Terre Rare

di Kimmy_90
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 + Epilogo ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Capitolo 1


Il mare di nuvole correva sotto i suoi piedi, ammassandosi, scomponendosi e ricomponendosi, avviluppandosi e sciogliendosi, raddensandosi, sprofondando. Mafé, in piedi sulla terrazza di controllo H, fletteva le gambe e stringeva le ginocchia, reggendosi al corrimano delle scalette metalliche. Sotto la terrazza, il vuoto. Sotto il vuoto, le nuvole.
Sotto il mare di nuvole, c’era Canos.
E più Mafé guardava, meno vedeva.
Canos, diceva papà. Lì, sotto, sotto i suoi piedi, sotto la loro nave.
Mafé guardava, e non vedeva.
C’era solo un mare di nuvole – e la Solaris che tramontava mogia, lanciando i suoi raggi tiepidi nel cielo giallastro: mancava qualche decina d’ore alla notte di Canos, e molte meno alla cena. Mafé sarebbe dovuta rientrare – anzi, Mafé non sarebbe mai dovuta essere lì. Era scesa con l’intenzione di non farsi scoprire, con l’idea di defilarsi immediatamente – ma il terrore e lo stupore le tenevano il corpo in ostaggio: incapace di muoversi, tremava.
E guardava.
E non vedeva.
“Mafé!”
Neanche la voce adirata di suo padre riuscì a scuoterla: quel mare dorato, e il vento, e il silenzio rotto solo dall’aria e dallo stridio di qualche uccello – come calamite, come corde. Era prigioniera.
Quel giorno Mafé si convinse che era stato Canos stesso a imporle quel sortilegio. Suo padre, fulmineo, la afferrò per il bavero della camicetta, stringendola poi al petto: con pochi rapidi balzi risalì le scalette della terrazza di controllo, chiudendo la pesante porta metallica con tanto furore da far tremare il pavimento e le pareti del ponte. La posò per terra, guardandola furibondo e levando la sua grande mano in un gesto che prometteva una sonora sberla sul volto.
Mafé si ritrasse, accovacciandosi per proteggersi dal colpo: ma questo non arrivò mai. Suo padre rimase in silenzio, abbassando la mano e guardandola dritto negli occhi. Lei poteva sentirgli il respiro, inizialmente grosso, rallentare e alleggerirsi.
“La prossima volta non verrò.” disse infine l’uomo, voltando le spalle alla bambina. Con lunghe e calme falcate si allontanò, lasciandola lì.
Sola.


***


“Mafé! Che stai facendo?”
La ragazzina scattò in piedi, allontanandosi dal margine della terrazza dove s’era seduta, le gambe ciondoloni.
“Amar!” lo richiamò. “Non puoi venire qui!”
Il bambino, appostato sulla soglia della porta, la guardava indispettito. Sotto di lui una serie di pioli metallici portavano al pianale, anch’esso metallico, che costituiva la terrazza di controllo H – una postazione inutilizzata da decenni, ch’era servita, nel passato in cui quella nave era davvero una nave militare, per le vedette di turno.
“Nemmeno tu!” squittì il bambino.
“Io posso! Vattene!”
“Bugia! Bugia! Se puoi tu posso anch’io!”
“No!”
Una folata di vento la investì, rischiando di destabilizzarla: Mafè strinse i muscoli, piegando le gambe e rinsaldando la presa sul pianale. Amar inspirò tutto d’un fiato, convinto che sarebbe caduta giù: “Attenta!”
Ma la ragazzina sapeva bene quel che faceva: resistette senza fatica all’aria che la spingeva, avvicinandosi poi alle scale a pioli che risalivano verso il ponte della nave. Afferrò il corrimano e, levato il capo verso il bambino, urlò: “Vai via!”
Amar non se lo fece ripetere: fuggì, lasciando la porta aperta; Mafé poteva sentirne i passi scomposti percorrere il corridoio sopra la sua testa.


