Bring Me Back

di reginamills
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Buona sera! Allora, prima di buttarci a capofitto in questa nuova avventura, voglio avvertirvi: non sarà una storia facile, leggera come quelle che sono abituata a scrivere, come quella che avete letto. Si tratta di una storia che ho sempre tenuto chiusa in un angolo del mio pc, sperando di pubblicarla un giorno o l'altro, ma, come tutt'ora mi aspetto, credevo nessuno avrebbe avuto abbastanza interesse per leggerla. Poi, però, è arrivata Take Me Away, che è senza ombra di dubbio la mia fanfiction Outlaw Queen preferita (ovviamente, tra quelle scritte dalla sottoscritta!), e quindi ho detto: perché no? Perché non aggiungerla come sequel? Calza alla perfezione.
Voglio avvertirvi, ahimé, di nuovo: SIETE ANCORA IN TEMPO PER FUGGIRE. Chiudete chrome/safari/firefox finché siete ancora in tempo and RUN! 
Scherzi a parte, mi rendo conto che non è semplice, mi rendo conto che, con quello che sta succedendo nello show, questa storia è l'ultima cosa di cui abbiate bisogno, ma voglio dirvi una cosa: fidatevi di me, lasciate che vi porti fino alla fine di quest'altra follia e capirete che non sono Adam Horowitz.
Ultima cosa: date le tematiche di questo sequel, ci tengo a dire che non siete obbligati a leggerlo come sequel di Take Me Away: potete tapparvi occhi e pc/telefono e pensare che "tutti vissero per sempre felici e contenti".
Okay, finito! Finalmente vi lascio alla lettura (per quei pochi che ancora sono rimasti a leggere :D)
Un bacio grande e, ancora, scusate.

 

Robin Locksley girò la chiave nella serratura e l’aria di casa lo avvolse. Quell’aria che, da quasi otto anni, era diventata opprimente. Ad accoglierlo il famigliare abbaio del suo cane, Wilson, un vecchio golden retriever che gli era rimasto fedele per tutto quel tempo. Sorrise, mentre poggiava i due sacchetti della spesa che aveva in mano per chinarsi ad accarezzarlo. Essere accolto dalle persone che amava, al suo ritorno, era il momento della giornata che preferiva.
“Wilson, mio fedele compagno” disse in modo teatrale, mentre il suo sorriso tentava invano di raggiungere gli occhi “Hai protetto il nostro tesoro a costo della vita?” il cane lo fissò per un lungo istante con quei languidi occhi marroni che esprimevano tenerezza e voglia di coccole più di quanto non lo facesse la coda che continuava ad agitare insistentemente. Robin sorrise al pensiero che forse quello era il suo modo di rispondergli.
“Certo che l’hai fatto.” ridacchiò, prima di grattarlo dietro alle orecchie per un’ultima volta.
“Mr. Locksley!” si sentì chiamare dalla cucina, priva di veder comparire una figura alta e snella uscirne. “Per fortuna è qui. Rey aveva fame, così le ho dato dei crackers, ma forse non avrei dovuto, visto che è mezzogiorno. Mi dispiace tanto” la ragazza mora con qualche ciocca di un rosso intenso era imbarazzatissima, Robin poteva dirlo dal modo in cui si guardava i piedi e si mordeva il labbro mestamente. Tentò di sorriderle: 
“Ruby, è tutto ok, davvero. Hai fatto benissimo a darle i crackers, è colpa mia se sono arrivato tardi con il pranzo.”
Ruby Lucas, sua studentessa da tre anni e babysitter da uno, sembrò ritrovare il sorriso:
“Rey è adorabile, non so proprio dire di no a quegli occhioni” ridacchiò, poi prese la sua borsa “Beh, comunque… ora è meglio che vada.” 
“Oh certo,” si infilò una mano in tasca, per cercare e tirar fuori cinquanta verdoni. Vide Ruby spalancare gli occhi: erano davvero tanti soldi per solo mezza giornata. 
“Signor Locksley…” 
“No, Ruby, ti prego accettali. Prendersi cura di Rey la mattina non è semplice, ha bisogno di continue attenzioni. La colazione, e quelle crisi che potrebbe avere al risveglio… Io credo che questi soldi siano più che meritati.” Ruby esitò ancora qualche secondo, poi, con un imbarazzo tangibile, tese la mano verso quella di Robin e prese i soldi, sorridendo timidamente. 
“Per me è un piacere trascorrere del tempo con lei.”
“Lo so. So che avete legato molto, mi parla spesso di te la sera, prima di addormentarsi. Ti adora.”
“E’ reciproco. Una bambina davvero dolcissima. E’ così facile volerle bene…” sorrise, un sorriso che Robin trovò sincero. Ogni parola che diceva era vera, non solo un modo per impressionarlo e tenere il lavoro, lui lo sapeva. “Grazie di tutto signor Locksley, ci vediamo lunedì.”
Lui annuì: “A lunedì.” per un istante pensò di accompagnarla alla porta, ma Ruby sapeva benissimo dov’era. Senza contare che Robin moriva dalla voglia di vedere il suo piccolo angelo, ogni secondo in più lontano da lei era una tortura.
Aveva dovuto convivere con quello, con la voglia di mollare il lavoro per stare accanto alla sua piccola meraviglia, con la paura che, al suo ritorno, lei potesse non esserci più, per qualche altro crudele scherzo del destino. Robin Locksley conviveva con il dolore e la paura da ormai otto anni, da quando, quel maledetto giorno, il più brutto della sua vita, quel Dio a cui non aveva mai creduto aveva deciso di riprendersi tutto ciò che gli aveva regalato negli anni precedenti, di portargli via la felicità per sempre.

I suoni di quello stramaledetto macchinario a cui l’amore della sua vita era attaccato erano l’unica cosa che sentiva ripetersi nella sua testa, mentre le parole dei medici che invano cercavano di allontanarlo dalla sala gli arrivavano come deboli sussurri, confusi, soffocati dal terrore.
Robin cercò di formulare un pensiero coerente ma tutto ciò a cui riusciva a pensare era il suo angelo, disteso inerme su quel letto accanto al quale era seduto fino a pochi minuti prima, mentre sorrideva serena e teneva in braccio il frutto del loro amore, il loro piccolo miracolo. Non aveva idea che quello sarebbe stato l’ultimo ricordo di Regina Mills che avrebbe posseduto, non poteva saperlo, non se lo immaginava. La gioia aveva pervaso il suo corpo nel momento in cui aveva sentito quel pianto risuonare tra le quattro mura della sala, quasi a volerle buttare giù. 
Era una femmina, gli avevano detto. 
Una bellissima bambina che non vedeva l’ora di conoscere il suo papà e la sua mamma, ma a quanto pare faceva fatica a dimostrarlo, visto che aveva deciso di rimanere nel caldo e comodo pancione della mamma oltre i tempi stabiliti dal ginecologo. A Robin non importava. Gli sembrava una cosa così superficiale paragonata alla gioia che, mentre tagliava il cordone ombelicale (nonostante la paura e l’esitazione iniziali, nel momento in cui l’ostetrica glielo aveva gentilmente chiesto), provava nel guardare quell’esserino così piccolo che aveva contribuito a creare.
Era stato il primo a tenerla in braccio, a dirle ‘ciao’ e ‘ti amo’ con quelle lacrime che neppure si era reso conto di aver iniziato a liberare. Era rimasto fermo a guardare quei dolci occhioni tenuti stretti in due fessure che non gli permettevano di conoscerne il colore; quei -tantissimi, davvero tantissimi, non si aspettava che potessero essere così tanti- capelli neri come la notte e quelle labbra, che somigliavano così maledettamente già a quelle della madre, spalancate in un pianto implacabile.
Robin sorrise, come se il piccolo angelo l’avesse appena risvegliato dai suoi pensieri, e, pian piano, come se non si ricordasse più come camminare correttamente, si avvicinò al letto dove l’amore della sua vita lo attendeva impaziente.
Regina aveva il viso madido di sudore, le guance in fiamme completamente rigate dal pianto ma Robin giurò che mai come allora gli era sembrata così bella. 
“Ecco, tesoro” sussurrò “Ecco la mamma.” poggiare quella creatura così piccola ed indifesa tra le braccia tremanti della madre era stato come rendersi conto che tutto ciò che di bello aveva fatto nella vita e che avrebbe fatto nei futuri anni, si annullasse totalmente: niente sarebbe stato mai più importante del gesto appena compiuto.
“Amore mio…” la sentì sussurrare e Robin si rese conto solo allora che la sua voce era soltanto un debole soffio di vento. Era stremata, faticava a tenere gli occhi aperti, ma voleva comunque resistere per salutare il suo Piccolo Miracolo. Si tirò giù la spallina del camice bianco che indossava e, immediatamente, come una luce che la guidava nel buio, la bambina si attaccò al suo seno, e per entrambi fu un tuffo al cuore. Robin strinse Regina a sé e le baciò la fronte, sussurrandole ancora una volta quanto la amasse. L’ultima. 
L’ultima volta.
La vide sorridere e sussurrare, con le sue ultime forze: “E’ bellissima.” e lo era. Ora che aveva schiuso quegli occhioni poteva dire decisamente che erano identici a quelli del papà, di un azzurro che le fece venire la pelle d’oca.
“Renee.” la sentì dire poi, la voce ancora più flebile.
“Come?”
“Ti piace?” sorrise “Renee.” si strinse nelle spalle con delicatezza, come se avesse paura che un solo gesto potesse far del male a quell’angelo di cristallo.
“E’… perfetto.” una lacrima rigò il viso di entrambi, poi lei lo disse ancora una volta, l’ultima:
“Renee Angela Locksley.” 
E poi, tutto divenne buio.

