Under The Surface

di i luv rainbow
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Oblivious Desires ***
Capitolo 2: *** PTSD ***
Capitolo 3: *** The Memory Lane (Parte 1) ***
Capitolo 4: *** The Memory Lane (Parte 2) ***
Capitolo 5: *** The Demones Inside Ourselves ***
Capitolo 6: *** The Bogeyman Over my Bed ***
Capitolo 7: *** Hello Darkness, My Old Friend ***



Capitolo 1
*** Oblivious Desires ***


I Got You

Author - I luv Rainbow
(I_luv_Rainbow_000)
EFP | AO3

Il rating della storia potrebbe cambire e diventare rosso - forse. Come potrebbero aggiungersi i soliti avvertimenti (come violenza, contenuti forti ecc...) che se avete giocato al gioco sapete benissimo che vanno a braccetto con il fandom. Detto questo, buona lettura.

Oblivious Desires

Mi hai salvato...

Ancora risentii la gratitudine nella voce di Ollie per aver impedito che fosse venduto come schiavo.

Cazzo, stavano minacciando mio padre. Avrebbe sborsato un sacco di soldi...

Non gli piaceva mai parlare dei suoi, divorziati da tanti anni ormai e che nonostante ciò ancora non facevano altro che sbranarsi a vicenda; dimenticandosi spesso e volentieri di quel figlio che avevano messo al modo. Fortunatamente almeno non in questo caso, non dopo essere stato rapito da uomini spietati e privi di una qualsiasi coscienza.

Ollie, ti avrebbero venduto come schiavo dopo...anche se avesse pagato

Perché glielo avevo detto? Potevo tenermelo per me, ormai era al sicuro, perché aggiungere altro schifo a tutta questa storia già del tutto orribile? Ma la mia bocca aveva corso più del mio cervello; solo l'attimo dopo capii che così l’avrei solo fatto sentire peggio...

Oh cazzo...questa è proprio una storia di merda! Non so se ne esco sano

Già, chi di noi ne sarebbe uscito sano? Io no di certo, ormai ne dubitavo ogni giorno in più passato sull’isola. Anche se nonostante le continue allucinazioni e qualche vuoto di memoria, continuavo a rifiutarmi di credere di star perdendo completamente la testa. Anche se temevo che Daisy e Liza ormai cominciassero a intuire qualcosa dalle ultime volte che avevo parlato con loro...

Ricordati che i coltelli le uccidono le persone, non le riportano indietro

Già...

In qualche modo questo lo sapevo anch’io ma non vedevo comunque l'ora di ficcarla in quel petto ambrato, circondato da un'inconfondibile collana da cui pendeva una più che famigliare pietra verde giada e per farlo, sarei dovuto continuare a rimanere vivo.

Evitando il più possibile di fare l’idiota testardo come al solito.

J, ma stai be...

Ricordai ancora la voce preoccupata di Ollie, dopo che l'avevo portato al sicuro e che ero andato a parlargli infondo alla grotta. Giusto pochi secondi dopo avermi rifiutato un tiro dal suo spinello.

Mio Dio, ma tu sei ferito! Prima loro in realtà ti hanno preso!

Aveva urlato attirando involontariamente l'attenzione anche di Daisy e Liza, che smisero quello che stavano facendo e ci vennero subito incontro. Io invece come prima cosa mi maledissi; non volevo assolutamente farli preoccupare. Sopratutto ora che dovevo fargli capire che andava tutto bene, che erano del tutto al sicuro e che non ci sarebbe stato nulla ad impedirmi di riportarli a casa.

Nulla.

Si, ogni tanto riescono a beccarmi...

Avevo risposto sarcastico, sforzandomi di sorridere il più possibile così da mascherare il dolore ma ormai l'emorragia era fin troppo evidente e anche fin troppo dolorosa. L'effetto dell'adrenalina stava incominciando a svanire, tanto che rese ormai inutile nascondermi l'enorme macchia di sangue che mi si stava formata sul mio fianco, imbrattandomi buona parte della maglietta. Un rivolo di sangue incominciò a scendermi anche dall'angolo delle labbra e come aveva saggiamente detto una volta Edward Norton in Fight Club, c'è un limite al sangue che un essere umano può ingoiare e trattenere nello stomaco; io l'avevo appena superato...

Di certo non volevo morire ma ero convinto di riuscire a fare in tempo ad allontanarmi e curarmi da solo come al solito. Stavolta sbagliai i mie calcoli e non appena me ne resi conto, caddi seduto sulla pietra lì vicino; Ollie mi si avvicino subito con sguardo terrorizzato, mettendomi le mani sulle spalle e tentando di richiamare la mia attenzione ma ormai ero già al limite. Stavo cedendo e anche se capivo che stava chiamando il mio nome, in qualche modo, non riuscii a reagire minimamente e continuai solo a fissare il vuoto davanti a me.

Poi credo…

Io credo…

Non saprei. Mi parve soltanto che le ragazze corsero a chiamare il Dr. Earnhardt e l'attimo dopo svenni, visto lo stacco improvviso che ci fu da quel momento, al ritrovarmi sdraiato dentro la tenda blu; già tutto bendato, pulito, curato e con accanto...

«Liza?» sussurrai come me la vidi addormentata al mio fianco e fu in quell'attimo che mi accorsi anche che mi stava stringendo la mano.

La guardai commosso e per un attimo pensai di accarezzarla e baciarla, il secondo dopo invece mi obbligai a stroncare quelle effusioni sul nascere. Dalla vergogna spostai anche il viso verso il lato opposto pensando soltanto che ero un maledetto idiota e anche, un dannato bastardo...

Le mi amava ed io invece le stavo solo facendo passare l'inferno.

Ma non potevo farci niente; l'intensità dei mie sentimenti non era lo stesso che lei provava, già da un bel po', verso di me. Da tempo sapevo che era profondamente innamorata ed io, semplicemente, avevo ingenuamente pensato che prima o poi sarei arrivato a ricambiarla.

Perché con Liza mi trovavo perfettamente a mio agio e le volevo un gran bene; ma non l'amavo.

Non come lei amava me...

Prima o poi avrei dovuto dirglielo. Di certo le avrei fatto male ma almeno sarebbe stata libera di trovare la felicità con qualcuno che la ricambiasse sul serio. Solo che ora come ora, non avevo il coraggio di farlo. Come avrei potuto dopotutto? Rompere la nostra relazione lì, in quella grotta, su quella maledetta isola dove eravamo stati rapiti, maltrattati e per poco anche venduti come schiavi?

Un trauma alla volta bastava e avanzava eppure, avevo il timore che non ci sarebbe stato modo di dirglielo se non mentre eravamo ancora sulle Rook. Perché io...

Non voglio tornare?

Subito mi morsi il labbro, pensieroso.

Non lo sapevo, non ne avevo idea; forse sì. Forse no. Lo volevo? I Rakyat continuavano a dirmi che il mio posto era qui insieme nella tribù e ormai mi trattavano come fossi loro fratello.

Citra...

Bell'enigma quella donna ma nemmeno lei era il motivo del mio voler restare; lo ammettevo, era vero che quando stavo con lei ero rapito dalla sua bellezza e rapito dal tutto fascino che emanava, tanto che spesso e volentieri smettevo anche di ragionare. Chiunque l'avrebbe definita una reazione normale, come avrebbero potuto tranquillamente pensare che tutto quello che quindi io facevo era solo per farmi valere ai suoi occhi ed alcune volte, persino io lo credevo.

Eppure non era così...

Non appena tornavo dalla giungla, non appena non l'avevo più sotto gli occhi, quell'incantesimo si rompeva sempre come nulla fosse…

Di mio non pensavo quasi mai a lei e anche se lo facevo, non ne sentivo la mancava – mai. Era raro che mi tornasse alla mente la sua voce, il suo profumo o il suo corpo. A malapena ricordavo queste prime due cose quando le ero distante e cosa ancor più fondamentale, non mi dispiaceva affatto.

Non mi importava, non me ne fregava niente.

Eppure che cos'era, allora? Non ne avevo idea; quando ero là fuori, da solo, per metà io pensavo ai miei amici e a mio fratello. Invece per l'altra metà a…

«Vaas...» sussurrai con frustrazione stavolta.

Già, pensavo quasi solo al momento in cui l'avrei avuto tra le mani. In cui gli avrei fatto pentire di essere nato. In cui finalmente, abbandonando totalmente la pietà, l'avrei ucciso – vendicando Grant.

Poi c'era anche Citra…

Era un'ottima sensazione quella che provavo; l'immaginarmi con il pugnale in una mano e il sangue di Vaas sopra e nonostante questa mia immersione totale, mi accorsi del sussultare di Liza e di come gemette anche dalla paura al mio solo pronunciare il nome di quel bastardo. Subito mi girai su di un fianco per voltarmi verso di lei e consolarla, accarezzandole la spalla e sussurrandogli delle parole confortanti senza svegliarla, per poi continuare a stringere la mia mano con la sua.

In un attimo tornò tranquilla.

Sicuramente ora stava facendo sogni sereni, invece io tornai con la mente al maledetto figlio di puttana che era quasi sempre al centro dei miei e totalmente protagonista dei miei incubi notturni.

Ovvero ogni dannatissima notte...

Quanto avrei voluto ucciderlo cazzo e quanto avrei voluto essere personalmente destinato io a farlo. Assistere all'esalazione del suo ultimo respiro mi avrebbe dato una goduria immensa. Lo odiavo maledizione, lo odiavo più di ogni altra cosa al mondo; odiavo il suo sorriso predatorio, la sua risata sempre così sadica e divertita – o anche piena di euforia quando si lasciava andare in uno di quei suoi deliranti discorsi da paranoide schizzato.

Com'era possibile che qualcuno non avesse mai tentato di rinchiuderlo da qualche parte e gettare via la chiave?

Odiavo i suoi occhi e come mi guardavano, sembrava sempre volesse divorarmi vivo e odiavo nel modo più assoluto riuscire a leggerci dentro e capire, dalle pupille che variavano dal completamente dilatate all'essere piccolissime a spillo, quale tipo di droga o miscuglio di queste avesse assunto in giornata; come odiavo vedere le sue enormi occhiaie, segno di quella che doveva essere una terribile insonnia e constatare per l'ennesima volta che tutto questo contribuiva pericolosamente ad aumentare la sua instabilità e la sua brutalità, sopratutto nei miei confronti…

Odiavo il suo fisico perfetto, la sua forza bruta e così impossibile da soggiogare, tanto ogni volta mi pareva di scontrarmi contro una montagna che inevitabilmente mi franava addosso. Che ogni volta nei nostri brevi scontri per la giungla mi atterrava, sovrastandomi con tutta la sua imponenza, di come mi inchiodava a terra stringendomi i polsi fino quasi a romperli.

Odiavo come avessi ancora paura di lui, nonostante la rabbia e nonostante il disprezzo, di come finendo a guardarlo dal basso non potevo far altro delle volte a lasciarmi solo intimorire e dominare dalla sua sola presenza – di come lui, puntando i suoi occhi sempre affamati con insistenza nei miei, mi faceva sentire nudo anche sotto la mia stessa pelle.

Odiavo poi come invece di reagire subito, mi lasciavo sempre distrarre per un attimo da quella sua dannata collana verde che ciondolava sempre sopra i mie occhi. Prima che inevitabilmente tornassi a guardarlo dritto in faccia beccandolo a leccarsi maniacalmente le labb…

Dio, ma perché non riesco a pensare ad altro che a quel bastardo?

La consapevolezza di ciò mi colpi all'improvviso facendomi deglutire dal nervoso e lasciandomi solo la voglia di piangere dal dolore.

Pochissime volte era riuscito a catturarmi, compresa quella con Liza quando aveva tentato di darci fuoco vivi, ma non importava; era riuscito a entrare nella mia testa, fin dalla prima volta che l'avevo incontrato e avevo il terrore che non ne sarebbe mai più uscito. Forse dovevo ucciderlo, solo così mi sarei liberato di lui? Solo così – forse – avrei finalmente voluto di nuovo abbandonare l'isola? Solo così, sarei potuto di nuovo ritornare la notte a sognare qualcosa di diverso da quell'uomo terribile e da tutti gli orrori che con se portava? Solo così, sarei finalmente potuto ritornare normale?

perché era questo quello che volevo, giusto?

Non ne avevo più idea. Sia il mio corpo che il mio inconscio mi spingevano proprio nella direzione opposta; mi spingeva verso il primitivo, verso la giungla, verso il selvaggio. Invece la parte del tutto cosciente di me…io volevo solo la pace che avevo perduto, perdendo Grant. Io volevo troppe cose contrastasti quindi; che diavolo volevo per davvero?

Non Liza

Almeno di questo ne ero sicuro e mi fece male pensarlo, soprattutto come la sentii farsi più vicina e appoggiarsi contro di me, sussurrando il mio nome nel sonno.

Non mi meritava...

«Mi dispiace tanto, perdonami...» e sussurrai dispiaciuto, sporgendomi e baciandola sulla fronte: «Ma non è proprio destino...» conclusi malinconico, allontanandomi con calma e lasciandole quindi anche la mano.

In risposta la vidi lacrimare nel sonno. Forse anche lei, infondo, doveva aver già capito; non c'era speranza per noi due e come uscii dalla tenda, capendo che nessuno degli altri mi aveva notato, io sentii solo e subito l'impulso di…scappare via.

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Capitolo 2
*** PTSD ***


I Got You

Author - I luv Rainbow
(I_luv_Rainbow_000)
EFP | AO3

*PTSD, “Post-Traumatic Stress Disorder”
(disturbo post-traumatico da stress)

PTSD

Oliver, appoggiato al bordo del ponte della barca, guardava distrattamente Daisy lavorare ancora al motore. Non era esattamente il suo campo e nemmeno il proprio, per questo ammirava molto la sua incorruttibile determinazione nel sistemare quel vecchio pezzo di ferraglia arrugginito. Se ci fosse stato Vincent ci avrebbero messo di meno; dopotutto di mestiere faceva il meccanico a Los Angeles.

Già, faceva…

Oliver aveva chiesto a Jason di lui come aveva chiesto di tutti gli altri e anche se infondo doveva aspettarselo, era rimasto parecchio atterrito nel sapere che non sarebbero tornati tutti quanti a casa. Poi aveva sorriso; per farsi forza, per non cedere alla tristezza e alla malinconia. Per essere il solito Ollie che vedeva il lato positivo di ogni cosa.

Cavolo, è proprio una situazione di merda amico. Ma c'è la caveremo, giusto?”gli avrebbe detto, mettendogli una mano sulla spalla e tirandolo un po' su di morale, anche se ormai il suo migliore amico non sembrava più tanto turbato da tutto quel sangue e dalla violenza.

