i Quattro Cavalli

di Leonhard
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La sera prima ***
Capitolo 2: *** I quattro cavalli ***
Capitolo 3: *** 32 pezzi ***
Capitolo 4: *** Assurdo, no? ***
Capitolo 5: *** Volpe acuta, leprotto ottuso ***
Capitolo 6: *** Io non ho paura ***
Capitolo 7: *** Disinfettante ***
Capitolo 8: *** Cavallo cattura cavallo ***
Capitolo 9: *** Game, Set, Match ***



Capitolo 1
*** La sera prima ***


1. La sera prima

L’appartamento di Nick era un campo di battaglia, come sempre. Aveva ridacchiato genuinamente divertito quando la coniglietta ottusa gli aveva fatto notare che sembrava la scena di un furto finito in tragedia, ma da quello che sapeva lui non era un reato vivere in quello che lui chiamava ‘disordine ordinato’.

“Disordine ordinato” ripeté Judy, ironicamente colpita.

“È un ossimoro, Carotina” fu la sua sagace risposta. “E adesso chiedimi cos’è un ossimoro”.

“Lo so cos’è!” sbottò lei, imbronciata. “Non hai mai pensato, che ne so…di mettere in ordine?”. Nick la guardò come se gli avesse detto la più orribile delle cattiverie.

“Non potrei mai fare una cosa del genere al mio appartamento!” esclamò lui. “Piuttosto…com’è che sai del mio appartamento?”. La coniglietta si paralizzò sul posto combattendo per non lasciar cadere il frullato di sedano. “E un’altra cosa…che c’entra Bellwether con te?”.

“Ehm…Nick…” mormorò lei, a disagio. “Forse è meglio che ti racconti come sono andate le cose in tua assenza.

Fu un racconto molto confuso, intervallato da qualche silenzio e da un paio di balbettii, ma la fine era stata più o meno quella che lui avrebbe definito normale.

“Quindi fammi capire” borbottò lui passandosi una zampa sul muso, dimentico del suo sacchetto di more selvatiche. “Io ti avevo detto di starne fuori perché me ne stavo occupando io”.

“Nick…” mormorò lei, ma la volpe continuò. “Per tutta risposta, tu entri nel mio appartamento senza un mandato…”.

“Senti…”.

“Vai a chiedere a mr.Big, che sai che mi sopporta a stento…”.

“Lo so, ma…”.

“E tanto per non farci mancare nulla paghi la cauzione di Bellwether”. Si volse verso di lei con occhi torvi. “Sinceramente non so se essere lusingato per la tua ansia oppure arrabbiato per tutto il casino che hai combinato”.

“Senti, ero preoccupata va bene?” esplose lei. “Non avevo tue notizie, non sapevo dov’eri e cosa stavi facendo, con chi eri…”.

“Non è la prima volta che lavoriamo separati” fece presente lui.

“Si, ma non così!” esclamò lei.

“Esatto” esclamò lui. “Ma sei diventata matta a far uscire quella pecora di galera? Non hai mai pensato al fatto che potesse essere tutta una sua trovata? Sai di cos’è capace quella la!”. Si avviò per la strada, scuotendo la testa. “Adesso mi spiego questa trovata della squadra suicida…”.

Judy gli trotterellò dietro, senza trovare il coraggio di dire una parola. Colse per un istante l’espressione sul muso: era corrucciata, pensierosa. La coniglietta gli si affiancò e lo afferrò per un braccio.

“Dai Nick…” mormorò. “Posso dire a mia difesa che se tu ti fossi spiegato non sarebbe successo nulla”.

“Aspetta un secondo” replicò lui. “Per caso…no, dico per caso…stai dicendo che la colpa è mia?”.

“Beh, sei tu che hai fatto l’agente segreto” osservò lei, con un sorrisetto.

“L’infiltrato” puntualizzò lui. “Ed in qualità di infiltrato, avrei dovuto lavorare in incognito: a sentire te, avrei dovuto anche chiamare mia madre e dirle che stavo usando il golfino!”.

“Quello l’ho fatto io” replicò Judy. Nick le indirizzò un’occhiata penetrante.

“No, non è vero” constatò dopo qualche secondo.

“Non è vero” assentì lei, con un sorrisetto colpevole.

Arrivarono davanti all’appartamento di Judy e si salutarono. Nick era ancora curvo sulla stampella e la fasciatura attorno al suo busto era evidente sotto la camicia, ma era sempre il solito Nick.

Il SUO Nick

Di nuovo quel pensiero. Era strano, ma in qualche modo giusto. Judy deglutì, seguendolo con lo sguardo. Si soffermò sulla sua coda: ondeggiava pacata, seguendo l’andatura scoordinata delle zampe. La guardò finché non svoltò l’angolo, sparendo dalla sua vista.

Sospirò ed entrò in camera, gettandosi d’istinto sul letto: non si era resa conto di quanto fosse stanca e come avrebbe potuto? Troppe emozioni in un giorno solo per una coniglietta emotiva come lei. Proprio Bogo, che li aveva definiti i due migliori agenti dell’intera città. Addirittura!

Avrebbe fatto parte di una squadra di agenti scelti. Davanti a quella consapevolezza, i suoi pensieri si scostarono da quel bizzarro senso di appartenenza nei confronti del collega per portarla ad interrogarsi sugli altri membri della squadra.

Jack Savage, aveva detto Bogo.

Jack Savage



“Jack Savage?!” esclamò Finnick. “Ma che stai dicendo?”.

“La verità” replicò Nick, sorseggiando il suo cocktail alla fragola. “Perché, mi hai mai sentito dire altro in vita tua?”.

“No, Nick; questa è una cosa seria” disse il fennec. “Stiamo parlando del Jack Savage che conosciamo?”.

“Proprio lui” replicò la volpe, abbandonando la sua solita espressione sagace. “Proprio QUEL Jack Savage”.

“E dici che…” mormorò Finnick stringendo il bicchiere. Nick lo guardò con occhi seri.

“Se si ricorda?” concluse. Stette un momento soprappensiero, poi fece una spalluccia. “Mi stupirei del contrario: la nostra non deve essere una nota molto positiva sul suo curriculum”.

“Specie in coppia con quella Alopex” osservò lui. “La conosco solo per fama…”.

“Beato te…” replicò lui. “Sinceramente avrei preferito evitare di far squadra proprio con quei due”.

“E Hopps?”. Nick si volse a guardarlo con un ghigno.

“Ah, lei era in solluchero” replicò con un ghigno divertito. “Avresti dovuto vederla: si sarebbe messa a zampettare in giro…anzi, forse l’ha fatto…”.

“Non ha la minima idea, vero?” chiese.

“No” fu la risposta. “Lei era solo al settimo cielo per essere stata definita la migliore agente della città da capitano Non-mi-interessa: credo persino che non abbia idea di chi sia Savage”. Finnick rise per la prima volta nella serata.

“Impossibile!” esclamò.

“Non esiste questa parola quando si parla della coniglietta ottusa” sentenziò Nick, con tono solenne. “Per esempio, diresti che è impossibile che un agente di polizia faccia irruzione in un appartamento scassinando la serratura senza nemmeno un mandato”.

“Quanti film piratati ti ha beccato in casa?” chiese l’amico sorseggiando il suo bicchiere. Regnò il silenzio per qualche secondo, poi i due finirono i drink e si alzarono; Nick abbandonò una banconota da cinque sul bancone ed uscirono dal locale.

“Nicolas Wilde” borbottò Finnick. “Judy Hopps, Jack Savage e Alopex la Duecento”.

“A grandi linee” replicò lui. “Praticamente il Dream Team, no?”. Il fennec non rise e Nick lo capì: effettivamente c’era veramente poco da ridere. Molto poco. Cadde nuovamente il silenzio tra i due e ne approfittarono per raggiungere il furgoncino.

Finnick salì al posto di guida e Nick si allontanò, ascoltando il vecchio motore partire con un colpo di tosse ed uno sgraziato stridere della cinghia. Sembrò riflettere, poi si volse verso di lui.

“Wilde…” borbottò. La volpe drizzò le orecchie; ci fu sorpresa nei suoi occhi solo per qualche istante, poi fu rimpiazzata da una sconsolata consapevolezza. Entrambi sapevano, l’avevano sempre saputo. Era l’unica regola esistente ed infrangibile nel loro giro di affari.

I cognomi prendono distanza: sono sterili, compassati, impersonali; aggiungono professionalità anche dove non esiste o ne manca il bisogno. E loro lo sapevano, si erano sempre guardati bene dal chiamarsi per cognome ma li avevano imparati, ben sapendo che sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbero dovuto prendere le distanze.

“Quindi ci siamo…” borbottò Nick, mettendosi la mano libera in tasca.

“Ci siamo divertiti in questi anni no?” azzardò Finnick. Lui annuì, con un sorriso tirato. Sospirò. “Mi tiro fuori, Nick” disse, come se non fosse ovvio. “È una cosa troppo grossa: per te è pane quotidiano e lo capisco, ma io? Io sono solo un trafficante di ghiaccioli e da certe cose voglio starne alla larga”. La volpe sospirò ed annuì.

“Certo” disse. “Stai fuori da questa storia”. Non c’era rabbia, risentimento, nemmeno ironia o sarcasmo nella sua voce. Nick Wilde serio era uno spettacolo raro e quella sera il cielo di Zootropolis ebbe il privilegio di assistervi.

“Non può che finire male, lo sai vero?” chiese Finnick ingranando distrattamente la marcia ed ascoltando grattare la frizione. “Quattro elementi come voi nella stessa squadra…non può finire bene”.

“Lo so” annuì Nick. “Finirà molto male”.

Non ci fu bisogno di aggiungere altro. Il fennec partì ed il furgoncino svoltò l’angolo, sparendo per sempre dalla vita della volpe. Lui sospirò e scosse la testa, poi si avviò verso il suo appartamento, con le orecchie basse ed un’espressione pensierosa sul muso.

Non finirà bene…

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Capitolo 2
*** I quattro cavalli ***


2. I quattro cavalli

Correva. Stava correndo, vero? Davanti ai suoi occhi, c’era solo verde e marrone, verde e marrone. Si lappò il naso, inumidendolo. Sì, stava correndo. E si sentiva bene, si sentiva libero. Libero come non si era mai sentito prima d’ora. La zampa non gli faceva male e l’aria odorava di fresco e di libertà e di selvatico.

Ma c’era un altro odore nell’aria. Da qualche parte nella sua mente, una vocina gli disse di conoscerlo, ma non seppe dare un dato concreto e credibile, come un nome: lo conosceva e basta. Deviò sapientemente nella direzione di quell’odore, verso la sorgente di quell’odore che lo stava facendo impazzire di ansia e voglia e fame.

…fame?

La foresta si spalancò davanti ai suoi occhi e si ritrovò a saettare in uno spiazzo erboso, con il sole in faccia e l’aria improvvisamente più fresca. In lontananza, una figura che sentiva di conoscere bene: strinse le palpebre per quei secondi a lui necessari per riconoscerla. Sì, non c’erano dubbi. Era senza ombra di dubbio

(Judy Hopps)

un coniglio; una preda. E lui aveva fame, una fame pungente, una fame che, in un altro dove e quando, avrebbe definito anarchica. Il coniglio si volse nella sua direzione, troppo tardi per fare qualsiasi cosa. Vide i suoi occhi viola posarsi su di lui, poi saltò verso il suo collo e ci affondò i denti.




Quello che lo strappò dal sonno fu uno scatto decisamente troppo repentino per una volpe con due costole incrinate. Fissò il muro davanti al letto e prese due bei respiri, prima di guaire per il dolore delle ossa danneggiate. Si abbandonò nuovamente sul cuscino, pensando che quel dolore in fondo se lo meritava.

Portò distrattamente una zampa al muso mentre percorse con la punta della lingua i denti: se chiudeva gli occhi e si concentrava, poteva ancora sentirlo. Deglutì al ricordo del sapore ramato sulla lingua e dietro le palpebre abbassate vide distintamente che quel sapore aveva un lugubre, denso colore rosso.

Perché non aveva detto nulla a Vixen? Perché aveva dissimulato? Perché aveva utilizzato il suo miglior muso da poker per celare il disgusto di quei ricordi in cui lui era a quattro zampe, con la mente a senso unico? Erano domande che avevano cominciato a perseguitarlo già dentro la camera d’ospedale e lui, in quei rari momenti di intimità, quando era solo e quindi poteva abbassare la maschera del Nick convalescente e con una leggera amnesia. Poteva far vedere la luce al Nick convalescenze senza una leggera amnesia.

Perché non hai detto nulla a Vixen?

E ricordava, ricordava tutto: la decisione e la sensazione dei peli umidi sul collo, il blackout non più lungo di un secondo e poi gli istinti, che nulla avevano di logico o di razionale. Ricordava come un sogno Vixen allontanarsi da lui ed estrarre la pistola, in un momento in cui la sua mente era completamente concentrata su Clawhauser, il cui nome in quel momento era così lontano da lui.

Perché hai dissimulato?

Ricordava la lotta, gli artigli e le zanne che scattavano e rilucevano, cercandolo e cacciandolo, ma lui era troppo piccolo, troppo veloce e guizzava lungo il suo corpo. Ricordava gli squittii del ghepardo, ma veramente i ghepardi fanno un verso così? Ricordava le provette ed i mobili cadere ed infrangersi, come componenti di un’instabile ring solo per loro due.

Perché hai usato il muso da poker?

E ricordava l’attimo della vittoria condito da quella zampa, ora in fondo al suo corpo ingessata ed inutile, che non faceva che aumentargli l’adrenalina, fargli battere il cuore più velocemente, fargli guizzare i muscoli e sentire meno dolore. Ricordava quel sapore che in quello stesso momento, complice il suo cervello impegnato a scacciare la noia, sentiva sulla lingua e contro i denti. Ricordava il sangue.

Perché?

Perché? Beh, la risposta era arrivata celermente ma solo in quel momento ebbe il coraggio di confessarla a sé stesso.

Perché gli era piaciuto.