***


Un cigolio leggero tradì i movimenti silenziosi del ragazzino, che quasi trattenendo il respiro si affacciò all’uscio.
Mafé, seduta al solito sul limitare della terrazza, manteneva lo sguardo fisso sul libro: i capelli neri, tagliati a caschetto, le ondeggiavano al vento – ma la ragazza non pareva curarsene.
Amar la guardò a lungo, ben sapendo che se non s’era voltata era solo perché voleva finire il paragrafo. Lui non capiva perché le piacessero tanto i libri – insomma, avrebbe potuto almeno utilizzare uno schermo, o, meglio, un oloproiettore, e comunque, in sé, leggere non gli sembrava la più attraente delle attività. Specialmente da delle pagine, in battuta di vento, che scappano e volano e si strappano sotto le sferzate dell’aria.
“Dimmi.” disse, d’un tratto, la ragazza.
Amar inspirò, appeso alla porta.
“Tra un’ora si mangia.”
“Va bene.”
Mafé riprese a leggere, ma Amar non si mosse.
“Mafé?” la richiamò, masticando le sillabe.
La ragazza mise l’indice in mezzo alle pagine, e si voltò verso il ragazzino, levando il capo verso di lui: Amar, dapprima, non riuscì a spiccicar parola – troppo preso a contemplare il volto dell’altra, su cui si abbattevano i ciuffi scuri dei suoi disordinati capelli, continuamente mossi dal vento.
“Sì?” lo incalzò lei, vagamente irrequieta.
“Che leggi?” chiese il ragazzino.
“Un libro.”
Amar strinse le labbra, interdetto.
“Certo che sei proprio figlia di tuo padre.” mugugnò: il Generale Morar era a sua volta parco di parole – ben più di lei. Poteva tacere per giorni, da quel che sapeva Amar.
Mafé continuò a fissarlo, il volto serio. “Sarà.” disse poi, facendo spallucce.
“Mi dici che libro leggi?” riprovò Amar, sporgendosi ulteriormente dalla soglia, oramai quasi in cima al primo gradino delle scale.
Dal basso, Mafé rispose con un’altra stretta di spalle.
“Sono canti di Canos.”
“Ah.”
Cadde il silenzio.
“E cosa sono?” insistette Amar.
Mafé lo scrutava, vigile e attenta, come in cerca delle sue intenzioni.
Era sempre stata sulle sue, lei – Amar la rincorreva da quando aveva sei anni, e ancora non era riuscito a farsela amica, a includerla in un solo gioco, a scambiarci parole che andassero oltre al quotidiano vivere sulla nave ed esser commensali alla tavolata dei bambini. Ancora un anno e Mafé l’avrebbe abbandonata, quella tavolata. Amar, incantato e inquietato allo stesso tempo da quella bambina, ragazzina, ragazza imperscrutabile, s’era dato l’obbligo di tentare il tutto per tutto, a costo di farsi odiare. Per capire, anche solo da lontano, cosa frullasse in testa a Mafé.
A cosa pensasse.
Che cosa volesse.
L’unica certezza su di lei era che, quando la Solaris tramontava e quando la Solaris albeggiava, l’avrebbe trovata alla terrazza H – a leggere, o a guardare i banchi di nuvole che sfilavano, eterni, sotto la nave.
“Sono i canti della gente di Canos.” disse, d’un tratto, Mafé.
L’uno appollaiato in cima alle scale, l’altra seduta al limitare della terrazza, parevano due uccellini che s’incontrano su di un ramo e, perplessi, valutano quanto sia possibile una pacifica convivenza – prima di spiccare il volo ed andarsene ognuno per la sua strada.
“Sono come le nostre canzoni?” chiese Amar, sperando di riuscire a far parlare l’altra.
Mafé scosse il capo.
“... no?” Amar non mollava.
“No. Sono diversi dai nostri.”
“Ah.”
Mafé non aveva staccato un istante gli occhi dal ragazzino: ne osservava ogni movimento – degli occhi, delle labbra, delle mani che stringeva alla maniglia della porta e al corrimano.
Amar deglutì.
Gli stava venendo fuori il pomo d’Adamo, notò allora Mafé.
“Me ne canti uno?”
La ragazza fece di no con la testa.
“Perché?” chiese Amar, sempre più insistente.
“Non conosco la melodia.” rispose lei, placida.
“Allora inventala.”
Mafé arrossì, abbassando improvvisamente gli occhi. “Non so inventare le melodie. Non so fare musica. Né cantare.”
“Ah, scusa...”
“Ma posso leggertene una, se vuoi.”
Ad Amar s’illuminò il viso: sorrise, annuendo entusiasta.


Oíche, fada, teacht
ní féidir linn eagla an dorchadas
oíche fhada, síocháin, síocháin
deontas dúinn sosa agus obair
cradle ár súile, saor sinn
i rith an lae.[1]


“E’ Canossese del nord-est. Noi siamo a nord-ovest. Non ci sono nuvole, da loro. Lo sai?”
“... no.”
“Vuoi che te la traduca?”
Amar la guardò sconvolto. “Conosci i dialetti canossesi?”
Mafé sorrise.

 

Notte, lunga, vieni,
noi non temiamo il buio,
notte lunga, quiete, pace,
concedici il riposo e il lavoro
culla i nostri occhi, salvaci
dal giorno.


 

 

 

 


________

[1] Il testo è in realtà in irlandese ed è stato barbaramente tradotto da google translate a partire dalla versione italiana, che ho abbozzato io. Abbiate pietà.

Ciao; è da parecchio che non partecipo a contest e questo mi ha, in qualche strano modo, “chiamata”. Dovrei cavarmela in 5-6 capitoli, sperando di non sforare il limite imposto dalla giudice (chiedo venia).
Il contest (che trovate qui http://www.freeforumzone.com/d/11259305/Poker-d-immagini/discussione.aspx ) richiede di utilizzare quattro immagini (volendo, meno, ma a me piacevano tutte e quattro quelle scelte) che illustrano un personaggio, un luogo, una situazione e un oggetto. Le mie scelte sono visibili sulla pagina del contest, ma per adesso non voglio metterle qua – le metterò solo alla fine –, se no mi danno l’idea di render vane e inutili le descrizioni. :)

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Capitolo 2
*** 2 ***


Capitolo 2

 