Poi aveva saputo di Grant…

Jason era così concentrato, così immerso in questa sua nuova pelle da guerriero impavido – che in realtà Oliver, come prima di lui lo stesso Grant, sospettava esserci da sempre in realtà – quando gli comunicò la terribile notizia; ad Oliver il sorriso gli morì quasi in un attimo e il suo viso diventò la definizione stessa del dolore, dell'incredulità e della confusione, finendo a passare poi tutto quel tempo semplicemente a fissarlo in silenzio. Non più capace di aggiungere una sola parola.

La notizia l'aveva così sconvolto eppure non era nemmeno l'elemento che più l'aveva scioccato…

A turbarlo profondamente era stato lo stesso Jason; gli aveva dato quella notizia, così terribile e così crudele, con fare talmente distratto e quasi disinteressato. Con espressione monotona e continuando a guardare l'orizzonte, verso il posto sicuro in cui voleva condurlo e cambiando la direzione dello sguardo ogni tanto, solo per assicurarsi che non ci fossero pirati nei dintorni. Non guardò nemmeno l'amico negli occhi, non soffermandosi che il minimo necessario sulla notizia della morte di suo fratello maggiore, archiviandone subito l'argomento – Oliver sospettava che se di propria iniziativa non avesse chiesto, probabilmente J di suo non l'avrebbe mai informato di tutto questo.

Sembrava quasi apatia.

Sembrava come se non gliene importasse più nulla.

Peccato che il ragazzo biondo ormai lo conosceva così bene e da così tanto tempo, da sapere che era proprio il suo esatto contrario...

Ollie, da figlio unico qual'era, aveva passato molti, troppi anni ad osservare per bene quei tre fratelli così invidiabili per quanto fossero uniti tra loro da sapere con la certezza più assoluta che perderne uno, per i due rimasti, avrebbe significato perdere anche un pezzo del proprio cuore o della propria anima.

Un dolore così forte che il ragazzo biondo era consapevole di riuscire a malapena ad immaginare...

Quella di Jason era tutto ciò che ci fosse di più lontano dall'apatia e anche se l'amico indossava quella maschera ed evitava l'argomento, Oliver poteva benissimo vedere quel terribile strazio; come se J avesse ancora un grosso coltello piantato in pieno petto in quello stesso istante e che proprio, per quanto il ragazzo ci provasse, non riusciva mai ad estrarre. Soltanto a girare e ancora a rigirare, provocando solo più dolore facendolo sempre sanguinare e tutto questo gli diede da pensare...

Quanto si era perso di Jason dall'ultima volta che l'aveva visto? Che cosa aveva fatto di preciso in tutto questo tempo? Quante altre ne aveva già viste e subite? Quante ne aveva passate?

Quest'isola, splendida e bella quanto crudele e mortale, stava facendo appezzi il suo migliore amico.

«Ollie, mi passi quella chiave?» la voce di Daisy gli arrivo così distante e quasi improvvisa, visto come il ragazzo fosse perso nei propri pensieri. La ragazza era ancora inginocchiata a trafficare con il motore e dal basso gli indicava già da un pezzo la grossa chiave inglese che stava a terra a meno di un metro da lui.

«Oh, sì. Scusa, vado a prendertela» gli disse subito, sorridente e solare, abbassando dal proprio viso l'ennesimo spinello, voltandosi e guardando dove giaceva la chiave per poi andare a prenderla. Mettendo per un attimo da parte il turbine di pensieri che aveva in testa.

Poi lo vide...

Jason era sveglio e già fuori dalla tenda, Ollie sorrise praticamente per istinto e tutto contento che si fosse già ripreso, alzò una mano per attirare la sua attenzione ma non fece in tempo a chiamarlo; il suo migliore amico sembrava agitato, forse un po' scosso e prima ancora che potesse capirci qualcosa, lo vide muoversi a gran passi in direzione dell'uscita – come se volesse volatilizzarsi.

«Ollie, la chiave» lo richiamò Daisy, ricordandogli di nuovo di portargli l'oggetto in questione.

«Si certo. Ecco qui, tieni» gli disse prendendogliela e passandogliela subito.

La ragazza non tolse mai il naso da quel motore, Oliver invece alzò di nuovo lo sguardo e vide che Jason era praticamente sparito; perché se n'era andato?

«Senti Daisy, vado un attimo da Jason ok?» l'avviso, sempre con quella sua tipica calma.

«d'accordo, ma vedi di lasciarli anche un po' da soli quei due» commentò poi la ragazza senza mai alzarsi o distogliere lo sguardo dal proprio lavoro e di fatto, non solo non si accorse che Jason non era più con Liza, ma anche che Oliver si fosse già allontanato senza ascoltare le sue parole.

.... .... .... ....

Come tentai di alzarmi riuscii solo a sollevarmi debolmente su di un braccio, facendomi scappare un breve lamento di dolore che soffocai prima che Liza potesse udirmi. Solo poi, tenendomi una mano sul fianco bendato, finii di rimettermi in piedi e di uscire dalla tenda.

Erano tutti così presi…

Daisy con la barca e Oliver sembrava stargli dietro a dare una mano; li guardai un attimo da lontano e poi, senza di dire una sola parola, me ne andai. So che avrei dovuto avvisarli, che dovevano essere preoccupati per me e che volevano essere certi che per lo meno stessi bene ma ancora sentii solo l'impulso di andare via e di scappare fuori, quasi mi sentissi soffocare.

Scusatemi...

Non le gestivo proprio per niente bene le mie emozioni, eh?

Mi infilai subito nel cunicolo di roccia che mia avrebbe portato all'esterno a all'improvviso, invece che camminare in modo decente come una persona normale, mi ritrovai in una attimo ad accasciare contro la parete quasi privo di forze. Era decisamente troppo presto per alzarmi e farmi anche solo una banalissima passeggiata ma io, testardo come al solito, decisi di ignorare gli avvertimenti del mio stesso corpo.

Continuai, iniziando a trascinarmi contro quella superficie umida e rocciosa fino a ritrovarmi finalmente fuori.

Feci ancora una decina di metri in avanti e poi, ora già più tranquillo, mi fermai; non c'era alcuna luce ad abbagliarmi, era già calata la notte. I grilli già frinivano nell'erba, l'aria veniva su dal mare ed era fresca al punto giusto. Io mi ritrovai a respirare a pieni polmoni.

Adoravo quando la temperatura si prendeva una pausa dall'afa tropicale per diventare non fredda, ma semplicemente calda al punto giusto.

Avevo ormai imparato a conoscere bene il clima di quest'isola e anche dei suoi rari ma improvvisi cambi di temperatura; di solito di giorno faceva un caldo terribile e sfiancante, un po' meno la notte anche se comunque le alte temperature mettevano a dura prova il sonno il più delle volte. Quando pioveva invece la temperatura crollava di colpo e diventava così fredda da far impallidire una tipica giornata di pioggia londinese. Ci si doveva coprire o altrimenti si rischiava seriamente l'ipotermia. quando finalmente poi la pioggia passava, lasciava sempre quella temperatura del tutto gradevole che attraverso l'aria ora mi accarezzava la pelle.

Avevo gli occhi chiusi ma poi istintivamente alzai lo sguardo verso il cielo e quando li riaprii trovai miliardi di stelle a illuminare l'infinito manto di tenebre che era il cielo.

Era uno spettacolo bellissimo.

Per colpa di Vaas e dei suoi maledetti pirati, per colpa di tutte le carogne prive di cuore che giravano sull'isola, a volte mi dimenticavo quanto potesse essere stupendo questo posto ma alla fine la natura tornava sempre a ricordarmelo; era una vista così splendida, così stupenda, che nemmeno mi accorsi che stavo già cercando la reflex con una mano.

Non era affatto inusuale per me, al contrario, era una delle cose che più volte al giorno mi teneva occupato. Sopratutto nei tempi morti; prendere la reflex, immortalare qualcosa di interessante e poi rivederlo e magari, ricatturare di nuovo la sua immagine anche se l'avevo già fatto un sacco di volte. Piante, animali, paesaggi, albe e tramonti, templi e baracche, Rakyat, semplici contadini, donne che andavano a prendere l'acqua al fiume, bambini che giovavano con la terra e con i bastoni, donne anziane addormentate su una sedia fuori dalla porta, uomini di malaffare e persino i maledetti pirati.

Era più forte di me; fermarmi e fotografare per il semplice piacere per farlo.

Gli uomini di Vaas che non avevano la minima idea di quante volte mi ero avvicinato a loro, solo per potergli scattare un'innocua fotografia e poi tornare a svanire nella giungla senza averli neanche toccati – mi capitava spesso anche quando mi appostavo solo per studiarmi uno dei loro avamposti e per questo semplice motivo, persino di Vaas ne avevo ormai tante.

L'avevo sempre beccato per caso, i suoi movimenti erano peggio di quelli di un gatto fantasma; non lasciavano mai tracce e non si capiva mai dove sarebbe andato o da dove diavolo fosse venuto fuori. Era l'unico che fotografavo solo ed esclusivamente per studiarlo meglio, solo per capire se da qualche parte avesse un maledetto punto debole da poter sfruttare...

Ora però non dovevo pensare a lui e rovinare questo momento.

Di nuovo mi concentrai solo su quel cielo e ancora continuai con la reflex, trovando strano che non l'avessi giù toccata dentro anche solo per sbaglio. Dopodiché compresi il perché e lentamente tutta la poca serenità che ero riuscito a conquistare svanì nel nulla, lasciando lo spazio solo all'orrore e alla paura…

All'improvviso la mia mano vagò con terrore sul mio fianco. Fu solo in quel momento che compresi veramente di non avere nulla addosso; macchina fotografica, machete, armi da fuoco...

Niente, a parte i miei vestiti.

Gli altri dovevano avermi tolto tutto prima di medicarmi e mettermi nella tenda, pensando che fosse una buona idea, ma tutto questo ora...faceva di me solamente un uomo ferito e completamente disarmato – su di un'isola piena zeppa di assassini squilibrati...

All'improvviso il sangue mi schizzò di colpo alla testa stordendomi mentre il terrore e l'agitazione che seguirono, in un primo momento, mi paralizzarono completamente. Prima di iniziare a farmi tremare in modo quasi incontrollato. Avevo visto molto, decisamente troppo di tutto lo schifo che accadeva qui per non impedire alla mia immaginazione di tormentarmi e ricordarmi come le cose, per la più minima disattenzione – per la più minima stronzata – potessero andare veramente male

Per un attimo credetti di svenire come iniziai a vedere tutto nero e invece di pensare solo a sedermi, nella mia testa comincia a ripetere ossessivamente solo una cosa e una soltanto.

Mi serve un'arma

«Hey J!» mi sentii improvvisamente dire da Oliver alle spalle mentre una sua mano, incautamente, si posò sulla mia schiena.

Mossa sbagliata.

Avevo la mente completamente vuota, bloccata, ma non importava. In meno di un secondo il mio corpo si mosse da solo, reagendo praticamente d'istinto – per difendersi – e prima ancora di capire quello che stavo facendo, Ollie ne subì le conseguenze; fu un attimo, per come mi girai di colpo per afferrare il suo braccio, quello con cui mi aveva toccato, per torcerglielo dietro alla schiena e poi sbatterlo faccia contro la parete di roccia al nostro fianco, continuando solo a forzare finché non avrei sentito il suo osso spezzarsi sotto la pressione delle mia mano.

Furono solo le sue urla a fermarmi.

Fortunatamente, prima che potessi per davvero fratturargli l'avambraccio, la sua voce singhiozzante e intrisa di dolore mi arrivò alle orecchie, facendosi strada a forza verso quella piccola zona remota e ancora cosciente del mio cervello.

Piano piano incominciai a capire che quella voce così sofferente non era quella di un pirata, non era quella di qualcuno che avrebbe voluto farmi del male. No. Quella voce era di Oliver..

Avevo gli occhi aperti ma finalmente tornai a guardare per davvero e in un attimo, non fui più cieco.

La mia forza lentamente venne a mancare, il mio volto si riempì di dolore e di orrore come inizia a rendermi conto di quello che stavo facendo e a chi, lo stavo facendo...

Lo mollai, indietreggiando scioccato, abbassando lo sguardo sulle mie mani tremanti.

Come aveva potuto?

É Ollie, dannazione! Ollie...

Intanto Oliver si voltò verso di me massaggiandosi distrattamente il braccio dolente. Io non avevo il coraggio di guardarlo in faccia; stavo male, così tanto da sentirmi soffocare mentre per il dolore infilai le mie mani tra i capelli, stringendoli, con già le lacrime agli occhi.

Mio Dio, che cosa sono diventato?

«Mi dispiace. Perdonami, io non...» cercai di spiegargli in preda alle lacrime e singhiozzante, non riuscendo nemmeno a finire la mia stessa frase.

Non volevo fargli del male, non ne sarei mai stato capace eppure…

Eppure…

Io stavo per rompere un braccio al mio migliore amico, uno come pochi sulla faccia della terra. Un ragazzo splendido; senza di lui nella mia vita molte cose sarebbero state diverse...

«J...» mi sentii chiamare da lui quasi esitante ma indubbiamente preoccupato: «Tranquillo amico» aggiunse poi con tono tranquillo e così amichevole. Troppo amichevole.

Alzai lo sguardo, il mio pietoso volto pieno di sofferenza e lacrime giusto per vedere in tempo il suo sorriso solare mentre mi veniva incontro e mi metteva le mani sulle spalle, solamente per potermi calmare e consolare: «non è successo niente»

Che idiota che ero; così schiacciato dal peso insopportabile di una simile colpa che per un breve attimo mi ero completamente dimenticato di chi avevo veramente di fronte...

«E poi è stata colpa mia, giusto? Mai sorprendere un Ninja alle spalle» aggiunse poi scherzoso e ridente, irradiandomi come sempre con la sua positività. Io risi a mia volta alla sua battuta, anche se tra alcuni profondi singhiozzi ma sentendomi già il cuore più leggero.

Era incredibile come riuscisse sempre a sollevarmi, con il suo modo semplice e genuino di essere e non appena tornai abbastanza calmo per riuscire a parlare gli chiesi, giusto per sicurezza.: «Sei...sei davvero sicuro che non ti ho fatto niente? Ti prego, dimmelo se senti male da qualche parte e io...»

«Tranquillo J, sono apposto. Lo giuro, non sto mentendo» mi consolò, muovendo anche il braccio per mostrarmi che fosse del tutto in salute, così calmo e rilassato; invece io ancora sudavo e quasi mi sentii svenire per la seconda volta.

Mi ero indubbiamente alzato troppo presto...

«Tu piuttosto...» mi disse Ollie con tono incerto, vedendolo poi viaggiare con gli occhi sul mio fianco fasciato e come lo capii, d'istinto sentii l'impulso di coprirmelo.

«Sto, sto bene Ollie. Davvero; ho solo...ho solo bisogno di un po’ d’aria, sul serio. Poi torno dentro» mentii. Perché mentii? Perché dovevo sempre fare così con loro? Perché dovevo far finta che non ci fosse nulla che potesse abbattermi?