Si era sentito libero, lui solo in grado di fronteggiare il mondo intero, cacciare e riprodursi senza pensare alle conseguenze. Gli era piaciuto possedere anche solo per qualche minuto un cervello fuori controllo ma libero dalle convenzioni sociali, dalle regole e dalle leggi, una volpe come sarebbe dovuta essere. Si alzò e si vestì, riconoscendo che non avrebbe più preso sonno per quella notte. Zoppicò per tutta la notte tra piazze deserte e strade che si popolarono lentamente all’avvicinarsi dell’ora di punta.

Solo con i suoi pensieri. Solo con il mondo intero.



Il giorno dopo, bastò una rapida occhiata per capire il clima in cui lui avrebbe lavorato. Entrò per ultimo, sorreggendosi sulla stampella e sorseggiando il caffè della macchinetta; sapeva leggermente meno di gomma bruciata e quello sarebbe dovuto essere il preludio per una giornata perfetta.

“Quindi il tuo partner ti ha insegnato a giocare a scacchi?” stava chiedendo una voce a lui ben nota e sospirò da sopra il bicchiere di carta, riconoscendola. Chiuse la porta ed otto occhi saettarono nella sua direzione.

“Scusate l’attesa” borbottò, gettando nel cestino il bicchiere vuoto. “Ma l’eroe arriva sempre per ultimo”.

“Buongiorno Nick” salutò allegra Judy, rivolgendogli un sorrisone. La volpe squadrò l’individuo appoggiato al muro. Era un coniglio bianco con striature scure sul muso e sulle punte delle orecchie. Vestiva con un abito scuro ed una cravatta nera sopra una camicia bianchissima. I suoi occhi, color ghiaccio, saettarono verso di lui e lo squadrarono sterili per qualche secondo.

“Wilde” disse, con voce bassa e ferma. “Agente Wilde”. Masticò leggermente l’ultima parola, come se fosse particolarmente amara da ingoiare.

“Savage…” replicò lui, dardeggiandolo con gli occhi.

“Wilde?!” esclamò l’altra voce. “Nicolas Wilde? O mamma mia!”. Immediatamente dopo una volpe artica entrò nella sua visuale.

“Salve Alopex” salutò lui facendo comparire un sorriso. La volpe bianca lo squadrò per qualche secondo con un’espressione concentrata negli occhi color nocciola, prima di esplodere in un sorriso.

“Ah, ti abbraccerei volentieri” disse. “Peccato per quelle due costole…”.

“E…?” continuò Nick, mantenendo il sorriso.

“…e la zampa” concluse lei. Si abbassò a guardare il gesso e tastò le dita per qualche attimo. “Ah, una contusione. Ti sei azzuffato con qualcuno? Direi un predatore, media statura…”.

“Un ghepardo” borbottò Bogo dalla sua scrivania. Alopex si rialzò e si sedette nuovamente sulla sua sedia, cinguettando allegramente.

“Stavo facendo la conoscenza con la tua collega” disse. “Una coniglietta molto interessante sai?”.

“Lo so” annuì lui, passando una zampa tra le orecchie di Judy. “Buongiorno Carotina”. Vide con la coda dell’occhio Jack tendersi, pronto a scattare. Ascoltò le risatine nervose della poliziotta prima di voltarsi verso di lui. L’aria si fece elettrica, mentre i due ci misero qualche secondo prima di parlare.

“Allora” borbottò infine il coniglio. “Sembra che faremo squadra”.

“A quanto pare” annuì lui.

“Di tutti gli animali che potevano lavorare con un coniglio poliziotto” borbottò. “Non mi sarebbe mai venuta in mente una volpe”.

“Benvenuto a Zootropolis” fu la risposta, condita da un sorrisetto sfrontato dei suoi.

“Allora signori” borbottò Bogo, richiamando l’attenzione di tutti. “Dieci giorni fa l’agente Wilde ha brillantemente risolto un caso riguardante la produzione illegale di una pericolosa arma chimica. Il laboratorio scientifico dell’FBI sta mettendo a punto un vaccino che contrasti l’effetto di tale arma, ma il sindaco non ha ancora ricevuto notizie ufficiali.

“Durante quell’operazione è stata necessaria la scarcerazione di un pericoloso criminale che sospettiamo voglia manomettere la produzione del vaccino o il vaccino stesso: il compito di questa squadra è acciuffare il criminale prima che possa mettere in atto il suo piano”.

“Dawn Bellwether” borbottò Alopex con un sorriso sobrio. “Sembra divertente”.

“Ma come…?” sussurrò Judy a Nick, che scosse una zampa.

“Lascia stare” rispose. “C’è un motivo se la chiamano la Duecento”.

“Il modo migliore per farlo è supervisionare la produzione del siero” constatò Jack, staccandosi dal muro. Bogo annuì.

“Esattamente” disse. “Savage è l’agente con più competenza ed esperienza, quindi dirigerà lui la squadra. Cercate di acciuffarla, ragazzi”.

“Allora, io mi prendo Nick” saltò su Alopex, afferrando la zampa della volpe e stringendola a sé. Notò l’espressione perplessa di Judy e sorrise. “Su, non fare quel musetto agente Hopps. Te l’ho già detto, stai tranquilla”. Nick si volse verso la coniglietta con occhi interrogativi, ma lei nascose il muso dietro le orecchie.

“Bene” disse Jack dietro di lei, con un piccolo sorriso accomodante. “Sembra che lavoreremo in coppia”.

“Ah, ehm…” balbettò lei, emozionata, lisciandosi convulsamente il pelo delle orecchie. “A quanto pare si, signor Savage”.

“Jack andrà benissimo” sorrise lui. “Bene, vogliamo andare?”.



La porta dell’ufficio si chiuse e Bogo rimase solo con i suoi pensieri, le sue scartoffie ed il suo sollievo nell’essersi sbrigato anche quella seccatura. Sospirò, cacciando dalla tasca il cellulare: ancora l’ultima seccatura, poi sarebbe potuto tornare alle sue scartoffie.

Nick Wilde, Judy Hopps, Jack Savage, Alopex la Duecento.
Ore 08.12. Sono partiti


Il messaggio era breve, telegrafico, ma chiaro e preciso esattamente come gli era stato chiesto. Fu tuttavia con una leggera riluttanza ed un pizzico di vergogna che lo inviò. Dall’altra parte della città, un telefono trillò la ricezione di un messaggio.

“Beeene…” belò la proprietaria del telefono. “I quattro cavalli sono partiti”.

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Capitolo 3
*** 32 pezzi ***


3. Trentadue pezzi

“Tu sai che i conigli non mangiano solo carote vero?” borbottava gelido Jack, tenendo gli occhi fissi sul suo frappé di lattuga. “Lavori con l’agente Hopps, Wilde: dovresti sapere le regole basilari di un buon rapporto tra colleghi”.

“Ah, ma io le conosco tutte” replicò Nick, giocherellando con il telefono. “Mai dire tenera ad una coniglietta, offrire sempre il caffè decaffeinato che tra parentesi è il più caro del distributore, non fare osservazioni sulla bettola in cui vive e mai, nella maniera più assoluta, disturbarla mentre trascrive le denuncie di smarrimento”.

“Ah, mi è capitato l’agente comico?” commentò Jack, piccato, voltando finalmente un’occhiata di ghiaccio verso la volpe.

“E dovresti vedere quando sono di buonumore” replicò lui con una sghignazzata. “Scommetto che non ridi mai perché ti mancano gli incisivi…”.

“Ah, sai che ti invidio?” commentò Alopex voltandosi verso Judy. Erano seduti al bar: l’insegna lampeggiava allegra rivolta verso la strada, invitando i passanti a fermarsi da Leop Old, caffè, cialde, spremute e frullati a dei prezzi veramente stracciati. La coniglietta la guardò smarrita.

“Cosa?” mormorò. “E perché?”. La volpe sorrise, sorseggiando il succo al mirtillo.

“Beh, perché ti farai tante di quelle risate…” replicò. “E poi perché lavori con Wilde: con lui, divertimento assicurato”.

“Sembri conoscerlo bene…” osservò lei, sorseggiando il suo caffè aromatizzato alla cannella. La volpe le rivolse un sorriso accondiscendente.

“Conoscerlo?” commentò. “Beh, a me basta un colpo d’occhio e qualche parola per conoscere una persona: direi che il mio è un dono”.

“Io lo chiamo quoziente intellettivo” commentò Nick, intromettendosi nel discorso.

“Oh no, non di nuovo…” commentò Alopex sospirando. “Lo sai che non sopporto quel nomignolo…”.

“Quello stesso nomignolo che usano quando devono presentarti ai superiori?” punzecchiò l’agente, con il suo solito sorriso scaltro. Gonfiò in maniera innaturale il petto e scimmiottò una voce bassa e possente. “Sono il Generale Rino Horn: è un onore conoscere di persona Alopex la Duecento”.

“Il generale non ha quella voce, Wilde” osservò Jack: il suo rimprovero rimase inascoltato.

“Hai incontrato il generale?” commentò Judy stupita, ma Alopex era concentrata su Nick, con occhi fermi e fissi.

“Avverto del sarcasmo in quella frase Nick” borbottò. “E poi, quel numero è del tutto esagerato”.

“Devi capire, Carotina” spiegò la volpe, rivolgendosi alla collega. “Che la qui presente volpe albina…”.

“…alpina” corresse la lepre, da sopra il suo bicchiere.

“Ha il cervello più fine che si possa immaginare” continuò. “E per quanto possa sembrare assurdo, è addirittura più intelligente di me”.

“Oh, finitela tutti quanti!” sbottò Alopex, contrariata. “Quel test era fallato…”.

“Duecento di quoziente intellettivo?” commentò Judy, scattando in piedi, dimentica del suo caffè. “Non ho mai sentito un punteggio così alto!”.

“Perché non è così alto” borbottò lei. “In quel test ho fatto solo cento ottantasette…”.

“E come ti sarebbe suonata Alopex la Centoottantasette?” fu il commentò di Nick, sgraffignando una sorsata di succo alla volpe.

“Ehi!” esclamò lei. “Guarda che basta chiederne una sorsata!”.

Judy rimase a guardare Alopex con occhi increduli. Bisticciava con Nick, ma c’era un sorriso ad increspargli il muso. E lui ricambiava con QUEL sorriso, il sorriso che sentiva suo e non capiva perché. Tentò di affogare nel caffè quella stizza sconosciuta, fallendo miseramente. Era simile, maledettamente simile.

Anzi era la stessa.

La stessa verso Vixen.

Li osservò ridere e scherzare, prendersi giocosamente in giro come se fossero amici da anni, o di più, e si sentì tagliata fuori. Esattamente come era successo con Vixen, era stata tagliata fuori da lui, da loro. Il quel momento, tuttavia, non si sentì capace di fare irruzione negli affari di Nick

sono solo affari, dolcezza

come aveva sempre fatto. Distolse lo sguardo, accorgendosi che il sorriso di Nick le dava fastidio, la risata di Alopex le dava fastidio, le loro osservazioni su quanto potessero essere banali eppure imprecisi quei ridicoli test del quoziente intellettivo che facevano alla NASA, all’FBI e tutte quelle organizzazioni che avrebbero voluto arruolare il suo cervello così esaltato da uno e sminuito dall’altra le davano fastidio come le unghie di un bradipo passate sulla lavagna.

“Sai…” borbottò Jack posando il bicchiere ormai vuoto. “Non dovresti confondere il lavoro con il flirt, Wilde”. Nick si volse verso di lui trasformando il sorriso in un ghigno.

“Oh Savage…” sospirò, scuotendo la testa. “Questa lezione te l’ho insegnata io, non ricordi?”.

Guardando quegli occhi, studiando quello sguardo, Judy ebbe l’improvvisa certezza che anche i conigli potessero diventare selvatici. Selvatici e pericolosi, non di meno dai predatori. Quello sguardo, pregno di una innaturale voglia di uccidere sostò solo per qualche istante sul muso di Jack, per poi nascondersi nuovamente dietro quel muro di fredda professionalità.

“Ma davvero…” borbottò, annuendo. “Allora presumo che sia il caso di ricambiare, no? Ehi, signor barista”. Nick sospirò e si volse verso l’interno del bar.

“Ehi, vecchio Leop” chiamò. Si volse nuovamente quando la voce del proprietario lo mandò al diavolo. “Non sei pratico di qui: lascia certe mansioni agli esperti”.

“Può portare una scacchiera?” domando Jack, ignorandolo.

“Una scacchiera?” commentò Alopex. “Abbiamo il tempo per una partita a scacchi?”.

“Non ci vorrà più di qualche minuto per battere questo pivello” replicò sicura la lepre.

“Non rubarmi le battute, Savage” rimbeccò ironico Nick prendendo la scacchiera consunta che il barista, un leone dalla criniera disseminata di striature canute, gli porgeva. Judy studiò il posizionamento dei pezzi: mancavano alcuni pedoni  ed un cavallo bianco era leggermente sbeccato sulla testa.

“Non so giocare a scacchi…” commentò, come fosse un ricordo improvviso. La partita cominciò, sotto lo sguardo concentrato della coniglietta. Le mosse erano attente e ponderate: pedone, pedone, ancora pedone, alfiere.

“Prevedo un matto in trentacinque mosse” commentò Alopex distrattamente, dopo appena dieci giocate.

Fu davanti ad una mossa di Jack che Judy si sentì strana. Un improvviso sussulto rovesciò la tazza ormai vuota di caffè ed il tintinnio attirò l’attenzione di Nick.

“Ah, tranquilla Carotina” commentò. “In ogni partita, il sacrificio è parte fondamentale per la vittoria”. Nonostante le parole del collega, quella sgradevole sensazione delle budella contrarsi non accennò a sparire: non riusciva a distogliere gli occhi da quel cavallo nero che giaceva a lato del gioco, ridotto ad uno spettatore impotente.

Il telefono di Jack squillò; la lepre con uno sbuffo fece la sua mosse ed afferrò l’apparecchio, scoccando a Nick uno sguardo risentito, come se fosse sua la colpa di quell’interruzione.

-Agente Savage?- chiamò una voce dall’altra parte della cornetta. La lepre drizzò le orecchie.

