Il peccato di Jack Ribbon

di Daleko
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 
Prologo
 
È innegabile che l’uomo sia alla costante ricerca del rischio. Il pericolo attrae, affascina come una donna troppo sensuale che ti fa segno di seguirla; e l’uomo non può fare a meno di obbedire.
Non siamo più negli anni Cinquanta, dove negli Stati Uniti i televisori delle brave bianche famiglie borghesi propinavano il modello giusto, ossia quello delle brave bianche famiglie borghesi. Non abbiamo più uno Stato che ci dia ogni tanto una pacca sulla testa per ricordarci quanto siamo stati buoni; lo Stato ha compreso lo spirito dell’essere umano e ha, per così dire, allentato la presa. È pericoloso esagerare, certo, ma è anche impossibile resistere all’assordante richiamo della vita, quella che al di fuori della routine t’infiamma il sangue e i polmoni ad ogni passo; la droga del Ventunesimo secolo è l’adrenalina, e Jack Ribbon lo sa benissimo.

Ho conosciuto Jack circa due anni fa ad una mostra d’arte e  credo di averlo trovato sin da subito la persona meno attraente che io abbia mai conosciuto. Non è spiacevole alla vista, anzi, è molto anonimo: statura nella media, capelli castani, occhi dello stesso colore, corporatura da impiegato, taglio fuori moda e piccoli occhialetti rotondi con montatura neutra; insomma, una vera noia. Il suo vero —per così dire— problema era la sensazione di viscido che trasmetteva; non c’era modo d’intavolare una conversazione con lui senza sentirsi tremendamente a disagio. Non c’era nulla di particolare che fosse sbagliato in lui, era l’insieme a renderlo indesiderabile: per trasmettermi una sensazione di disagio non ebbe nemmeno bisogno di avvicinarsi a me, mi bastò guardare la sua andatura nervosa e a scatti per farmi venire il voltastomaco. Nell’osservarlo dimenticai per un attimo dove mi trovassi e quando tornai con lo sguardo sui quadri venni scosso da un brivido; non so perché mi avesse pervaso addirittura un senso di disgusto, in fondo Klimt mi era sempre piaciuto, ma l’idea che quell’ometto sulla trentina terribilmente fuori posto stesse osservando la Danae mi provocò una forte nausea: ebbi per un istante la folle idea (più tardi avrei scoperto che forse non era poi così folle) che, nel suo studiare con meticolosa cura ogni millimetro del quadro, stesse cercando disperatamente un modo per entrare nel quadro, viverlo, trasformarsi in quella pioggia dorata che Giove s’inventò per possedere Danae.
Vi assicuro che mai intuizione fu più esatta di questa.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***



