The Change

di micavangogh
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. ***
Capitolo 3: *** 2. ***
Capitolo 4: *** 3. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Era uno degli inverni più gelidi che si fossero mai avventati sulla costa atlantica fino ad allora.
Ma quello era uno degli ultimi problemi in quel momento.
Quando da giovane, leggendo i libri, ti immagini come protagonista di uno di essi, ti sogni di essere coinvolto in quella vicenda e immagini di mettere in atto tutto il tuo coraggio per salvare il finale, be, nella realtà non è proprio così.
Sembrava di essere immersi nuovamente in uno di quei racconti cruenti e freddi ambientati durante la guerra.
Il paese si era colorato di grigio, la gente non sorrideva, bastava un minimo tonfo a gettare in allarme decine di persone. La guerra prosciugava tutte le virtù dell'uomo, la sua anima, dell'essere umano non rimaneva che un ammasso di pelle e muscoli che rispondevano agli impulsi dettati dal terrore.
Se c'era una cosa che avevo capito è che l'uomo non cambia mai. Si finge migliore, si nasconde dietro fiumi di parole che incatenate insieme sembrano diffondere speranza, ma in fondo, è sempre lo stesso.
Ecco cos'era diventata la pace, un inganno. Facevi anni, decenni e decenni, a credere che i conflitti civili fossero solo un unico ricordo, ma in realtà la guerra era una fiamma che non si spegneva mai e ognuno di noi era un piccolo pezzo di legno che si lasciava travolgere da essa, bruciando con lei.
Erano passati 4 anni di guerre continue.
Stato contro stato, popolo contro popolo.
Bambini saltavano in aria a causa di mine piantate da altri loro coetanei di razze diverse.
Uomini e donne con gli occhi assetati di sangue.
Si pensava che il nemico fosse tra di noi.
In realtà, ci sbagliavamo.

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Capitolo 2
*** 1. ***


Tutto partì con i primi riscontri.
Problemi al satellite, avvistamenti, interferenze alle linee telefoniche.
Poi il tutto si amplificò.
La natura ci si rivoltava contro.
Terremoti, eruzioni vulcaniche, maree, tornadi.
Da lì si capì che non era più solo fantascienza.
Qualcuno stava attaccando la terra.
Una specie avanzata, era avanti miglia rispetto a noi.
Ci conoscevano alla perfezione, ogni nostra debolezza, ci coglievano di sorpresa, tanto da sospingerci a chiederci da quanto tempo ci stessero osservando.
E se conoscevano l'umanità alla perfezione, con che altro coglierli alla sprovvista?
Così si iniziarono a selezionare ragazzi e ragazze tra i 13 e i 20 anni, venivano suddivisi in squadriglie e mano a mano addestrati in vista degli attacchi frontali con queste nuove creauture che non avrebbero tardato ad arrivare.
Niente di nuovo essendo un addestramento, penserete, non se non si tiene in conto gli esperimenti genetici che si effettuavano sui 'selezionati' per mutarne il DNA e permettergli quindi di sviluppare nuovi poteri.
I primi esperimenti furono un fallimento, un centinaio di ragazzi ci rimisero la loro vita, ma il governo si rifiutò di fermarsi.
Così si andò avanti e, nonostante l'alto numero di abomini e riscontri negativi, si iniziò ad ottenere risultati.
I procedimenti di trasformazione erano assolutamente segreti e nascosti, ma le voci che giravano a riguardo erano tutt'altro che rassicuranti.
Alla fine del ciclo, si doveva fare addestramenti speciali per prendere padronanza del proprio potere, o meglio, del 'nuovo arto' come lo chiamavano i nazionalisti.
C'era chi sviluppava capacità riguardanti un elemento, chi capacità di controllo della psiche e chi capacità motorie elevate.
Più varietà ci sono, più difficile sarà per loro anticipare ogni nostra mossa
Raccontava il presidente sulla sua comoda poltrona rossa, nella sua bella villa iper protetta, mentre migliaia di ragazzi venivano torturati per i loro stupidi esperimenti.
La mia avventura ebbe inizio il 20 settembre.
Un vagone troppo piccolo per la quantità di ragazzi presenti ci portò in un grosso stabilimento. Simile ad un enorme fabbrica.
Uno alla volta ci dirigemmo all'ingresso.