“Chi parla?” chiese calmo.

-Sono Wolfgang del dipartimento ricerca di Zootropolis- rispose la voce.

“Ah, stiamo arrivando” affermò Jack, facendo cenno di ritirare gli scacchi ed avviandosi per la strada. “Abbiamo trovato un piccolo intoppo all’interno della squadra…”.

-Venga il prima possibile: abbiamo un problema veramente molto serio- interruppe lui.

 

“Cosa mi sta dicendo, dottore?” mormorò Judy. Le orecchie erano afflosciate e gli occhi spalancati in un’espressione incredula e sbigottita. Jack non era meno sorpreso e non lo nascondeva bene, Nick aveva la stessa espressione basita della collega, mentre Alopex era l’unica la cui espressione non aveva preso la drammatica serietà che la notizia esigeva: il suo volto era calmo, gli occhi freddi ed il cervello marciava com’era suo dovere.

“Ordini superiori, signore” rispose il lupo, in un abile miscuglio tra il nervoso e l’agitato. Judy scosse la testa, cercando istintivamente la manica della divisa di Nick. Trovò quella di Jack.

“Non posso credere che proprio il capitano Bogo…” mormorò.

“Ho bisogno di parlare con il capitano” disse la lepre, spedendo un’occhiata decisa e glaciale verso lo scienziato.

“Non ce n’è bisogno” replicò una voce. All’istante, Jack fece comparire una pistola dalla tasca interna della giacca e la puntò verso la porta, guardando Bellwether attraverso il mirino.

“Ma cosa…” mormorò Judy.

“Abilitata come fattorino presso lo stabilimento scientifico di Zootropolis” fu la risposta. “Sotto ordine diretto del capitano Bogo”.

 

NOTA DELL’AUTORE:
Salve a tutti. Questo capitolo non mi convince più di tanto, ma sto attraversando un periodo di calo e questo è il meglio che riesco a fare.

Scusate se la qualità del capitolo non è ottimale, ma questo micro-blocco dello scrittore prima o poi passerà e allora, se ci sarà bisogno di rivisitare il capitolo lo farò sicuramente.

Fino ad allora, alla prossima, stay tuned

Leonhard

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Capitolo 4
*** Assurdo, no? ***


4. Assurdo, no?

Se Judy avesse negato il sordo nervosismo che provava in quel momento, nella sala controllo dello stabilimento con un agente come Jack Savage come sola compagnia, sarebbe automaticamente stata inserita in lista per il trofeo ‘Bugiardo dell’anno’. La lepre studiava gli schermi con occhi freddi e lei non poté non pensare che era quantomeno ironico il fatto che un tipo così calmo e concentrato si sentisse in dovere di punzecchiare Nick ogni volta che la distanza fra i due andava sotto i…diciamo sei metri.

Scoprì nuovamente il nome del collega rimbalzarle nel cervello: assurdo che si preoccupasse di lui in quel modo anche se era stato assegnato ad un compito così facile. Aveva sospirato e roteato gli occhi quando Jack gli aveva detto di sorvegliare Bellwether da vicino: devi essere la sua ombra, gli aveva detto, e lui si era attaccato alla pecora senza preoccuparsi di sembrare invadente. La seguiva nel magazzino, controllava che pulisse bene i pavimenti, ispezionava le scatole che sistemava sugli scaffali, la aspettava persino fuori dal gabinetto.

E poi c’era Alopex, la cui espressione delusa era stata talmente malcelata da farle pensare che non poteva esistere al mondo una coniglietta tanto ottusa da non accorgersi che avrebbe dato metà del suo cervello per lavorare con lui. La guardava in quel momento, seria e concentrata davanti ad una serie di dati e grafici come se fosse nel suo ambiente di competenza.

“Io quei grafici non saprei nemmeno da che parte leggerli…” commentò. Jack ridacchiò.

“Già: nemmeno io” confessò. “Però agente Hopps, adesso c’è una cosa che vorrei chiederti”.

“Judy andrà benissimo, Jack” ridacchiò la coniglietta. Lui sorrise.

“Molto bene” annuì. “Dimmi Judy: tu ti fidi di Wilde?”.

Non fu sicura di aver capito la domanda. O meglio, quella l’aveva capita: era il rapporto con l’operazione che le sfuggiva. Come poteva la sua fiducia nei confronti del suo collega compromettere o anche solo riguardare la sorveglianza di Bellwether? Curvò le orecchie di lato, incuriosita.

“Certamente” rispose infine. “Gli affiderei la mia vita. E sono più che sicura che anche lui farebbe lo stesso con me”.

“La tua vita…” ripeté lui, tornando con lo sguardo sul monitor. “La tua vita…”. Judy lo guardò incuriosita, mentre una domanda faceva capolino nella sua mente e si posava sulla sua lingua.

“C’è qualcosa che non va?” chiese. “Cos’hai contro Nick? Nemmeno lo conosci e lo tratti così male”.

“Male, Judy?” commentò lui, tornando a guardarla. Quegli occhi di ghiaccio parvero scandagliarla all’interno. “Se volessi trattarlo male ve ne accorgereste tutti quanti. E poi, sembra che lui sia lieto di essere trattato così”.

“Lo vedi?” obiettò lei. “Non lo conosci nemmeno e già…”.

“Conoscerlo?” replicò lui. La voce era calma, ma una sottile nota vibrante di rabbia la costrinse a chiudere la bocca. “Pensi che non lo conosca? È un truffatore, un ladro ed un bugiardo! E quel che è peggio”. Si avvicinò a lei, paralizzandola con gli occhi. “È dannatamente bravo ad ingannare la gente”.

“Tu conosci il vecchio Nick” replicò lei, dopo qualche secondo di smarrimento. “Nick è il mio collega più fidato: mi fido ciecamente di lui”.

“Fai male, Judy” commentò.

“E tu che ne sai?” sbottò riottosa. “Com’è che sai così tante cose di lui da etichettarlo come marcio in partenza?”.

“Perché ci ho avuto a che fare in passato” replicò lui. La voce era tornata atona e gli occhi si posarono nuovamente sugli schermi. Fece una breve carrellata nel cortile esterno poi si collegò alla telecamera del magazzino e si fermò.

Regnò il silenzio per qualche minuto. Sul piccolo monitor era comparso Nick, appoggiato ad uno scaffale, a scrutare attentamente Bellwether riporre dei barattoli sullo scaffale. Judy si ritrovò a fissarlo: lo guardava senza un particolare motivo, ma allo stesso tempo si sentiva incapace di rivolgere la sua attenzione a qualunque altra cosa fosse inquadrata in quella stanzetta.

“Nicolas Wilde” mormorò Jack. “È l’unica nota rossa sul mio curriculum da agente; dovevo dargli la caccia, ma non sono riuscito a trovare nessun valido motivo per metterlo in gabbia dove dovrebbe stare”.

(A no? Hai pensato di controllare la sua dichiarazione dei redditi, coniglio ottuso?) pensò, sognando di poterglielo dire di persona. “E come avrebbe fatto a scappare?”.

“Ci siamo arrivati grazie ad Alopex” borbottò lui. “Un giro contorto dei tunnel sotto Zootropolis: allora non conoscevo questa città e prima che avessi modo di rintracciarlo era scomparsi al suo interno. È poi ricomparso un’altra volta”. Strinse i pugni e digrignò i denti, come se fosse quell’ultima volta il fattore scatenante del suo odio nei confronti della volpe. Ringhiò. “Per salvarmi la vita”.



“Assurdo, non pensi?” disse improvvisamente Dawn, rompendo il silenzio che per tutto quel tempo aveva riempito lo spazio tra lei e Nick.

“Che tu stia facendo servizio civile proprio qui?” replicò lui. “Effettivamente, ti avrei visto meglio in un maglificio”.

“Hai mai letto la storia, Wilde?” chiese lei, incurante. “Lo sapevi com’eravamo prima? Eh? Lo sapevi?”. Rimase vagamente sorpreso che la pecora lo chiamasse per nome: non l’aveva mai fatto e durante il processo l’aveva semplicemente definito ‘la volpe di Hopps’, come fosse

la nemica naturale per eccellenza dei conigli

un cagnolino da compagnia, una sorta di John Watshawk accanto a Sherfox Holmes. Ricordava di aver contemporaneamente abbassato le orecchie e stretto a pugno le zampe, pungendosi i cuscinetti con gli artigli al sentire quella definizione. Ma quella volta accanto a lui c’era Judy e si era dichiarato disposta ad ingoiare quel rospo; quello che tuttavia sospettava era che in quel momento, in quella circostanza e con quei pensieri nella testa, un secondo rospo come quello sarebbe stato semplicemente troppo amaro da ingoiare.

“Certo che lo so” annuì lui. “E so anche che tu non saresti in cima alla catena alimentare, sai?”.

“Lo saresti tu, certo” annuì lei. “Ma sarebbe meno assurdo: dove si è mai visto un coniglio innamorato di una volpe?”.

“Nello stesso posto in cui si è vista una pecora lavorare per un leone, Dumbwether” ridacchiò lui. “E poi, è realmente assurdo che un coniglio si innamori di una volpe: dovresti farlo presente al tuo amico nonché presentargli qualcuno della sua stessa razza”.

“Hai conosciuto Alopex no?” osservò lei. “E l’agente Hopps ha incontrato Savage. E tu hai mai conosciuto l’ebbrezza della natura? Della bella, sincera, spietata natura? L’hanno provata i mammiferi sai? Oh si: mi vorranno sicuramente ringraziare perché è scritto che ogni predatore o preda che sia ami quello che dovrebbe essere in realtà”.

Gli era piaciuto.

“Non so di cosa tu stia parlando” borbottò.

“BUGIARDO!” ruggì la pecora, voltandosi di scatto verso di lui. Gli occhi sbarrati e pregni di un odio incoerente, fuori luogo, ma vivo e pulsante, presente e vero. “Bugiardo” ripeté, con la sua solita voce melliflua. “Lo sai eccome di cosa sto parlando, Wilde”.

Improvvisamente espresse il desiderio di non essere lasciato da solo con lei. Sollevò tutti i suoi muri e di riflesso il suo solito sorrisetto comparve sul muso.

“Anche se lo sapessi” disse. “Non potresti capirlo, batuffolo”.

È la mia parola contro la tua

“Lo capirò” replicò lei, sistemando le casse sugli scaffali. “E quando scenderai a patti con te stesso capirai anche tu. Capirai che non è corretto andare contro natura: questa non può essere considerata evoluzione. Questa…”.

Nick smise di ascoltarla. Possibile che lei sapesse? Sentì nuovamente sulla lingua il sapore rosso del rame e la zampa ingessata smise di prudere. Tornò con la mente al sogno, al ricordo, al laboratorio sotterraneo. Accanto al corpo senza vita di Clawhauser ed al successivo buio pesto da cui si sarebbe risvegliato tornato nella civiltà, tornato in sé

Ma perché non tornarci nel caos della natura? Era pura e bella e giusta…

ma con quella sensazione strana, che sembrava arrivata con il gesso alla zampa. Non sapeva dargli un nome eppure sentiva che l’aveva e doveva solo trovarlo.

“…e poi quel Savage. Ah quanto non mi piace, Wilde…” diceva Dawn scuotendo la testa. “Però un po’ ti capisco…essere discriminato così solo perché sei una volpe…”. Stava saltando da un discorso all’altro senza un’apparente logica e Nick desiderò molto più intensamente la compagnia di un collega, magari qualcuno che avesse le conoscenze necessarie per gestire una pecora diventata pazza.

“Io? Discriminato?” commentò. “Ha! Cerchi di conquistarmi con le battute?”.

“Sai…” osservò lei. “Credevo che mentissi meglio”.

“Questa mi sa di uscita razzista…” osservò lui, con un ghigno. Dawn ridacchiò assieme a lui.

“Beh, sono state queste uscite razziste a far fare a tuo padre la fine che ha fatto” disse. Il sorriso di Nick si congelò sul posto. Suo padre? Come poteva sapere di suo padre? Nessuno sapeva nulla di quello che era successo.

“Di che stai parlando?” borbottò.

“Lo sai perfettamente di che sto parlando” replicò la pecora. E lo sapeva: Nick lo sentiva che Dawn non stava solo dando aria alla bocca. Parlava perché sapeva.

“Dovrai essere più convincente per sconvolgermi, batuffolo” disse, sentendo il suo muro farsi pericolosamente sottile.

“Allora senti qua, volpe ottusa” sbottò lei, voltandosi a guardarlo. Gli occhi erano sbarrati e pulsanti di capillari, ma che tuttavia condivano con la sicurezza quell’espressione trionfante sul suo muso. “Tuo padre è scomparso dalla circolazione quando tu eri cucciolo. Il suo sogno era fondare il più grande parco giochi di Zootropolis, ma nessuno gli concedeva dei finanziamenti perché, ovviamente, era una volpe.

“Ad un certo punto saluta la moglie ed il cucciolo e sparisce dalla circolazione finché non viene ritrovato a Savana Centrale, dentro un tombino beh…troppo stretto per una volpe”. Concluse il racconto con un risolino simile ad un belato che fece istantaneamente ribollire il sangue del poliziotto.

“Beh…sei informata” borbottò, trattenendo con i denti il ringhio di rabbia che sentiva annidato al fondo della gola.

“Mi sei simpatico Wilde”osservò lei. “Sei l’unico predatore della città che può vantarsi di questo”.

“Lusingato…” borbottò lui.

“Quindi, in simpatia, ti dirò che a fare quel lavoretto a tuo padre…” continuò. Fece una pausa, probabilmente mimando qualche stupido quiz televisivo che aveva visto in cella. “…è stato Jack Savage”.

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Capitolo 5
*** Volpe acuta, leprotto ottuso ***


5. Volpe acuta, leprotto ottuso


Alopex era nata in una zona periferica di Tundratown ed il suo manto candido non poteva sposarsi magnificamente con la neve artificiale sparata per le strade. Il momento più imbarazzante della sua vita era stato quando i suoi parenti si erano convinti che stava flirtando con un camaleonte palesemente Hippy, quando in realtà stava solo svolgendo delle ricerche sul motivo per cui aveva la pelle giallo evidenziatore all’interno di un cinema.