Oliver mi guardo incerto alle mie parole. Non capì il mio bluff, ma lo lasciò piuttosto perplesso il tono esausto che usai per rifilargli quella miserabile bugia. Non lo feci apposta; ero sempre stanco, stressato, agitato, in costante allarme e la verità ora, era che volevo solamente andarmene – senza però farlo neanche preoccupare.

«Quindi...torna da Daisy, ok? Io vado solo a farmi un giro. Solo un giro» gli mentii ancora.

Che cosa avevo che non andava?

Perché nonostante sentissi il bisogno di averlo vicino, continuavo solo a respingerlo?

Poi capii...

Ti prego, torna dentro Ollie; ti prego.

Avevo paura ma non per me stavolta, per loro. A quanto pare c'era solo una cosa che mi terrorizzava di più dell'essere solo e completamente disarmato, ovvero l'essere completamente disarmato ma in compagnia di qualcuno che amavo e che temevo di non riuscire a proteggere.

La grotta era un nascondiglio sicuro ma i pirati ogni tanto venivano a trovare il Dr. Earnhardt e non osavo immaginare cosa sarebbe successo se avessero beccato uno dei miei amici lì fuori. Perché mi era andata bene una volta ma chi poteva assicurarmi, che se fossero stati ricatturati, sarei stato poi in grado di salvarli una seconda volta? Di impedire che fossero uccisi o venduti come schiavi...

Dio, no…

Non lo volevo dannazione e avrei fatto di tutto perché non accadesse ma nonostante le mie parole, Oliver era ancora lì, di fronte a me, che continuava a guardarmi con sguardo poco convinto…

Dovevo agire, fare qualcosa che gli facesse capire che le nostre strade si dovevano dividere. Che lui doveva rientrare nella grotta e rimanere lì fino al mio ritorno, anche se sarebbero voluti dire giorni o anche di più. Ma non si muoveva, così a quel punto fui io il primo a farlo e prima che Ollie potesse protestare o dire anche solo una parola, di scatto gli diedi le spalle e tentai di andarmene.

Cercai di non guardare indietro, di ignorare il suo sguardo che doveva essere del tutto perplesso e confuso nel vedermi reagire a quel modo. Anche se era per il suo bene…

Riuscii solo a fare un paio di passi e poi crollai.

Le gambe di colpo cedettero sotto il mio stesso peso e se non fosse stato per lui, che subito mi corse incontro mettendosi in un attimo sotto il mio braccio per sorreggermi, sarei finito faccia a terra.

«Hey, hey. Con calma, ti accompagno io. Posso?» mi chiese, praticamente supplicandomi con quel suo sguardo e con quel suo sorriso così solare e ottimista a cui sapeva facevo fatica a dire di no.

Semplicemente felice di poter darmi una mano e come sempre ne rimasi commosso.

Oliver era la persona più schifosamente ricca che io abbia mai conosciuto nella mia vita eppure, era anche la più buona, gentile e altruista, sulla faccia della terra. Come fosse possibile che queste due cose andassero così d'accordo tra loro non ne avevo idea. Sapevo solo che di persone come lui ne nascevano una su un milione.

Io gli sorrisi a mia volta, ancora colpito dal suo gesto. Poi gli annui: «sì, grazie Ollie»

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Capitolo 3
*** The Memory Lane (Parte 1) ***


I Got You

Author - I luv Rainbow
(I_luv_Rainbow_000)
EFP | AO3

The Memory Lane (parte 1)

Quando Jason mise piede per la prima volta a casa dei Carswell, rimase del tutto spaesato.

Aveva solo dieci anni e non solo non aveva mai visto la coppia che lo aveva assunto, per così dire, come compagno di giochi del figlio, ma nemmeno lo stesso bambino, suo coetaneo, con cui avrebbe dovuto stringere amicizia. La situazione non era forzata, contrariamente a quanto poteva sembrare, e al piccolo Brody in realtà non pesava neanche. Ma restava comunque il fatto che si sentisse come se ogni cosa, là dentro, fosse fatta di cristallo e mentre aspettava in quel gigantesco atrio invaso solo da un profondo e immutabile silenzio, Jason poteva far altro che sentirsi sempre più confuso.

All’improvviso quello strano sortilegio fu rotto dall’apparire di un bambino biondo in cima alle scale che esplose in un gigantesco e solare sorriso, prima di correre giù e venirgli in contro del tutto eccitato.

Jason per un attimo fu preso in contropiede da tutta quell’energia così incandescente che il coetaneo emanava e che senza farlo apposta gli riversava addosso, attraverso una raffica di parole che sembravano non finire mai, iniziando a trascinarlo in giro per quell’enorme edificio e raccontandogli di tutto quello che insieme avrebbero potuto fare. In poco tempo il piccolo Carswell si rivelò essere un bambino dolce e simpatico quando eccitato e solare; a Jason piaceva giocarci insieme e passare del tempo con lui ma fin dal primo momento una domanda gli sorse spontanea, qualcosa che per molto tempo a venire avrebbe continuato a chiedersi finché la risposta, di prepotenza, non gli fosse piombata davanti gli occhi. Com’era possibile che un bambino tanto divertente e solare, che sorrideva sempre in quel modo così affettuoso, essere anche il più triste e tremendamente solo al mondo? E come poteva quella casa così grande, magnifica e piena di tante cose belle, essere anche così…terribilmente gelida.

.... .... .... ....

Una volta usciti dalla grotta non fecero molta strada.

La colpa era un po' di entrambi, Oliver questo lo sapeva bene; da parte propria avrebbe preferito che Jason si sedesse, che stesse fermo e che magari dormisse un altro po' visto che il suo viso era ancora più pallido di quanto fosse disposto ad ammettere; dall'altra parte, il guerriero bianco guardava con diffidenza e preoccupazione il limite della proprietà del Dr. Earnhardt. Come se fosse perseguitato dall'idea che il pericolo giacesse lì, pronto nell'ombra, appena oltre quelle ripide discese. Per questo finirono soltanto a girare intorno all'enorme casa bianca del chimico inglese un paio di volte.

Oliver continuò a sorreggerlo, a camminare insieme a lui spalla a spalla ed anche...a parlare.

Le prime furono solo poche parole buttate casualmente al vento, giusto per rompere il silenzio che comunque non era mai stato pesante tra di loro, nemmeno in quell'occasione. Poi lentamente riuscì a trascinarlo in quella zona grigia fatta solo di vecchi e divertenti ricordi, di tutte le idiozie dettate dall'incoscienza che si erano concessi durante l'infanzia e poi l'adolescenza – e di cui Jason batteva di gran lunga il coetaneo biondo per quanto riguardava l'avventatezza e la pericolosità.

Era riuscito a farlo ridere, senza troppi pensieri, facendogli ritornare il sorriso sulle labbra; Oliver il più delle volte non era un genio a capire bene le situazioni, anche quando accadevano davanti a lui, ma in quel momento intuì che a Jason dovesse mancare parecchio.

I suoi amici. La sua casa. La sua famiglia

Per un attimo lo sfiorò il pensiero di Grant ma ancora non osò chiedere nulla e poi, c'era così tanto che voleva conoscere del suo migliore amico, così tanto da quando erano stati divisi sull'isola; ma doveva essere cauto, doveva arrivarci piano piano, usando le parole giuste ed evitando di forzare la persona, che come amico, amava più a questo mondo.

Così usò semplicemente il suo super potere di sapere vedere il lato migliore di tutte le cose; persino di quelle successe a tutti loro sulle Rook.

«Certo che sei diventato proprio figo J» gli disse Oliver con un sorriso divertito e felice in viso, così da spostare finalmente l'argomento verso l'elefante nella stanza che entrambi avevano fatto finta di non notare fino a quel momento: «Sapevo infondo di non dovermi preoccupare troppo, ma quando sei spuntato tu a salvarmi è stato fantasistico!» aggiunse, iniziando finalmente a parlare del presente. Dell'isola – anche se non era quello a cui mirava, quello che sperava di tirare fuori dall'amico.

Jason per un attimo non rispose, poi lo guardò confuso e preoccupato: «Non hai provato paura?» gli chiese con un po' timore, perché come Ollie sapeva essere il ragazzo più solare della terra, J invece, senza alcun secondo fine e del tutto inconsciamente, sapeva essere il più ingenuo e premuroso.

E questo, persino ad uno a cui sfuggiva quasi tutto come Oliver, era riuscito a capirlo.

«Ok, forse un po' me la stavo facendo sotto – all'inizio» gli confessò abbastanza ironico, edulcorano di molto la pillola.

Purtroppo si ricordava ancora bene com'era stato dover correre sotto quella terrificante pioggia di proiettili vaganti, trasalendo ogni volta che sentiva lo scoppio di qualcosa vicino, o di una pallottola sfiorargli pericolosamente la testa lasciandogli nelle orecchie un sibilo assordante.

Era stato spaventoso, ma sarebbe stata una menzogna non ammettere che di colpo gli si era riempito di gioia il cuore, quando aveva notato chi fosse il suo salvatore.

«Ma è stato comunque incredibile!» aggiunse subito con un largo sorriso, prima che l'amico potesse in qualche modo sentirsi responsabile per ciò: «Non appena ho visto che non c'era confronto tra te e loro mi sono sentito incredibilmente euforico! Era come avere Jason Statham a farmi da angelo custode!» concluse eccitato, strappando una leggera risata all'amico.

Ecco, era proprio questo che serviva; perché se il ragazzo biondo voleva arrivare al vero punto della situazione, alla vera domanda che voleva fargli da quando era stato salvato, prima doveva mettere Jason il più possibile a suo agio – di farlo sentire, come dire...a casa.

«Non sono l'eroe di un film d'azione Oliver» gli rispose ma stavolta con tono scherzoso nonostante la visibile malinconia di sottofondo: «Ho solo fatto quel che dovevo»

«E questo è proprio quello che direbbe un eroe» gli rispose l'amico facendogli subito notare l'ovvio, per quanto l'altro non fosse disposto a credergli. Infondo Jason aveva risposto come sempre, guidato solo dalla semplice ingenuità del suo carattere buono.

Per un attimo si guardarono negli occhi dopo questo scambio di battute, ritrovandosi chissà perché a ridere insieme ancora una volta, del tutto spensieratamente; forse un po' troppo, visto come il suono che uscì dalla bocca del guerriero bianco iniziò poi a distorcersi, diventando un chiarissimo gemito di puro dolore.

Oliver fece appena in tempo ad accorgersene prima di ritrovarsi a sorreggere l'amico con ancor più impegno, sentendolo d'improvviso cedere e stringersi quasi disperatamente a sé, anche se tutto durò per un brevissimo attimo – di nuovo ebbe il terrore che potesse svenirgli tra le braccia, come diverse ore prima nella grotta, per questo iniziò a pregare con tutto il cuore di non assistere di nuovo ad una scena simile.

«Fermiamoci qui!» disse senza aspettare proteste; non che Jason fosse in grado di farne.

Per loro fortuna, il grosso gazebo bianco da cui si poteva ammirare dalla cima di quella collina gran parte dell'isola era lì, a pochi passi.

Oliver, con attenzione ma anche fretta dettata dalla preoccupazione, guidò il suo migliore amico fin dentro alla struttura per poi aiutarlo a sedersi sulla sdraio che giaceva al suo interno, non staccando mai ancora le mani dal suo corpo e stando solo attento ad ogni minimo segnale che poteva avvisarlo di dover intervenire.

«Ok ok Jason, v-vuoi che ti porto qualcosa di fresco da bere?» gli chiese preoccupato, ma l'amico non gli rispose. Ancora si limitava a tenere gli occhi serrati, cercando solo di respirare lentamente: «U-una birra magari?» li chiese poi, ma non sembrava di aspettarsi per davvero una risposta.

«O...oliver» cercò di interromperlo Jason prima che corresse troppo, ma a quanto pare aveva preso la tangente e di fatto, continuò a parlare talmente velocemente che visibilmente il ragazzo moro non era più sicuro di riuscire granché a seguire il discorso.

«Ma certo! Il dottor E. mi ha detto che ne ha una ghiacciai piena sotto la veranda, se vuoi faccio un salto e la prendo subi...»

«Oliver!»

«Sì Jason?» si fermò finalmente per chiedergli incuriosito e confuso.

In risposta il guerriero bianco gli sorrise calorosamente: «Sto bene Oliver» lo rassicurò poi, semplicemente. Peccato solamente che fosse ancora troppo pallido e visibilmente troppo stanco per poterlo sostenere.

Il ragazzo biondo però non disse niente.

Forse non avrebbe dovuto, forse sarebbe stato meglio se l'avesse preso in pieno petto e gli avrebbe detto una volta per tutte di piantarla con tutte quelle scuse, di finirla di dire che tutto andava bene quando non era così, di smetterla di far finta di non avere un problema perché così non aiutava né se stesso e nemmeno la persona che voleva offrigli il proprio aiuto.

Ma Oliver non era Grant.

Dio...se il fratello maggiore di quel ragazzo fosse stato lì, non avrebbe esitato nemmeno per un momento nel caricarlo sulle proprie spalle, ignorando ogni tipo di protesta e riportarlo alla tenda. Questo però non sarebbe successo perché Oliver Carswell era diverso e provava per Jason un affetto altrettanto profondo ma anche del tutto spensierato ed ingenuo; per questo e per tanti altri motivi, non l'avrebbe mai e poi mai rimproverato per nascondergli così ostinatamente di avere un problema.

E poi, tra l'altro, era proprio l'ultima persona che poteva rinfacciargli una cosa del genere…

«Va bene J» gli disse sfoderando un largo e sincero sorriso, rilassandosi un poco: «Però se ti va...le prendo comunque un paio di birre»

gli propose Oliver, stavolta tornando calmo e positivo, come se non fosse successo proprio nulla.

«Sì, magari solo un paio» gli confermò massaggiandosi distrattamente il viso stanco.

.... .... .... ....

Oliver si allontanò per prenderle e Jason lo guardò leggermente incupito. Poi sospirò e nel farlo con una mano estrasse dai pantaloni qualcosa che aveva raccolto nelle vicinanze della serra, qualcosa che al ragazzo biondo era sfuggito e che aveva permesso al guerriero Rakyat di calmarsi e tornare a sentirsi, seppur in minima parte, protetto.

Tra le sue mani, Jason stringeva un vecchio cacciavite appuntito un po’ arrugginito. Non importava. Poteva accontentarsi. Dopotutto era sempre un'arma...

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Capitolo 4
*** The Memory Lane (Parte 2) ***


I Got You

Author - I luv Rainbow
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The Memory Lane (parte 2)

Il vicolo era buio e il quartiere piuttosto degradato e sinistro, per questo nessuno a quell'ora della sera non osava mettere piede in un posto simile. Nessuno che per lo meno, non avesse un interesse particolare che lo spingeva ad arrivare fin lì in solitaria e con circospezione; qualcuno che desiderava solo lasciarsi andare e dimenticare tutto quanto. Volteggiare in un oceano di pace privo di preoccupazioni, privo di un domani, privo di una qualsiasi responsabilità o di conseguente negative.