Capitolo I
 
Tagliava la carne con meticolosa cura. Prima tagliava via i nervi, poi riduceva la bistecca in piccoli quadrati e disegnando distrattamente semicerchi nel sangue che inzaccherava il piatto bianco. Ancora non mi era chiaro il modo in cui mi aveva convinto a seguirlo al di fuori della Galleria; lo guardavo mangiare con poco gusto seppur con eccessiva allegria, quasi si fosse trattato di un bambino il giorno di Natale.
-Quindi sei uno scrittore- mi domandò riportandomi alla realtà. Scossi vagamente il capo, accompagnando il gesto ad un sorriso di circostanza. -Forse scrittore è eccessivo. Diciamo che ci provo- lasciai cadere il discorso con un gesto annoiato della mano, più interessato al mio interlocutore che a definire la mia precaria situazione lavorativa. -Strano, avrei puntato sulla critica- ribatté in modo vago e godendo della mia espressione interrogativa. Aspettai con impazienza che portasse lentamente il suo quadratino di carne alla bocca, concedendomi anch’io un boccone della mia insalata in attesa di una spiegazione. -Credevo fossi un critico d’arte. Insomma, il modo in cui guardavi quel disegno… Come si chiama, quello…- cominciò a mulinare la forchetta tra le dita in modo poco elegante; una goccia di sangue schizzò sul suo bicchiere, ma non sembrò accorgersene. -Sì, quello di Wildt- terminò con un’occhiata che mi turbò alquanto; mi sentii studiato e, a dire il vero, anche piuttosto sorpreso. -Tu… Conosci Wildt?- balbettai scatenando una risatina nell’ometto sgradevole davanti a me. -C’è un bozzetto che mi piace molto, qualcosa tipo “arte lunga, vita breve”…- continuò cercando di sembrare poco ferrato sull’argomento, ma non ci cascai; ero turbato e il suo continuare a tagliare con cura quei pezzettini di carne sempre più piccoli mi agitava oltremodo. Mi costrinsi a portare alla bocca qualche altra foglia d’insalata anche se non avevo più fame, ma la mia gola era troppo secca per ingoiare qualunque cosa. -Io lo trovo angosciante- gracchiai versandomi un bicchiere d’acqua, ostinandomi a tenere gli occhi sull’insalata; non volevo incrociare il suo sguardo. -Io lo trovo molto, come dire, interessante. Cos’è che dovrebbe significare? Ho visto che lo studiavi con attenzione- m’interrogò, ma mi ostinai a non fornire una risposta a quella domanda così terribilmente fuori posto. Posai il bicchiere svuotato e, dopo essermi asciugato le labbra, rialzai finalmente lo sguardo su di lui: sorrideva in un modo così tranquillo da risultare fuori posto su di un qualunque viso umano e, per un momento, ebbi perfino paura. -Sa cosa mi ricorda?- riprese dopo un attimo e cessando quel sorriso così surreale per tornare a masticare. Ormai lo fissavo senza alcun pudore, probabilmente con un’aria vagamente disgustata sul volto. -Quelle attrazioni al Luna Park, quelle sedie che si alzano e girano e bisogna afferrare un fazzoletto, se le ricorda?- ridacchiava divertito mentre io, nuovamente con la gola arida, mi limitavo ad annuire passivamente. -Però ecco, lì non bisogna afferrare nessun fazzoletto, proprio no!- seguitava a ridacchiare. -Anzi, anzi, bisogna… Bisogna girare veloce! Sempre più veloce! Perché se ti prendono… Se ti prendono, oh ragazzo, sei proprio fritto. Ma è questo il divertimento, no?- continuò allegramente terminando la sua bistecca con un sorriso soddisfatto. Pulì le labbra con il tovagliolo immacolato accanto al piatto e mi rivolse un occhiolino. -Che vita sarebbe se non ci si concedesse un po’ di rischio, di tanto in tanto?- mi domandò in tono complice con un sorriso malizioso dipinto sulle sue sottili labbra rosse. Sorrisi di rimando in modo palesemente forzato e, tremando dal disgusto, allontanai piano il piatto d’insalata. -Credo di essermi beccato l’influenza- annunciai con voce atona e forse un po’ tremante in un tentativo di congedarmi al più presto; c’era qualcosa di sbagliato in quell’uomo, di terribilmente sbagliato, ma solo Dio sapeva quanta ragione poteva esserci nelle mie sensazioni.


 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***



Capitolo II
 
Non so nemmeno cosa mi passasse per la testa quando mi chiese un numero a cui potermi chiamare. Addusse come motivazione la volontà di chiamarmi nel caso ci fosse stata in città un'altra mostra interessante, impedendomi di trovare rapidamente una valida scusa per rifiutare. Così mi ritrovai a tendergli un mio biglietto da visita, condannandomi a due anni di rimpianti con quell'unico, stupido gesto.
 