La sua mente fertile e così avida di conoscenza era stata una fonte inesauribile di brutti ricordi e macabre scoperte: il trauma di scoprire come nascevano i cuccioli, l’emarginazione a scuola perché troppo intelligente alle primarie e troppo giovane alle superiori, tutti quei militari che dopo il test la guardavano come se fosse una specie in via di estinzione.

E poi, ovviamente, la scomparsa di suo padre e la scoperta del caso Tujunga: in quello stesso momento, parte della sua mente continuava a lavorare su quel crivello. L’unico caso che nemmeno lei era riuscita a risolvere ma che, ne era convinta, c’entrava qualcosa con la scomparsa di suo padre.

“Hai esagerato con lo zolfo” borbottò annusando una provetta comparsa magicamente sotto il suo naso. Volse lo sguardo alle tabelle: i numeri ed i grafici quasi le parlarono, confidandosi con lei. “E la curva d’ascensione è troppo vicina al limite tollerabile: ragazzi, vogliamo immunizzarci o intossicarci?”.

In quel laboratorio Alopex era presente al sessanta percento: il restante quaranta era impegnato a districare pensieri che il muso di Nick le aveva riportato alla luce dopo anni passati in un angolo della sua mente. Portava ancora quella cravatta

Tieni piccolo: questo è tutto quello che abbiamo trovato di tuo padre

e quell’espressione era la stessa che aveva visto l’ultima volta che aveva incrociato il suo cammino, prima di svanire nel tunnel 6B. L’espressione di uno che aveva vinto e sapeva di aver vinto, un’espressione su cui non c’era traccia di un padre disperso né del rancore che poteva portare nei confronti di coloro che gli avevano portato la notizia e la sua cravatta.

Lei gli aveva dato la notizia e Jack gli aveva lasciato nella zampa l’indumento. Si era voltato quando il cucciolo, lacrimando, gli aveva chiesto come si annodava: evidentemente aveva preso la domanda sottogamba, ma lei no. Era stato in quel momento che l’aveva scorta: tenue ed a stento sopravvissuta, ma nei suoi occhi c’era quella luce.

Nick Wilde era una volpe con la luce negli occhi. E tutto quello che voleva era essere presente quando sarebbe esplosa ed avrebbe accecato tutti con la sua luminosità.



Judy guardava svogliata il suo panino alla lattuga, lanciando ogni tanto occhiate alla telecamera nell’angolo alto della stanza. Jack era rimasto in sala controllo per darle modo di fare pranzo in pace, eppure non riusciva a non pensare che l’aveva fatto per evitare di incontrare Nick.

Non era abituata a rimanere per così tanto tempo senza scambiare due battute con il suo partner

Il SUO Nick

e fu con una sorta di nervosismo che riconobbe quel sottile nodo alla gola e quel tappo allo stomaco come nostalgia. Le mancavano i bei momenti con Nick: loro che si punzecchiavano, bisticciavano per delle cose stupide fino a tenersi un muso ed un ostinato silenzio che crollava dopo un’ora al massimo come se non ci fosse mai stato.

Drizzò di scatto le orecchie e si volse verso la porta appena pochi secondi prima che la maniglia si abbassasse. La sagoma dall’altra parte del vetro s’immobilizzò, poi giunse il suono di una risatina.

“Mi dispiace, agente Hopps” disse la voce di Alopex. “Non sono Nick”. La coniglietta cercò di mascherare il disappunto, ma dal sorriso che comparve sul muso della volpe comprese di non esserci riuscita. “Sai…dovrei consigliarti di stare alla larga da quella volpe, ma non ce la faccio”. Ridacchiò mentre pescava dalla tasca della divisa una panino. “Voi coniglietti siete troppo teneri”.

“Ah…” mormorò Judy drizzando le orecchie. “Sai...dire…”.

“Si, lo so scusa” annuì Alopex staccando un morso. “Ma non lo dico con malizia e nemmeno per sminuirti: lo dico nella maniera più positiva che posso pensare”. Aleggiò il silenzio per qualche istante, poi Alopex parlò ancora. “Tu stai morendo dalla voglia di chiedermi cos’è successo tra Nick e Jack”. Non era una domanda.

“Come…?” mormorò. La volpe sospirò.

“Non crederti, una mente così è più una maledizione che altro” borbottò. “Hai mai sentito parlare del caso Tujunga?”. Judy scosse la testa. “Beh, ovviamente: eri ancora cucciola quando è successo quello scandalo”. Si appoggiò allo schienale della sedia con un sospiro.

“A quel tempo, io ero un semplice investigatore” cominciò. “Mi ritrovai tra le mani questo fascicolo contente una decina di profili di animali scomparsi. Io insistetti perché fossi assegnata a questo caso e mi affiancarono a Jack, allora un semplice caposquadra.

“Durante le nostre indagini entrammo in contatto con una giovane ma promettente volpe, Nick Wilde. Ci disse di star raccogliendo informazioni, ma era chiaro che anche lui lavorava al caso; ci affiancò per qualche tempo, ma la cosa non funzionò e fummo costretti a dargli la caccia.

“Non ti nascondo che al tempo desideravo con tutta me stessa vederlo dietro le sbarre; mi ci misi d’impegno ed arrivammo ad un passo dal prenderlo, ma Nick seppe stupire anche me. Di tutte le cose stupide che poteva fare, mai avrei pensato che avrebbe chiesto aiuto a mr.Big di Tundratown; quel toporagno fece sparire tutto quello che lo riguardava e per noi Nick divenne assolutamente intoccabile.

“Lo rivedemmo qualche mesetto dopo: io e Jack ci buttammo a capofitto sul caso di Tujunga, ma fummo fatti prigionieri”. Alla volpe scappò una risata divertita e Judy, rapita dal racconto e dimentica del suo panino, la incitò a continuare. “Beh, la gabbia si apre e ci piomba addosso nientemeno che Nick Wilde in carne, coda ed ossa, che ci guarda con la sua solita espressione sicura di sé e caccia fuori dal taschino la chiave della cella”.

“L’aveva rubata alla guardia!” ridacchiò Judy. Alopex si unì alle risate.

“L’aveva rubata alla guardia” rise, confermando le sue parole. “Ah, ho adorato quella volpe in quel momento. Ha però fatto l’errore di prendere in giro Jack definendolo un leprotto ottuso: ah, se l’è legata stretta al dito”.

“Quindi grazie a lui avete risolto il caso Tujunga” commentò Judy. Il sorriso della volpe svanì dal muso e, con un sospiro scosse la testa.

“No, Judy” disse grave. “Un bel giorno ci è arrivato l’ordine di archiviare il caso; non ha mai trovato soluzione”.

“Cosa?” esclamò la coniglietta. “Perché?”.

“Perché non valeva la pena cercare gli animali scomparsi” fu la risposta. “O almeno, fu quello che ci dissero. Devi capire che il caso Tujunga è stato uno scandalo non perché fu archiviato senza una soluzione, ma perché nessuno ebbe nulla da ridire”.

“Ma che stai dicendo?!” esclamò lei, sbattendo sul tavolo il panino. “Sono scomparsi degli animali ed hanno insabbiato la cosa! Come poteva la gente essere d’accordo?”.

“Perché nessuno aveva la tua mentalità” rispose lei. La voce era fredda, professionale, ma Judy percepì una sottile vena di sconforto ad avvolgere una bruciante sensazione di sconfitta. “Gli animali scomparsi all’interno di Tujunga…erano tutte volpi”.



“Se non mi credi non fa nulla” minimizzò Dawn, agitando con fare noncurante lo zoccolo. “Ma se vuoi…posse fare in modo che tu abbia la tua rivincita sulla lepre…su Savage”. Si volse a guardarlo con occhi famelici, sbarrati. “Quante volte hai fantasticato di fargliela pagare? Di spingerlo in quello stesso tombino in cui ha trovato tuo padre? Ricordi quel giorno vero? Certo che si; che cos’ha fatto per confortare un povero cucciolo di volpe che stava lì a guardare i pezzi del corpo del suo vecchio?”. Nick la guardava in palese conflitto con sé stesso, impegnato in una cruenta e faticosa lotta contro l’istinto di tornare

nella natura

selvatico solo per qualche secondo, sufficienti per saltare addosso a Bellwether, buttarla a terra, guardarla negli occhi, addentare quello stupido pon pon di lana sulla testa e tirare, tirare, tirare…

“…mi ha dato la sua cravatta” mormorò, con voce fremente. Dawn annuì in modo convulso.

“Esatto!” esclamò. “Esatto! Ed è proprio di questo che sto parlando! Rendergli pan per focaccia, fargli maledire il giorno in cui si è messo contro di te!”.

“Hai in mente qualcosa vero?” commentò lui con un ghigno sinistro. Quello che seguì fu un gioco di sguardi, un silenzioso duello in cui i due scandagliarono la mente dell’altro alla ricerca di sfaccettature, di debolezze, di appigli. La prima a distogliere lo sguardo fu Dawn: come se nulla fosse successo, riprese a canticchiare e sistemò una scatola sullo scaffale.

“Se posso darti un consiglio, Wilde” borbottò. “Non perdere di vista Savage”. Tornò con lo sguardo su di lui. “Così come ha fatto con tuo padre, può uccidere in qualunque momento. Stai attento: prima che questa storia finisca, ucciderà ancora…moriranno in tanti…e non mi stupirei se qualcuno morisse per mano sua…”.

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Capitolo 6
*** Io non ho paura ***


6. Io non ho paura


Eppure questo suono…

Era un pensiero che aveva sempre attraversato la mente di Nick in quel secondo in cui l’aria s’impregnava del suono metallico delle manette. Che fosse in un vicolo, in una strada affollata di curiosi o dentro il magazzino di un laboratorio di ricerca, quel suono l’aveva sempre sentito nelle orecchie e contro i polsi; dovuto probabilmente alla sicurezza che per anni era stata sua fedele compagna di scorribande e di avventure.

Quelle manette, un giorno si sarebbero chiuse attorno alle sue zampe.

Era una consapevolezza che aveva sempre sentita giusta quasi a livelli biblici ed il fatto di essere diventato uno di quelli autorizzati a sfoggiarle appese alla cintura l’aveva affievolita di appena un niente. Quel rapido e metallico ronzio avrebbe accompagnato una fugace sensazione di freddo con un tintinnio metallico ed avrebbe immobilizzato le sue zampe com’era giusto: con il tempo se n’era quasi convinto e se c’era una cosa in cui gli insegnamenti di Finnick non avevano funzionato era stato togliergli dalla testa quella convinzione.

L’unica cosa che sperava era che fosse Judy a farlo. E sperava che succedesse prima che quelle zampe si posassero su Jack Savage.

Dawn lo guardava mentre chiudeva il secondo anello attorno al montante dello scaffale: l’espressione era incuriosita, come se avesse davanti agli occhi qualcosa che non capiva appieno, come un libro di matematica.

“Non capisco…” borbottò infine. E non era la sola. “Dopo quello che ti ho detto…quello che ti ho offerto…ancora vuoi stare alle regole della lepre? Continuare a guardarla dal basso verso l’alto?”.

“Non lo faccio” ammise lui, mettendosi dritto e fingendo il suo solito sorriso. “Mi arriva appena al distintivo…”.

“Bah…” belò lei, guardandolo con disappunto. “Che mi aspettavo? Ho perso tempo a cercare di far ragionare una

volpe ottusa

pedina della lepre…”. Nick si volse ed uscì dal magazzino, contando i passi che lo separavano dal suo amato pranzo. L’immagine della busta-frigo faceva furiosamente a pugni con i ricordi e le parole della pecora, riconoscendo che la sua era una pazzia molto lucida.

Aprì la porta della mensa chiedendosi come ci fosse arrivato e quattro occhi saettarono verso di lui. Le orecchie di Judy saettarono in alto, mentre Alopex mosse la coda in un inequivocabile scodinzolio.

“Ehi, Nick” salutò la coniglietta con un sorriso.

“Pensava che non saresti venuto a pranzo” osservò Alopex. “Ma è anche vero che a colazione hai mangiato solo una confezione di fragoline di bosco ed un bicchiere di caffè, che equivale a duecento grammi di cibo. Immagino che questo odorino di pollo sintetico che arriva dal tuo sacchetto sia all’incirca di tre etti, quindi la tua dieta giornaliera suppongo vada dal mezzo chilo al chilo di cibo”. Si alzò e gli tastò la pancia e le zampe. “Ah, seicentoventi grammi giornalieri: ti tieni a stecchetto?”.

“In forma, Alopex” replicò lui afferrando il pranzo e sedendosi. “Si dice in forma. Finiscila di indagare sul sottoscritto”.

“Ah, ma lo sai che non posso farne a meno” rise lei, sedendosi nuovamente accanto a Judy, che la guardava con occhi persi.

“Hai capito tutto questo solo tastandogli la pancia?” mormorò stupita, dimenticandosi nuovamente il panino stretto tra le zampe.

“E non solo” annuì lei, ammiccando con un sorrisetto malizioso. “Potrei dirne di cose in questo momento…”.

“Ma ti asterrai” concluse Nick, addentando il pranzo. “Non credo sia rilevante sapere quanto sedano ha mangiato Carotina ieri sera in base all’odore del suo pelo o del verso in cui è pettinato”.

“Ma dai!” esclamò Alopex sdegnata. “Lo sai che è impossibile capirlo”.

Nel caso Tujunga erano coinvolti Savage e Alopex. Savage ha ucciso mio padre. Alopex mi ha dato la sua cravatta. Il caso è stato archiviato e nessuno ha detto niente perché erano scomparse solo volpi.

Il pensiero lo portò ad osservare la volpe albina; parlava e rideva con Judy e si divertiva un mondo a stuzzicarla su qualche argomento che lui aveva smesso di seguire. Savage aveva davvero ucciso suo padre? Ma perché avrebbe dovuto farlo?