“Tieni.”
Amar levò gli occhi dal suo piatto, incrociando così quelli di Mafé, intenti a scrutarlo da sopra un libro. Il ragazzino si alzò dalla sedia, impacciato, guardandosi maldestramente attorno.
“Cosa?”
“Il libro.”
Glielo stava porgendo.
“Ah.”
Non era molto convinto, quell’ ‘ah’. Amar tese il braccio per prendere l’oggetto, senza sapere bene cosa farsene.
“Te lo regalo.”
Quello annuì vagamente, guardando inebetito il libro. Certo, gli piaceva stare sulla terrazza con Mafé, a farsi raccontare cosa dicevano i tomi che la ragazza, da anni, andava fagocitandosi – ma questo non significava che volesse leggerli. Sei albe e sei tramonti della Solaris erano passati da quando Amar era riuscito a far parlare Mafé, e in quelle albe e in quei tramonti si erano ritrovati spesso alla terrazza di controllo H. Aveva scoperto che, se si trattava di Canos, la ragazza poteva parlare a lungo e senza mai stancarsi, con una disinvoltura che non le aveva mai visto addosso.
Un dono così prezioso non poteva certo essere accolto con freddezza: sapeva bene quanto ci tenesse, a quei libri. Quanto fossero importanti.
Ma lui, che se ne poteva fare? Non li voleva leggere. Odiava leggere. Era noioso, e si perdeva un sacco di tempo – e la polvere della carta gli faceva venire l’asma.
“Grazie –” si affrettò a dire il ragazzino, posandosi il tomo in grembo mente tornava a sedere.
Sul volto di Mafè, in piedi dall’altro lato del tavolo, si stese un vago e sereno sorriso. Amar, a disagio, cercò di riprendere la conversazione: “Quando parti?”
“Fra una trentina d’ore arriva la nave del Generale Ji. Salirò lì, per l’addestramento.”
Amar abbassò il capo, scostando maldestramente gli occhi per guardarsi alle spalle: qualche metro più in là, ad un tavolo con una lunga tovaglia rossa, il Generale Morar consumava in silenzio il suo pasto.
Amar osò: “Avete litigato?”
Mafé strinse le palpebre, corrugando minimamente la fronte; perplessa, chiese: “In che senso?”
“Morar e Ji si odiano.”
Mafè si strinse nelle spalle.
“Non importa. Io voglio fare l’addestramento, anche se sono figlia di un generale. Ho diritto a farlo. Lui non può dire nulla in merito, e, infatti, non dice nulla.”
“Non dice mai nulla…”
Mafé nascose una risata.
“Quando torno ti interrogo, però.”
“Eh?” preso alla sprovvista, Amar quasi urlò.
“Tra venti albe avrò la prima licenza. Per allora non penso avrai grandi problemi a leggerlo e rileggerlo, quel libro.”
Con le spalle al muro, Amar non poté far altro che annuire, nascondendo il suo sconforto all’idea della lettura.

 

***

 

La nave Dimisis era poco più piccola della sua, la Hene, su cui Mafé era cresciuta. L’ambiente interno era leggermente più spartano, ma in buona sostanza tutte le navi si assomigliavano: anche la Miha, la nave che faceva la spola dalla Hene al pianeta della famiglia di sua madre, Satis, aveva gli stessi interni metallici e lo stesso odore di muffa mista a ipoclorito di sodio che permeava la Dimisis.
In piena adolescenza Mafé non era più gracile come da bambina, anzi: in vista della leva, che mai aveva pensato di glissare sfruttando la posizione privilegiata di suo padre, si era impegnata nel mangiare ed allenarsi a modo.
Seguiva l’addestramento senza fatica, ma sempre raccolta nella sua aura di silenzio: non le piaceva parlare, né riusciva a socializzare. Non aveva ma pensato fosse un handicap, e dunque non provava in alcun modo a cambiare atteggiamento. Nella sua piccola stanza, sotto la branda, teneva una scatola. Nella scatola c’erano i libri.
Tutti.
Tranne quello che aveva dato ad Amar.
Quando, dopo ore di allenamenti e lezioni, ritornava al suo letto, ne estraeva uno a caso e iniziava a leggerlo: la maggior parte erano nella sua lingua, il Sirah, ma alcuni contenevano testi in Canossese, antico e moderno. Ogni tanto le capitava di pescare la grammatica canossese, oppure un vocabolario.
Mafé leggeva.
Quel che più amava, fra tutti, era il diario di bordo di suo padre, redatto nell’anno della sua nascita: quando, per la prima volta, il Generale Morar aveva posato piede su Canos, e lì aveva avuto modo di conoscerne i popoli e i misteri in prima persona.
Morar era metodico nelle descrizioni, tanto preciso da dipingere interi scenari davanti agli occhi di Mafé. Lo stesso uomo che non faceva mai uscire una parola di troppo dalle proprie labbra, colui che era capace di restare in silenzio per decine e decine di ore consecutive, scriveva per pagine e pagine.

