1 The Exorcist - Risveglio

di Sarah M Gloomy
(/viewuser.php?uid=765397)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** 8 ***
Capitolo 9: *** 9 ***
Capitolo 10: *** 10 ***
Capitolo 11: *** 11 ***
Capitolo 12: *** 12 ***
Capitolo 13: *** 13 ***
Capitolo 14: *** 14 ***
Capitolo 15: *** 15 ***
Capitolo 16: *** 16 ***
Capitolo 17: *** 17 ***
Capitolo 18: *** 18 ***
Capitolo 19: *** 19 ***
Capitolo 20: *** 20 ***
Capitolo 21: *** 21 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


1
 
 
           
            Il sole spruzza qualche raggio tra le nubi. La giornata si preannuncia afosa quanto la precedente, se non per la presenza delle nuvole ad oscurare il cielo. Sembra di essere in una serra. Invece di portare aria fresca e autunnale, quello zucchero sembra comprimere di più il cielo sopra alla testa e far pesare l’aria su noi poveri sventurati.
Ho preso l’ombrello, con la speranza di non doverlo usare, e non mi pento della scelta: la giornata si preannuncia dispettosa. Nell’autobus che prendo di solito i passeggeri sono schiacciati come sardine. Altra buona azione: di norma sarei stata in loro compagnia. Le auto mi passano vicine, suonando il loro disappunto per l’ingorgo mattutino. Alzo lo sguardo per intercettare gli autisti, tutti con la stessa espressione scocciata, inviperiti con chiunque sia davanti a loro. Come se l’essere il primo della colonna facesse scattare automaticamente il verde del semaforo. O se fosse colpa dello sciagurato tutta la coda.
Abbasso gli occhi appena in tempo per evitare il bisogno di un cane, schivo per un soffio lo scontro con un ragazzo, immobile davanti a me. Senza averlo sfiorato mi ritrovo a biascicare un «Scusa» frettoloso, lasciandomi perforare dal suo sguardo. Scusa tanto! Sarà stato anche carino, ma c’è un limite all’educazione. È vero che non l’ho toccato, è vero anche che mi sono scusata per qualcosa che non dovevo, è vero anche che gli sarei andata addosso volentieri pur di non pestare gli escrementi, al diavolo se portano fortuna, ma a parte un eccesso di zelo il mio comportamento è stato del tutto opportuno.
Più alto di me, occhi di un intenso verde, accenno di barba e capelli biondi. Ha il classico aspetto del “bello e dannato” e, da brava sedicenne, ne sono attratta come ape sul miele. Da una qualche parte, però, tutte le raccomandazioni dei miei si fanno sentire. Mai dare confidenza agli sconosciuti, fai attenzione alle persone che non conosci. Quindi, grazie genitori per non farmi rimanere a guardare un bel ragazzo! Continuo la mia camminata, aumentando il passo. Poco più avanti vedo la coda ballonzolante di Mary. La chiamo con la genuinità di una che non si rende conto che correre e sbracciare verso un’amica è un buon modo di attirare l’attenzione. «Mary!»
La mia migliore amica si gira. Mi sorride, prima di togliersi gli auricolari dalle orecchie e di infilarsi l’mp3 in tasca. Con soddisfazione la raggiungo zigzagando tra le persone a piedi che percorrono il nostro stesso tratto di strada, paragonando la corsa di qualche metro alla scalata dell’Everest con solo una bottiglietta di acqua e un paio di ballerine. Sono molto ottimista alla mattina.
   «Ciao! Come mai non sei in autobus?»
Mary ha le guance purpuree per l’allegra camminata, tanto che risalta ancora di più la pelle diafana e i capelli color carbone. Ai lati delle tempie delle goccioline di sudore scendono riottose. È magra come un chiodo, e la giacca nocciola evidenza notevolmente quelle braccia a zampa di ragnetto.
   «Ho dormito da mia nonna questa notte. È più comodo venire su a piedi.»
   «Ah! Ci sono novità?»
   «No.»
Consapevole del tema toccato, Mary abbassa lo sguardo per un secondo, per poi cambiare argomento. Lo fa sempre: quando qualcosa non va, distoglie un poco lo sguardo per parlare di altro. È la mia migliore amica anche per questo. «Ti ricordi il concerto che dovevamo andare? Mamma ha fatto la vacca e mi ha detto di no. Papà dice che le parlerà, ma sai quanto è cocciuta. Mi dispiace non poter venire.»
Concerto? Con la certezza di aver saltato quattro scalini senza rendermene conto, sbarro gli occhi. Il concerto! Io, Mary e Julia volevamo andare a vedere l’esibizione di un piccolo gruppo in un locale. Era un live per pubblicizzare gli Amantine, un gruppo formato da quattro ragazzi del nostro stesso istituto. Ovviamente musica chiassosa per vedere un solo ragazzo bello da paura: Jamar. Ero stata la prima a proporre quell’uscita ed ero stata l’unica a dimenticarla! La cosa positiva è che sapevo per certo che mamma non mi avrebbe permesso di stare fuori fino alle due di notte. Neppure se qualche genitore fosse stato lì fuori dal locale ad aspettarci. Neppure se ad aspettare fuori dal locale ci fosse stata mamma con un mitra in mano. «Neppure la mia credo che mi lascerebbe andare. Non ho avuto modo di chiederglielo ma sono quasi certa della sua risposta. Anzi. Togli pure il credo.»
   «Julia ci ammazzerà.» Mary si incammina cupa, mordicchiandosi il labbro. Già. E non potevo darle torto. Di tre che dovevamo uscire, ora si ritrova da sola! Distrattamente guardo alle mie spalle, per vedere il ragazzo dietro di noi procedere, apposta o per casualità, nella nostra stessa direzione.
  «… e non glielo abbiamo detto.»
Mi accorgo di aver perso parte del discorso. «Scusa?»
   «Stavo dicendo che Julia ci ammazzerà. Le avevamo detto che volevamo andare al concerto e ora, con poco preavviso, si ritrova a doverci andare da sola. Quando è? Domani se non sbaglio. Io ho provato a insistere con i miei, ma sono stati irremovibili.» Gioca con la cinghia dello zaino, nervosamente. «Voglio dire, lei non ha tutti questi problemi con i suoi. Basta che dica che è fuori per un concerto e tutto va bene. Si incazzerà, stanne certa. A volte la invidio.»
   «Lo penso anch’io.»
Io e Julia eravamo amiche da sempre, ma il mio rapporto non era mai stato come quello con Mary. Se con Mary ero incline alla confidenza, con tutte le virgolette che una frase del genere può comportare, con Julia ero sempre stata sul chi va là. Si era tutto fermato in una più che conoscenza e non eravamo la punto da rilasciare l’una all’altra delle intimità. Una cosa, tuttavia, so più di Mary. Per quanto Julia sia piuttosto incline all’ira, so che darebbe qualsiasi cosa pur di avere genitori meno accondiscendenti. Ho sempre sospettato che il divorzio avesse in un qualche modo isolato la mia amica e che i suoi le permettessero di fare il bello e il cattivo tempo solo per non sentirsi in colpa delle poche attenzioni a lei riservate.
Mary sospira. «Va beh. Meglio che diciamo tutto a Julia oggi. Via il dente via il dolore. Non oso pensare a come ci rimarrà male. E le avevamo detto che volevamo andarci! Come minimo ci dirà che non abbiamo insistito abbastanza, che potevamo chiedere prima, … per arrivare alla fine di tutto, ovvero che potevamo inventare qualche scusa con i nostri genitori. Io non me la sentirei di mentire ai miei. Almeno non per un concerto di un gruppo neppure tanto famoso! Tu lo faresti?»
   «Mm.» Non mi espongo troppo. A dire la verità, di bugie ne racconto parecchie.
Ci fermiamo al semaforo che crea tutto quell’ingorgo. È un crocevia di quattro strade, tutte a grande affluenza, che si incrociano in quel punto. Automobilisti nervosi suonano, gente in bici si avventura in manovre a rischio di suicidio, tagliando la strada ai mezzi sempre più insofferenti.
   «Come mai stamattina non c’è Carlos?»
Mi sono appena accorta della sua assenza. Mary sorride. «Mi ha detto che è grande, che può andare a scuola da solo e i miei hanno accettato. Strano, eh? Con me sono sempre stati iperprotettivi e quando un dodicenne dice di essere grande e di poter andare a scuola da solo non fanno storie. Robe da matti. Goditi ancora Ed!»
Edward, il mio fratellino di sette anni, è un bambino dolce e coccolone. Alla mattina vuole essere svegliato con un bacio sulla guancia e vuole sempre la sua sorellona a fare colazione con lui. Forse perché mio fratello, forse perché troppo buono per essere vero, non mi pesa averlo intorno. Probabilmente una volta cresciuto sarebbe diventato come Carlos. Magari, come Mary, avrei perfino dubitato di avere parte del patrimonio genetico in comune con lui.
Siamo ferme da un po’ al semaforo. La coda non accenna a estinguersi e, ad un’occhiata veloce, mi sembra che sia pure aumentata. Una signora vicino a noi continua a sbuffare, adirata per il ritardo. Guardo distrattamente l’ora. Volto appena lo sguardo, distratta dal ragazzo vicino a me.
   «Stai bene?» Ha la voce profonda e un rossore che non ha nulla a che fare con l’imbarazzo inizia a salirmi sul viso. Quindi veramente mi sta inseguendo. Non è solo una mia impressione.
   «Bel!»
Mary mi sta chiamando dal centro del marciapiede. È scattato il verde e io sono rimasta bloccata con un perfetto sconosciuto. Accidenti. Il semaforo inizia a lampeggiare, obbligandomi a fare uno scatto ferino per arrivare nell’isola sicura dall’altra parte della strada.
   «Si può sapere cosa diavolo stavi facendo?»
Mi giro a guardare il ragazzo. Le auto scattano rabbiose, travolgendo in pieno chi mi seguiva. «No!»
L’urlo mi si blocca in gola, Mary sbarra gli occhi per vedere cosa mi ha fatto tramortire. «Cosa … cos’è successo?»
I miei occhi non si allontanano dalla strada, ma nessuno rallenta per soccorrere il ragazzo. Perché? Capisco la frenesia della mattina, l’esigenza di andare a lavoro, di fare delle commissioni, ma perché nessuno tutta quell’indifferenza? Incuranti sembravano passargli sopra, schiacciandolo ancora di più nell’asfalto. Il mio cuore pulsa forte per la paura.
   «Bel, cos’è successo?»
Mi passo una mano in fronte, sbattendo ripetutamente gli occhi. Poi qualcosa mi attrae. Dall’altra parte della strada, vicino al semaforo ancora rosso, il ragazzo mi fissa con lo stesso sguardo sorpreso che ho io.
   «Amabel, si può sapere che cosa stai guardando? Mi stai facendo cagare sotto con i tuoi tiri da pazza.»
   «Io … niente, credevo di aver visto … scusa, mi sono sbagliata.»
I miei occhi mi stavano ingannando? Però sono certa di quello che avevo visto, eppure i dati reali non coincidono. A dispetto di tutto, mi sono sbagliata. Mary mi punzecchia un fianco. «Andiamo?»
Sì … sì, andiamo. Il ragazzo continua ancora a guardarmi, ma non accenna a volermi seguire. E come potrebbe, con l’ondata di auto che ci divide? Affretto il passo dietro a Mary quando sento l’orologio del campanile scoccare pericolosamente l’ora, sapendo che il suono di inizio delle lezioni è prossimo.
Seguendo il marciapiede, ci ritroviamo proprio in bocca al nostro istituto. Un ampio cortile permette nei periodi più idonei di passare la ricreazione all’aperto, con la possibilità di svolgere le varie attività scolastiche lì. Non mi ero mai preoccupata di non aver altri interessi oltre alla scuola, rimandando ogni anno l’ardua scelta di decidere cosa farne della mia vita. Purtroppo, o per fortuna, avevo già avuto un incontro con il consulente scolastico che mi aveva consigliato di svolgere un’attività sportiva al pomeriggio, visto i risultati che avevo ottenuto nella staffetta. Mamma aveva concordato che il mio estro sportivo doveva trovare una sua valvola di sfogo. O, come aveva interpretato nonna, tutta la mia energia dovevo pur sfogarla su qualcosa: il mio lettino subiva assalti paurosi ogni notte, non appena chiudevo gli occhi e mi agitavo nei miei sogni.
Guardo distrattamente in direzione del campetto da calcio, dove un gruppo di ragazzi più grandi di noi è intento a parlare. Il ragazzo più affascinante del gruppo, e della scuola, è Chase Lopez. Si trova proprio al centro, e che ci fossero in giro ragazzi o ragazze, tutti si disponevano intorno a lui. Anche in quel momento, con la campanella ormai prossima. Emana forza e attrazione da tutti gli angoli. Perennemente circondato da persone, affascina e nello stesso tempo intimorisce. Ha i capelli biondi e gli occhi verdi sono nascosti dagli spessi occhiali da sole. È a capo del club di calcio, rappresentante di classe e contemporaneamente di istituto. È quello che nella scuola ha il punteggio più alto ai test, già iscritto per l’anno prossimo all’università e sono certa che sia perfetto anche in qualunque altra attività extrascolastica. Uno di quelli che alla mattina si alzano dal letto e col cavolo che rischiano di pestare cacche di cani.
Sento il sospiro di Mary al mio fianco: neppure noi due eravamo indifferenti alla sua presenza. La tiro per il gomito, per aumentare il passo. Se Chase entra in ritardo a scuola, con i voti che prende, non ha nessun problema ma dubito che siano così accondiscendenti con noi.
Ci dirigiamo agli armadietti, dove riponiamo i libri che non ci occorrono, sgattaiolando in classe, al primo piano. «Non mi abituo mai a vedere Chase alla mattina. Non sembra sempre più carino?»
   «Mm.» Sto ancora pensando al ragazzo e a quello che ho visto. O per meglio dire mi è sembrato di vedere. Chase, siamo sinceri, è troppo al di fuori del mio radar.
   «Mi piacerebbe vederlo giocare a calcio.»
Un momento … «Credo che si alleni domani pomeriggio.»
   «Come mai così informata? Mi nascondi qualcosa?» Ha pure il tempo di incrociare le braccia al petto con fare malizioso.
Alzo le sopracciglia alla domanda. «Il martedì mi alleno e vedo un gruppo di ragazze che circonda il campo. O il calcio è diventato tutto ad un tratto popolare o Chase gioca.»
La campanella suona appena appoggio lo zaino al banco. E anche oggi è fatta.
Mi siedo al mio posto, mentre Mary si dirige alla sua postazione dall’altra parte della classe. Guardo verso la finestra. Da lì vedo il gruppo che circonda Chase muoversi all’unisono per entrare in classe. Vedo anche lui. Non è del tutto vero, quello che ho detto a Mary. Mentre riprendevo fiato mi è capitato di imbambolarmi a fissare Chase. Sono certa che lui domani si alleni. Chase è il ragazzo irraggiungibile, la cotta di ogni liceale. Perfetto. Fuori dal mio radar o meno, lo individuo sempre nelle vicinanze. E che lui mi noti o meno, il mio cuore ha più o meno la stessa reazione di quello degli altri, quella piccola speranza che prima o poi lui si accorga che esisto.
Ritorno alla classe. Mary ha già salutato Julia e, almeno dall’espressione di quest’ultima, so che non gradisce del tutto quello che sente. Non so esattamene quando io e Julia abbiamo deciso di essere poco più che conoscenti. Abbiamo fatto l’asilo insieme, i nostri genitori si conoscono da tempo, obbligate sin dalla culla a sopportare la presenza dell’altra. Forse, messa così, sarei diventata amica anche di un babbuino. Eppure ho sempre trattato con le pinze Julia, sia per il suo carattere sia, forse, per il mio. Alta un metro e cinquanta, ha forti capelli neri dritti e occhi color carbone. Sorride molto raramente, facile all’arrabbiatura. Anche in situazioni normali, tende raramente a mostrare la parte dolce del suo carattere, tanto che io ho iniziato a supporre che non ce l’ha affatto. Forse è così per il divorzio burrascoso dei suoi. Forse è un po’ stronza di natura.
Quando Julia guarda nella mia direzione alzo una mano in cenno di saluto, cosa che lei non ricambia. Non mi sarei mossa dalla mia postazione sicura per essere attaccata da lei. Poco ma sicuro. Vigliacca, forse; stupida no di certo! Il docente entra in classe, il consueto tramestio della ripresa dei posti decreta, ufficialmente, l’inizio delle lezioni.
 
