All that Heaven will allow.

di thebrightstarofthewest
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Dance with Me ***
Capitolo 2: *** Have a little faith in me ***
Capitolo 3: *** A Sky Full of Stars ***
Capitolo 4: *** Break Your Heart ***
Capitolo 5: *** Heartbreak Warfare ***



Capitolo 1
*** Prologo - Dance with Me ***


Prologo - Dance with Me
 
"Dance with me to this song
Dance now darling let your hair run down
Dance with me all night long"

 

Casa Springsteen, New Jersey, 2015, ore 9:32
“Hai capito?”, domandò per l’ennesima volta la voce roca e gracchiante dall’altra parte della cornetta. Per l’ennesima volta, Patti sospirò.
“Sì che ho capito, Bruce”, rispose, leggermente scocciata, “Me lo hai solo ripetuto tre volte nel giro degli ultimi due minuti”. Seguì qualche istante di silenzio. Nella sua mente, Patti poteva immaginare il volto del marito come se lo avesse davanti agli occhi: serio, con le sopracciglia corrugate e le labbra carnose serrate, in un’espressione di apparente calma che, in realtà, aveva molto di più l’aspetto di un non troppo virile “broncio”.
“Senti”, proseguì lei, rompendo il silenzio, “Salgo in soffitta, ti prendo queste foto e la facciamo finita, okay?”. Dall’altro capo della comunicazione, lui grugnì quello che si intuiva essere un assenso. Patti alzò gli occhi al cielo, ma ne aveva davvero abbastanza di discutere, per cui si limitò a grugnire qualcosa a sua volta e chiudere la conversazione. Sbuffò. Certe volte era davvero difficile essere sposata con Bruce Springsteen.
Era un uomo tanto dolce e comprensivo quanto cocciuto e intrattabile, quando lo desiderava, ed anche quel giorno aveva pensato bene di darne prova: quella mattina, molto presto –almeno molto presto per i suoi standard di cantante-, era dovuto uscire, diretto a New York, per lavorare sul nuovo cofanetto che sarebbe uscito a dicembre. Soltanto, si era scordato di un “piccolo dettaglio”: non aveva portato con sé delle fotografie da inserire nel box set. Ed adesso toccava a lei cercarle, ed in fretta: Bruce stava sfrecciando in autostrada verso casa ed intendeva prendere le foto al volo per ripartire immediatamente alla volta di New York. Di per sé, a lei non sarebbe affatto scocciato aiutare suo marito, non fosse stato che non aveva la minima idea di dove si trovassero queste foto e, inoltre, aveva pianificato di andare a trovare sua madre in mattinata.
Ovviamente, qualsiasi impegno avesse preso, adesso era stato sostituito da quell'incombenza. E questo l’aveva fatta sbottare: gli aveva detto per telefono, forse con fin troppa durezza, che se ancora a sessantacinque anni era così distratto, non poteva aspettarsi che gli altri fossero perennemente a sua disposizione.
Lui si era limitato a ripeterle quel che doveva fare, come se non l’avesse udita. Lei sapeva però di aver toccato un tasto dolente: Bruce non aveva mai accettato del tutto le proprie debolezze. E se c’era una paura che non lo abbandonava mai era quella di prendere molto dagli altri ed essere incapace di restituire altrettanto.
Patti si passò una mano tra i lunghi capelli rossi, scuotendo appena il capo. Ne avrebbero parlato il prima possibile, adesso doveva pensare alle maledettissime foto. Socchiuse gli occhi e si morse il labbro inferiore, tentando di ricordare dove si potessero trovare. Niente, proprio non le pareva di averle mai viste in casa.
Ad un tratto, un’idea le balzò nella mente: dove finiva tutto ciò che spariva? Ma ovvio, nella soffitta. Si affrettò ad imboccare le scale, prendendo amaramente coscienza della lunga ricerca l’attendeva.
Al lento e cigolante schiudersi della porta, una densa nuvola di polvere si innalzò. Patti portò istintivamente una mano davanti agli occhi, per proteggersi, poi, tossendo sommessamente, si diede uno sguardo incuriosito intorno: la soffitta era esattamente come l’aveva lasciata, mesi prima. Mesi? No, forse si trattava addirittura di anni.
Nel piccolo locale dal tetto pendente non c’erano finestre, ma una fioca luce trapelava dall’uscio semiaperto, lasciandole intravedere le sagome di scatoloni ed altri ricordi, che sembravano ormai appartenere ad una vita passata: ecco la culla di Evan, là, in fondo, sulla destra. C’era ancora attaccato una sorta di orrendo giocattolo pendente e peloso dalla forma indefinita che il bambino aveva visto in una stazione di servizio sull’autostrada e di cui non si era più voluto liberare. Sorrise, a quello sbiadito ricordo. Più avanti, in un angolo, c’era un cumulo di vestiti sgualciti, molti dei quali appartenevano agli anni Ottanta e Novanta. A piccoli passi si avvicinò, osservandoli: giacche in pelle, pantaloni strettissimi, canottiere di jeans strappate… davvero si vestivano così? Scosse la testa, ironica, prendendo tra le mani una camicia bianca piena di buchi che all’istante le riportò alla memoria un fiume di ricordi.
Sì, aveva bene in mente quell’indumento. D’altronde, Bruce si era ostinato ad indossarlo per anni, nonostante le tarme sembrassero apprezzarlo tanto quanto lui. Una volta avevano addirittura litigato, per colpa di quella stupida camicia. Quando era successo? Poco prima della nascita di Jessica, forse? Quella sera Bruce aveva deciso che voleva metterla per uscire, nonostante l’enorme buco all’altezza della spalla destra, e Patti aveva pensato bene di contraddirlo. Dopo qualche minuto di urla, insulti e minacce, lui l’aveva presa tra le braccia ed avevano semplicemente deciso di rimanere a casa a guardare un film. L’ennesimo abbozzo di un sorriso si dipinse sui lineamenti della donna: avevano sempre litigato, loro due e, nonostante tutto, avevano sempre finito per far pace. Certe volte lo aveva sbattuto fuori di casa, altre se ne era proprio andata, ma alla fine era proprio tra le sue braccia che voleva tornare.
Si riscosse dai propri pensieri e fece mente locale su quel che doveva cercare: le foto, le foto, le foto. Dove potevano essere? Attraversò a passi incerti la stanza buia, cercando invano di scorgere qualcosa di ben definito nella penombra. Mise le mani avanti, per farsi spazio tra alcuni scatoloni impilati in precario equilibrio, ma commise un errore che non aveva calcolato: non tenne conto di tutta la spazzatura ammucchiata sul pavimento.
Prima che potesse rendersene conto, un piccolissimo pattino a rotelle di quando Sam aveva otto anni le finì sotto il piede. Subito, perse l’equilibrio. In un ultimo tentativo di tenersi in piedi si aggrappò ad uno degli scatoloni ammassati che, per tutta risposta, cadde con lei.
In una manciata di istanti si trovò distesa a pancia all’aria, con sulle labbra qualche imprecazione di troppo e sulla pancia, a toglierle il respiro, il grosso contenitore, il cui contenuto era ormai del tutto riverso per la stanza. Maledicendosi per la propria disattenzione, fece per mettersi in piedi, ma si rese immediatamente conto di non potere: la caviglia destra, infatti, rispose al tentativo con una lancinante fitta di dolore. Imprecò nuovamente, riuscendo quantomeno a mettersi seduta.
Perfetto. Si trovava bloccata in soffitta, sola, senza smartphone, con a malapena un raggio di luce a illuminare l’ambiente circostante. Affranta ed arresa a quel destino, si guardò intorno, stringendo gli occhi per penetrare l’ombra, e solo allora si rese conto di cosa la scatola che aveva fatto cadere contenesse: foto. C’erano foto ovunque. Sperando si trattasse di ciò che stava cercando, cominciò a prenderne alcune pile, legate tra loro da un elastico, e se le mise sulle ginocchia. Ne afferrò una tra le dita sottili e la fece illuminare dalla luce che penetrava dalla porta, soltanto per rimanerne delusa: quella vecchia polaroid non aveva nulla a che fare con le foto di cui Bruce aveva bisogno. In quella foto c’era lei. Di spalle, girata verso l’obbiettivo, sorrideva, appena imbarazzata… conosceva quello scatto. Non si trattava di uno qualsiasi. No, quel ritratto lo aveva fatto Bruce. Il suo petto fu come riempito da una strana sensazione, un nodo a cui non riusciva a dare un nome: che fossero i ricordi? Quasi si commosse, in quella polverosa penombra. Si concesse di lasciare che quelle lontane memorie fluissero…


Studio di registrazione, New Jersey, 1983, ore 12:23
C’era una sola cosa che Patti amava più di cantare, ed era suonare il pianoforte: con le mani quasi tremanti, sfiorò delicatamente i tasti bianchi di fronte a sé, che risposero al suo tocco morbido con un suono dolce. Preso coraggio, cominciò a muovere le dita a tempo, ordinatamente, improvvisando un giro di blues. Suonare, d’altro canto, la faceva rilassare… E lì, in quello studio di registrazione, quel giorno aveva senza ombra di dubbio bisogno di rilassarsi.
Aveva già inciso con alcune band, certo. Quello di per sé non rappresentava un problema, anzi: provava un recondito senso di soddisfazione nel leggere il proprio nome sulla copertina di un disco. No, non era quella la questione, ma un’altra: era con Bruce Springsteen e la E Street Band che doveva registrare, quella mattina. Non esattamente gli ultimi arrivati sul mercato musicale.
Era stata una sorpresa, per lei: aveva incontrato quasi tutti i membri del gruppo, almeno una volta –tutti conoscevano un po’ tutti, sulla costa del New Jersey-, ma da quello ad essere personalmente richiesta per cantare sul nuovo album a cui stavano lavorando… come era potuto accadere?
La melodia del piano continuava a riempire l’ambiente, ancora vuoto: si trovava, al momento, nella stanza d’attesa davanti alla sala d’incisione. La band le aveva dato appuntamento lì alle undici ed ora, a mezzogiorno e mezzo, ancora non si era presentato nessuno. Non che la cosa la stupisse più di tanto: si trattava di musicisti, probabilmente erano ancora a dormire con una buona quantità di bava alla bocca. Cacciò via quell'immagine non proprio poetica.
Proprio in quell’istante, udì appena un rumore ovattato: la porta si era aperta, ma con delicatezza. C'era qualcuno con lei, ma non fiatava: che il nuovo arrivato non volesse disturbarla mentre suonava? Nel dubbio, Patti continuò a improvvisare quello scalcinato blues: d’altronde, ancora aveva un bel po’ di tensione da sfogare. Lo sconosciuto, dal canto suo, sembrò approvare quella sua scelta: lo sentì richiudere piano dietro di sé la porta ed avvicinarsi, in punta di piedi. Probabilmente si aspettava di essere stato abbastanza silenzioso da non essere udito.
Patti percepì la sua presenza ed il suo respiro dietro di lei, come se stesse guardando come muoveva le dita, che accordi stava suonando, con quale ritmo.
“Posso unirmi?”, la voce giunse inaspettata alle sue orecchie. E non perché credeva che l’uomo misterioso se ne sarebbe stato zitto per sempre, ma perché quella voce gli era tutt’altro che nuova: calda, profonda come l’oceano che si faceva più blu verso l’orizzonte, forse un po’ roca. No, non c’erano dubbi, quella voce era di…
Non fece in tempo a rispondere, né tanto meno a pensare ad una risposta intelligente da dare che Bruce si sedette alla sua sinistra, trascinando una sedia davanti il piano, e mettendosi a suonare i bassi con una invidiabile capacità d’improvvisazione. Sì, il punto è che quello non era un “Bruce” qualsiasi”: quello che aveva accanto era Bruce Springsteen in persona. Cercò di mantenere la calma, ma non era facile: erano passati anni da quando lo aveva incontrato l'ultima volta e, da allora, non avevano più parlato. Nel frattempo, lui aveva fatto uscire uno degli album folk più belli ed intensi che avesse mai ascoltato… No, non si poteva proprio dire fosse un “Bruce qualsiasi”. Deglutì, nascondendosi quasi inconsciamente dietro alla folta chioma rossa.
Bruce, da parte sua, sembrava molto rilassato. Patti lo guardò di sfuggita, vedendo poco o niente, ma si rese conto di quanto fosse cambiato, in quel tempo in cui non lo aveva più incrociato: aveva le spalle più larghe, si era tagliato le basette ed indossava una semplice maglietta al posto delle camice a righe che gli piacevano tanto una volta. Cominciò, con fare allegro, a canticchiare “Johnny B. Goode” sulle note della loro improvvisazione.
Patti rise, di una risata genuina e cristallina. Solo allora osò guardare verso l’uomo… e, per una sfortunata coincidenza, nel medesimo istante, lui guardò lei: non fu facile reggere lo sguardo di quegli occhi marroni. C'era qualcosa in loro che la attraeva con forza: sembravano già conoscerla nel profondo e, al tempo stesso, racchiudere segreti intimi, impossibili da riportare in superficie. Un mistero moderno in un mondo in cui tutto era dato per scontato. La vita, la musica, le persone. Ma no, due occhi così non potevano essere dati per scontati.
La donna era così presa da quelle iridi scure che le sue dita scivolarono, suonando un accordo dissonante. Merda. Imbarazzata, chiuse le mani a pugno, e blaterò una scusa. L'uomo, però, non parve affatto prendersela. Anzi, non aveva mai smesso di osservarla, assorto.
“Patti Scialfa, giusto? Piacere, Bruce”, mormorò lui, con voce calda, ed allungò la mano verso di lei, sorridente. Patti l’afferrò, inarcando ambedue le sopracciglia, in un’espressione forse un po’ troppo sorpresa. Per tutta risposta, lui si mise a ridere.
“Ho detto qualcosa di strano?”, domandò, piegando appena il capo di lato. La luce del sole di mezzogiorno filtrava tra i suoi riccioli castani.
Per tutta risposta, lei si passò la lingua sulle labbra. Doveva trovare qualcosa di intelligente da replicare, ed in fretta. Non poteva fare una figuraccia con lui... Perlomeno non subito. “No, cioè…”, farfugliò, “Beh, sì, in realtà”. Si stupì immediatamente delle sue parole: era una donna decisa, ma con quell’uomo, finora, si era trasformata tutto ad un tratto in una completa imbranata. Non fare cazzate, Patti, le ricordò una vocina interiore.
Bruce, però, parve al tempo stesso stupito e divertito da quella risposta. “E sarebbe? Cosa avrei detto di tanto strano?”, le chiese, punzecchiandola.
“Tu sei…”, cominciò Patti, interrompendosi per trovare le parole più adatte per spiegarsi, “Diamine, tu sei Bruce Springsteen. E noi ci siamo già incontrati, tra l’altro”, concluse, gesticolando forse un po’ troppo animatamente.
Bruce rise sommessamente. Era un piacere, vederlo sorridere, con quella sua bocca carnosa e dai denti leggermente irregolari, perché sembrava sempre molto sincero, molto vero. Non c'erano ombre di falsità o menzogne. “Lo so”, ribatté lui, scrollando le spalle, “Ma potevi pur sempre esserti scordata di me”.
Ecco, quella era davvero buona. “Scordata di te?”, sbottò Patti, “Come potrei essere così sciocca? Me lo ricordo bene, il nostro primo incontro. Eravamo ad Asbury, io cantavo. E tu eri nel pubblico, che guardavi. Io non lo sapevo, ovviamente, ma quando sono scesa dal palco mi hai presa per il braccio ed abbiamo parlato: di musica, di politica, di vita... Mi sentivo capita. Non sono cose che si scordano. A prescindere dal fatto che tu sia Bruce Springsteen”. Arrossì, rendendosi conto di aver detto sin troppo. “E certamente anche le due volte in cui ho tentato di entrare nella band e mi hai sbattuto la porta in faccia hanno avuto un certo impatto su di me”, soggiunse infine, per dare un tocco di ironia a quella sua sviolinata senza ritegno. Non voleva sembrare ruffiana... O, perlomeno, voleva tentare di non sembrare una fan urlante davanti al suo artista preferito, anche se era piuttosto sicura di star fallendo miseramente.
Stavolta, anche la granitica sicurezza di Bruce parve barcollare. Sembrò riflettere qualche istante, prima di rispondere, aggrottando appena l'ampia fronte. “Ti farà piacere sapere che sono cambiato da allora, dato che sono stato io a volerti qui, oggi”, concluse.
Di tutte le cose inaspettate sino a quell'istante, quella certamente era quella più inattesa. Insomma, non immaginava lui avesse un ricordo di lei così chiaro. “Perché?”, domandò, “Se posso chiedere...”. Cambiò posizione sulla sedia, curiosa.
Lui fece un vago cenno con testa e mani, come per spiegarsi meglio. “La tua voce è... beh, è unica. Avere i tuoi cori in una canzone sarebbe forte. Sono venuto qui prima della band appositamente per dirtelo e metterti a tuo agio”. Si leccò le labbra, poi le lanciò uno sguardo che Patti faticò a decifrare. “E poi ricordo anche io quella chiacchierata. Mi piacque”.
Un piccolo brivido le attraversò la schiena, anche se non sapeva perché. Non sapeva neppure come diamine rispondere a quel faccione angelico, che continuava a sputare complimenti come fossero nulla... Che fosse lui, alla fine, il ruffiano? Allungò la mano verso di lui e gliela strinse appena. “Amici?”, domandò semplicemente.
Bruce le fece l'occhiolino. “Amici”, confermò, ricambiando la stretta, poi proseguì, sfregandosi le mani, “Allora, hai sentito la canzone che devi cantare?”.
Patti fece cenno di no col capo. “Non ho avuto occasione”.
L'uomo si alzò, senza smettere di sfregarsi le mani, con una nuova luce negli occhi: la luce della musica, forse? Si avvicinò ad una borsa appoggiata disordinatamente allo stipite della porta e ne estrasse alcune cassette, che poi inserì in un registratore. Inizialmente un fruscio confuso avvolse la stanza e Patti trattenne il respiro, in attesa; poi il suono di pennate forti, quasi rudi, su una chitarra acustica proruppe, in una melodia al tempo stesso malinconica ed energica. Ed eccola, infine, quella voce. Quella voce che cantava di svegliarsi alla sera ed andare a dormire la mattina, di stanchezza, frustrazione e balli nell'oscurità.
“Questa è la versione acustica”, spiegò, avvicinandosele e sussurrandole in un orecchio, “Quella che dobbiamo suonare oggi sarà elettrica, o qualcosa del genere. Ancora dobbiamo lavorarci... So che non è bello da dire, però non è detto che la registrazione che faremo assieme finirà sul disco... è complicata, ecco. La mia visione musicale, intendo. Non so mai prima cosa voglio, ma soltanto a lavoro finito... Quindi spero tu non te la prenda se... Se non finisci nell'album”.
Era troppo concentrata sulla musica, stregata da quella melodia così orecchiabile, per dare alcun peso a quelle parole. “A me basta essere qui”, rispose, tenendo il tempo con la testa. Ed in fondo era persino vero. Stimava Bruce, stimava il suo lavoro ed essere lì, in quell'istante, era già un premio oltre ogni immaginazione: Bruce aveva chiesto di lei, voleva parlare con lei. E c'era della magia, in quello. Una magia che andava oltre la celebrità di quell'uomo, ma dritta alla sua anima, al tempo stesso oscura come la notte e luminosa come l'aurora. Un'anima che sentiva affine alla sua.
Bruce, allora, con un sogghigno, le porse il braccio. “Una ragazza così bella senza un compagno di danza? Inaccettabile! Mi concede questo ballo, signorina?”, scherzò.
Patti abbassò la testa, per nascondere il rossore. Inutile. Bruce l'aveva notato. “Guarda che non ti mangio. Sono un coglione, ma non un cannibale”. Doveva farsi forza: perché si sentiva così intimorita da lui? Era così gentile... forse sin troppo.
Alzandosi lentamente posò la piccola mano bianca sull'ampia spalla dell'uomo, saggiando per i primi istanti il tessuto appena sudato della sua maglietta e il muscolo contratto che vi era sotto. Subito dopo, lui fece intrecciare le sue dita callose in quelle morbide di lei e, sorridendole complice, coi fianchi cominciò a tenere il tempo. Lei lo seguì, dapprima timorosa, poi sempre più sciolta, sempre più presa... Cosa diavolo le stava succedendo? Non ne aveva idea, anche se le sarebbe davvero piaciuto saperlo. Aveva ragione, prima: c'era una sorta di magia, intorno a Bruce. E, cazzo, le erano bastati venti minuti assieme a lui per cadere sotto il suo incantesimo.