Nell’unico continente di Canos vi sono due zone ben definite: a nord est, dove abbiamo ancorato la nave, la terra dei lampi e delle piogge; a nord ovest la terra degli uomini. In tutto, il continente coprirà un radiante scarso all’equatore del pianeta – per il resto, Canos è acqua.
Nella terra degli uomini ci sono almeno dieci città popolate quanto le nostre: sorgono su terre fertili, in prossimità di acqua corrente, e si estendono per qualche chilometro diradandosi al raggiungimento della campagna, dei colli o delle montagne.
Raden, la città dei mercati, si appoggia fra una catena di colli ed un raccolto litorale scoglioso: la temperatura è bassa, costringendo gli abitanti ad accendere fuochi che invadono il cielo di fumo grigio. Le strade, polverose, sono solcate da pedoni ammantati in tele che un tempo erano state sgargianti, o in mantelli scuri con cappucci che non di rado si calano sul capo ricco di capelli d’ogni colore. Hanno pelli chiare, perlacee, robusti di stazza, e sono in carne quel tanto che occorre per ripararsi dal freddo.
Allontanandosi dalla costa, dove soffia un vento costante, ci si ritrova rapidamente in un susseguirsi di stretti borghi connessi l’un l’altro da due vie: la bassa, una rete di strade carrabili, e l’alta, la via dei castelli.
Raden si è unita da poco, forse trecento notti canossesi, in quello che noi chiameremmo una prefettura: ogni borgo, nato individualmente, possiede un castello con uno o più torrioni a base circolare o, raramente, esagonale. Le pietre con cui furono costruiti sono massicce, e a volte si possono trovare muri fatti di sassi e massi rozzamente incisi e tenuti insieme da una malta artigianale ma eterna. Le ottantanove porte di Raden altro non sono che gli altissimi archi della via alta, una rete di mura simile ai nostri acquedotti che connette un castello all’altro e divide Raden nei sui dodici distretti. Alle pendici delle mura, appoggiati alla roccia polverosa, si susseguono innumerevoli le baracche del mercato - banconi ricavati da pile di casse di legno, riparati dalle intemperie da tende di stoffa appese ad aste o corde, fissate alle mura e alle abitazioni vicine.
Quel che non può sfuggire all’occhio, oltre agli imponenti archi della via alta e alla pianta simile all’edera che da essa si rigetta sin quasi in strada, è il sistema di illuminazione per la notte canossese. Fintanto che la Solaris è visibile non si presta attenzione al susseguirsi di corde e cavi che, a mezz’aria, s’appendono a questo e a quel chiosco e invadono le arterie principali; ma quando il crepuscolo avanza, ed inizia la notte, avviene il prodigio: le corde s’illuminano, come fossero stelle. Di luci artificiali ne conosco e ne ho viste d’ogni foggia, ma la luce canossese è ben diversa da quella dei fuochi, delle lampade ad olio, dei fili a incandescenza, dei gas luminosi. Brilla d’un colore azzurro, come il mare cristallino o le pareti di neve, eppure illumina come fosse luce della Solaris, calda e bianca.
La notte canossese, che dura dalle cento alle seicento ore, è amata più del giorno. Canos vive di notte. Vive la notte.
Tanto da adorarla in ogni suo canto, tanto da rattristarsi al giungere di ogni alba.
Faccio fatica a comprenderne il motivo, ma, credo, sia dovuto alla Solaris – e al fuoco gelato di cui tutti parlano, narrano e cantano.

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Capitolo 3
*** 3 ***


Capitolo 3

 

La Solaris risplende senza dar tregua, e la giornata trascorre silenziosa dentro le mura delle case.
Aspettano.
Anche oggi, il tramonto arriverà.

Una volta, due volte.
Tre e quattro.
Amar contava, tramonto e alba, alba e tramonto.
Leggeva qualche riga, ogni tanto.

I bambini di Canos hanno i capelli rasati, cortissimi. Usano colorarli con la terra di Homs, venduta a poco prezzo ai mercati: è d’uso offrirsi a qualche vicino per pulire la casa o tenere gli infanti; in cambio, gli adulti accompagnano i bambini alle bancarelle e comprano per loro la terra. I colori più facili da reperire sono il blu, il verde e il turchese. Più raro il rosso brillante, e quasi introvabile il viola puro. Il giallo, il marrone e l’arancione si possono estrarre dalla terra dei campi, per cui non si trovano in vendita: si trova invece il setaccio, che vale circa il tempo speso a pulire tre volte una casa di medie dimensioni. Solo i bambini più grandi, però, si fanno procurare il setaccio, perché setacciare la terra per estrarre i colori è un lavoro noioso, che ai più piccoli, poco pazienti, non piace. Così succede che i colori con cui si riempiono il capo i bambini finiscano con l’indicare la loro età: i più piccoli adorano il blu e il turchese, mentre i più grandi preferiscono toni gialli e viola. Anche i disegni decorativi, man mano che i piccoli crescono, si fanno più elaborati. E’ tradizione giocare insieme a dipingersi il cranio, ma non si usa mai aiutarsi a vicenda: così, ogni testa è espressione del bambino a cui appartiene.
Il gioco prosegue fino alla pubertà, quando, divenuti ufficialmente adulti, i ragazzi hanno diritto a farsi crescere i capelli: allora il colore, appartenente al mondo dei bambini, viene abbandonato, e sostituito da elaborate acconciature con cui sia i giovani maschi che le giovani femmine adorano adornarsi il capo.


E dodici, e tredici.
E diciotto e diciannove.
E venti.