                                                             † † †
 
            È appena scoccata la fine della mattinata, e già corro verso gli armadietti per prendere i libri. Ho detto a mamma che avrei fatto per lei delle commissioni e, come ogni volta che le prometto qualcosa, il tempo scivola dalle mia dita come sabbia. Non riesco ad afferrarlo, nonostante mi impegni con tutta me stessa. Non prendo l’autobus. Di certo ci metto meno a farmela a piedi. Corro lungo il viale e qualcuno saluta. «Ciao»
Mi giro appena, scoprendo che Chase ha salutato qualcuno nella mia direzione. Rallento il passo, accorgendomi che oltre alla mia persona, nessun altro passeggia per di lì. Esitante ricambio. «Ciao.»
Si muove verso di me. Strano. Io con lui non ho mai parlato, non ho nulla in comune se non frequentare casualmente la stessa scuola. Dubito perfino che abbia guardato i risultati degli altri studenti tanto da arrivare al decimo posto e scorgere il mio nome.
   «Sei Wright, giusto?»
Conosce pure il mio cognome! L’esserino piccolo del mio orgoglio alza la testa ballonzolante e scodinzola felice. Visto da vicino è molto più alto, più affascinante e stranamente meno irraggiungibile. Mi sorride, lasciandomi basita. Ci deve essere un limite al fascino di un ragazzo e, cosa inquietante, ho una strana sensazione di déjà-vu. Sarebbe utile ricordare che razza di sogni io faccia. Come sarebbe adatto rispondere alla sua semplice domanda: insomma, è il mio cognome! «Sì.»
   «Ti vedo sempre scappare a quest’ora come se avessi visto un fantasma. Curioso.»
   «No …» Strano uso di termini. Abbozzo un sorriso, portando i capelli dietro l’orecchio. Da dove cavolo sbuca quel tic nervoso? «Devo andare a prendere mio fratello da scuola alle cinque e prima devo fare delle commissioni per … per i miei. Nessun fantasma, ma se ne vedessi uno te lo dico. Recepito l’interesse.»
Annuisce. «Sì, ne sono convinto. È stato un piacere parlare con te, Wright.»
   «Anche per me, Lopez.»
Gli sorrido incoraggiante, sentendomi stranamente osservata da lui. Mi ha fermata per salutarmi? Il ragazzo più attraente della scuola, con una filza di ragazze ai suoi piedi, mi ha fermato per parlarmi? E conosce pure il mio nome! Anche in quel momento, i suoi occhi non si allontanano dai miei. Indecisa sul suo interesse, inclino la testa in avanti e prendo coraggio nell’andarmene da lì. Fare quei passi non è mai stato così doloroso. Scivolo nuovamente lungo il selciato, convinta che nessun altro mi avrebbe fatto perdere tempo. E nessun pensiero, Chase incluso, mi avrebbe distratto. Mamma mi ha scritto di fermarmi a prendere della pasta e della verdura per la sera al supermercato e ho un bollettino da pagare in posta piegato alla meno peggio dentro lo zaino. La priorità è, appunto, quel foglietto, da recapitare al luogo prestabilito prima della chiusura degli uffici pubblici.
Saltello nervosamente allo scattare del semaforo, guardando la strada trafficata. «Dai … dai … dai.»
Appena il verde lampeggia, attraverso la strada e mi infilo in un vicolo. Di lì a poco avrei raggiunto l’ufficio postale più vicino. Aumento la velocità quando mi accorgo della prossima chiusura degli uffici pubblici. Quando mi infilo nel freddo tepore del locale, sono una macchia di sudore paonazza per la corsa. Deglutisco a forza, prendendo dallo zaino il bollettino e i soldi. Nella mia mente segno la commissione dall’elenco della giornata.
All’uscita l’aria è piacevole, la maglietta si attaccata alla schiena sudata, le goccioline mi scendono alla tempia. Okay, mi ripeto cercando di prendere fiato, devo andare a prendere pasta e verdura. Sì, posso farcela.
Metto la ricevuta del pagamento dentro lo zaino. Alzo lo sguardo. Lì vicino c’è una piccola bottega che vende alimentari. Veramente, non mi conveniva affatto andare in un grande supermercato per quelle due stupidaggini che dovevo prendere.
Vicino a un lampione della luce, un bambino guarda distrattamente la recinzione di una casa. Mi fermo. Gli occhi del piccolo sono spenti, si tormenta le mani e non mi calcola neppure. Non ha freddo, non ha caldo. Gli abiti sono sporchi, vecchi, una macchia rossastra, simile sangue, si espande a ragno sul ventre. Faccio un passo verso il bambino, dimentica di tutto. Lui scosta lo sguardo verso di me e abbozza un sorriso birichino, prima di nascondersi dietro al lampione. Mi muovo per stanarlo da quel nascondino che mi piace poco. Dietro al nascondiglio, tuttavia, non c’è nulla.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 2 ***


2
 
 
 
                         Dentro al sacchetto ho la mia amata spesa. La giornata si è rilevata molto strana. Quello strano incidente alla mattina, Chase che mi parla a scuola, l’ancora più bizzarro incontro al pomeriggio con il bambino.
Entro in casa. Come sempre, non vola una mosca. Le finestre sono ancora chiuse, una leggera penombra lascia in dubbio sull’ora della giornata. Mi sembra di sentire l’odore del take away cinese della sera prima, un misto di fritto e qualche esalazione non meglio specificata. Metto la verdura in frigo, gli altri alimenti nella dispensa. Apro le finestre per cambiare aria e accendo la televisione per non stare sola con i miei pensieri. Apro nuovamente il frigorifero al primo brontolio di stomaco, preparandomi un veloce panino e girando un po’ di canali fino a trovare un programma che può interessarmi. Puntualmente stoppo in una replica di un vecchio telefilm: storia conosciuta, niente sorprese dietro l’angolo. Potevo permettermi di perdere pure il filo del discorso, tanto la fine mi è nota. Chissà come sta il bambino. Forse è ferito, forse si è solo sporcato. Strano anche il fatto che sia letteralmente scomparso da davanti agli occhi.
Mi do un buffetto in testa. Stupida, mi dico, il bambino sarà solo entrato in casa. Di certo, però, non posso negare che la giornata sia stata strana. Anche il solo fatto che Chase mi abbia parlato.
“Sei Wright, giusto?”. Non aveva il tono di una domanda, tanto più di una conferma. «Ah! Chase mi ha visto correre e basta. Forse ha anche sparato il mio nome. E se anche non lo avesse fatto, è stato solo gentile. Non può voler parlare con me!»
Alla televisione, l’uomo del telefilm chiede “Ne sei sicura?”. Di bene in meglio! Butto via la carta in cui avevo avvolto in pane e pulisco il tavolo. Il bello di quando sono da sola è che tovaglia, posate e piatti sono oggetti in eccesso. Vado in camera dei miei e faccio il letto, con il sottofondo della televisione in salotto.
Ragazzo, Chase, bambino. Sembra un mantra che continuo a ripetere, per non dimenticare. Cosa c’è che mi dà fastidio della situazione? Nella mia mente ho già fatto il collegamento che a livello conscio non riesco a fare. Il ragazzo? Non è successo niente con lui, solo un errore dei miei sensi. Ho visto semplicemente qualcosa che non è successo. Con Chase? Anche lì non è successo nulla. Mi ha parlato. Punto. Ora che ci penso, come lo vedo io durante gli allenamenti lui può aver fatto lo stesso. Sì. Più ci penso, più quella è la risposta migliore. Sì, mi ha visto agli allenamenti e posso anche immaginare quale sia stata la sua domanda: «Chi è la ragazza che sta correndo?»
   «È la Wright.»
Certo, sarebbe da scoprire chi diavolo mi conosce, ma se non sbaglio Alex è nella squadra di calcio con Chase. Sì. È strano che mi abbia chiamato Wright quando in classe si riferisce a me con epiteti meno confortanti, ma dire “è la senza-tette” a Chase potrebbe averlo intimorito. Anche Alex ha un suo lato emotivo, sotto sotto.
Il fatto che si sia ricordato il mio nome, dopo quella conversazione, è il vero mistero. Io e Chase non abbiamo avuto nulla in comune fino a quel momento. Diciamocelo chiaramente: uno di diciotto, diciannove anni di certo non si mette a guardare una ragazzina di sedici, per di più piatta come una tavola da surf. Non ne vado molto fiera, ma Alex ha le sue buone ragioni per enfatizzare sulla mia piattezza.
E il bambino? Beh … quante volte Ed è tornato a casa da scuola sporco? Addirittura, una volta, mamma lo ha preso per la maglietta e portato in bagno perché aveva sozzura di dubbia natura. A dire la verità, la mia opera di convincimento fa lacune in parecchi punti.
Prendo un libro dallo zaino, convincendomi che la possibile interrogazione dell’indomani ha una priorità su qualunque siano in miei dubbi. La cellula di biologia non mi ha mai attirato così poco. È più interessante quella mosca che, dispettosa, nonostante abbia il controllo di tutto l’appartamento continua a sbattere tra i miei capelli. Da qualche parte, dentro lo zaino, inizio a sentire il ronzare del cellulare. Mi sbraccio per prenderlo, rispondendo appena in tempo.
   «Pronto?»
   «Mary mi ha detto che non vieni anche tu al concerto.»
Oh, porcamerda. «Julia … sì, ecco …»
   «Oggi sei scappata apposta per non dirmelo?»
Okay, stamattina l’ho evitata volutamente, ma da qui a dire che me la sono battuta anche al pomeriggio la strada è lunga. «No, non sono scappata. Avevo delle commissioni da fare.»
   «Perché non vieni? Sei stata tu a dire che volevi vederli. Se fossi anche una che ascolta la musica degli Amantine lo capirei!»
   «Mi sono …» Dire a Julia che non avevo chiesto a mamma di andarci era come buttarsi da un aereo senza paracadute. E poi se gli Amantine le facevano così schifo, perché aveva acconsentito ad andare a sentirli? «I miei non mi lasciano venire.»
Non posso essere certa che Julia mi abbia mandato a fanculo, ma ho un ottanta percento delle probabilità che la parola che ho sentito solo l’iniziale non fosse un saluto amichevole. Butto il cellulare sul cuscino, cui segue un soffice tonfo. Forse la mia amicizia con Julia non si è mai evoluta non per il suo carattere. Forse è solo il mio, quello che è difficile. Da piccole mi sembrava che fossimo un pochino più amiche. O che comunque le nostre conversazioni non fossero tre battute da film e un invito poco lusinghiero come saluto. Appoggio il braccio sugli occhi, parlando al nulla. «Sei una bugiarda, Amabel. Come puoi pretendere che gli altri siano sinceri con te quando tu, per prima, non lo sei?»
Mi aspetto la risposta. Davvero, una parte della mia mente è in attesa. Ed è quando mi rendo conto che nessuno mi risponderà, in quel preciso momento qualcuno si schiarisce la voce.
Il cuore mi batte mentre mi alzo dal divano. La voce dei vicini si sente così bene? No, sembra venire … ma non può essere. Agguanto il libro di biologia, un tomo di quattrocento pagine che ha lo stesso effetto di una mazza da baseball. Facendo il meno rumore possibile allungo la testa verso la cucina. Via libera.
Abbasso il libro, il cuore che martella e una serie di titoli promettenti per i giornali di domani, tutti che parlano di una ragazza morta reggendo biologia. Una piccola parte della mia mente, quella meno saggia, si chiede quali saranno i commenti online per un articolo del genere.
Mi guardo attorno, prendendo coraggio e abbandonando la sicurezza del salotto. Basta allungare la mano e il telefono è proprio lì. Posso usarlo, ma non mi sembra che ci sia nulla di strano. Nulla è fuori posto, la finestra in cucina è chiusa. Tranne il mio respiro pesante e la mia alleata mosca che sbatte contro il lampadario, non sento altri rumori.
   «Quindi mi senti.»
Dalla paura il libro mi scivola, io sbatto la testa contro la parete nell’impeto di girarmi e mi ritrovo una scarica di adrenalina in corpo che neppure una bella corsa mi offre.
Il ragazzo della mattina mi sorride, portandosi la mano alla bocca. «E mi vedi.»
Che diavolo stai facendo? Il mio corpo è paralizzato, la mente vuota con sciami di nulla che si propagano lungo il corpo. L’adrenalina ha cancellato ogni mia reazione, ogni liquido che ho in corpo si è prima congelato e ora essiccato. Bel, che diavolo! Allunga la mano e chiama la polizia! Una parte della mia mente si attiva. Una piccola luce prende il controllo di quel nero e obbliga la mia mano a prendere quel fottuto telefono e fare quel numero che mamma e papà ti insegnano fin da piccoli.
   «Io non lo chiamerei.»
Oh, certo! E io pure ti ascolto! Il ragazzo mi si avvicina e, finalmente, prendo un coltello e glielo punto addosso. Lui fissa prima me, poi l’arma come se entrambi non gli interessassimo. Il suo sguardo sembra prato verde: nessuna espressione, nessuna emozione. «Stai chiamando la polizia, giusto? È inutile che lo fai.»
Dall’altra parte una voce di donna mi avvisa che la mia chiamata è stata deviata. Cosa?! No! Il ragazzo allunga la mano verso il coltello, istintivamente io lo ritiro verso di me. Uno mi minaccia e io che faccio? Lo proteggo dal farsi del male. Mi sembra un ragionamento che fila alla perfezione.
   «Non ti voglio far del male.»
Dai, passatemi un operatore! Mi va bene anche il netturbino! Il ragazzo allunga la mano verso il tavolo. «Vedi? Non ti posso far del male.»
La mano del ragazzo attraversa il tavolo come fosse aria. Si avvicina a me e, ancora sorpresa, non riesco a impedire che la sua mano passi attraverso il mio polso. Niente. Non ho sentito nulla. Mi guardo basita il polso, poi il ragazzo che sembra del tutto corporeo davanti a me. Una serie di esclamazioni e l’impossibilità di quello che ho visto mi si rovesciano addosso, lasciandomi inerme.
Sento una voce d’uomo, calda e profonda. Lentamente metto giù il ricevitore, guardando il ragazzo davanti a me. Non so cosa sia, né che illusione ha creato per farmi credere di non aver consistenza corporea. Però una cosa la so: non può farmi del male. E sono ancora indecisa se essere pazza o sollevata.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 3 ***