Casa Springsteen, New Jersey, 2015, ore 9:43
Sì, Patti la ricordava bene, quella foto. Bruce gliela aveva scattata subito prima che arrivasse il resto della band. “Sarà un bel ricordo”, le aveva detto lui, “Di questo giorno e del nostro ballo”. Avevano scherzato, ma lo era davvero.
La versione di Dancing in the Dark che aveva registrato quel pomeriggio non era mai finita sull'album, era vero, ma alla fine Bruce era rimasto abbastanza stupito da lei da farla entrare nella band, l'anno dopo. Ed era stato un grande risultato. Chissà se c'erano altre foto simili? Ancora incapace di rialzarsi, Patti prese tra le mani la seconda polaroid della pila e la osservò alla pallida luce della soffitta.


Angolo dell'autrice:
Dopo secoli, rieccomi a scrivere di Bruce. In questa sezione avevo cancellato tutte le mie storie (o almeno, sia Kingdom of Days e l'altra a capitoli), perché non sapevo come continuarle. Adesso, faccio un nuovo tentativo, sperando che qualcuno apprezzi. 
Un abbraccio,
thebrightstarofthewest

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Capitolo 2
*** Have a little faith in me ***


1. Have a little faith in me
 
When the road gets dark
And you can no longer see
Just let my love throw a spark
And have a little faith in me

 


Casa Springsteen, New Jersey, 2015, ore 9:44
La luce flebile del giorno filtrò dalla porta con rinnovato fulgore e si posò sulla fotografia, facendola luccicare. Per qualche istante, Patti non riuscì neppure a distinguere i soggetti rappresentati. Strinse gli occhi, tentando nuovamente, e, piano piano, cominciò a scorgere una figura, dapprima sfuocata, poi più chiara. Beh, sì, chiara, ma fino ad un certo punto: nella foto era rappresentata una bottiglia di champagne straboccante, poggiata su un tavolino accanto a due bicchieri, il tutto a malapena illuminato. Cercò una data sul retro della polaroid, per tentare di comprendere perché quello scatto fosse stato posto lì, in mezzo ad altri apparentemente più “importanti”. Con un pennarello indelebile nero erano vergate con una calligrafia frettolosa e confusa le parole “giugno 1984”... E, all'improvviso, tutto le tornò alla memoria.

Long Branch, New Jersey, 1984, ore 2:24
Non appena Bruce l’aveva chiamata, con una certa urgenza nella voce, Patti non aveva potuto fare altro che saltare in auto, abbassare il freno a mano ed ingranare la prima con fin troppa foga.
Si trovava a letto, abbracciata senza ritegno alle coperte, quando il trillo fastidioso ed acuto del telefono l'aveva svegliata di soprassalto. Era scattata in piedi, la bocca impastata e gli occhi ancora annebbiati, pronta ad offendere l'autore della chiamata e, possibilmente, ogni suo parente, stretto e non. Nell'udire il tono basso e rauco di Bruce, però, si era fermata. Non aveva sue notizie da mesi, ormai, ed era proprio ansiosa di sapere perché diamine le avesse telefonato proprio in quel momento. Alle due di notte, tra l’altro.
Beh, in realtà non era proprio vero che non aveva avuto più sue notizie. Non aveva più parlato con lui personalmente, quello sì… In compenso, in quei mesi, la radio non aveva fatto che sparare a tutto volume il singolo del suo nuovo album. “Dancing in the Dark”, ovviamente. In un versione, ovviamente, in cui i suoi cori non apparivano. Si strinse nelle spalle, riflettendo tra sé e sé. Non si poteva proprio avere tutto dalla vita, no?
Sistemandosi distrattamente il ciuffo rosso, che proprio si rifiutava di stare in ordine, svoltò pigramente a destra. Sbadigliò, cercando di tenere aperti i grandi occhi verdi che, a quell’ora, avrebbero soltanto desiderato starsene chiusi e sognanti al buio della sua camera.
Per tenersi sveglia, tentò di immaginare quale potesse essere la ragione della telefonata di Bruce, ma, più ci rifletteva, meno comprendeva: sapeva per certo che a breve lui e la band sarebbero partiti per andare in tour, dunque, cosa mai poteva avere da dirle? Voleva darle un lacrimoso addio?
Si strinse nelle spalle, occhieggiando le varie strade che intersecavano con la via principale, per ricordare quale fosse quella dove abitava Bruce. Dopo aver imboccato per almeno tre volte quella sbagliata, scorse infine una villetta a schiera bianca, le cui luci all’interno erano ancora accese e vi posteggiò di fianco. Notando che sulla cassetta delle lettere il nome era stato grattato via dalla pioggia e dal tempo, alzò gli occhi al cielo e, chiudendo entrambe le mani a pugno, sperò con tutto il cuore che si trattasse della casa giusta. Non sarebbe stato esattamente carino citofonare ad un’abitazione a caso nel cuore della notte… soprattutto non con la faccia da morto vivente che si ritrovava. Non voleva avere nessuno sulla coscienza.
Chiusa l’auto, salì lentamente le scalette del porticato e suonò riluttante il campanello, deglutendo e spostando il peso del corpo da un piede all’altro. Quando infine la porta si schiuse appena, lasciando intravedere un viso abbronzato dagli occhi scuri, incorniciato da una chioma di riccioli castani e decisamente scompigliati, Patti tirò un sospiro di sollievo.
“Sei arrivata”, constatò Bruce, spalancando infine l’uscio, e sorridendole nella penombra. La luce pallida e fredda della luna si posò dolcemente sui suoi lineamenti irregolari, facendolo apparire come il misterioso e dolce soggetto di un quadro romantico. Indossava una leggera camicia bianca, infilata nei pantaloni solo per metà, ed un paio di jeans scuciti in più punti. Con quel look da camionista, persino Patti, che si era infilata un maglione a caso, poteva passare per elegante.
“Direi”, ribatté lei, inarcando entrambe le sopracciglia, “E direi anche che mi devi un drink. Non ho più l’età per queste follie notturne”. Lui rise, portandosi una mano paffuta davanti alla bocca.
“Ehi! Guarda che in realtà sarei io il vecchio, tra noi due”, rispose, dandole un buffetto amichevole sulla spalla, “E poi non mi starai mica dicendo che già eri a dormire?”, concluse, squadrandola con aria falsamente accusatoria.
Patti sogghignò. “Beh, in realtà... penso che i miei capelli e le mie occhiaie rispondano alla tua domanda. Poco ci mancava che uscissi di casa con la coperta in mano ed il pigiama indosso”.
Bruce scosse il capo, divertito. “Beh, questo potrebbe anche essere un problema”, considerò, ironico, ma Patti non riuscì a comprendere il suo sarcasmo: un problema? Ma a che diamine stava facendo riferimento?
“Entri?”, le domandò infine, accompagnando le parole con un goffo gesto del capo. Probabilmente aveva notato il suo stupore.
“Ovvio che entro”, rispose prontamente, risvegliandosi dal proprio torpore, “Spero tu non mi abbia chiamata soltanto per chiacchierare sulla porta”.
Bruce scosse la testa, precedendola nell'ingresso della casa: non era particolarmente elegante o sfarzosa e, anzi, sembrava un luogo piuttosto trasandata. Le pareti erano spoglie, quasi rovinate, il pavimento ricoperto di fogli scarabocchiati o fittamente scritti. In un angolo, una pila di libri, dischi, riviste e giornali pendeva pericolosamente, dando quasi l'impressione di oscillare. In un gesto pressoché automatico, Patti la raddrizzò, osservandola con apprensione. Nel notare quel suo gesto, l'uomo si lasciò scappare una breve risatina.
“Forse avrei dovuto riordinare”, commentò sarcastico, “Non voglio che tu ti perda tra la polvere e le cianfrusaglie!”.
“Dato che non dormi potresti effettivamente sfruttare la notte per mettere a posto”, confermò lei, con altrettanto umorismo, “Ti credevo più pignolo”.
“Solo per quanto riguarda la musica”, ammise lui, stringendosi nelle ampie spalle, “Per il resto sono... un tantino sbadato, ecco”. Con un vago gesto della mano la invitò a sedersi su un piccolo e vecchio sofà accanto ad uno scalcagnato tavolino mangiucchiato dai topi e chissà cos'altro. Solo allora notò che, posata lì a lato, vi era una bottiglia di champagne di ottima qualità. Strabuzzò gli occhi, facendo un piccolo salto sulla sedia: chissà quanto diamine gli era costata!
“Non potresti spendere i tuoi soldi per prodotti per la pulizia della casa, invece che per alcolici di prima qualità?”, domandò maliziosa, ammiccando. Bruce le si mise seduto di fianco, passandosi più volte una mano tra i capelli perennemente disordinati e, da dietro al divanetto, estrasse due bicchieri, senza dire una parola. Patti non capiva, per cui si limitò a fissarlo mentre stappava la bottiglia, incurvando la bocca in un'espressione buffa.
Ovviamente, il tappo schizzò in aria come una pallottola ad una velocità incredibile. Ovviamente. Con un urletto non troppo maturo, la donna schivò prontamente di lato, tenendosi la testa con ambo le mani... Ma Bruce non fu altrettanto svelto. Il piccolo pezzo di sughero lo centrò in pieno volto con uno schiocco sonoro.
Non appena se ne accorse, Patti sussultò, preoccupata: ecco, ci mancava soltanto che Springsteen diventasse cieco in sua presenza. Si rialzò dalla sua posizione acquattata da cecchino e si avvicinò all'uomo, chiamandolo per nome: Bruce stava sdraiato sul divano, apparentemente immobile, le mani che gli coprivano il volto. Lei lo scosse, preoccupata. Nessuna reazione.
Inspirò, tentando di tranquillizzarsi... inutile. Cazzo, non si muoveva.
“Bruce!”, gridò, “Bruce!”, prendendolo per le braccia e cercando di risvegliarlo. Le tempie le pulsavano selvaggiamente, il cuore le era arrivato in gola... e poi lo sentì ridere. Mollò la presa: quell'idiota si stava letteralmente rotolando sul divano, tenendosi la pancia. Si stava divertendo di gusto, lo stronzo... Ma porca puttana.
Patti sentì il volto prendere fuoco. Non riuscì a pensare ad un'unica reazione logica. Con uno scatto automatico, lo prese per la collottola. Bruce strabuzzò gli occhi e fece per domandare qualcosa, ma non fece in tempo: uno schiaffo in pieno volto lo interruppe ancor prima prima di iniziare.
Non lo fare mai più”, sibilò Patti, furiosa. Forse avrebbe dovuto sentirsi in colpa, perché effettivamente lo aveva colpito con una certa forza, ma era troppo incazzata per farlo. Bruce la osservava, boccheggiante, con un'espressione genuinamente stupita, che ben presto si trasformò in un sorriso. Scosse il capo, mettendo in mostra l'impronta rossa di una mano sulla guancia, e riempì i due calici. Gliene porse uno ed innalzò l'altro, ammiccando: “A Patti Scialfa e la sua furia. Giuro sulla mia chitarra che non lo farò mai più... forse”, esclamò, facendole l'occhiolino, e scolò l'intero contenuto in un solo sorso. Sì, era proprio un coglione, rifletté lei, osservandolo.
“Non mi farai ubriacare”, lo ammonì, scherzosa, indicandolo con fare accusatorio.
“Peccato”, rispose lui, “Sarei curioso di vederti sbronza”. Allora Patti -dopo essersi premurata di fargli la linguaccia- bevve, ma piano, scoccando occhiate fintamente minacciose a quell'uomo così intelligente, eppure così infantile. Forse, però, impiegò fin troppo tempo a concludere quel bicchiere, perché nel frattempo qualcosa nello sguardo di Bruce parve farsi vago: fu forse un cambio di luce, una piccola ruga di espressione che gli si disegnò sulla fronte, un'ombra che si dipanò su quel suo viso così solare. Qualcosa che forse qualcun altro non avrebbe notato, ma non Patti. Lei lo vide subito. E subito comprese che qualcosa non andava.
Bilanciando pigramente il bicchiere già vuoto tra le dita, lui pareva quasi assente, come perso tra i propri pensieri. Lo sguardo basso sembrava non fissarsi su nulla di reale o tangibile, ma si perdeva nell'oscurità di chissà quale ricordo od elucubrazione. Avvolto ancora nella luce lunare, stavolta la sua figura aveva l'aspetto di un quadro di Munch, turbato nel profondo da un dolore senza nome, un isolamento senza speranza o una prigione senza via di fuga. Non fu volontariamente che Patti tese la sua mano sottile verso di lui, sfiorandogli il braccio. Fu un istinto, uno slancio. Una sconosciuta volontà di risvegliarlo, di riportare in superficie quel sorriso e quella luce negli occhi che già dopo pochi incontri aveva imparato a considerare come una piacevole e dolce costante.
Bruce alzò il mento, come se si fosse appena svegliato da un sogno così realistico da apparire vero e la guardò, piegando la bocca carnosa in quella che appariva solo l'ombra di un sorriso: c'era più tristezza, che gioia. Aggrottando le sopracciglia, Patti finì per abbassare lo sguardo. Quegli occhi la scrutavano troppo a fondo, soprattutto ora che erano velati di tristezza. La mettevano a nudo, ma non con malizia: era come se tutte le sue delusioni fossero lì, esposte, pronte per essere osservate, giudicate, analizzate. E non riusciva a sopportarlo.
Bruce prese un profondo respiro prima di iniziare a parlare. “Il giorno in cui abbiamo registrato insieme ti ho detto che mi piaceva parlare con te e ci siamo promessi che saremmo stati amici”, cominciò, riprendendo a far oscillare il calice vuoto, “Ogni parola che ho detto allora... Beh, io ci credevo davvero. Non mentivo, non quella volta, perlomeno. Sono talmente tanto abituato a cercare alibi per giustificarmi che finisco per dimenticarmi quale sia la verità, quali siano le cose in cui credo davvero... Però ero sincero, con te. Lo sono sempre stato”. Fece una pausa, con un sospiro. Patti sapeva che stava cercando il suo sguardo, alla ricerca di conferma. Bruce Springsteen aveva bisogno di conferme? Aveva bisogno di... essere ascoltato?
“Non ti posso giurare che lo sarò per sempre”, proseguì, “Cambio così velocemente che certe volte non me ne rendo neppure conto, eppure...”. Stavolta le prese il mento, senza malizia, ma con una certa dolce decisione. I suoi occhi marroni si fusero coi suoi, verdi, quasi lucidi.
“Eppure ho bisogno di un'amica”, continuò, senza quasi sbattere le palpebre, “E so di averla trovata in te... Sbaglio?”.
Dopo quello che era parso un tempo infinito, Patti tornò a dispiegare il volto bianco in un sorriso, gentile, quasi tenero. Annuì col capo, mordendosi il labbro inferiore.
“E suppongo di non essere un grande amico, però, dato che sono scomparso dalla circolazione per mesi”, concluse lui, dopo aver osservato distrattamente le labbra della donna. Era forse quello il punto? Si sentiva in colpa per non essersi fatto vivo? Ad essere sincera, Patti non aveva dato alla questione troppo peso: dopo aver registrato si erano visti qualche volta, avevano bevuto qualcosa insieme, certe volte si erano telefonati, ma poi, quando avevano perso un po' i contatti, lei l'aveva considerato come qualcosa di naturale. D'altronde, si trattava di Bruce Springsteen. Ciò significava impegni con la stampa, prove con la band, ore di solitudine per comporre, lunghe riunioni coi produttori e i manager per gestire il tour... Erano faccende ben più importanti della loro neonata complicità scaturita dal reciproco rispetto e la consapevolezza di avere molti interessi in comune. Forse era lei che l'aveva vissuta così, con leggerezza... Forse era perché si era abituata, col tempo e la sua malinconia, a perdere le persone, talvolta a lasciarle andare. E una parte di lei, forzatamente realista e cinica, si era sforzata di pensare che, in fondo, un uomo come Bruce era meglio perderlo subito, quando ancora lo conosceva superficialmente, che non più tardi: aveva visto la sua anima, sebbene da lontano, e sapeva quanto fosse magnetica. Proseguire con la loro amicizia sarebbe stata una corsa pericolosa... Emozionante, certo, ma abbondantemente più pericolosa.
“Anche io sono scomparsa”, disse semplicemente, “Non c'è niente da rimproverarsi. Siamo persone adulte ed impegnate. Soprattutto tu”. Fece ondeggiare la testa, accompagnando quelle parole, ed i suoi capelli rossi si illuminarono come rubini sotto la luce flebile della stanza.
Con suo grande stupore, Bruce si lasciò sfuggire una risata amara. “Impegnato, dici?”, domandò, sgranando i grandi occhi con fare ironico e arrendevole al tempo stesso, “Ti stupiresti nel prendere atto di quanto la mia vita sia piena di nulla”, concluse, beffardo.
Una coltre di silenzio serpeggiò per la casa, lasciandoli entrambi per qualche minuto ai loro pensieri... O, almeno, Bruce pareva star pensando; Patti, invece, si limitava a scrutare nel vuoto, ascoltando il proprio cuore battere ritmicamente. Le ricordava la cadenza di una canzone... Ma quale? Sicuramente di un brano triste, oscuro... Ma forse non lo aveva ancora scritto nessuno. Forse era solo nel suo petto, nella sua pelle, nella sua testa. Sì, forse toccava proprio a lei intessere quella misteriosa melodia in parole concrete e note struggenti.
Si riscosse non appena si rese conto che Bruce la stava chiamando, osservandola con una certa apprensione. “Stai bene?”, le domandò, “Ho detto qualcosa che...”.
Non gli lasciò tempo di finire la frase, zittendolo con un gesto della mano. Si rese quasi immediatamente conto di aver appena bruscamente interrotto uno dei musicisti più importanti degli Stati Uniti e del mondo, ma, sebbene arrossendo appena, decise di non darvi troppo peso. Era un'amica che cercava, giusto? E se davvero era sua amica, si sentiva in dovere di mettere in chiaro un paio di questioni... o forse anche qualcuna in più.
“Senti”, esordì, con un'autorevolezza che non aveva la più pallida idea di avere sino a quell'istante, “Io sono qui. E vorrei sottolineare questo fatto: sono le cazzo di tre di notte ed io sono qui, soltanto perché tu mi hai chiamato. Se quella telefonata fosse arrivata dalla Casa Bianca, dall'Area 51 o da chiunque altro, io non mi sarei staccata da quel letto neppure se alzata con una gru. Ma ho sentito la tua voce alla cornetta e sono corsa fin qui. Quindi, davvero, non capisco. Scusa, ma non ci arrivo: cosa è che vuoi?”.
Se il suo intento era quello di lasciarlo di sasso, poteva dirsi ben soddisfatta: durante quel breve monologo il volto di Bruce si era fatto sempre più confuso, ed adesso la fissava perplesso, con le sopracciglia corrugate e la bocca semiaperta. Sembrava quasi un bambino. Beh, in realtà non era proprio sicura di voler provocare quella reazione... ma perlomeno lo aveva risvegliato da quella sorta di apatia in cui pareva essere sprofondato fino a poco prima.
Inutile a dirsi, la scrosciante risata dell'uomo che giunse soltanto qualche istante più tardi la colse di sorpresa, come una secchiata d'acqua gelida: davvero, aveva cominciato a sghignazzare scompostamente e non sembrava avere alcuna intenzione di smetterla. Fendette l'aria con una mano, accompagnando il gesto con un'espressione ironica.
Così parlo Patti Scialfa”, commentò, inciampando nelle parole per l'eccessiva ilarità, “Tra questa uscita e lo schiaffo, ti prego, ricordami di non contrariarti ancora in futuro. Sapevo che tu fossi una donna con le palle, ma... cazzo! Stanotte ti sei davvero superata. Se fossi stato a conoscenza del tuo caratterino qualche anno fa, non ti avrei certo respinto dalla band due volte... Ho rischiato la vita e neppure lo sapevo!”.
Non la piantava davvero più di ridacchiare, sguaiato, e Patti non aveva la minima idea di come comportarsi: se dapprima, infatti, l'aveva rallegrata vedere la luce tornare nei suoi begli occhi scuri, adesso quel sarcasmo cominciava a metterla a disagio... Cosa voleva da lei? Ancora non aveva risposto. Percepì tutto il proprio corpo irrigidirsi, forse per lo scherno, la vergogna, e i suoi occhi si rabbuiarono. Ogni risata era come un pugno nello stomaco.
Nemmeno se ne accorse, quando si alzò in piedi: le venne spontaneo. Sentiva il bisogno di respirare, di percepire l'aria fresca sulla sua pelle... voleva stare lontana da lui. Al tempo stesso, però, voleva girarsi verso di lui, affondare la sua testa nella sua camicia, inspirare quel suo aroma dolce e forte di cannella, dopobarba e sudore. Ma no, si stava allontanando. I suoi piedi si muovevano automaticamente, passo dopo passo, dopo passo...
Lui la afferrò per il polso. Non con forza, anzi. C'era premura, in quel gesto.
Patti sentiva il pizzicore familiare delle lacrime che bussavano ad i suoi occhi e non voleva girarsi verso di lui... Se si fosse girata, lo avrebbe abbracciato.
“No, Patti, adesso ascoltami”, le intimò, ma la sua voce non suonava come un ordine, “Hai ragione. Ho esagerato. Te l'ho detto che sono una persona che cambia in fretta... non dovresti fidarti di me. Ma io voglio sapere di potermi fidare di te, dato che... No, andrò dritto al punto, sto divagando: ti voglio nella band”.
Per tutta risposta, la donna sgranò gli occhi, incredula... Lui voleva cosa?!? Si girò, trattenendosi dall'abbracciarlo. Ecco perché aveva fatto quella battuta sull'andare a dormire presto...
“E' da giorni che ci penso”, proseguì, tenendole ancora il polso, “Ho bisogno di una corista. Lo sai, no, che Steven è uscito dalla band?”. Patti annuì col capo, senza alzare lo sguardo. “Beh, lo abbiamo sostituito con Nils Lofgren, un chitarrista coi controcoglioni, ma che purtroppo non ha una particolare estensione vocale, quindi non abbiamo nessuno che faccia i cori... riesci ad immaginare una “Out in the Street” senza cori? Io no e nemmeno gli altri. E quindi ci ho riflettuto a lungo, a quale soluzione trovare... All'inizio non ti volevo coinvolgere. Mica per cattiveria, eh! Soltanto che credimi, non hai idea di come sia convivere con un nutrito contingente numero di uomini adulti e maledettamente viziati”.
Lei, abbozzando un sorriso, oscillò il capo. “In realtà sono stata con gli Asbury Jukes, quindi una mezza idea ce l'ho”. Bruce parve contento vederla fare quella mezza battuta.
“Un altro punto in tuo favore: sai già come farci da mamma!”, commentò lui, dandole una carezza affettuosa sulla guancia, che immediatamente arrossì al contatto, “Scherzi a parte, io so quanto vali. Ti ho sentita cantare, in studio e dal vivo: hai presenza scenica, tecnica, conosci le mie canzoni... Sei anche discretamente sexy!”. Il rossore non fece che crescere. “So che non avrei dovuto chiamarti nel cuore della notte, ma ho deciso solo adesso, e non volevo rimandare. Il tour inizia tra pochi giorni e io ti voglio nella band. Voglio che tu sia parte della nostra famiglia, voglio che tu sia mia amica. Questo volevo da te, questo ho tentato di dirti per tutta la serata: lo so che sono un coglione e già prevedo che ti farò incazzare di brutto e ti ferirò, forse. Ma io devo sapere che credi in me. Che sei mia amica. Che riesci ad avere un po' di fiducia, in me”. Con un profondo sospiro, Bruce interruppe quel flusso di parole, e le sue dita forti si spostarono dal polso della donna, andando a intrecciarsi con la mano di lei, in una stretta calorosa, sincera. Patti assaporò quel contatto, ne gustò ogni istante: perché tutto era così dannatamente più bello e poetico dopo una sana e furiosa litigata?
“Bruce”, sillabò, alzando lo sguardo: voleva specchiarsi nei suoi occhi. “Sono venuta qui alla due di notte passate per te. È una dimostrazione di fede sufficiente, oppure mi aspettano altre prove di iniziazione?”. Per l'ennesima volta, la risata cristallina di Bruce proruppe dalle sue grandi labbra, stavolta però scaldandole il cuore. L'uomo impugnò ancora una volta il proprio calice e lo riempì abbondantemente, per poi fare lo stesso con quello di Patti.
“No, dolcezza”, la schernì teneramente, “L'ultima prova sarà quella di partire in tour tra una settimana senza aver mai provato con la band”. Le fece una smorfia.
“Sei proprio un bastardo”, si limitò a rispondere lei, sorridendo, mentre brindavano a lei, alla band, al tour... Ma soprattutto, alla loro neonata amicizia.