Sotto la luce notturna del fuoco gelato, sia i colori della terra di Homs, sia le perle di cui gli adolescenti si riempiono i capelli, brillano come fossero nebulose lontane.

Ventuno.
Ventidue.
Ventitré.
Ventiquattro.

Nessuna traccia di Mafé.

Venticinque.

Amar aveva lasciato già da un po’ la tavolata dei bambini, iniziando a lavorare insieme a suo zio nella stiva, aiutandolo ai motori.

Ventisei.

Più il tempo avanzava, più ne spendeva nella pancia della nave: e se, mentre era a lavoro, Mafé tornava? E se non la riusciva a incrociare?

E se fosse già ripartita?

Ventisette.

Così Amar si ritrovò, nelle rare occasioni in cui lo incontrava, a lanciare occhiaie furtive al Generale Morar.

Ventotto, ventinove, trenta.
Trentacinque.

Quaranta.

“Amar.”
Il ragazzo sussultò nel sentire la voce dell’uomo: sporco di fuliggine e olio motore, si voltò di scatto tentando, maldestramente, di pulirsi il volto.
“Sì!”
Sulla soglia della sala macchine, il Generale lo richiamò con uno sguardo secco: “Seguimi, veloce."
Corse.
Che si fosse accorto del continuo scrutare? Miseria, se era stato impertinente.
“Sì, signore. Arrivo, signore.”
Ma Morar non disse nulla di Mafé, né delle occhiate che Amar, ormai d’abitudine, rivolgeva in sue direzione alla ricerca di un suggerimento sulle sorti della ragazza. Invece lo promosse, concedendogli una diaria raddoppiata e – per la prima volta da quando aveva iniziato l’apprendistato – delle ferie.
Ferie.
Era già entrato nell’età in cui ci si prende delle ferie?
“Generale –” osò allora Amar, intenzionato a chiedere notizie di Mafé.
Morar non lo ascoltò, allontanandosi da lui come se non avesse nemmeno parlato.

Quarantacinque.
Cinquanta.
Sessanta.

Cento.


***



“Cos’è?"
Amar si strinse nelle spalle, pallide e larghe, senza nemmeno levare gli occhi sulla ragazza. Seduto al margine della sua branda, nudo, i gomiti puntellati sulle cosce, fissava il vuoto.
“Un libro.”
“Non pensavo ne esistessero ancora.”
Amar fece nuovamente spallucce. “Vado a lavarmi.” dichiarò, alzandosi lentamente. “Se vuoi andare via, è il momento migliore. Non c’è nessuno, qui, a quest’ora.”
“Va bene.”
“Se vuoi restare, sei la benvenuta.”
“Va bene.”
Si buttò addosso il telo di spugna, uscendo e dirigendosi verso i bagni. S’immerse sotto i getti di acqua colorata e si sciacquò per bene, lasciando che la mente si liberasse e quel poco che rimaneva dei suoi pensieri fluisse via, insieme ai detergenti con cui usava ripulirsi il corpo.
Quando, pulito e rivestito, rientrò nella sua cabina, la ragazza non c’era.
Non ci rimase nemmeno male – non come gli era successo le prime volte. Era così che andava, e, a ben pensarci, non sarebbe potuta andare diversamente. Levò le lenzuola, buttandole a terra, e rifece il letto con la biancheria pulita.
Di lì a qualche minuto bussarono alla porta metallica. Amar si avvicinò all’uscio con passo pesante e annoiato, schiudendo minimamente la porta: “Hai dimenticato qualcosa?”
“No.”
Sgranò lentamente gli occhi, lasciando che la porta si aprisse del tutto e rivelasse, completa, la figura davanti a lui.
Lo sguardo scuro e tagliente, serissimo, gli mozzò il fiato: conosceva quegli occhi – gli occhi di Morar.
Gli occhi di Mafé.
La ragazza, nella divisa degli alti ranghi militari, lo scrutava dalla soglia: il mento alto, i capelli corvini che incorniciavano il volto latteo e il casco da pilota di Mini-Arrow sotto il braccio. Poteva sentirle l’odore del carburante addosso, mescolato all’antico, quasi scordato, odore di Mafé.
Dapprima, seria, non si mosse.
“Posso entrare?”
Amar si scansò dalla porta, facendola entrare: improvvisamente, si era rifatto preadolescente.
Solo allora notò il drappo giallastro che la ragazza portava sulla spalla sinistra, come un corto mantello asimmetrico. Con sua sorpresa, lo riconobbe: “Porti il Talmarian.” asserì.
Mafé si lasciò scappare un sorriso: “Vedo che hai studiato.”