Tre settimane dopo il mio cellulare squillò a notte fonda, strappandomi da un dolce sonno ristoratore. All'inizio nemmeno capivo cosa stesse accadendo, poi gettai un'occhiata all'orologio e mi spaventai. I miei vivevano a Birmingham e saltai giù dal letto ancor prima di rispondere al cellulare, cercando un paio di jeans da indossare alla svelta; guardai distrattamente il display del cellulare prima di rispondere e un "numero privato" mi accolse con freddezza. Non ci feci poi tanto caso, poteva pur sempre essere il numero di un ospedale, così accettai la telefonata portando rapidamente il cellulare all'orecchio con un apprensivo -Pronto?-
Silenzio all'altro capo del telefono; un silenzio che ammetto m'innervosì. Cominciavo a pensare ad uno scherzo, e quando stavo per ripetere il mio "pronto?" decisamente più spazientito il lento sbuffo di una sigaretta allontanata dalle labbra interruppe la parola sul nascere; dovette passare un altro minuto prima che una voce arrivasse al mio orecchio.
-Che ne pensi delle lesbiche?- mi domandò con tono estremamente serio, calmo e rilassato una voce maschile senza, però, neanche una punta di curiosità.
-Come prego?- domandai di rimando sinceramente confuso. Ero ancora intontito per essere strappato via dal letto e cominciavo a credere di stare ancora sognando.
-C'era questa lesbica femminista, una puttana frigida del cazzo, che diceva che le femministe devono essere felici di essere chiamate lesbiche. Che ne pensi delle lesbiche?- continuò la voce misteriosa mantenendo il suo tono pacato. Ero in piedi, in camera mia, a fissare il display lampeggiante dell'orologio che segnava le tre e diciassette mentre uno sconosciuto al telefono mi chiedeva un parere sull'omosessualità femminile. Ero sinceramente perplesso, e cominciavo ad innervosirmi.
-Senta, se questo è uno scherzo...- cominciai irritato, ma la voce mi bloccò subito con una risata che mi mise i brividi.
-Oh, no, nessuno scherzo. Ti ho solo chiesto che cosa ne pensi di queste puttanelle leccafighe. Cosa ne pensi, eh?- domandò di nuovo prima di prendere un'altra lunga boccata di fumo. Sentivo la cartina arricciarsi e intanto pensavo: "quest'uomo è pazzo", decidendomi a rispondere per terminare al più presto la conversazione. -Non lo so, non m'interessano le loro vite- risposi rigidamente; l'idea d'interrompere la chiamata non mi balenò per la mente neanche per un istante.
-Queste puttane vanno in giro vestendosi da cagne... Sembrano urlare da ogni poro "ho fame di cazzo, ho fame di cazzo!"- imitò una voce femminile con un tono in falsetto decisamente grottesco -Ma se solo provi a sfiorarle, tu, povero stronzo, ti becchi solo risate. Derisioni. Pisciatine!- la parola urlata con un tono da crisi isterica mi fece saltare il cuore in gola. Pensai d'avvertire il nove-nove-nove, ma come avrei fatto a telefonare restando al cellulare senza che l'uomo se ne accorgesse? Inoltre non sapevo bene neanche cos'avrei detto alla polizia, quindi restai semplicemente in ascolto. L'uomo non sembrava aver finito.
-Se sei fortunato ti prendi del povero coglione, un dito medio alzato mentre quelle puttane ti lasciano con il cazzo in tiro e se ne vanno a scopare tra di loro. Se provi anche solo a sfiorarle, a sfiorarle piano...- calcò in modo nauseante quest'ultima parola; mi sembrò quasi di sentire il suo tocco nauseabondo sul mio corpo e mi sembrò di essere stato, in qualche modo, violato. Ringraziai mentalmente d'essere uomo, vergognandomene subito dopo.
-TI SBATTONO DENTRO!- urlò con una violenza tale che allontai di scatto il cellulare, il cuore a mille e gli occhi sgranati a fissare il display del cellulare ora illuminato che segnava tre minuti e quaranta. Sembrava fosse passata un'eternità. Non sapevo cosa dire, quindi riportai il cellulare all'orecchio e mormorai un -mi dispiace- alquanto poco convinto.
-Sicuro. Non hai mai voluto punire una puttana? Mai nella vita? Dare un ceffone a una di queste troie, sbatterla con la faccia nel muro?-
-No, non cred...-
-NON MENTIRMI!- urlò nuovamente con palpabile ira. Deglutii; sentivo la gola estremamente secca e quella telefonata era già durata troppo a lungo. -Sì, sì, va bene! Sì!- sbottai pur di smetterla con quella telefonata inquietante. Lo avvertii sorridere, poi riprese a parlare con tono mellifluo. -Sei un bravo ragazzo- mormorò divertito prima d'interrompere la chiamata. Restai a fissare lo schermo, quasi incredulo, per un'altra manciata di minuti prima di tornare a letto. Mi sarebbe bastato aspettare giusto qualche ora prima di scoprire qualcosa in più sulla telefonata, ma in quel momento non potevo ancora saperlo e così mi riaddormentai abbastanza presto nonostante il turbamento.