Casa Springsteen, New Jersey, 2015, ore 9:50
E poi Bruce aveva scattato quella foto, badando bene di inquadrare soltanto la bottiglia di champagne: entrambi erano decisamente troppo sciatti ed ammaccati per essere immortalati in quel momento. Patti aveva finito col tornare a casa al sorgere del sole, se lo ricordava molto bene: era rimasta a parlare con Bruce tutta la notte, come non aveva mai fatto prima di allora, e come poi avrebbe fatto ripetutamente per i decenni a seguire. Aveva ascoltato la sua voce roca parlare della sua musica e della musica di Dylan, Elvis, gli Stones... Le aveva chiesto della sua famiglia, per poi aprire il proprio cuore riguardo alla propria: gli occhi gli si erano velati di tristezza, rabbia e rimpianto nel nominare suo padre, ma si erano anche riempiti di gioia ed ammirazione nel descrivere sua madre. Quella notte Patti aveva imparato che dietro ad ogni gesto di quello strano, mutevole uomo, si celava un mondo di emozioni, pensieri, ricordi. Un mondo in cui fare capolino era al contempo esaltante e pauroso... Eppure non si era tirata indietro. Lo aveva ascoltato, ogni singolo istante. E forse proprio quella sera, senza prenderne consapevolezza, si era innamorata di lui, di quel suo profilo irregolare, quel suo corpo sempre tirato, quelle sue mani ferme. Quel suo cuore immenso e complicato.
Era tornata a casa, dopo quel fiume di parole, ed aveva ascoltato ancora una volta il ritmo del suo cuore, che le aveva dettato una canzone: “Spanish Dancer”, uno dei suoi brani forse più riusciti, in cui parlava di un uomo misterioso, di cui non riusciva a fare a meno, a cui lanciava fiori e danzava attorno, come stregata. Al momento, non aveva ben capito perché aveva scritto quel testo, così romantico, così criptico... Ma adesso, adesso capiva. Cominciò a canticchiarla nella penombra calda della soffitta, mentre sollevava la terza foto.


Angolo dell'autrice:
Ragazze, grazie, grazie, grazie ed ancora grazie. Quando ho iniziato a scrivere questa fanfiction, pensavo che l'avremmo letta solo io e Sabrina (che ringrazio e a cui dedico ogni singola parola), ed invece mi avete stupito. Ogni recensione è stata una ragione per continuare.
Sperando di aggiornare presto,
Elisa xx

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Capitolo 3
*** A Sky Full of Stars ***


2. A Sky Full of Stars
 

'Cause you're a sky, you're a sky full of stars,
I wanna die in your arms
'Cause you get lighter the more it gets dark
I'm gonna give you my heart


Casa Springsteen, New Jersey, 2015, ore 9:51
Patti si mise in ascolto, sperando di udire il ronzio familiare del motore dell'auto di Bruce, ma nessun suono incontrò le sue orecchie. Sospirò profondamente: d'altronde lo sapeva, ancora era troppo presto, ancora non sarebbe potuto arrivare. Cercò di sedersi più comodamente sul pavimento polveroso, ma una fitta di dolore lancinante alla caviglia le fece cambiare idea. Merda.
Non poteva far altro se non sfogliare tra le foto, ancora una volta. Stava cominciando a prenderci gusto, d'altra parte. Ne prese una tra le dita sottili, datata 1984, e che subito la fece scoppiare a ridere: era lei, che, con un'espressione buffa e sfrontata, indicava la propria maglietta, una sorta di sacco spiegazzato con stampate le parole
Broadway Motors sopra. Ricordava bene la storia di quella maglietta e, a dir la verità, era molto meno divertente di quanto spesso non raccontasse...