Si asciugò in fretta quelle dannate lacrime che erano sfuggite al suo controllo prima che potesse fermarle, mentre il ricordo del giorno più brutto della sua vita si faceva spazio nella sua mente. Odiava ricordarlo. Lo odiava.
Prese la busta di carta marrone con il regalo speciale che aveva comprato alla sua bellissima bambina, poi salì le scale. Le sarebbe piaciuto. L’avrebbe vista sorridere e, almeno per qualche secondo, il dolore sarebbe scomparso.
Bussò alla porta e cercò di fare di tutto pur di non lasciarle guardare oltre quel finto sorriso. 
Sua figlia era molto intelligente, sensibile proprio come sua madre. Aveva solo sette anni, e forse era per quello che ancora non parlava al padre di quanto lo vedesse triste, di quanto sentisse che qualcosa non andava, che non era mai andato.
“Avanti.” la sentì dire dall’altra parte della porta di legno. Aprì ed entrò nella piccola stanza che, un giorno, tanto tempo prima, Regina e Robin avevano guardato e deciso che sarebbe stata la camera da letto del loro piccolo angelo.
Renee Angela Locksley era sdraiata sul suo letto, a guardare il soffitto, con in braccio il suo peluche preferito, Mr. Johnson, un tenero orsacchiotto arancione che aveva da ancora prima di venire al mondo. Robin ricordava bene il giorno in cui Regina l’aveva comprato, in un negozio di giocattoli che le piaceva particolarmente, dove era solita andare per comprare oggetti di vario genere per l’arrivo della piccola. 
Ogni volta che sua figlia l’abbracciava, Robin provava una sensazione orribile alla bocca dello stomaco; come se qualcuno stesse tentando di stringere forte, senza mollare, col solo scopo di vederlo piegato in due dal dolore.
“Buongiorno, principessa.” sorrise, con la voglia di stringere finalmente sua figlia tra le braccia, dopo una mattinata di lungo ed estenuante lavoro.
Era tornato a fare il preside, il che non era stato affatto facile dopo il trasferimento. Aveva dovuto lavorare come semplice professore per alcuni anni, ma poi era riuscito ad ottenere la promozione alla quale faceva il filo. Non riusciva a dire di esserne totalmente contento: essere il preside gli portava via del tempo prezioso che avrebbe di gran lunga preferito spendere con sua figlia, ma lavorare e distrarsi, infondo, gli faceva bene. Quella casa gli stava sempre più stretta, e inoltre era stufo di rannicchiarsi sul letto e piangere ogni notte, finché il sonno non fosse arrivato ad accoglierlo tra le sue braccia.
“Ciao papà” il suo tono era piatto, malinconico, quasi triste. Di solito l’accoglieva saltellando in giro per la stanza con quel suo orsacchiotto tra le mani; oppure correva per tutta la casa, facendo impazzire il povero Wilson. Renee Angela Locksley aveva lo stesso identico carattere della madre e, quando rideva, si assicurava che tutto il mondo la sentisse.
Robin sorrise a quel pensiero. Si mise a sedere sul letto, accanto alla sua bambina, poi, notando il modo in cui Renee si era spostata un po’ più in là, decise di approfittarne per sdraiarsi accanto a lei. Non gli diede neppure il tempo di mettersi comodo che le piccole braccia sottili gli si strinsero forte attorno alla vita, mentre i boccoli color dell’ebano l’aiutavano a nascondere il viso nel suo petto. Si strinse a lui come se fosse il suo tutto -e lo era-, si strinse a lui come se fosse ancora piccola -e lo era, anche se Robin sentiva il modo in cui, giorno per giorno, la sua bambina diventava sempre più grande.
“Che succede, tesoro mio?” si sentì sussurrare prima di baciarle i morbidi capelli neri ereditati in tutto e per tutto da sua madre. La piccola prese un profondo respiro, poi si lasciò andare:
“Domani sarà il mio compleanno.” sospirò, come se si fosse tolta un enorme peso dal petto. Poterne parlare con qualcuno che capisse come si sentiva era effettivamente un enorme sfogo per lei.
Robin chiuse gli occhi, li strinse in due fessure piccolissime, pregando chiunque volesse ascoltarlo di dargli la forza per non piangere.
“Tesoro… Lo renderemo un giorno speciale, lo sai. Come tutti gli anni.”
“No papà. Sono stanca di fingere.” disse, come se fosse abbastanza grande per capire il peso delle parole che pronunciava. “Otto anni fa io nascevo. E la mamma moriva.”

Tre ore erano passate dall’istante in cui la terra gli era mancata da sotto i piedi. Tre ore da quando il chirurgo gli aveva detto che no, non c’era stato niente da fare per il suo angelo meraviglioso, che niente avrebbe potuto salvarla dall’emorragia interna che il parto aveva scatenato.
Niente gliel’avrebbe riportata. 
Niente più sorrisi. Niente più baci. Niente più abbracci. Niente più nottate spese a venerare il suo corpo. 
Regina Mills non c’era più. Se n’era andata per sempre, nonostante gli avesse giurato più volte il contrario. Glielo aveva promesso. Gli aveva sempre ripetuto che non sarebbe andata da nessuna parte, che era sua, per sempre, e che nulla li avrebbe mai separati.
Lei era il suo tutto e…
No.
Non poteva essere vero. 
Robin Locksley aveva già passato quella fase mentre tornava a sedersi in sala d’aspetto, due ore e mezzo dopo quell’orribile notizia; dopo aver valutato per una lunga manciata di secondi di andare a ubriacarsi, fare a botte in un bar e soffrire quanto più il suo corpo glielo permettesse. Aveva anche considerato l’idea di uccidersi e raggiungere l’unica sua ragione di vita. Invece era semplicemente uscito da quell’ospedale nel quale solo poco prima era entrato insieme a lei, quando era viva, felice, sorridente nonostante il dolore atroce del parto che stava per affrontare. Era uscito ed aveva rigettato tutto ciò che torturava il suo stomaco, la sua mente, il suo cuore. Aveva pianto fino all’ultima lacrima, poi aveva preso la macchina -dove poco prima era seduto accanto a lei, al suo angelo, quando era viva, felice, sorridente nonostante il dolore atroce del parto che stava per affrontare- ed aveva guidato con fatica, con lacrime che neppure sapeva più da dove provenissero, visto che sentiva di non averne più, che gli offuscavano la vista. Aveva guidato fino al parco, quel magico parco in cui gli aveva finalmente confessato di essere incinta. Sedette sull’altalena sul quale l’aveva spinta -quella dove era felice, rideva, del tutto ignara di ciò che sarebbe successo- e pianse ancora, finché non sentì gli occhi diventargli pesanti e la voglia di continuare a respirare come un enorme fardello di cui tentava invano di liberarsi.
Si sdraiò sul prato per un’ora intera. Guardò le stelle, si chiese dove fosse il suo angelo in quel momento. Se esisteva un paradiso, si disse, sicuramente lei era l’angelo più bello di tutti.
Sorrise a quel pensiero, poi gli venne voglia di piangere, ma dai suoi occhi non uscì nulla.
Guardò l’ora. Mezzanotte e mezza. La sua bambina era nata da due ore e mezza, il suo angelo l’aveva lasciato da due. Eppure, sembrava essere trascorsa una vita.
Da qualche parte, nel suo cuore, come se fosse guidato da una forza esterna, si alzò con fatica e ritornò alla macchina. Guidò di nuovo fino all’ospedale e trovò sua madre ad aspettarlo lì, in sala d’aspetto, dove ora era seduto.
L’aveva abbracciata così forte da credere di ucciderla e, ancora una volta, sentì il bisogno di piangere, ma non uscì neppure una lacrima.
“Renee ti aspetta, tesoro. L’ho vista, sai? E’ una bambina bellissima. La più bella che io abbia mai visto.” Angela Locksley sorrise, scacciando via quelle che, anche per lei, erano le ultime lacrime.
“No.” disse, deciso.
“Robin…”
“Non ce la faccio, mamma. Se Regina non c’è più è colpa di quella bambina.”
“Adesso non essere ridicolo, Robin.” aveva usato un tono così severo che lo fece rabbrividire. Ricordava l’ultima volta che l’aveva fatto, quando le aveva comunicato di voler uccidere quel figlio di puttana dell’ex marito di Regina. “Quella bambina è la cosa più pura ed innocente che esista al mondo e tu lo sai. E’ normale che tu sia arrabbiato. So come ti senti. Vorresti spaccare il mondo, prendertela con chiunque perché l’amore della tua vita non c’è più ma devi andare avanti. Devi trovare la forza di prendere la tua bambina tra le braccia ed andare a casa, di crescerla come avresti fatto se Regina fosse stata qui. Lei lo vorrebbe.” 
Robin esitò per qualche minuto e un senso di colpa lo divorò in meno di un istante: come aveva potuto usare quelle parole nei confronti della loro bambina? Regina la amava più di ogni altra cosa, se fosse stata lì l’avrebbe sicuramente preso a schiaffi, e anche giustamente. Si morse il labbro:
“Hai ragione, io… Mi dispiace.” abbassò lo sguardo mestamente.
“Lo so, tesoro.” sussurrò “Coraggio, andiamo dalla mia piccola nipotina.” cercò di sorridergli, mentre gli avvolgeva un braccio attorno alla vita, come usava fare quando era un bambino, guidandolo verso la sala piena di neonati che Robin si era sempre immaginato quando aveva fantasticato sulla nascita della sua piccola meraviglia. Chi avrebbe mai immaginato che sarebbe stato tutto così… di merda.
Era la seconda volta che la vedeva. La seconda dopo tre ore.
Era lì, nel suo lettino, con una morbida coperta rosa avvolta attorno al fragile corpicino. Riconosceva quella copertina. Gliel’aveva presa lei. L’aveva scelta lei, quella copertina, era quella che aveva scelto la sua Regina. Prima che potesse accorgersene, le lacrime che tanto bramava poco prima tornarono a scendere incontrollatamente, e sembrarono aumentare nel momento in cui prese tra le braccia quell’angelo così piccolo e delicato da sembrargli di cristallo.
Profumava di buono, di pulito, di neonato. Qualcosa che non aveva mai sentito prima ma che non avrebbe mai dimenticato. Sorrise a quell’esserino così piccolo, poi poggiò lentamente le labbra sulla sua guancia paffuta. Dormiva, non voleva rischiare di svegliarla.
E poi avvenne. Sentì la bimba muovere una piccola manina per afferrargli la punta del naso, come se, inconsciamente, stesse cercando di creare un contatto con il suo papà. 
“Amore mio…” aveva sussurrato prima che lui ed Angela potessero lasciarsi andare all’ennesimo interminabile pianto.

 

just so you know, sono apertissima a qualsiasi critica, a meno che non vogliate venire sotto casa mia coi forconi!
risponderò a qualsiasi recensione vogliate lasciarmi, e vi ringrazio per aver letto fin qui.
alla prossima, se lo vorrete.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Ma salve! Se state leggendo questa introduzione significa che siete sopravvissuti allo shock del primo capitolo e, cosa più importante, avete scelto di continuare a leggere questa ennesima follia. Significa anche, comunque, che non mi avete assalito coi forconi sotto casa, visto che la sto scrivendo ;)
Scherzi a parte, ancora grazie mille per ogni recensione che ho ricevuto, grazie per i complimenti e grazie anche solo perchè state ancora leggendo.
Non vi faccio più perdere tempo: a voi il vostro nuovo capitolo!
 