Alzò uno sguardo alla telecamera e quasi poté vedere la lepre dall’altra parte dell’obiettivo: non gli toglieva gli occhi di dosso, come se si aspettasse qualche brutale azione da volpe primitiva e, tanto per non farsi mancare nulla, aveva già armato la pistola ed avvitato il silenziatore sulla canna.

Nessuno ha mai trovato corpi, salvo quello di mio padre. Alopex mi ha dato la sua cravatta.

Era sicuro che Jack Savage fosse uno di quegli agenti segreti che nella tasca interna della giacca teneva tutto: distintivo, occhiali da sole sicuramente fighi e la pistola. Anzi, no: lui andava oltre, non si limitava ad avere solo gli occhiali da sole fighi. Lui aveva una fondina ascellare in cuoio ed una cartucciera alla cintura come un cowboy mancato: gli serviva solo un sigaro a lato della bocca e sarebbe stato un perfetto Clint Bearwood versione coniglio.

Hanno archiviato il caso e nessuno ha detto niente perché erano scomparse solo volpi.

Distolse gli occhi dalla telecamera, conscio del fatto che avrebbe mostrato i denti. Non si accorse di masticare con più veemenza e nemmeno di star sbranando il panino anziché addentarlo finché non si affondò i denti nella zampa. Qualche goccia di sangue macchiò il pelo rossiccio e si confuse tra ciuffi curati e pettinati.

“Nick?” chiamò Alopex, voltandosi verso di lui. L’espressione era preoccupata, ma con una vena di curiosità; i baffi e le narici fremevano, catturando l’odore del sangue. “Ti sei morso una mano?”.

“Savage…” mormorò. Lasciò cadere il panino e corse fuori dalla porta della mensa. Aveva solo il dubbio su quale animale con cui doveva avere a che fare fosse più pericoloso. Arrivò davanti alla porta del magazzino senza nemmeno riflettere: era stato istinto il suo. Puro e semplice

naturale

istinto. La porta la sentiva chiusa, sprangata, nonostante fosse lontana appena una decina di metri. Si sentì trattenere per la coda da due piccole zampe e si volse. Si sorprese a sperare che fosse Jack per lasciar cadere la goccia che avrebbe fatto finalmente strabordare quel dannato vaso.

“Nick, che succede?” chiese Judy, guardandolo con occhi allarmati. Le grandi pupille viola fecero notare alla volpe che quel vaso era talmente gonfio e talmente ansioso di scoppiare che non era necessario Jack Savage in persona.

Bastava un qualunque coniglio.

Sotto il suo sguardo gli lasciò la coda ed arretrò di un passo; Nick non sapeva che occhi doveva averle rivolto, ma ci tenne a mettere le cose in chiaro.

“Non è il momento” disse. La voce gli uscì disgustosamente simile ad un ringhio. Lei scosse la testa.

“Nick, sei agitato” disse. “Che cosa succede?”.

“Succede che una coniglietta impicciona mi sta con il fiato sul collo ostinandosi a credere che basta un tocco di bacchetta o una canzone di dubbia bellezza a risolvere tutti i problemi” esplose. Il naso di Judy fremette e gli occhi si fecero vacui, palesemente feriti; la bocca della volpe, tuttavia, sembrava non potersi fermare. “Questi sono problemi da volpe e tu non lo sei. Sei un coniglio e quindi comportati da coniglio: annusa l’aria, bruca fieno, quello che ti pare ma smettila di trattarmi come se non avessi paura di me”.

“Nick…”.

“Perché hai mollato a casa il repellente per volpi?” indagò ancora, voltandosi verso di lei e sovrastandola con la sua stazza. “Non hai pensato che se i tuoi te l’hanno dato assieme ad una borsata di roba c’era un motivo? Ma tu no, tu ah guardatemi, vado a Zootropolis: entrerò nella polizia e renderò il mondo un posto talmente bello che la gente non avrà bisogno nemmeno di chiudere a chiave le porte di casa! Hai pensato a quello che potrebbe succedere se ti capitasse davanti una volpe…come…me?”.

Era arrivato a pochi centimetri dal muso di Judy, gli occhi erano fiammeggianti ed i denti scoperti: fu attraversato dal pensiero che avrebbe persino potuto specchiarsi nelle sue zanne ed era genuinamente sicuro che avrebbe ricevuto un’occhiata terrorizzata ed una torsione al polso che l’avrebbe immediatamente immobilizzato a terra. La coniglietta non si era mossa di un centimetro: lo guardava con occhi sorpresi, sicuramente feriti, ma soprattutto preoccupati.

Nick si volse, improvvisamente consapevole delle parole uscite dalla sua bocca. Provò una sorda vergogna nel ritardo che aveva avuto nel ricordarsi l’episodio al museo e la conseguente consapevolezza della crudele falsità delle sue parole. Non si volse quando si sentì richiamare da una flebile, tremula vocetta.

“Non ho paura di te…” mormorò Judy, paralizzata sul posto. “Nick, io non ho paura di te!”. Prese fiato, quanto bastava per dirle che lo sapeva: avrebbe voluto scusarsi, avrebbe voluto che lei sapesse che razza di imbecille era e di quanto poco abituato fosse a quella sensazione, ma il suo istinto scelse quel momento per comunicare con lui. Tese le orecchie e fiutò l’aria.

“Oh, per Robin Hood in calzamaglia…!” si lasciò sfuggire, mentre già sentiva la lavata di capo storica che sarebbe arrivata, in cui lui non avrebbe dovuto fare altro che stare zitto e pregare di beccarsi solo una sospensione di due o tre secoli. Coprì con un salto i pochi passi che ancora li separavano dalla porta e la spalancò.

Appese allo scaffale oscillavano abbandonate le manette, che lo salutarono con un vuoto, canzonatorio tintinnio.

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Capitolo 7
*** Disinfettante ***


7. Disinfettante


Il tonfo della stampella contro il pavimento coprì grossolanamente il commento di Nick, decisamente poco incline ad un cartone Disney, e Judy drizzò le orecchie senza trovare la lucidità mentale di rimproverare il collega. Le forze l’abbandonarono per qualche istante per poi tornare come un’ondata incandescente che le arruffò leggermente il pelo.

“Jack!” esclamò alla radio. “Bellwether è scappata!”.

-Cosa?- commentò la voce della lepre dall’altra parte, distorta dai circuiti della trasmittente. La sua voce non era pacata e quella nota stridula di ansia fece digrignare i denti alla volpe.

“Le telecamere, Jack! Trovala!” esclamò la coniglietta. Attimo di silenzio, poi Jack parlò nuovamente.

-Ok, tutti calmi- disse, tornando freddo. –Il laboratorio è attivo e sorvegliato dalle guardie: non può entrare senza attirare l’attenzione e lei ha il divieto di accedervi. Dovunque sia, la troverò. Comunque, complimenti Wilde: la tua sorveglianza è stata qualcosa di ineccepibile-.

“Disse quello seduto davanti alle telecamere” commentò lui raccogliendo la stampella. “Dimmi un po’ tu dove si trova visto che dovevi essere gli occhi del laboratorio”.

-Era una tua responsabilità, Wilde- osservò la lepre dalla radio.

“E allora perché hai preso posto la dentro?” chiese lui, ghignando alla telecamera nell’angolo in alto. “Dì la verità, stavi spiando nei bagni eh?”.

-Non ci sono le telecamere nei bagni- replicò lui asciutto.

“Bene, allora direi che possiamo andarli a controllare per primi” osservò lui, zoppicando fuori dalla stanza e chiudendo la conversazione. Judy spense la radio e lo inseguì.

“Nick senti…” cominciò. “Riguardo a prima…”.

“Non mi sembra il momento, Carotina” interruppe lui. “Avvisa Alopex e cercala anche tu: separati copriremo più luoghi in meno tempo. E poi, siete più veloci di me in questo momento”.

Aveva ragione: la coniglietta si ripeté questo pensiero nella testa mentre lo guardava arrancare verso i bagni e gli spogliatoi con la velocità massima consentitagli dalla zampa ferita. Deglutì; prendere la direzione opposta a quella che gli aveva visto imboccare fu stranamente difficile, ma scosse la testa ed afferrò il pomello della porta della mensa.

(Più tardi) pensò. (Quando avremo acciuffato Bellwether e questa storia sarà finita: non c’è nulla che non possa risolvere, nulla di cui non possa parlarmi). Proprio lei parlava…


Quella città, Zootropolis…era una città di ingrati e di cuccioli da compagnia. Diavolo, che fine avevano fatto le socievoli zebre, i furtivi e timorosi scoiattoli, i lenti e pigri ippopotami? Erano tutti in giacca e cravatta o con un grembiule da fruttivendolo o con un ridicolo cappello di giornale piegato a berretto che impilavano mattoni su mattoni.

Dei tempi della scuola si ricordava un libro della biblioteca civica di Zootropolis: parlava della natura e degli animali primitivi, quelli in cui il richiamo della natura dettava legge e le sole cose che garantivano la sopravvivenza erano la caccia al cibo e l’istinto. Niente classi sociali, niente capi e schiavi, impiegati e operai, ricchi e poveri: solo prede e predatori ed il più veloce, il più forte sopravviveva.

Wilde le aveva detto che lei non era in cima alla catena alimentare: aveva ragione, certamente, ma a lei non interessava. Tutto quanto quello che voleva era dar vita al suo sogno meglio nascosto nel suo piccolo cassetto.

Il ruggito del leone: diamine se voleva sentirlo.

Non il ruggito che il sindaco Lionheart le rivolgeva quando inciampava e dava il giro alla pila eccessivamente alta di documenti che portava tra le piccole zampe oppure quello di quando gli aveva rovesciato il caffè sui pantaloni di flanella blu mentre lui ancora stringeva tra le zampe lo scontrino. No, quello che voleva era il re degli animali, non il sindaco di Zootropolis. Rivolse un sorrisetto affabile ai due lupi di guardia al laboratorio e mostrò il badge attaccato al collare accanto alla campanella. Uno dei due si abbassò sul secchio ed annusò.

“Detersivo nuovo?” ringhiò, squadrandola con occhi piccoli.

“Era nel magazzino” replicò lei pescando il flacone da sotto il carrello. “Non ho trovato l’altro: c’è scritto che ha un forte potere disinfettante, quindi…”.

“Va bene, va bene” sbottò il lupo spostandosi accanto alla pecora. “Ma fai in fretta: questo odore mi sta facendo venire la nausea…”. Dawn venne scortata all’interno del laboratorio e lanciò un’occhiata alla telecamera in alto, che si volse lenta verso di lei.

Ingoiò a fatica un ghigno compromettente e cominciò a lavare a terra con l’espressione più serena e pacifica del suo repertorio. Si mise perfino a fischiettare un motivetto che aveva sentito qualche tempo fa, uno spezzone di una canzone dei Liga-Bue. Massì, che Savage guardasse: avrebbe visto solo una pecorella che lavava il pavimento, com’era suo dovere, e per quando l’avrebbero raggiunta il suo

scaccomatto

piano sarebbe andato in porto in modo talmente fluido da farle dubitare dell’effettivo successo. Continuò a passare lo straccio sul pavimento, mentre il lupo alle sue spalle sbuffava e starnutiva dal naso infastidito dall’odore pungente del disinfettante.

“Ma che stai usando?” sbottò improvvisamente. Si volse verso di lui.

“Hai visto il flacone no?” osservò. “È un disinfettante molto potente”.

“Lo sento…” tossì lui. La telecamera non le toglieva l’obiettivo di dosso: indovinò Savage che comunicava agli altri tre paladini la sua posizione. Prese uno strofinaccio e passò le superfici, fino ad arrivare al serbatoio con il vaccino. Sentiva ancora il lupo dietro di sé e decise che quella era la sua occasione.

Si volse di scatto e premette lo straccio imbevuto del disinfettante contro il suo muso. L’animale si ritrasse, ma ormai il suo naso era pregno dell’odore pungente e gli occhi gli cominciarono all’istante a lacrimare. Pochi istanti e l’allarme scattò: le luci si spensero, mentre una sirena rossa diffuse l’allarme per tutto lo stabilimento. Si sporse sul serbatoio e strizzò il canovaccio al suo interno.

Appena un bicchiere di detersivo si mischiò con l’azzurro del vaccino e la superficie del liquido venne increspata dalle piccole onde che si riversarono lente contro le pareti del serbatoio. Immediatamente dopo, le porte si spalancarono e lei si volse.

Jack Savage le stava puntando contro una pistola, mentre L’agente Hopps la immobilizzava a terra con un salto da manuale. La caduta rovesciò il secchio e sparse l’odoroso contenuto per tutto il laboratorio, saturando l’aria. Alopex barcollò, ma ebbe la prontezza di coprirsi il muso con un fazzoletto prima di affacciarsi sul serbatoio.

“Alopex?” borbottò Jack, palesemente provato dall’odore nel laboratorio.

“Difficile dirlo” replicò lei. “Non sembra modificato, ma non posso esserne sicura”.

“Che hai fatto qui dentro?” ringhiò la lepre. In quella, Nick zoppicò all’interno della stanza, bloccandosi immediatamente e portandosi la mano libera al naso.

“Chi ha le ascelle acide qui dentro?” sbottò.

“Io? Non ho fatto nulla” replicò la pecora, apparentemente indifferente alla puzza. “Quel lupo mi stava importunando e così l’ho schiaffeggiato con lo strofinaccio”.

“Lo porto fuori” disse immediatamente Nick, chinandosi verso l’animale. “Forza amico: non sai quanto ti capisco…”.

“A titolo preventivo, dobbiamo impedire il lancio del vaccino nell’aria” decise Jack, ammanettando nuovamente Bellwether. “Te ne torni in galera e ci rimani finché non diventerai buona nemmeno per i maglioni”.

“Jack, non possiamo bloccarlo” disse Alopex, voltandosi. “La diffusione è automatizzata e sono stati esclusi gli interventi esterni”.

“Pirata il sistema” replicò lui immediatamente, come se fosse la cosa più ovvia. La volpe si morse il labbro inferiore.

“La fai facile tu…” borbottò. “Posso tentare, ma ho troppo poco tempo”.