3
 
 
 
                        Sono seduta sul divano, con un bicchiere di the freddo tra le mani. Mi muovo nervosamente. Prima mi siedo composta, poi mi alzo e faccio qualche passo, di nuovo sprofondo e mi faccio piccola.
Il ragazzo è davanti a me. Indubbiamente non mi può far del male. Certo, ho visto abbastanza film horror da sapere che questa affermazione è del tutto relativa, ma fino a quando lui rimane lontano da me e dai miei cari ed evita la possessione … possiamo convivere. Appoggio il bicchiere sul tavolino davanti al divano. Il cubetto di ghiaccio si dilunga in una piccola capriola di ringraziamento. 
   «Okay …» Cambio nuovamente posizione, infilando le gambe sotto il sedere. «Tu … tu …. Ecco, non ho ancora capito cosa sei.»
Sorride. «Non è chiaro? Sono un fantasma.»
   «Un fantasma.» Ripetere l’affermazione non la rende più vera. Nervosamente mi scosto i capelli, portandoli dietro le orecchie. «Ecco … non sembri essere proprio un … insomma. Non ti vedo attraverso, non hai abiti di un’altra epoca e, diciamocelo, sei pure carino. Non sembri … ecco, hai poco … non hai il lenzuolo.»
   «Non ho un lenzuolo. Beh, è difficile, visto che non riesco a toccare nulla.»
   «E … possiedi … ecco, a me viene in mente la possessione dell’Esorcista.» E, per quanto mamma mi avesse vietato di vederlo, non mi ha fatto una buona impressione, quel film. Neanche un po’. Appena quello si avvicina alle scale, che lo voglia o meno, io me la squaglio.
Fa un’espressione contrariata. «Diciamo che faccio prima a dirti quello che so. Io mi chiamo Ridley e non ricordo altro. Mi sono risvegliato a Maiden Street circa un mese fa e da allora non so altro. Fino a oggi, tu sei stata la prima a vedermi e a parlarmi. Nessun altro sembra percepire la mia presenza. Non riesco a toccare oggetti, non ho bisogno di porte e anche impegnandomi non riesco a entrare in contatto con altri. Neppure con i sensitivi. Non so, o forse al momento non riesco, entrare nel corpo di altri e usarli come intermediari. E non so quanti come me ci siano in giro. Ho cercato di farmi vedere poco.»
Un fantasma che cerca di farsi vedere poco. Sto pensando a un Harry Potter che non cerca di fare magie e la mia mente non mi sta di certo aiutando. Mi porto la mano alla fronte, massaggiandola. «Oddio … già la mia vita è poco incasinata, ora riesco a vedere i fantasmi. Lo so, sto avendo un’allucinazione.»
   «Sono reale.»
   «Scusami tanto, ma finché non riesci a prendere una mela dubito che ti si possa definire reale.» Replico con stizza.
La razionalità è andata a fottersi da quanto ho interrotto la chiamata con la polizia. Beh, in effetti non avrei potuto dire nulla a riguardo che non coinvolgesse me e un istituto di Cura Mentale. Sospiro. «Dimmi che non è una Candid Camera: sarebbe veramente di pessimo gusto.»
Ridley corruccia la fronte. «Ti ho detto che sono reale. Sono venuto qui perché tu mi aiuti.»
   «Aiutarti? A fare cosa? Se sei un fantasma sei morto!»
   «Non è carino da dire.»
Scusa, allora. Ho anche a che fare con un fantasma permaloso. Esasperata scuoto la testa. «Ammesso, e non concesso, che io possa aiutarti: cosa dovrei fare?»
   «Vorrei che mi portassi dove mi sono svegliato.»
   «A Maiden Street?»
   «Sì.»
Cerco di dare un tono ironicamente pensoso. «Non so … Maiden Street è all’incirca dieci isolati da qui e, magari ti sfugge un piccolo particolare, ma è una zona poco raccomandata. Tra prostituzione e droga io non ci metto piede. Mi dispiace. Se sei un fantasma in crisi da astinenza dovrai trovare qualcun altro che ti aiuta.»
   «Non sono un drogato.»
   «E io sono una sedicenne. Non ci metto piedi in ogni caso in quella strada, qualunque sia il motivo.»
   «Non correresti rischi.»
Sbuffo. «Questa frase, detta da un fantasma, è tutto un dire. Non è che sei la prova lampante della sicurezza di quella strada.»
   «Senti, ragazza, è da un mese che vagabondo e non c’è stata una sola persona in tutto questo tempo che mi abbia visto. Nessuno, da sensitivi, preti, santoni. Sei l’unica. Non ti fidare di me, ma ho bisogno del tuo aiuto. Se tu mi vedi c’è un motivo.»
   «Mi chiamo Amabel, non ragazza. E non so come aiutarti! Sei il primo fantasma che vedo all’infuori dei film. A parte dirti che se vedi un lungo tunnel prendilo e se vedi una porta di aprirla, non ti so dire altro. Io non sono una sensitiva, una becchina o chi altro credi che io sia. Ho sedici anni, faccio il liceo e ho i soliti problemi di un adolescente medio.»
Ridley distoglie lo sguardo. Percepisco tutto il tradimento di quel gesto. Certo, se sono l’unica a vederlo e l’unica che può interagire con lui, il dirgli di no senza pensarci equivale a distruggergli la sua vita ultraterrena. Dall’altra parte, se lui è frutto della mia mente e io sono diventata all’improvviso una schizofrenica convinta di vedere i fantasmi, la cosa non cambia poi di molto. Mi passo la lingua tra le labbra. «Non andrò a Maiden Street, su questo punto sono irremovibile. O per lo meno non da sola e con la sola tua presenza. Se vuoi possiamo ripercorrere gli ultimi tuoi spostamenti, ma niente di più. Non farò una Messa Nera, Rito Satanico o niente che coinvolga me, sangue e qualcosa altro che può essere associato a me … e al sangue.»
   «Bene. In vita so di certo che non ero un satanista, quindi mi stanno bene le clausole.»
Già mi pento di tutto. Mentire anche in quel punto non mi sarebbe costato nulla. Se Mary mi avesse chiesto, l’indomani, cosa ho fatto il pomeriggio avevo già la risposta pronta: biologia. Neppure avevo aperto quel dannato libro! “Niente, ho aiutato un fantasma” era decisamente da evitare.
Trattengo il fiato e una piccola imprecazione mi serpeggia in mente. Mi avvicino al telefono e compongo il numero di nonna. «Se stai chiamando la polizia ti ho detto che è inutile.»
Gli lancio uno sguardo carico di odio, aspettando. Sono anche una di quelle persone a cui piace tanto la vita normale! «Pronto.»
   «Ciao nonna, sono Amabel.» Beh … tenendo conto che ha solo due persone che la chiamano nonna, una delle quali è un maschio di sette anni che in quel momento è a scuola, la specificazione su chi fossi mi appare subito ridicola. «Sì … okay, senti devo vedermi con delle amiche per …» Di nuovo il libro di biologia saetta nel mio cervello. «… studiare. Potresti andare a prendere tu Ed? E magari avvisare mamma? Adesso è al lavoro e non riesco a prendere la linea.»
   «In effetti sei piuttosto brava a mentire.»
Alzo delicatamente il dito medio, mentre nonna acconsente. «Grazie. Ciao ciao.»
Attacco il ricevitore. Un problema alla volta. Se lui è un fantasma, e al momento non avevo alcun modo per confermarlo o smentire, il comunicare con lui per strada era un problema. Prendo gli auricolari dallo zaino e li attacco al telefonino. Bene. Sarebbe stato giustificato il mio parlare da sola. E se quello fosse stato tutto frutto della mia immaginazione, io e il mio psichiatra avremmo avuto molto di cui chiacchierare.
   «Ragazza, sei pronta?»
Sbotto. «Mi chiamo A-M-A-B-E-L.»
Ridley è già fuori dalla porta. Agguanto lo zaino di scuola, tanto per confermare la storia dello studio con i compagni di classe. Mi infilo gli auricolari alle orecchie, chiudo la porta di casa alle spalle, infilandomi le chiave in tasca. «Okay, facciamo il percorso a ritroso. Oggi dove sei andato?»
   «Oggi ho seguito te.»
Il mio personale fantasma stalker inizia appunto a ripercorrere la strada a ritroso. Come potevo aiutarlo? A parte trovare conferma in quello che aveva detto, non sapevo altro. In effetti lui cammina, sembra essere solido, ma ogni volta che qualcuno lo sfiora o lui si distrae, ecco che la fragilità della sua essenza svaniva. Gli altri, persone o oggetti, lo attraversano. Non ha consistenza e io non posso aiutarlo. La tesi della mia pazzia si fa sempre più certa, dannazione.
   «Perché credi che io possa aiutarti?»
   «Sei diversa.» Mi guarda con la coda dell’occhio mentre mi parla, attraversando il lampione come niente. «Non solo perché mi hai visto stamattina e ora mi parli. Sei diversa. Le tue mani sembrano fatte di luce.»
Mi guardo le mani, dubbiosa. «Luccicano? Tipo lampada a neon?»
Non ha apprezzato la battuta. «No. È una luce più cupa. Fa paura e allo stesso tempo rassicura.»
Io non vedo nessuna luce. Le mie mani sono quelle di sempre: piccole, con le unghie mangiucchiate e le vene tipo montagnole sul dorso. Nessuna luce. Anzi, penso che sia il momento giusto per smettere di tormentarmi le unghie e di avere un aspetto un po’ più femminile. Giusto, e magari fare qualcosa per le visioni, solo per mettere i puntini sulle “i”.
Mi fermo, guardando Ridley immobile davanti a me. Mi volta le spalle, quindi il suo volto mi è imperscrutabile. E qualunque cosa ci sia davanti a lui è oscurata dalla sua massa. Lo raggiungo. «Che c’è?»
   «Il bambino mi vede.»
Siamo vicini al supermercato dove ho fatto la spesa. Come nel primo pomeriggio, anche allora il bambino con gli abiti sporchi sembra aspettarmi. Solo che è cambiato. C’è un qualcosa di diverso, anche se in questo momento non so dargli un nome. Il suo aspetto, i suoi indumenti, anche il suo sguardo che chiede aiuto è solo una conferma. In un certo senso, il bambino sembra diverso.
Due signore ci passano vicine, parlando del più e del meno. Monotone, senza nulla da fare, guardano distrattamente me e non calcolano né Ridley né il bambino. Amabel, pensa: cosa c’è che non va? Non sono solo gli abiti o quella macchia di sporco. Cosa c’è che non ti convince? Piano, appena percepibile, sento un sibilo. No, forse è un tintinnare. Non so, è un rumore tipo indumenti che sfregolano tra di loro, cui è stato applicato un campanello. Ora lo senti, ora no. Solo se mi concentro lo percepisco da Ridley e, in quel momento, anche dal bambino.
E nel momento in cui comprendo che la natura del bambino è simile a quella di Ridley, il piccolo bisbiglia. «Aiutami.»