Dopo qualche ora passata tra il patire il freddo e l'ansia, arrivò il mio turno.
Un soldato mi prese le braccia e fece passare il metal detector.
"Courtney Martin.
Settimo smistamento.
Tredicesimo gruppo.
Sedicenne. 54 kg. 1.68m."
Un altro uomo, un generale, intuii dalla divisa, annuì
"Prova con iniezione Z3, potrebbe funzionare con lei"
"Ma Signore, le precedenti reclute che hanno ricevuto questa somministrazione nei migliori dei casi hanno perso un arto. Non possiamo perdere altri soldati."
"Soldato Berdin, qua comando io. Portala al laboratorio secondo i miei ordini o la prossima cavia sarai te stesso."
Bastarono queste parole, uscite dalla bocca fredda e apatica del generale, per convincere il soldato ad abbandonare ogni obiezione e a scortarmi in una stanza bianca. Nessuna finestra.
Nessun tavolo.
Solo un lettino al centro e una specie di cabina a vetri opachi sul lato della stanza. 
Al suo interno c'erano cavi neri e piccole punte spuntavano sui lati di essa.
Tutto in quella stanza mi trasmetteva terrore.
"Togliti tutti i vestiti e stenditi sul lettino."
Guardai incerta l'uomo che aveva parlato, un cinquantenne con il camice bianco, Dott. Durmen lessi dal cartellino. Dal suo viso non trapelava alcuna emozione. Aveva già visto migliaia di ragazzi scortati lì dentro, aveva già visto la stessa scena troppe volte per provare anche solo un minimo di incertezza per quello che faceva.
Siamo al servizio del mondo. Combattenti per l'umanità
Era quello il loro motto, che si ergeva tridimensionalmente al di sopra dell'ingresso all'edificio.
Mi svestii, avevo paura.
Non provai nemmeno un poco di vergogna quando mi trovai di fronte al medico, nuda. 
Abbandonai i vestiti sul suolo e mi lasciai cadere le braccia lungo al corpo.
Non mi ero mai svestita interamente davanti a nessuno, ma la paura di quello che mi stava per succedere scacciò dalla mente ogni altro pensiero.
Ogni respiro era un fremito e un insieme di convulsioni infinite.
L'uomo mi indicò con un cenno spazientito il lettino e io mi sforzai di mandare giù un groppo enorme che mi soffocava in gola e mi distesi.
Gli occhi fissi sulla luce accecante del soffitto.
Mi provò la pressione, controlló il mio andamento dei battiti cardiaci sotto sforzo, facendomi correre su e giù per una scala per dieci minuti , e dopo di che mi fece sdraiare, il cuore che mi scalpitava nel petto per la fatica.
Ottima forma Court, davvero
Pensai sarcasticamente.
Dopo qualche minuto mi passò un bicchiere.
"Bevi."
Lo presi e guardai la sostanza al suo interno.
È solo acqua, pensai, cercai di confortarmi pensando che fosse un semplice gesto di gentilezza per alleviare la sete causata dalla corsa appena effettuata per la prova sotto sforzo.
Ma, vuoi per i modi burberi che aveva di fare, o vuoi per il suo sguardo impenetrabile sul viso, quella possibilità mi sembrava poco a poco sempre più lontana.
Bevvi tutto d'un sorso, sforzandomi di deglutire la sostanza insapore nonostante i miei dubbi.
Ad un tratto si fece tutto offuscato.
Vedevo sfocato, mi girava la testa.
Nessuna parte del corpo rispondeva ai miei stimoli e dopo poco sentii ogni forza mancarmi.
Il dottore mi prese di peso e mi infilò della cabina, il suo tocco sembrava marmo freddo, mi trasmetteva un insieme di emozioni, tutt'altro che piacevoli o confortanti.
Chiuse la porta con un tonfo.
Le piccole dimensioni della 'gabbia' fecero sì che non cadessi a terra come un sacco di patate, nonostante non mi sentissi le gambe.
I piccoli aghi che vedevo prima da fuori si trasformarono, dopo una serie di comandi digitati dal dottore al di fuori della cabina, in grossi spilloni che mi colpirono ogni parte del corpo.
Un grido soffocato mi crebbe in gola.
Poi divenne tutto nero.

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Capitolo 3
*** 2. ***


Mi svegliai in una camera buia.