St. Paul, Minnesota, 1984
Una delle prime cose che i ragazzi della band le avevano detto era stata una sorta di affermazione al tempo stesso ironica e divertente, ma velata da un senso di inquietudine che Patti non riusciva proprio a scrollarsi di dosso. Forse lo percepiva solo lei ed, in fondo, forse non c’era ragione di preoccuparsi. Forse. Ciononostante, quelle parole continuavano a ronzarle per la testa, come un mantra, una preghiera, una voce ammonitrice che non la lasciava mai, mai andare.
“È inutile”, aveva esclamato Clarence, il sassofonista, alla prima cena di presentazione della band, ridendo con quella fila perfetta di denti bianchi, “Per quanto tu ci provi, non riuscirai mai a capire Bruce. Fidati, te lo dice uno che ha una più che abbondante esperienza in materia!”. Il resto della band aveva sghignazzato a sua volta, sbattendo i pugni sul tavolo ed bisbigliando in risposta altre battute di spirito.
Aveva imparato a conoscerli in fretta, i componenti della band, ed era felice, perché tutti le sembravano uomini gentili e simpatici; talvolta immaturi, certo, ed altrettanto impulsivi, ma non si sarebbe certo fatta fregare dai loro capricci. Ora che era parte del gruppo, si sarebbe fatta rispettare.
C’era Roy, pianista straordinariamente talentuoso, con il suo sguardo furbo e la sua incredibile premura, che talvolta sfociava quasi in un eccesso ingiustificato di timidezza; c’era Garry, bassista preciso ed ordinato, dallo humour inglese e compassato, talmente tanto in contrasto con l'attitudine sguaiata dei suoi colleghi da farla morire dal ridere; poi c’era Danny, all’organo Hammond… tipo strano, Dan. Sembrava perennemente perso nei propri pensieri e, quando scherzava, si faceva talmente serio che gli altri non riuscivano mai a capire dove volesse andare a parare. Però Patti doveva ammetterlo, Danny era stato infinitamente cortese, con lei: da quando avevano cominciato a provare per il tour, lui l’aveva presa sotto la sua ala protettrice, e le aveva spiegato come comportarsi, come pensare sul palco, come focalizzare la concentrazione, con una sintesi ed una chiarezza che spesso mancavano ai voli pindarici semi-filosofici di Bruce. C’era anche Max, il batterista, una forza della natura nel corpo di un ragioniere: se chiunque l’avesse sentito parlare senza sapere con chi aveva davanti, probabilmente avrebbe creduto di avere a che fare con un laureato ad Harvard, altro che rockstar! Lo stesso invece non si poteva dire di Clarence, che certo era nato per ricoprire quel ruolo: un immenso uomo di due metri, la pelle lucida come ebano, gli occhi come quelli di un leone, il suono del suo sax profondo ed oscuro come il cuore dell’Africa stessa. Era il partner perfetto sul palco, per Bruce. Con lui scherzava, correva, cantava… Erano così antitetici, uno di fianco all’altro, così diversi, il ragazzetto italo-americano bianco dalla mandibola pronunciata ed il grosso sciamano nero dall’aria mistica, da risultare irresistibili.
Infine c’era Nils, un chitarrista incredibilmente tecnico, che era entrato solo adesso nella band, come lei, per sostituire Steve. Sembrava in leggero imbarazzo, all’inizio, ma si era sbloccato in fretta e subito aveva cominciato a sentirsi parte della “gang”.
Forse per quello lui non fu turbato da quella frase, pronunciata così a cuor leggero da Clarence… O forse era perché lui ancora non aveva visto Bruce come aveva fatto lei: come un uomo forte che tentava di nascondere le proprie ferite, i propri difetti, le proprie debolezze. Come un uomo che, quando non era più capace di celare il dolore che un’infanzia difficile e un cuore capace di sin troppa empatia gli avevano procurato, abbassava lo sguardo e, insieme a quello, anche le proprie difese; Patti non riusciva a togliersi dalla mente quegli occhi tristi, quelle mani tremanti, quelle parole appena sussurrate con timore della notte in cui le aveva comunicato che la voleva nella band: quella sera aveva pensato, perlomeno, di aver compreso qualcosa di Bruce Springsteen, di aver fatto proprio qualcosa della sua anima.
Dunque, cosa significava quell’affermazione di Clarence? Che diamine voleva dire che nessuno poteva capire Bruce? Per Patti, a questo punto, non si trattava più neppure una questione di potere, ma di voler capirlo: quel che aveva intravisto in lui, quella tristezza, quella fiducia, quella complicità innata che c’era tra loro la portava a non arrendersi, ad andare avanti… A tentare di entrare in quella testa riccioluta così meravigliosamente complessa. Non sapeva bene che nome dare a quella sua attrazione nei confronti di quell’uomo… C’era qualcosa di… viscerale, in essa. Non pianificato. Lo guardava e sapeva di volersi prendere cura di lui, nonostante tutto, nonostante ancora avessero tanto da scoprire l’uno dell’altro.
Non voleva credere di non poter capirlo. Alla cena, aveva ingoiata quelle parole con un bicchiere di vino rosso, sorseggiato forse con troppa foga. Ciò aveva logicamente attirato su di sé gli sguardi dei ragazzi della band che l'avevano subito incitata, credendo si volesse divertire, forse sbronzare. Quella sera era tornata alla propria camera d’hotel barcollando appena, con Danny che la portava sottobraccio e commentava con sguardo impassibile il suo comportamento. Era sarcastico, questo Patti lo capiva… anche perché aveva la fama di essere stato un discreto fumatore d’erba, in gioventù.
Poi si era addormentata, con la mente piena di immagini, confusione, ma, soprattutto di domande. Aveva dovuto aspettare solo qualche giorno per comprendere, almeno in parte, quel che Clarence intendeva dire, quella sera. Aveva dovuto aspettare la mattina del primo concerto del tour, a St. Paul.
Per lei, si trattava di un insieme di emozioni strane, uniche… o, quantomeno, che non aveva mai provato prima: sapeva cosa erano le farfalle nello stomaco provocate dall’ebbrezza da palcoscenico, ma questa volta si trattava di qualcosa di incredibile. Stava per girare il mondo, cantando davanti a migliaia e migliaia di persone che la osservavano, che si aspettavano qualcosa da lei. E ciò, ovviamente, la innervosiva. Quella mattina si svegliò molto –troppo- presto, non per sua volontà, ma a causa di una forte nausea, provocatale proprio dalla tensione. Dio, quanto odiava essere così incerta, a volte: non aveva né la forza di rimettersi a dormire, né di alzarsi. Sospirò, affondando la testa rossa nel guanciale e rimase per qualche minuto così, abbracciata alle coperte. Doveva trattarsi di una visione affascinante, pensò, sorridendo con le labbra premute contro il cuscino: una donna spettinata, struccata, disperata, con occhiaie chilometriche che grugniva a letto. Un sogno, proprio… il miglior modo per conquistare un uomo.
Fu una sorpresa udire un bussare piuttosto concitato alla porta. Sussultando, alzò la testa, guardandosi intorno, spaesata: con gli occhi ancora appannati dal sonno, cercò di capire se quel suono potesse avere qualche altra origine. Quando questo si ripeté, ogni dubbio fugò: qualcuno stava davvero bussando alla porta.
“Arrivo!”, biascicò, cercando di schiarirsi la voce, che la mattina faceva di tutto per apparire il più mascolina possibile, “Un attimo!”. Controllò la sveglia sul comodino, per essere sicura di non aver preso un abbaglio: magari erano le tre del pomeriggio e lei neppure se ne era accorta. Eppure no, erano le sette e mezza. Ne era certa. Stringendosi nelle spalle, si alzò in piedi velocemente, cercando di distendere le pieghe della camicia da notte e si mise alla ricerca della vestaglia. Dove diamine poteva averla lasciata? Sulla poltrona non c'era...
Per la terza volta, udì il bussare alla porta, stavolta considerevolmente più deciso.
“Un attimo, ho detto!”, esclamò lei, nervosa. Alla fine praticamente inciampò sulla vestaglia che, a quanto pare, era caduta per terra insieme ad un altro mucchietto di vestiti. Imprecò e se la infilò, rassettandosi alla meno peggio la cascata di capelli rosso fuoco.
Aprì la porta proprio mentre Danny stava per bussare per la quarta volta. Lei strabuzzò gli occhi nel vederlo già vestito, ma decisamente disordinato e con la faccia di qualcuno che non ha la minima idea del perché si sia alzato dal letto.
“Dan...?”, mormorò lei, corrugando le sopracciglia, “Che diavolo succede? Perché sei qui?”.
L'uomo si limitò a rimanere inespressivo, arcuando appena un lato della bocca sottile. “Buongiorno anche a te”, bisbigliò a sua volta, chinando il capo, “Senti, il Boss vuole vederci tutti nella sua suite. Ha detto che ha un sacco di cose da comunicarci... Sembrava incazzato. Beh, no, forse incazzato no, ma sicuramente insonne. Il che lo rende potenzialmente doppiamente incazzato”. Come al solito, Patti non riusciva assolutamente a capire se stesse scherzando o fosse serio. All'inizio non aveva nemmeno capito che il Boss a cui faceva riferimento era Bruce: lei non lo chiamava mai con quel nomignolo ridicolo.
Si morse il labbro, perplessa. Bruce già sveglio a quell'ora? Le pareva del tutto impossibile, eppure... “Perché era arrabbiato?”, domandò.
Dan mosse le mani in un gesto vago di chi ne sapeva ben poco. “Quel ragazzo è molto pignolo. Ad un certo punto, mi sono adattato e ho smesso di fare domande... Di solito lo fanno incazzare ancora di più e la situazione diventa ingestibile”. I suoi occhi chiari sembravano essersi fissati in un punto indefinito del muro, come se, mentre parlava, gli fosse tornato alla memoria un evento che confermava perfettamente la sua affermazione.
“E io che pensavo tu fossi il piantagrane della band”, scherzò Patti.
Lui posò il proprio sguardo su di lei. “Lo sono, infatti”, confermò, piegando di lato il capo, “Ma soltanto quando si tratta di lanciare enormi casse sopra poliziotti ignari”. Qualcosa diceva a Patti che in quell'uscita dovesse esserci qualcosa di vero. Sorrise, divertita.
“Comunque”, continuò l'organista, scrutando all'improvviso il proprio orologio da polso, “Ti conviene sbrigarti, non ho alcuna voglia di beccarmi una bella ramanzina perché sono arrivato in ritardo. Già mi toccherà ascoltare i deliri filosofico-musicali di Bruce per chissà quanto tempo... Dai, preparati, ti aspetto qui”, concluse.
La donna rientrò nella stanza e corse verso la montagnola di vestiti abbandonati sulla moquette; ne estrasse una camicia leggera ed un paio di jeans attillati e si affrettò ad infilarseli, per poi precipitarsi nel bagno a truccarsi e pettinarsi: col mascara e la matita fece relativamente velocemente, ma lo stesso non poté dire dei suoi capelli. Erano un fottuto casino.
Mentre alla fioca luce dello specchio tentava di districare le ciocche di capelli che sembravano essersi fare di tutto per crearle problemi, rifletté su quel che le aveva appena comunicato Dan: che diamine poteva volere Bruce da loro, a quell'ora? Il concerto era alle porte, avrebbero dovuto riposare, non stressarsi... Era lui stesso che lo aveva detto!
Poi non riusciva a spiegarsi perché Bruce non fosse venuto personalmente a dirle della riunione, ma avesse mandato Danny: cercò di ricordare se nei giorni prima gli avesse fatto qualche torto o, comunque, avesse avuto un qualche atteggiamento che poteva averlo infastidito. Eppure no, non le veniva in mente un accidente. Anzi, ultimamente se la stavano passando alla grande: pian piano, si stavano conoscendo, stavano lasciando vedere alcune luci ed ombre l'uno all'altro, accettandole reciprocamente... come fanno tutti gli amici.
Non appena decise che sì, alla fin fine i suoi capelli non avevano un aspetto così drammatico, si mise un paio di stivaletti ed uscì correndo dalla stanza. Danny la squadrò.
“Uhm”, commentò, protendendo il labbro inferiore, “Pensavo ci avresti messo di più. E avresti avuto un aspetto peggiore. Andiamo”. E fece strada per il corridoio color cachi dell'hotel a cinque stelle in cui alloggiavano. Patti sorrise, scuotendo il capo ramato, ma in realtà era piuttosto tesa: non le pareva neppure che i suoi piedi toccassero terra. Le sembrava di volare, di vivere in una realtà senza sensazioni.
“Perché credi che Bruce non sia venuto a parlarmi di persona?”, domandò, ad un certo punto, interrompendo Danny, che nel frattempo stava facendo qualche considerazione tecnica sul nuovo arrangiamento di The River. Lui si fermò un istante, stringendo le labbra. Per una volta, Patti non ebbe dubbi: in quel momento Dan era serio.
“Patti”, disse, con voce ferma, ma che lasciava trapelare un certo calore, “Ci sono tante cose di Bruce che tenterai di capire, con gli anni. E che comunque non capirai. So che è... difficile, da accettare. Ma devi farlo e senza fare domande o commenti. No, non guardarmi in quel modo, sono sincero. Lascialo fare, lascialo sfogare. Se ha un capriccio, noi glielo lasciamo consumare fino alla fine, sorbendoci la sua rabbia. Ci siamo abituati così, in tanti anni di convivenza. Non voglio dire che Bruce sia uno psicopatico, anzi: è uno dei ragazzi più genuini che conosca. Ma quando si tratta di musica, lui si incazza: perché è la sua vocazione, il suo mestiere, la sua unica ragione di vita. E noi ingoiamo ogni ingiustizia... Di solito, quando si incazza, lavora meglio. Scrive di più, compone meglio... Quindi tanto vale lasciarlo fare, no?”. Le sorrise, cosa più unica che rara... Fu un istinto, quello di abbracciarlo forte.
“Va bene”, mormorò, staccandosi da lui, “Andiamo”.
In pochi minuti, dopo aver imboccato un corridoio particolarmente ampio e luminoso, arrivarono davanti alla stanza di Bruce, dove si trovavano già Nils -visibilmente nervoso-, Roy, Max e Clarence. Mancava solamente Garry.
“Bruce gli farà il culo”, mormorò a denti stretti Roy, lanciando un'occhiata carica di significato all'orologio da polso. Nessuno sembrava sentirsi a proprio agio e ciò non fece che acuire il nodo alla gola che Patti percepiva già da un po': d'altronde, se non riusciva a stare tranquillo e rilassato chi era nella band da anni, lei come poteva sentirsi?
Dopo qualche istante di silenzio tombale, la porta della stanza si spalancò con un tonfo che non lasciava presagire niente di buono. Uno dopo l'altro, con passo di chi stava andando in guerra contro la propria volontà, entrarono nella suite, senza neppure fiatare. Patti trovava la situazione al tempo stesso ridicola e fastidiosa: che bisogno poteva avere Bruce di trattarli in quella maniera? Ancora non le era chiaro e non ricordava di aver fatto niente di sbagliato. A maggior ragione, quella sorta di tortura psicologica la faceva imbestialire. Contenne la propria rabbia, mordendosi il labbro, e fece il proprio ingresso nella camera, a occhi bassi, andando a sedersi su un divanetto color crema. Bruce era davanti a lei, in piedi, con la chitarra acustica a tracolla, che osservava alcuni appunti incomprensibili scarabocchiati su un quaderno spalancato ai suoi piedi. Inizialmente, neppure osservò i nuovi arrivati, finché non si rese conto del “grande assente”.
“Dov'è Garry?”, domandò, a voce bassa, che cercava di mostrarsi disinteressata, fallendo miseramente. Tutti si strinsero nelle spalle, in risposta. Il volto di Bruce si rabbuiò un altro po'... come se già non sembrasse abbastanza arrabbiato.
“Bene, cazzi suoi. Se poi stasera fa qualche stronzata, spero abbia già una band di rimpiazzo dove andare”. Un gelido silenzio accolse quelle parole. Patti lanciò uno sguardo perplesso a Danny, dall'altra parte della stanza, come per domandargli se facesse sul serio, ma lui non diede segno di averla notata. Sembrava concentrato completamente su Bruce e quello che aveva da dire. Sospirando nervosamente, si costrinse a fare altrettanto.
“Vi ho chiamati qui”, cominciò lui, raccogliendo il quaderno dai propri piedi e sfogliandolo attentamente, “Perché stanotte non ho dormito e quindi ho pensato alle prove di ieri pomeriggio. Voglio dire, oggi dobbiamo iniziare il tour e noi davvero possiamo pensare di essere all'altezza della situazione suonando in quel mondo?”. Calcò le ultime parole come se fossero state bestemmie.
“Ieri avevi detto di essere soddisfatto”, commentò Patti, ma immediatamente si rese conto di avere gli sguardi preoccupati dell'intera band addosso, come se avesse appena recitato una preghiera a satana a voce alta, invece di esprimere la propria opinione. Bruce, però, parve non udirla.
Trapped, ad esempio. I cori, parliamone. Se non li sappiamo fare abbastanza alti e non siamo, quindi, capaci di cambiare il passo al brano, tanto vale non farlo. Se devo fare una cover, voglio che sia all'altezza dell'originale, non che ne sia la pallida copia”.
“A me piace”, rispose Patti, stringendosi nelle spalle. Ancora una volta, l'intera band la squadrò come se avesse appena giocato a saltare la corda su un campo minato.
“Interessante”, rispose Bruce, senza neppure degnarla di uno sguardo, “Ma non è a te che deve piacere, è solo me che deve convincere”. Quella constatazione glaciale non fece che incoraggiarla ad interromperlo per l'ennesima volta.
“Ed il pubblico, no?”, considerò, sistemandosi con un gesto forse sin troppo sfrontato la frangia rossa, “Sono loro che pagano il biglietto. È a loro che deve piacere”.
Colpito ed affondato. Bruce, infatti, non rispose, ma proseguì. “Per quanto riguarda Ramrod, invece, credo che...”. Non fece in tempo a concludere la frase, perché la porta si spalancò, sbattendo. Un Garry col ciuffo attaccato alla fronte per il sudore e la camicia chiazzata e spiegazzata fece il proprio ingresso, ansimante, borbottando qualcosa di poco chiaro. Aveva l'aria distrutta di chi non aveva chiuso occhio.
“Sei arrivato”, mormorò Bruce, squadrandolo, “Alla buon ora”. C'era un'indifferenza in quella voce profonda che fece montare su tutte le furie Patti. E quando lei si arrabbiava faceva ben poco per tenere a freno la lingua... problema che, a quel punto, si era già presentato. E la situazione non poteva che peggiorare.
“Bruce, io...”, blaterò incerto Garry, che sembrava alla ricerca delle parole giuste, “Ieri sera c'era la mia ragazza, Bruce. Io e lei abbiamo... Abbiamo fatto tardi. Stamani dopo... dopo che mi hai chiamato, noi... noi ci siamo riaddormentati, ecco”. Concluse, deglutendo. Patti provò compassione per lui. Era un ragazzo così gentile e ligio al dovere che non meritava quel trattamento soltanto per essersi concesso del tempo con la propria fidanzata.
Sul volto di Bruce si dipinse una sorta di ghigno, ma non c'era alcuna gentilezza in esso. “A me non frega un cazzo di chi c'era con te, ieri, Garry”, ribatté, con una mano davanti alla bocca, “Poteva esserci il papa, in camera con te, e comunque non mi importerebbe. Sei un fottuto professionista, amico. Lo sai, questo? Il basso non si suona da solo, sul palco”.
“Ma le prove di ieri sono andate bene, non capisco cosa...”, balbettò Garry, ma venne interrotto.
“Esatto, non capisci. È questo il punto. Non capisci che, per stare in questa band, bisogna farsi il culo. A prescindere da fidanzate, mogli e simili. Non capisci che...”.
“Lascialo in pace!”, gridò Patti, scattando in piedi, rossa in volto, una volta tanto, per la rabbia. Tutti ammutolirono, stupiti; a dirla tutta, lei non era meno scossa di loro. Aveva agito puramente d'impulso, senza riflettere. Dall'altro lato della stanza, Danny si passò una mano sul volto.
“Cosa hai detto?”, domandò Bruce, che per qualche istante non aveva saputo come controbattere.
Prendendo fiato e cercando di contenere un lieve tremore delle mani, Patti riprese a parlare: “Garry è tuo amico, Bruce. Ed è un collaboratore affidabile, premuroso e rispettoso. Perché lo torturi? Perché lo insulti? Cosa vuoi dimostrare? Di essere il Boss? Beh, non è questo il modo giusto, credimi”. Ecco, ci era andata giù pesante. Intravide Danny affondare sempre di più nella propria sedia... Si sarebbe voluto chiaramente seppellire.
“Ma chi ti credi di essere?”, domandò Bruce, con un tono strano, affettato, come distorto dalla rabbia. I suoi lineamenti si erano fatti contratti, seri, oscuri. “Credi di poter venire qui, nella mia band e fare la voce grossa? Per cosa, poi? Cosa te ne darebbe il diritto, sentiamo un po'”.
Patti si passò la lingua sulle labbra, alla ricerca di una risposta brillante da dare, ma non le venne in mente nulla. Vuoto assoluto. Le guance le bruciavano selvaggiamente.
“Esattamente, niente te ne dà il diritto. Niente, chiaro?”, proseguì lui, stringendo i denti, “Tu non sei niente senza questa band”. No. No. No, quello non doveva, non doveva dirlo.
“Non sei niente senza di me”, proseguì.
Quelle parole.
Quelle parole furono una coltellata.
Ripensò a tutte le volte che i suoi l'avevano pregata di tornare a casa, le avevano detto che poteva trovarsi un vero lavoro... Che non era niente, lei, nella musica, che non sarebbe mai stata nessuno. Era sempre stata una delusione per tutti, sempre... Sentì le mani tremare convulsamente e avrebbe voluto fermarle, avrebbe voluto essere forte... ma non ci riusciva.
La voce di Bruce si faceva sempre più austera. “Sono io che ti ho portato fuori da quella topaia che è Asbury Park e sono io che posso rispedirtici all'istante, il tour non è ancora iniziato e...”.
“Basta!”, gridò Patti, talmente forte da farsi male alle orecchie, e le sue unghie si conficcarono dolorosamente nel palmo chiuso delle sue mani, “Piantala, ti prego! Piantala!”.
Adesso piangeva e non avrebbe voluto: no, non avrebbe mai e poi mai desiderato che la band la vedesse in quelle condizioni. Era incapace di reagire, ferita e pronta ad essere colpita ancora. Come già era accaduto tante, troppe volte.
Non seppe bene come accadde: non seppe mai se fu la sua voce straziata, le sue lacrime, le sue iridi piene di ricordi dolorosi, ma d'un tratto l'espressione irata di Bruce mutò, dissipandosi completamente, e lasciando spazio a quello sguardo pieno di comprensione che Patti conosceva così bene. O, almeno, credeva di conoscere. Con gli occhi appannati dalle lacrime, lo vide farsi scuro in volto, ma per la consapevolezza: aveva capito quel che le aveva detto. Aveva capito di averle fatto del male... E la cosa sembrava quasi sconvolgerlo. E allora perché lo aveva fatto? Perché era andato a scoprire quel suo punto debole?
Boccheggiando, si protese in avanti, verso di lei, tendendole la mano. “Patti, io...”.
D'istinto, lei si scansò. “No!”, urlò, tirandosi indietro. Il resto della band assisteva alla scena, nel silenzio più completo. Nessuno faceva nulla.
Nell'ennesimo tentativo di scusarsi, cercò di afferrarle gentilmente il braccio, ma stavolta lei non poté sopportare l'idea di rimanere in quella stanza, dove si sentiva fragile ed osservata. Con uno scatto, superò Bruce, ed uscì velocemente dalla porta; correva. I piedi le dolevano, il cuore le batteva all'impazzata, le lacrime scivolavano giù, giù, giù... Sentì Bruce che chiamava il suo nome, poi svoltò l'angolo e non sentì più nulla se non i propri passi.