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 4 ***


4
 
 
 
                   Mi inginocchio per terra, sul marciapiede. Sembro una piccola montagnola di indumenti che cerca di nascondersi. Però fuggire non era mai stato il mio forte e i pensieri iniziano a farsi strada. Io vedo i fantasmi. Detta tra me, l’affermazione è meno strana di quello che sembra. «Vedo i fantasmi.» A voce alta, ammetto che quella parte è deficitaria.
Sospiro. «Ridley, forse non mi stai mentendo.»
   «Avevi ancora dei dubbi?»
Se è per quello, li ho ancora adesso. Alzo lo sguardo dalle punta spigolosa delle mie ginocchia. Ridley torreggia davanti a me, tipo scudo umano. Inclino la testa, vedendo il bambino che si tortura nervosamente le mani. Il suo sguardo è sospettoso, come se tutto dipendesse da me. Mi friziono la testa. «Porcamerda
Ridley apre la bocca per rispondere, ricevendo una mia fredda ammonizione. «Non dirmi niente. Lasciami sfogare. E ti assicuro che è sempre troppo poco come modo per liberarmi. Addirittura ora non devo aiutare solo te, ma ho anche un bambino. Sinceramente non so cosa vi aspettate da me. Chiedete aiuto e avete tutta l’intenzione di pretenderlo. Queste mani, le mie, sono solo mani!»
La porta del market tintinna, una mamma con figli a seguito esce. La bambina più piccola fa i capricci. Vuole andare al parco, ma non ha ancora finito i compiti di scuola. Li osservo. Io non posso aiutarli. Non so cosa fare ed è vero che sono i primi fantasmi con cui entro in contatto. Però loro sono stati umani, hanno avuto una famiglia e qualcuno che si preoccupava per loro. Anche in quel momento, probabilmente, qualcuno stava piangendo la loro perdita. Io non potevo aiutarli, ma ero anche l’unica che doveva farlo.
Se sono pazza, quello che stavo per fare era solo una conferma di uno stato allucinatorio molto forte. Ma se c’era una possibilità, una seppur minima probabilità che quel ragazzo e che quel bambino fossero realmente dei fantasmi, io sono l’unica che può aiutarli. Da qualunque punto lo veda, ero immersa in una strada la cui scelta da fare era, tutto sommato, facile.
Mi alzo, scuotendo dai pantaloni lo sporco del marciapiede. Parte del mio carattere, positivo o negativo che sia, è che una volta presa una decisione mi adopero per portarla a termine. Sospiro per prendere forza, avvicinandomi al bambino. Ha gli occhi azzurri grigio, lo sguardo leggermente corrucciato e un broncio da spezzare il cuore. I capelli nocciola sono spettinati e, quando mi avvicino, lui non si ritira. «Va bene. Ti aiuto. Cosa devo fare?»
Le pupille danzano tra gli occhi. Non ottengo risposta. Ridley si avvicina a me. «Come ti chiami?»
Beh … in effetti avevo saltato una parte della buona conversazione. Tuttavia, non risponde lo stesso. Allunga la mano per prendere la mia, poi ci pensa e la lascia cadere senza forza al suo esile fianco. «Puoi venire a casa con me?»
   «A casa?»
Annuisce. «Sì, a casa mia così mi aiuti.»
Mi volta le spalle e si incammina, sicuro che lo segua. Ridley esprime a voce quello che io sto già pensando. «Qualcosa non va. Perché vuole che andiamo a casa sua? E perché ha quella ferita?»
   «Forse … forse si è fatto male e …»
   «Come hai detto a me, lui è un fantasma ed è morto. Può essere morto a casa, ma perché farti tornare lì? Come puoi aiutarlo?»
Rimanere fermi non avrebbe risolto i nostri dubbi. Infilo le mani in tasca, sentendo le cuffie spente comprimere con la cavità auricolare. Ritorno a pensare alla giornata, e la chiacchierata con Chase mi sembra solo un piccolo espediente del Divino per chiedermi scusa della giornata di merda. Si è proprio impegnato!
Camminiamo per circa dieci minuti, finché non arriviamo a un quartiere popolare. Ai lati della strada ci sono edifici fatiscenti da far invidia a Maiden Street. Alcuni bambini corrono per la strada, buttando per terra i bidoni della spazzatura. Sento il lezzo degli alimenti in putrefazione. Bel posticino per mettere su famiglia. Di notte doveva esserci il coprifuoco in quella strada, perché già di giorno mi ispirava poca legalità.
Il bambino sale le scale di una casa situata al primo piano, non tanto dissimile di quelle che la circondano. Gli scalini sono malmessi e sporchi. I mozziconi delle sigarette sono come un red carpet, seppure sono convinta che nessun attore si sia mai sentito meno a suo agio. Siamo costretti a percorrerli, per inoltrarci in un piccolo corridoio che fa da anticamera alla porta dell’abitazione. Visto così, la tenuta del bambino mi sembra essere ordinata e lui pulito. Guardo il rude paesaggio: le abitazioni da quella parte danno sulla strada, fatto l’angolo il paesaggio cambia, con un giardino dall’erba secca e dai giochi rotti. Un’altalena malmessa ha tutto l’aspetto di non essere stata usata nell’ultimo anno.
Il bambino si ferma davanti a una porta, portandosi il dito indice alle labbra. «Non bussare.»
E allora perché diavolo mi hai portato qui? Cerco di ritornare a una conversazione ragionevole. «Perché non devo bussare?»
   «È pericoloso.»
Nel senso che i suoi sono violenti, non vogliono visite o perché c’è qualcosa che non dovrebbe esserci, lì dentro? Le immagini di tutti i film horror visti nella mia breve vita si rincorrono nella mia testa. Ridley attraversa la porta, in perlustrazione. Ogni minuto che passa, la giornata mi sembra migliorare sempre di più. Mi guardo in giro, ma non passa nessuno. Sinceramente, ne sono quasi felice. Mi tolgo gli auricolari dalle orecchie, ripongo tutto dentro lo zaino e me lo infilo in spalla. Il telefonino preme sulla tasca dei pantaloni, invitandomi a prenderlo in mano. Ho paura. Non solo perché sono da sola in un posto cui mi sono presentata di mia volontà, ma anche perché un bambino morto mi ha detto che è pericoloso per me stare lì.
Il bambino mi guarda con occhi curiosi. Forse l’ho visto da qualche parte. Potrebbe essere anche un compagno di scuola di Ed, di qualche classe avanti a lui. Ha nove, dieci anni al massimo e ora si ritrova con niente altro che me come persona che può aiutarlo. Sei caduto molto male, piccolo. Dietro a quei piccoli occhi, però, c’è uno spirito che sembra cercare di risvegliarsi. E la mia anima reagisce, cercando di avvilupparsi alla sua. A livello del petto un qualcosa si comprime e si rilassa. Devo chiederglielo. Devo chiedere se ci siamo visti da qualche parte. Mi sembra di vitale importanza.
   «C’è un uomo seduto sul divano. Sta dormendo.»
Ridley mi riporta alla realtà. Uomo, divano, dormendo. Non sembra essere pericoloso. Sembra una scena rivista anche a casa mia. Il bambino mi incita a seguirlo. «Vieni. Lascia sempre la finestra del bagno aperta.»
   «Chi?»
   «Il compagno della mia mamma.»
È un pessimo modo di presentarsi a casa di qualcuno. Perché mi sto infilando dentro a una casa, quando tutto il mio corpo mi dice che è una grande cagata? Scosto la tenda rossiccia, ritrovandomi in un ambiente non mio. Sul lavandino ci sono due spazzolini da denti usati, dei tappeti davanti all’arredamento mi fanno ricordare casa. È simile, anche se diversa. Il piatto della doccia è giallognolo dai molteplici usi, una striscia di calcare sembra otturare il lavandino. Lascio la sicurezza del bagno, per addentrarmi. Seguo il bambino, ma questo non mi impedisce di sentire il forte odore di alcol. Ne sono impregnati anche i mobili. Fumo e alcol mi circondano. Forse l’uomo non sta dormendo … forse è tramortito e io sono qui per aiutarlo. Il bambino continua a camminare, i suoi passi sono flebili quanto i miei.
Mi porta nella sua cameretta. Ha detto che quell’uomo è il compagno di sua madre. Eppure in quella casa manca una presenza femminile. Il letto è da rifare, le lenzuola sembrano sporche, le foto sulla scrivania sono ingiallite dal tempo. Mi avvicino alla foto, per vedere la donna sorridermi. I capelli sono acconciati come dieci anni prima. Di nuovo, qualcosa non va nella casa.
Mi dice di seguirlo. Non posso fargli le domande che mi saltano alla testa: dov’è tua madre? Perché sono qui? Dall’altra stanza sento il sordo russare dell’uomo. Quella donna sorridente sembra essere amichevole.
   «Sai …» Inizia Ridley, mentre osservo che la cucina sembra un campo di battaglia di sporcizia. «… sono convinto che la madre del bambino sia morta.»
Scivolo sul pavimento vischioso, mi aggrappo alla porta per non sdrucciolare e un cigolio sospetto provocato da me mi distrugge. Non fare casino!! Non in un ambiente del genere, non quando sei entrata in casa come un ladro! L’uomo si esibisce in un sordo russare.
Prego. Una vocina non voluta nella mia testa inizia a parlare: te lo ricordi? Ricordi questa sensazione, questo formicolio alle mani? Non lo ammetterai ma ti mancava. Mi mancava. Esattamente cosa sentivo della mancanza? Del pericolo? Nell’entrare in casa di nascosta? Del desiderio di fare un qualcosa di proibito? Un po’ come da piccola nonna mi diceva di non mangiare quella fetta di torta in frigo e, attrazione fatale, un dito si infilava sempre nella crema. Sempre. Era questo che mi mancava?
Deglutisco, tirando un profondo sospiro. C’è puzza. Non sono solo i piatti sporchi, lasciati a gocciolare sul lavandino; non è solo il pavimento non pulito. O per lo meno, non solo. Per terra ci sono i segni di uno straccio passato velocemente, lo sporco recente si è mescolato con quello che c’era già. Una buccia di banana è stata dimenticata sul tavolo, due mosche stanno banchettando.
Ridley si muove silenzioso nella stanza. Osserva il cestino, da cui vedo almeno tre bottiglie di alcolici diversi, poi il lavandino. «Ragazza, vattene da qui.»
Non posso parlare per ovvi motivi, ma la mia espressione interrogativa viene percepita dal fantasma. «C’è una lettera dei Servizi Sociali, qui.» Indica un punto tra il fornello e il lavandino. «All’uomo è stato tolto l’affidamento del bambino. I Servizi Sociali suppongono che ci siano dei maltrattamenti in atto. Potrebbe essere arrabbiato. Sicuramente si è sfogato sul bambino.»
Sicuramente? Il ragazzo continua, con voce piatta. «C’è un coltello insanguinato.»
Il bambino mi si avvicina, chiedendomi aiuto con quegli occhi infinitamente traditori. «Mi avevi detto che mi avresti aiutato. Mi aiuti, vero?» Cosa potevo fare? Come potevo rispondere? La sua mano si sta allungando di nuovo verso di me, di nuovo ha un ripensamento e la lascia cadere al suo fianco. «Mi devi aiutare. Devi guardare il frigo.»
Mi muovo senza pensarci. Il frigorifero è vicino a me. Allungo la mano, lo apro. Osservo il contenuto: un limone tagliato a metà, un piatto di pasta avanzato dalla sera prima, una confezione di latte aperto, un braccio che penzola nel ripiano.
Faccio un passo indietro e un urlo strozzato di esce dalla gola.
 