“Allora non perderne altro!” sbraitò la lepre, dardeggiando fuoco con lo sguardo. Alopex si diresse verso l’uscita ma si bloccò: rimase immobile per qualche secondo, poi afferrò una provetta di vaccino dal bancone e scomparve oltre le soglia. Judy poté chiaramente sentirla tirare un sospiro poco fuori dalla stanza.

“Dannati disinfettanti…” borbottò, prima che i suoi passi affrettati svanissero nel corridoio. Tra i presenti nel laboratorio cadde il silenzio: nell’aria continuarono a squillare le sirene dell’allarme, mentre lo scalpiccio degli scienziati diretti alle uscite di sicurezza rimbalzava debolmente nell’eco dei corridoi ormai deserti.

“Che facciamo Jack?” mormorò infine Judy. La lepre sussultò, come se fosse inconsapevole della sua presenza. Le lanciò un’occhiata allarmata e scosse la testa.

“Incrociamo le dita” disse semplicemente. “E preghiamo che Alopex riesca a violare il sistema in tempo per fermare il conto alla rovescia”. La coniglietta si volse verso il macchinario contro il muro. Sullo schermo del computer ruotava una piccola icona, che si assottigliava attorno ad un numero lampeggiante che calava in modo inesorabile. Senza una particolare ragione, chiamò Nick.

“Sono qui, Carotina” rispose la volpe. “Tutto bene, il lupo sta dicendo qualcosa a proposito di Fast&Furrius: non so bene cosa possa c’entrare, ma…”.

“Vieni qui…” chiamò: una richiesta che assomigliava sospettosamente ad una supplica.

“Te lo scordi” fu la risposta. “Al mio naso ci tengo”. Seguirono attimi di nervoso silenzio, in cui tutti attendevano che la radio entrasse in funzione e trasmettesse la voce di Alopex che diceva che era andato tutto bene, che era riuscita a violare il sistema e che il vaccino non sarebbe stato vaporizzato nell’aria. La sirena continuava a compiere il suo lavoro ed avvertiva del pericolo un laboratorio ormai vuoto; il suono riecheggiava per i corridoi, s’insinuava nelle stanze e saturava l’aria delle camere di coltura. Il conto alla rovescia non accennava a sparire, avvicinandosi sempre più allo zero.

Quindici secondi.

“Deve esserci qualcosa che possiamo fare…” borbottò la coniglietta. Si volse verso Jack in cerca di una conferma, ma trovò solo la pistola puntata su di lei e, dietro, l’espressione glaciale della lepre che la paralizzava sul posto.

“Noi non faremo nulla, Judy” disse piano. “È tutto nelle mani di Alopex”.

Dieci secondi.

“Cosa…” mormorò lei.

“Non hai fiducia in lei?” chiese ancora. “Hai fiducia in Wilde e non in Alopex?”. Nominò Nick lentamente, con una nota più grave: sapeva di dover scegliere accuratamente le parole ed era più che sicuro che lei avrebbe colto il messaggio velato. Per non lasciar spazio a dubbi, spostò lentamente l’arma verso la porta d’ingresso, da cui faceva capolino la punta della stampella di Nick. Mosse le labbra.

Prendi iniziative e Wilde morirà.

Cinque secondi.


-Niente da fare Jack- frusciò la voce di Alopex dalla trasmittente dei due. –Troppo poco tempo- Dove Judy trovò la forza di voltarsi verso lo schermo non le seppe mai nemmeno lei. Sotto il suono incessante della sirena i motori del cannoni muggirono, caricando il vaccino, o qualunque cosa fosse, nei cannoni.

Zero.

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Capitolo 8
*** Cavallo cattura cavallo ***


8. Cavallo cattura cavallo


Bonnie Hopps era uno di quei conigli con la mente stranamente aperta, ma di indole cauta e timorosa come voleva per lei quella parte di natura che l’evoluzione proprio non era riuscita a sradicare. La sua nidiata, di dimensioni modeste vista la sua età e comparata con le famiglie accanto, era cresciuta con pochi divieti ed ancor meno rimproveri, tutti celermente compensati da Stu: lui non vedeva effettivamente l’ora di sfoderare il suo sguardo orgoglioso alla vista dei suoi figli che si occupavano di un singolo filone di carote a testa.

Bonnie Hopps era uno di quei conigli atipici: un coniglio strano, un coniglio che remava controcorrente, che faceva a pugni con sé stessa e l’aveva dimostrato al mondo intero quando, qualche anno prima, aveva dichiarato che il numero dei loro figli non sarebbe più salito. Alle orecchie di tutta Bunnybureau, un villaggio popolato da soli conigli, era parso quasi contro natura, al punto che per qualche tempo era serpeggiata la voce che lei non fosse un vero coniglio ma qualcos’altro, qualcosa di sbagliato, frutto della violazione di un tacito e mai scritto tabù.

Dentro di sé, in un angolino ben nascosto della sua mente, rifletteva ogni tanto sulla banalità della loro natura: i conigli nascono, si dedicano interamente alla famiglia finché i genitori non decidono che devono averne una anche loro, normalmente in coincidenza con il primo calore. E allora partiva una trafila noiosa, monotona e ripetitiva che rimbalzava dal fare figli al produrre cibo che sarebbe servito per guadagnare i soldi che servivano per crescere altri figli che avrebbero prodotto ancora più cibo per guadagnare più soldi per più figli: questo gioco dell’altalena l’aveva stancata, al punto da farle provare il sordo desiderio di scendere.

Quando una piccola Judy sopra un palcoscenico troppo alto per loro si era calcata sulla testolina un cappello da poliziotto, aveva ricambiato con il marito uno sguardo confuso e preoccupato che tuttavia serviva unicamente da maschera per celare l’orgoglio che sentì divampare dentro di sé. Ma Stu…beh, lui era aperto di mente quanto bastava per non gettare le carote che nascevano con una forma grottesca, bizzarra e talvolta anche erotica: sicuramente non poteva pensare che una delle sue figlie si sarebbe trasferita a Zootropolis perché nei suoi sogni più grandi c’era uno scintillante e dorato distintivo e non un cappello di paglia e delle casse di verdura.

La sua natura titubante e timida le aveva lasciato in eredità un istintivo moto di sospetto per le cose nuove e strane e una di quelle era stato lo spettacolo che la sera prima aveva preannunciato Judy durante la loro video telefonata su Furrbook, assieme all’invito ad assistervi perché, sue testuali parole, sarebbe stata la ciliegina sulla torta alla sua prima indagine.

Se c’era una cosa che Stu Hopps adorava, a parte il suo lavoro, la monotonia della sua vita e coltivare la terra, era l’azzurro. Parecchie volte si perdeva ad osservare il cielo estivo e poco sembrava importargliene della calura e del sole e dell’emicrania che l’avrebbe aspettato la sera: lui guardava il cielo con occhi persi.

“I nostri antenati non lo guardavano mai il cielo” diceva ogni volta che uno dei suoi figli gli chiedeva il motivo. Come se quella fosse una risposta soddisfacente per una mente curiosa come quella di un cucciolo di coniglio. La cappa azzurra, come l’aveva battezzata pochi secondi dopo la fine della chiamata con Judy, sarebbe stata a momenti, ma lui era seduto sulla veranda della sua casa già da due ore, fissando l’ombra lontana della città con occhi pieni di speranza ed aspettativa.

Dieci secondi.

Bonnie era rimasta in casa: i cambiamenti e le cose nuove la lasciavano titubante e proprio non riusciva a comprenderne il motivo. Tutto quello che sentiva era una sorda voglia di lasciare almeno un vetro tra lei e quello spettacolo che sarebbe iniziato in qualunque momento.

Era stata naturalmente felice per la figlia e non aveva dubbi sul fatto che sarebbe andato tutto bene: aveva Nick Wilde al suo fianco e, sebbene non l’avesse mai visto, sentiva quasi di conoscerlo dai racconti di Judy. Le piaceva pensare a quella strana volpe truffaldina e dalla risposta pronta e sagace come una specie di angelo custode: anche Stu lo vedeva in quel ruolo e la prova era stata il suo augurio che non diventasse qualcosa di più. Lavorare con le volpi era ok, ma spingersi sul non professionale era assolutamente inaccettabile, specie se la cosa includeva sua figlia con quello sguardo e quella voce.

Anche su quel punto Bonnie si trovava in un limbo, esattamente come a quella famosa recita: la tradizione, il conservatorismo da una parte ed il cuore di mamma dall’altra che nulla augurava alla figlia se non la felicità, in qualunque forma e con qualunque animale.

Cinque secondi.

Judy forse non lo sapeva, ma la città l’aveva cambiata: non era ingenua, non lo era mai stata, ma aveva sviluppato una sorta di abitudine a rispondere ‘vedremo la prossima volta’ ogni volta che l’invito a tornare si estendeva anche al suo collega: una volpe in più a Bunnybureau che non fosse Gideon Gray non sarebbe stata un problema, soprattutto se era solo di passaggio.

Vedremo la prossima volta: quante prossime volte ci sarebbero state prima che avrebbe loro fatto l’onore di conoscere il poliziotto che più di ogni altro faceva fremere il naso alla loro figlioletta?

Allora la prossima volta vi aspettiamo tutti e due.

Zero.




Judy aveva raccontato ai suoi genitori della nuvola azzurra che avrebbe avvolto Zootropolis come una coltre di nebbia: quello sarebbe stato la diffusione del vaccino contro gli Ululatori, ma in quel momento, aggrappata al parapetto della terrazza del centro ricerche (parapetto le sembrava un nome molto poco azzeccato) non riuscì a vederla come una scintillante coperta del colore del cielo.

La guardava con occhi colmi di preoccupazione, cercando da qualche parte nella sua testa anche solo un neurone che avesse in quel momento l’immagine dei suoi genitori da offrirle. La cappa di fumosa brina si posò sulla città, nascondendola alla vista, obliterandola dal mondo con una lentezza surreale, quasi fosse la scena di un film horror: la suspance la obbligò a trattenere il respiro, mentre Jack sbraitava alla radiolina ordini che lei non coglieva.

Il passo pesante della stampella la informò che Nick si stava appoggiando al parapetto accanto a lei: l’espressione sul suo volto tradiva la preoccupazione mischiata alla maschera sprezzante che usava ogni volta che doveva coprire il suo lato debole.

“Speriamo che l’additivo di Bellwether fosse la rigenerazione rapida” disse con un sorrisetto sarcastico e fintissimo. “Oppure una pelle d’acciaio come quella di Bullk”.

“Non ti ci vedo con la pelliccia verde” osservò la coniglietta, stando al suo gioco e pregando che uno scambio di battute cretine aiutasse ad alleggerire l’atmosfera tesa che si stava creando. La volpe ridacchiò.

“Perché no? Farebbe pendant con la camicia” replicò lui. Judy ridacchiò senza tuttavia sentirne una reale voglia.

-Ragazzi, non ci crederete mai- crepitò la voce di Alopex dalla ricetrasmittente. –Il vaccino nell’atmosfera…funziona-. I tre si scambiarono un’occhiata perplessa.

“Che stai dicendo, Alopex?” borbottò Jack. “Bellwether l’ha manomesso”.

-Lo so, ma l’effetto non è mutato- replicò la volpe albina. –Ho fatto una simulazione al computer su una cavia virtuale: i predatori non perderanno la ragione anche se esposti agli Ululatori. Stando ai risultati…-.

“È un test al computer Alopex” fece presente la lepre, leggermente stizzita. “Come puoi pensare che darei credito ad una…”.

-Aspetta un attimo, c’è dell’altro- interruppe la voce della volpe. –Sembra che…ma cosa…oh…oh santa…oh no…no, no…rientrate immediatamente nel laboratorio e chiudetevi in una camera stagna-.

“Che cosa?” replicò Nick, prendendo la radiolina dalla spalla. “Che sta succedendo? Cosa vedi?”.

-Entrate immediatamente!- sbraitò Alopex, la voce era intrisa di panico. –Tutti dentro, dannazione!-. I tre si guardarono poi si volsero e rientrarono, diretti al laboratorio. A metà strada incrociarono Alopex: il pelo era arruffato e lo sguardo attonito e sbarrato.

“Che diavolo succede?” ringhiò Jack. “Tu e le tue simulazioni: che hai visto di tanto sconvolgente?”. La volpe non rispose: si limitò a girare lo schermo del portatile nella loro direzione. Lampeggiava la proiezione di un animale, chiaramente un predatore, ma a quattro zampe e affiancato da un filamento di DNA che lampeggiava e cambiava colore ad ogni rotazione.

“Per chi parla inglese e legge le lettere?” borbottò Nick. “C’è un manuale di istruzioni? Un tutorial si Salvatore Howlzulla?”.

“Non ne sono ancora sicura” borbottò Alopex, voltando nuovamente il pc verso di lei. “Ho una teoria, ma preferisco evitare di pensarci. In ogni caso…”. Scrutò i tre davanti a lei con occhi seri, quasi gelidi, poi estrasse una siringa e spinse l’ago nella spalla di Judy, svuotando il serbatoio nel suo corpo. La coniglietta si ritrasse di scatto, finendo contro la divisa di Nick; vi premette la schiena, percependo il calore del pelo dell’amico attraverso il tessuto, i muscoli tendersi ed incurvarsi.

“Che stai facendo?” chiese la volpe, avvolgendo la coniglietta con la coda in un simbolico gesto protettivo. Alopex sorrise.

“Tranquilli” disse. “È il vaccino non modificato”. Davanti al silenzio dei colleghi, la volpe sorrise. “Ho voluto prendere delle precauzioni: il vaccino originale protegge dagli Ululatori ed anche dalla variante presente nell’atmosfera di Zootropolis”.

“Perché l’hai vaccinata con quello?” chiese Jack. Aveva le braccia incrociate, ma era palese che stava stringendo il calcio della pistola nascosta sotto la giacca. Il sorriso di Alopex non svanì né mutò: li guardò tutti uno per uno e scosse la testa, rendendosi conto che la conclusione più logica stava diventando anche la più probabile.