 

 

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Capitolo 4
*** 4 ***


Capitolo 4

 

 

Amar era diventato alto: il petto ampio, era passato tanto di quel tempo che oramai sul suo volto squadrato rimanevano, dell’immagine che Mafé aveva custodito dal giorno in cui era partita, solamente gli occhi.
In piedi, addossato al muro, la guardava con la stessa espressione di sconcertata attesa con cui la fissava da ragazzino, nonostante il naso dritto e le narici larghe, le mani grosse e callose, l’odore di grasso e fumo che, per quanto fosse lavato e pulito, ancora aveva addosso.
La ragazza, seduta sulla branda, carezzò con tenerezza il libro prestato ad Amar tante albe prima.
“Come stai, Amar?” chiese Mafé, fissandolo.
Amar fece spallucce.
Gli occhi di Mafé, gli occhi di Morar.
Come fosse che la ragazza, stando lontana dal padre per tanto tempo, avesse acquisito la sua stessa espressione – un’espressione che prima non aveva mai sfiorato il suo viso –, per lui era un mistero. Inconcepibile.
O forse erano le milizie che tiravano fuori quegli occhi?
No, di militari ne aveva conosciuti. Di ogni rango.
Forse era l’effetto delle milizie su quella famiglia, a sortire tale effetto.
“Sei stata via parecchio.”
“Sì.”
“Come stai?”
Mafé non rispose. Aprì invece il libro, mentre un sorriso nostalgico le si allargava sul volto.
“Il Talmarian è intriso del giallo della terra, e viene considerato come un segno di pace. Si dona alle feste del raccolto, ai contadini come ai sovrani, e soprattutto agli stranieri che sono benvenuti. Ognuno è libero di portarlo come meglio crede: avvolto sulla testa, o allacciato a una bisaccia: è del tutto indifferente. L’importante, quando si va in pace, è avere con sé il Talmarian – ovunque su tutto Canos.”
Amar strinse forte le labbra, sentendo la ragazza leggere ad alta voce.
La sua mente ritornò alla terrazza, al mare di nuvole e a più di cento albe prima.
“Amar.”
La voce della ragazza era più robusta di un tempo, salda, eppure ovattata.
Se una volta pensava che Mafé fosse come un sasso, per tanto seria e rigida qual era, e poi roccia, per la sua testarda determinazione, ora l’immagine gli appariva del tutto diversa: morbida ma inamovibile, sicura e rassicurante, inarrestabile, eppure del tutto innocua. Come il mare di nuvole, che rimane, eterno, e si rimescola, procede e sta contemporaneamente fermo.
Il suo nome, pronunciato nel silenzio della stanza, gli suonava come un richiamo antico: i suoi sensi, sopiti dalla routine e dalla noia della sua serena ma insipida esistenza, si svegliarono, come un fiore che s’apre, ricettivo, al mondo.
“Sai perché siamo ancorati qua?” chiese, tenue, la ragazza: levò gli occhi dal libro, e riprese a fissarlo. Morar. Mafé. Morar. Mafé. Mafé.
Mafé.
Amar sollevò le spalle.
“Non me lo sono mai chiesto.”
“No, non è vero.” lo redarguì lei, tornando con gli occhi alla carta. “Sei stato proprio tu a chiedermelo.”
“Io?”
“Alla terrazza, una volta. Avevi ragione: che senso ha fermarsi sopra il mare di nuvole, se sotto non c’è nulla?”
Amar tacque: ora, entrambi adulti, sapevano dare con estrema semplicità la risposta una domanda del genere.
“Sono qui per chiederti un favore, Amar.”
“Dimmi.”
“Scendi con me.”
“Eh?”
“Scendi su Canos. Se verrai, verrai ben ricompensato. Di qualcosa che ha un valore talmente immenso da non poter essere né venduto, né comprato, né donato.”
“Io…”
“Ho bisogno che ci sia qualcuno, con me. Ho bisogno di un testimone. Poi ne me andrò, perché se vedremo quel che immagino, allora, non c’è modo per cui io possa restare su questa nave, né rimetterci mai più piede.”
Amar serrò le braccia al petto.
E sebbene il suo corpo, insieme a metà della sua mente, stesse dicendo ‘no’, disse: “Servirà anche a me, un Talmarian.”
Mafé sorrise.
“Basterà il mio.”

La cabina del Mini-Arrow era molto più stretta di quel che ricordava: Amar, a fatica, sedette al posto del passeggero, subito dietro quello del pilota. Mafé gli diede una mano a chiudere il complicato sistema di cinture di sicurezza, infilandogli poi in testa un casco molto più vecchio di entrambi.
“Tieni.” disse poi la ragazza, poggiandogli in grembo una grossa borsa di stoffa grezza.
Agile, com’era già ai tempi in cui sfidava il vento della terrazza, Mafé s’infilò sul suo sedile e si chiuse con rapidità ogni cinghia, laccio e fibbia – gli stessi che poco prima avevano fatto tanto penare Amar. La cupola si chiuse, e prima che il ragazzo potesse realizzare che, sul ponte, non c’era nessuno oltre a loro, volavano già immersi nel mare di nuvole.
“Questo decollo non era autorizzato, vero?” domandò, retorico.
“Nemmeno l’atterraggio. Ma non preoccuparti, ho fatto in modo che la responsabilità cadesse solo su di me. Stai tranquillo.”
A fatica per il poco spazio concessogli e per la costrizione delle cinture, Amar fece spallucce.
“Cosa mi hai affidato?”
“Puoi aprirlo, se vuoi.”
Amar si ritrovò fra le mani quel che pareva una sfera di vetro, liscia, il cui interno rifletteva la luce come se vi fosse intagliato un cristallo.
“Lo hai rubato.”
“Non io.”
“Non tu?”
“Mio padre.”