                                                             † † †
 
             Dio ha un pessimo senso dell’umorismo. Mi porto la mano alla bocca, i miei occhi continuano a guardare attratti il frigo. Quel braccino insanguinato è riposto nel ripiano, in richiesta di aiuto. Il panino sta cercando una via di uscita dal mio stomaco, ricaccio in gola il gemito e tanta saliva.
   «Ragazza.» Ridley urla. «Amabel! Vattene da qui.»
I miei piedi sono inchiodati. L’uomo della casa ha ucciso il suo figlioccio. Non lo conosco, eppure mi sembra qualcosa di assurdo. Come si può uccidere un proprio simile? Mi sento una bambina. Tutte le notizie di cronaca mi sembrano solo delle storie, dei racconti da dire ai bambini prima di andare a dormire. Mi raccomando, non dare confidenza agli sconosciuti. Ed eccoci lì.
Poi connetto. Lentamente, il mio cervello inizia a lavorare e sento i suoi ingranaggi. Non è una notizia televisiva, non è mia mamma che mi raccomanda di fare attenzione, non è mia nonna che mi vieta qualcosa e io capricciosa la faccio. È la vita. Io mi trovo in casa di un assassino che non ha esitato ad uccidere un bambino che conosceva da sempre. Cosa lo blocca dal fare del male a me? E io, stupida, ho pure urlato!
   «Amabel!»
Il richiamo di Ridley mi sveglia. Istintivamente guardo il bambino, che ricambia il mio sguardo con un sorriso carico di comprensione. Il primo pensiero è che lui mi abbia voluto lì. Un sentimento che in parte mi rassicura emerge nel mio intimo, confermando il carattere di quel piccolo manipolatore. Poi rifletto e mi rendo conto che un bambino non può essere così calcolatore. Né io posso conoscere il suo carattere.
   «Si può sapere cosa stai facendo?»
Mi passo la lingua sulle labbra. Ora riconosco l’odore pungente del sangue, qualcosa nel mio petto ruggisce. Non riesco a distogliere il mio sguardo dal bambino. I suoi occhi azzurri mi ricordano un cielo senza nuvole né grattacieli, un cielo che non mi sembra di aver visto. Il rumore di un fuoco, in una notte buia, che viene circondato dallo strisciare degli animali. Il suo sorriso sardonico è familiare, come la rabbia nel mio animo. Non è tradimento. È una vecchia consapevolezza, come una persona che non può fare a meno di comportarsi in una certa maniera. Non riesci ad odiarla, eppure ti prendi tutta la libertà di disprezzarla per un poco.
Inclino la testa, mi concentro. Ho sentito un flebile rumore, dei passi. Il mio urlo ha svegliato qualcuno e io non posso più stare lì.
   «Ehi!»
Finalmente mi muovo verso Ridley. Lo seguo e lo supero. La finestra della cucina è piccola abbastanza da farmi passare. Non ho necessita di fare silenzio. I miei gesti sono nervosi e automatici. Tremo appena quando la zanzariera scatta ad indicare dove sono. Ho poco tempo per muovermi. Mi fermo ancora quando vedo che ho un salto di un piano prima di toccare il terreno. Quanto sarà? Tre metri? Sei?
La strada è sempre deserta. Ora vedo questo come un fatto negativo. Nessuno mi può aiutare.
Un movimento alle mie spalle attira l’attenzione. «Guarda guarda … una piccola ladra.»
L’uomo è massiccio, grosso, tarchiato e minaccioso. La camicia porta ancora i segni di quello che ha fatto. So cosa può fare con un’arma in mano e il coltello che regge ha tutta l’aria di essere pericoloso quanto quello lasciato sul lavandino. Stupidamente guardo il lavello. Quando lo osservo di nuovo, i suoi occhi saettano prima nella mia direzione, poi verso il frigo che è ancora aperto.
Mi sorride. «Nessuno sa che sei qui. Nessuno ti crederà, vero?»
Sa esattamente dove puntare e, dannazione, non ha bisogno di terrorizzarmi più di quanto non lo sia già!
   «Si può sapere perché non ti muovi?» Mi urla Ridley.
Guardo alle mie spalle e bisbiglio. «Sono troppo in alto. Rischio di ammazzarmi.»
   «Perché, credi che lui ti farà uscire da un’altra finestra?»
Vicino all’uomo, il bambino alza la mano sinistra nella mia direzione, le dita aperte. Sembra volermi chiamare, sembra voler attrarre la mia attenzione. Il coltello saetta dalla mano destra alla sinistra, poi di nuovo alla destra. L’uomo mi si avventa contro. Puzza di sudore, di sangue, di sporco. Il suo lezzo mi colpisce, scivolo di lato per evitare la lama, più veloce di quanto mi sarei aspettata. Ruzzolo per il pavimento, scattando in piedi alle spalle della minaccia. Avverto, più che vedere, un nuovo colpo, inginocchiandomi e spostandomi verso il lavandino. Sono veloce. E non so neppure da dove arrivano quei riflessi.
   «Bene. Ora cerca di uscire.»
Ridley è come un allenatore che dà istruzioni a una persona pigra che non ha mai fatto esercizi a dovere. Mi sono mossa istintivamente, tutto il mio corpo ha reagito a quell’attacco ma è solo quello. Non sono in grado di strutturare un piano e di uscire.
   «Alza la mano sinistra.»
Sospiro in direzione del bambino. «Alzarla non cambierà nulla. Lui mi attaccherà lo stesso.»
L’uomo mi si avventa contro e, dopo un sospiro, il mio corpo si àncora imperioso nella postazione. Piego leggermente le gambe, fisso l’uomo davanti a me. La mia mente mi incita di scappare, il mio corpo rifiuta.
Alzo la mano sinistra, sicura. Quella che sento è la mia voce. «Primo esorcismo: catene della purificazione.»
La mia mano sinistra è aperta in direzione dell’uomo e, istintivamente, la guardo. La sento calda e vedo la luce citata da Ridley. Delle catene blu partono dal polso e avvolgono il mio braccio. Trattengo l’urlo di sorpresa. Non sento male: solo caldo. Quelle prominenze escono dal mio corpo, si dirigono come serpenti verso la mia spalla sinistra, per poi scendere e ricongiungersi al polso.
Mi sembra che il tempo si sia fermato. L’uomo è davanti a me, incurante di tutto, con il coltello rivolto contro. Il suo colpo non mi arriva. A scudo, le catene si avvolgono intorno a lui, lasciandolo confuso a terra.
   «Che diavolo …»
   «Cosa sono?» Biascica Ridley preoccupato.
Sono arrabbiata. Una rabbia non mia, non controllata. È un qualcosa tenuto a freno da sempre, un qualcosa che scatta minaccioso davanti a un’ingiustizia. Mi sento troneggiare di fronte all’uomo. Le catene si avvolgono di più intorno al mio braccio e, dall’espressione dell’assassino, anche intorno al mio avversario. So che le vede, come me, perché i suoi occhi seguono il loro percorso e più si muove, più queste si agganciano alle sue mani.
Ridley mi sta lontano, osservando me e le catene. Non sono allucinazioni. Dannazione, quelle cose sono vere. Il mio avversario cerca di toglierle ma, come se avessero vita loro, si attorcigliano intorno al suo corpo, facendolo gemere. Dolore. Una catena si muove quel tanto da mostrare la pelle ustionata nel punto in cui lo ha toccato.
   «Fa male?» La mia voce suona minacciosa, dura. «Com’è stare dall’altra parte? Come vi sentite nell’essere debole? La vostra anima freme, vuole uccidermi. Non ne è pentita.»
   «Io … io sono pentito. Davvero. Scusa.»
Mente. Lo sento. Il mio spirito ne è compiaciuto, fa le fusa e attende glorioso. La mia voce si fa più metallica e tagliente. Mi è aliena. «Scusa!? Voi non siete in grado di provare rimorso. Da secoli trovate giustificazioni sempre più insulse per non accettare che siete viziosi. Avete peccato e sarete giudicato. I segni che voi portate sono il marchio della vostra depravazione.»
La mia anima insorge, imponente e minacciosa come può esserlo un giudice nella proclamazione del verdetto finale. «Non sarete giudicato da me. A tempo debito, quanto arriverà la vostra ora, vi accompagnerò oltre le porte dell’Inferno.»
   «Tu … tu chi diavolo sei?»
   «Io sono un mediatore di Dio. Io sono l’arma per il trapasso, io sono la catena della sua giustizia. Sono un’esorcista. Io sono Dalila.»

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 5 ***


5
 
 
 