 

“E’ colpa mia, papà. E’ solo colpa mia se la mamma è morta.” sussurrò, mentre le sue lacrime bagnavano furiosamente il petto di Robin. Si sentì morire, si sentì mancare le parole ed il respiro, quindi la strinse ancora più forte. Tentò l’impossibile per non scoppiare a sua volta in un pianto interminabile perché sapeva, oh, se sapeva quanto difficile sarebbe stato per lui fingere per l’ottavo anno consecutivo che quel giorno andasse festeggiato con felicità, gioia, serenità. Da una parte, forse, era grato che la sua bambina non si aspettasse questo da lui, che, nonostante la sua giovanissima età avesse capito in parte quanto difficile dovesse essere per lui. Almeno non avrebbe dovuto più fingere.
Stronzate, Locksley. Lo farai comunque. Glielo devi. Devi farle dimenticare anche solo per qualche secondo quella giornata di merda. Devi farle credere che, nonostante tutto, quel giorno sia stato magico perché ti ha portato lei, la cosa più bella della tua vita, la tua bambina. La voce nella sua testa, che negli ultimi anni aveva assunto spaventosamente un tono molto simile a quello di Regina, aveva ragione. Glielo doveva.
Era troppo piccola per soffrire così tanto. Meritava di festeggiare il suo compleanno come tutti gli altri bambini, di essere felice, di giocare spensierata e di pensare che il giorno del suo compleanno fosse un giorno da aspettare con ansia tutto l’anno perché valeva la pena di essere festeggiato.
Robin strinse forte le palpebre, poi baciò i capelli di sua figlia:
“Non dirlo mai più, Renee, mi hai capito?” il tono era fermo e deciso, ma non c’era traccia di severità. Non era un rimprovero, nonostante sperasse che suonasse come tale. “Se la mamma fosse qui, non è questo che vorrebbe sentirsi dire da te. Lei, io, la nonna, nessuno ha mai pensato questo di te.” mentiva, mentiva spudoratamente ma lei, giurò, sua figlia non l’avrebbe mai saputo. Perché lo aveva pensato, seppur per una manciata di ore, e non passava giorno senza che se ne vergognasse. “Dopodomani sarà un giorno molto speciale, per te e tutti quelli che ti vogliono bene. Organizzeremo una festa meravigliosa, con tutti i tuoi compagni di classe e—”
“No.” disse fermamente, sollevando il viso dal petto del padre per guardarlo negli occhi. Dio, quegli occhi. Erano blu come il mare ma, attorno alle pupille, c’erano dei raggi di un marrone così intenso da fargli venire i brividi. Questo era il miracolo di cui parlava sempre Regina, ogni volta che guardava sua figlia negli occhi lo capiva. “Non voglio una festa, papà.”
“Perché no, tesoro, possiamo far venire qui tutti i tuoi amici o, se preferisci, possiamo andare da un’altra parte.” le accarezzò dolcemente il viso.
“Io non ho amici, papà. Nessuno di loro verrebbe alla mia festa e, comunque, io non glielo chiederei mai.” si strinse nelle spalle e a Robin fece una tenerezza immensa. “A scuola me ne sto sempre in disparte e a me va bene così. Non ho bisogno di amici, per ora.” gli si strinse il cuore a quelle parole. Sembrava davvero dimostrare più anni di quanti ne avesse in realtà. Era così speciale che gli faceva tremare lo stomaco ogni volta.
“Almeno lascia che io e la nonna ti prepariamo una torta. Cioccolato e fragole.” 
Vide un enorme sorriso curvarle le labbra e fu come tornare di nuovo a respirare. Dio, quant’era bella quando sorrideva. Proprio come sua madre.
“Promettimi che riuscirai a trovare le fragole” disse, con un luccichio di speranza negli occhi che fece sorridere anche lui.
“Promesso.”

Quando si svegliò nel cuore della notte, il suo angelo non era lì, nel letto, accanto a lui. Vide la luce accesa in cucina e non poté far a meno di sorridere: ah, il settimo mese di gravidanza e le voglie sempre più frequenti. 
La sentì frugare nel frigorifero e cercò di trattenere una risata. Si infilò la vestaglia e si alzò dal letto per raggiungerla, solo per trovarla seduta al tavolo a mangiare la torta che Angela le aveva preparato due giorni prima. Sorrise:
“Adesso ti alzi anche di notte?” le si avvicinò, mettendosi a sedere accanto a lei.
“Mi dispiace, ma tua figlia ha bisogno di fragole.” aveva le dita completamente coperte di cioccolato, mentre si tagliava un’altra fetta di torta, togliendo la fragola dal bordo e portandosela tra le labbra. Robin la osservò, trovandola incredibilmente sexy e dolce allo stesso tempo. Quel mix lo faceva impazzire, non importava quanto ci fosse abituato ormai. Per lui, Regina Mills era sempre una sorpresa, qualcosa di nuovo da scoprire ed adorare.
Dio, la amava.
Lo trovò lì a guardarla, gli occhi blu fissi nei suoi e, all’improvviso, mollò la fetta nel piatto.
“Sono grassa, Robin?”
Lo sorprese talmente tanto che pensò di strozzarsi con la sua stessa saliva: “Cosa?” rise.
“A forza di mangiare dolci sto diventando una balena, non è vero? Ti prego, devi dirmelo.”
“Regina—”
“No, smettila di fingere. Il modo in cui mi guardi suggerisce che tra un paio di mesi non mi sfiorerai neppure più per sbaglio.”
“Vuoi smetterla di dire stupidaggini?” disse, serio. “Regina, sei bellissima. Ti voglio adesso come ti volevo sette mesi fa, ti vorrò tra due mesi allo stesso modo. Desidero il tuo corpo costantemente, amore mio, non hai idea di quanto. Ho voglia di te, qui, ora, su questo tavolo. Voglio portarti nel nostro letto e fare l’amore con te fino all’alba, poi svegliarmi accanto a te e farlo di nuovo. Ho sempre voglia di te.” le prese il viso tra le mani e la baciò dolcemente, facendo appena sfiorare le loro labbra. Quelle di Regina sapevano di cioccolato e fragole e non poté far a meno di sorriderne. “E tu?” sorrise, alzando un sopracciglio con aria di sfida, mentre prendeva una fragola dalla torta. La mise accanto alle sue labbra e osservò il modo in cui i suoi occhi si illuminarono immediatamente. Stava per morderla ma lui la fermò:
“Ah-ah! Scegli. Me o la fragola.”
“Stai scherzando?” rise
Scosse la testa: “Quale vuoi per prima?”
“Non tentare troppo la fortuna, Locksley. Potresti rimanerci male.” prese la fragola tra le dita e fece roteare la punta tra le sue labbra, poi guardò Robin dritto negli occhi e la morse, dopodiché gliela passò, facendo in modo che ne avesse un morso anche lui. Era completamente rapito da ogni gesto che quella donna faceva e, in quel momento, la desiderò più di ogni altra cosa.
Come se gli avesse letto nel pensiero, Regina premette le sue labbra contro quelle di Robin, sentendo il sapore della fragola quando la sua lingua avvolse quella di lui.
“E così mia moglie preferisce una fragola a me, eh?” disse fingendosi arrabbiato mentre, lentamente, si sbottonava la camicia. La vide mordersi il labbro e sorrise, uno di quei sorrisetti di chi è perfettamente consapevole di aver vinto su tutti i fronti.
“Forse.” inarcò un sopracciglio, ridacchiando. “Perché, tu cosa mi offri?”
Senza esitare, Robin le prese il viso fra le mani e la baciò con foga, con passione, fino a lasciarla senza fiato. Era così innamorato di quell’angelo, lo faceva impazzire anche quando era lui a tentare di provocarla.
“Non hai idea di quanto ti desidero, amore mio.” le sussurrò a fior di labbra, e lei ci mise più di qualche secondo per staccare gli occhi dalla bocca di Robin, così pericolosamente vicina alla sua.
“Allora portami a letto.” sussurrò, seria più che mai. Lo desiderava anche lei, quelle tre settimane passate senza sentire il suo corpo contro quello di Robin erano state una tortura. Lo desiderava più che mai, lì, in quel momento. 
“Sei sicura che…” lo vide mordersi il labbro con incertezza e sorrise:
“Non succederà niente, Robin. Io e il bambino siamo più forti che mai, ora. Puoi toccarmi, baciarmi e fare l’amore con me tutta la notte.” posò un’altra volta le labbra sulle sue e lesse tutta la sua voglia di lei in quegli occhi leggermente abbassati, volti ad osservare ogni movimento del suo viso.
Lentamente, con estrema delicatezza, attento a non farle male in alcun modo, la sollevò, come ricordava di aver fatto durante la loro prima notte da sposati. La sentì ridere mentre nascondeva il viso contro il suo collo, solleticandogli dolcemente la pelle con quelle labbra morbide che già gli mancavano. 
“Non sono pesante?” sorrise, lasciandogli un bacio sull’incavo della sua spalla.
“Oh sì, infatti pensavo di lasciarti cadere proprio qui, che cosa ne dici?” Robin rise e per un minuscolo istante, Regina sentì le sue mani lasciarla lentamente per poi riprenderla in fretta, facendola sobbalzare e ridere allo stesso tempo: “Non farlo mai più.” gli disse, seria, poi lo baciò sulle labbra, “Portami a letto.”

Sentì il suo cuore contrarsi ripetutamente a quel ricordo, a quel piccolo ricordo di quando il paradiso e gli angeli erano il pane quotidiano. Sorrise alla sua bambina e le accarezzò i morbidi boccoli neri:
“Ti ho preso una cosa.” disse, guardando attentamente il modo in cui gli occhi della sua piccola si illuminarono all’improvviso. Allungò una mano dietro alla sua schiena, per raggiungere la busta di carta marrone che aveva lasciato sul comodino di sua figlia. “Volevo dartelo domani, ma…”
“Oh, papà…” rise, felice come non mai. Fu come assistere al momento in cui le nuvole liberano il sole, lasciando che i suoi raggi risplendano in tutta la loro bellezza. Era questo ciò che vedeva negli occhi di sua figlia, come se, per un po’ di tempo, potesse davvero dimenticare la tristezza. “Che cos’è?” prese la busta dalle mani del padre e ne tirò fuori un pacchetto, incartato con cura in una morbida carta gialla ed un fiocchetto arancione. 
“Aprilo.” le sorrise e Renee obbedì: in fretta e furia tolse il fiocco, poi strappò la carta, proprio come usava fare da piccola durante la mattina di natale. Quando si ritrovò in mano un diario, rilegato in pelle marrone, con le pagine leggermente e volutamente ingiallite, Robin osservò in modo in cui le sue piccole labbra si schiudevano per formare una “o” piuttosto sorpresa. 
“E’…”
“Quello che avevi visto nel mio ufficio. Visto il modo in cui ti piaceva ho chiesto alla ragazza che lo aveva dove comprarlo, e finalmente l’ho trovato.” sorrise, passandole una mano tra i morbidi capelli corvini. Il viso di Renee sembrava brillare di luce propria. Mai nella sua vita aveva visto una bambina così felice di un regalo così semplice e apparentemente sciocco per una piccola di quasi otto anni.
“E’ bellissimo!” esclamò, mentre il suo piccolo pollice accarezzava la pelle marrone che rivestiva il diario, come se stesse cercando di conoscerne ogni dettaglio con il semplice senso del tatto. 
“E… se lo apri…” Robin, con un sorriso quasi commosso, le presentò la prima pagina dove, incollata, c’era una foto di Regina. La sua Regina. Il suo angelo meraviglioso. Era così bella in quella foto, ricordava di averla scattata mentre era distratta, seduta sul dondolo sotto il portico di casa loro. Abbracciava il pancione come se stesse tenendo il suo tutto, mentre si lasciava distrarre da un dettaglio che Robin non era mai riuscito a ricordare. Era una foto così bella che l’aveva stretta a sé ogni notte da quando l’aveva persa, ogni notte fino a quel giorno. Ora sarebbe stata di sua figlia. Del loro Piccolo Miracolo.
Per Robin, quello era il regalo più grande che potesse fare a Renee, ma non pretendeva certo che lei potesse capirlo, così piccola e innocente, completamente ignara di quanto dolore potesse fargli separarsene, ma allo stesso tempo di quanto potesse renderlo felice il fatto di regalarla alla persona più importante della sua vita. 
“Era così bella.” sussurrò la piccola, fissando la foto come se fosse un miraggio. Era vero, era senz’altro la meraviglia più bella su cui Robin avesse mai posato gli occhi. Fece appena in tempo a ricacciare indietro le lacrime che subito ne vide una bagnare la fotografia che Renee stringeva forte tra le sue piccole dita. 
Per un istante, un terribile istante, temette di essere arrivato troppo tardi per fermare il suo pianto, poi si rese conto della verità: era una lacrima di sua figlia. La sua bellissima bambina stava piangendo per colpa sua, e non sapeva quanto ciò gli recasse dolore.
“Mi manca così tanto papà” singhiozzò, tirando su col naso. Robin lottò con ogni sua forza per non seguirla e piangere con lei fino all’ultima sua lacrima.
“Manca anche a me, tesoro.” sussurrò, poi lasciò che Renee avvolgesse le sue braccia sottili attorno al suo collo e che lo stringesse forte, come non mai. 
“Grazie, papà. E’ il regalo più bello del mondo.” sussurrò, mentre pian piano le lacrime lasciavano spazio ad un sorriso.
“Sono contento che ti piaccia, amore mio.”
 

fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va :)

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Buonasera, di nuovo io! Eccoci con un nuovo capitolo, breve ma intenso. Volevo ringraziare tutti quanti per le splendide recensioni e per tutti i complimenti che mi fate, anche su twitter. Siete splendidi, grazie :)
Spero vi piaccia, buona lettura!

 
Quando Renee si infilò sotto le coperte, quella sera alle nove e mezza, come al solito, il sonno sembrò non voler arrivare. Era così pensierosa, quasi si sentiva in colpa per il giorno che stava per arrivare. 
Sapeva che non era colpa sua se il giorno del suo compleanno sarebbe stato, allo stesso tempo, fonte di grande gioia e di grande dolore, sapeva che non aveva avuto scelta, anche se, potendo, avrebbe scelto di non nascere mai, sapendo di salvare la vita a sua madre. 
Il volto di suo padre era segnato dal dolore. Perfino una bambina piccola come lei sembrava accorgersene. Giorno dopo giorno, le giornate del suo papà diventavano sempre più brevi, finché un giorno, addirittura, cominciò ad andare a letto alla stessa ora in cui ci andava lei.
A scuola, la sua compagna Brianne le aveva spiegato che gli adulti di solito danno degli orari ai bambini per andare a dormire che loro stessi non rispettavano neppure da piccoli. Era soltanto un modo per assicurarsi che si sarebbero svegliati presto il giorno dopo, puntuali per la scuola. Lei non aveva mai visto il suo papà fare tardi la sera, non lo aveva mai sfiorato l’idea di rimanere sveglio fino a mezzanotte -orario che per lei sembrava completamente proibito e spaventoso. Si chiedeva perché, e a volte aveva persino provato a chiederglielo, ma Robin aveva sorriso e le aveva accarezzato i capelli senza rispondere.
Silenziosamente, si strinse sotto le coperte, con il suo amato peluche che le era stato dato dalla nascita e cercò di chiudere gli occhi. Inutile dire che, neppure una manciata di secondi dopo, li riaprì immediatamente.
Si sporse per dare un’occhiata all’orologio sul suo comodino. Segnava le dieci. Era praticamente tardissimo per lei. Una volta era rimasta sveglia fino alle undici, ma era Capodanno, quindi quasi non contava.
Perché non riusciva a dormire? Quella mattina si era svegliata presto, aveva fatto educazione fisica a scuola ed aveva corso molto, quindi aveva ogni motivo per essere stanca. In più, prima di cena era uscita con il suo papà per portare Wilson a fare la sua solita passeggiata, il tutto solo dopo aver finito i compiti.
Di solito, dopo una simile giornata, faticava ad arrivare al coprifuoco con gli occhi ancora aperti, ma quella notte… era diverso. Sentiva che qualcosa non andava e lei non poteva fare niente per cambiarlo.
“Mi dispiace tanto, mamma.” sussurrò nel buio della stanza. Era la prima volta che lo faceva, la prima volta che parlava con sua madre, con qualcuno che non era lì. Qualcosa, però, le diceva che non era inutile, che qualcuno la stesse ascoltando. La sua mamma.
Prese il diario che il suo papà le aveva regalato il giorno prima, quello che aveva lasciato sul comodino, incapace anche solo di aprirlo senza versare almeno una lacrima. Finalmente, sembrò trovare il coraggio di farlo e, con la manina che tremava, accarezzò quella fotografia così spaventosamente bella, tracciando col dito il contorno del viso della donna che ritraeva. Era davvero bella, il suo papà non aveva esagerato nemmeno un po’ quando glielo diceva. Sorrise mestamente e la guardò ancora per qualche istante. Poi, improvvisamente, le venne un’idea.
Prese una penna dal porta matite a forma di elefante che le aveva regalato sua nonna. Era una penna nera, come i capelli della sua mamma. Con riluttanza girò la pagina su cui era incollata la fotografia e, per qualche secondo, le sembrò quasi di mancarle di rispetto nel farlo. La sensazione svanì, tuttavia, quando posò la penna sul foglio bianco, e le parole sembrarono arrivare da sole:

Cara mamma,
sono Renee, tua figlia. E ti voglio bene. 

Si fermò per qualche istante a rileggere quelle parole, poi, un tenero ma fiero sorriso le si dipinse sul volto: non era un caso se quelle parole erano state le prime che aveva scritto. Aveva sempre pensato che, se avesse avuto la possibilità di vedere la sua mamma, anche solo per qualche secondo, la prima cosa che le avrebbe detto sarebbe stata fatta da quelle tre semplici parole: ti voglio bene.
 

La vita senza di te non è facile, mammina. Io e papà non riusciamo sempre a essere felici, anche se lui ci prova in ogni modo. Lui è fantastico, mamma, perciò non giudicarlo male se ogni tanto si dimentica di sorridere davanti a me. Io so come si sente, perché è come mi sento anch’io. Ci manchi tantissimo, mammina. Manchi a papà, perché ha bisogno di te in ogni momento, ha bisogno di te quando piange la notte, nel letto, e fa di tutto perché io non lo senta: questo è un segreto, mamma, non dirlo a papà: io so quando piange la notte. Lo sento. Una volta mi sono alzata per prendere un bicchiere d’acqua e ho sentito papà parlare con qualcuno, nella sua camera. Mi sono avvicinata e ho aperto la porta, facendo attenzione a non farla scricchiolare. Così l’ho sentito parlare con te, mentre piangeva e si asciugava le lacrime contro il cuscino. Non ho sentito molto, ma ripeteva spesso che gli manchi, mamma. Lo ripete sempre.
E quando lo fa davanti a me io rispondo che manchi anche a me, e tanto.
E’ così, mamma, io ho bisogno di te nella mia vita. Ho bisogno che mi abbracci, proprio come mi abbracciavi quando ero ancora nella tua pancia, come nella fotografia. A proposito: sei bellissima, mamma. 

Si fermò per qualche istante, a rileggere ciò che aveva scritto, come si era raccomandata di fare la maestra Blanchard ogni volta che scriveva qualcosa. Sorrise alle tante volte in cui aveva ripetuto la parola mamma. Era una parola che aveva bisogno di pronunciare più di ogni altra cosa e, il solo scriverla, la rendeva quasi tanto felice quanto farlo.

Domani sarà il mio compleanno e anche se tutti mi dicono di festeggiare e di sorridere, io non voglio farlo. So che non c’è niente per cui sorridere, mamma. Tu non ci sei e da quando non ci sei è come se mancassero tutti i motivi per sorridere. Papà dice che, comunque, mi preparerà una torta con le fragole e il cioccolato, e che la nonna verrà per una festicciola piccola piccola, come voglio io.
Non voglio altre persone intorno, mamma, ho bisogno solo di papà, della nonna, di Wilson e di te. Soprattutto di te.

Uno sbadiglio la interruppe e la costrinse a guardare la sveglia sul comodino. Erano le dieci e mezza, era tardissimo. Se suo padre l’avesse trovata sveglia l’avrebbe sicuramente sgridata. O forse no, chi poteva saperlo. Lui non la sgridava mai. Ma, comunque, il sonno che tanto bramava l’aveva finalmente raggiunta. 
Sorrise alle righe che aveva scritto e completò la sua lettera:

Devo andare a dormire, mammina, è tardi e non voglio che papà mi scopra a scrivere. 
No, non so neanche io per quale motivo.
Ti voglio tanto bene, mamma.
A domani.

Mise il diario nel cassetto del suo comodino stavolta, per assicurarsi che nessuno potesse vederlo. Ora era il suo diario segreto. Suo e di sua madre. Poggiò la penna sopra il diario e spense la luce: finalmente il sonno arrivò e, diversamente dagli altri anni, era un sonno dolce e sereno.


fatemi sapere cosa ne pensate se vi va :)
un bacio e alla prossima!

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


scusate come al solito il ritardo, ma eccomi pronta con un nuovo capitolo, seppur breve :)
spero vi piaccia e grazie ancora per le recensioni meravigliose che mi invogliano sempre di più a scrivere!