Anche solo per una notte.

Anche solo se avesse potuto significare di rimanerci secco.

Il ragazzino scheletrico e più bianco di un fantasma che tremava nella penombra del vicolo decise di avvicinarsi agli uomini davanti alla porta di metallo. Da quel vicolo stretto e spaventoso si potevano sentire i rumori del locale all’interno, il suono della musica così alta fino a stordirti il cervello. Era un club, una discoteca, un luogo dove ubriacarti, farti e perdere ogni inibizione con la gente sbagliata.

Non era importante, il ragazzino biondo, dalla pelle un po’ rovinata e con le occhiate così marcate da sembrare uno zombie si avvicinò al gruppo di uomini che ne stanziava sempre l’esterno, in quel preciso punto.

Capirono subito che si trattava di un tossico ed uno di loro lo riconobbe persino come cliente abituale.

Così lo salutarono e nonostante volesse solo la roba, cercarono subito di convincerlo ad entrare. Era noto per la quantità di soldi che spendeva se gli sventolavi qualcosa di nuovo e molto forte davanti al viso e per questo, insistettero a non lasciarlo andare. Il ragazzino dall’aspetto malaticcio non ci mise molto a lasciarsi convincere, era già sull’orlo dell’astinenza e l’uso abituale di droghe non gli avevano ormai lasciato chissà quale difesa.

Accettò e per questo si lasciò trascinare in una stanza piena di gente ridotta esattamente come lui, già collassata o sul punto di assumere la propria “dose”. Una stanza disordinata, sporca, schifosa in tutti sensi possibili; ma non importava, la vista dei cristalli e della cocaina tolsero completamente l’importanza all’ambiente e a tutto il contesto che lo circondava.

Il ragazzo, che assomigliava più ad un cadavere che camminava che a un essere umano vivo, si ritrovò al settimo cielo; felice solo di spendere i propri soldi per averla e usarla.

Non ci volle molto prima che anche lui, come tutti gli altri, si ritrovò disteso e del tutto stordito in un angolo, mentre la sensazione più bella del mondo lo invadeva, mentre ogni dolore e preoccupazione se ne volava via con una leggera brezza. Mentre ogni cosa terrena perdeva tutta quanta la sua importanza e mentre tutto ciò accadeva, l’unica cosa che il ragazzino riusciva a pensare, era che nelle proprie tasche aveva un mucchio di soldi e che lì, c’era tantissima droga.

Chissà quando sarebbe ritornato a casa…

.... .... .... ....

Da quel gazebo l’isola era ancora più bella.

Appoggiato sul corrimano avevo spostato lo sguardo dalla via latta, che si rifletteva magnificamente nell’oscurità dell’oceano sottostante, ai fuochi sparsi dei pirati per tutta la baia del sole. Potevo vedere le montagne, l’antenna radio del luogo e come la spiaggia si curvava a formare quel piccolo lembo di terra quasi a sé stante. Sembrava quasi uno spettacolo romantico, peccato che fosse il paradiso degli assassini e dei ladri, degli stupratori e dei folli sadici – che fosse il paradiso delle bestie selvagge.

«Tieni!» mi sorprese per un attimo Oliver, arrivandomi incontro tutto sorridente e con un paio di birre già aperte in mano.

Io mi voltai non reagendo violentemente stavolta; forse perché ero armato, forse perché di sicuro ero molto più rilassato di quando ero appena uscito dalla grotta. Forse perché semplicemente mi aveva già contagiato con la sua energia positiva. Così stavolta in risposta sorrisi accettando la birra che mi porse.

«Grazie Oliver»

In realtà non credo esistessero parole per descrivere quanto fossi grato ad averlo come amico.

Lui continuò a sorridermi per poi affiancarmi, appoggiandosi su quel parapetto ed osservare distrattamente davanti a sé mentre iniziavamo a sorseggiare dalla bottiglia di vetro; sinceramente non andavo chissà quanto matto per la birra e nonostante cercassi di rimanere in forma, quando c’era l’occasione giusta mi gettavo su degli alcolici decisamente più pesanti e con un immediato effetto stordente. Non sapevo neanche che marca dovesse essere quella che avevo tra le mani, ma l’avevo vista anche a Bangkok quindi presumo dovesse essere famosa da queste parti.

Il sapore non era nemmeno male, ma per quanto fosse piacevole, l’alcol non doveva essere una scappatoia dai miei problemi…o dai miei doveri.

«Ti hanno fatto del male?» mi venne improvvisamente da chiedergli, intercettando per un attimo il suo iniziare a parlare di chissà che cosa ancora e stroncandolo sul nascere senza farlo apposta - almeno credo.

Oliver per un attimo mi guardo preoccupato e dispiaciuto per via di come quella domanda era uscita dalla mia bocca, attraverso un suono rauco e debole, pregno dello spettro del dolore e della paura di tutto quello che quei maledetti criminali senza principi e senza una briciola d’onore potessero avergli fatto durante la sua prigionia; durante tutto quel tempo che era stato costretto a passare nelle loro mani - solo perché io ero ancora così maledettamente lento nel recuperali e salvarli tutti.

«Loro non…loro non ci sono andati giù pesanti con te, vero?» provai a chiedergli di nuovo e dover dire quelle parole fu come cercare di farlo mentre un macigno mi pressava orribilmente lo stomaco.

Ne avevo viste così tante, decisamente troppe, da avere persino gli incubi la notte per come potessero venire trattati i prigionieri su questa maledetta isola. Dei danni e soprattutto dei traumi che sarebbero potuti nascere per colpa di quei maledetti animali. Della rabbia e del dolore, della continua umiliazione e dalla degradante impotenza di fronte a qualcosa di profondamente orribile che non potevi in alcun modo fermare o dimenticare. Di qualcosa che ti avrebbe perseguitato per sempre rischiando di rovinare il resto della tua vita – se eri abbastanza fortunato (o no) da poterne avere ancora una.

Queste cose le sapevo bene; perché infondo, non ero forse anch’io una vittima di tutto questo?

«In realtà Jason…» incominciò a rispondermi e per un attimo io sentii il cuore mancarmi un battito per quello che avrei potuto sentire nel seguito: «…no. Sono stato abbastanza bene» aggiunse poi e di colpo tutta la pressione che sentivo, tutta l’angoscia, così com’era venuto riuscì anche a volatilizzarsi in un breve attimo.

«Davvero?» gli dissi, sorridendo e passandomi una mano tra i capelli, confortato, nonostante gli occhi lucidi per lo spavento.

Oliver tornò a sorridermi con tutto il suo calore: «Certamente J! E fidati, non è un’esagerazione se ti dico che forse mi hanno trattato di lusso, meglio di chiunque altro nelle loro vite!» affermò senza esitazione e con un sorriso così solare e rassicurante che non riuscii a fare a meno di credergli. Ma non era solo questo…

Conoscevo Oliver fin da quando ero bambino e una delle tante cose che avevo notato di lui era come fosse piuttosto fortunato quando si trattava di essere in situazioni parecchio pericolose; ma finire su quest’isola e sapere che razza di mostri fossero gli uomini di Vaas, mi aveva fatto vacillare e credere che persino la sua buona sorte potesse avere una falla.

«Ah sì? Come diavolo hai fatto?» gli chiese scherzosamente, molto più rilassato ora e lui in risposta mi sorrise divertito.

Era stato casuale, una situazione da sembrare davvero comica e suscitare ilarità nella propria assurdità, eppure così erano andate le cose: Oliver era stato catturato mentre si trovava con Daisy e Liza, perché da migliore amico qual era, durante la nostra separazione il primo giorno sulle Rook aveva parlato con lei e cercato di convincerla che alla fine non ero così idiota come delle volte davo a credere con i miei comportamenti a perlopiù irresponsabili e a volte persino distaccati.

Non ero mai stato un uomo facile con cui avere una relazione fissa.

Lui era presente alla loro cattura, ma il giorno dopo li divisero e con la mia ragazza (la mia ex, quando finalmente avrò il coraggio di parlarle) finì in tutt’altro avamposto.

«Il Blu Steel1, sei stato lì per tutto questo tempo quindi?» commentai abbastanza sconsolato.

L’avessi saputo prima, di sicuro non ci avrei messo così tanto per liberarlo; rischiando pure che finisse sull’isola sud insieme ai mercenari e che lì lo perdessi per sempre. Era stato solo per un pelo se Oliver era salvo. Ancora qualche giorno di più e chissà dove diavolo nel modo sarebbe stato spedito.

«Sì. Anche se non sapevo che avesse un nome» mi rispose sincero Ollie.

Io sorrisi divertito, forse perché da un lato adoravo essere consapevole di conoscere questo posto meglio di quel dannato figlio di puttana, che ci aveva vissuto per tutta la vita e che attraverso violenza e disumane crudeltà, se n’era pure autoproclamato il sovrano.

«Sai, all’inizio non mi trattavano né peggio e né meglio di chiunque altro lì. Ma poco dopo che hanno scoperto il mio talento, sono diventato quasi una celebrità» mi disse e come iniziò a raccontare la sua storia, passai per diversi stati emotivi.

La prima fu preoccupazione.

Nell’apprendere che i pirati avessero scoperto in cosa fosse così bravo Oliver, mi creò un nodo alla gola e di nuovo sentii lo stomaco darmi problemi. La mia amicizia, con lui, era delle più lungimiranti ma questo non voleva dire che era stata anche tra le più facili; avevamo vissuto un periodo, o meglio, il mio migliore amico aveva vissuto un certo periodo, che sincerante non avrei mai augurato proprio a nessuno di sperimentare nella propria vita.

Era stato un tossico, molto tempo fa e aveva usato la droga per colmare un vuoto che si portava dentro fin dall’infanzia. Aveva passato l’inferno, caduto in baratro e toccato persino il fondo per questo, ma i pirati tutto ciò non lo sapevano; l’unica cosa che loro avevano scoperto era come l’americano ricco e biondo sapeva riconoscere, tagliare e lavorare la droga meglio di tutti loro messi insieme. Di come avrebbe saputo dirigere certi lavori con più efficienza e qualità di ognuno di loro.

Per questo, prima di farlo prendere dai mercenari e portarlo fino al molo dove l’avrei salvato, l’avevano tolto dalle gabbie dei prigionieri e messo “al lavoro”.

Di come stava diventando una celebrità; perché come la faceva ottima lui, nessun forse era mai stato in grado di farla e i pirati erano sempre ben contenti di prenderne qualche assaggio, o di riceverne un pacchetto insieme alla solita bustarella di denaro.

Per quanto fossi felice per lui, non ero sicuro di essere contento nel sentire questa storia, ma Oliver intercettò subito il mio umore.

«So a cosa stai pensando» mi disse abbastanza serio stavolta, abbandonando per un attimo tutto quel suo atteggiamento di sdrammatizzazione: «Sì, era una bella tentazione. Avere il libero accesso a tutta quella droga pesante, poterla persino assaggiare…sarebbe stato facile ricascarci» ammise ed entrambi bevemmo l’ennesimo sorso di birra dalle nostre bottiglie guardando poi dritti davanti a noi, fingendo di perderci nel panorama.

Tra me e me presi un profondo respiro.

«Ma non l’ho fatto J. Non l’ho fatto» mi disse sfoderando un’enorme sorriso solare ed io decisi di credergli. Entrambi sorridemmo, poi proposi brindisi con le nostre due bottiglie di birre ormai mezze vuote, per festeggiare forse l’unica cosa veramente positiva di tutto questo schifo.

Così sospirai: «Fanculo i pirati. Fanculo quest’isola» gli dissi avvicinando la mia bottiglia.

«Fanculo tutti!» mi disse divertito seguendomi a ruota prima di scontrare la sua bottiglia con la mia, mettendoci a ridere l’attimo dopo prima di tornare a sorseggiare le nostre birre.

Prima di tornare a ridere a ed a scherzare quasi spensieratamente…

.... .... .... ....

Nella baia pirata tutto sembrava abbastanza tranquillo; i pirati presidiavano i loro avamposti e quelle zone sensibili che avevano bisogno di costante sorveglianza. I più fortunati erano radunati intorno a qualche fuoco a non far niente a parte bere, fare battute e fare qualche conversazione abbastanza rozza e sessista. Oppure avevano la notte libera da usare per dare qualche party insieme alle prostitute più facilmente reperibili nei dintorni; sempre se non avevano voglia di rapire momentaneamente qualche giovane ragazza del luogo con cui “divertirsi” od usare qualche nuova prigioniera o prigioniero occidentale che avevano le mani – ovviamente tra quelli che non era tassativamente vietato usare perché ancora “inviolati”, visto che certa merce valeva davvero cifre astronomiche nel mercato degli schiavi.

Insomma, nulla di diverso dal solito. Così come l’invidia di quelli che dovevano sgobbare invece di poter cazzeggiare come tutti gli altri.

Felipe era tra loro.

La tecnica che guidava aveva avuto un gusto ed ora si dannava sotto il cofano di quella stupida vecchia macchina per cercare di farla ripartire; tra gli altri tre pirati che erano assegnati alla ronda con uno si era appoggiato contro la portiera si limitava a pulire la propria arma, un altro fumava accucciato a terra mentre l’ultimo aveva messo su una fiacca sorveglianza.

Di solito la baia pirata non era terreno di scontro con il popolo Rakyat, o almeno lo era stato per anni, prima dell’arrivo di Jason e prima che quest’ultimo liberasse l’avamposto di Amanaki.

«Huh?» fece solo in tempo a dire il pirata che si era volontariamente messo a fare la guardia dopo che intravedendo un piccolo luccichio tra la vegetazione, si ritrovò giusto un momento dopo conficcato da un coltello volante, prima di lanciare un verso strozzato e stramazzare già morto.

1 questo avamposto in realtà non esiste nel gioco, me lo sono inventata di sana pianta.