 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***



Capitolo III
 
Fui svegliato dal suono insistente del campanello alle sette e un quarto del mattino, orario insolito per una visita a domicilio. Mi alzai borbottando; non avevo idea di chi potesse bussare con così tanta veemenza alla porta, e per un momento temetti di aver lasciato qualche rubinetto aperto a distruggere il condomino al piano di sotto.
–Chi è?– domandai con voce rauca. Avevo ancora gli occhi gonfi e i capelli intrattabili da primo mattino; speravo di poter tornare a dormire a breve, in fondo era sabato mattina e non avrei avuto comunque intenzione di alzarmi prima di un altro paio d'ore di dolce riposo.
–Polizia. Apra, signor Evans– mi intimò una voce poco gentile dall'altro lato della porta. Lo stupore si unì alla preoccupazione: cosa poteva essere successo? Diedi una rapida occhiata attraverso lo spioncino, dove vidi due uomini in divisa. Non sembrava una visita di cortesia e indossavo solo un paio di boxer. –Un attimo, prendo...– provai ad allontanarmi per afferrare un paio di pantaloni al volo, ma un pugno batté un paio di volte sulla porta. –Apra, signor Evans– ripeté minaccioso il poliziotto. Sospirai, poi afferrai le chiavi sul tavolino all'ingresso e mi affrettai ad aprire agli uomini in divisa.
–Signor Benjamin Evans?– domandò uno dei due, quello con l'espressione meno annoiata. L'altro mi squadrava da capo a piedi. –Sì. È successo qualcosa?– domandai con apprensione mentre cercavo di resistere alla tentazione di coprirmi sul davanti con una mano; l'attenzione dell'altro poliziotto mi procurava non poco disagio. –Dovrebbe seguirci in centrale– m'invitò enigmatico il mio interlocutore. Non capivo cosa stesse accadendo e senza rendermene conto cominciai a balbettare. –Oh... Sicuro. Prendo... Prendo dei vestiti e arrivo– mi congedai frettolosamente; i due uomini si scambiarono uno sguardo d'intesa, poi entrarono rimanendo accanto alla porta d'ingresso mentre io mi dirigevo verso la camera da letto.
Afferrai, quasi al volo, gli abiti del giorno precedente: non volevo che degli estranei rimanessero in casa mia tanto quanto loro non volevano perdermi d'occhio per più tempo del necessario. Passai una mano fra i capelli, diedi un'occhiata all'orologio e afferrai dal comò il portafogli prima di uscire dalla camera. –Ha un documento?– mi domandò il solito poliziotto mentre io tentavo di stirare le pieghe della t-shirt sgualcita. –Certo– confermai mentre ritiravo le chiavi dalla serratura e uscivo dall'appartamento. Uno dei due chiuse la porta dietro di sé e scendemmo le scale tutti e tre, io al centro come un ipotetico arresto informale. Mi chiesi se non avessi fatto male a uscire senza chiamare prima un avvocato.