Era notte? Era giorno?
Non avrei saputo dirlo data l'assenza di finestre.
Feci per alzarmi, ma terribili fitte alla schiena e alla testa mi fecero bloccare immediatamente.
Ero attaccata ad una strana flebo, un liquido dal colore giallastro mi scorreva nelle vene probabilmente già da ore, se non da giorni.
Quanto avevo dormito? Non lo sapevo definire.
Mi sfilai l'ago dal braccio e cercai di alzarmi con movimenti più cauti e lenti.
Passo dopo passo, riuscii a raggiungere la porta, ma come sospettavo era bloccata.
Riuscii però ad arrivare all'interruttore della luce, una luce fioca che rischiarì la stanza, ancora più inquietante di quanto immaginassi.
Non che ci fosse niente di particolare in quella camera.
Era tutta bianca, muri, mobili, lenzuola.
Staccavano solo il color metallo della flebo, il liquido giallastro al suo interno e una strana porzione di carne secca con accanto una bottiglia d'acqua, sul comodino color avorio.
Alla vista del cibo sentii lo stomaco reclamare le diverse ore di digiuno, dubitavo che la flebo contenesse una qualche sostanza nutriente.
Mangiai, o meglio, trangugiai il tutto in pochi minuti e dopo di che bevvi gran parte della bottiglietta.
Ancora quello strano liquido che mi avevano rifilato in laboratorio prima della grande operazione.
Cosa mi avevano fatto? E che razza di acqua avevano? erano le domande che maggiormente mi balenavano nell'anticamera del cervello.
Immersa nei miei pensieri non sentii i passi che si avvicinavano alla mia camera e quando aprirono la porta feci un salto degno di olimpiadi per lo spavento.
"Vedo che è in forma, signorina Martin"
"Tutto alla grande"
Dissi indietreggiando, mi tremavano le mani.
Era il dottor Durmen.
"Su, non sia così spaventata. Non la voglio uccidere, non ora almeno"
Un ghigno sulle sue labbra scarne mi diceva che le sue parole non erano poi così sarcastiche "sono venuto a vedere come si sente, ha subito un intervento piuttosto pesante rispetto ai soliti"
Lasciò galleggiare quelle parole dall'aspetto tetro nell'aria per un po', poi continuò "ma vedo che procede tutto perfettamente. Il Generale aveva ragione, può iniziare l'addestramento già domani"
Dette queste ultime parole si voltò verso la direzione da cui era venuto
"Dottor Durmen!" 
"Si cara?" Si voltò con un sorriso che era tutto meno che rassicurante
"Che tipo di intervento è stato?"
"Oh mia cara lo vedrai" si fermò, aumentando poi la larghezza del sorriso.
"Lo vedrai molto presto" e se ne andò definitivamente, lasciandomi lì, una strana sensazione che mi cresceva da dentro.
Passarono poche ore prima che mi riaddormentassi. Poche ore trascorse sdraiata sul letto a fissare il soffitto e a pormi domande di cui non avevo risposta.
Quando sarebbe finito tutto?
Cosa mi avevano fatto? 
Ero diventata uno di quei mutanti che si vedevano a volte in tv?
O ero l'ennesimo abominio che tardava a manifestarsi?
Come sarebbe stato l'addestramento?
E mille altre ancora, che solo l'incredibile stanchezza e mancanza di forze riuscì a zittire.
La mattina stranamente mi sentivo in perfetta forma.
Ancora per poco, pensai staccando dalla porta il foglio firmato dottor durmen che mi ricordava l'inizio degli addestramenti. Ancora una volta mi trovai sul monotono comodino bianco cibo e, questa volta, attenzione attenzione:
Un normale succo alla pesca.
Trovai inquietante il fatto che qualcuno si insinuasse nella mia stanza mentre dormivo.
Raccolsi dalla sedia la tuta che mi era stata lasciata e andai in bagno per farmi, finalmente, una doccia e prepararmi.
Lo scorrere dell'acqua sul mio corpo mi diede un sollievo che, in circostanze diverse, non avrei mai provato dal momento che l'acqua era gelata.
Prima di rivestirmi rimasi davanti al piccolo specchio che si ergeva sopra al lavandino.
Guardai il mio corpo, in cerca di qualcosa che provasse che ero davvero cambiata, ma non trovai niente.