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Capitolo 5
*** The Demones Inside Ourselves ***


I Got You

Author - I luv Rainbow
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The Demons Inside Ourselves

Ero svenuto. Per la seconda volta avevo mentito ad Oliver sulla mia salute, per poi collassare pallido ed esangue sotto i suoi occhi; l’ultima cosa che ricordavo prima di quel momento, fu che mi afferrò in tempo, evitando ancora una volta che finissi per cadere faccia a terra. L’ultima cosa che udii invece, oltre ad uno strano rumore scoppiettante in lontananza, fu il mio nome pronunciato dalla sua bocca e seguito dalle parole «mi dispiace»

Quando ripresi sensi mi ritrovai a vagare con lo sguardo in una stanza illuminata; il colore rosa fu la prima cosa che mi colpì e nel cominciare a percepire la voce del Dr. Earnhardt, finalmente, iniziai a capire dove mi trovassi…

«…insomma, non sono un vero medico sai – o un chirurgo» mi stava spiegando e sembrava essere solo la parte centrale di un discorso iniziato chissà quanto prima. Peccato che io fino a quel momento ero rimasto privo di coscienza, anche se il vecchio dottore inglese, ancora un po’ perso con la mente tra gli effetti di quelle sostanze pericolose che lui stesso produceva, non se n’era affatto accorto: «Lo sia Jason, no? Sono un chimico. Un bravissimo chimico! ho tanta roba su cui sto lavorando ora e per cui i pirati non vedono l’ora di metterci le mani sopra, come le pillole gialle, ricordi? Non ho ancora perfezionato bene la formula ma ci sono vicino, di sicuro ne andranno entusiasti quando finalmente saranno complete; io stesso le proverò per primo…» continuava ancora ed ancora a parlare, con una certa calma rilassatezza dovevo ammettere, ma sembrava anche senza fine. Chinato su di me, costantemente, più precisamente al livello del mio ventre, munito di attrezzi come forbici, ago e filo, sembrava impegnato ad “aggiustare” qualcosa che non andava. Poi notai il sangue, le bende e capii che stava cercando di ricucirmi ancora quella maledetta ferita; la stessa che mi aveva già fatto perdere i sensi davanti a tutti nella grotta.

«Dove…Dov’è Oliver?» fu la prima cosa che chiesi anche se mi risultò difficile, sentivo la bocca un po’ impastata ed ero ancora molto debole. Per un attimo mi sentii stordito sulla situazione ma fortunatamente la voce del mio migliore amico non tardò ad arrivare alle mie orecchie.

«Jason!» lo vidi spuntare oltre l’inglese, tutto sorridente, ed ora anche consolato non appena constatò con i suoi stessi occhi che di nuovo mi muovevo e parlavo.

Per un attimo ricaddi sul morbido materasso su cui giacevo e sospirai sollevato. Quel lettino da bambina era più comodo di quanto mi aspettassi e il constatare alla vista che tutto andava bene, non poteva far altro che confortarmi. Tanto che per un attimo chiusi gli occhi e mi rilassai.

«Bene, ho quasi finito. Vedi di stare fermo e riposarti ora, non vorrei ricucirti questa ferita per la terza volta e poi te l’ho già detto: sono un chimico non un medico, sono più bravo a trafficare con quello che ho giù nella serra, che con ciò che ti sta dentro. Cerca di ricordartelo» mi avvertì anche se lo fece piuttosto distrattamente, con la mente che sembrava ancora parecchio annebbiata. Poi si alzò e Oliver prese quasi il suo posto, sedendosi sul letto, praticamente accanto dove stavo disteso. Lo vidi di nuovo con uno spinello in mano a fumarsi altra erba, ma nonostante quel sorriso sollevato, notai che fosse ancora scosso per quello che avevo permesso accadere per la seconda dannatissima volta.

Nel frattempo il dottore era giù uscito dalla stanza mormorando sul del the che ci avrebbe preparato, giusto per rilassarci – non dubitavo che ci avrebbe aggiunto dell’altro di proprio per ottenere l’effetto.

«Scusa» gli dissi soltanto, sentendomi ancora con la coscienza ancora troppo volatile per poter parlare, ma continuai comunque a farlo: «Non succederà mai più, te lo prometto» cercai di rassicurarlo.

Almeno speravo.

Oliver mi guardò con occhi lucidi, sorrideva, ma potevo benissimo vedere come fosse ancora scosso; di come l’idea della mia morte lo terrorizzasse forse più della propria.

«No Jason, non fa niente» mi rispose, facendo cadere una parte dello spinello già bruciato nel posacenere che aveva in mano e che poi posò sul piccolo comodino lì vicino: «E poi, quante volte te l’ho detto io? Giusto? Soprattutto quando non era palesemente vero» mi disse con una risata amara: «non ti sei mai arrabbiato una sola volta per questo…né mi hai odiato» continuando a sorridermi, ma i suoi occhi erano rossi e lucidi ed io non potei che guardarlo con dispiacere per questo – lottando per poter rimanere cosciente nel frattempo, ma senza la minaccia di nessuno pericolo.

Volevo solo continuare a parlare con lui.

«Perché tiri fuori questo ora? Sai che non ha più alcuna importanza» gli dissi sforzandomi, sentendomi quasi sprofondare nel mondo dei sogni da come non potei far altro che richiudere gli occhi e rigirare la testa nel cuscino come a dovermi riaddormentare. E poi, infondo, non era nient’altro che la verità; non c’era niente che importasse più di quel periodo, così come non ci fosse niente che sentivo mi dovesse.

«Sì sì, lo so; hai ragione» mi rispose sorridendo un po’ commosso come al solito, potevo percepirlo dalla sua voce visto come restai con gli occhi chiusi, ancora annebbiato da una sonnolenza persistente.

Ma continuavo ad ascoltarlo.

«Hey J, sai una cosa» richiamò la mia attenzione ma con semplice calma ed io aprii un poco gli occhi per guardarlo, nonostante potessi assopirmi da un momento all’altro: «So che quando eravamo nella grotta ti ho detto di no…ma ora penso che in realtà, lasciarti andare è proprio quello di cui hai bisogno. Quindi favorisci pure» mi invitò poi, porgendomi lo stesso spinello che si stava fumando fino ad un attimo prima. Io lo guardai con occhi stanchi, ma sorrisi e lo accettai.

Fin da quando avevo riportato Ollie nella grotta, nel vederlo fumare, avevo sentito la voglia di fare qualche tiro anch’io.

Così lo presi dalle sue dita e me lo portai alle labbra, inspirai, tornando a avvertire l’inconfondibile sapore nella mia bocca, oltre che al piacevole odore. Nel mentre Oliver continuava a guardarmi con occhi un po’ rossi, ma sorrideva e dalla sua espressione sembrava quasi volesse abbracciarmi forte – probabilmente serviva più a lui che a me in quel momento. Ma non avevo le forze per potermi sollevare e soddisfare questo suo desiderio; a malapena ne avevo per continuare a rimanere sveglio e non sprofondare nella dimensione irreale dei sogni.

Ma questo non voleva affatto dire che non potevo dargli quello di cui aveva bisogno.

Richiusi gli occhi, rilassato. Uno sbuffo di fumo lasciò la mia bocca, raccogliendosi in una piccola nuvola poco sopra la mia testa, per poi dispendersi nell’aria, mentre la mia testa sprofondò ancora di più nel cuscino come sentii ormai che le forze mi stavano lentamente lasciando, ma dolcemente stavolta; cullandomi e invitandomi semplicemente al sonno.

«…Anch’io ti voglio bene Oliver»

.... .... .... ....

Dando le spalle alla ringhiera di legno del gazebo, non molto prima, Oliver ci si appoggiò altrettanto, standomi a fianco mentre parlavamo; forse aveva notato la mia aria stanca, anche se cercavo di mascherarlo in tutti i modi. Stringere il cacciavite nella mia tasca mi dava sicurezza, ma non poteva di certo aiutarmi come una buona dose di caffè…o una bella flebo di sangue. Dovevo migliorare. Non potevo permettermi di perdere una giornata intera a riposo, per quanto mi sarebbe piaciuto, per quanto sarebbe stato meraviglioso che con un tocco di bacchetta, ogni cosa sarebbe potuta tornare al proprio posto. Ma questa non era la realtà e se volevo guadagnare un futuro per le persone che amavo, dovevo sacrificarmi e impegnarmi a versare sangue – letteralmente.

Sollevai il viso, guardai il mio migliore amico, continuai a sorseggiare e a sorridere mentre seguivo il suo discorso e intanto mi facevo una promessa.

Non avrei mai raccontato a nessuno di loro cosa stavo realmente diventando…a quanta violenza mi stavo abituando, a quanta dolore io stesso ero diventando capace non solo di sopportare, ma anche di provocare. All’essere in cui mi stavo trasformando. Certo, forse esageravo, forse era solo un falso presentimento, ma per certo avevo questa terribile sensazione, dal profondo, che qualcosa dentro di me avesse incominciato a sgretolarsi, che lo stesse facendo tutt’ora, pian piano – la mia vita. Il mio io. La mia sanità mentale – e che prima o poi, presto o tardi, non avrei più potuto ignorarlo.

Ma per ora cacciavo il pensiero. Sorridevo. Mentivo.

Non avevo raccontato ad Oliver nemmeno un terzo delle cose che accadevano e che mi erano accadute. In realtà non credo che l’avrei fatto mai e per quella lunga notte, mi ero quasi convinto che avrei potuto farcela. Poi d’improvviso, il mio migliore amico pronunciò l’ultima frase che avrei mai voluto sentire.

«Com'è successo?»

Mi bloccai. Per un istante prima fissai il vuoto davanti a me rimanendo di pietra, poi mi ritrovai di colpo annebbiato, come se avessi appena preso un pugno in faccia.

«C-com'è successo, cosa?» gli chiesi poi, riprendendomi quel poco che bastava per fare lo sprovveduto, ma credo fosse la performance più penosa che io abbia mai recitato. Oliver aveva sicuramente capito che cercavo solo di evitare l’argomento, ma non me lo fece pesare.

«Intendo...di Grant» non appena sentii il suo nome mi parve di crollare.

Quando l’avevo salvato, quello stesso pomeriggio, l’adrenalina mi aveva impedito di mostrare debolezza. Di evitare di rompermi nel solo sentire quelle cinque lettere. Ma ora era diverso, non avevo nulla a tenermi in piedi, e così quella parte di me che cercavo di soffocare disperatamente prese velocemente il sopravvento. Non ero preparato affatto per quella domanda e forse evitavo di stare il più possibile con loro, ognuno dei miei amici, proprio per evitarla completamente.

Non volevo ricordare la morte di Grant e l’avevo chiuso apposta in cassetto ermetico per non doverlo fare mai, ma in quel momento, così vulnerabile com’ero, mi venne spontaneo frantumare quella maledetta cassaforte ed estrarlo. E la prima cosa che sentii nel rammentare, la prima cosa che io provai, stranamente non fu la tristezza, che invece mi accompagnò l’attimo dopo, ma rabbia. Cieca e dolorosa.

All'inizio mi ritrovai a stringere i pugni con le lacrime già agli occhi, come mi tornò alla mente la figura eretta di Vaas, che rideva tutto divertito dal suo palcoscenico di lamiere e legna, come a doversi far ammirare – così sadicamente compiaciuto del suo operato e del suo impulso di fare a pezzi la vita come se non avesse valore – mentre ingenti litri di sangue uscivano a schizzo dal collo forato di mio fratello, imbrattandomi tutto. Lavato via, dalle rapide di quel fiume che dieci minuti dopo mi avrebbero quasi portato alla morte.

Dio. Quanto desideravo fargliela pagare.

Quando desideravo restituirgli, almeno un minimo, di tutto quel dolore che mi aveva fatto provare; demoralizzato solo dalla consapevolezza, che probabilmente non esisteva nulla a questo mondo a cui quel bastardo tenesse abbastanza dal soffrici come un cane nel perderla. Che non avrei mai potuto farlo piegare dal dolore come aveva fatto con me…come ancora, faceva con me. Avrei voluto almeno poterlo usare per sfogarmi; pugnalarlo a morte nel ventre, o magari proprio al centro del torace, aprire un buco, scavare là doveva aveva un abisso profondo di oscurità e follia al posto cuore; fargli pagare sangue per sangue…

Ma lui non c'era. Non c'era mai quando avrebbe potuto darmi soddisfazione e gli unici ad essere lì in quel gazebo, eravamo solamente io ed Oliver…

Così scoppiai semplicemente in lacrime.

Oliver mi guardò spaventato come quasi crollai nuovamente sotto la forza del mio stesso peso, ma la verità è che scivolai fino a toccare il pavimento del gazebo e finire per usare la ringhiera come schienale. Ollie si mise seduto anche lui, standomi vicino ma non sapendo che fare e credo che non sapesse nemmeno cosa dire all'inizio perché sul mio volto c'era sì tristezza, dolore, ma anche rabbia e frustrazione – dovevo dare l'idea di essere la cosa più fragile e debole sulla faccia della terra. Ma anche che da un momento all'altro potevo sempre trasformarmi, rialzarmi all'improvviso, diventare dinamo pura e incendiare il mondo. Il viso mi si riempì di lacrime e mostrava occhi rossi e inferociti, mentre il mio corpo tremava o forse fremeva, nemmeno io stesso sapevo dire quale delle due fosse giusta; ed ero silenzioso, così silenzioso che facevo paura, come una carica pronta ad esplodere da un momento all'altro.

In attimo Oliver mi fu accanto, inginocchiato vicino.

«Scusami J, i-io sono solo un idiota, sì, lascia perdere, lasciamo perdere! Cambiamo argo…» mi disse provando a farmi dimenticare tutto visto che non c’era modo di rispondergli senza che mi riducessi in uno stato tanto pietoso. Le mani infilate nei capelli, il dolore nel corpo che nella testa. Le fitte che stavano facendo appezzi il mio stesso cuore; chiusi gli occhi e d’improvviso vidi nuovamente il corpo senza vita di Grant, come fosse proprio lì, accanto a me. Fu allora che inizia a lasciare andare ad una triste e patetica serie di singhiozzi.

«Volevamo scappare» inizia a raccontargli improvvisamente con voce strozzata.

Oliver mi guardò a bocca aperta, incredulo più di me nel sentire che avessi ancora della voce per poter parlare.

«Io non ero...non ero nemmeno sicuro di riuscire a muovermi» gli rivelai, con la gola quasi bloccata e le lacrime che mi rigavano il viso, ricordando a quel patetico disastro che ero in principio, prima che incominciasse la mia trasformazione in guerriero: «Se non fosse stato per Grant non sarei nemmeno stato in grado di rimettermi in piedi» confessai quasi vergognandomi, coprendomi il viso con una mano nell'essere consapevole che senza di lui, senza mio fratello maggiore, io non sarei mai riuscito a scappare da quella dannata gabbia. Che senza sentirlo vicino, al mio fianco, non avrei neanche avuto il coraggio di iniziare e continuare questa guerra, lottando al fianco dei Rakyat per abbattere l’esercito dei pirati – che a volte mi capitava persino di udire chiaramente la sua voce come se fosse ancora qui, accanto a me; ma questo non l’avrei mai raccontato a nessuno.

Di colpo divenni di nuovo muto, lo sguardo perso ed un silenzio che metteva fin troppa paura. Per un attimo non udimmo nulla, nemmeno i grilli frinire.

«C’è l’avevamo quasi fatta…» dissi poi, con un filo sottile di voce. Interrompendomi di nuovo.

Non avevo gli occhi chiusi stavolta, ma l’avevo comunque di fronte a me, il suo cadavere steso per terra. Bianco, rigido, freddo. Immobile senza più fiato nei polmoni e sangue scorrergli fluido e accesso nelle vene. Solamente l’involucro vuoto di tutto quello su cui si era basato il mio mondo.