              Non sono io. Quella che parla non sono io. Eppure il mio corpo è lì, la mia voce è quella che parla. Anche l’odio che sento, anche quello è mio. Deglutisco, contraendo un poco la mano sinistra. Le catene si stringono di più, lasciando dei segni violacei sull’uomo. I suoi occhi si rovesciano nel cranio, cade a terra con un tonfo.
Vattene. Mi avvicino alla finestra e non guardo l’altezza. Semplicemente mi butto e proteggo il mio corpo con il braccio sinistro. Come vecchie compagne, le catene mi avvolgono e mi proteggono. I miei piedi si flettono a contatto con la strada, le mani attutiscono leggermente la caduta. Il mio cuore batte. Sono certa di essermela cavata e non so ancora come.
La mia mano sinistra ora è normale. Cosa ho fatto? Ridley e il bambino mi hanno seguito. «Stai bene?»
Istintivamente guardo quelle figure che mi circondano. Il bambino mi aveva chiesto di aiutarlo. Inizio a correre, allungando la mano verso lo zaino per prendere degli spiccioli. Il telefonino comprime sui jeans e mi rendo conto solo in quel momento di quante volte avrei potuto usarlo. Eppure in quella casa ero presa da altro. C’erano state troppe cose da vedere, troppe scoperte fatte, non ultima quella delle catene. Come avevo fatto a crearle? E quelle frasi dette senza pensare? Mi fa male la testa.
Mi precipito dentro una cabina telefonica e compongo il numero della polizia. Non posso dire chi sono, non posso dire come lo so, non posso dire nulla se non che in una casa di quella via un uomo ha ammazzato un bambino. Né più né meno. E quando risponde la voce maschile vomito tutto velocemente, non accertandomi neppure se hanno recepito il messaggio. Attacco il ricevitore e il tintinnare delle monetine non usate mi rincuora. È un qualcosa di familiare e di normale.
Mi lascio scivolare lungo la parete. È sporca. E non mi importa nulla. La mia mano sinistra è normale. Non riesco a smettere di guardarla, sentendomi tradita e, stranamente, rassicurata.
   «Stai bene?»
   «Cosa mi avete fatto diventare?» L’urlo mi parte da dentro l’anima. Mi abbraccio le spalle per proteggermi. «Che diavolo mi avete fatto diventare?»
Vorrei ferirli, vorrei attaccarli, vorrei mandarli via. Non voglio vedere di nuovo la realtà di quello che sono diventata. Non voglio vedere i fantasmi, non voglio neppure vedere i vivi. Il ragazzo sospira piano. «Noi non abbiamo fatto nulla.»
   «Io non sono così! Io … io non sono questo … mostro.»
   «Tu lo chiami mostro, quello che hai fatto?» Ridley si inginocchia davanti a me. Parte del suo corpo è fuori dalla cabina, parte dentro. Se non fossi così sconvolta, probabilmente vedrei il lato divertente di un sedere che sconfigge le volgari pareti. «Ti sei salvata, in un modo che non ho ancora capito come, ma ti sei salvata. E hai trovato il colpevole. Il bambino, ora, può essere salvato. Non ha più nulla da fare qui. Lo hai aiutato. Anche se dicevi di non riuscirci, lo hai fatto.»
Scuoto la testa. «Non volevo aiutarlo così. Qualunque cosa io abbia fatto, non era quello che volevo fare. Non ero io.»
   «Hai detto di essere un’esorcista e di chiamarti Dalila.»
   «Non conoscono nessuna Dalila!»
Ridley annuisce. Ha un fare rassicurante. Si porta un ciuffo dietro all’orecchio come se fosse ancora vivo, come se lo avesse fatto per chissà quanto tempo. Intanto, gioca nervosamente con le dita dell’altra mano, toccando con il pollice le altre falangi. «Non sai chi è Dalila, ma è probabile che tu sia veramente un’esorcista. Vedi sia me sia il bambino. E siamo dei fantasmi. Forse veramente il tuo compito è quello di aiutarci.»
Aiuto i fantasmi? Mi passo una mano sugli occhi, accorgendomi che sto frignando. Io non piango. Mai. Mi sento indifesa e inutile. Anche la pazzia, in quel momento, mi sembra la strada più facile per spiegare un sacco di cose. Ridley cerca di toccarmi con la mano, ma mi passa attraverso. Comunque ho apprezzato il gesto. In un qualche modo mi ha confortato. Se posso fare del bene, a loro, forse non sono il mostro che credo. Di nuovo la mia mano sinistra, in quel momento, sembra solo carne. «Dite che vi posso aiutare; dici che ho aiutato il bambino. Eppure il bambino è ancora qui.»
Il bambino è inginocchiato davanti alla cabina, divertito e compiaciuto di un qualcosa. Se veramente lo avevo aiutato, lui doveva andarsene. Nei film succede sempre così. Quando lo spirito ha risolto la questione in sospeso, se ne va libero. Così non è successo. Ho la testa che mi scoppia.
   «Forse ha dell’altro da risolvere.»  
E per non averli più tra i piedi, quanti di quelle situazioni dovevo vivere? Qualcuno bussa alla cabina. Mi alzo, prendo le monetine e biascico un «Mi scusi».
La giornata è stata tremenda. Ho tutta l’intenzione di dimenticare loro, la giornata, soprattutto l’aver quasi rischiato di morire. Avevo detto che li avrei aiutati, quello è vero, ma non ho ancora capito come sono riuscita a scappare da quella situazione, non volevo rimettermene in un’altra senza avere una via di fuga.
Nel mio corpo, tuttavia, so che c’è qualcosa. Anche Dalila. Quel nome ha un significato, anche se non ho ancora capito quale.
Il mio appartamento mi aspetta rassicurante. Mi controllo velocemente per rassicurare mamma sulla giornata di studio, infilando le chiavi nella porta.
   «Ciao sorellona!»
Ed mi abbraccia ad altezza vita, infilando la sua testina bionda nel mio ventre. Gli accarezzo la chioma, accorgendomi che non voglio che cresca. Se deve vedere com’è il mondo, meglio che rimanga piccolo e che si guardi i cartoni animati. Lì, per lo meno, posso ancora proteggerlo. In una scena a mio dire troppo violenta, posso spegnere la televisione o cambiare canale.
Mi lascia, mentre chiudo la porta. La voce di mamma arriva da dietro i fornelli. «Ciao, com’è andato lo studio?»
   «Abbastanza bene. Ora devo solo dare una letta, così per ricordarmi le cose.» Fulmino mamma con un mio maxi sorriso falso. E come sempre lei se la beve. E anche stasera si fanno le ore piccole per l’interrogazione. È pretendere troppo dalla mia fortuna chiedere che il professore salti il mio cognome tra i candidati al martirio.
Sono una bugiarda. Non riesco a non pensarlo, e di cambiare proprio non se ne parla. Mi è più facile mentire. Mi viene naturale. Ora come ora, però, la parola naturale mi fa paura.
Seguo mamma. Tentar non nuoce. Sta cucinando un piatto di pasta da mangiare per cena. Vedo del tonno schiacciato in una terrina: probabilmente mangeremo pasta fredda. Mi siedo sulla sedia, mordicchiandomi le labbra. Appoggio lo zaino ai miei piedi, in modo da rassicurarmi. «Mamma, come hai scoperto che il tuo lavoro era giusto per te?»
   «Mi è sempre piaciuto stare con gli altri. Fare l’infermiera, poi, è stato solo il passo successivo.»
   «Ci sono tanti lavori in cui si hanno rapporti con gli altri. Perché infermiera e non altro?»
Sorride. «Oh, Bel, è un qualcosa che capirai quando sarai più grande. Quando farai l’orientamento e ti parleranno delle varie professioni, allora lì capirai la tua vera strada.»
   «Sì, ma tu come lo hai capito?»
Mamma alza le spalle, un ciuffo biondo le scivola sulla fronte, appiccicandosi alla pelle sudaticcia. «Bel, ogni persona lo capisce in modo diverso. Ho saputo che quella era la mia strada quando sono venuti al liceo a parlare della donazione di sangue. Sapevo che era una cosa bella da fare e, forse troppo idealista, ho pensato che fosse un buon modo per aiutare gli altri.»
   «E se non la capissi? Se mi dicessero che io sono portata per fare un qualcosa che non sento come mio?»
   «Nessuno ti obbligherà a fare qualcosa che non vuoi.»
Non ha risposto. «E se io fossi brava, veramente brava, a fare un qualcosa che però non so se mi piaccia?»
   «Tipo cosa?»
Le cose di tutti i giorni: vedere fantasmi, aiutarli, fare degli esorcismi, trovare cadaveri di bambini dentro un frigo e poi chiacchierare con la mamma, come niente fosse, davanti a del tonno …. Insomma, il solito! Prendo pure una forchettata di pesce in scatola e me la infilo in bocca. «Sono solo congetture.»
   «Ci sono persone che capiscono subito cosa è giusto fare. Ci sono altre, invece, che ci mettono più tempo. Tuo padre, per esempio, sapeva già dalle elementari che voleva fare l’ingegnere.»
Mugugno piano. «Papà è un caso eccezionale.»
Spegne il fuoco e rovescia l’acqua bollente sullo scolapasta. «Sì, tuo padre è un caso eccezionale, ma anche per lui ci sono state delle scelte da fare. Eri piccola e non lo ricordi, ma a tuo padre è stato offerto un lavoro molto remunerativo in un altro Stato. Dovevamo scegliere cosa fare e io avevo già un lavoro qui, tu avevi già i tuoi amici e si parlava che tuo padre stesse lontano da casa tutta la settimana. Poteva tornare solo il sabato e la domenica.»
   «E ha rifiutato?»
   «Ha valutato i pro e i contro della situazione. Da una parte avrebbe avuto una carica dirigenziale e una retribuzione elevata, ma dall’altra avrebbe dovuto lasciare moglie e figlia. Ne abbiamo parlato molto e alla fine tuo padre decise di rifiutare il lavoro. Vedi, Bel: il lavoro è fatto per aiutare la famiglia, ma se perdi la famiglia, a cosa ti serve un lavoro?»
Famiglia. Quindi io dovrei diventare un’esorcista per aiutare la mia famiglia? Guardo mamma che rovescia la pasta nella terrina, penso a Ed in salotto a guardare la televisione. Vicino alla tavola, fermi, si trovano Ridley e il bambino che mi osservano, seguendo la conversazione. La mia famiglia non sarà come quelle convenzionali, ma devo fare l’esorcista. Per me, per mamma, per Ed, per papà e sì, anche per quei due fantasmi che mi sono capitati tra capo e collo! Prevedo una bella chiacchierata con il pazzo che mi farà orientamento. Oh, mi divertirò tanto!

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** 6 ***


6
 
 
 
        La sveglia suona. Allungo la mano, la colpisco violentemente e attendo che il formicolio doloroso cessi di ricordarmi che, arrabbiarsi con un oggetto inanimato, va solo a mio svantaggio. Mi rannicchio in un angolo, emettendo dei piccoli gemiti contrariati. Mi devo alzare. È inevitabile.
Apro gli occhi. Un ragazzo mi sta fissando, con le braccia conserte, dall’altra parte della stanza. Faccio un urletto. «Era ora che ti svegliassi.»
Il mio cuore batte all’impazzata mentre la mente inizia a collegare tutti i fatti. Quindi non era un sogno. Tutto quello che è successo è vero. Giro lo sguardo. Il bambino sta guardando fuori dalla finestra, il naso appoggiato al vetro. Deglutisco, fissando Ridley. «Da quanto …?»
   «Mi pare più che ovvio che non posso dormire.» Ammette con un tono stizzito. Beh, è la prima volta che ho a che fare con due fantasmi, di conseguenza le mie informazioni sul loro conto sono piuttosto scadenti. Per quello che ne sapevo, potevano pure andare a dormire di notte nelle tombe e risvegliarsi tipo vampiri.
E informarmi sulle loro abitudini, tipo guardarmi un film sul paranormale, era fuori questione. La mia vita stava già diventando abbastanza paranormale senza che qualche regista la complicasse di più.
Mi alzo dal letto, vagamente consapevole che indosso un pigiama dannatamente infantile e che, per quanto Ridley possa non essere definito vivo, di certo è un ragazzo. Le uniche persone di sesso maschile che mi hanno visto appena sveglia sono papà e mio fratello. Fantasmi carini non erano ancora entrati nella top ten degli uomini che i miei avrebbero ammazzato volentieri.
Prendo i miei indumenti, biascicando qualcosa mentre vado in bagno. Mi infilo un paio di jeans e un maglioncino, allungando il collo e guardando il paesaggio dalla finestra. La giornata si preannuncia soleggiata e un pallido sole sta cercando di sgusciare allegramente dalle nuvole. Sembra tutto nella norma. Eppure, quando esco dal bagno, Ridley mi attende sul corridoio a braccia conserte. Mi dirigo in cucina, mettendo a scaldare sul fornello un pentolino di latte. Accendo la televisione, facendo distrattamente zapping. C’è un servizio, nel telegiornale mattutino, che parla dell’omicidio di un bambino. Prima di girare sui cartoni animati, fingo di non aver visto che l’inquadratura dell’abitazione è un luogo conosciuto. Porcamerda.
Mi passo una mano sui capelli ancora spettinati, nervosamente. «Credevo di avervi sognato.»
Il cuor mio lo speravo. Sarebbe stato molto più facile dimenticare il bambino e Ridley, tornare a vivere la mia incasinata vita e scordare tutto quanto. In una notte ci ero già quasi riuscita. Fisso il pentolino, in cui delle piccole bollicine emergono. Spengo il fuoco, emettendo un sospiro triste. La presenza di Ridley è opprimente. «Ti ho già detto che ti aiuto. Perché devi essere così con me?»
   «Non mi stai aiutando.»
Incrocio le braccia al petto, lanciandogli uno sguardo che voleva essere a metà tra l’arrabbiato e l’esasperazione. «Non ti sto aiutano? Forse non hai ancora capito che questo genere di situazioni, per me, è nuovo. Che dovrei fare? Andare da una sensitiva e chiedere cosa fare? Mettermi a fare un esorcismo, ben sapendo che le informazioni che ho sono dei film? Dimmi tu cosa devo fare, perché davvero io proprio non lo so.»
   «Senti, ragazza …»
   «Amabel, per Dio! Amabel! Non sono ragazza. E smettila di toccare in giro, mi fa andare in bestia!»
Ridley, infatti, tocca gli oggetti senza pensarci, lasciandomi vedere come questi gli passino tra le dita, senza consistenza. Il vederlo così, debole e indifeso tra le mie mura mi mette in agitazione. So che devo aiutarlo, sono consapevole di essere una delle poche a poterlo fare. E davvero, mi fa arrabbiare il fatto che lui dia per scontato il mio aiuto. Soprattutto per il fatto che, se il mio impegno è dato per certo, lui in compenso non si impegna neppure per quel tanto da dire il mio nome.
Ed si stropiccia gli occhi, i capelli ritti sopra la sua testa. «Sorellona, con chi stai parlando?»
Ridley fissa mio fratello, alzando le braccia in un gesto di sconforto. La rabbia ancora galleggia intorno a me, ma mio fratello è esattamente come sempre: innocente, piccolo, bisognoso di affetto. Gli accenno un sorriso, versandogli il latte nella tazza. «È la televisione.»
Ed, addormentato e fiducioso in tutto quello che gli dico, guarda la sigla del suo cartone animato mattutino, emettendo un piccolo grido di gioia. Mentre si siede, prendendo il cucchiaio e rompendo i biscotti all’interno del liquido, gli arruffo i capelli. Tuttavia, lo sguardo che lancio a Ridley è tutto, tranne che benevolo.
 