L'aria fuori sulla terrazza era quasi innaturalmente fredda. Accendersi una sigaretta fu praticamente un'impresa: dovette tentare di coprire l'accendino da ogni angolazione con mani e corpo, prima che il fuoco attecchisse. Inspirò a pieni polmoni il fumo, grigio, caldo, malinconicamente consolatore, e lasciò che le invadesse il corpo, per poi espellerlo.
Lo skyline di St. Paul lo riempì gli occhi verdi, in un insieme ordinato di enormi palazzi e grattacieli, grigi ed opprimenti, e alberi e parchi, particolarmente luminosi sotto la luce smorzata del sole coperto dalle nuvole.
Sospirò, domandandosi se avesse la cosa giusta... dopotutto, non avrebbe potuto rifiutare? Sì, avrebbe potuto declinare l'offerta di suonare con la E Street Band e continuare a collaborare con Bobby Bandiera, Southside Johnny e tutti gli altri, là, sulla East Coast. C'era sempre qualcuno alla ricerca di una voce come la sua, là.
Avrebbe potuto rifiutare, sì, ma la verità era ben differente: non si poteva dire di no alla musica di quell'uomo, come era impossibile girarsi indietro davanti a quel suo sorriso spontaneo e a quel suo cuore che, a volte, sembrava immenso. Ed allora, come poteva averle detto davvero delle cose del genere? Non era quello il Bruce che aveva conosciuto. Non era il Bruce con cui aveva ballato allo studio di registrazione o con cui aveva brindato. Era un altro individuo, con le stesse sembianze, ma incapace di controllare la propria rabbia, le proprie emozioni. Eppure... magari pensava davvero quello, di lei. Magari non era davvero gentile e buono come sembrava. No, no, no. Doveva esserlo. Doveva. Nel petto, un fuoco di cui non conosceva l'origine bruciava selvaggiamente. No, non era il fumo, era qualcosa di più profondo... E l'unico nome che le veniva in mente era il suo. Quello di quell'uomo così dannatamente complicato.
“Ehi”, mormorò sommessamente una voce alle sue spalle. La conosceva anche troppo bene, quella cazzo di voce. Era quella che voleva sentire, l'unica il cui suono sembrava curarle e carezzarle l'anima. Ma era anche quella con cui avrebbe voluto chiudere... almeno per un bel po'.
“Ehi”, ripeté Bruce, probabilmente convinto che lei non lo avesse udito. Non si era neppure girata. Non voleva dargli quella soddisfazione, no. Inspirò profondamente un'altra boccata di fumo.
“Ti va di parlare?”, le domandò, sempre alle sue spalle. Avrebbe voluto guardarlo dritto nei suoi grandi occhi marroni, perdervisi, non ritrovare mai più la strada di casa... ma no, non poteva dargliela sempre vinta. Tutti, nella band, gliela davano vinta e quello che ottenevano era la sua testardaggine eccessiva.
Alla fine, lui le si avvicinò, poggiando i gomiti sulla balaustra, sfiorando il suo braccio. Non lo guardò, ma un tremito le attraversò le membra, fugace. Bruce sospirò, abbassando il capo.
“Facciamo così”, esclamò, con un sorriso triste stampato sulle labbra, che Patti riuscì appena a intravedere, “Io parlo. Te, se vuoi, ascolti. Solo se vuoi, però... Dopo oggi, penso di non poterti imporre nulla. Non lo farei comunque, ma dopo come mi sono comportato, men che mai”.
Si interruppe, fissando un punto distante, di fronte a sé. Patti si concesse di osservarlo, di sfiorarlo con lo sguardo: aveva un profilo spigoloso, impreciso, eppure c'era qualcosa di così raro e straordinario, come una contrapposizione di dolore e fierezza, in quei lineamenti duri, di dolcezza e rabbia, in quegli occhi che forse avevano visto fin troppo e facevano di tutto per trovare un po' di innocenza, un rifugio da quel fuoco che gli bruciava dentro e che nessuno sembrava capace o intenzionato a spegnere.
Patti avrebbe voluto essere la mano che lo carezzava, l'acqua che gli dava sollievo, la luce che lo guidava, ma avrebbe voluto essere anche il pugno nello stomaco che lo risvegliava da quel torpore che si era creato da solo e da cui non pareva essere capace di svegliarsi. Lo vedeva solo lei? Solo lei riusciva a guardare aldilà di quell'apparente sicurezza spesso tradita da un sospiro di troppo?
“Lo so che non appena credi di conoscermi un po' meglio, ti deludo sempre”, sputò infine fuori Bruce, parlando fin troppo veloce, senza praticamente respirare, “Non avrei voluto dire le cose che ho detto, prima. Probabilmente non avrei nemmeno dovuto chiamarvi nella mia stanza, stamani”.
Patti portò per l'ennesima volta la sigaretta alle labbra sottili. “Probabilmente”, confermò.
“Ma di notte io non dormo”, continuò, stringendosi nelle ampie spalle, “E' una lunga storia, dubito che ti interessi. Però, ecco... Tendo a riflettere e, dopo aver riflettuto, penso, penso, penso, e poi di nuovo, in un infinito circolo vizioso, non riesco proprio a smettere di macinare pensieri. Stanotte mi sembrava che... che la band non fosse all'altezza. L'ho percepito, come un macigno sullo stomaco. E la mattina volevo parlarvi, volevo essere franco con voi, ma non maleducato... Non so perché finisco sempre per essere aggressivo, cattivo, quando vorrei essere chiaro. È tutta la vita che cerco di capire come raggiungere le cose per cui morirei e per cui ucciderei, come entrare in armonia con esse e creare il mio equilibrio... è tutta la vita che voglio raggiungere le persone, non perderle. Ma le perdo e basta, a quanto pare”. I suoi occhi si fecero così scuri che neppure le luci della città parevano riflettervisi, avviluppate da quel buio.
“So che giustamente non te ne frega un cazzo, e so cosa penserai: che so sempre e solo parlare di me”, proseguì, nonostante Patti facesse di tutto per dimostrarsi disinteressata -con scarsi risultati, dato che il cuore le batteva all'impazzata-, “Ma sai perché ho scritto e registrato Nebraska? Sai perché ho composto un album così... così oscuro, triste, frustrato? Perché ero... cazzo”, si morse la lingua, come se faticasse a parlare, “Perché ero depresso”, mormorò in un soffio, e la voce gli si ruppe. Il cuore di Patti cominciò a galoppare, sempre di più, e le raggiunse le orecchie, le tempie, gli occhi che le si riempivano di lacrime. Schiacciò la sigaretta sulla balaustra e buttò il mozzicone. Lo osservò cadere, cadere, cadere.
“Sì, depresso. Lo diresti mai? Il ragazzetto allegro di Hungry Heart era depresso. Lo sto dicendo ora a te, perché finora non ho avuto il coraggio di dirlo a nessun altro, neppure a Clarence o Steve. Quel ragazzetto prendeva la sua macchina polverosa ogni fottuta notte e la guidava fino alla casa della sua infanzia e lì parcheggiava e la osservava... Alla ricerca di cosa? Di una visione del passato? Della possibilità di avere un'infanzia? Di una ragione... di una ragione per rimanere aggrappato a una vita ed una pelle che non sentiva più sue da tempo?”, parlava liberamente, come se volesse togliersi dalle spalle tutti quei turbamenti che lo affliggevano, “Tutti si allontanavano da me. Le donne mi portavano a letto e poi mi salutavano non appena le cose si facevano serie; gli amici andavano e venivano, ma sembravano non esserci mai quando avevo bisogno di qualcuno; ed i miei erano lontani e non chiamavano quasi mai, perché in fondo, io sono quello famoso della famiglia, no? Quindi devo stare bene, no? Non c'è ragione per cui possa stare male...”. Si fermò, come se non riuscisse più a parlare. Forse un lato di Patti non avrebbe voluto, ma il suo cuore ebbe la meglio sulla sua mente: allungò una mano sottile, morbida e bianca e la infilò gentilmente in quella callosa, abbronzata e calda di Bruce. Erano così diverse, l'una dall'altra, sembravano lo Yin e lo Yang. Sorrise, al pensiero. Cosa diamine le stava succedendo?
“Va' avanti”, lo incoraggiò, con una dolcezza nella voce che non sapeva di avere, “A me interessa quello che hai da dire. Sempre”. Con l'altra mano, gli sfiorò il volto malamente rasato, assaporando con la punta delle dita quella pelle ruvida e tiepida.
Il sorriso che Bruce le regalò, in risposta, illuminò tutto quanto intorno. Il cielo, l'erba, i palazzi... Forse se lo stava solo immaginando, o forse, forse... Non riuscì a formulare alcun pensiero, perché fu avvolta dal profumo ormai così familiare del suo dopobarba. Erano così vicini... così vicini.
“Mi chiamano il Boss, ma non è vero”, proseguì lui, guardandola fissa negli occhi, muovendo le labbra lentamente, “Nebraska ne è la prova: quello era un richiamo, una richiesta d'aiuto, un disperato tentativo di trovare qualcuno... di avere qualcuno al mio fianco. Non sto cercando di giustificarmi, sia chiaro: nessun fatto può giustificare i miei cambi d'umore. Niente può giustificare l'averti fatto piangere, l'averti ferita. È soltanto che... Io non sono capace di essere il Boss, Patti. Ecco, l'ho detto. Io ho bisogno degli altri. Ho bisogno di qualcuno che mi guardi le spalle... ed invece cosa faccio? Allontano tutto. E per cosa? Per la musica? Per le mie parole? Valgono l'abbraccio di un amico? Il bacio di una donna che ti ama? Valgono...”.
Patti non lo lasciò finire. Ogni parola le era rimbombata nel petto, sotto forma di battito del suo cuore, ed alla fine aveva ceduto alle sue emozioni: lo abbracciò di getto, circondandogli il collo con le braccia e intrecciando le dita nei suoi riccioli castani. Inspirò a pieni polmoni il suo profumo.
Lui rispose con trasporto alla stretta, tenendola tra le sua braccia: poteva sentire i suoi muscoli tesi nel tenerla vicina a sé, mentre poggiava il capo nell'incavo del suo collo. Si sentì protetta. Si sentì parte di qualcosa, qualcosa che non conosceva, ma che aveva un sapore intenso, dolce. Speciale.
“Scusa”, mormorò lui, la voce ovattata, “Scusami”.
Lei rafforzò la stretta. “Scuse accettate”, bisbigliò, “Ma non osare minimamente fare qualcosa del genere o insultarmi, ché mi incazzo davvero”.
Fu una sensazione incredibilmente piacevole udire la sua risata così vicina. Sembrava la melodia di una canzone così bella da non poter essere scritta.
“Ed è meglio non fare incazzare Patti Scialfa, lo so”, confermò lui, scherzoso. Lei fece un passo indietro, staccandosi dall'abbraccio, e lo guardò: la bocca carnosa schiusa in un sorriso, gli occhi lucidi nuovamente ricolmi di scintille e i capelli scompigliati.
“Questo è il Bruce che conosco”, commentò, riprendendogli la mano, “E di cui sono fiera di essere non solo collega, ma soprattutto amica”. Sapeva che era ciò che Bruce aveva bisogno di sentirsi confermare e voleva essere chiara con lui. Non aveva alcuna intenzione di fare come gli altri della band, che si tappavano la bocca, pur di vederlo comporre bene. Non erano cattivi, lo sapeva... Avevano solo un modo diverso di intendere l'amicizia: lei voleva che Bruce stesse bene. Il resto veniva dopo. Largamente dopo, a dirla proprio tutta.
Dopo qualche istante in cui rimasero ad osservarsi, sfiorati dolcemente dalla brezza, Patti decise di togliersi un dubbio. “Perché hai mandato Danny a chiamarmi, stamani? Voglio dire... non potevi venire tu? Non capisco”. Scrollò le spalle, interrogativa.
D'improvviso, Bruce parve vagamente imbarazzato. Si passò una mano sulla nuca, assumendo un'espressione buffa che poteva significare tutto o niente.
“Ecco, io...”, biascicò incerto, poi si passò la lingua sulle labbra e alzò il dito indice, come se si stesse convincendo da solo a fare la cosa giusta. Patti lo osservava, divertita. Le fece cenno di aspettare, poi rientrò nell'hotel; dopo qualche minuto tornò, con una valigia in mano. Lei lo fissò, piuttosto perplessa.
“Ho paura a chiedere cosa possa esserci dentro”, esclamò, dandogli un buffetto.
“Volevo fosse una sorpresa, per questo ho mandato Danny a chiamarti. Avevo intenzione di dartela nella mia stanza, una volta rimasti noi due”. Bruce si chinò ed aprì il bagaglio, stando ben attento, con fare scherzoso, a non far vedere alla donna quel che ne stava estraendo. La osservò malizioso. Fin troppo malizioso. Che diamine stava combinando?
“Chiudi gli occhi”, le disse, con un sogghigno che le faceva venire una gran voglia di prenderlo a schiaffi. E lo aveva già fatto, quindi sapeva di poter tranquillamente bissare.
“Devo proprio...?”, chiese, incrociando le braccia. Ammiccando, lui le fece capire che sì, doveva proprio. Maledetto. Patti chiuse gli occhi, sospirando, pronta a chissà quale scherzo infantile.
Sentì Bruce che si rialzava e le si avvicinava, finché non le disse che poteva finalmente guardare... E, da principio, non comprese affatto ciò che vide.
“Una maglietta da uomo con scritto sopra Broadway Motors?”, domandò, strizzando appena gli occhi, “Molto... interessante, ecco”.
“La maglietta è mia, in realtà”, aggiunse Bruce, stringendosi nelle spalle, “Ed adesso è tua”.
Patti non poté evitare di scoppiare a ridere. “Cosa?!?”, esclamò, incredula.
“Beh, ecco”, tentò di spiegarsi lui, “Tu sei una donna”.
“Molto acuto”, controbatté lei, che ormai aveva male alla pancia a forza di ridere.
“No, nel senso...”, cercò di difendersi lui, incespicando malamente sulle parole, “Il punto è... tu ti vesti molto bene. E tendi ad essere... parecchio sexy, diciamo”.
Lei non sapeva più cosa dirgli. Era una conversazione troppo surreale per essere vera. “E quindi...?”.
“E quindi...”, proseguì Bruce, impacciato, “Non vorrei che la gente... insomma, che loro... che prestassero solo attenzione a te, quando siamo sul palcoscenico”, concluse.
“Praticamente”, constatò sarcastica, ponendo le mani sui fianchi, “Non vuoi che ti rubi i riflettori”. Inarcò entrambe le sopracciglia, punzecchiandolo.
Lui alzò le mani, agitandole scompostamente. Era così imbranato, certe volte. “No, no, solo che... Dai, insomma, prendi questa fottuta maglietta ed infilatela!”, esclamò, passandosi le dita callose tra i capelli e alzando gli occhi al cielo.
“Ehi”, lo rimbeccò lei, facendogli la linguaccia, “Non c'è ragione di alzare la voce, cowboy!”.
Lui rise. “Mettitela e basta”, ripeté, sogghignando.
La maglia aveva un aspetto... vissuto. Patti non era neppure del tutto certa che fosse pulita e, anzi, a giudicare dall'odore, sembrava essere stata usata di recente. Riluttante, se la fece passare sulla testa e poi per le braccia, cercando di non inspirarne l'aroma. Quando finalmente la ebbe indosso, cercò di infilarla alla meno peggio nel pantaloni, sperando che, in quel modo, avrebbe avuto un aspetto vagamente femminile. Speranza ovviamente vana.
Bruce si stava visibilmente contenendo dallo scoppiare in una risata fragorosa e, per tutta risposta, lei lo fulminò con gli occhi smeraldo. “Non ti provare neppure a ridere”, intimò, protendendo l'indice verso il suo petto, “E' stata una tua idea”.
“Appunto”, confermò lui, “Ed è stata davvero un'idea geniale”. La luce del sole smorzata dalle nubi grige si appoggiava così dolcemente sui suoi lineamenti... Si piegò nuovamente sulla valigia e ne estrasse una polaroid, che impugnò con convinzione. Patti strabuzzò gli occhi e, inarcando le sopracciglia, si mise subito sulla difensiva.
“Non ci pensare neppure”, lo minacciò.
“Dai, soltanto una foto...”, la pregò Bruce, facendole gli occhi dolci. In quegli occhi castani le pareva di poter scorgere l'infinità dell'universo, un cielo pieno di stelle... la semplicità di un uomo che voleva rimediare ai propri errori. Patti imprecò: certe volte era davvero impossibile resistergli. Fece la linguaccia ed indicò la maglietta, mentre la macchina fotografica catturava quel momento. Risero in coro, subito dopo, nell'osservarla, con una consapevolezza nel cuore: una giornata così turbolenta non l'avrebbero mai dimenticata.

 

Casa Springsteen, New Jersey, 2015, ore 9:56
Il ricordo fece scuotere a Patti la testa rossa: quanto erano giovani, all'epoca. Due bombe sempre pronte ad esplodere, due cuori troppo affamati per non scontrarsi, ma anche troppo selvaggi e romantici per non entrare in sintonia. La loro sintonia era stata spontanea, ma quante problematiche si erano interposte tra loro: il loro orgoglio, la musica, la testardaggine... Avrebbero potuto evitare tanto dolore, ma non ne erano stati capaci. Avevano dovuto corrersi dietro per anni, sfiorandosi senza prendersi mai, ferendosi senza curarsi, e solo alla fine avevano capito. Ma quella era un'altra storia.
L'ennesima fitta alla caviglia la distolse dai propri pensieri... sperava davvero Bruce fosse nelle vicinanze, perché altrimenti era destinata a rimanere intrappolata in quella fottuta soffitta. Certo, poi magari avrebbero litigato. Ma mentre prendeva in mano la foto seguente, Patti rifletté su un dato oggettivo: alla fine, ogni loro scontro, si concludeva con più lati positivi che negativi. E, magari, anche una maglietta
Broadway Motors. Ma quella era tutt'altra questione.


Angolo dell'autrice:
Con un po' di ritardo, alla fine sono riuscita ad aggiornare. Perdonatemi, ma tra iscrizione all'università, eventi musicale ed estate in generale, non ho proprio avuto tempo. Inoltre, nonostante avessi un'idea piuttosto nitida di quel che volevo scrivere, il capitolo continuava sostanzialmente a lievitare sotto le mie dita: più scrivevo, più mi sentivo di aggiungere dettagli al capitolo... che infatti è infinito.
Nel prossimo episodio -che tra l'altro presenta una sorpresina che mi è balzata alla mente l'altra sera- dubito davvero che scriverò così tanto, ma non so comunque quando aggiornerò, dato che mi aspettano un paio di settimane in Sardegna. Ad ogni modo, non disperate se non mi vedete aggiornare (... sì, posso già immaginare la disperazione... molto credibile...) ed a presto.
Un ringraziamento speciale a Sabrina (sempre presente per i miei sfoghi di fangirl... ehi, tra l'altro ho trovato altri aneddoti in interviste che ho intenzione di usare!) e Merenwen, che è sempre pronta a recensire.
A presto (si spera!),

Elisa xx

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Capitolo 4
*** Break Your Heart ***


 

3. Break Your Heart


It would break your heart, if you knew me well.
See, I have run so far that I've lost myself.
And there are things I have seen that I never will tell.
They drove me out of my mind and inside of myself.

And oh, my my, it would break your heart,
If you knew how I loved you, if I showed you my scars,
If I played you my favorite song lying here, in the dark.
Oh my my, it would break your heart.