Il viaggio in auto fu più breve del previsto; le strade erano quasi vuote a quell'ora del mattino e mi ritrovai alla centrale di polizia in meno di venti minuti. Ero estremamente a disagio e mi sentivo osservato da tutti, anche se non posso dire se quell'impressione fosse vera o solo frutto della mia immaginazione. Mi sembrò di camminare verso il patibolo per tutto il tragitto snodato in tre corridoi, e invece eravamo solo diretti verso la stanza degli interrogatori. Era molto semplice: al centro vi erano un tavolo di legno con tre sedie, due su di un lato e un'altra a quello opposto. Al soffitto erano fissate due lampade al neon e alla parete sinistra c'era uno specchio unidirezionale; ebbi la bizzarra sensazione di essere finito in una puntata di CSI.
–Signor Evans, salve– mi si avvicinò una donna dai capelli biondi e corti che subito mi tese una mano. L'afferrai, stringendola e aspettando una sua presentazione. –Detective Bennet– dichiarò infatti, facendo segno agli altri agenti di uscire. Quando la porta si richiuse dietro di loro cominciai a sentirmi pervadere da una profonda ansia. –Prego, si sieda– mi invitò con gentilezza; notai che sul tavolo di legno era presente quello che aveva tutta l'aria di essere un fascicolo. Probabilmente mi vide titubante, perché dopo essersi diretta al tavolo mi lanciò un'occhiata interrogativa per spingermi a raggiungerla. Feci qualche passo, prendendo posto davanti a lei. Mentre la donna era impegnata a esaminare l'interno del fascicolo io cominciai a guardarmi intorno con titubanza. –Forse... Ho bisogno di un avvocato?– chiesi riluttante nel prendere parola in modo così sospetto; inaspettatamente, la detective rise. –No, non ancora. È solo una chiacchierata informale– tentò di tranquillizzarmi prima di rialzare lo sguardo su di me. Intrecciò le dita, poggiando il taglio delle mani sul bordo del tavolo e fissandomi negli occhi. –Che tipo di relazione aveva con la signorina Lisa Price?– mi chiese d'un tratto con sguardo tremendamente serio. Mi sentii nuovamente confuso. –Non conosco nessuno con quel nome– risposi in un balbettio e ottenendo in risposta un sospiro. La donna prese una foto dal fascicolo, poggiandola sul tavolo in mia direzione e spingendola verso di me con due dita. Osservai la foto per qualche momento prima di rendermi conto di chi fosse. –Lisa...– mormorai sorpreso prima di rialzare lo sguardo sulla detective. –Sì, Price, è una mia collega. Insomma, lavoriamo per la stessa azienda ma non la conosco bene– specificai in attesa di spiegazioni. In effetti non c'era alcun motivo per cui dovessi conoscerla: capelli rossi sempre legati in una coda fatta male, lentiggini su ogni tratto di pelle visibile, occhi acquosi e denti grossi. So che detto così può sembrare una crudeltà, ma non aveva un aspetto gradevole e a quanto mi dicevano gli altri colleghi era anche estremamente noiosa. Mentre continuavo a pensare a che tipo di collegamento potessero aver fatto tra me e la donna ritratta nella foto, quella davanti a me mi riportò alla realtà con un sorriso alquanto meccanico. –D'accordo. Dov'era ieri notte?– mi chiese ancora mentre ritirava la fotografia dalle mie dita. –A casa mia, ero a casa. Ho guardato un po' di tivù e poi sono andato a letto, lavoro fino alle diciotto e...– Ero sempre più confuso. –Ma cos'è successo?– chiesi ancora alla detective che si lasciò andare a un altro sospiro. –È stata uccisa questa notte, tra mezzanotte e le due– m'informò mentre estraeva un'altra fotografia dal fascicolo. Ero dispiaciuto per Lisa ma ero più dispiaciuto per il mio coinvolgimento in una situazione che ancora non capivo; evidentemente il detective Bennet comprese i miei interrogativi, perché la seconda fotografia compì lo stesso tragitto della prima. Abbassai lo sguardo e mi alzai di scatto, sgomento. –Perché c'era questa scritta sulla scena del crimine, signor Evans– commentò la donna con espressione impassibile.
Mi servì una fortissima forza di volontà per tornare con lo sguardo su quella foto, e soprattutto per distoglierlo dal corpo di Lisa per portarlo al sangue sul muro sovrastante il corpo. Mi sentii svenire; sulla parete c'era scritto, senza alcun dubbio: "PER IL MIO GRANDE AMICO / BEN EVANS".