«Poi gli ha sparato…»

Oliver mi guardo con aria confusa, non potendo capire veramente né chi né come, ma io davanti a me ora vedevo la canna di quella maledetta pistola. Vedevo il sangue iniziare improvvisamente ad uscire dalla gola di mio fratello. Le mie mani premere sulla sua giugulare disperatamente, come se potesse davvero servire a qualcosa. Le mie mani imbrattate, rosse, completamente coperte del suo preziosissimo sangue…

Non mi ero accorto di star fissando per davvero le mie mani in quel momento, come di non essermi accorto della faccia terrorizzata del mio migliore amico, del suo insistente chiamarmi e cercare di riportarmi alla realtà. Del fatto che il sangue che mi appiccicava le dita fosse vero.

Il mio.

«C'era così tanto sangue Ollie...così tanto…» continuai però a mormorare, perso in quelle terribili allucinazioni.

«Va bene Jason, ora basta. Ti prego…» incominciò a dirmi pentito della sua richiesta, prendendomi le mani e spaventandosi nuovamente: «mio dio ma sono fredde. Sei troppo freddo!» esclamò toccandomi, confermando solo che c’era qualcosa che di nuovo non andava.

«Ci ho provato a salvarlo...giuro che ci ho provato…» continuai a piangere inconsolabile. Anche il viso di Oliver a quel punto era tra le lacrime.

La testa mi tornò a girare, così leggera, come se non l’avessi nemmeno sulle spalle.

La ferita mi si era riaperta e stavo rischiando di morire dissanguato un'altra volta; lo sapevo che era troppo presto per farsi una dannata passeggiata, ma io, testardo come al solito, avevo deciso che non fosse poi così rilevante...

.... .... .... ....

Il ragazzino biondo si sentiva così svuotato. Da giorni non mangiava, da giorni non aveva fatto altro che rinchiudersi in una stanza e farsi, uscendo solo poco fa dalla nebbia che era divenuta la propria mente e rendendosi conto solo in quel momento dello schifo che era diventato il suo appartamento. Ma non aveva voglia di pensarci. In realtà aveva perso la forza di concentrarsi su qualsiasi cosa tanto tempo fa e l’eroina lo aveva aiutato parecchio nel ridurre il proprio senso di realtà, rendendolo ormai fiacco e lento.

Uscendo fuori, nascondendosi dietro un paio di grossi occhiali da sole e dentro una costosa e grossa giacca – nella speranza di apparire meno bianco e scheletrico – si incamminò verso la solita strada, che lo avrebbe portato al solito posto, dove avrebbe potuto rifornirsi per l’ennesima volta e ripetere la settimana esattamente così come l’aveva appena passata.

Come uno zombi a cui spuntava una siringa dal braccio. Ma quel giorno, accadde qualcosa di diverso.

«Oliver?» si sentì chiamare e per un momento il ragazzino trasalì, poi si volse, ritrovandosi di fronte l’ultima persona che avrebbe mai voluto incontrare da quando il suo fisico aveva iniziato a mostrare i segni inconfondibili della tossicodipendenza – oltre che vergognandosi per le ripugnati compagnie che stava iniziando a frequentare un po’ troppo assiduamente.

Ma la persona che l’aveva fermato non era uno di loro. La persona che l’aveva chiamato era Jason – l’unico vero amico che avesse mai avuto il mondo.

«E da un paio di mesi che non ti fai più sentire» gli disse e per un attimo il biondo si sentì stringere il cuore con colpevolezza, anche se nel tono dell’altro non c’era il minimo segno di accusa. Al contrario, c’era un sorriso, come se traboccasse di gioia nell’essere riuscito a rincontrarlo dopo tanti giorni di assoluto silenzio – come se il giovane tossico avesse cercato di troncare ogni rapporto e in parte era vero. Non poteva, non riusciva ad ingannarsi che Jason, per quanto ingenuo, ad una sola occhiata non capisse quello che stava ormai facendo da settimane al proprio corpo, dello schifo e della degradazione in cui stava sprofondando senza provare il minimo senso di colpa. Però…in quei soli due mesi, aveva anche dimenticato che c’era un motivo se voleva un bene dell’anima a quel ragazzo ed ora gli si era nuovamente presentato davanti agli occhi, in tutta la sua commovente semplicità: «Senti un po’, ti va di venire con me e gli altri? Stiamo andando a mangiare e bere qualcosa alla spiaggia. Che ne dici?» aggiunse con sorriso solare e in un primo momento non seppe nemmeno che rispondergli.

Jason non lo stava solo guardando, ma andava oltre. Sapeva perfettamente per cos’era dovuta la magrezza e il pallore, ma decise volutamente di ignorarlo. Voleva a tutti costi che gli andasse dietro e in quel momento ed era abbastanza testardo da non demordere per nessun motivo al mondo. Lo conosceva bene ed ora che ricordava nuovamente il suo carattere, sapeva perfettamente che era come se il ragazzino moro si trovasse di fronte ad un naufrago in mezzo al mare e che piuttosto che lasciarlo annegare si sarebbe tuffato anche lui, rischiando di morire oppure vivere, purché valesse per entrambi.

Accettò l’invito e lo seguì.

E non fu solo perché, per nulla al mondo, l’avrebbe mai messo a contatto con quell’abisso di tenebra che era l’ambiente naturale dei tossici come lui. Ma perché più semplicemente, Jason riusciva a star lì senza vergognarsi della presenza di quell’amico che poggiava i piedi sull’orlo del baratro.

Più tardi gli sarebbe quasi venuto da piangere – non poteva credere che stava davvero per giocarsi un rapporto simile.

Forse quell’incontro fu fortuito, forse cambiò tutto, perché da lì a diversi mesi più il giovane Oliver Carswell, dopo aver toccato il fondo, trovò finalmente il coraggio di entrare in comunità e di lasciarsi aiutare da chi avrebbe potuto farlo per davvero. Jason andò sempre a trovarlo, quasi tutti i giorni, e quando l’amico poté finalmente dichiararsi “pulito”, il moro lo invitò spesso a passare intere giornate insieme, oltre che ad ospitarlo regolarmente da lui.

…e questo Oliver non lo avrebbe mai dimenticato.

1 questo avamposto in realtà non esiste nel gioco, me lo sono inventata di sana pianta.

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Capitolo 6
*** The Bogeyman Over my Bed ***


I Got You

Author - I luv Rainbow
(I_luv_Rainbow_000)
EFP | AO3

The Bogeyman Over My Bed

Jason non riusciva più a trovare Oliver. Il bambino non si sentiva ancora esattamente a proprio agio a girare in solitaria per quella grande casa labirintica, ma il coetaneo con cui ormai stava entrando in confidenza era sparito – gli era simpatico, forse un po’ esuberante e soprattutto parlava in continuazione, come se dovesse riempire il silenzio – aveva abbandonato Jason da solo in giardino, con alcuni giocattoli, dichiarando che ne avesse uno strepitoso da fargli vedere ma poi non era più tornato.

Così J era andato a cercarlo.

Non si stupì di sentire anche la signora Carswell chiamarlo a gran voce, ne sentì il bisogno di andarle incontro, decise di proseguire la ricerca per conto proprio senza incrociare quella donna tanto strana, che sorrideva sempre ma fulminava ininterrottamente con lo sguardo, facendolo sentire sotto esame, costantemente. Non era una bella sensazione. Ma forse era sempre meglio del marito, che sembrava sempre estraniato da tutto ciò che lo circondava e questo era il massimo che poteva dire su di lui, dato che l’aveva a malapena visto due volte, nonostante stare a casa loro fosse ormai divenuta un’abitudine.

Il piccolo Brody continuò a girare a vuoto finché arrivando nella grande camera dell’amico, sentì dei singhiozzi provenire da sotto il letto. Confuso allora si inginocchiò e sbirciando sotto le pieghe penzolanti delle lenzuola, finalmente lo vide; disteso a pancia in giù, le braccia chiuse sotto la testolina bionda per nascondersi il viso. In una mano stringeva ancora il giocattolo di cui gli aveva parlato.

Avrebbe tanto voluto dirgli qualcosa, chiedergli perché fosse là sotto e cosa fosse successo, ma iniziò ad udire dei passi avvicinarsi improvvisamente alla stanza e chissà perché, si fece prendere dal panico e reagì infilandosi anche lui là sotto, fino a raggiungere il coetaneo. Quando Oliver si accorse di non essere più solo alzò un viso rosso, confuso e pieno di lacrime, verso di J, tentando disperatamente di tramutarlo in un sorriso, ma non ci riuscì e per questo tornò a nasconderselo iniziando a piangere più di prima, ma silenziosamente, ora persino vergognandosi.

Jason era così dispiaciuto per lui, ma fece appena in tempo ad allungare una mano e mettergliela sulla schiena quando la persona misteriosa entrò prepotentemente nella stanza.

«Oliver!» urlò la madre adirata, ma non sentendosi rispondere in alcun modo e avendo ormai girato tutta quanta la casa, si fermò: «Ecco! Sei contento ora? Guarda che cosa hai fatto egoista bastardo!» urlò poi rivolta ad una seconda persona, che giunse dopo di lei e che il piccolo J riconobbe subito essere il signor Carswell.

Dopodiché, i due bambini passarono un bel po’ di tempo sotto quel letto; perché nessuno dei due ebbe il coraggio di annunciarsi, soprattutto per come il litigio appena incominciato peggiorò di minuto in minuto, passando atti verbali così violenti, che lo stesso J non si sarebbe più scordato, rabbrividendo nel pensare che Oliver assisteva a tutto questo quasi ogni giorno della propria vita.

«P-perché…p-perché non si lasciano e basta?» singhiozzò il bambino biondo tra le lacrime dopo che finalmente i suoi genitori si volatilizzarono, ma senza che i due trovarono ancora il coraggio di uscire da sotto il letto: «P-perché non riescono ad andare d’accordo?»

Jason non seppe che rispondere.

.... .... .... ....

Ancora seduto accanto a Jason, ma abbastanza scomposto nella sedia da lasciarsi sprofondare dentro e fissare il soffitto, Oliver rimase pensieroso. Aveva fatto un errore prima, tirando fuori un argomento che evidentemente l’amico non era ancora preparato ad affrontare e solitamente lo avrebbe accettato, non tormentandolo oltre fino a quando non fosse venuto il momento più opportuno. Ma stavolta era diverso, stavolta il ragazzo biondo aveva il pessimo presentimento che la questione “Grant” prima si affrontava e risolveva, meglio era, o le conseguenze non sarebbero piaciute a nessuno di loro.

Eppure decise che non ci avrebbe provato una seconda volta.

Rubando qualche altro tiro dallo spinello che aveva regalato a Jason, e che tornò nuovamente a giacere sul portacenere, provò allora a pensare a ciò che avrebbe potuto comunque fare. Non era facile.

«Ecco qui ragazzi! Come promesso» fece capolino nella stanza il Dr. E con in mano un vassoio; sopra trasportava tazze e teiera in porcellana, forse risalenti alla seconda guerra mondiale. Erano splendide. All’interno, delizioso thè inglese. Si sentiva già dal profumo.

«Grazie» gli sorrise il ragazzo prendendo in mano una delle tazzine, ma il dottore inglese tornò subito al piano di sotto. Dall’espressione si poteva intuire come fosse ancora perso tra gli effetti delle pillole che aveva ingerito – per un momento il giovane americano si chiese come fosse stato capace a non combinare un disastro nel mettere l’acqua a bollire; o a portargli tutto quanto fin là sopra. Ma lasciò perdere quel pensiero e si portò il bordo della propria tazzina alle labbra, stava quasi per berlo quando si ritrovò la mano di Jason ad allontanargliela con lenta fermezza, anche fin troppo gentile.

«Non farlo» gli disse debolmente. La sua mano non arrivò a toglierli la tazzina, ma si limitò soltanto a coprirla, guidando quelle di Oliver ad abbassarla e a lasciarsela accostata al grembo: «Non lo fa con cattiveria, al contrario, vuole solo farci piacere; ma ha la pessima abitudine di aggiungere della roba un po’ troppo pesante nelle sue ricette. Io ci sono già cascato…» lo avvertì Jason ed il ragazzo biondo fu subito d’accordo a non prenderne neanche un sorso. Probabilmente l’avrebbe versato ad una delle piante della stanza facendo finta di averlo bevuto, così da evitare di farci stare male il dottore.

«Pensavo stessi già dormendo» gli disse quasi distrattamente, in realtà era abbastanza preoccupato. Gli sembrava come se Jason non dormisse più ormai. Al ragazzo moro invece scappò una mezza risata. Oliver non poteva averne idea, ma il dormire decentemente era diventata un’opzione molto rare per il giovane guerriero bianco.

«Oh, è tanto divertente? Sicuro che non l’hai già bevuto un po’ di te?» gli rispose prendendolo un po’ in giro con quel suo solito sorriso.

«Non sono fatto Oliver» gli rispose sinceramente.

Né il giovane Carswell che Jason ancora sapevano come gli spinelli non avessero più il loro effetto sul guerriero bianco. Non dopo tutte quelle sostanze molto più assuefacenti e pesanti che era costretto ad assumere tra una battaglia e l’altra: «ma vorrei esserlo, cazzo» si lasciò sfuggire con disagio, stavolta, aggiungendo una mezza smorfia.

«Perché? Fa male?» gli chiese subito preoccupato Oliver.

«Sì, un po’…» gli rispose, con gli occhi chiusi ed un braccio a coprirsi il viso, come se avesse la testa tra le nuvole. Forse le canne non gli facevano più chissà quale effetto, ma la stanchezza finalmente l’aveva un poco disarmato del massiccio scudo dietro cui aveva iniziato a ripararsi sempre da quando l’aveva rivisto: «Puoi dargli un’occhiata?» gli chiese persino e l’amico annuì.

Oliver si sporse in avanti dalla sedia su cui era seduto e sollevò la maglietta blu cobalto ormai mezza imbratta di sangue. Non appena i propri occhi incrociarono la vista di quella ferita un verso istintivo di disgusto, lasciò la propria bocca.

Jason alzò un sopracciglio, guardandolo con estrema confusione e anche un pizzico di ansia.

«Scusa J» gli disse, dispiaciuto di essersi tradito a questo modo e rimettendo l’orlo della maglietta al suo posto, facendo estrema attenzione a non sfiorare neanche la ferita nascosta sotto: «Ma il Dr.E non scherzava quando diceva che è più bravo a fabbricare la droga che ricucire la gente. Non è un bello spettacolo da vedere, però sono sicuro che ti lascerà una cicatrice pazzesca. Una di quelle di cui potrai vantarti con le ragazze» sdrammatizzò in fine ed entrambi risero.

«Tu dici?» gli rispose ancora sorridente, ancora divertito.