Amar non poteva sapere di quell’oggetto, perché Morar prima, e Mafé poi, avevano ben nascosto la sua esistenza. Seppure se ne parlasse in tutte le cronache di Canos, e in tutti i testi degli esploratori scesi dalle navi del Regno, forse solo loro erano riusciti a fare il collegamento fra la narrazione e la realtà dei fatti.
Non che servisse essere persone di fine genio, o di grande conoscenza: bastava, in realtà, ascoltare. E prestare attenzione. Senza lasciar perdere, senza disinteressarsi.
Senza sorvolare sui dettagli che, incollati l’uno all’altro, formavano il mosaico della storia recente di Canos.
“Navigare nel mare di nuvole è difficile, ma non impossibile. Non fare quella faccia, Amar. Arriveremo interi.”
Amar, il volto pallido per i sussulti a cui lo costringeva la navetta e a cui non era affatto avvezzo, annuì.
“E’ molto più conveniente che navigare in quest’atmosfera quando la Solaris risplende.”
“Ah.”
“Non stava qui, una volta, il mare di nuvole. Serviva a noi.”
“Mh…”
“Ti ricordi quando ti dissi che la lingua dei canti era Canossese del nord-est?”
“Certo.”
“Era Canossese e basta. Ma ti farò vedere, così capirai. Tra poco saremo sopra Raden.”

Amar si aspettava vi fossero piogge e fulmini, come descritto nei libri. Si aspettava uno scrosciare continuo d’acqua, vento sferzante, freddo.
Quando scesero dal Mini-Arrow, gentilmente appoggiatosi al terreno, non si muoveva un alito d’aria: tutto era immobile. V’era una densa nebbia giallastra, colore dovuto alla luce della Solaris che andava tramontando, e silenzio.
A fatica Amar poteva intuire i profili di alcune costruzioni attorno a loro, e, sforzandosi, l’ombra lunga delle mura tipiche di quella città.
Non c’era nessuno.
“Puoi togliere il casco, se vuoi. Si può respirare, anche se non sembra.”
“Siamo a Raden?”
“Sì, siamo a Raden.”
“Dov’è la gente? Escono davvero solo di notte?”
“No, vedrai. Il tramonto è quasi concluso. Vieni, Amar.”

 

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Capitolo 5
*** 5 + Epilogo ***


Capitolo 5

 

 