“Perché sono sicura che esiste un motivo per cui proprio noi quattro siamo stati radunati” disse. “E se le cose prenderanno una piega brutta, o almeno strana, lei è l’unica di noi in grado di arrivarci: ho solamente assicurato la sopravvivenza dei Quattro Cavalli”.

La situazione degenerò in fretta: il vento era cambiato, ma il fiuto di Nick e di Alopex arrivò troppo tardi. Dalle bocchette dell’aria calò lento e minaccioso una colata fumosa di vaccino, che investì i quattro. Judy annusò l’aria: il vaccino odorava di fiori di campo misto ad erba tagliata di fresco. Un profumo gradevole, che sapeva di libertà. Ebbe appena il tempo di formulare quel pensiero, poi Jack si volse verso Nick e la sua espressione cambiò.

Conosceva Jack da troppo poco per poter dire di saperlo gestire, ma se c’era una cosa che aveva imparato era che quando quella lepre cambiava espressione così repentinamente era il momento di preoccuparsi sul serio: lo sguardo con cui fissava Nick era attento, sbarrato e spaventato.

No, non era spaventato: quello che si leggeva sul suo muso era senza ombra di dubbio terrore.

Un terrore dirompente, inarrestabile, che spazzava via qualunque cosa incontrasse sul suo cammino: autocontrollo, compostezza, raziocinio, sangue freddo, logica, tutto. Preda di quel panico, arretrò di qualche passo ed incespicò sulle sue stesse zampe, cadendo goffamente all’indietro. Nick gli restituì uno sguardo incuriosito, mentre Alopex chiudeva il portatile con movimenti lenti.

“Che ti succede Savage?” chiese il poliziotto. “Non ricordi come si sta in piedi?”.

“STAMMI LONTANO!” squittì. Con una velocità assolutamente anomala, la pistola fece la sua comparsa stretta nella zampa e l’istante successivo il singolo occhio scuro della canna scrutava Nick. Ci fu un piccolo scricchiolio talmente sottile e veloce che nessuno in quel corridoio avrebbe potuto giurare che ci fosse effettivamente stato.

Poi lo sparo.

Davanti agli occhi di Judy, paralizzata dalla sorpresa e dalla paura, ci fu un lampo bianco, poi la scena si paralizzò. Il fumo azzurro si depose al suolo, assieme alle gocce di sangue che inzaccheravano le piastrelle sotto Alopex.

Il fiore rosso che era improvvisamente sbocciato sulla sua pelliccia era risaltato dal bianco immacolato del pelo; la volpe albina rimase congelata in un singolo istante poi crollò a terra, ai piedi di Nick, immobile. La volpe rimase impietrita a guardare il vuoto tra lui e la lepre, che continuava a premere il grilletto nella sua direzione, apparentemente sordo del vuoto ticchettio del cane contro il carrello retratto. Quel terrore la faceva ancora da padrone negli occhi celesti della lepre, che non ne volevano sapere di lasciare la volpe.

“Tu…” mormorò infine. “Tu…non puoi riconoscermi, vero?”. Dalla gola di Nick uscì un lamento strozzato, sovrastato dalla risata di Bellwether dall’altra parte del corridoio.

In quella stridula risatina vi era solamente la vittoria.



NOTA DELL'AUTORE:

Infine ci siamo: siamo finalmente arrivati al penultimo aggiornamento. Ebbene si, il prossimo capitolo sarà quello conclusivo. Sono veramente colpito e commosso dal successo che ha avuto questa storia assolutamente senza pretese e nata quasi per caso e ci tenevo a ritagliarmi un momento per ringraziarvi tutti, dal primo all'ultimo, per aver dedicato a questa fic un po' del vostro tempo.

E' stato un esperimento che ha dato risultati assolutamente inaspettati e non vedo veramente l'ora di farvi leggere la conclusione che ho pensato per questa vicenda. Altro non ho da dire al momento, quindi vi invito a godervi la suspance che spero di aver creato e di soddisfare al meglio delle mie possibilità.

Alla prossima, stay tuned

Leonhard

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Capitolo 9
*** Game, Set, Match ***


9. Game, Set, Match


Quando era solo un cucciolo, Nicolas Wilde era psicologicamente incapace di mentire.

Un cucciolo allegro, sveglio, estroverso e pieno di voglia di vivere, con una tendenza quasi patologica all’onestà. Non poteva nascondere nulla alla madre: gli insuccessi a scuola, le litigate con gli amici, quella ciocca di peli mancante che stonava così tanto sulla sua coda folta.

Persino la prima cotta non seppe nasconderla: nonostante l’imbarazzo di sognare una storia platonica con la maestra, fu costretto da qualcosa dentro di sé a vuotare il sacco senza nemmeno prendere in considerazione anche solo l’idea di dissimulare.

Sua madre sorrideva e scuoteva la testa, avvolgendolo nella sua coda grande e soffice mentre lo abbracciava e gli sussurrava nell’orecchio di quanto la rendesse fiera e felice. Lui sorrideva ogni volta, al settimo cielo per la gioia di aver strappato un sorriso ad una volpe che non si era mai ripresa dalla scomparsa di suo padre.

Lei era il suo ricettacolo di segreti, la sua cassaforte per tutti gli episodi che solo lui avrebbe dovuto conservare. Molto più avanti, quando il piccolo ed innocente Nick sarebbe stato meno piccolo e molto meno innocente, avrebbe ripensato alla madre ed a quel giorno divenuto lontano in troppo poco tempo.

Complice un piccolo ciuffo candido di peli sulla sua pelliccia, ben nascosto dalla camicia, avrebbe pensato alla madre come un letto di neve che copre e nasconde e rende tutto bianco e puro e bello, indipendentemente da quanto marcio fosse il mondo. E formulando quel pensiero sarebbe tornato ad essere un volpacchiotto onesto a livelli imbarazzanti per una manciata di secondi.

Si ricordava perfettamente della prima volta che aveva detto una bugia; aveva valicato un confine nascosto da cui non sarebbe mai più tornato indietro ed aveva trovato quasi surreale la facilità con cui era successo. Era come se una parte di lui fosse finalmente riuscita a farsi largo in tutta quell’innocenza, quella gioia di vivere apparentemente non conforme ad un predatore come lui.

Io, Nicolas Wilde

Era stato il giorno dei cambiamenti in lui e non solo per la capacità tutta nuova di mentire: il progressivo rifuggire del contatto fisico, l’abitudine di usare il naso prima della bocca al cospetto di un piatto, la necessità di mettersi davanti allo specchio della sua cameretta per ore e dare i primi colpi di scalpello per modellare la sua parlantina.

Ma tutte quelle cose, dal passarsi una zampa sulla nuca ogni volta che pensava allo smettere di ridere forte per evitare di attirare l’attenzione, non battevano quel nuovo gioco della falsa verità: era un gioco proibito e per questo affascinante, ammaliante, lo attirava a sé come quei caldi abbracci che cominciava a sentire troppo stretti.

E la prima volta è sempre quella che resta, sempre quella che lascia una cicatrice che non guarisce mai del tutto, che pizzicherà per tutta la vita al cospetto della verità. Era stato un tragitto tanto breve all’andata come lungo una vita al ritorno; la figura della madre si stagliava da qualche parte nella sua mente, talmente sfocata da apparire come una sagoma indistinta e fumosa.

prometto di essere

Si vedeva riflesso nelle pozzanghere: una piccola volpe dentro un’uniforme da scout nuova di zecca che sarebbe dovuta appartenere ad una zebra o ad un ippopotamo. Che ci faceva in quella divisa una volpe? La madre lo aveva accolto con uno degli ultimi abbracci che lui avrebbe tollerato volentieri e l’aveva guardato dritto negli occhi chiedendogli se avesse fatto amicizia, com’erano i cuccioli al quartier generale degli Scout Ranger.

In quel momento, il piccolo Nick aveva sentito la gola bruciare e la lingua pizzicare: non si era mai accorto che la verità fosse così sgradevole di tanto in tanto. Sentiva dentro di sé l’urgenza, il bisogno di raccontare alla madre tutto: il giuramento finito con l’assalto di cinque cuccioli che ridevano e lo schernivano e giocavano un gioco che l’aveva terrorizzato a morte.

Voleva raccontare di quanto fosse sgradevole la sensazione della bocca chiusa da una museruola, il laccio di cuoio che stringeva sulla nuca e tirava i peli, il freddo degli anelli di metallo ai lati del muso. E poi voleva raccontare ciò che gli faceva più male di tutto quello che la museruola gli aveva fatto; raccontare di come si era sentito spaesato al pensare che quel giuramento lui l’aveva fatto con tutta l’onestà che sentiva di possedere.

coraggioso, leale, disponibile e affidabile.

Erano quattro termini che trovava di una bellezza infinita, quattro parole che risplendevano nel mezzo del vocabolario e quanto si era esercitata davanti allo specchio per riuscire a dirle senza far tremare la voce, senza pensare ad altro, addirittura cercando il tono giusto con cui dirle. E le parole non erano state sbagliate: il tono, l’intenzione, nemmeno il fervore e la lieve impazienza di far parte di quel gruppo ed avere la possibilità di vantarsene con tutti gli animali che avrebbe incrociato durante il tragitto di ritorno erano stati sbagliati. La sua mente di cucciolo era arrivata alla soluzione più logica che poteva esserci.

Lo sbaglio era lui dentro quella divisa.

Anche se sei…una volpe?

E con gli occhi della mente aveva visto il mostro più spaventoso che potesse esistere, talmente terrificante che non era mai stato in grado di immaginarselo: sé stesso che si separava lentamente dall’abbraccio della madre, la guardava con un gran sorriso e piantava gli occhi dritti nei suoi.

“Tutto bellissimo, mamma: adoro quel posto e mi sono fatto un sacco di amici”.

Si era sbagliato: era quella visione la parte veramente dolorosa di tutto quel giorno. Le aveva mentito spudoratamente, riuscendo addirittura a guardarla negli occhi. Ed in quel momento, precisamente in quell’istante, decise che mai più avrebbe sofferto nuovamente quel dolore: dopo una notte passata con il muso schiacciato contro il cuscino, soffocando i singhiozzi con il terrore che la madre lo sentisse, ritoccò i dettagli della sua risoluta decisione.

Quel dolore sarebbe diventato parte di lui e l’avrebbe incastonato talmente bene da farlo diventare il suo prezioso compagno, la sua spia d’allarme oltre il quale sarebbe stato completamente in balia del suo lato debole.

Perche…anche tu hai un lato debole?

Oh, eccome se ce l’ho. Ed è sempre stato al mio fianco.


Come in un flash, Judy rivisse la pausa al bar, rivedendo quella manciata di istanti e sentendo le budella torcersi allo stesso modo. Doveva veramente cominciare a credere nelle premonizioni? Al destino? Oppure all’esistenza di un Grande Coniglio oltre le nubi che l’aveva particolarmente a cuore?

Perché per quale altro motivo avrebbe dovuto pensare a loro quando il cavallo nero di Jack aveva mangiato quello bianco di Nick?

Alopex era riversa a terra, al centro di una pozza rossa che si espandeva lenta. Nick non riusciva a distogliere gli occhi dal corpo, oppure non voleva, mentre Jack continuava a guardarlo come fosse una bomba pronta ad esplodergli in faccia. Nelle orecchie di tutti riecheggiava ancora la risatina di Bellwether e Judy sentiva il proprio sangue ribollire, accompagnata da un desiderio di fare del male che mai in vita sua aveva provato.

Sfidando sé stessa, si volse infine verso la pecora: puntava loro contro una pistola scarica e gli occhi erano talmente sbarrati che sembrava che da un momento all’altro sarebbero scivolati fuori dalle orbite. Accanto a lei sentì il ticchettio dei denti di Nick che cozzavano tra loro: tremava di paura, di rabbia, di dolore. Cercò a tentoni la sua zampa e la strinse.

“Hai la zampa rotta, Nick” mormorò.

“Judy…” mormorò lui in risposta. “Tienimi stretto…o allontanati da me”.

“Il primo animale nella spazio è stato un predatore” disse Bellwether. La voce era instabile, tremula, ma potente e vittoriosa. “Ma il primo ad essere clonato è stata una pecora”. Pigiò il grilletto ed un ennesimo ticchettio vuoto riempì la sala. “Il predatore è morto nel tentativo, ma la pecora è sopravvissuta: noi siamo le più forti. Le prede sono i più forti”.

Davanti agli occhi di Judy il mondo subì una brusca frenata: prima la zampa di Nick che svaniva da sotto la sua, una folgore rossastra davanti ai suoi occhi. Poi fu il turno dei suoni: il ticchettio di una pistola, se quella di Bellwether o di Jack non era importante, la stampella che cadeva a terra con una serie di tonfi metallici e poi un gorgogliante verso pregno di una crudeltà che non esisteva.

Per ultimi nuovamente i denti che produssero un ticchettio diverso, più soffocato, più liquido. Poi un breve rumore di zuffa, unito ad uno strozzato respiro ed infine un ruggito nell’aria.

Il ruggito del leone.

Judy sbatté le palpebre, realizzando la scena davanti a sé e cercando ovunque la forza sufficiente almeno di coprirsi la bocca con le zampe per non urlare. Bellwether volse debolmente la testa, inzaccherando di altro sangue le fauci di Nick piantate attorno al suo collo e le sorrise.

“Veramente bello…” spirò. “Il…ruggito…”.

Le sue orecchie captarono lieve una cacofonia di suoni del tutto nuovi provenienti da fuori, da lontano. Non riuscì ad interessarsene, presa com’era dalla vista del suo collega: stava tornando in sé e la prima cosa che fece fu spalancare la bocca e lasciare andare la pecora con urgenza e sconcerto. Era curvo sulla braccia e la zampa ingessata era a qualche centimetro da terra; la volpe rimase a fissare gli occhi ormai spenti di Bellwether, poi si girarono verso di lei.