Quando Renee aprì gli occhi, quella mattina di venerdì, la casa le sembrò stranamente silenziosa. Era strano che il suo papà non l’avesse ancora svegliata per andare a scuola. Si girò verso l’orologio e, con gli occhi ancora assonnati e socchiusi, si rese conto che erano le otto. Il suo papà non si era svegliato! Era in ritardo per la scuola! Poi si ricordò: era il suo compleanno. Ogni anno, per cercare di cacciare indietro la tristezza dell’evento che quel giorno si portava dietro, il suo papà la svegliava sempre con la colazione a letto, che il più delle volte era un tenero cupcake con una candelina a forma di numero: quest’anno sarebbe stato un otto.
Per un istante, un terribile istante, Renee pensò al peggio: forse suo padre non aveva voglia di farlo quest’anno, perché lei era diventata grande abbastanza da capire la tristezza di quel giorno. Poi iniziò a valutare la seconda ipotesi, tremenda almeno quanto la prima: forse suo papà aveva pianto talmente tanto la notte prima, affogando nei ricordi, che si era addormentato talmente profondamente da non aver sentito la sveglia suonare. 
I suoi occhi si spalancarono immediatamente, mossi da quegli orribili pensieri. Scostò le coperte in fretta e uscì dalla sua stanza.
Tutto era in un silenzio quasi maniacale che la spaventava. Ma Renee era una bambina coraggiosa e sapeva di poter arrivare alla camera del suo papà senza farsi sconvolgere dalla paura. Avanzò qualche passo, aprì la porta, ma nel letto del suo papà non c’era nessuno: era rifatto e le finestre erano aperte, come ogni mattina. C’era un sole fantastico fuori, e splendeva già alto nel cielo. Neppure un accenno di nuvole.
Un groppo le si formò in gola, mentre nella sua piccola testolina ricoperta di boccoli neri avanzavano degli scenari angoscianti sui quali non aveva neppure voglia di soffermarsi.
Lentamente camminò verso la cucina, spalancando la porta con cautela, come se avesse paura di trovarvi qualcuno dietro. O forse, ripensandoci, la paura era più di non trovarvi nessuno e di essere sola.
“Sorpresa!” sentì gridare prontamente, e il cuore le balzò in gola. 
O mio dio! Il suo papà era lì, assieme alla nonna e il suo cagnolino, e reggeva una torta di fragole, panna e cioccolato alta due piani, come quella che vedeva nei cartoni animati! Era bellissima, ancora più bella di quanto avesse sognato. E non aveva una sola candelina, come tutti gli anni, ma ne aveva otto, tutte rosa, accese per lei.
“Papà…” non sapeva che cosa dire, sapeva solo che le veniva da piangere. “Metti giù la torta, papà.” disse, scandendo ogni parola. Il bellissimo sorriso di Robin ed Angela per qualche secondo sparì: non avevano idea di come stesse reagendo a tutto quanto. Robin, tuttavia, ubbidì: poggiò la torta lentamente sul tavolo e osservò il viso di sua figlia per lunghi, lunghissimi istanti che sembrarono ore. Poi, finalmente, fu sua figlia a fargli una sorpresa, la più bella di tutte: un sorriso meraviglioso le squarciò il viso, come un raggio di sole in piena tempesta, e poi gli corse in braccio, strinse forte il suo papà con le sue morbide, esili braccia di una bambina che aveva appena compiuto otto anni. 
Non ne fu sicura, ma le sembrò che suo padre tirasse un lungo respiro di sollievo lì, tra i suoi riccioli scuri, mentre la stringeva a sua volta e le sussurrava quanto bene le volesse.
“Ti voglio tanto bene, papà, grazie.” sussurrò, con gli occhi pieni di gioia. Allungò un braccio verso la nonna, che li guardava con un sorriso bello almeno quanto il suo, e con quelle lacrime di felicità che Renee avrebbe voluto versare fino a pochi secondi prima. “Grazie, nonna.” sorrise, mentre Angela muoveva qualche passo per unirsi a quel tenero e dolce abbraccio familiare e stringeva il suo tutto; le sue ragioni di vita.
“Buon compleanno, amore mio.” disse Robin, prima di baciare la fronte di sua figlia. 
“Grazie papà, grazie nonna.”
Robin la mise giù, dopo averle lasciato un ultimo, morbido bacio sulla guancia. 
“Allora, parliamo del tuo regalo, signorina.” sorrise Angela, scompigliandole i capelli. Anche Robin sorrise e, per la prima volta dopo tempo, il sorriso raggiunse i suoi occhi blu.
“Già. Come avrai notato è un po’ tardi per la scuola.” continuò Robin. “Io e tua nonna abbiamo pensato che per qualche giorno, forse, se ti va, potremmo… continuare a saltarla e andare in un posto speciale. Non lo so… diciamo… Disneyland?”
L’urlo di gioia che Renee Angela Locksley lanciò come risposta fu abbastanza esauriente, per lui, per sua madre e per Wilson, che, prontamente, prese ad abbaiare.

Il suo papà le disse di fare le valigie quella stessa mattina. Sarebbero stati via tutto i weekend per tornare solo domenica sera. Renee era felice. Per la prima volta in otto anni, era felice di compiere gli anni. 
Come prima cosa mise nella borsa il diario che, ultimamente, era diventato il suo oggetto preferito, senza il quale assolutamente non poteva vivere. Aveva deciso che non sarebbe passata più una sera in cui sarebbe andata a letto senza aver raccontato alla sua mamma la sua giornata. Era un bisogno inossidabile.
Aggiunse alcuni dei suoi vestiti preferiti e, con l’aiuto della nonna, sistemò anche la biancheria, la spazzola e lo spazzolino da denti. Era pronta, aveva tutto. Sarebbe stato un piacevole weekend insieme con le persone che più amava al mondo.
Prima di partire, quella sera stessa, si assicurò che Wilson stesse bene e avesse tutto ciò di cui aveva bisogno. “Ci penserà Ruby”, l’aveva rassicurata Robin. Certo, le dispiaceva lasciarlo a casa, ma suo padre le aveva fatto capire che portarlo con loro sarebbe stato impossibile; Renee aveva sorriso e aveva dato un bacio all’animale prima di sussurrargli un “ti voglio bene” che veniva direttamente dal cuore.
Robin la osservava, non perdeva un istante e, come al solito, si perse di nuovo nei ricordi.

“E’ il cucciolo più bello che io abbia mai visto, lo sai?” Regina sorrise, appoggiandosi alla spalla di Robin, mentre, seduti su quella panchina del parco, accarezzavano quel piccolo di neppure due mesi seduto sulle ginocchia di Robin. Lo avevano appena preso dal canile e, anche se non era un Golden Retriever di razza pura, ne aveva tutte le sembianze. Anzi, era anche più bello, si disse Regina.
Robin sapeva che dietro quello sguardo sognante c’era molto di più. Immaginava il loro bambino, il loro splendido Miracolo che ormai cresceva in lei da cinque mesi, e come sarebbe stato tenerlo tra le braccia per la prima volta, proprio così, come tenevano il piccolo Wilson.
“Che dici? E allora io?” la voce scherzosa di Robin la distrasse da quel sogno a occhi aperti. Lei scoppiò a ridere: “Scemo.” lo punzecchiò. “Vorresti farmi credere che sei un… povero cucciolo indifeso e bisognoso di coccole come questo piccolino?” rise ancora, mentre chiudeva le mani a coppa attorno al musetto della bestiola.
“Oh, anche di più, milady.” fece una smorfia, mentre avvicinava il viso al suo e seppelliva il naso freddo nell’incavo del suo collo. Regina rabbrividì e ridacchiò allo stesso tempo, per il solletico. Rimasero così per alcuni minuti: questa volta era lui che poggiava il capo sulla sua spalla, e non poteva che sorriderne. Amava quell’uomo da impazzire: la sua dolcezza, la sua spontaneità, la sua simpatia.
“Non vedo l’ora di conoscerlo, sai?” sussurrò Regina, rompendo il silenzio, portando una mano sul viso di Robin, per solleticargli la barba. 
“Chi? Il cane?” 
“Ma no, idiota, il nostro bambino!” rise di nuovo. 
“Oh…” lui sorrise amorevolmente, accarezzando la pancia perfetta di sua moglie. “Si, anche io.” era sempre emozionante sentirlo parlare del frutto del loro amore. “Voglio insegnargli tutto: a camminare, a correre, a giocare a Campana, ad andare sul triciclo! Poi quando sarà pronto anche sulla bicicletta. Voglio insegnargli il calcio, il football, il baseball e perché no, anche il tiro con l’arco. Poi, quando sarà il momento, come conquistare ed amare una donna.” disse tutto d’un fiato, mentre, ad ogni parola, il suo entusiasmo cresceva. Regina quasi rise, quasi pianse. Neppure lei riuscì a dare un nome all’emozione che provava in quel momento. Forse aveva voglia di fare entrambe le cose, forse non voleva fare nessuna delle due. Diede la colpa agli ormoni all’inizio: ormai era abituata. Ma no, non si trattava di ormoni: era l’amore puro per quell’uomo che provava, per il futuro che avrebbero progettato insieme e che non vedeva l’ora di vivere.
“E chi ti dice che sarà un maschio?” disse, sbattendo gli occhi più volte per mandare via le lacrime. “Se fosse una bambina?”
Robin, in quel momento, alzò lo sguardo verso di lei, affondò i suoi occhi in quelli nocciola di Regina e fu come se qualcosa, dentro di lui, gli stesse dicendo che lei sapeva. Lei sapeva qualcosa in più di lui, che non sapeva neppure spiegarsi e che non gli avrebbe detto, perché ne era troppo certa o forse troppo poco. 
Avrebbero avuto una bambina. 
“Allora la proteggerò, sempre, da tutto il mondo.”
 

lasciate una recensione per farmi sapere che cosa ne pensate, se vi va :)

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Buona sera, popolo di EFP! 
Come al solito sono in ritardissimo con il nuovo capitolo ma, come saprete, settembre è ormai inoltrato e gli impegni si avvicinano. Spero comunque di riuscire ad aggiornare questa storia con la stessa costanza. Ma basta con i convenevoli! Vi lascio al nuovo capitolo che spero vi piacerà :)
Buona lettura!
 

La breve vacanza era stata proprio come un sogno per Renee. Aveva visto tutti i suoi personaggi preferiti dei fumetti e delle fiabe prendere vita, come per magia. Sua nonna le aveva scattato moltissime foto e il papà le aveva promesso che le avrebbe stampate, una volta a casa. Renee ne era felicissima: non vedeva l’ora di poterle incollare tra le pagine del suo diario tutto speciale, convinta, così, di poterle mostrare alla sua mamma.
“Arrivati.” annunciò Robin con un sorriso, mentre si liberava della cintura di sicurezza. Era tardi, ma non abbastanza da permettere a sua figlia di perdersi un altro giorno di scuola: si erano fermati lungo la strada per cenare, poi avevano riportato Angela a casa ed ora erano appena le otto e un quarto. Giusto in tempo per un bel bagno e poi di corsa a letto. Domani sarebbe stata un’importante giornata.
“Papà?”
“Sì, tesoro mio?”
“Perché devo andare a scuola domani e tu no? Non è giusto!” si lamentò proprio come una bimba piccola, il che era insolito per la maturità che aveva da sempre dimostrato. Robin non poté far a meno di riderne, mentre le scompigliava quei morbidi boccoli scuri:
“Ho preso un altro giorno libero soltanto per occuparmi della casa, principessa. E poi pensa al povero Wilson: sarà sconvolto se passerà un altro giorno in casa da solo.” fece una faccia buffa e riuscì a far sorridere sua figlia.
“Va bene. Ma solo se mi firmi la giustificazione per i compiti.” Robin sorrise a sua volta ed annuì: “Affare fatto.”
Renee rientrò di corsa a casa, ansiosa di vedere il suo cagnolino. Le era mancato da morire e lui sembrava aver provato lo stesso: le saltò in braccio, leccandole tutta la faccia, mentre lei rideva divertita.
“Mentre disfo le valigie tu prepara la vasca, tesoro. Arrivo tra un minuto.” disse Robin, trascinando la sua grande valigia blu e quella più piccola e rosa di Renee.
Vide sua figlia bloccarsi al centro della stanza, incerta, mentre si fissava i piedi e si mordeva nervosamente il labbro. Tutta sua madre, senza ombra di dubbio.
“Lo sai, papà,” sussurrò, timida, mentre le sue guance si coloravano a poco a poco di una sfumatura sempre più intensa di rosso “Ora ho otto anni. Non—Non c’è più bisogno che mi aiuti a fare il bagno. So farlo da sola, sai…” 
Grazie al cielo Renee stava fissando il pavimento, perché Robin avrebbe dato qualsiasi cosa pur di non mostrarle il suo viso chiaramente imbarazzato e colto di sorpresa. Arrossì a sua volta, sentendo la fronte che cominciava a sudare: “O-oh…” balbettò.
“Ti sei offeso?” chiese la piccola, dopo un lungo istante di silenzio. 
“No, tesoro, certo che no.” lui sorrise, grato a sua figlia per avergli offerto una via di fuga. “E’ solo che… è una cosa nuova per me, tutto qui. Ma non devi preoccuparti: imparerò.” Come ho sempre fatto: da solo, stava per aggiungere, ma, fortunatamente, si morse la lingua in tempo. Forse non era il caso di rattristare di nuovo l’atmosfera.
“Coraggio, va pure a farti il bagno, tesoro. E cerca di non allagare tutta la casa.” risero insieme.