Quando scesi quasi mi diede sollievo entrare in una stanza normale.
Tutto quel bianco che mi aveva circondata fino a quel momento mi dava i brividi.
Le facce degli altri ragazzi non erano poi così diverse da quella che credevo di avere io, tutti ancora troppo scossi per lasciar trasparire alcuna emozione.
Mi colpì vedere bambini in quella stanza, in quella situazione.
Sapevo che anche i ragazzini di 12 anni ultimamente venivano chiamati durante le varie raccolte a causa dei parecchi fallimenti.
Ma quelli non potevano avere più di 11 anni, la stessa età di Mike, mio fratello minore. 
Il peso che mi colpiva il petto ogni qualvolta rivolgessi un pensiero alla mia famiglia era immaginabile.
Avevo lasciato mio fratello di 11 anni a prendersi cura di un padre invalido e di una madre inesistente da ormai parecchio tempo.
Mio fratello maggiore, Matthew, era invece stato reclamato nei primi anni di sperimentazione e non lo vidi più da quel giorno.
Non potei ascoltare i miei pensieri malinconici ancora per molto, una voce robotica proveniente da un autoparlante mi bloccò.
"Benvenuto tredicesimo gruppo. L'addestramento avrà inizio tra cinque minuti", una pausa di pochi secondi e poi ricominciò, "e ricordatevi di non causarvi danni troppo gravi, non siete voi il nemico"
E dopo di che ricadde il silenzio, coperto da qualche rumorio.
Certo che qua sanno proprio come rassicurare la gente, pensai.
Esattamente cinque minuti dopo un grande portone blindato si aprì, scoprendo un'immensa sala adorna di manichini, armi e altri attrezzi super tecnologici per trasformare anche la persona più pacifica del mondo in una macchina da guerra.
Una voce autorevole ci arrivò dalle spalle, facendoci voltare tutti di colpo: 
"gruppo tredici, io sono Marie Saint, vostra tutrice e allenatrice, insieme ai soldati Fredrick e German" due ragazzi, non avevano più di venticinque anni, fecero un passo avanti, portandosi a fianco della signora di circa trent'anni che si ergeva di fronte a noi, apparendo immensa nonostante fosse minuta e di piccola statura.
"sarete addestrati e tenuti nella struttura a tempo indeterminato, uscirete solo per eventuali attacchi o simulazioni" scese dalla pedana che la sosteneva fino a pochi secondi prima, "ora forza, prendete un'arma su cui volete focalizzarvi di più, naturalmente vi porteremo ad un livello accettabile con ognuna, ma è importante che ogni guerriero trovi la sua arma, il suo gioiello".
Si trasferirono tutti in massa davanti all'enorme vetrina ricca di arnesi di ogni genere, alcuni ti trasmettevano i brividi solo a guardarli. io non avevo esperienza con le armi, non avevo niente a che fare con quell'ambiente di cui tutto mi intimoriva così tanto.
Fui l'ultima ad avvicinarmi a quella gigantesca esposizione, quando la ressa si era finalmente placata. Nonostante in molti avessero fatto razzia e avessero preso più armi del dovuto, la scelta era comunque vasta per una che sapeva che, con una o con l'altra, sarebbe stata ugualmente un disastro.
Scelsi un arco, il più semplice e il più minuto. non il più minaccioso e nemmeno il più articolato, non avrebbe fatto differenza. Nonostante non sapessi nemmeno reggerlo in mano in quel momento, contavo sul fatto di imparare ad utilizzarlo e, nel caso avessi proprio dovuto combattere, avrei potuto farlo a distanza.
certo, pensar già a come svignarsela il primo giorno non era il più valoroso dei pensieri, ma, al diavolo.
"Ei tappetto, hai scambiato quell'arco per una borsetta?"
Mi girai di scatto, con una faccia che probabilmente tradiva l'aggressività con cui avrei voluto rispondere. Intenta a pensare alle mie solite stronzate non mi ero nemmeno accorta di essere fissata da un bel gruppetto di gente, che nel frattempo se la stava sghignazzando cercando, invanamente, di coprirsi con la mano.
"E tu che diamine vuoi?" balbettai queste parole con una tale insicurezza, che il mio piano di apparire la classica stronza con la risposta sempre pronta mi si frantumò in mille pezzi addosso.