“Perché i Canossesi amavano così tanto la notte?” chiedeva Mafé, facendo strada fra la nebbia.
Amar, dietro, con lo spirito di un bambino ma la mente di un adulto formato, rispondeva:
“Perché di giorno c’è qualcosa che li danneggia?”
“E cosa?” chiedeva Mafé.
“La Solaris?”
Mafé annuiva, e camminava. E continuavano:
“Se la Solaris faceva male ai Canossesi, come facevano a sopravvivere durante il giorno?”
“Se ne stavano al chiuso, direi.”
“Ma non sempre, non tutti.”
“Allora qualcosa li proteggeva, oltre alle pareti delle loro case?”
Mafé sorrideva, melanconica, e procedeva.
“E dimmi, Amar – se qualcosa non lo vedi, non può farti del male?”
“Non direi.”
“E così per la Solaris. Ma la notte perde potere, e qualcos’altro ne guadagna.”
“E cosa?”
“Quel che porti in spalla. Vieni, dammi la mano. Di notte, con la nebbia, è impossibile muoversi con solo i nostri occhi. Ti guido io, ci siamo quasi.”
La Solaris si spegneva, sparendo, lasciandoli nel buio più profondo. Mafé s’appoggiò sul naso un visore notturno, tipico oggetto da militari, e Amar, dietro, seguiva i suoi passi.
Man mano che avanzavano, il ragazzo sentiva il fianco sempre più caldo.
“Cosa – …?”
“Ci siamo quasi. Si sta scaldando, vero?”
Amar annuì.
“Attento alle scale.”
Salirono, e salirono: nulla cambiava, solo buio e nebbia. La sacca, per contro, andava facendosi incandescente.
Mafé si fermò. “Passamelo.”
Amar non vedeva: porse, alla cieca, la sacca, aspettando che l’altra la prendesse. Ma anziché levargliela di mano, la aprì, ed estrasse la sfera rovente: se ne poteva intuire la posizione solo dal caldo che irradiava.
Poi.
Poi accadde. Ed era vero: non si poteva vendere, né comprare. Né donare.
Nel buio più profondo, nel nero in cui nemmeno gli occhi abituati alla stiva erano riusciti ad individuare alcuna forma o profilo o sagoma che fossero, qualcosa comparve.
Prima come un rumore, poi, lento, divenne colore.
Il Talmarian di Mafé fu il primo a illuminarsi, giallo, sempre più vivido, illuminando i loro volti d’una luce dorata.
Poi fu la sfera a prendere vita: posata, in mezzo a loro, in una conca di pietra antica e levigata dall’usura. Bianca, della luce delle stelle lontane. Così Amar si accorse d’essere in cima a una torre, e di avere, sopra il capo, la volta celeste.
E il mare?
E la nebbia?
Sempre più precisi, sempre più netti, i contorni degli oggetti intorno a lui si definivano ogni istante di più. Mafé si allontanò dalla luce della sfera, che, nel frattempo, aveva cessato di emanare calore.
“Toccala, se vuoi.”
Amar, fidandosi, poggiò adagio il palmo sull’oggetto: era freddo. Ghiaccio.
“Il fuoco gelato.” capì allora.
E, mentre intorno a lui tutto s’accendeva, vide il dorso della sua mano colorarsi di viola, di turchese, di rosso. Colori vividi, che gli illuminavano la pelle, e i vestiti, gli stivali – persino il casco aveva iniziato a rilucere di sfumature che aveva visto solo una volta, su di un altro pianeta – da piccolo: le aurore.
Levò gli occhi su Mafé: il Talmarian era come un faro nella notte, ma anche il corpo della ragazza, e la sua tuta, illuminavano colori rimescolati in un disordinato, fluido arcobaleno. E più il tempo passava, più le vene dei due si facevano nette, e potevano vedere il sangue pulsare, sino ad indovinare la precisa posizione del cuore, a cui tutti i colori affluivano e defluivano.
E la luce, allora, prese a comparire anche dalla terra, e dai muri, dalle piante – e dalle luci del sistema d’illuminazione di Raden. La città, ora visibile sin quasi all’orizzonte, nitida, pareva viva.
Ma era morta.
Nessuno nelle strade, nessuno nelle case. Non un animale. Solo le piante erano rimaste, testarde, a ricoprire le opere degli uomini di Canos e mangiarsi, lentamente ma inesorabilmente, una città fantasma.
“Ma a noi serve la nebbia. E serve la terra.”
Amar, che s’era incantato a rimirare lo spettacolo attorno a lui e addosso a lui, venne scosso da quelle parole.
Il bambino pianse, l’adulto capì.
Con gelo e terrore, l’adulto capì.
“Sono le terre di Homs a proteggere i Canossesi dalla Solaris.”
“A proteggere Noi. Dei Canossesi non rimane più nessuno.”
“Gliele abbiamo rubate.”
“Mio padre ha rubato la luce, e li ha costretti alla nebbia. La nebbia ha mangiato le loro menti, scaldato il loro mondo, li ha uccisi. Noi, che per i nostri strumenti navighiamo meglio nella nebbia, siamo scesi a prendere le terre. Abbiamo salvato vite su vite, perché il potere delle terre di Homs è immenso. Oramai se ne trovano in ogni cibo che mangiamo.”
“E così noi non ci ammaliamo.”
“Né subiamo i danni della Solaris. Di questa, e delle altre stelle.”
“Così si può stare a leggere tranquillamente sulla terrazza, con i piedi immersi nel mare di nuvole.”
Mafé tacque.
Si avvicinò al fuoco gelato, e lo sollevò dalla conca. Le luci, lentamente, presero a spegnersi ovunque.
“Non esistono più le terre dei lampi e delle piogge o le terre degli uomini, su Canos. Ci sono solo le terre del Regno. C’è solo la nebbia, il mare di nuvole, e i canti dei miei libri. Siamo gli ultimi ad aver visto la notte di Canos, Amar.”
“Se è stato condannato un popolo, non c’è motivo per condannarne un altro.”
“Torniamo indietro. Sulla Hene se ne saranno già accorti da tempo che il mare si è aperto sopra Raden.”

 

 

Epilogo

 

Morar osservava il fuoco gelato, posato sulla sua scrivania: ad Amar non aveva rivolto un’occhiata, dall’inizio del colloquio.
Nell’ufficio del Generale, la sfera fungeva da poco più che un soprammobile. Morar l’aveva sempre lasciata in piena vista, e, a ripensarci, forse Amar l’aveva già vista, da piccolo, nelle rare occasioni in cui era passato per quella stanza. Non ci aveva mai fatto caso, sembrava un oggetto come un altro.
Come, d’altronde, era: fintanto che non veniva posato nella conca in cima alla torre, quel che faceva il fuoco gelato, al più, era scaldare.
“A mia figlia ho detto una sola menzogna in tutta la sua vita.” disse il Generale.
Amar non rispose, sentendosi a disagio per una confessione tanto profonda da un uomo tanto altero.
“Le ho raccontato del Canossese del nord-est, come se lì ci fosse ancora un popolo. Quando invece quel popolo, che non a est, ma qui, a ovest, viveva – quando invece quel popolo sono stato io a distruggerlo.”
Il disagio in Amar cresceva, e l’idea della fuga gli si faceva sempre più allettante.
“Non importa se ho perso una figlia. So che non tornerà.”
Amar abbassò gli occhi sul tavolo, sperando di non intercettare quelli dell’altro.
“Conosco il vostro legame, Amar. Comunque intendiate svilupparlo in futuro, so che è possente e capace di resistere al peggiore dei naufragi.”
Gli occhi di Morar.
Gli occhi di Mafé.
“Se mai vorrai raggiungerla, ovunque si trovi, vieni da me. Posso mandarti dove preferisci. Le mie raccomandazioni valgono molto.”
Gli occhi di Mafé.
Gli occhi di Morar.
“Puoi andare.”
“Prego..?”
“Spero non ti aspetti che io abbia da sprecare il tuo lavoro con qualche sciocca punizione per aver preso in prestito un soprammobile, Amar. Arrivederci.”
Arrivederci.

 

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