Sentii che mi lasciavano andare, all’improvviso.
Quando riaprii le palpebre, li vidi indietreggiare, guardandosi le mani piene di scottature e vesciche. Sentivo caldo, ora. Molto, molto caldo.
Incredula, li guardai allontanarsi e osservarmi con rabbia e timore. Cosa era successo?
Senza che me ne fossi accorta, la rete che mi tratteneva era bruciata. Il mio corpo…era immutato alla vista, ma apparentemente, al tocco, era incandescente.
Mi alzai lentamente in piedi, osservando le guardie con sospetto. Prima che potessi anche cercare di capire cosa stava accadendo, si stavano già preparando alle armi. Avevano imbracciato gli archi intarsiati che avevo già visto nella foresta, incoccato le frecce, e le avevano puntate contro di me, in un cerchio di morte. Ero completamente circondata.
 
Improvvisamente, i battenti dorati che avevamo attraversato si spalancarono con un tonfo attutito. Un piccolo corteo di persone fece il suo ingresso, chiaramente alla volta del trono, ove Nikolao, come la guardia aveva chiamato il re nella foresta, aveva ripreso posto senza che io nemmeno lo notassi.
Il gruppo che aveva appena attraversato i battenti si componeva di creature leggermente differenti da quelle che popolavano il salone: sui corpi meno scheletrici e oblunghi, e dall’aspetto più umano, indossavano ampie vestaglie color bronzo, rosso e verde, che sfavillavano ad ogni loro movimento alla luce delle candele.
Il gruppo era composto da tre esseri femminili e quattro maschili. Soltanto una delle donne era abbigliata in modo particolarmente ricco e opulento: sulle sue vesti sembrava essere stata tessuta una decorazione simile ad un arazzo, con scene di caccia nella foresta e fiori candidi. Le altre fanciulle si stringevano a lei, ma non erano nemmeno lontanamente curate quanto la ragazza nel mezzo. I capelli neri le scendevano lisci sulle spalle, perfettamente pettinati. La pelle del viso, bianca come l’alabastro, faceva risaltare gli occhi cangianti gialli e azzurri.
Ebbi solo qualche istante per osservarla, senza che lei nemmeno mi degnasse di uno sguardo, gli occhi fissi sul trono ove sedeva Nikolao.
 
Il più anziano degli uomini che componevano il resto del gruppo si fece avanti con un gesto teatrale e si inchinò profondamente, disegnando un ampio cerchio con le braccia, davanti al trono.
“Nikolao” esordì, mentre ancora si trovava con il ginocchio poggiato a terra e lo sguardo basso, rivolto ai piedi del re “Ci presentiamo umilmente a te, re di queste lande del sogno. Ti ho portato il dono più bello che potessi recare con me: mia figlia.”
Alle sue parole, la ragazza bruna fece una riverenza. Lo sguardo del re si posò su di lei, stanco.
“Ti prego di accettarla in moglie, e di-“
All’improvviso Nikolao si alzò in piedi, mettendo a tacere l’uomo che subito si affrettò a guardarlo con ansia, senza osare muoversi di un millimetro. Il re non lo degnò di uno sguardo, la sua attenzione era rivolta solamente alla ragazza.
“Chi sei?” Le chiese. La sua voce era annoiata, pigra. Sembrava una domanda già posta un milione di volte, eppure aveva una sua profondità. Mi ritrovai a pensare cosa avrei potuto rispondere io.
La ragazza sorrise, mostrando dei denti candidi e affilati nascosti dietro alle labbra piene e rosse come mele.
“Il mio nome è Sylk, figlia di Fustian, figlio di Aramid.” Disse, mentre si inchinava di nuovo in un’aggraziata riverenza.
“Mi sono state insegnate le arti che una donna deve conoscere. So cucire, cucinare, amministrare le persone a mio seguito.”
Nikolao si avvicinò alla fanciulla, muovendo quei pochi passi che li separavano. Il suo viso era a qualche millimetro da quello di lei, che non aveva mai perso il sorriso sfrontato e sensuale che gli aveva regalato all’inizio della loro conversazione.
“Ti ho chiesto chi sei.” Tagliò corto, interrompendo la sua presentazione. Non sembrava più annoiato, ora era chiaramente infastidito.
Il sorriso della ragazza che aveva detto di chiamarsi Sylk vacillò. Era chiaro che non sapeva che altro rispondere, tranne…
“…Chiunque voi vogliate che io sia, immagino.”
“…Immagini.” Ripetè lui, sacastico. “L’unica cosa che voglio che tu sia è…lontana. Lontana dalla mia vista.”
 
La ragazza doveva essere coraggiosa, sotto sotto, e realmente nobile. Sopportò con estrema dignità la stilettata di quelle parole. Con un altro grazioso inchino, sussurrò “Come sua maestà desidera.”
E mentre quelle flebili parole ancora aleggiavano nella sala, il gruppo intero si ritirò, in un silenzio sconvolto e frustrato. Le porte si richiusero con lo stesso tonfo sordo con cui si erano aperte solo pochi minuti prima.
 