Alzai lo sguardo verso il volto che mi aveva rivolto parola prima della mia gaffe.
Era un ragazzo moro, occhi verde intenso, alto e massiccio, ma non troppo.
Era un figo, niente da dire. Un figo che naturalmente, come vuole la legge della figaggine, la gentilezza l'aveva rinchiusa all'interno di quelle gabbie di ferro che erano i suoi addominali. 
Feci per andarmene quando un vento gelido mi accarezzò il collo, un cristallo di ghiaccio era apparso tra le mani del ragazzo. 
"Io sono Lucas, ma puoi anche chiamarmi ragazzo ghiaccio, tappetta", fece qualche passo verso di me, così velocemente che non feci in tempo a spostarmi, "e tu? che mi dici del tuo grande talento 'artificiale'?" 
Sbuffai e mi girai nuovamente, senza dire niente in risposta, velocizzai il passo e puntai all'angolo dove c'era l'area di tiro.
Non avrei saputo dire se scappavo per paura, vergogna, fastidio o perchè, semplicemente, non avrei saputo rispondere a quella domanda.
La signora Marie si avvicinò a me, squadrò il mio arco e dopo di che mi fece passare in rassegna.
"Sai cosa si dice di un'arma?"
Feci cenno di no, guardando con occhio più critico di prima l'aggeggio che avevo scelto e insultandomi mentalmente per il pessimo inizio.
"L'arma è la prima carta di presentazione per un guerriero.
Con quel giochino non ti prenderebbero sul serio nemmeno se tu fossi un Cosplay."
Si avvicinò alla vetrinetta delle armi e prese una lancia dorata, che prima non avevo notato.
Me la lanciò e, stranamente, riuscii ad afferrarla al volo.
"Ora si ragiona già di più".
Guardai per qualche minuto, incapace di dire qualcosa, le rifiniture precise di quello che sembrava più un capolavoro che un oggetto di massacro.
Mi stava giusto all'interno del pugno il manico.
Era una lancia dritta, che andava ad assottigliarsi mano a mano che si avvicinava alla punta, affilata come un rasoio.
Avevo sempre pensato che oggetti del genere pesassero un'immensità, troppo per il mio corpo gracile e senza la minima ombra di muscoli.
Invece era stranamente leggera, mi sentivo meno goffa di quanto avevo pensato con in mano quell'arma.
"Aveva ragione il generale.." si fermò un attimo abbassando il capo, poi proseguì "quell'arma è fatta proprio giusta per te".
Dette queste parole andò a rimproverare un gruppo di ragazzotti che aveva già iniziato a fare rissa.
Non capivo il senso delle metà delle parole che mi dicevano in quei giorni, ma il mio cervello era arrivato ad un punto di sopportazione tale, da cancellare ogni tipo di pensiero appena esso mi sfiorava. Avevo la testa libera, completamente vuota.
Presi la lancia e la tirai verso il bersaglio, mancandolo miseramente.
Non era nemmeno arrivato a sfiorarlo.
Sentii uno sghignazzare familiare avvicinarmisi alle spalle e dopo di che una mano mi toccò una spalla.
"Guarda che anche cambiando quello scassone della tua ex arma con una migliore, non accade un miracolo"
Mi voltai verso di lui. Lucas. Questa volta la risposta fu più diretta
"Non mi sembra di aver chiesto un tuo parere"
"Era una constatazione, tappetta"
"La finisci di chiamarmi così e ti levi dalle palle? Sai, con questa cosa" feci cenno alla mia lancia, che nel frattempo ero andata a riprendere "non deve essere difficile colpire a qualcuno che mi sta a due centimetri di distanza"
"Non faresti male nemmeno ad una mosca"
Feci per andarmene ad un'altra postazione quando lui nuovamente mi fermò
"Insomma, se non mi vuoi dire che tipo di esperimento hanno fatto su di te, dimmi almeno come ti chiami.
Sai, giusto per non dover usare quel nomignolo che ami tanto e evitare di avere una lancia conficcata nel petto."
Mi girai, questa volta non provai rabbia.
Diedi uno sbuffo, probabilmente di sollievo, non mi ero accorta di trattenere il respiro.
"Courtney, mi chiamo Courtney.
E, prima che tu me lo richieda altre migliaia di volte, non ho ancora la più pallida idea di cosa abbiano fatto di me."