«Perché no? Il tatuaggio sul tuo braccio fa già la sua sporca figura; non so come questi rakyat ti abbiano convinto a farlo visto che hai sempre odiato l’idea di fartene uno, ma direi che meritano stima. È davvero figo» affermò poi convinto, alzandosi dalla sedia che scostò lontano. Jason sorrideva e questo era quello che contava, anche se ora osservava con sguardo enigmatico i simboli tatuati sul suo avambraccio.

«Dove vai?» gli chiese poi l’amico moro non appena lo vide in prossimità della porta.

«A chiedere qualcosa che ti faccia passare il dolore. Per me dovresti bere quel thè e farti pure un bel viaggetto, ma se non vuoi, andrò a cercare qualcosa di più a norma di legge» gli rispose divertito, sollevando anche le spalle.

Oliver se li ricordava quando se li era fatti, “i viaggetti”. Alcuni gli erano piaciuti, altri decisamente meno. Ora toccava solo l’erba, pura, coltivata da ricchi studenti universitari come lui e persino biologica – qualunque cosa volesse dire – e qualche volta gli ricapitava di tornare sulle nuvole. Ma non aveva nulla a che fare con la robaccia che gli aveva quasi distrutto il cervello e il fisico tanto tempo prima – quando nessuno si curava di lui.

«No uscirai dalla casa, vero?» gli chiese allora J, ma sembrava più una promessa.

«Ed io ti ritroverò qui, quando risalgo?» gli rispose sagacemente Oliver - ogni tanto anche a lui gli risultava essere brillante. Ma forse era più la preoccupazione a parlare, probabilmente sarebbe stato colpito da un’angoscia senza fine se nel risalire le scale non l’avrebbe più trovato e Jason, nell’incrociare il suo sguardo, parve leggere questo sentimento negli occhi dell’altro.

«Affare fatto» Jason sorrise toccato e rincuorato.

.... .... .... ....

Ero stanco, questo non potevo più negarlo. La ferita mi faceva male ed ero quasi tentato di bere un po’ di thè per sfuggire alla realtà, peccato di come ormai fossi quasi spaventato dalle cose a dir poco assurde che riuscivo a vedere mentre ero completamente drogato. A volte erano semplicemente la palese manifestazione del dolore…la ferita sempre aperta della perdita di mio fratello, altre volte invece era l’odio verso di Vaas e l’amore quasi romantico che sentivo di provare verso questo mondo, verso questa selvaggia e spietata isola, nonostante tutto.

Ma altre volte…

Maledizione, mi sentivo un folle anche solo a pensarlo possibile per un breve momento, ma alcune volte, mi pareva quasi di riuscire a scoprire cose che nessuno sapeva o che non potevo di certo aver udito nemmeno per sbaglio. Di poter scorgere persino il futuro.

«Ma piantala…» mi sgridai fra me e me, ricordandomi che certe cose non esistevano e che piuttosto dovevo stare attento a non finire pazzo per davvero con tutte le allucinazioni che lo stress, che questa guerra mi stava provocando. Come il credere per un momento che le sostanze che i rakyat definivano “divinatorie” lo fossero per davvero, invece che semplici droghe.

Ma era tutto sotto controllo, giusto? Non stavo ancora passando fuori…

Non ancora. Era questa la parola che mi preoccupava; sarei stato capace, un giorno, di capire se ero pericolosamente vicino ad attraversare quella linea? A non distinguere più la realtà dai sogni, a non distinguerla più dagli incubi.

Il dolore mi distrasse all’improvviso ed istintivamente allontanai una delle mani con cui mi coprivo il viso per posarla sulla ferita, come se avessi la possibilità di diminuirlo.

«J, brutte notizie…» mi arrivò poi alle orecchie la voce bassa di Oliver, appena tornato dal piano inferiore: «Il Dr. E mi ha detto di averti dato una dose bella potente prima, nella grotta, quando avresti dovuto continuare a dormire. Mi ha anche avvertito che se ti dà qualcos’altro di simile ora potresti anche finire in overdose» mi informò poi dispiaciuto, appoggiandosi per un momento allo stipite della porta e guardandomi affranto.

Io sospirare. Sapevo che sarei dovuto starmene fermo in quella tenda invece che tentare di andarmene, ma io ero un idiota e questo me lo meritavo.

«Magnifico» commentai ironico ma con una punta di sofferenza.

«Ha detto che tra poco porta su del ghiaccio e qualcosa che va bene per un’anestesia locale, ma non durerà molto» aggiunse visibilmente dispiaciuto. Dopodiché, qualcosa all’improvviso cambiò.

«Hai sentito?» dissi io all’improvviso, sollevandomi di colpo, anche se di poco e giusto con la testa, ma come un gatto allarmato che muove lo sguardo in tutte le direzioni quando sa di non essere solo.

Ma la mia sensazione era diversa.

Oliver si guardò intorno anche lui ma decisamente confuso: «Io non ho sentito niente» mi rispose poi sincero e del tutto perplesso, come se avessi appena udito un fantasma. E forse era proprio così, forse l’avevo sentito solo nella mia testa.

«Ero convinto…» iniziai a dire, ma poi mi fermai.

Non ancora. Non avevo ancora passato la linea di confine tra sanità mentale e follia, vero? Forse no, ma mi ci avvicinavo ogni giorno di più.

«…no. Niente Oliver, lascia perdere» gli dissi e lui mi guardo completamente incerto.

Delle volte mi capitava di sentire delle voci che non c’erano. Le loro, quelle dei miei amici, la sua, quella di mio fratello Grant e persino quella di…

«Hai sentito stavolta?!» gli dissi tirandomi su allarmato, per quanto possibile, solo che ora non ero stato l’unico ad aver udito qualcosa. Anche il mio migliore amico aveva sentito uno strano lamento in lontananza. Proveniva da fuori, ma prima che potessi fermalo si avvicinò alla finestra.

«Oh cazzo!» lo sentii esclamare e allontanarsi di colpo, nel panico ed io non ebbi nemmeno il bisogno di chiedergli cosa avesse scorto, perché iniziai a sentire delle persone che conversavano, più che altro urlavano, in spagnolo – mentre qualcun altro invece si lamentava e piangeva.

Erano pirati e si stavano avvicinando alla casa.

«Ti hanno visto?!» fu la prima cosa che chiesi ad Oliver con serietà mortale, afferendolo per il braccio e trascinandolo verso di me, con una forza che non credevo ancora di avere viste le mie condizioni.

«N-no, io n-on credo» stava balbettando, il suo sguardo si muoveva in tutte le direzioni, ormai nel panico, iniziando a tremare mentre di colpo era divenuto un immesso crogiolo di sudore. Ed io, nonostante tutta la mia stupida esperienza, non ero messo chissà quanto meglio: «C-che facciamo?»

Lo sapevo, dannazione. Sapevo che sarebbe dovuto rimanere nella grotta!

«Usciamo! Se loro entrano, noi ce ne andiamo dalla finestra!» gli dissi con fermezza, ma anche con discrezione perché ormai erano sotto la veranda e potevamo sentirli. Fortunatamente quella maledetta casa era costantemente in ristrutturazione, c’erano delle impalcature da muratore che da quella cameretta infantile potevano farci scendere fino a terra.

Oliver annuì. Fortunatamente rimaneva il mio sangue freddo e la mia lucidità era forte. Era pronto a seguire ogni mio ordine ed io stavo per dargliene, quando all’improvviso udii l’unica voce ancora in grado di farmi sentire come un bambino solo e spaventato, che si nasconde sotto le coperte per paura dell’uomo nero…

«Tan mierda inglés, ¡cuánto tiempo necesitas para reparar este maldito imbécil!?» l’urlo infuriato di Vaas mi arrivò come un pugno improvviso in pieno stomaco, facendomi congelare il sangue nelle vene, paralizzandomi. Era al piano inferiore, proprio lui, il bastardo, circondato dai suoi tirapiedi ma inconsapevole, almeno da quel poco che mi era dato riuscire a capire, che noi eravamo ad appena due rampe di scale di distanza. Che avrebbero tranquillamente potuto correre su di sopra con i loro kalashnikov, a finirci da un momento all’altro.
(Allora merdoso inglese, quanto cazzo di tempo ti serve per ricucire questa maledetta testa di cazzo!?)

Seguì un acuto lamento di sofferenza e dolore che si udì in tutta la casa, sempre dal piano inferiore.

«¡No rompas las bolas de Felipe! La próxima vez te llenaré de agujeros, si vuelves a hacer tantas tonterías!» Seguì in risposta, sempre da lui, ormai del tutto alterato. Il suo sottoposto probabilmente piangeva ancora.
(Non rompere i coglioni Felipe! La prossima volta ti pianto personalmente una cazzo di pallottola nel cervello se fai di nuovo una stronzata del genere!)

«J-jason…j-jason che facciamo?» mi chiese insistentemente Oliver ancora nel panico, sapendo già quale fosse la mia risposta e cosa dovessimo fare, eppure comunque completamente bianco in viso e di nuovo balbettante, perché io non mi muovevo e fissavo il vuoto con occhi spalancati come lo avessi visto per davvero, quel fantasma. Il diavolo in persona che era venuto a prendermi.

Quell’esitazioni finì quasi per costarci cara.

All’improvviso udimmo dei passi, singoli, farsi strada al piano superiore. La mia mente si svuotò di colpo e come un fulmine a ciel sereno ebbi la prontezza di buttarmi a terra e ficcarmi sotto il letto, trascinando un povero e inebetito Oliver, senza poter riservagli alcuna gentilezza. Ma facemmo giusto in tempo, Dio, pochi secondi ancora e saremmo stati beccati come due mocciosi che giocano a nascondino. Ed invece ci rintanammo in un attimo là sotto, con il respiro bloccato in gola a vedere quei stivali neri avanzare nella stanza, più che altro ad entrarci di prepotenza e con la voglia di distruggere tutto. Sorte che toccò alla sedia dove poco prima sedeva il mio migliore amico. Come quel maledetto squilibrato entrò nella stanza, tirò un calcio talmente forte a quella povera sedia da farla schiantare contro il muro, rompendola, mentre lanciava una marea di insulti senza fine nella sua lingua madre. Era spaventoso ed io mi ritrovai fin da subito a tappare la bocca ad Ollie, perché non si lasciasse scappare nient’altro che i primi sussulti – fortunatamente coperti dallo stesso frastuono provocato da quel mostro mascherato da uomo.

Dopodiché tutto divenne calmo.

Io e Oliver eravamo congelati al nostro posto, il figlio di puttana borbottò qualche altra parolaccia in spagnolo che riconobbi solamente perché i suoi uomini ne urlavano in continuazione, prima di sedersi e poi sdraiarsi tranquillamente sull’unico letto della stanza, facendoci quasi sussultare come il materasso si deformò sotto il suo peso.

Era assurdo ed a stento riuscivo a credere che fosse vero. Ma l’uomo che più odiavo a questo mondo era sdraiato ad appena una decina di centimetri dalla mia testa ed era completamente ignaro della mia presenza. Non solo, dai rumori che percepivo pareva ora disteso a fumare, forse nel tentativo di rilassarsi. Ma altri lamenti giunsero dal piano inferiore ed il pirata tornò in un attimo su tutte le furie.

«Porca puttana…FELIPE!» Batte all’improvviso con furia un pugno su parete, prima di iniziare ad urlare a squarciagola: «CHIUDI QUELLA CAZZO DI BOCCA!»

Sotto il letto sussultammo un’altra volta, ma per fortuna non se ne accorse. Accanto a me sentivo Oliver tremare, nella mia testa invece sentivo solo una violenza cieca rinascere; con un braccio continuavo a stringere il mio migliore amico per aiutarlo a stare fermo e ben nascosto, nell’altro, il cacciavite arrugginito era serrato nella mia mano e pronto a colpire.

Nota Finale: ok, ok, ormai non è più una novità l’uscita di Farcry5, ma vogliamo parlare di quanto siano fighi fhather Joseph Seed & brothers? No, vogliamo parlarne? Lo so, non centra niente la nota con questo capitolo.

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Capitolo 7
*** Hello Darkness, My Old Friend ***


I Got You

Author - I luv Rainbow
(I_luv_Rainbow_000)
EFP | AO3

Ancora una volta mi scuso per l'uso di Google Traduttore per i dialoghi in spagnolo. Se conoscete una traduzione migliore non temete di correggermi.

Hello Darkness, My Old Friend1

Era quasi come se l’americano fosse finito dritto in una delle sue trappole.

Vaas aveva già previsto che prima o poi Bianca Neve avrebbe assaltato la baia pirata2, più che altro, era una questione di tempo. Non sapeva come, non sapeva quando, ma ci avrebbe scomesso i testicoli che presto o tardi sarebbe accaduto; avvisando persino i suoi uomini per tempo. Anche se come al solito, alcuni di loro si erano dimostrate solo delle deludenti teste di cazzo, nel lasciarsi comunque sorprendere e uccidere, mentre altri, avevano fatto un buon lavoro nel catturarlo vivo e vegeto.

Ed ora il pirata folle sorrideva, perso tra i fumi dell’erba e i fiumi dell’acol, aspettava sognate il tanto attesto incontro con l’uomo che gli aveva tanto crudelmente rubato il cuore, solo per farlo impazzire; prima scappando via e poi negandosi di continuo a lui, facendo finta di odiarlo.

Oh, quant’era crudele e spiestato il suo adorato Jason.

Far soffrire così tanto l’amore della propria vita solamente per gioco.

Non era facile sopportarlo. Delle volte avrebbe tanto voluto incontrarlo solo per baciarlo e perdonarlo di tutto se fosse stato disposto ad abbandonare questo stupido giochetto infantile, del gatto e del topo – anche se doveva ammetterlo, metteva un bel po’ di pepe alla loro relazione. Il suo Jason dopotutto era fantasioso nello stuzzicare volutamente il proprio uomo. Oh sì, sì – ma altre volte…

Voleva solo spaccargli quella cazzo di testa o stringere le mani al suo collo e premere, premere, premere, fino a quando i suoi occhi terrorizzati e pieni di lacrime non gli sarebbero schizzati fuori dalle orbite; gustandosi quei dolci rantoli soffocati, che gli sarebbero scappati dalla bocca, mentre moriva stretto tra le proprie dita mortali.

Odiava avere questi continui pensieri verso di lui ma era solo colpa di Jason se ne aveva. Sua soltanto.

Quanto lo metteva alla prova. Quanto metteva alla prova il loro amore.

Ma andava bene così, tutto ok. Avevano giocato per un po’ alla preda e al cacciatore ed ora che la partita era finalmente finita, sarebbe tornato di nuovo tra le sue braccia e anche se avrebbe fatto finta di non volerlo, Vaas lo avrebbe amato profondamente, consumando il loro primo vero rapporto. Uno che finalmente non si sarebbe confuso con i sogni e le allucinazioni.

«Jefe. Te traje el prisionero» disse uno dei suoi uomini entrando nella stanza.
(Boss. Ti ho portato il prigioniero)

Vaas giaceva seduto al centro del divano, la testa completamente reclinata all’indietro a fissare con occhi annebbiatti il soffitto, le braccia completamente stese lungo i lati del poggia testa, le gambe sollevate e i piedi incrociati mentre poggiavano sopra di un tavolino pieno di armi, soldi e droga. Tra le dita stringeva mollamente un mozzicone d’erba.