Autostrada del New Jersey, 2015, ore 9:47
La strada scorreva rapida e sfuocata sotto le ruote dell'auto sportiva, che ruggiva rabbiosa a tutta velocità. Il suo conducente, d'altra parte, non era meno irato del brontolio basso e continuo del motore: sulla fronte ampia campeggiava un'unica, lunga ruga d'espressione che, come una pennellata di un artista, trasformava radicalmente l'espressione del suo volto normalmente disteso e sorridente, mutandola in una sorta di insieme di ombre di rabbia e frustrazione.
C'era una sola cosa al mondo che Bruce detestava più di litigare, ed era litigare parlando al telefono: quegli aggeggi infernali erano il modo migliore per non capirsi e creare problemi, era sempre così. Certe volte banalità, spiegate al telefono, apparivano complicate ed impossibili come affari di stato... un po' come era appena successo con Patti, pochi minuti prima.
Era vero, lui sarebbe dovuto essere più gentile, meno impulsivo e sbrigativo, ma la sua sbadataggine lo aveva talmente tanto innervosito: erano giorni che si riprometteva di cercare e portare con sé le foto che servivano per il box set e poi, come al solito, se ne era completamente scordato. Diamine, odiava alla follia essere così distratto. E la sua rabbia, ovviamente, invece che sfogarsi su lui stesso, si rifletteva sugli altri... così, non appena aveva chiamato Patti per domandarle se poteva trovarle al posto suo, si era posto con arroganza e sufficienza.
Abbassò il capo, scuotendolo, distogliendo per qualche istante lo sguardo dalla strada, che sembrava tutta uguale, infinita. Maledizione, voleva soltanto arrivare a casa a Rumson il prima possibile. Rafforzò la presa sul volante, come per darsi forza.
Certo, avrebbe dovuto parlare con Patti, appena arrivato a casa... doveva solo sperare che il suo lato più orgoglioso e testardo non prendesse la meglio, perché altrimenti avrebbero certamente litigato. Sospirò: era molto migliorato rispetto a quando era giovane, ma spesso non era comunque abbastanza. Quando aveva una trentina di anni si impuntava su ogni idiozia e fargli cambiare idea era del tutto impossibile ed, anzi, ogni tentativo di persuaderlo si trasformava automaticamente in una ragione, per lui, per ribadire ancora di più le proprie granitiche convinzioni. Adesso, quantomeno, farlo ragionare era possibile: Patti, a forza di lavate di capo ed incazzature, gli aveva fatto notare questo suo aspetto e lui ci aveva lavorato.
Lei aveva questo potere, su di lui: quello di fargli vedere chi era e decidere se cambiare. Adorava quell'aspetto di lei: quella sua innata capacità di guardare aldilà della sua apparente sicurezza, cogliendo ogni debolezza e dubbio e mettendoli a nudo. Certe volte lo innervosiva, certo, perché gli sembrava di non essere capace di restituirle altrettanto: la notte la stringeva forte, come quando erano ancora giovani ed il loro amore neonato, e sperava di riuscire ad essere l'uomo di cui lei aveva bisogno, che lei voleva al proprio fianco per il resto della vita. Sperava che lei lo desiderasse ancora e non smettesse mai. La loro relazione aveva sicuramente del romantico, ecco.
Eppure gli capitava comunque di discutere, animatamente, come quella mattina. Gli capitava comunque di ferirsi, talvolta anche intenzionalmente, senza neppure mormorare una scusa. Si strinse nelle spalle da solo: forse era così che funzionavano le relazioni durature...
No, doveva piantarla di pensare. Quando metteva in funzione gli ingranaggi del cervello, quelli cominciavano a mostrargli improbabili visioni oscure e distorte del futuro. E di tutto aveva bisogno, in quel momento, tranne che di altri pensieri negativi.
Accese la radio ed aumentò il volume al massimo, per evitare di dover riflettere, ma la sorte non fu così benigna: la stazione, infatti, stava trasmettendo
Bobby Jean. Cristo, quanto cazzo odiava ascoltare la propria musica alla radio.
Fece per cambiare frequenza, ma la sua mano protesa si bloccò a mezz'aria, per poi ritrarsi: tutto ad un tratto, un antico ricordo gli era tornato prepotentemente alla memoria. Sì, proprio a causa di quella canzone che aveva cantato centinaia di volte. Sorrise sornione tra sé e sé. Quanto tempo era passato? Trenta anni, forse? Non ne era certo, gli sembrava una vita. Si grattò la barba ingrigita e rada, mentre i suoi occhi vagavano sulla linea dell'orizzonte, come alla ricerca di qualcosa, della capacità di ricordare.
Pian piano, il suono del motore si fece più intenso, cantilenante, e la melodia familiare si fece più forte: ormai non udiva più niente, solo quelle note lo circondavano, nient'altro, ed i ricordi cominciarono lentamente a riaffiorare...

In un hotel da qualche parte negli States, 1984

Erano due le ragioni per cui Bruce adorava i concerti: prima di tutto, poteva fare l'idiota per tre ore ininterrottamente senza che nessuno lo giudicasse; e poi, soprattutto, amava l'adrenalina e l'euforia che gli rimaneva come attaccata alla pelle dopo aver finito di suonare. Si sentiva leggero, spensierato, ed anche se era sfinito e sudato, non riusciva mai a dormire.
Al contrario, spesso continuava per ore ed ore a vagare per i corridoio dell'hotel in cui alloggiava, indeciso se tornare in camera e cercare di concedersi un po' di riposo, uscire a fare baldoria o starsene semplicemente lì a ripensare a tutti i momenti più belli ed emozionanti della serata di musica che si era appena conclusa. La prima opzione veniva scartata a prescindere, dato che la sua insonnia non gli dava pace, ed anche la seconda era quasi sempre impraticabile, considerato che spesso i ragazzi della band erano davvero troppo esausti per uscire con lui; dunque, alla fine, il verdetto era sempre il medesimo: si faceva una doccia veloce, calda, e, coi capelli ricci ancora bagnati, si passava un asciugamano intorno alle spalle ed usciva a torso nudo dalla camera, alla ricerca di un punto dell'hotel isolato e confortevole dove poteva andare a rifugiarsi coi propri pensieri. Era diventato quasi un rituale, ormai.
Quella sera uscì dalla propria camera silenzioso, con le mani in tasca, e si mise come al solito alla ricerca del proprio angolo di riflessione. L'ambiente era immerso nel più assoluto silenzio, interrotto soltanto da un sommesso russare proveniente dalla camera di Roy e da un parlottare concitato che sembrava giungere dalla stanza di Clarence: come al solito, Big Man aveva bisogno di guardare la TV per addormentarsi. Sorrise e scosse la testa ancora umida per la doccia, per poi riprendere a camminare.
L'aria fresca del corridoio gli carezzò la pelle nuda del petto, solleticandolo appena e facendogli venire i brividi: era quello che lo emozionava così tanto od i ricordi vividi di quella serata passata a suonare rock'n'roll coi suoi migliori amici?
No, doveva essere cauto. Doveva attendere: finché non avesse trovato il suo rifugio, non doveva farsi cogliere impreparato dalle memorie.
Non impiegò che qualche minuto prima di trovare un cantuccio che sembrava fare al caso suo: accanto ad un ripostiglio delle scope, sotto una luce che funzionava solo a scatti, dando all'ambiente circostante un aspetto abbastanza lugubre, era appoggiata una brandina sprovvista di materasso. Che un inserviente l'avesse tirata fuori per qualche ragione scordandosi poi di rimetterla a posto?
Beh, ad ogni modo non gli importava. Era perfetta per il suo scopo.
Mettendosi in ginocchio, la aprì e la sistemò per lungo nel corridoio, per poi stendervisi supino con un lieve sospirò. La branda rispose al contatto col suo corpo con un cigolio abbastanza inquietante: che fosse stata messa lì perché era rotta e doveva essere buttata via?
Beh, ormai non valeva assolutamente la pena pensarci più di tanto. Chiuse lentamente i grandi occhi marroni e intrecciò le mani sulla pancia. Ecco, adesso poteva concedersi di volare via con la fantasia, fondendola con i ricordi di quella sera e con le sue opinioni: aveva scoperto che non esisteva modo migliore per fissare nella mente i bei momenti della sua vita. Perché no, non voleva perderli.
Quella notte le prime memorie che affiorarono nella sua mente euforica furono le note di una sua canzone, ma non una a caso: era proprio Bobby Jean. Era una canzone un po' inusuale, quella, per il suo modo di scrivere: aveva già parlato di amicizia nei suoi testi, ma mai in modo genuino e spontaneo come in quel brano. In Backstreets, ad esempio, il protagonista e Terry sembravano ruotare l'uno intorno a l'altro legati da un rapporto di amore incondizionato e, al tempo stesso, di odio, vendetta, in una vita di malinconia e rabbia; in Bobby Jean le emozioni espresse erano ben diverse: c'era nostalgia, ma soprattutto, tanto, tanto affetto e comprensione.
Spesso i giornalisti gli domandavano se l'avesse scritta per Steven, dopo che gli aveva annunciato che voleva lasciare la band... A dirla tutta, non lo sapeva nemmeno lui. Forse era stato inconsapevolmente condizionato dalla sua partenza. O forse quello di cui voleva parlare era di un'amicizia che supera spazio, tempo ed incomprensione. Un'amicizia che può durare nonostante tutto e tutti.
Un altro brivido lo percorse, e stavolta sapeva per certo che non era stava l'aria ventilata dell'hotel a provocarglielo.
No, era proprio ripensare così intensamente a Bobby Jean che lo faceva lievemente tremare, dopo il concerto appena trascorso e per una sola ragione: l'aveva cantata duettando con Patti.
Un sorriso appena abbozzato si dipinse sui suoi lineamenti stanchi: già di per sé era meraviglioso avere Patti sul palco, dato che era molto energica e spigliata, ma quando poi si mettevano a cantare insieme, allo stesso microfono... Si creava qualcosa di molto simile alla magia: il modo in cui si guardavano negli occhi, senza mai abbassare lo sguardo, la maniera in cui la sua voce alta e soffice si univa ed intrecciava sinuosamente alla sua, roca e potente, l'energia che si instaurava tra i loro corpi sudati che si muovevano a ritmo di musica...
E poi, appunto, avevano cantato Bobby Jean. Mica una cazzata qualsiasi.
Guardarla nei suoi grandi occhi smeraldo mentre pronunciava le parole “non ci sarà più nessuno da nessuna parte o che in nessun modo potrà capirmi come facevi tu”, lo faceva emozionare. Era bello, era come... come se mentre armonizzavano la melodia di quel brano si fossero fatti l'ennesima promessa, quella di un'amicizia che non sarebbe mai stata tradita. E Bruce non poteva negarlo: ne aveva bisogno, di promesse simili. Se poi arrivavano da una come Patti, allora, a maggior ragione.
Aveva scoperto in quella ragazza dai modo gentili ma decisi ed i capelli color fuoco una confidente come non immaginava potessero essercene altre al mondo: insomma, era vero, anche con Steve e Clarence parlava liberamente del più e del meno, ma su certi argomenti... su certi argomenti proprio si bloccava, non riusciva a sfogarsi, come se avesse timore a mostrare i propri lati più deboli e nascosti, come se mostrare quei suoi anfratti nascosti e ricolmi di timore, li avrebbe allontanati od avrebbe fatto perdere loro il rispetto che normalmente nutrivano per lui.
Con Patti, invece, era tutt'altra questione: era lei a spronarlo senza posa perché si confidasse, perché non avesse timore a rivelare ciò che davvero era. Lei non odiava i suoi difetti: lei li individuava e cercava di comprenderli con lui, di capirli e, se possibile, trovar loro una risoluzione.
Era bella, intelligente e sensibile... Era quasi dispiaciuto che fosse nella band. No, okay, era davvero una cosa cattiva da dire. A disagio per quel pensieri si rigirò appena nella brandina, che per la seconda volta cigolò ancora più acutamente. Non è che gli dispiacesse... Soltanto che facendo parte della band, non se la sentiva di avvicinarsi troppo a lei: potevano essere amici, ma niente di più. Era una regola: ciò che faceva parte della band, lì doveva rimanere.
Ciononostante, loro due si volevano bene. E ciò era abbastanza: aveva trovato qualcuno... gli mancava da tanto tempo, avere qualcuno. Un qualcuno, tra l'altro, ferito come lui: perché sì, anche se Patti non parlava mai troppo di sé, Bruce aveva intuito qualcosa, di lei... una sorta di ombra che incombeva minacciosa sul suo passato e che ogni tanto tornava ad insidiarla. L'aveva notata in un'ombra fugace nei suoi occhi color smeraldo, in un sospirò sin troppo lungo, in un repentino irrigidimento del suo corpo o in un lieve tremolio nelle sue mani. L'aveva vista con fin troppa chiarezza quando l'aveva ridotta in lacrime, il giorno dell'inizio del tour. Un magone lo assalì, al pensiero. Si era ripromesso che mai, mai più avrebbe agito in quella maniera, così ingiusta, così crudele... Anzi, ora come ora, il suo scopo era quello di comprendere l'oscurità che si celava nel cuore di Patti ed aiutarla ad espellerla.
Perché lei faceva tanto, sin troppo, per lui. E lui non voleva deluderla.
Nella sua mente, le note di Bobby Jean ripresero ad essere nitide, chiare, come se la stesse ancora suonando in quell'istante; spostandosi appena con la schiena, protese entrambe le braccia di fronte a sé. Gli occhi erano ancora serrati. Poi, con le mani, cominciò a fare la cosa più semplice e infantile del mondo: si mise a mimare una chitarra.
D'altronde, ognuno si rilassava come preferiva. E quello era il suo modo.
Ma quel momento di pace era destinato a durare ben poco: d'un tratto, infatti, un urlo acuto e lancinante gli fece spalancare gli occhi di colpo. Cosa diamine poteva essere stato? Come una molla, schizzò a sedere sulla brandina che, abbastanza ironicamente, non resse a quel movimento tanto veloce e si richiuse all'improvviso, colpendo Bruce e facendolo cascare sonoramente per terra. Con la sua solita sfortuna, il viso fu la prima parte del corpo ad impattare con una certa violenza il pavimento.
Imprecò a denti stretti, ma la preoccupazione superò la rabbia: era praticamente certo di conoscere la voce che aveva lanciato il grido. Dolorante, si tirò in piedi velocemente e rimase immobile, in ascolto, per essere certo di non aver soltanto preso un abbaglio; quando stava per lasciar perdere, giunse un secondo grido, più breve, ma altrettanto acuto... ed adesso che vi aveva prestato attenzione non aveva alcun dubbio: si trattava di Patti. Era stata lei. Deglutì, strabuzzando gli occhi, e il cuore parve balzargli in gola. Cosa diamine poteva esserle successo?