† † †
 
    «Wright, più alte le gambe. E non rallentare quando vedi il traguardo!»
Samantha Lowry, l’allenatrice di atletica, ha una voce stridula che attira le risate di tutti. Soprattutto quando dice il mio cognome, che detto da lei sembra il ringhiare di un chihuahua. Difatti, non giro neppure lo sguardo per immaginare le risate. Arrivo al traguardo, rallentando dopo averlo raggiunto. Ansimo e mi piego per riprendere fiato. Lowry mi raggiunge, parlando più a basa voce. «Veramente, Wright, sei una delle atlete più veloci, ma continui a rallentare quando vedi il traguardo. Devi raggiungere l’obiettivo, poi puoi rilassarti.»
Non è che rallento quando lo vedo. Solo che inizio a essere stanca ed è un puro caso che lo diventi in prossimità di quella dannata linea. Mi batte sulla spalla. «Bene. Dopo continuo con te. Riposati.»
Se anche non me lo avesse detto, non avrei fatto un’altra corsa. Mi avvicino alla mia borsa, sedendomi e bevendo una lunga sorsata di acqua. Dannato ottobre che non decide di dare una ventata di autunno!
Mi porto le gambe al petto, per sentire i piccoli peli che si raddrizzano. Mm. Devo depilarmi. Beh, tenendo conto che la mia intimità, con l’arrivo di due fantasmi, è a zero, quello penso sia il problema minore. Ridley e il bambino devono essere a girovagare da qualche parte. Per tutte le lezioni mattutine li avevo sentito alitarmi alle spalle come dei mastini. Di certo, a casa sarei tornata in ogni caso, quindi era improbabile una mia fuga.
   «Non so come mai ti corregge. Sei la più veloce.»
Mi giro per vedere Chase abbandonare la sicurezza del campo da calcio e venire verso di me. Le goccioline di sudore gli imperlano la fronte, una macchia si estende davanti come un pugno. Bene. Per lo meno non sono l’unica a essere in condizioni indecenti. «Lowry cerca di farci dare il massimo. Non mi lamento, se cerca di farmi migliorare.» Bisbiglio appena. «Solo che non mi piace quando mi chiama! Fa ridere tutti!»
Chase ride. «Bau bau!»
Scoppio in una risata. Guardo verso il campo da calcio, per vedere il suo fan-club lanciarmi contro ogni maleficio possibile. D’istinto, allontano il busto dalle ginocchia. Anche lui osserva alle sue spalle. «Ti fanno paura? Ne sembri intimorita.»
   «Non ho paura di loro. Dovresti averla tu: non te la faranno passare liscia.»
   «Che paura.» Chase si siede vicino a me. È bello da paura anche se sudato da far schifo. Quanto mi piace questa ambivalenza di linguaggio.
Mi mordicchio le labbra. «Avete finito presto gli allenamenti.»
   «Alex si è infortunato.» Ci pensa un attimo. «No, non il tuo compagno di classe. È un altro ragazzo che si chiama Alex. Comunque niente di grave. Ha fatto un ruzzolone sopra il pallone e forse si è preso una storta.»
   «Una caduta molto virile.»
Chase alza una spalla. «Beh, potrei aver detto una piccola bugia per rendermi più virile ai tuoi occhi.»
Cosa mi stava dicendo? I suoi occhi leggono la mia domanda, obbligandolo a continuare con un sorriso. «Sto cercando le parole giuste per chiederti se hai voglia di uscire con me.»
Scuoto la testa. «Mi stai prendendo in giro. A malapena mi conosci.»
   «Amabel Wright, sedici anni. All’ultimo test sei risultata al decimo posto dell’intera scuola. Hai due amiche di cui non ricordo il nome, piaci a parecchi ragazzi ma fino a questo momento non lo sapevi. Sei sempre di corsa, fino a quest’anno non hai partecipato a nessuna attività extrascolastica, ma ti sei sempre distinta alla Festa dello Sport.»
Abbasso gli occhi, grattandomi nervosamente il naso. «Cavolo. Allora mi conosci un po’.»
   «Mi diverto a guardarti zampettare come una disperata tutte le mattine, nel cortile. E nella pausa sei sempre a chiacchierare con quelle tue amiche. Tranne oggi. Comunque, Amabel, non ti sto chiedendo una risposta immediata. Me la darai lunedì prossimo. Così hai tutto il tempo per decidere se ne vale la pena.»
   «Allora ci penso un po’ su.» Così, per lo meno, ho la dignità di fingere di avere una vita privata. Sbracciarmi e dirgli che non ho nulla da fare e che esco con lui è un po’ troppo da disperati anche per me.
Chase mi sorride. Nei suoi occhi vedo un qualcosa di triste, come se un ricordo spiacevole gli fosse passato davanti al volto e lui, indeciso, ora non si trovasse a suo agio. «Spero che tu mi dica di sì.»
Mi lasciò così, immobile e sudata, con il fiato mozzo. E, davvero, la corsa ora non c’entra proprio nulla.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** 7 ***


7
 
 
 
       Si può scappare da un fantasma? A quanto pare, sembra proprio di sì. Ridley non è perfetto, e fargli perdere le mie tracce è stato dannatamente facile. Ho bisogno di stare un po’ da sola. Il bambino, probabilmente, è a casa. Non so. Forse i bambini fantasmi non sono interessati a risolvere i problemi della loro esistenza ultraterrena. O forse è solo Ridley a essere così tanto ossessionato dal mio aiuto. Ho il sospetto che il suo lavoro fosse stato qualcosa dove doveva inseguire qualcosa: un cacciatore, un serial killer, un poliziotto.
Mi incammino lungo il piccolo giardino di nonna. Ha la brutta abitudine di lasciare il cancello aperto e, un ladro, avrebbe avuto accesso facile. Mi ritorna in mente l’esperienza del giorno prima. Quello era stato il mio primo cadavere. Ne avevo avuto paura. Almeno un po’. Era strano anche quello. Di certo avrei dovuto fare incubi, piangere, ammettere con mamma che avevo visto qualcosa di molto brutto. Non era successo. Una parte di me è ancora sconvolta da quella mancanza di reazione. Il letto, anche se provato dai miei calci, stamattina era nelle stesse condizioni di sempre.
“Io sono Dalila.” Chissà chi era esattamente questa Dalila. L’unica informazione che ho è che, in qualche modo, era dentro il mio corpo, usava la mia bocca, aveva fatto uscire qualcosa dalle mie mani. La mia mano sinistra, ora, è normale. Nessun tipo di catena, nessuna magia strana. Solo una mano.
Apro la porta di casa, parlando al silenzio. «Nonna, sono io.»
Niente. Alla mia voce risponde un altro silenzio. Stringo le labbra nervosamente, accendendo la luce del piccolo corridoio. Sento solo il tramestio dell’aspirapolvere della donna che abita al piano superiore. Quello un po’ mi rassicura perché, anche se hanno due entrate separate, so che la signora si sarebbe preoccupata se avesse sentito dei rumori sospetti al piano inferiore. Nonna ha la caratteristica di entrare direttamente nel cuore delle persone, in un modo che mi è estraneo. Posso avere molti amici, a scuola, ma li posso contare nelle dita di una mano quelli che sanno tutto di me. Beh, fino all’arrivo dei fantasmi. Ora posso dire con certezza che nessuno mi conosce per quello che sono. O che vedo.
Controllo velocemente in giro. Nonna deve essere uscita, perché manca la sua inseparabile borsa di pelle. È così vecchia e consunta che la riconoscerei in mezzo a mille. Seguo il rumore confortante di un respiratore, aprendo la porta di una stanza da letto. Lì, immerso tra macchine che io non riesco neppure a capire, dorme il mio papà. Mi avvicino, sperando come ogni volta che sbatta gli occhi e guardi verso di me, riconoscendomi. Invece, ne rimango delusa. Il suo sguardo è concentrato verso il soffitto, in un mondo che mi è inaccessibile. Il tubo che gli esce dalla gola scandisce il suo respiro e so che, senza quello, i suoi polmoni non si espanderebbero come dovrebbero. Continuo a ripeterlo che lo hanno bucato da parte a parte in più punti per mantenerlo in vita. Prendo posto sulla poltroncina, guardando il libro appoggiato al comodino. Nonna legge un capitolo ogni sera. Mi ha spiegato che serve per fargli capire che siamo qui e lo stiamo aspettando.
Appoggio una mia mano sulla sua, fredda. Nessuna reazione. «Ciao papà. Sono Amabel. Ti vedo in forze.»
Sono brava a mentire, anche a me stessa. Gli dico ogni volta che lo vedo meglio di quella precedente, tralasciando che le sue reazioni sono sempre assenti, gli occhi rimangono fissi al soffitto e una patina secca li ha coperti, come un velo. Mi inumidisco le labbra, portandomi le mani al ventre. La nutrizione di papà, quel pastone dall’odore disgustoso, gocciola e il tubicino si collega al suo stomaco.
Due anni fa, verso Halloween, papà stava tornando a casa. Era sera e un camionista non ha rispettato un semaforo. La macchina di papà è stata trovata accartocciata sotto al camion e l’autista a un chilometro di distanza, in evidente stato confusionale. Che sia stato lo shock o l’alcol trovato in corpo non sapevo dirlo, ma non gli avevo perdonato di aver abbandonato il mio papà sotto quelle lamiere. Aveva passato un anno in ospedale, fino a quando nonna aveva strutturato la casa in modo da poterlo accudire. Mamma, nei giorni liberi, faceva assistenza. Io cercavo come potevo andarlo a trovare, e ogni volta mi sembrava che una parte del mio cuore fosse lacerata. In verità, non so quanto Ed sapesse della situazione di papà. Mamma aveva detto, almeno al principio, che papà stava lavorando a un progetto. Ancora adesso, quando si parla di papà rimaniamo sul vago. Tranne Mary e Julia, non ho parlato della mia situazione con nessuno.
Mi sistemo nella poltroncina. «Sai, devo ringraziare la mamma. Ti ricordi quando ti ho detto che voleva che facessi un’attività extrascolastica, e io le avevo detto che non avevo tempo? Beh, devo dire che aveva ragione. Mi piace correre. L’allenatrice ha accennato anche al fatto che potrei fare qualche gara, quando sarà il momento giusto.»
Deglutisco, aspettando una risposta. Papà si mordicchia un labbro fino a farsi uscire sangue. Penso sia il suo modo di dire che ha male. Mi alzo, prendo una garza inumidita con l’acqua, passandogliela sul lato inferiore del volto. Lui continua a mordersi, i suoi occhi grigi non mi fissano e io non so che cosa fare. Mi siedo, reggendo tra le mani quelle piccole gocce sanguinanti che macchiano il candore della garza. «Ho incontrato anche delle persone strane. Non ti preoccupare, sono strane ma buone.» Ripenso a Ridley: per quanto insensibile, sono certa che da vivo era uno di quei ragazzi che ti fanno vedere nei film, dolci e affettuosi. Il pensarlo vivo, però, mi riportava alla verità: lui non lo era. Come non era veramente con me papà. Potevo parlargli, gli potevo stringere la mano, ma in realtà avrebbe potuto stare lì con lui un perfetto sconosciuto e avrebbe avuto le stesse reazioni.
   «Papà, se ci sei … se ci sei fai qualcosa.»
Sento la porta di casa che si apre. Nonna, trafelata, entra nella stanza di papà, sobbalzando nel vedermi. Nonna assomiglia tanto a papà. O forse sarebbe meglio dire il contrario. Ha i suoi stessi occhi grigio azzurri, caratteristica che dicono essersi trasferita in me, per quanto non mi risulta avere la loro stessa espressività. Nonna è alta e robusta, con delle membra forti e con la capacità di occuparsi del figlio da sola. Appoggia la borsa per terra, scoccandomi uno dei suoi sguardi comprensivi. Apre le braccia, lasciando che mi ci fiondi. Rimbalzo un poco sulle sue voluminose tette. Mi accarezza la testa, senza dire nessuna parola. Sappiamo che a volte la voce maschera la verità in un modo che non possiamo controllare.
Nonna mi fa uscire dalla stanza, dopo aver controllato le condizioni di papà. Risultano stabili, ma quelle parole a me non piacciono. Stabile significa che papà è ancora disteso a letto e non si sa quando né se aprirà gli occhi. La nonna prepara il the. «Tesoro, potevi dirmi che ci venivi a trovare. Di certo sarei andata a messa più tardi.»
Istintivamente stringo le mani a pugno, pensando a quello che aveva detto Dalila: io sono un mediatore di Dio. Dio … chiesa. Nonna continua. «Carl sta bene, come hai visto. Ogni tanto sbatte gli occhi, quindi sono fiduciosa. Amabel, c’è qualcosa che ti turba?»
   «No. Mi sarebbe piaciuto vedere papà sveglio.» Alzo le spalle. «È una cosa stupida.»
   «Sperare non è mai una cosa stupida.» Mi versa in una tazza del the. Fumante, seguo la scia di vapore che si innalza. Certo, bere un the caldo con la temperatura che c’è fuori è un buon modo per procurarsi un’autocombustione. «Cosa mi dici di te?»
Sorseggio il liquido, sentendo la lingua piena di vesciche. «Io sto bene. E anche Edward. Stiamo bene entrambi. Oggi l’allenatrice mi ha detto che sta pensando a qualche gara da farmi fare.»
   «Oh, Amabel!» Nonna batte le mani, entusiasta. Una reazione che mi allarma, visto che la mia risposta all’affermazione della Lowry è stata solo un mugugno. «Sono davvero felice per te! Ho sempre saputo che sei una tipa tosta. Finalmente qualcuno che lo vede.»
Sorrido, disegnando distrattamente delle linee con il dito sul tavolo. «Nonna, avrei una domanda da farti. Ho conosciuto due persone che hanno bisogno di aiuto. A loro dire, io sono l’unica persona che può aiutarli ma … io non ne sono così tanto convinta.»
Sospettosa, nonna appoggia la tazza sul tavolo, lanciandomi una penetrante occhiata. «Non sei convinta di poterli aiutare o non sei convinta di volerli aiutare?»
Era per quello che mi trovavo bene a parlare con nonna e papà. Loro non facevano mai tante domande. Individuavano subito il problema e chiedevano. Solo quello. Mentre abbasso lo sguardo, mi accorgo che è proprio quello il fulcro del mio dubbio. Se io aiuto Ridley, dopo sarò costretta ad aiutare qualunque fantasma mi si presenti. E io voglio davvero questo? La mia vita sarà sempre costellata da battaglie per dare il giusto riposo a persone morte? Non lo so. E non sapevo neppure se effettivamente potevo aiutarli. C’era stato un momento, a casa del bambino, in cui tutto mi è sembrato normale.
   «Mamma dice che papà ha sempre saputo cosa è giusto fare.» Sorseggio il the, annuendo a me stessa. «Anch’io so cosa è giusto fare, ma non so se lo voglio fare. E se poi si aspettassero troppo da me? Se io non riuscissi a fare il meglio delle mie possibilità?»
La nonna si alza, fissando il giardino con l’erba nocciola. Il sole manda i suoi raggi tra i condomini, offrendoci il suo calore. «È strano come tu mi abbia già fatto questa domanda. Credo che tu non te lo ricorda. Eri piccola, non più di sei anni, e mi hai detto che dovevi fare qualcosa che sapevi essere giusto. E non volevi farla.»
   «E cosa ho fatto?»
Nonna mi guarda, con uno sguardo dolce. «Eri troppo piccola, quindi ti ho detto che se non volevi farla, quella era l’unica risposta. Ora sei grande, Amabel. Ora sai qual è la vera scelta.»
 