Sul viso del pirata folle apparve un sorriso talmente largo che il sottoposto non poté intuire se fosse nato per la buona notizia o perché quelle sostanze psicadeliche stessero facendo il loro lavoro.

Il pirata, che tanto faceva tremare i suoi nemici quanto i propri uomini, si sollevvò dallo schienale del divano per guardare l’altro negli occhi, prima di indicargli di avvicinarsi e fargli lasciare il corpo inconscio del prigioniero ai propri piedi. E così, con un semplice muovimento, Jason gli cadde come tra le braccia e Vaas lasciò che l’americano pallido scivolasse tra le sue gambe, appoggiandosi con la schiena contro la parte bassa del divano mentre la testa gli ricadeva all’indietro, per giacere contro l’inguine del pirata.

«vete» gli ordinò e finalmente lui e la propria ossessione rimasero completamente soli.
(Vai)

Vaas non aspettava altro. Si curvò sopra il ragazzo, infilando le dita tra i suoi capelli, accarezzandogli prima la fronte, poi il viso; avvicinando così tanto al suo volto con il proprio da poter praticamente respirare sopra la sua pelle, prima di catturarlo in un lungo e profondo bacio.

Quanto gli era mancato.

Il sapore e la dolcezza della sue labbra era inebriante. Il pirata non poté fare a meno di sorridere contro le sue, nel sentirlo sussultare e quasi soffocare direttamente nella sua bocca. D’altronde Bianca Neve era ancora nel mondo dei sogni e ogni suo respiro era regolato per funzionare normalmente. Non poteva sapere che qualcosa, o qualcuno, glielo ostruisse volutamente a piacere.

«Jason, Jason, Jason…» lasciò che quel nome gli scivolasse ripetutamente dalle labbra.

Non vedeva l’ora che si risvegliasse.

Lo avrebbe baciato di nuovo. Gli avrebbe parlato di come il gioco fosse stato divertente ma che era ora di finirlo e di concedersi completamente.

Di essere perdonato per tutto.

Perché lo avrebbe fatto, non era un bastardo come tutti crevedevano. Anche lui sapeva usare il cuore e glielo avrebbe dimsotrato. Avrebbe dimenticato tutti i suo sabotaggi, avrebbe dimenticato tutti i propri uomini uccisi e persino i problemi che gli aveva procurato con Hoyt.

Tutto quanto.

E non vedeva l’ora di farlo, per tutto il giorno e tutta la notte, non vedeva l’ora di amarlo.

Ovviamente preferiva tenere la parte più divertente per dopo, per quando avrebbe potuto avere quegli occhi verdi ancora una volta tutti per se, come se nient’altro esistesse più nel mondo a parte loro due e mentre le mani del pirata scivolarono sempre più in giù, passando dal collo – per poter raggiungere zone ancora più interessanti sotta la maglietta e nei pantaloni – senza farlo apposta, l’occhio gli cadde su quelle che in un primo momento, scambiò per delle semplici macchie nere sul braccio sinistro dell’americano. Ma poi le riconobbe…e di colpo si fermò, mentre il sorriso gli morì lentamente sulle labbra.

Di nuovo sentì quel sentimento violento ripresentarsi.

La voglia di afferrarlo solo per buttarlo a terra e riempirlo di pugni, di vedere il suo viso trasformarsi in carne macinata e sangue. Riempirlo di calci fino a farlo rannicchiare, prendergli le ossa per spezzarle una ad una, fino a quando non sarebbe svenuto tra le sue stesse urla.

Il tatau.

Aveva il sacro tatau sul braccio.

Vaas era il leader incontrastato dei sanguinari pirati delle Rooks Island, ma era stato anche un Rakyat, un tempo, e questo lo rendeva perfettamente consapevole di cosa volesse significare, che un uomo portasse un simile tatuaggio e se ne sentì tradito dal più profondo della propria anima.

Rimase a lungo a fissarlo nel silenzio più totale, non potendo far a meno di ricordandare cose che preferiva seppellire quotidianamente con l’alcol, le droghe, il sesso e la vioenza. Poi un sorriso gli apparve tremolante sul viso, come quello di un pazzo che aveva mischiato le medicine sbagliate. Gli occhi erano rossi e lucidi, poche volte Vaas aveva lacrimato nella propria vita e non perché fosse un oltraggio per un uomo duro e cattivo come lui, ma per il semplice fatto che le sue emozioni erano sempre del tutto violente e scordinate tra loro.

Di solito vederlo in quelle condizioni significava “stargli alla larga” se non si voleva finire male, ma per fortuna di Jason, sarebbe stato addormentato ancora lungo, riprendendo i sensi quando ormai quei sentimenti fossero scemanti completamente – anche se questo non voleva dire che non ne avrebbe pagato le conseguenze.

«Preferisci lei a me, non è così?» gli sussurrò a pochi centimetri dal viso, prendendoglielo di nuovo tra le mani.

Ovviamente, l’americano non era in grado di rispondere.

«Saresti disposto a fare di tutto per lei, a darle la tua vita…» aggiunse, come avrebbe insinuato anche più tardi, con altre parole, quando la sua mente completamente sconnessa dalla realtà avrebbe confuso continuamente – anche se a intermittenza – la povera Liza Snow con sua sorella Citra.

«Lo capisco Hermano, lo capisco davvero…» gli sussurrò ancora appoggiando il proprio viso al suo: «…allora lei ti vedrà luccicare, ti verdà risplendere» sorrise a tretadue denti contro il viso mentre lo bagnava con le proprie lacrime. «…perché ti accederò come un cazzo di fuoco d’artificio” sibilò poi, fremendo dall’impazienza, dall’ecitazione e dalla rabbia, mentre sentenziava la condanna a morte.

…Più tardi quello stesso giorno, Jason, Liza e Oliver sarebbero stati legati a delle sedie, e Vaas, avrebbe cercato di dare fuoco a due di loro…

.... .... .... ....

Ora il pirata folle fumava tranquillo e inconsapevole, sopra le teste dei due americani, visto che Felipe aveva smesso finalmente di urlare – probabilmente perché qualcun’altro gli aveva dato un destro, assecondando il desiderio di pace e tranquillità esplicitamente richiesta dal loro capo.

Appoggiando di nuovo la testa sul cuscino, osservando il fumo che danzava nell’aria, ripensò a come quel dannato idiota lo aveva quasi fatto uccidere. Con quella richiesta di soccorso per un motore difettoso; né lui ne la sua scorta si aspettava di finire in una trappola. Motivo per cui una volta uccisi tutti i Rakyat dell’assalto, Vaas scaricò un’intera carica di proiettili nella gamba del quel patetico piccolo portoricano tremante. Così, senza troppi pensieri. Staccandogliela quasi dal corpo per come gli ridusse la giuntura del ginocchio ad un osso spolpato.

Certo, l’aveva anche portato dal dottore inglese – era il più vicino in zona – ma già sapeva che l’inutile bastardo avrebbe sicuramente perso l’arto. Forse anche la vita; non che ci sarebbero state lacrime da versare. Era solo una scocciatura dover contare su un uomo in meno nel proprio esercito. Inoltre, se sarebbe sorpavvissuto, il diventare zoppo avrebbe ricordato a quell’idiota di non scherzare più con il fuoco.

Normale amministrazione nel regno selvaggio di Vaas Montenegro.

Poi la sua mente tornò finalmente rilassata, libera di vagare – la buona erba aveva sempre un’ottimo effetto su di lui – facendolo tornare invitabilmente a pensare al guerriero bianco.

Perché Vaas pensava sempre al suo Jason…

A quel figlio di puttana aveva osato tradirlo! Prima stuzzicandolo, faciendoglielo venire duro apposta in ogni occasione; con quei suoi occhi verdi e vogliosi, con quelle sue morbide labbra provocanti, con quella sua voce tentatrice – ma era solo i giochetti di una lurida cagna! Una puttana che aveva giocato con il suo sentimenti! Tutto solo per poterlo andare a roccontare a quella maledetta stronza di Citra quando si infilava nel suo letto per scopa…

«Shhhh…» si era detto con un sussurrò massaggiandosi la fronte come quei pensieri violenti tornatono a tormentarlo. Urlanogli stavolta di come Jason fosse un uomo ingrato, completamente immeritevole del proprio amore e forse avevano ragione, ma non voleva pensarci ora.

L’erba che stava fumando non era solo buona, era dannatamente ottima.

Riuscì a pacificare quelle voci violenti che si agitavano nella sua testa, a farlo sentire tranquillo come raramente gli capitava; a fargli dimenticare per un bel pezzo tutto. Il lavoro, Hoyt, l’isola. Persino di Jason, anche se fu solo per un breve tempo…

.... .... .... ....

Oliver tremava terrorizzato. La mano di Jason ancora gli tappava la bocca e non poteva che esserne grato, perché altrimenti avrebbe urlato.

Era vero tutto quello che aveva raccontato all’amico; dei trattamenti di favore, del fatto che l’avessero messo a trattare le droghe, che nessuno lo importunava o badava troppo a lui se si limitava a fare bene il suo lavoro. Ma questo putroppo non voleva dire che non fosse stato testimonie di avvenimenti del tutto spiacevoli. Alcune volte, delle persone urlavano supliccanti nel cortile e smettevano solamente quando una lunga scarica definitiva di proiettili squarciava orribilmente l’aria. Altre volte, qualcuno tentava di fare il furbo e di rubare; per questo veniva legato, picchiato e poi trascinato in lacrime verso una stanza dove non sarebbe più uscito, se non in un sacco per cadaveri. Quando la punizione doveva essere esemplare, fermavano il lavoro per mostrarlo a tutti, ma fortuna volle che Oliver, dopo essere svenuto quasi subito per l’orrore – oltre che a essere una tipologia di ostaggio molto particolare – fu completamente esonerato dal dover assistere a qualsiasi altro tipo di spettacolino decisamente troppo macabro, per un ricco e pallido ragazzo occidentale.

Ma la consapevolezza di sapere…

Ascoltare tutte quelle urla gli aveva sempre messo addosso una debolezza che gli faceva tremare le gambe e un dolore che avrebbe solamente voluto scacciare. E lui aveva le mani infilate in tutta quella droga, mentre la paura era così tanta. Anche in quel momento, sotto quel piccolo letto, si chiedeva dove avesse mai trovato la forza per riuscire a resistere.

Era stato fortunato; a parte qualche occasionale spintone, nessuno l’aveva mai picchiato o torturato e tranne che quell’unica volta, in cui aveva perso i sensi, non si erami mai trovato un testimone visivo degli orrori che potevano capitare in altri capannoni, appena accanto al suo. Ma sapeva, e nonostante Oliver non conoscesse neanche la metà delle cose orribili che quegli uomini erano in grado di fare, l’idea generale di quel poco che era riuscito ad apprendere, bastava e avanzava per far scattare in lui un sentimento di profonda ansia e paura.

Per questo gli era impossibile controllarsi o riuscire a calmarsi da solo. Eppure doveva trovare la forza per farlo. Così come aveva trovato la forza per dire di no a tutte quelle droghe…

Perché Jason non sarebbe stato lì a proteggerlo per sempre.

Così incominciò a cercare di ritronare a respirare normalmente, di placare il suo cuore che batteva frenetico nel proprio petto e di ricacciare indietro le lacrime che gli arrossavano gli occhi. Sì, poteva farcela. Per questo cercò di controllarsi quando il suo migliore amico finalmente fece scvivolare via la sua mano dalle proprie labbra. I due ragazzi rimanevano stretti assieme e Oliver continuava a fissare le assi di legno oltre il quale giaceva un mostro.

Di certo non sarebbe mai stato Rambo, di certo non sarebbe mai stato Jason, ma finalmente era in grado di controllarsi almeno un po’ e non poteva esserci un’occasione migliore, in cui quella sua nuova qualità, riuscì a risultare più che utile. Anzi, fondamentale.

C’era da ammettere che Oliver all’inizio era stato troppo spaventato per notarlo, ma non era affatto il solo a tremare sotto quel materasso. Il ragazzo biondo spostò lo sgaurdo vero l’amico che gli stava affianco, ritrovandosi inaspettatamente a impallidire e a sgranare gli occhi. Perché Jason non era affatto in se. Le sue vene gli pulsavano, rabbia cieca era quello si poteva leggere nei suoi occhi iniettati di sangue e le sue nocche erano bordò, completamente tese per come nel pugno stringevano ossessivo un vecchio e arrugginito cacciavite, pronto solo ad affondare nella carne viva di qualcuno…

«No…» gli stava quasi per scappare dalle labbra. «No, no, no!» pensò poi freneticamente nella propria testa, ritrovandosi nuovamente paralizzato dalla paura e non appena gli lesse negli occhi che stava per scattare – che jason stava veramente per saltare fuori, da quel letto, per giocarsi il tutto per tutto e provare ad ammazzare l’uomo che riposava sopra le loro teste – anche la mano di Oliver si mosse fulminea e si strinse con disperazione intorno a quel polso, che tanto rabbiosamente stringeva la letale arma.

Stroncando completamente quell’azione folle sul nascere…

In quel momento il ragazzo dai capelli biondi non poteva saperlo ma il proprio tocco, per l’altro, fu come una secchiata si acqua gelida sul suo cervello; strappandolo da qui pensieri ossessivi, di violenza e di vendetta, che si erano impadroniti di lui fin dal momento che l’uomo, chiamato Vaas, era entrato nella stanza, intrappolandolo in una spirale di follia senza via d’uscita. Costringendolo persino a dimenticarsi per un momento che ci fosse anche Oliver lì con lui e per questo, spingendolo a tentare un’azione che, anche se molto probabilmente avrebbe portato alla morte del pirata folle, si sarebbe inevitabilmente conclusa anche con la sua. Quella del guerriero bianco.

E il biondo ora poteva finalente leggere questa consapevolezza anche sul suo viso dell’amico.

Guardandosi a vicenda, vedendolo finalmente lasciarsi andare sul pavimento, poteva osservare come persino J, in quel momento, era scioccato e incredulo su quello che stava per fare. Di come avrebbe voluto chiedere scusa a Oliver, di come avrebbe voluto piangere. Di come il pensiero della morte di Grant era tornato ancora una volta a tormentarlo e di come comprendosi silenzioso il volto tremante, di dolore e rabbia, avrebbe voluto solo sprofondare nell’oblio per poterlo dimenticare.

Jason…

1Titolo tratto dalla prima strofa del famoso brano del 64' "The Sound Of Silence" di Simon & Garfunkel
2La "Baia Pirata" è una zona reale del gioco. Praticamente il pezzettino all'estremità ovest dell'isola nord, diviso dal mare e unito con il resto dell'isola da una piccola striscia di spiaggia.


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