Non ci pensò due volte prima di cominciare a correre a perdifiato verso la stanza dell'amica, contraendo ritmicamente i muscoli di mani e gambe. Non voleva essere preoccupato, magari non ce n'era alcuna ragione: magari non era stata lei o magari... Beh, non lo sapeva, ma doveva assolutamente essere sicuro che tutto andasse bene. Doveva.
Non impiegò che qualche secondo ad arrivare a destinazione, tanto si scapicollò e, immediatamente, trafelato, iniziò a bussare ripetutamente alla porta, chiamandola.
“Patti?”, gridò, col fiatone, “Tutto bene?”.
“Bruce?”, sentì rispondere da una voce decisamente spaventata all'interno della stanza, “Entra!”.
“Stai bene?”, le domandò prontamente, rasserenato dall'averla udita.
“Tu entra!”, berciò lei, con il tono un po' più alto. Bruce non era del tutto certo se dovesse preoccuparsi o ridere.
“E come dovrei fare? Non mi risulta di avere la chiave della...”.
Prima che potesse concludere la frase, Patti lo interruppe. “Imbecille, è aperto!”.
L'uomo scosse la testa riccioluta ed ancora umida: se trovava tante energie per insultarlo, forse non era poi in grave pericolo. Poco male: non gli dispiaceva farle visita.
“Eri in attesa di un appuntamento galante?”, domandò, marcatamente sarcastico, “E' l'unica spiegazione logica che riesco a dare ad una porta aperta nel cuore della...”.
Piantala di scherzare ed entra!”.
Bruce a stento contenne una risata e, stringendosi nelle spalle muscolose, irruppe nella camera, con fare volutamente eccessivamente enfatico: si sentiva un po' come James Bond, ma gli mancavano sia i centimetri che lo charme, per assomigliargli. Per non parlare di un buon Martini! Cosa avrebbe dato per averne uno sottomano.
Appena varcato l'uscio, la scena che gli si parò davanti lo stupì e stavolta ogni sforzo fu vano: una risata scrosciante proruppe dalle sue labbra carnose.
Non c'è nulla da ridere!”, esclamò offesa Patti; era stesa a letto, immobile, spettinata, e sulla sua camicia da notte, all'altezza della pancia, una cavalletta lunga almeno sei centimetri la scrutava, imperturbabile. La donna ricambiava lo sguardo dell'imponente insetto, ma nei suoi occhi verdi si notava un terrore che di certo non era presente in quelli della bestia.
Ecco la vera origine di quelle urla notturne che tanto lo avevano spaventato... e che gli avevano fatto rimediare una bella botta al viso. Sogghignando, chiuse la porta alle proprie spalle, e si appoggiò al muro, con le braccia conserte.
“Vi state sfidando?”, domandò, con un gesto della mano, “La prima che distoglie lo sguardo perde?”.
“Non è affatto divertente!”, si lamentò lei.
“Strano”, rispose lui, “Io mi sto divertendo. E nemmeno poco”.
Probabilmente, in un'altra occasione, Pats lo avrebbe letteralmente fulminato per una affermazione del genere, ma al momento era troppo occupata a tenere d'occhio la sua nemesi. “Smettila di fare lo spiritoso e toglimi questo coso di dosso!”, si limitò a biascicare quindi, con tono di rimprovero.
“E io che ci guadagno?”, chiese, protendendo le labbra.
Patti sospirò. “Immagino che la mia eterna gratitudine non sia abbastanza”.
Bruce si rilassò ancora di più contro il muro della camera e parve riflettere... in modo molto plateale. Dopo quasi un minuto, infine, si decise a parlare. “Me la farò bastare, dai”, commentò, prendendola in giro.
Si avvicinò pian piano al letto dell'amica, facendo attenzione ad essere silente... Non voleva spaventare l'animale. Se lo avesse fatto, chissà dove sarebbe volato! Ma soprattutto, chissà che urlo acuto avrebbe lanciato Patti. No, decisamente, preferiva di gran lunga essere silenzioso.
Quando infine si trovò a mezzo metro dalla temibile cavalletta trattenne il respiro e, concentrato, la afferrò con due dita, con una delicatezza che di solito riservava solo alle donne. Nell'atto, sfiorò appena il candido tessuto della camicia da notte di Patti. Lei parve sussultare al contatto e, per poco, non fece volare via la bestiaccia... ma Bruce fu cauto e, imprigionandola nel palmo della mano, la portò alla finestra e lì la liberò. L'insetto parve indispettito dall'essere stato così bruscamente sfrattato e se ne volò via, senza neppure guardarsi indietro.
“Alla prossima, piccoletta”, mormorò Bruce, osservando l'oscurità della notte con fare romantico.
Udì Patti mettersi a sedere sul letto, dietro di lui. “Grazie”, balbettò, forse leggermente imbarazzata.
L'uomo si girò e la guardò: era molto bella, alla luce pallida della luna, mischiata come in una tavolozza di colori al giallo delicato della lampada posata sul comodino. La sua pelle pareva perla, ceramica, grano appena tagliato... Si riscosse dai propri pensieri, indossando nuovamente il proprio miglior sorriso ironico.
“Non ti facevo una di quelle donne terrorizzate dagli insetti”, la punzecchiò, gustandosi ancora la sua vista, con indifferenza. Quella massa disordinata di capelli rossi gli ricordavano i campi di papaveri accanto alla sua casa, ed il modo in cui ondeggiavano sensualmente alle carezze del vento, il loro odore intenso, inebriante...
“Non lo sono”, borbottò lei, “Almeno, non di solito. Mi piacciono anche, alcuni insetti. Solo che le cavallette... saltano, ecco”.
“Considerazione acuta”, la canzonò lui.
“Hai capito cosa intendo”, ribatté prontamente Patti, sistemandosi la frangia con un gesto di impazienza, “Non sai mai cosa diamine potrebbero fare”.
“Hai ragione”, confermò Bruce, grattandosi pensosamente il mento rasato, “Potrebbero pianificare la conquista del mondo, grazie alle loro incredibili capacità”.
“Smettila”, tagliò corto Patti, cercando di nascondere il rossore che si era impadronito delle sue guance e le sue orecchie, continuando a passarsi le dita tra i capelli, sempre più nervosamente. Bruce andò a sederle accanto, sul letto, e lì si specchiò nelle sue iridi. Le sorrise, mentre con una mano callosa le toglieva dolcemente la frangia da sopra gli occhi.
“Faccio l'ultima considerazione, poi giuro che la smetto”, esordì, “Potevi evitare di gridare in quel modo nel bel mezzo della notte per un animaletto”.
Lei abbozzò un sorrisetto, ma dal modo in cui abbassò il capo, cercando di evitare il suo sguardo, Bruce intuì che dovesse esserci qualcosa che gli teneva nascosto. O, perlomeno, qualcosa che lei non gli aveva detto. D'altronde lo sapeva: c'era un'oscurità nel passato di quella donna che voleva scoprire, ma solo per portarle nuova luce. Per concederle un focolare sicuro.
“Ho detto qualcosa di sbagliato?”, le domandò, pacatamente.
Lei sospirò appena e arricciò le labbra un istante, prima di parlare. “Ho... La seconda volta ho urlato per la cavalletta, lo ammetto, la prima, però...”. Si interruppe. Bruce percepì interiormente un bisogno: voleva guardarla negli occhi. Le afferrò il mento con delicatezza e si perse in quei lineamenti così unici, semplici, eppure misteriosi al tempo stesso.
“Lo sai che puoi dirmi tutto, vero?”, la rassicurò, passandole un braccio attorno alle spalle, “Tu ci sei sempre per me. Io, invece, no. No, non dire nulla. So che è così. Non sono un amico ideale, ne abbiamo già parlato. Ma posso migliorare... anzi, lo desidero”.
“Non... non so se ti interessa”, si limitò a replicare lei, chiudendosi nelle spalle. Bruce notò solo allora le piccole lentiggini che le ricoprivano le braccia, minuscole, colorate, dolci, come pennellate di un quadro puntinista.
“Perché non dovrebbe?”, chiese lui, aggrottando le sopracciglia con aria d'incomprensione.
“Perché... Beh, perché la mia vita non è la tua, Bruce. Tu hai avuto un'infanzia difficile, un'adolescenza quasi peggiore e nessuno ti ha mai regalato niente. La mia esistenza è complicata a causa mia. Sono io che la rendo tale, inseguendo sogni impossibili, complicando sempre tutto, riflettendo sin troppo... No, la mia vita non è la tua”.
“Cosa c'entra?!”, sbottò lui, poi si ricompose, rendendosi conto che il suo tono aveva turbato Patti, “Patti, parlami. Ti prego”.
“Ti spezzerebbe il cuore, se tu sapessi tutto quanto”, mormorò lei, appoggiandosi al suo petto, forse proprio per ascoltare il suo battito cardiaco. Bruce si stupì nel sentirsi sussultare al contatto della sua guancia morbida contro il suo corpo.
“Non ti preoccupare”, le rispose, tenendola stretta a sé, “Se qualcuno mi deve spezzare il cuore, sono contento sia la migliore amica, e non qualche ragazza snob con la puzza sotto il naso”.
Percepì le labbra di Patti che si incurvavano in un sorriso dolce e malinconico contro la pelle del suo busto. E poi, lei incominciò a parlare.
“La prima volta che ho urlato, stanotte, non è stato per un insetto o qualche banalità del genere... Beh, forse sì, si trattava di una banalità, ma ogni tanto sono proprio quelle a complicarci la vita. Stavo dormendo. Dormivo e sognavo: ero tornata ad Asbury e cantavo, sul palco. Non ricordo cosa, ma era una canzone bellissima, potente, e tutti mi guardavano, dal basso. Mi ammiravano. Era strano, era perversamente... appagante. Ma come ogni sogno appagante che faccio, era destinato a finire: ad un certo punto la mia voce si è mutata in un soffio, poi un rantolio, che mano a mano si faceva più basso e indistinto. Alla fine, non cantavo più: ero muta. Ma tutti continuavano a osservarmi, e nei loro occhi c'era scherno, sulle loro labbra risate scroscianti. Volevo scappare, ma non potevo. In quel momento i miei genitori sono arrivati ed hanno iniziato ad urlarmi quelli che sono i loro soliti rimproveri: Quando ti troverai un vero lavoro? Dovresti mettere su famiglia! Allora mi sono svegliata, coi loro visi impressi ancora sotto le mie palpebre... il punto è che... loro mi vogliono bene, mi sostengono, ma hanno paura che non diventerò mai nessuno. Vorrebbero nascondere questa loro paura, ma non ci riescono. Perché non posso semplicemente essere la figlia modello, con dei bambini ed un marito? Non lo so... vorrei esserlo, davvero, ma... quella... quella non sono e non posso essere io!”.
La sua voce si ruppe in un singhiozzo. Bruce la strinse forte, cullandola appena. Per lui era strano ascoltare qualcuno che apriva così il proprio cuore. Era straordinario e straziante al tempo stesso.
“Sei alla ricerca di una vita stabile, ma continui a seguire i tuoi sogni?”, le domandò. Lei fece di sì col capo rosso. “Allora non siamo poi diversi”, le mormorò, carezzandole i capelli. No, erano davvero simili, in maniera pericolosa e meravigliosa.
“Sai perché...”, cominciò Patti, che dovette interrompersi per un istante per prendere fiato, “Sai perché ti ho compreso così bene quando mi hai parlato della tua depressione?”.
Un groppo in gola assalì Bruce, che aveva intuito quel che l'amica stava per rivelargli.
“Perché lo sono stata anche io. Depressa, intendo”, concluse, prendendo la mano di Bruce, come se fosse un'ancora di salvezza che potesse salvarla dalla tempesta, “Non ho mai capito del tutto perché. Forse proprio per quello che hai detto tu, sì: non ero capace di trovare equilibrio. E per una donna, immagino, è anche peggio: per molti dovremmo limitarci ad essere madri, senza avere libertà. Solo che io non sono mai riuscita a equilibrare le libertà coi doveri, sono sempre stata un disastro. Ho perso l'identità, la sicurezza in me stessa, ho vissuto nella paura di scomparire... Ho anche cominciato a bere. Non è stato facile... uscirne, per così dire. Immagino non se ne esca mai del tutto”.
“Cazzo”, esclamò in un soffio l'uomo, “Perché non me lo hai detto quella sera a St. Paul?”.
“Perché dovevo dirtelo? Stavamo parlando di te e non volevo...”.
“No”, ringhiò Bruce, stringendo la mano libera a pugno, “No, Patti, era di te che stavamo parlando. Di come ti avevo ferito. Io volevo saperlo, Patti, io...”.
Lei lo interruppe, sedendogli di fronte. Il rossore chiazzato tipico del pianto le ricopriva delicatamente il volto pallido. I suoi occhi era rilucenti come non mai. “Non alzare la voce”, lo pregò, ma stavolta parlò con fermezza, con decisione. Qualcosa era cambiato.
“A me basta che tu sia qui ora”, concluse, ed un sorriso sottile si dipinse sulle sue labbra. Un sorriso che risvegliò qualcosa in Bruce, qualcosa che però non seppe riconoscere.
Sì, quella donna gli aveva spezzato il cuore. Perché era bella, era complicata, era simpatica, era gentile, era sofisticata ed era semplice, era furba ed era ingenua, era forte ed era delicata. Perché nel suo passato vedeva anche il proprio. Perché, perché... non lo sapeva nemmeno lui.
Si limitò ad abbracciarla. “Sono tuo amico, Pats”, le bisbigliò, “Ovvio che ci sono”.

Autostrada del New Jersey, ore 9;52
Soltanto più tardi Patti si era accorta del grosso livido sul viso che si era beccato per colpa della caduta dalla brandina e quello era stato un pretesto per prenderlo in giro. Ricominciare a scherzare gli aveva fatto piacere: era più bravo a dire cazzate che a confrontarsi con le proprie emozioni.
Spinse un po' di più sul pedale dell'acceleratore, cercando di coprire col motore il battito del suo cuore: era tanto che non ripensava a quella serata e, ora che lo aveva fatto, avrebbe voluto avere Patti tra le braccia, per cullarla, abbracciarla, baciarla, far l'amore con lei. Fare tutto quello che quella notte non aveva fatto, spaventato di poter provare sentimenti per un membro della propria band. Voleva dirle che l'amava. Anche se avevano litigato, sì. Forse soprattutto per quello.
Il sole pallido del New Jersey lo baciò, mentre la macchina si dirigeva sempre più velocemente verso l'orizzonte, verso casa.

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Capitolo 5
*** Heartbreak Warfare ***


 

4. Heartbreak Warfare

"Clouds of sulfur in the air
Bombs are falling everywhere
It's heartbreak warfare
Once you want it to begin,
No one really ever wins
In heartbreak warfare.
If you want more love why don't you say so?"

Casa Springsteen, New Jersey, ore 9:58
Tutti quei ricordi profondi e meravigliosi avevano invaso il cuore di Patti, facendola sorridere e, qualche volta, quasi commuovere. Era così bello passeggiare in quegli angoli reconditi della sua memoria. Le sembrava di tornare a quei tempi, di poter rivedere il volto di Bruce senza rughe o capelli bianchi, e le sue mani ancora lisce e rosee.
Ma non tutti i ricordi potevano essere piacevoli, lo sapeva. Né avere sempre un lieto fine.
La foto che raccolse qualche istante dopo ne fu la prova: erano lei e Bruce, seduti accanto ad un bar. Era sera. La luce della luna li avvolgeva con riflessi argentei. Data: 1986.
Sembravano felici, sembrava che tutto andasse per il meglio. Che la loro amicizia fosse sempre genuina, forte e senza limiti. Già, sembrava. Eppure non era affatto così.
Sapeva quando era stata scattata, era poco prima del Natale 1986. Ricordava tutto. Anche che quei sorrisi stampati sui loro visi, all'apparenza così spensierati, celavano mille ombre ed incomprensioni.