Finalmente, dopo tre giorni, Robin rimase solo con sé stesso, in quella camera da letto che non divideva più con l’amore della sua vita da ormai otto anni. Tuttavia, quando si sdraiava in quel letto che ancora, inspiegabilmente, era intriso del suo profumo, poteva quasi sentirla vicino a sé. Era così che capitava: chiudeva gli occhi, sospirava, abbracciava forte il suo cuscino e poi li riapriva, puntualmente colmi di lacrime.
“Ciao, amore mio.” sussurrò nel buio. “Dividere la camera con Renee, a Disneyland, mi ha proibito di parlarti. Non voglio che mi senta parlare con te, o meglio… da solo.” 
Sì. Robin Locksley aveva parlato con sua moglie ogni notte, per otto anni, da quando l’aveva persa. Non c’era stato un giorno in cui si fosse addormentato prima di raccontarle ogni dettaglio della sua giornata e, ovviamente, di quella della loro bambina. Così, per qualche secondo, poteva far finta di essere felice, di avere la sua perfetta famiglia che aveva sempre desiderato proprio lì accanto a lui. Così, per qualche secondo, poteva fingere di avere il suo bellissimo angelo ancora lì e che tutto fosse meraviglioso.
“Devo raccontarti tantissime cose.” sorrise, asciugandosi una lacrima con il dorso della mano. “Il tuo Piccolo Miracolo mi ha fatto impazzire su quelle dannate giostre. Non ne ha evitata neppure una. E’ pazza, sai? Credo che abbia preso tutto da sua madre.” ridacchiò, mentre si lasciava andare a dettagli divertenti di quelle meravigliose giornate. “Abbiamo fatto la foto con La Sirenetta, Cenerentola, Anna ed Elsa e la matrigna di Biancaneve. Ti sarebbe piaciuta, sai? Renee dice di preferirla a Biancaneve, non ho mai realmente capito il perché.” si strinse ancora di più nel cuscino. “Ovviamente non mancano anche le foto con Topolino e Minnie, mentre mia madre ne ha fatta una con Crudelia De Mon. Già, puoi immaginare la sua faccia.” rise, ed era vero: quella foto di Angela e i momenti in cui l’aveva scattata sarebbero rimasti per sempre impressi nella sua memoria come alcuni dei più divertenti della sua vita. “Ci siamo divertiti tanto, sai, amore mio? Ti sarebbe piaciuta Disneyland. Ricordi? Ci volevi andare così tanto, avevi…” un singhiozzo lo costrinse a fermarsi, mentre le lacrime, che il cuscino aveva ormai iniziato ad inghiottire, non sembravano accennare a fermarsi. “Avevi detto che avresti portato il nostro Piccolo Miracolo su ogni giostra e in ogni castello, per poi comprarle il costume da Elsa e farglielo indossare ad Halloween.” sorrise mestamente “Gliel’ho comprato. Non dirglielo, amore, è un segreto tra noi due. Glielo darò quel giorno: voglio farle una sorpresa.” chiuse gli occhi per qualche secondo e riuscì quasi a vedere il viso di Regina, bello come se lo ricordava, mentre piegava le labbra in quello che era il suo solito, meraviglioso sorriso.
“Mi manchi.” sussurrò con la voce rotta dal pianto, mentre si faceva forza e riapriva gli occhi. “Mi sei mancata in ogni momento di ognuno di questi giorni. Sei sempre nei miei pensieri e anche in quelli di Renee, amore mio. Domani ho preso un giorno libero per venire a trovarti, portarti dei fiori… Renee non lo sa, ovviamente. Le ho detto che rimarrò a casa per sistemarla, il che è in parte vero, non rimproverarmi! So che sarai già pronta a scendere da quella nuvola per prendermi a calci perché ho mentito a nostra figlia.” sorrise, poi si fece subito serio: “Non voglio mentirle, amore, ma non voglio neanche rattristarla continuamente. Voglio che sia felice, lo desidero con tutto il cuore, voglio che sia spensierata come tutti i compagni della sua età. Ha solo otto anni, ma è spaventosamente matura; e diventa ogni giorno più bella, più simile a te.” tirò su col naso e si accorse di aver smesso di piangere: il pensiero di sua figlia lo rendeva sereno. “Ho paura, amore mio, non te lo nascondo. Ho paura di non essere abbastanza, di non crescerla nel modo giusto, di non essere un buon padre: pensa che oggi ha dovuto dirmi che era abbastanza grande da farsi il bagno da sola. Come potevo saperlo, secondo te? Come dovrei sapere quanto in fretta la mia bambina stia crescendo? Come faccio ad accorgermene? C’è forse un cronometro che segna il passaggio da un livello all’altro? Amore mio, sono spaventato. Ha bisogno di te, ha bisogno di te costantemente.” era serio, e le rughe formatiglisi sulla fronte non lasciavano spazio a dubbi: era preoccupato. Proprio come se sua moglie fosse lì, davanti a lui ad ascoltarlo, lui le stava aprendo il suo cuore, quasi si aspettasse una risposta. “Che cosa farò quando… avrà il suo primo ciclo, quando avrà la sua prima cotta e… quando bacerà per la prima volta un ragazzo…” arrossì improvvisamente, come se avesse detto una parolaccia: “No. Ho detto una sciocchezza, hai ragione: mia figlia non avrà un ragazzo, e cosa molto più importante: non lo bacerà.” 
Non essere ridicolo, Locksley, sì che lo farà! Farà strage di cuori, come la mamma. Quasi gli sembrava di sentire la voce di Regina, chiara e forte come se la ricordava. “Si, come no, tra cinquant’anni, come minimo!” corrugò la fronte, poi rise.
“La proteggerò sempre da tutto. Questo lo sai, vero? Te l’ho promesso.” disse poi, tornando serio. “E non importa quanto in fretta lei stia crescendo, rimarrà per sempre la mia piccola. Il nostro Piccolo Miracolo.” sorrise e si strinse forte al cuscino, seppellendo le narici tra le sue pieghe. Per un momento, un terribile momento, sentì il suo profumo invaderlo completamente e, chiudendo gli occhi, gli parve di essere tornato indietro di otto anni, quando seppelliva il viso nell’incavo della spalla di Regina e respirava dalla sua pelle. 
“Buonanotte, amore mio. Ti amo.” sussurrò, con gli occhi ancora chiusi, “Ci vediamo domani.” e, per un attimo, gli sembrò vero.
 

Ho amato particolarmente questo capitolo e il piccolo "dialogo" tra Robin e Regina. Non ve lo nascondo, ho anche versato qualche lacrima.
Spero sia piaciuto a voi almeno quanto è piaciuto a me scriverlo.
Ringrazio tutti per le recensioni al precedente capitolo e chiunque abbia inserito la mia storia tra i "preferiti"; grazie, grazie di cuore!
Fatemi pure sapere che ne pensate di questo capitolo, se vi va; anche le critiche sono ben accette.
Un bacio, alla prossima.

P.S.: ho deciso di creare un account su twitter apposta per il popolo di EFP :) Se vi fa piacere rimanere aggiornati con un tweet ad ogni nuovo capitolo vi lascio il mio username: @EllaWritesStuff

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Beh, scusate l'orario! Sono le due del mattino ma su twitter vi avevo promesso un nuovo capitolo entro stasera e beh... eccolo qui. Avrei postato prima ma ho avuto dei problemi con la connessione... figuratevi se me ne poteva andare bene una! 
Ma basta chiacchiere, vi lascio alla vostra lettura, anticipandovi che sarà leggermente più lunga della precedente.
Spero vi piaccia! 
Buona lettura :)
 

Quando Robin tornò dal cimitero, quella mattina, erano già le undici. 
Considerando che ci era andato subito dopo aver accompagnato Renee a scuola, intorno alle otto, aveva impiegato più tempo del previsto. Non era colpa sua, sapeva che non era colpa sua se doveva, ogni volta, chiudere gli occhi e riaprirli, ricacciare indietro quella sensazione di nausea più di una volta alla vista di quella tomba.
La sua tomba. 
Erano passati otto anni, ma lui ancora non riusciva a crederci: l’amore della sua vita, la donna per cui avrebbe fatto qualunque cosa, era stesa lì, sotto un metro di terra. Non sarebbe mai più tornata e, ormai, Robin faceva i conti con questo ogni singolo giorno.
Una volta riuscita finalmente a guardarla, comunque, tutto gli veniva abbastanza automatico, come un rituale che, ormai non così troppo spesso, era solito ripetere: toglieva i fiori che ormai si erano rinsecchiti sostituendoli con altri più freschi e sempre colorati, colmava il loro vaso del giusto livello d’acqua e si assicurava che neppure una foglia fosse fuori posto. Il tutto cercando quanto più possibile di evitare di guardare quella fotografia.
La sua fotografia.
Erano anni che si rifiutava di guardarla. Lo aveva fatto solo una volta, al funerale, e la sensazione che aveva provato nel guardare quegli occhi perfettamente castani che contrastavano con il pallore della lapide, lo torturava ancora ogni notte.
Poi, Robin aveva stampato un bacio sulla sua mano, aveva accarezzato la fredda pietra che custodiva quel corpo che una volta aveva tanto stretto tra le sue braccia ed aveva abbassato lo sguardo per evitare di leggere quel nome.
Il suo nome.

 

Regina Mills, adorata moglie e madre.