Fu allora che il re riportò la sua attenzione su di me. Le guardie che avevo attorno non si erano mosse nemmeno di un millimetro, le loro frecce ancora puntate contro di me.
“…Portatela via. Nei sotterranei.” Ordinò.
 
Fu quando nessuno poteva più ascoltare le sue parole, che sussurrò:
Lasciatemi solo.

____

 

Probabilmente attraversai qualche breve attimo di dormiveglia, poiché, senza accorgermi di come ci fossi arrivata, improvvisamente ero in una cella.
…Oh, no.”


Mi guardai attorno. Non c’era il pavimento, ero seduta su un fondo di terra battuta, scomoda e polverosa. Cercai di muovermi, ma mani e piedi erano tenuti fermi da manette e catenacci in metallo pesante. Alzarsi in piedi era fuori discussione.
La cella dava su un corridoio relativamente bene illuminato, da quella che pareva essere luce naturale. La mia stessa prigione aveva una finestrella, da cui entrava altra luce…e altra polvere.
Rimasi ad ascoltare il mio respiro per un po’, prima di sentire una voce flebile sussurrare:
“Sei sveglia?”
Sobbalzai, guardandomi attorno. Nel corridoio, stava ritto sulle zampe il piccolo cervo dal manto stellato che avevo incontrato nel bosco, quando ero stata catturata. Mi osservava da oltre le sbarre, anche se piccolo com’era sarebbe potuto facilmente passarvi attraverso. Negli occhi dorati della creaturina colsi una punta di apprensione, non saprei dire se per sé stesso o per me.
“Chiaramente no. Sto sognando.”
Annuì, soddisfatto. Prima che potessi domandare qualsiasi cosa, mi precedette.
“Ti ho vista, nella Sala del Trono. Non so come tu abbia fatto ad arrivare qui, ma ciò che mi è chiaro da come ti sei comportata poco fa è che non sai dove ti trovi.” Disse. “Non abbiamo molto tempo, ma farò quello che posso.” Fece un respiro profondo, ed iniziò a spiegare.

“Sei nel Dreamworld. Quando nel mondo umano viene costruita una casa, dai ricordi vissuti tra le sue mura si costruisce la sua storia, ed anche il suo Dreamworld. Tutto ciò che di importante la casa ha attraversato - incendi, guerre, ma anche risate, feste, banchetti - viene ricordato dal Dreamworld. E, più la casa è antica, più il suo Dreamworld è grande e potente. Se prendi per esempio casa tua, che come sai è stata costruita cinquecento anni fa, capirai perché il Dreamworld in cui ti trovi sia così sfarzoso, ma anche in un certo senso abbandonato a sé stesso. Cinquecento anni non si dimenticano in fretta! Capisci cosa sto dicendo?”

Ci fu un attimo di silenzio, in cui la piccola creatura mi osservò con intenzione.
“Capisco che il mio sogno è piuttosto contorto, e che ci troviamo in una specie di teoria di Freud delle case” mormorai infine, confusa.
Capivo cosa mi aveva appena spiegato, ma il sogno era così assurdo che mi prendeva alla sprovvista. Abituata a controllare i sogni che facevo, un tale livello di casualità mi turbava, e non poco.
“Freud? Chi è Freud?” chiese il piccolo cervo, inclinando appena la testa di lato. Si riscosse appena un attimo dopo. “Non prenderti gioco di chi ti aiuta, umana.” Sembrava offeso, e non potendo fare altro decisi di restare in silenzio e di lasciarlo finire la sua storia.
“Dicevo, il Dreamworld. Il vostro mondo e il nostro sono completamente separati. Non c’è modo per gli umani di venire qui, e viceversa, tranne pochissime eccezioni.” Fece una piccola pausa.
“E tu sembri essere una di queste.”
Cercai di fare spallucce, ma le catene mi impedivano praticamente qualsiasi movimento. Ciò che ottenni fu un concerto di tintinnii.
“Non che la cosa mi faccia piacere, onestamente. Guarda dove sono finita!” esclamai in risposta. Tanto, peggio di così.
“Avrebbero voluto uccidermi!”
“Esatto.” Fece un piccolo passo verso di me “Avrebbero voluto.”
Rimasi in silenzio ad osservarlo. Si trovava in una chiazza di luce ora, e riluceva d’oro e di blu, come trapuntato di stelle. Su di esso, sembrava che costellazioni e galassie fossero in lento ma costante movimento.
“Come hai fatto? Come sei arrivata qui? Perché non hanno potuto mandarti via?” Chiese, osservandomi con sguardo rapito. “Devo saperlo!”
“Io…non lo so!” risposi titubante, presa alla sprovvista dal fervore nel suo tono di voce e dalla quantità delle sue domande.
In lontananza si udì un rumore di passi. Qualcuno si stava avvicinando al corridoio.
“Devo andare” disse il piccolo cervo, allontanandosi verso l’altra estremità del passaggio, con un sobbalzo. Mi osservò un’ultima volta.
“Non temere” aggiunse. “Andrà tutto bene”.
E con un altro salto, scomparve dalla mia vista, mentre i passi si facevano sempre più vicini.
Sempre più vicini.

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