In un pub, da qualche parte nel New Jersey, Dicembre 1986
“Ti amo”.
Quante volte quelle due parole avevano sfiorato le labbra di Patti, veloci e dolci come una carezza a lungo agognata, per poi abbandonarla, lasciandola boccheggiante inerte, tremante. E non per il dubbio. No, per il dubbio non c’era più spazio da tanto, tanto tempo.
Non era una che si innamorava spesso, lei. Cioè, sì, ma non di uomini. Si innamorava delle note di una canzone, della sfumatura di blu del cielo mattutino, del sapore salato dell’aria di mare, della dolce malinconia che accompagnava la fine di qualcosa e della scarica euforica di adrenalina che sottolineava un nuovo inizio. Era facile, innamorarsi di tutto ciò. Del pulsante cuore della vita.
Ma innamorarsi di un uomo? No, quello era del tutto diverso.
Per innamorarsi di un uomo, non si poteva seguire soltanto lo stomaco, l’istinto: era necessaria fiducia, rispetto, comprensione. E Patti era sempre stata pressoché convinta che fosse impossibile trovare tutto ciò in un’unica persona.
Tutto ciò, prima di conoscere Bruce.
Ecco! Il più classico dei cliché! La ragazza senza un soldo che entra nella band e si innamora del cantante. Dio, si odiava per questo.
Aveva tentato di combattere con le sue emozioni, con quei sentimenti che le bussavano forte nel petto, facendola spesso arrossire ed abbassare lo sguardo, ma tutto era stato vano. Per anni aveva negato agli altri –e, soprattutto, a se stessa- di provare qualcosa per Bruce.
Clarence era stato il primo a capirlo… lo aveva capito ancora prima di lei. Una sera, dopo un concerto, l’aveva fermata per bere qualcosa ed avevano parlato. O meglio, Clarence aveva parlato… lei si era perlopiù limitata ad ascoltare. Le aveva detto che vedeva cosa covava nei suoi occhi, che aveva capito che si era innamorata di Bruce. Quell’affermazione l’aveva stupita, sul momento, al punto che quasi si era strozzata con la propria birra: lei, innamorata di Bruce? No! Assolutamente no! Clarence, però, aveva riso. Lui sapeva.
“Patti, io te lo dico da amico: lascialo andare”, le aveva consigliato, guardandola dritto negli occhi, “Lui ha troppa paura di non riuscire ad avere una vita normale, per stare con te. Se tu fossi… un’attrice, una commessa, un’infermiera… forse vedrebbe il tuo amore. Forse si concederebbe di ricambiarlo… Ma tu sei una cantante. Un’artista, una compositrice, un’anima tormentata ed oscura… come lui. E per questo Bruce non ti vedrà mai come fonte di equilibrio, di quella stabilità che tanto agogna. Tu sei una dei ragazzi, una della band. È questo il problema”.
Non aveva dormito, quella notte. Se si fosse addormentata, probabilmente, avrebbe sognato Bruce, con il suo sorriso aperto, i suoi occhi immensi come il cielo notturno, i suoi riccioli castani, quel suo fisico statuario. Con le sue parole sfrontate e quelle dolci, con le sue grida ed i suoi capricci, con i suoi abbracci e la sua comprensione.
Per tutta la vita si era convinta di non potersi innamorare. Di star cercando qualcosa che era impossibile da trovare o richiedere in un essere umano. Ma Bruce era diverso.
No, lui non era perfetto. Era uno stronzo, quando voleva, e la band aveva fatto di tutto perché diventasse un capriccioso tremendo. Eppure… lei voleva quel corpo e quell’anima. Perché? Perché combaciavano esattamente con i suoi. Quando lui la guardava, i suoi occhi le scavavano dentro. Sembravano voler lenire quel dolore di cui Patti si faceva carico da sempre. Quando le parlava, la sua voce le raccontava storie di speranza ed amore. Quando le si avvicinava, il suo corpo era così caldo, come un focolare sicuro. I suoi abbracci erano armature contro il mondo, le loro telefonate infinite erano romanzi d’avventura, le loro chiacchierate notturne universi paralleli dove tutto era al proprio posto, tutto aveva senso e nessuno rimaneva solo.
“Ti amo”.
Quante volte avrebbe voluto dirglielo, dopo aver capito. Ma tutte le volte, si era rimangiata le parole. L’aveva addirittura incoraggiato, quando aveva incontrato una nuova donna. Sapeva che era importante, per lui, trovare qualcuno. Ne avevano parlato a lungo, anche se lui ogni tanto sembrava quasi sentirsi in imbarazzo nel raccontarle dei suoi bisogno, dei suoi sogni, delle sue delusioni. Lui aveva bisogno di equilibrio, di una vita normale. Di avere al proprio fianco qualcuno che sapesse farlo camminare sul giusto sentiero, senza mai sbandare.
E perché non poteva essere lei?
Quella domanda le era spesso rimbalzata in testa, ma l’aveva scacciata. Era stato Clarence a rispondere: lei era una dei ragazzi. Lei non lo avrebbe mai reso felice… bastava vedere come litigavano, d’altra parte. Alzavano la voce, si ferivano, si arrabbiavano. Lo facevano l'uno per il bene l'uno dell'altro ed erano sempre litigate che si risolvevano nel migliore dei modi, certo, eppure…
E così, Bruce aveva sposato Julianne Phillips. Una donna giovane, solare, determinata. A Patti veniva da sorridere con sarcasmo e malinconia pensando a quanto erano differenti, lei e quella ragazza che era riuscita a conquistare il cuore che più bramava.
Julianne era incantevole e Patti aveva molto rispetto della sua personalità forte. Pensava che, nonostante molti credessero che fosse troppo giovane per Bruce, lei lo avrebbe reso felice.
Sì, aveva sostenuto Bruce. Aveva sorriso al suo matrimonio. Gli aveva aggiustato il papillon con un sorriso complice prima di vederlo camminare lungo la navata, verso l’altare.
Era morta, dentro. Non aveva mai pianto tanto come quella notte. E si era odiata per quelle lacrime, vuote ed inutili.
Voleva essere quello di cui lui aveva bisogno. Ma no, era solo l’amica. E forse, per lui, era meglio così. Lo avrebbe aiutato a rimanere in piedi, senza mai poter perdersi tra quelle braccia forti.
“Ti amo”.
Per l’ennesima volta, quelle parole le si strozzarono in gola. Le deglutì con un sorso di limonata, contenendo le lacrime.
“Limonata il sabato sera? Sei seria?”, domandò a Bruce, accigliato, seduto davanti a lei. Indossava una camicia a quadri e ad incorniciare il suo volto rasato e abbronzato, i suoi capelli ricadevano in corte ciocche castane e ricce. Patti si limitò a fare spallucce.
“Che c'è di male?”, rispose, posando la bottiglia e fissandone con indifferenza l’etichetta, “Almeno io non sto passando l'intera serata a sbadigliare sonoramente”.
Stavolta fu lui a stringersi nelle spalle. “Lo sai che soffro d'insonnia”.
“Fatto notte fonda con Julianne?”, lo punzecchiò lei.
“Ti rendi conto che erano quattro mesi che non ci vedevamo?”, esclamò lui, del tutto ignorando la domanda di Patti. Strano. Che gli desse fastidio che si facesse ironia sul suo matrimonio? Era difficile da dirsi… Nell’ultimo anno si erano visti pochissimo. Il 1986 sarebbe stato un anno di completo ozio per lei, non fosse stato che si era rimboccata le maniche: aveva scritto moltissime canzoni, aveva collaborato coi Rolling Stones –ancora non ci credeva!- ed adesso pianificava di registrare un album da solista quanto prima. Bruce, però, lo aveva perso di vista. Sì, spesso si telefonavano, ma non era proprio la stessa cosa: quando erano i tour si vedevano per tutto il giorno, potevano parlare per ore, stesi l’uno accanto a loro, e sfiorarsi le mani.
No, non era proprio la stessa cosa.
Si erano dati appuntamento quella sera in un pub perché le vacanze di Natale si avvicinavano e, a quanto pareva, Bruce sarebbe partito per una vacanza in qualche luogo caldo. Il luogo più caldo in cui Patti si sarebbe recata, invece, era il divano davanti al caminetto.
“Me ne rendo conto eccome!”, rispose Patti, “E mi sembri cambiato. Il matrimonio ti dona”. Gli sorrise, lui fece altrettanto… in modo strano, però. C’era una nota stonata, in quel sorriso.
“Cambiato, dici?”, mormorò, rubando la limonata di Patti e buttandone giù un sorso sostanzioso, “Non mi piace il cambiamento. Sono un tipo abitudinario, io”.
“Beh, non puoi pretendere di sposarti e rimanere uguale a quando eri in tour... Anche perché, altrimenti, la povera Julianne avrebbe un problema o due con il bambino capriccioso che si nasconde in te”.
Lui non rispose. Teneva ancora la limonata in mano, con aria distaccata. Non sembrava prestare attenzione a niente. Patti si limitò ad attendere che “uscisse dal suo mondo dei sogni”... era così, con Bruce. Dopo qualche istante di apparente trance, i suoi occhi si illuminarono nuovamente, e lui parve riprendersi.
“Scusa”, mormorò, “Pensavo...”.
“Sì, l'ho notato”, scherzò lei, dandogli un buffetto amichevole. Era vero, era cambiato: non indossava più magliette stracciate, ma camice infilate accuratamente nei pantaloni; si atteggiava a uomo maturo... eppure era sempre lui. Era sempre Bruce. Oscuro. Luminoso. Tutto al tempo stesso.
“Posso chiederti a cosa pensavi, o hai intenzioni di startene con lo sguardo perso nel vuoto tutto il giorno?”, gli domandò.
Prontamente, lui cambiò discorso. “Bello, questo vestito blu. Ti dona moltissimo”, biascicò. In tutta risposta, Patti inarcò entrambe le sopracciglia.
“Signor Bruce Springsteen”, lo rimbrottò, “Non starà per caso cercando di cambiare argomento?”.
Lui sfoggiò un ghigno sgangherato. “Chi, io? No, assolutamente! Davvero, non sto cercando di essere spiritoso, il vestito ti dona seriamente!”.
“Bruce...”, si limitò a replicare lei, lasciando che il nome vagasse tra di loro con aria di rimprovero. Era vero, quel vestito blu era davvero carino, ma sapeva perfettamente che Bruce voleva focalizzare la sua attenzione in qualcosa di diverso rispetto ai suoi pensieri.
“E va bene”, si arrese infine lui, sputando finalmente il rospo, “Diciamo che... Quello di oggi non è soltanto... un incontro di piacere, ecco”. Reclinò il capo e storse la bocca carnosa in una sorta di smorfia.
Dapprima, Patti rimase qualche istante tra lo stupito e l'amareggiato: cosa significavano quelle parole? Lei sperava di poterlo vedere... solo perché lui lo desiderava tanto quanto lei. Senza alcun secondo fine, senza alcuna vera ragione. Solo perché le voleva bene.
Poi si ricompose. Se si fosse lasciata lambire ancora dalle proprie emozioni, il suo volto avrebbe rivelato tutto: tutte le notti insonni con il volto di Bruce che le volteggiava davanti agli occhi, tutte le lacrime spese che non le sarebbero mai state restituite, tutte le fitte al cuore che quel sorriso disordinato le aveva fatto provare. Mascherò tutto, in un gesto quasi naturale: sorrise.
“Certo!”, sbottò, ironica e beffarda, “Figuriamoci se il famoso ed irreperibile Bruce Springsteen si interessa ancora ai propri amici senza nascondere qualcosa”.
Lui parve stupito di vederla così a proprio agio. Che avesse intuito qualcosa?
“Bah”, sbottò, fingendosi offeso, “Hai così poca stima di me...”. Le lanciò uno sguardo da cucciolo di cane a cui si ha appena calpestato la coda. Patti roteò gli occhi, con uno sbuffo.
“E piantala di fare la vittima!”, esclamò, ridendo, “Dai, vuota il sacco!”.
Le iridi scure dell'uomo si riempirono di luce, prima di cominciare. “Vedi, Patti... Sto scrivendo nuova musica”, pronunciò, in un soffio. Immediatamente, il cuore di Patti cominciò a battere all'impazzata: ma era una notizia stupenda!
“Ma... Bruce, è splendido!”, esclamò, sorridendo solare. Cercò di immaginare quali potevano essere le nuove melodie che Bruce aveva composto, quali le tematiche dei nuovi pezzi, quali le parole. Non poteva saperlo, ma la testa le si riempì di sogni. “Sai”, continuò, “Anche io ho scritto tantissimi nuovi brani, ultimamente!”.
Lo notò chiaramente deglutire, cosa che la insospettì non poco. “Bene”, borbottò lui, chiudendo ed aprendo ritmicamente i pugni, in una sorta di tic. La musica ovattata del pub, una vecchia ballata country gracchiante e stonata sembrava creare tra i loro sguardi, tra i loro corpi, tra le loro parole una distanza impercorribile.
“Ho intenzione di andare in studio a registrarli”, proseguì Patti, che aveva improvvisamente abbassato la voce, senza sapere il perché, “Devo approfittare di questo tempo che concedi a noi della band, dopotutto. Poi riprenderà la tortura con te, giusto?”. Provò a scherzare, ma si rendeva conto che la sua battuta era stata inghiottita dal buio della notte, dalla luce soffusa del locale e dalle voci basse delle persone che parlottavano attorno. A Bruce, quella battuta, non era mai giunta.
“Patti”, proseguì lui, come se, appunto, non l'avesse udita, “Io ho bisogno di te in sala registrazioni”.
“E questo cosa vorrebbe significare?”, domandò lei, subito sulla difensiva. C'era una punta di rabbia nella sua voce, perché forse aveva già capito dove Bruce voleva andare a parare. E non le piaceva, non le piaceva affatto.
“Cosa vuoi che significhi?”, si strinse nelle spalle lui, “Che... Vorrei chiederti se per te sarebbe possibile rinviare la registrazione, pubblicazione e possibile promozione dal vivo del tuo album per... beh, per lavorare sul mio”.
Per un secondo, fu convinta che si trattasse di uno scherzo. Doveva. Doveva.
Posò la mano chiusa a pugno dinnanzi a sé, sul tavolo, in un gesto che tradiva una crescente ira. Le guance le si erano fatte color porpora. “Stai scherzando?”, riuscì a farsi uscire, in un sibilo acuto dalle labbra serrate.
Bruce sospirò. Probabilmente si attendeva una risposta simile. “Senti, piccola, lo so che...”.
“Sai?”, sbottò lei, per un istante quasi urlando, “Tu sai?”. Si lasciò sfuggire una breve ed amara risata. “Abbiamo già affrontato questo argomento, Bruce. Possiamo aver avuto un'infanzia simili, avere mille passioni in comune e fare lo stesso lavoro, ma non venire a dirmi che sai cosa significhi essere me. Questo album, Bruce, per me significa tutto. Tutto. Ho passato trentatré anni della mia vita a rincorrere un sogno quasi impossibile, quasi irraggiungibile, ed adesso che esso è proprio davanti ai miei occhi, a portata delle mie mani aperte, me ne vorresti privare?”.
“So che vuoi far vedere ai tuoi genitori, sì, insomma, alla tua famiglia, i profitti del tuo lavoro, ma devi capire che...”.
“Cosa?!”, esclamò lei, “Che sei un bastardo egoista?”. Le sue parole parvero un ringhio. Non si sarebbe mai aspettata di poter provare tanta rabbia, ma tutto aveva senso, d'altra parte: quel progetto, quel disco che aveva atteso a lungo di poter registrare, era il culmine della sua vita. No, non solo della sua carriera. Perché, se erano amici, lui le voleva fare un torto simile?
“Calma”, replicò Bruce, spostandosi nervosamente sulla sedia, “Voglio solo farti capire quel che voglio dire. Non ti sto imponendo assolutamente nulla”.
“Come no! Tu chiedi e pretendi che ti sia dato”, sbottò lei, consapevole che probabilmente quelle parole lo avrebbero fatto esplodere, ma ormai troppo arrabbiata per contenersi.
Bruce spalancò la bocca, in un sorriso beffardo, che nascondeva un'ira che a malapena riusciva a tenere a bada. “Non ho mai detto questo”, le fece notare, accompagnando le parole con una scrollata di spalle. Teneva i pugni stretti, ma non la guardava negli occhi. Di cosa aveva paura? Di avere torto marcio?
“Guardami negli occhi”, gli intimò, decisa.
“Sta' zitta”, ringhiò lui. Come, prego? Cosa diavolo aveva appena detto?
“Oh no”, controbatté Patti, sempre più rossa in viso, “Io non sto zitta, affatto. Dov'è finito quel Bruce che mi aveva promesso che non mi avrebbe mai imposto nulla? Dov'è...”.
“Sta' zitta, ho detto!”. Stavolta, Bruce aveva urlato. Non lo aveva mai sentito così. Il cuore parve fermarsi nel suo petto e Patti deglutì. Non fu una mossa ragionata, quella di alzarsi per andare via: lo fece e basta. Sapeva di avere tutti gli occhi dei pochi clienti del pub addosso, mentre si incamminava, senza guardarsi indietro... conosceva Bruce. Ormai lo sapeva sin troppo bene: se si fosse girata, gli sarebbe saltata al collo, piangendo. E non per debolezza, ma perché era stanca, era stanca e desiderava così tanto capire: voleva capire perché non si erano visti per mesi e ora la trattava così, perché quel lato buio non lo abbandonava mai, cosa gli frullava in quella testa riccioluta. Voleva dirgli che lo amava. Ma non poteva. No, non poteva.
Mosse solo pochi passi, prima che una voce la chiamasse. “Patti...”. Il tono di voce di Bruce era completamente cambiato. La rabbia si era placata, tramutata in pentimento. C'era dolcezza, c'era malinconia... Quando pronunciava il suo nome in quel modo, non c'erano molte possibilità: voleva scusarsi. E Patti lo sapeva... Si girò, stavolta premurandosi lei di non guardarlo nelle grandi iridi marrone scuro.
“Vieni qui”, soggiunse lui, sempre con un tono triste, quasi in un soffio, un sussurro. E lei si sedette, di nuovo davanti a lui. Di nuovo intrappolata nella rete d'amore che per lui provava.
“Non volevo... non volevo dirti di stare zitta. Scusa”, cominciò lui, “Volevo semplicemente finire di parlare...”. Sospirò, prima di continuare. Patti non disse niente: osservò persa la luce pallida della luna infiltrarsi dalla vetrata del locale e posarsi sul capo di quell'uomo così complicato.
“Ti scusi sempre, ma non impari mai”, si limitò a sillabare piano Patti. Lui mosse la bocca in una smorfia simile ad un sorriso ironico.
“Vero”, confermò, afferrando nuovamente e bevendola piano, come se quel liquido potesse schiarirgli le idee, oltre che la gola, “E sì, sono un bastardo egoista, lo so. Ma puoi concedere a questo bastardo egoista di finire di parlare?”. Lei annuì con un cenno flemmatico del capo.
“Capisco che questo album è importante, per te. Davvero. Lo comprendo. Ricordo come mi sentivo, prima di pubblicare il mio primo disco. Frustrato. Inutile. Non voglio dire che tu lo sia, nel senso... Dio, quanto sono cretino ed incapace con le parole”. Fece una breve pausa. “So cosa significhi aver bisogno di sentirsi realizzati. E penso che tu, essendo donna e vivendo in un mondo sessista e schifoso, abbia molta più necessità di confermarti... di far vedere a tutti chi sei. Però, vedi... Ti prometto, appena finito questo album e questo tour, avrai tutto il mio appoggio per il tuo progetto. Lo so, continuo a fare promesse che non mantengo. Continuo a giurarti atti di amicizia che svaniscono nell'aria nel momento in cui ho finito di parlare. Sono un amico di merda ed un boss insensibile. Ma Patti... Io se non registro queste nuove canzoni... esplodo. Impazzisco. Non riesco... non riesco a vivere se non butto fuori quel che ho scritto, quel che provo. E io, sinceramente, senza la tua voce non lo voglio fare, il mio album. Non avrebbe senso. Nulla avrebbe senso senza...”.
Patti rise. Non se lo aspettava, accadde e basta. Ma era una risata fredda, insensibile, amara. “Non venirmi a dire che nulla avrebbe senso senza di me, perché no, non ti credo. Sei scomparso per quattro mesi, quindi forse non sono davvero così indispensabile nella tua vita. Ma va bene, mi arrendo”. Poggiò entrambi i gomiti sul tavolo, guardandolo dritto negli occhi. Occhi verdi ed occhi castani, gli uni specchiati negli altri. “Mi arrendo, hai vinto. Hai ragione. Le tua canzoni sono più importanti. I tuoi sogni sono più importanti. Le tue parole sono più importanti. Tanto, alla fine, cedo sempre. Faccio di tutto, per te. Dimmi quando iniziano le registrazioni, ed io ci sarò. Io e la mia celebre voce di cui, a quanto pare, non puoi fare a meno”. Con lentezza, si alzò dal tavolo. Si sentiva stanca, spossata, e, al tempo stesso, le pareva di essersi privata di un grande fardello, solo per caricarsene un altro, altrettanto pesante, sulle spalle.
Voleva solo andarsene, ora.
Non voleva più vedere quel viso che avrebbe volentieri riempito di pugni. O di baci. Non ne sarebbe mai, mai stata certa.
“Buona serata, Bruce”, mormorò, con un mezzo sorriso. Gli posò le labbra sulla fronte e si girò.
Lui le afferrò il braccio, in una stretta non forte, non violenta, ma disperata. Un fremito, una scarica elettrica lungo la schiena, lo sguardo di Bruce nascondeva qualcosa; lo scrutò, vi si perse: occhi scuri, come la notte, come un pozzo da cui non era possibile risalire. Occhi che urlavano qualcosa, o meglio, che tentavano di gridare, ma sembravano incapaci di formulare le giuste parole. Cosa era? Cosa era che leggeva in quegli occhi? Perché era così certa che si trattasse di una richiesta d'aiuto?
“Patti, io...”, iniziò, ma poi la sua bocca rimase aperta, le labbra che non riuscivano a proseguire. La musica del pub li avvolgeva, calcando il ritmo del cuore di Patti. Le tempie le pulsavano così forte che le pareva che la testa stesse per esploderle.
La osservò. I suoi occhi la chiamavano, volevano che rimanesse, volevano dirle qualcosa.
La teneva, con il pugno chiuso.
Per l'ennesima volta, quelle due parole le volteggiarono sulle labbra. Desiderava dirle. Desiderava urlargli in faccia “Ti amo! Perché non riesci a vederlo? Perché?”. Ma rimase silente.
Con un sospiro che sembrò durare un'eternità, Bruce la lasciò andare.
Quei pochi passi dal tavolo del locale alla porta furono i più lunghi della sua vita.

Casa Springsteen, New Jersey, ore 10:02
Ricordava ancora quanto pesava il suo cuore, quella notte. Era come un macigno incastonato nel petto, che l'aveva tenuta sveglia fino all'alba, a domandarsi perché. E di perché, ce n'erano tanti. Perché Bruce continuava a promettere, senza mantenere mai? Perché sapeva essere, al tempo stesso, così gentile ed egoista? Perché diceva che sarebbe esploso, se non avesse registrato quell'album?
Perché i suoi occhi imploravano aiuto?
Non ne aveva idea. E non poteva averne.
Non sapeva assolutamente che il matrimonio di Bruce stava lentamente andando a pezzi. Non conosceva la sua frustrazione. Lui, troppo orgoglioso, non gliene aveva voluto ancora parlare.
E poi, soprattutto, non sapeva che Bruce, pian piano, senza neppure rendersene conto, stava cominciando a provare qualcosa per lei. Erano il sole e la luna, che si rincorrevano in cerchio, disperati, senza mai neppure sfiorarsi.
Non sapeva neppure che Bruce, la notte stessa, avrebbe scritto una canzone, pensando a quella tumultuosa serata. Una canzone che parlava di amore, di investimento reciproco, di sesso. Di una ragazza dal vestito blu, come quello che lei aveva al pub, che scappava da un appuntamento, lasciando nel cuore di qualcuno un tumulto di emozioni da mettere a posto.
Patti posò le foto, in un gesto lento. Senza neppure pensarci, le sue labbra cominciarono ad intonare “Tougher than the Rest”.


Angolo dell'autrice:
Ce l'abbiamo fatta a aggiornare, finalmente! Scusate il ritardo clamoroso, ma in questo periodo sono riuscita a beccare ogni tipo di problematica. Dalle crisi esistenziali alle febbrate di una settimana. Stendiamo un velo pietoso. Spero di essere puntuale, per la prossima pubblicazione, ma non prometto nulla, perché mi sto trasferendo per iniziare l'università, quindi sarà un periodo un po'... confusionario.
Grazie comunque per sopportarmi,
Elisa 


 

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