 

Dopodiché, Robin Locksley se ne era andato, senza dire una parola. 
Mentre ripercorreva la stradina di ciottoli ambrati del cimitero, Robin si era guardato intorno. Aveva notato il modo in cui alcune tombe fossero completamente abbandonate, senza neppure un fiore. Ne aveva notate altre dove i fiori sembravano addirittura abbondare. Poi, si era soffermato a guardarne una in particolare, accanto alla quale sedeva una donna, in ginocchio, intenta a fare esattamente ciò che lui aveva appena finito di fare.
Notò come la donna fosse molto più serena di lui, e di come, al contrario di quanto lui facesse, lanciava lunghi e amorevoli sguardi alla foto che sembrava donare un po’ più di colore alla lapide. E notò anche il modo in cui le sue labbra si piegassero in morbidi e amorevoli sorrisi, tra una parola e l’altra.
Chiunque fosse quell’uomo, lei ci stava parlando. Proprio come faceva lui con la sua Regina.
Non era la prima volta che vedeva qualcuno parlare ad una lapide; lui, ad esempio, non l’aveva mai fatto: sapeva che, anche se tutto ciò che restava dell’amore della sua vita era racchiuso sotto quel pezzo di marmo, la sua anima era altrove, era con lui, con la loro bellissima bambina, nel loro letto, a casa loro.
Lo aveva sempre saputo.
“Era un suo amico?” la voce della donna, improvvisamente rivolta a lui, sembrò come risvegliarlo da un lungo sonno. Merda.
“Come?” batté le palpebre più di una volta “No, mi—Mi dispiace, ero immerso nei miei pensieri e…” estrasse una mano dal cappotto nero e se la portò tra i capelli, grattandosi la testa con fare goffo. “Mi scusi, non volevo ficcare il naso, mi creda. Stavo pensando a—“
“Non deve preoccuparsi.” la donna gli offrì un sorriso gentile. “In molti mi credono pazza.”
“Non lo è.” si affrettò a dire Robin. “Anche io,” prese una pausa, un profondo respiro “parlo con mia moglie. Solo non qui, non al cimitero. Ma questo mi rende meno pazzo di lei?” ridacchiò.
“Suppongo di no.” rise anche lei e Robin si accorse solo allora del fatto che si era alzata da terra e che lo stava guardando da vicino. “Mi dispiace molto per sua moglie.” disse poi, seria.
Robin annuì, abbassando lo sguardo. Solo allora si permise di dare un rapido sguardo alla tomba che la donna stava poco prima accudendo. “Anche a me per suo marito.” disse poi, indicando la lapide.
Lei sembrò sorridere, un sorriso di quelli amari: “Sono passati quattro anni da… da quando l’ho perso e ancora non riesco a farmene una ragione.”
Per Robin, per un attimo, fu come guardarsi allo specchio: “Per me ne sono passati otto. Mi creda, so come ci si sente.” 
La donna lo guardò fisso. Robin notò che aveva due bellissimi occhi verdi che, in quel momento, forse, contenevano più lacrime dei suoi. 
“Mi chiamo Jane, comunque.”
“Robin.”
E poi, dopo alcuni minuti in cui nessuno dei due aveva osato dire una parola, si erano salutati e divisi, andando ognuno per la sua strada. Robin non aveva capito che cosa di quell’incontro l’avesse portato a ripensarvici anche una volta tornato a casa. Poi, guardando il letto ancora sfatto, aveva capito: incontrare quella donna, parlare con qualcuno che avesse subito il suo stesso dolore, sentirsi come se stesse guardando sé stesso dall’esterno… faceva bene. Lo faceva sentire meno solo in un mondo decisamente troppo crudele.
Mentre rifaceva il letto, sistemava i cuscini e piegava le lenzuola, si sentì di sorridere. Prese una delle foto di Regina che teneva sul suo comodino, fermamente compressa in una cornice d’argento. Si sedette all’angolo del letto e strinse con tutte le sue forze a sé quell’oggetto così semplice ma carico di significato.
“Scusami, amore mio. Scusami se, ogni volta che vengo a trovarti, io… Non ti guardo.” strinse forte le palpebre e gli sembrò di vedere il dolce viso di sua moglie sorridergli e sussurrargli che tutto andava bene, che non importava. “Dio, ti amo così tanto…”
E, dopo aver accolto calorosamente, seppur a malincuore, quelle lacrime compagne di vita da ormai otto anni, Robin cercò di mantenere la promessa fatta a sua figlia la sera prima: pulì la casa. Cominciando da quella cornice d’argento.

Renee Locksley prendeva l’autobus per tornare a casa. Tutti i giorni a mezzogiorno, puntuale come un orologio. Fino a due anni prima la accompagnava il suo papà, ma lei lo aveva supplicato di lasciarla andare da sola, spiegandogli che ormai era grande e che non aveva di che preoccuparsi, visto che tutti i suoi compagni facevano lo stesso. Robin, con riluttanza, aveva accettato, decidendo che sarebbe stato l’ennesimo passo importante per una bambina che stava crescendo decisamente troppo in fretta. 
Le prime volte, ricordava, l’aveva aspettata sul portico in ansia, e Renee lo sapeva: aveva notato il modo in cui il suo papà camminava avanti e indietro, sedendosi e rialzandosi dal dondolo, giocherellando distrattamente con il cellulare mentre, con discrezione, controllava ogni macchina che attraversasse quella strada.
Dopo una settimana, comunque, ci aveva fatto l’abitudine: in fin dei conti, la sua bambina ritornava sempre puntuale, sana, salva e sorridente.
Quella, però, non era una di quelle mattine: era seduta sulla panchina da circa un quarto d’ora. L’autobus era in ritardo e molti dei suoi compagni, con l’aiuto dell’insegnante, avevano chiamato i propri genitori per chiedere di essere riportati a casa. 
Brianne però, la sua amica del cuore, ed anche l’unica che aveva, non era fra questi: “La mia mamma sta lavorando, non può venire.” aveva spiegato timidamente a Renee, guardandosi le scarpe rosa. 
“Non preoccuparti, non ti lascio da sola, aspetteremo l’autobus insieme.” Renee aveva sorriso ed aveva abbracciato la sua unica amica che, sollevata, aveva ricambiato.
Erano lì da un quarto d’ora e dell’autobus ancora nessuna traccia. 
“Forse dovrei chiamare il mio papà. Ha la giornata libera, sicuramente non sarà un problema per lui riportarti a casa. O forse potresti pranzare da noi! Ti andrebbe, Bree?” 
La piccola sorrise, quei capelli così lisci e biondi, che a Renee ricordavano tanto quelli della sua Barbie, furono mossi dal vento.
“Dev’essere bello avere un padre.” sospirò. Il sorriso era ancora lì, a piegarle le labbra, ma non raggiungeva più i suoi occhi verdi. 
Renee sorrise: “Lo è molto.” e lo pensava davvero. Il suo papà era il suo mondo. “Ma non devi sentirti triste: il tuo papà è in cielo, proprio come la mia mamma. Sono sicura che ora si trovano su una nuvola, seduti proprio come noi. Ci guardano e ridono di come ancora insistiamo per prendere quello stupido autobus!” risero insieme e il mondo tornò a riempirsi di colori. 
“Lo pensi davvero?” chiese Brianne.
“Lo penso. E ci guardano, ci proteggono e ci amano tantissimo.” Renee prese la mano della sua amica: “Forza adesso, torniamo dentro e chiediamo alla signorina Blanchard di fare quella telefonata.” 
Si sorrisero a vicenda e la sua amica annuì. Si precipitarono di nuovo in classe e la signorina Blanchard rispose che ci avrebbe pensato lei. Renee fece l’occhiolino a Brianne e le strinse di nuovo la mano: “Andiamo ad aspettare fuori. Non vedo l’ora di presentarti mio padre, ti piacerà tantissimo!” 
Brianne rise: “Come si chiama?” 
“Robin. Come Robin Hood.” la sua amica rimase stupita a giudicare da quel gigantesco “Wow!” esclamato con occhi sognanti. Renee le regalò un sorriso dolce:
“E la tua mamma, invece?”
“Jane.” 
 

Ancora una volta vi chiedo di fidarvi di me e della storia che sta venendo fuori. Ricordate che nulla succede mai per caso! 
Spero vi sia piaciuto e, come sempre, qualsiasi commento o recensione è sempre ben accetto!

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Salve di nuovo! Eccoci qui con un nuovo capitolo, finalmente. 
Scusate la lunga attesa e mi dispiace dovervi informare del fatto che ce ne saranno altre, di lunghe attese: l'università occuperà la maggior parte del mio tempo, ma questo non significa che io non posterò più. Probabilmente, per farmi perdonare, proverò a scrivere dei capitoli più lunghi :)
Intanto, spero che questo vi piaccia. Buona lettura!

 