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Capitolo IV
 
La scrivania era di un legno particolarmente chiaro, probabilmente per mettere a proprio agio i pazienti. La finestra aperta lasciava entrare una piacevole brezza accompagnata dal canto di qualche uccello sconosciuto ai due giovani tirocinanti all'interno della stanza. Distinti dal paziente di turno grazie ai caratteristici camici bianchi, erano seduti a uno dei lati della scrivania; il minuto tirocinante dai lineamenti indiani reggeva fra le mani un blocco note delle dimensioni di un quaderno, la donna dal camice aperto e cadente in modo elegante poggiava i gomiti sulla superficie della scrivania: era intenta a guardare, interessata, il paziente seduto davanti a sé.
–Dovrebbe darmi qualche informazione su di lei, Simon. Va bene?– chiese con voce melliflua. L'uomo annuì nervosamente, guardandosi le mani.
–Dov'è nato e quando, esattamente?– iniziò abbassando gli occhi sul fascicolo davanti a sé. La montatura dei suoi occhiali nascondeva parzialmente la vista delle iridi verdi a Simon, che aveva brevemente rialzato lo sguardo sulla tirocinante.
–L... Longdon-Upon-Tern. Nello Shropshire. Ho trentadue anni– rispose a voce bassa. Il tono nasale non fu particolarmente apprezzato dai medici, ma entrambi scrissero in silenzio le informazioni di loro interesse; Simon aggiunse la data di nascita in un mormorio risucchiato dal silenzio.
–Va bene, Simon. Fa usualmente uso di droghe? Beve? Fuma?– domandò ancora la donna con la stessa intonazione gentile da ospedale psichiatrico. Simon scosse la testa per tre volte. Le domande di routine si susseguirono per un'altra mezz'ora, poi finalmente entrambi i medici rialzarono lo sguardo sull'ometto seduto sulla scomoda sedia di plastica blu. Più che ordinario, la tirocinante avrebbe definito quel particolare paziente come scialbo: piccolo e richiuso su se stesso come un riccio, il viso ricordava vagamente quello di un topo. Occhietti acquosi e vigili, tremanti anche se fissi su un punto fermo: le unghie erano rosicchiate a sangue e le mani scorticate, piene di calli in posti inusuali. Una calvizie proseguiva rapida e incessante, il viso sbarbato con qualche piccola ferita e le labbra sottili quasi totalmente esangui: l'insieme risultava molto sgradevole anche all'altro tirocinante, che si ritrovò suo malgrado a formulare questo pensiero. Sagar, questo il nome di battesimo del tirocinante, fu fortunato nel poter riabbassare lo sguardo sul blocco note pieno di appunti; la sua collega invece dovette tenere gli occhi fissi sullo sgradevole Simon per poter continuare il suo lavoro.