E dette queste parole, mi diressi alla stazione di arrampicata.

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Capitolo 4
*** 3. ***


Caddi per la terza volta dall'asta che stava a due metri da terra.
L'arrampicata non faceva per me, mi dissi rassegnata.
Cercando di evitar di pensare ai lividi che mi sarei trovata la sera sul mio corpo, andai a cercare una postazione un po' più tranquilla.
Presto avrei capito che in un centro addestramento per giovani cavie la tranquillità è inesistente.
C'era la base di forgiatura, per imparare a costruire o perfezionare armi.
Gli unici ragazzi presenti erano un armadio di circa vent'anni e uno più gracilino che non ne aveva più di 15.
In compenso, era un genio in materia.
Passava da un macchinario all'altro, controllando tre armi diverse, con la stessa semplicità e disinvoltura con cui ti fai un caffè mentre guardi la televisione.
Passai alla base successiva, lotta libera.
Due ragazze si stavano sfidando.
Sembrava una rissa per problemi amorosi dopo lo sballo da sabato sera, più che una simulazione di battaglia.
Decisi di andare oltre.
Passai la giornata così, con la mia lancia in mano come fosse un bastone da passeggio, a gironzolare per le varie aree senza una destinazione ben precisa.
Osservai gli altri ragazzi.
C'erano parecchi della mia età, pochi anni di più, ma un gran numero erano anche quelli più piccoli.
Ebbi solo trenta minuti per salire in camera, fare una doccia e vestirmi velocemente per la cena.
La mensa era immensa, enormi tavoli coprivano tutta la superfice, ancora non avevo bene idea di quanti, in realtà, fossimo.
In pochi minuti si riempirono tutti i posti. Poca era la gente che, come me, ancora non aveva formato gruppo con nessuno, così mi allontanai, andandomi a sedere ad un piccolo banchetto all'angolo della sala.
Dopo poco tempo, senti il famoso tocco sulla spalla
"Ei court, ti avevamo tenuto il posto, ci stavi per caso dando buca?"
Quando mi girai non so quale fosse l'espressione che tradiva il mio flusso confuso di emozioni.
Stupore? Infastidimento? Felicitá per non essere da sola?
Un ragazzo cicciotto fece un passo avanti, mettendosi davanti a matt
"Io sono Josh, lei invece è Marine, quello magrolino laggiù con maglietta rossa e occhiali è Chris, fa parte anche lui della nostra crocchia di supereroi"
Non riuscii a trattenere una risata
"Supereroi?" Presi fiato e aggiunsi "cosa siamo? In un nuovo film di X-Men?"
"Be più o meno" aggiunse matt con un ghigno sul viso.
"Be tappetto, ti conviene prendere quella poltiglia e venire al tavolo con noi"
E così feci.
Passai il tempo a parlare e ridere, tra un boccone e l'altro. Distrarmi da quell'esperienza anomala che stavo vivendo era la miglior cosa da fare.
"È l'ora del bicchierino" disse Matt.
"No che schifo, per caritá, il mio sa di bruco" il disgusto che provava Marine era palpabile, 
"Che è, hai mai mangiato un bruco?" Puntualizzò Chris
"No, ma immagino saprebbe di quell'odore".
Ci avviammo verso una macchinetta, simile a quelle del caffè delle scuole.
"Cosa..cosa è questa roba?"
"Solito liquido insipido che immagino ti abbiano già rifilato" mi disse Matt "guarda, devi inserire il codice che trovi sulla tua spalla destra"
"Il..codice?"
"Oh, non sa del marchio, perfetto, grande Matthew" Josh disse queste parole estraendo il suo bicchierino dalla macchinetta. Annusò il liquido e il suo sguardo schifato non mi tranquillizò, pur conoscendo già cosa mi aspettava.
"Be risolviamo subito"
E detto questo, Matthew mi abbassò la spallina della canottiera, raccogliendomi i capelli delicatamente sulla spalla opposta.
Lesse i sei numeri che io inserii e dopo di che bevvi tutto d'un sorso.
"Allora, com'è la tua?" Mi chiese Marine che fissava il mio bicchiere curiosa con un'aria schifata
"Solito schifo immagino, la vostra?"