 E la paura le esplose dentro come un vulcano, paralizzandola sul posto e tramutando il suo sguardo. Si perse negli occhi verdi di Nick, implorandolo involontariamente di non prendere anche lei, di non saltarle addosso in quel modo perche sarebbe morta d’infarto alla vista dei suoi muscoli scattare. Era curvo, con la divisa e la bocca invasi da una chiazza scura e gocciolante rosso. L’aria si congelò per qualche istante poi Nick su alzò ed uscì, senza dire una parola. Judy avrebbe voluto seguirlo,

perché?

parlargli,

di cosa?

rassicurarlo e dirgli tutto: ciò che aveva visto e ciò che vedeva, ciò che aveva sentito e ciò che in quel momento sentiva. Ed era un impulso urgente, come se il Grande Coniglio stesse nuovamente parlando con lei e la stesse incitando a farlo.

Perché esisteva la concreta possibilità che un’altra occasione non ci sarebbe stata.

Il suo corpo tuttavia non si mosse, la sua voce non uscì, i suoi occhi continuarono ad essere invasi dal terrore e fu solo la figura di Jack che, pistola alla zampa, si mise al suo inseguimento che la coniglietta riprese all’istante il controllo del suo corpo. Immobilizzò la lepre e lo disarmò torcendogli la zampa dietro la schiena.

“Fermo Jack” disse, chiedendosi se fosse funzionale il matrimonio tra una voce tremula ed un tono deciso.

“Ma che stai facendo?” ringhiò lui. “Non l’hai visto?”.

“Sì, l’ho visto” replicò lei, il tono sempre più deciso e la voce sempre più tremante. “Ho visto: basta così Jack. Basta sangue…”.



L’aria fuori dalla centrale era invasa da una spessa nebbia azzurra: vista da fuori, la città doveva apparire veramente spettacolare. L’ufficio del capitano Bogo era esattamente com’era sempre stato: pile di rapporti palesemente ignorati a lato della scrivania e la ventola che girava pigramente ad una velocità che non avrebbe sollevato nemmeno un granello di polvere, ma che scandiva il tempo con un cigolio costante che diventava un rumore di sottofondo fino a svanire nella normalità della stanza.

In quel momento tuttavia, le orecchie di Judy erano piene di quel cigolio, accanto alle parole che il bufalo aveva appena detto con quella serietà che aveva imparato a non mettere in discussione e tanto meno prendere per uno scherzo.

“Agente Hopps?” richiamò Bogo. “Hai capito gli ordini?”.

“No, capitano…” mormorò lei, facendo fremere il naso. Lui sospirò.

“Dichiaro Nicolas Wilde soggetto potenzialmente pericoloso latitante” ripeté. “Il tuo compito sarà quello di arrestarlo sotto l’accusa di duplice fericidio”. Nemmeno lei sapeva cosa avrebbe dato per contestare quell’ordine, di dire che Nick non era un fericida, ma nemmeno se avesse potuto dare l’intero universo sarebbe servito effettivamente allo scopo. Accanto a lei, Jack Savage guardava il nulla davanti a sé con la sua aria tornata sobria e professionale.

“Non ha ucciso lui Alopex” mormorò Judy con un filo di voce.

“Vero” assentì lui. La sua espressione non cambiò. “Ma lui è responsabile dell’uccisione di Dawn Bellwether e Benjamin Clawhauser: a casa mia, fanno due animali morti per zampa sua. Inoltre…”. Alzò la voce, bloccando sul nascere la frase che la coniglietta stava per dire. “A quanto ne so, tu non hai fatto assolutamente nulla per impedirglielo; non ti accuserò di favoreggiamento, ma finirà inevitabilmente sulla tua scheda, a meno che non lo catturi e lo metti dietro le sbarre”.

“Al diavolo la mia scheda!” proruppe lei. “Nick è un agente di questa stazione!”.

“Gli agenti di polizia non sono esenti dalle denuncie” replicò Bogo, tranquillo. “E nemmeno dalle condanne: ho provveduto personalmente a radiarlo dal corpo di polizia e adesso è un ricercato”.

“Wilde ha agito per proteggerci” disse la voce di Jack accanto a lei. Judy non poté credere alle sue orecchie. “Bellwether ci puntava contro una pistola e avrebbe fatto fuoco”.

“Savage…” borbottò il capitano, volgendo lo sguardo su di lui. “Mi sorprende che proprio tu stia prendendo le difese di Wilde”.

“Non sto prendendo le difese di nessuno” di schermì lui. “Espongo i fatti così come sono andati: non ha aggredito senza un motivo”.

“Ma ha aggredito” replicò lui. “Ed ha ucciso: alla legge basta questo per dichiararlo un ricercato e a voi dovrebbe bastare per dargli la caccia”.

“Capitano Bogo…” mormorò Judy. Sapeva che il suo superiore aveva ragione e non c’era nulla che lei potesse fare per evitare una cosa simile. Quindi fece l’unica cosa che le venne in mente. Assicurare la sopravvivenza dei Quattro Cavalli, aveva detto Alopex: uno era stato mangiato e non avrebbe permesso che gli altri tre facessero la stessa fine; proprio no. Sganciò il distintivo dal corpetto e lo depose sulla scrivania.

“Do’ le dimissioni dal corpo di polizia” disse mestamente. Era la seconda volta che si toglieva il distintivo per quel motivo e sapeva che questa volta non l’avrebbe mai più avuto indietro. Bogo e Jack la guardarono con occhi colmi di sorpresa.

“Hopps?” muggì infine Bogo. “Devo forse pensare che non intendi dare la caccia ad un criminale?”.

“Assolutamente no, capitano” replicò lei. “Io mi rifiuto di dare la caccia a Nick: lascio la polizia perché lo faccio per questioni personali, che non dovrebbero mai intaccare il lavoro di un buon poliziotto”. Scosse la testa. “Io non sono più degna di questo distintivo”.

“Tu sai che nulla cambierà, vero?” chiese piano il bufalo. “Altre squadre troveranno Wilde e verrà arrestato in ogni caso. E con lui, tutti coloro che lo proteggeranno”.

“…com’è giusto che sia” mormorò lei, voltandosi ed uscendo mestamente dall’ufficio. Venne raggiunta poco dopo da Jack.

“Che stai facendo, Judy?” chiese. La voce era perplessa, lo sguardo confuso. “Vuoi veramente gettare alle ortiche tutto il tuo lavoro? I tuoi sacrifici, tutti i tuoi progetti…”.

“Tu lo sai che noi conigli siamo abitudinari vero?” replicò lei. “Ed anche molto possessivi”. La lepre non capì la domanda, ma Judy non attese una sua risposta. “Io non voglio lavorare con un compagno che non sia Nick: è lui il mio compagno e nessun altro. Preferisco lasciare la polizia che doverlo chiudere in una cella per il resto della sua vita”.

“Lui farebbe lo stesso per te?” chiese lui, incrociando le zampe. La coniglietta in quel momento si rese conto di odiarlo: odiava il suo modo di parlare, di camminare, di fissarla dritta negli occhi come per leggere cosa ci fosse dietro di essi e di squadrarla dalla testa ai piedi quando le rivolgeva appena uno sguardo.

“Ha ucciso Clawhauser per me” replicò lei. “Ero l’unica preda in quel laboratorio: perché avrebbe dovuto infettarsi con il siero e combattere un predatore come lui se non per tenermi al sicuro?”.

“Non sarà più la stessa cosa, Judy” commentò lui scuotendo la testa. “Ho respirato quel siero…e so quello che ho visto”. Lei si accigliò.

“Io ho visto te uccidere Alopex” ringhiò.”E poi tentare di fare lo stesso a Nick: pensi veramente che prenderò anche solo in considerazione l’idea di starti a sentire? Non appena Bogo lo scoprirà…”.

“Evidentemente Alopex ci aveva visto giusto…” interruppe lui, soprappensiero. “È evidente, Judy…”. La sua espressione cambiò: la freddezza venne disintegrata per un attimo da un velo di reale, puro, autentico panico. “…tu non hai visto quello che ho visto io”.

“E cosa avresti visto di così spaventoso?” chiese lei. “Fino a dieci minuti prima con Alopex ci lavoravi”.

“Non so spiegartelo, mi dispiace” scosse la testa lui deglutendo nervosamente. “Tutto quello che so è che la loro vista…mi ha riempito di una tale paura che la sola cosa che riuscivo a pensare era di rimanere in vita con qualunque mezzo”.

“Ma cosa stai dicendo?”. Adesso Judy era veramente inquieta. “Alopex non era cambiata né era impazzita…”.

“Lo so” annuì lui. “Quello che non mi spiego è proprio questo: loro erano perfettamente normali, non erano cambiati: ma io ho sentito comunque che dovevo ucciderli…o mi avrebbero ucciso loro”.



Era alquanto bizzarra la sua convinzione che Nick sarebbe stato nel suo appartamento, anche se era fondata su parecchie considerazioni perfettamente logiche e dettate dal fatto che avevano trascorso gli ultimi mesi vivendo praticamente in simbiosi. Lui sapeva di essere un ricercato ed avrebbe sicuramente cambiato aria per un po’.

Ma non era pensabile che Nick Wilde, un animale territoriale per natura, non sarebbe passato da casa a prendere qualche suo effetto personale. Tutto quello su cui doveva scommettere era di trovarlo ancora. Era fortunata che il suo appartamento non era molto lontano dalla centrale di polizia e poté destreggiarsi per le strade invase dalla nebbia.

La città era strana, invasa da suoni che lei non aveva mai sentito e completamente priva del rumore del traffico e del vociare delle bancarelle: quelli che sentiva erano senza dubbio dei versi. Per qualche secondo Judy si fermo è rivolse le orecchie al cielo nascosto dalla nebbia; erano dei versi animaleschi, ma diversi da quelli che era abituata a sentire. Disarticolati, senza un vero messaggio che lei potesse capire. Deglutì, incapace di non pensare che quello fosse frutto di quella nebbia che le aleggiava intorno.

“Io sono Judy Hopps” disse, parlando con sé stessa: la parola ce l’aveva ancora, ma tutto intorno a lei stava rapidamente nascendo il caos. Tornò a correre di gran carriera, avvertendo un sordo timore nascerle dentro; rimase un suo fedele compagno finché non chiuse il portone della palazzina in cui abitava Nick.

Si appoggiò alla porta e prese il fiato, scacciando celermente il fugace pensiero su un Nick senza controllo, preda di qualche effetto del vaccino, che l’avrebbe attaccata nell’istante in cui i loro occhi sarebbero entrati in contatto. Si armò del suo sguardo risoluto e percorse velocemente le scale fin davanti alla sua porta, trovandola aperta; senza più pensare, irruppe nell’appartamento chiamando con urgenza il partner.

L’appartamento era a soqquadro, esattamente come si era aspettata, ma a peggiorare le cose erano tracce di artigli su mobili e pareti, i cuscini sparpagliati dappertutto ed il televisore rovesciato. Mosse lentamente un passo e due orecchie rosse guizzarono da dietro lo schienale del divano, seguite da un paio di occhi verdi pregni di ansia con un pizzico di curiosità. La coniglietta sorrise.

“Nick!” esclamò, sollevata. “Oh, ero così in pensiero!”. Lui continuò a guardarla con lo stesso sguardo, come se non la riconoscesse, poi si nascose nuovamente dietro il divano senza dire una parola. Judy si avvicinò ancora. “Nick, che hai?” chiese. “Sono io, volpe ottusa! Dai, dobbiamo muoverci: Bogo ti sta dando la caccia e…”.

“WOW! WO-WO-WOWOWOW” replicò lui. A Judy si gelò il sangue nelle vene: Nick comparve da dietro il divano, timoroso, scrutandola attentamente ed avvicinandosi piano sulle quattro zampe. La coniglietta arretrò di un passo: il primo istinto fu di cercare la pistola nella fondina, poi si ricordò di non avere più nemmeno una fondina.

“Nick…” mormorò con gli occhi sgranati dal panico. “Ti prego, dimmi che mi riconosci: smettila di fare il cretino e alzati”. Lui per tutta risposta si fermò, rimase immobile per qualche secondo, poi uggiolò rovesciandosi sulla schiena e dandole la pancia. La coniglietta raccolse tutto il suo coraggio e fece un passo nella sua direzione; ne fece un secondo, poi un terzo e la volpe era sempre sdraiata a terra, immobile, che la guardava con quegli occhi verdi rimasti espressivi. Uggiolò di nuovo.

“Nick…” mormorò ancora, stavolta con una voce pregna del dolore portato dalla consapevolezza. “Ti prego, parlami…”. Arrivata accanto a lui, s’inginocchiò ed allungò titubante una zampa, posandogliela sul lato della testa. Lui la annusò e, con un sospiro, gliela leccò velocemente. “Dì qualcosa!”.

Con movimenti lenti, lui si rimise sulle zampe solo per sedersi. La guardò negli occhi per qualche altro secondo, poi rovesciò la testa all’indietro, squarciando l’aria con un acuto, prolungato, penetrante ululo.




NOTA DELL’AUTORE:

bene signori, l’attesa è finita: con questo aggiornamento si chiude la fic I QUATTRO CAVALLI. Ho dovuto fare un capitolo più lungo dei precedenti, ma alla fine ho raggiunto il mio scopo.

Ci tenevo a ringraziarvi nuovamente per lo straordinario successo che ha avuto anche questo seguito, forse non schiacciante come quello di
THE WILDE CASE ma ugualmente sorprendente ed ovviamente molto soddisfacente. La stesura è andata un po’ a rilento, me ne rendo conto, ma spero che alla fine il risultato sia valso la vostra pazienza.

Anche qui ho lasciato parecchi punti oscuri: il messaggio di Bogo a Bellwether, il caso Tujunga ed altri che sicuramente ci sono sparpagliati per questi nove capitoli ma che in questo momento non mi vengono in mente, ma fidatevi che non l’ho fatto per lasciarvi con il fiato sospeso (ok, forse un pochino si… :P).

Dulcis in fundo, annuncio che prossimamente sarà online l’ultimo capitolo della serie,
DISTOPIA SCARLATTA, e non escludo a giorni un teaser nel mezzo, anche per soddisfare coloro che si aspettavano una vicenda meno cupa e drammatica e più romantica. Manco a dirlo, mi impegnerò per regalare una storia che sia al massimo, quella che un pubblico come voi merita.

E come sempre, alla prossima, Stay Tuned

Leonhard

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