Merda. Merda, merda, merda. Come aveva potuto essere così stupido? Era così indaffarato a fare la perfetta casalinga di Atlanta che non si era ricordato di guardare l’orologio. Sua figlia era in ritardo. In ritardo, e non capitava mai. 
Per fortuna la scuola lo aveva chiamato, sarebbe potuta succedere qualsiasi cosa. 
Sudava, sudava freddo mentre correva in macchina e sfrecciava sulla statale. Come aveva potuto? Era un idiota, un perfetto idiota. Imprecò più volte quando finì imbottigliato nel traffico intenso di quasi l’una del pomeriggio. 
Era un pessimo padre. Pessimo. 
Dio, se Regina fosse stata lì lo avrebbe preso a schiaffi ed avrebbe avuto tutte le buone ragioni del mondo per farlo.
Suonò il clacson più e più volte prima di arrivare finalmente a destinazione, parcheggiando con una sgommata piuttosto intensa proprio davanti al cancello della scuola. 
“Renee” gridò, precipitandosi fuori dalla macchina. Sua figlia gli corse incontro, lasciando per un attimo la mano della sua amica Brianne. “Oh mio Dio, piccola, mi dispiace tanto.” la strinse forte a sé, lasciando andare, con un sospiro, tutta l’ansia e la paura che lo avevano guidato fino a lì. “Papà, è tutto ok, davvero…”
“No che non lo è, non mi ero reso conto che fosse così tardi, sarei dovuto venire prima, mi dispiace tantissimo.” la piccola quasi soffocava tra le braccia forti del padre ma riuscì comunque a sorridere e ad accarezzargli la schiena dolcemente.
“Va tutto bene, papà, sta tranquillo. Io e la mia amica Brianne stiamo bene.” per Robin fu come un pugno allo stomaco: la dolcezza infinita della sua bambina, il modo in cui lei sembrava doverlo sempre consolare, a soli otto anni.
“Ti voglio tanto bene, piccola. Lo sai che morirei se ti accadesse qualcosa.” finalmente, mollò la presa e la guardò negli occhi, accarezzandole il viso, i capelli, la fronte, come se volesse scolpire quel volto così perfetto che aveva avuto paura di non rivedere mai più.
“Non succederà papà. Non permetterò che tu rimanga solo un’altra volta.” e, per un istante, il mondo gli crollò addosso. Cosa avrebbe dovuto rispondere ad una bambina di soli otto anni che si metteva in bocca delle parole così importanti, così piene di significato e così maledettamente vere? Fortunatamente per lui, non l’avrebbe mai dovuto scoprire: “Papà, ti presento la mia amica Brianne.” Renee sorrise, e Robin fu grato al cielo per l’ennesima via di fuga che gli era stata offerta.
Solo allora gli occhi azzurri di Robin incontrarono quelli verdi e stranamente familiari della bambina che, imbarazzata, sedeva ancora sulla panchina, cercando di guardare qualsiasi cosa fuorché lui.
Le labbra di Robin si piegarono in un tenero sorriso: “Ciao Brianne! Io sono Robin.” 
La piccola cercò di sorridere ma continuò a guardare in basso: “E’ un piacere signor Locksley.” 
“Ehi, ehi, ehi! Ok, signorina, ascoltami bene: solo i miei alunni mi chiamano signor Locksley e, a giudicare dalla tua età, direi che non sarai una di loro ancora per molto, molto tempo.” tentò di farla ridere e sembrò funzionare: alzò lo sguardo e rivelò nuovamente i suoi occhi scintillanti:
“Lei è un insegnante?” disse, sconcertata.
“Preside, a dir la verità.” Robin le offrì un sorriso.
“Wow! Renee, tuo padre è davvero forte!”
“Te l’avevo detto!” e tutti e tre si lasciarono andare ad una risata. 
“Coraggio ragazze, saltate in macchina. Prossima fermata: casa di Brianne!” 
Robin si assicurò che entrambe si sistemassero sui sedili posteriori, con le rispettive cinture allacciate, poi salì in macchina e alzò di poco il volume della radio. 
“Papà, Brianne può venire a pranzo da noi?” chiese Renee, esitante.
“Tesoro, mi piacerebbe moltissimo ma non pensi che sua madre sia già preoccupata?”
“Possiamo chiamarla! Lei è a lavoro adesso. Ad aspettarmi a casa c’è la mia tata e non penso le dispiacerà andarsene prima.” le bambine risero insieme. 
“E va bene, visto che avete deciso di coalizzarvi contro di me, non mi resta che unirmi a voi.” scherzò Robin. “Renee, ti dispiacerebbe prendere il cellulare dalla mia borsa e farti aiutare da Brianne a comporre il numero di sua madre?”
“Certo papà.” Renee fece come le era stato chiesto e, come abitudine, mise il telefono in viva voce avvicinandolo al viso del suo papà, per quanto la cintura glielo permettesse, in modo da non dargli problemi alla guida. Un paio di squilli, poi una voce stranamente familiare, alla quale Robin però non fece caso: 
“Pronto?”
“Salve, parlo con la mamma di Brianne?” Robin cercò di imitare una voce buffa che fece ridere le due bambine. 
“Sì, è successo qualcosa?” il tono preoccupato della donna sembrò tuttavia smorzare i toni:
“Assolutamente no, signora, non deve preoccuparsi. Sono il padre di Renee Locksley, la compagna di classe di sua figlia. Sa, il pullman oggi non è passato, sembra ci sia stato un qualche sciopero,” e, per un attimo, Robin ricordò quei terribili momenti di panico. “Comunque, sono passato a prendere le ragazze e… sembra si siano decise a pranzare insieme. Volevo soltanto chiederle il permesso, Brianne mi ha detto della tata…”
La donna sembrò pensarci un attimo, poi ridacchiò: “E va bene, passo a prenderla alle tre. Certo, se per lei va bene.”
Robin sorrise: “Perfetto.”
“Molto bene. Grazie infinite, signor Locksley.” si salutarono e Renee riagganciò.
Sì, Renee Locksley aveva finalmente invitato un’amica a casa sua. E, fra lei e il padre, proprio non si poteva dire chi dei due ne fosse più contento.

Finirono di pranzare tardi. Robin aveva preparato il piatto preferito di Renee e la piccola Brianne, che non era solita mangiare pasta quanto la famiglia Locksley, aveva gradito molto e aveva finito per sporcarsi la camicetta rosa. 
“Non preoccuparti, te ne presterò una delle mie.” aveva detto Renee, e l’aveva fatto. Era una delle sue preferite, verde mela, ma a lei non dispiaceva affatto separarsene. 
Era una sensazione tutta nuova per lei: avere finalmente un’amichetta nella sua camera, prestarle le sue cose, condividere momenti assieme. E Brianne non era un’amichetta qualsiasi, ma una bambina che aveva un sacco di cose in comune con lei e che poteva capirla. Sì, decisamente qualcosa di nuovo, qualcosa da tenere stretto.
Mentre suo padre era intento a lavare i piatti e Renee mostrava a Brianne tutte le sue bambole, suonarono alla porta. Poteva immaginarlo: era la madre di Brianne. A Renee sarebbe piaciuto se fosse rimasta più a lungo, ma avevano entrambe dei compiti da fare per il giorno dopo.
Fu Robin ad andare ad aprire, lasciando che la signora dall’altra parte venisse accolta da uno stupore più che ricambiato:
“Oh mio Dio… Jane?”
“Robin?” La donna, sconcertata almeno quanto lui, si ritrovò ad arrossire. A Robin ricordò sua figlia, Brianne, e non potè far a meno di sorridere:
“Beh, questo sembra…”
“Imbarazzante?” lo anticipò, mentre lui si spostava per lasciarla entrare in casa.
“Stavo per dire… uno strano scherzo del destino.” rise, posando lo strofinaccio che aveva stretto forte durante lo stupore precedente. La donna non rispose, ma si guardò intorno e fece un apprezzamento sulla casa. “Le ragazze sono di sopra, in camera di Renee.” spiegò Robin. Poi, si fece serio: “Io… Non avevo idea che Brianne… avesse perso il suo papà. Mi dispiace tanto.”
“E io non sapevo di Renee. Dev’essere stata dura.” Jane abbassò lo sguardo. “In un certo senso, almeno Brianne ha avuto l’occasione di conoscere suo padre e di ricordarsene.”
Robin annuì, concentrando lo sguardo sul parquet: “Già.”
“Mamma!” sentirono la voce di Brianne e i passi delle due piccole pesti scendere furiosamente le scale. In poco più di due secondi, le braccia della piccola si strinsero forte attorno alla vita della donna: “Renee mi ha prestato la sua maglietta perché io ho macchiato la mia, ti prego non arrabbiarti. La pasta che ha fatto il signor Locksley era davvero buona.” Robin voleva aggiungere qualcosa di simpatico al commento della bambina, ma il suo sguardo si perse su sua figlia: era rimasta ferma, sulle scale, a guardare con gli occhi sognanti la sua nuova migliore amica che stringeva forte tra le braccia una figura che lei non aveva mai avuto modo di conoscere. Quasi gli venne da piangere, e non fu facile per lui trattenersi dal correre ad abbracciarla forte.
“Davvero?” rise Jane. “Renee, grazie mille per il prestito. Te la restituiremo lavata e profumata.” Robin osservò il modo in cui il labbro della sua piccola si fece tremolante mentre mormorava un tenero “Non si preoccupi signora, gliel’ho regalata.” ed arrossiva.
Dio, la amava. Amava sua figlia da morire. 
Jane le regalò un sorriso: “Sei stata molto gentile, tesoro. Grazie.” 
Renee lo ricambiò, ma era timido e distaccato: “Si figuri.” poi ci pensò un attimo, “Brianne può tornare a casa mia qualche volta?” 
Jane guardò Robin, incerta sul come rispondere, e lo trovò a sorridere. Annuì: “Certamente. E sai, a dir la verità ci farebbe molto piacere se venissi anche tu da noi qualche volta. Magari per una merenda, che ne dici?” Finalmente il sorriso di Renee si ampliò e il labbro superiore scoprì i denti:
“Mi piacerebbe moltissimo, signora Compton.”
“Chiamami Jane, va bene?” le si avvicinò e le porse la mano, proprio come aveva fatto Robin con sua figlia poche ore prima. 
Renee la strinse dolcemente. 

Dopo quella giornata estenuante, che si era rivelata stranamente piacevole, Robin rimboccò le coperte di Renee, rimase un po’ di tempo con lei, poi le baciò la fronte e le augurò la buonanotte. 
La piccola aspettò un minuto buono dopo che il padre avesse chiuso la porta, poi riaprì gli occhi e si affrettò ad aprire il cassetto del suo comodino per prendere il suo diario.
Come era d’abitudine, accarezzò la fotografia della sua mamma e vi si perse per qualche istante prima di girare le pagine già scritte ed impugnare la penna:

Cara mamma,
ciao! Sono tornata dal piccolo viaggio che abbiamo fatto per il mio compleanno e papà ha promesso di stampare tutte le fotografie che ho fatto con i personaggi delle favole. Ti piaceranno, vedrai!

Si ritrovò a sorridere:

Sai, mammina, oggi sono successe tantissime cose. Ora, anche io ho un’amica del cuore. Le mie compagne ne parlavano tanto e sono contenta di aver scoperto finalmente di cosa si tratta. E’ una sensazione bellissima: Brianne è tutto ciò che si può desiderare in un’amica. E’ simpatica, mi fa ridere tanto, e non rifiuta mai di giocare con me. Oggi è venuta a casa nostra, papà ha cucinato le linguine alle vongole e a lei sono piaciute tanto.
Lo sai, mamma, io e Brianne abbiamo moltissimo in comune. Anche lei ha perso un genitore (il suo papà) e oggi era molto imbarazzata quando ha incontrato il mio. Papà è stato davvero meraviglioso, l’ha fatta sentire subito a suo agio.
Sai, più tardi è venuta la mamma di Brianne a prenderla. Per un istante sono stata davvero molto invidiosa, mamma.

Ed arrossiva, arrossiva come non mai davanti a un foglio di carta riempito a metà di parole così cariche di significato, come se stesse confidando il suo più grande segreto a qualcuno che fosse effettivamente lì per ascoltarla.

Lei l’ha chiamata “piccola mia”, l’ha stretta forte tra le sue braccia e l’ha baciata sulla guancia. Sono cose che desidero fare anche io ogni giorno della mia vita, mammina. Sono sicura, però, che anche Brianne è triste quando abbraccio il mio papà… vorrei tanto che la morte non esistesse. Non è giusto che una bambina debba perdere uno dei suoi genitori. Chi ne ha due deve essere davvero molto fortunato, e Brianne per un po’ lo è stata: mi ha raccontato che il suo papà è volata in cielo quando lei aveva compiuto da poco quattro anni. L’ha conosciuto, capisci? Deve essere ancora più doloroso così… o forse no. Almeno lei può ricordarsi che cosa si provava a ricevere un suo abbraccio o di cosa profumava...

In quel momento, proprio mentre desiderava intensamente ciò che la sua amica aveva avuto la fortuna di avere quando probabilmente era troppo piccola per rendersene conto, un profumo di fragole e fiori di pesco che Renee non aveva mai sentito prima, invase la stanza completamente. 
Si ritrovò a sorriderne inconsciamente.

 
Probabilmente la maggior parte di voi si starà chiedendo dove voglio andare a parare... lo scoprirete tra poco. Pochissimo, direi.
Grazie per aver letto! Un bacio e alla prossima :)

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