"Un misto tra il sapore dei kiwi e dei cavoli, vomitevole" aggiunse Josh.
"Ma di preciso, quante varietá differenti di sta roba ci sono?"
"Tante quante sono le mutazioni. Cambiano tutte a seconda del cambiamento che hanno effettuato sul nostro DNA. Servono per non farci sviluppare strane reazioni.
Le uniche persone che ho visto non berla, be, quando sono state portate via non stavano esattamente bene."
Mi girai verso Matt, che si era reinserito nel discorso, 
"Quindi dovremmo stare ogni giorno a bere questa...cosa?"
"Non ogni giorno, fino a che la mutazione non si starà stabilizzata.
Questione di giorni..o di anni"
E detto questo prese sottobraccio me e Marine e girandosi verso i due amici disse
"Forza, andiamo a fare un po' di casini in terrazza".
Senza opporre resistenza, sarebbe stato inutile data la forza delle sue braccia, mi feci trascinare fino all'ultimo piano.
Un cielo stellato ricopriva il tetto dell'edificio, in lontananza si vedeva l'inizio della città, separata dal nostro stabilimento da un'immensa boscaglia.
"È l'ora del giretto" disse Marine appena prima di togliersi la maglietta.
Non feci nemmeno in tempo a stupirmi per il suo gesto così avventato, che vidi spuntarle dalla schiena due incredibili ali e lanciarsi nel vuoto con la leggerezza di una libellula.
"Forte èh?" Mi sussurrò Matt avvicinandosi, "e non hai visto tutto"
Due secondi dopo Chris alzò le braccia verso il cielo e le stelle si avvicinarono tutte a noi. 
Non fui in grado di formulare una frase per esprimere la mia incredulità di fronte a ciò che aveva appena fatto che una leggera brezza mi accarezzò il viso, spostandomi i capelli.
Proveniva dal movimento delicato delle dita di Josh. Sembrava un pianista, il pianista dell'aria.
"È...incredibile" farfugliai, com'è possibile che una tale meraviglia sia in realtà un'arma contro un intero popolo, mi chiesi, senza avere risposta .Persa a rimirare quell'incredibile scena, non mi accorsi del fatto che lo sguardo di tutti si era fissato su di me
Matthew mi cinse le spalle con un braccio, 
"Ora prova te, è facile", prese un sospiro e poi continuò, "focalizza i tuoi pensieri sul battito del tuo cuore, sul sangue che scorre nelle vene, portali il più vicino possibile al luogo della sperimentazione.
Richiama il nuovo lato di te. Congiungiti ad esso"
E io così feci. Mi concentrai, come mai nella vita. Mai mi ero sentita così determinata a raggiungere un qualche obbiettivo come in quel preciso momento.
Inspirai. Un respiro lungo, infinito.
Poi, espirai, cercando di richiamare a me qualsiasi cosa, pochi giorni fa, fosse stata nascosta.
Ma non accadde niente.
Forse non è funzionato, pensai.
O magari serve ancora del tempo, cercai di rassicurarmi.
"Be...forse...forse ha ancora bisogno di iniezioni.
O di esercizio"
Disse Marine, la voce che tradiva la finta rassicurazione che tentava di darmi attraverso quelle parole.
L'umiliazione mi bruciava nelle vene.
Ero rovente, certa che, nessun uragano generato da un qualche mutante amico dell'aria potesse risolvere la situazione.
"Stai zitta Marine" ribattè schietto Matthew.
Feci per andarmene, poi accadde qualcosa.
Una fitta terribile alla schiena.
Come se la pelle mi si stesse strappando.
La maglietta mi si lacerò, cadendo a terra.
Calore nelle arterie, questa volta non dato dall' umiliazione.
Mi alzai in volo senza nemmeno accorgermene.
Matthew, Josh e Marine cercarono di non apparire troppo scossi.
Una strana espressione si era adagiata sui loro volti.
Un misto tra sorpresa e inquietudine.
Non lo stesso volto che si era soliti fare quando era una creatura come Marine a librarsi in aria.
Oh no, quello era del tutto diverso.
"Un falco.."
Sussurrò Chris.
"Non un falco, un Condor"
Dissi con parole che mi si insediarono in gola, quasi non provenissero da me.
Alzai un'ala, per avvicinarmi.
La terrazza si incendiò, poi il buio si abbattè su di me.

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