–Va bene, Simon. Le va di spiegarmi perché ha richiesto una consulenza psichiatrica?– lo incoraggiò con un breve sorriso. Le labbra rosse si stirarono per un momento, poi restarono in attesa di un movimento da parte dell'altro prima di ritornare in posizione rilassata.
–Ho... Una coperta– rispose l'altro con un filo di voce. Sagar alzò gli occhi sull'uomo, poi il capo girò alla sua sinistra. Sembrò dire con gli occhi: "Emma, ci sta prendendo un giro o questo mese ne hai beccato un altro da ricovero?". La collega gli scoccò un'occhiataccia in risposta a quella ironica dell'indiano, poi entrambi tornarono a guardare Simon. L'uomo aveva ancora gli occhi bassi.
–Qual è il problema con questa coperta, Simon?– chiese con voce calma e bassa, molto più calma e molto più bassa di quanto non fosse poco prima. Simon fece spallucce.
–Ce l'ho sempre con me. Sempre– specificò alzando lo sguardo sui medici, spostando le strette pupille su entrambi prima di riabbassare gli occhi. Emma notò un principio di terrore nell'espressione del paziente.
–...e non ti piace averla con te?– provò ad approfondire la questione; un sopracciglio le si alzò dalla curiosità. Simon annuì.
–Ho paura di perderla. Tanta paura. Una volta...– lo sguardo scoccò verso la donna davanti a sé per un istante appena, poi le iridi marroni tornarono nell'ombra –c'era un buco. Misi un... Un laccio nel buco e attorno al mio polso. Poi capii che poteva strapparsi tutto e dalla paura ho tolto il laccio– spiegò ancora con un filo di voce. Sagar appuntò sul blocco note, come promemoria, le sue impressioni riguardo il dizionario particolarmente povero utilizzato in quel discorso. Emma, intanto, si limitava ad annuire.
–Quando la lavo ci metto tanta cura e... Resto tutto il giorno con la coperta tra le mani quando si asciuga. Oppure la asciugo io...– continuò con lo sguardo perso nel vuoto. Emma annuì ancora, lievemente più rigida.
–Perché ci tieni così tanto? È un regalo?– domandò con tono fintamente ingenuo, ma Simon non sembrò avere reazioni per qualche secondo.
–No. Ce l'ho da tanto tempo...– rispose infine. I medici si guardarono nuovamente, poi Emma annuì al collega in modo appena percettibile.
–Ora dov'è questa coperta, Simon?– chiese con tono gentile Sagar; Simon trasalì come se non l'avesse neanche notato; gli occhi, spauriti, corsero alla figura del medico per poi tornare verso il basso.
–Ce l'ho con me. Come sempre– rispose dopo un'altra breve pausa. Emma sorrise di nuovo in modo incoraggiante. –Ti va di mostrarmela?– chiese con tono amichevole. Simon scosse spaventato la testa, ma Emma non si perse d'animo; il corpo si spostò di qualche centimetro verso la scrivania, teso. –Se non mi mostri la coperta, Simon, non posso aiutarti davvero come vorresti... Ci siamo solo noi qui. Non preoccuparti– sorrise di nuovo. L'uomo alzò gli occhi acquosi trattenendo il respiro; spostò lo sguardo su entrambi i presenti, poi fu scosso da un tremito. Sospirò, portò il busto verso il basso e prese uno zaino scuro dall'aspetto malandato che stringeva fra le gambe. Aprendolo, scoccò un'altra occhiata preoccupata verso i medici. –Non potete toccarla. È la mia coperta– piagnucolò nel tentativo di sembrare minaccioso. Entrambi gli psichiatri annuirono con fare gentile e Simon finalmente infilò una mano nello zaino, estraendo lentamente e con delicatezza una vecchia e usurata copertina in patchwork per bambini. Il colore era andato via nel corso degli anni e sul tessuto erano visibili svariati rattoppi; a Sagar non sfuggirono alcuni inusuali segni di bruciatura sulla stoffa. Simon non sembrava voler liberare del tutto la coperta dallo zaino, guardandola e toccandola quasi con venerazione; le labbra erano schiuse ed Emma era più interessata alle reazioni dell'uomo che all'oggetto in sé. –La mia bella coperta...– mormorò Simon con voce appena udibile. Una delle mani ossute tremava visibilmente dallo sforzo ma non accennava a lasciar andare neanche per sbaglio quel quadrato scolorito: con flemma snervante cominciò a portarla al viso, dove l'avvicinò alla pelle per strusciarvela contro. Sagar ebbe un vago moto di disgusto nel vedere quel trentenne agire come un bambino, ma d'altronde aveva scelto da sé il proprio lavoro. Ragionava ancora su quanto poco diritto avesse di lamentarsene quando improvvisamente sentì un dolore all'avambraccio sinistro: si voltò a guardare in quella direzione e notò le unghie laccate della collega piantate nella propria carne. Rialzò gli occhi, intenzionato a chiederle che problema avesse, ma l'angoscia che le aveva sbiancato il viso lo indusse a seguire la direzione dello sguardo spaventato. Con sorpresa, Sagar capì che il motivo di spavento di Emma era proprio quella piccola e malmessa coperta: non ebbe neanche il tempo di schiudere le labbra per formulare una qualunque domanda, perché una voce femminile fu più veloce di lui.
–Simon– lo chiamò la dottoressa con voce tremante. Sembrava un po' spaventata. –Simon, ascoltami... Quelle macchie in basso– specificò con l'aiuto della mancina libera, indicando la parte inferiore della coperta che ancora dondolava per metà nell'ombra dello zaino. S'interruppe per un momento, non avendo attirato l'attenzione del paziente. Deglutì a fatica. –Simon, di chi è quel sangue?– chiese costringendosi a sorridere nuovamente.


 

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