† † †
 
            Stavo camminando, pensierosa. La conversazione con nonna aveva portato i suoi frutti. Sapevo cosa fare. Ora dovevo solo metterlo in pratica. Mi fermo al semaforo, scorgendo Ridley dall’altra parte della strada. Il mio personale fantasma stalker. Mi infilo gli auricolari del cellulare sulle orecchie, sospirando. Non sono ancora pronta a mostrare al mondo intero che parlo da sola.
   «È stato divertente?» Mi dice il fantasma non appena sono a portata d’orecchie. Sembra arrabbiato per la mia piccola fuga.
   «Più che divertente direi illuminante. Ho deciso di andare a Maiden Street. Era quello che volevi, giusto?»
Ridley si ferma sorpreso, a metà di un passo. Mi stupisco nel pensare che le reazioni sono ancora del tutto umane. Mi mordicchio le labbra. Il bambino non è venuto con lui.
   «Avevi detto che non saresti mai andata a Maiden Street.» Mi fa notare, scandendo le parole.
Annuisco. «Sì, lo so. Sono ancora convinta che, per me, andare a Maiden Street sia piuttosto pericoloso. Tuttavia, non posso negare che ho qualcosa che può aiutarti. E non parlo solo del fatto che ti sento e ti vedo. Quello che ho fatto ieri, quelle catene … ecco, credo che quelle mi servono per aiutare persone come voi.»
   «Vuoi dire fantasmi.»
   «Il senso è lo stesso.» Ammetto.
Lo sento sospirare. Strano che i fantasmi respirino, anche! «Grazie … Ama.»
Sorrido, infilandomi le mani in tasca. So qual è la scelta da fare. Un po’ perché Ridley mi gironzola intorno, un po’ come avevo detto a lui. Io vedo i fantasmi, e non mi basterà una seduta dallo strizzacervelli a farmi rimangiare questa frase. Il danno minore della giornata è appunto andare in quella via … ho detto danno minore? Beh, semmai diventerò un fantasma che a sua volta vede i fantasmi.
Maiden Street è un pessimo quartiere. Un ottanta percento dei reati della città capitano proprio lì. Che sia cattiva reputazione, la vicinanza al grande fiume che rende il quartiere ingovernabile o parecchi edifici abbandonati, non ha importanza. Di notte è il centro della prostituzione e della droga. Di giorno, tuttavia, la situazione non è migliore. Mi sento una mosca bianca, con il mio bel zainetto sulle spalle. Fortunatamente è pure pieno di scritte, perché se fosse stato lindo e pulito, magari con Hello Kitty, sarebbe stato più chiaro che io lì non centravo nulla.
La giacca ha il cappuccio, quindi cerco di nascondere i miei capelli biondi e me la tiro fin sulla fronte. Mi auguro che tutto quello che sia visibile sia la bocca. Già così mi sembra che mi fissino meno. Un gruppetto di ragazzi sta giocando con un coltellino svizzero, ridacchiando. Beh, qualunque cosa io abbia fatto ieri, ti prego, se sono nella merda non esitare a venire fuori! Non mi arrabbio!
   «Ricordo di essere passato per di qui.» Mi illumina il fantasma. Di risposta, sarei tentata di girare i tacchi e andarmene a gambe levate. Con la coda dell’occhio, il ragazzo si mordicchia le labbra. «Però non so niente altro. Voglio dire … dovrei ricordare qualcosa?»
Non ne ho la più pallida idea. A naso, direi che non è detto. So gran poco di fantasmi, ma dai film, pochi, che ho visto, molti non sapevano neppure di essere morti. Certo, la mia cultura in questo argomento fa molte lacune, ma direi che potrebbe essere nella norma. Se vediamo la morte come un evento traumatico, di certo la mente di una persona lo accetta con molta difficoltà.
E se non fosse stato un evento traumatico? Boh. Troppe domande e nessuna risposta sensata da dare. Mi rannicchio dentro i miei indumenti: mi sembra proprio che tutti mi osservino, nascosta o meno. «Se hai un piano, Ridley, ti conviene dirlo subito. Vorrei evitare di diventare un fantasma, per oggi.»
Lui scuote la testa. «Ero convinto che venendo qui, con te, avrei capito quello che mi era successo. Non lo so. Non ricordo nulla. Sono passato per di qui, ne sono certo. Forse se chiedi a quei ragazzi …»
   «Da quando siamo arrivati mi stanno fissando e giocando con quel dannato coltello. Dubito profondamente che mi aiuteranno così, solo perché gliel’ho chiesto.»
   «Forse hai ragione.» Togli pure il “forse”, grazie. «Non molto lontano da qui c’è la stazione della polizia. È meglio andare là.»
Felice, faccio dietrofront. Spero che i ragazzi non mi abbiano scelta come loro prossima vittima. E poi penso che forse sono troppo malfidente. Solo perché sono in un pessimo quartiere non significa che tutti lì facciano parte di una gang. «Perché dalla polizia? Non sono morta e non sono stata aggredita.»
   «Per chiedere informazioni su di me!»
Già me lo immagino, l’emozionante conversazione tra me e le Forze dell’Ordine. “Salve … niente, volevo solo sapere se ultimamente è morto qualcuno a Maiden Street. Così, non ho nulla da fare e lo spirito di quel ragazzo mi segue perché lo aiuti. So solo che il nome è Ridley” … è stato bello conoscervi. Sentirete ancora parlare di me dal manicomio.
Ridley fa un mugugno, che mi riscuote dalla mia conversazione mentale. «Che c’è?»
   «Niente.»
   «Non è un verso da niente. Senti, ti sto aiutando! Non puoi uscirtene con un verso del genere e aspettarti che io non ti chieda il perché!»
   «I ragazzi con il coltello ti stanno inseguendo.»
Merda. «Se mi metto a correre? Mi inseguiranno?»
   «Probabile.»
Va bene. La mia mente sta facendo dei veloci calcoli che, in cuor mio, so a cosa portano. «Ridley, allontanati da me.»
   «Ne sei sicura? Ti potrei …»
   «Non mi puoi aiutare.» Lo interrompo con voce sicura. Che può fare? Mettersi a urlare per terrorizzarli quando gli altri neppure lo vedono? L’unica che può prendere più paura sono solo io. «Allontanati da me, perché userò di nuovo l’esorcismo.»
   «Sai attivarlo?»
Dalila, questo è un buon momento per fare qualunque cosa tu voglia. Davvero. Ma quando mi giro sono pienamente cosciente di quello che faccio. Posso solo sperare di ricordare i movimenti di ieri. Ho una vaga impressione che siano specifici e in grado di attivare quella tecnica con le catene. Sospiro, alzando la mano sinistra davanti a me. «Non fare la primadonna. Questo è un buon momento per intervenire.»
Niente. Mi concentro sulla mano, aprendo bene le dita. I ragazzi continuano a muoversi, ridacchiando. Solo a una decina di passi da me e le catene ancora non si vedono. Cosa manca?
“Primo esorcismo: catene della purificazione”. Sono ancora concentrata sulle mie dita, sul palmo, sul polso. Annuisco a me stessa. «Bene. Primo esorcismo: catene della purificazione.»
I ragazzi si sono fermati e, dannazione, le vedo pure io le catene! Si stanno alzando dalle mie dita, dopo aver fatto un giro intorno alla mia spalla, a formare uno scudo. Quindi sono veramente io. La mia mente vacilla un attimo, le catene si abbassano come se dipendessero dalla mia concentrazione. Va bene. Penso a loro che si alzano e si fortificano, avvicinandosi come tanti serpenti ai ragazzi. Sono un po’ felice che siano di Maiden Street, perché ho sempre la speranza che credano sia tutto frutto di droga tagliata male. Uno di loro, di certo, pensa sia un’allucinazione perché tenta di toccare una catena blu. Anche a quei passi di distanza, sento lo sfrigolare della sua pelle, notando una sorta di marchio nel punto in cui è stato toccato.
Bisbiglio. «Il marchio del peccatore.»
Il ragazzo si lamenta, i suoi compagni fissano un po’ meno me e un po’ di più quelle catene. Bene, ora posso permettermi di arretrare un pochino. All’inizio mi avventuro con un passo, poi un altro, poi mi giro e inizio a correre. So che non ho richiamato le catene, e come si fa?, per cui sbatacchiano tipo frusta sulle mie caviglie. Non mi fanno male, quindi mi auguro che quello significa solo che sono abbastanza buona e che le mie bugie non mi faranno finire all’inferno. Non ancora, per lo meno.
Mi immergo in una via più trafficata, appoggiando le mani alle ginocchia per riprendere fiato. D’istinto le catene scompaiono. Fantastico!
   «Sei stata brava.»
   «Ti avevo detto che andare a Maiden Street era una cagata, ma tu non hai voluto darmi retta! Dannazione. Dichiarati fortunato che io riesco a fare quei trucchetti con le catene.» Mi alzo, emettendo un sospirone liberatorio. «Bene. Polizia. Tanto la giornata è ancora lunga.»
Ridley mi fissa, mentre mi incammino con il fiato corto. Le gambe mi tremano e non riesco a controllarle. Me la sono cavata per un soffio, tenendo conto che non ho neppure la più pallida idea del perché riesco a usare quelle catene. Ridley emette un piccolo colpo di tosse, che non mi impietosisce. «Mi dispiace, Ama, di averti messo in pericolo.»
   «Dovresti riflettere. Posso capire che non sia una delle cose più belle della tua vita, scoprire di essere un fantasma, ma dannazione, non devi per forza coinvolgere anche me in un tuo qualche piano suicida.»
Una signora di mezza età, che passava casualmente per di lì, mi lancia una penetrante occhiata. Che c’è? Mai sentito qualcuno parlare di suicidi? Sono al telefono!
Entro alla stazione. Tenendo conto di tante cose, tra cui attentati, ripercussioni contro le Forze dell’Ordine e altro, è piuttosto facile entrarci. Un alto edificio troneggia su tutto il quartiere, con le pareti di vetro. Sono entrata attraverso una porta automatica e, mentre mi avvio verso una sorta di portineria, vedo il mio volto lampeggiare sui monitor. Mi nascondo ulteriormente dietro al cappuccio, infilando la mano sinistra in tasca. Ho un po’ paura che le catene fuoriescano così, per magia. Sono intimorita.
L’uomo, un poliziotto dalla divisa, mi sta perforando. Imito un colpo di tosse, così almeno da giustificare perché sono imbacuccata da influenza. «Salve, avrei bisogno di un informazione. Vorrei sapere ...»
Esattamente non mi è chiaro cosa voglio sapere. So di parlare con voce flebile e più lentamente di quanto avrei fatto di solito, e questo mi permette per lo meno di pensare. Alzo appena lo sguardo verso l’uomo, con un alto colpo di tosse forzato. Lui non sembra preoccupato o adirato con me. Al secondo colpo di tosse lo vedo arretrare di un passo, timoroso di un contagio. Prendo coraggio e mi appoggio con la mano destra al ripiano. «Vorrei sapere chi si occupa del caso di un certo Ridley …»
   «Ridley Scott. Mi chiamo così.»
   «Scott.» Concludo per il fantasma. «Credo di avere delle informazioni che possono essere utili alle indagini.»
L’uomo controlla nel monitor del computer. Lo sento picchiettare piano con le dita. Di risposta, tamburello con l’indice sul ripiano, prima di pensare a CSI e a come possono recuperare le mie impronte digitali. Troppo tardi per riflettere sul fatto che sono minorenne, incensurata e che davvero non ho fatto nulla, passo il palmo della mano e cancello ogni residuo di me. Devo piantarla di guardare film gialli.
   «Sì. Ecco qui: Tobia Light. Glielo chiamo.»
   «Esci.» Ridley ha attraversato il bancone, è di fianco al poliziotto, che sta componendo un numero di telefono. «Ama, devi uscire da qui.»
Guardo a intervalli regolari l’uomo e il fantasma. Mi devo essere persa qualcosa. I suoi occhi verde, torbidi, mi penetrano da parte a parte.
Il poliziotto si volta le spalle, descrivendomi velocemente all’altro al telefono, e io non me lo faccio ripetere due volte. Scatto, scivolando oltre la porta automatica e facendomi inghiottire dalla folla.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** 8 ***


 
8
 
 
 
        Sto correndo, anche se di fatto nessuno mi sta seguendo. Nei movimenti il cappuccio mi cade oltre le spalle e, con una mano, mi sciolgo i capelli. Li sento sbatacchiare lungo la schiena, intimandomi a non rallentare. Un auricolare, penzolante, sta scivolando dal mio orecchio. Mi limito a tenerlo fisso con un dito.
   «Si può sapere da cosa sto scappando? Ridley? Ridley, ci sei?»
Mi fermo, appoggiando il mio peso sulle ginocchia. Non vedo Ridley in giro. Non so dove l’ho perso e non posso tornare indietro a recuperarlo. Posso solo sperare che lui sia abbastanza grande e abbia una buona memoria per ricordare la strada di casa, perché tra i due l’unica che può mettersi nei casini in una situazione del genere sono solo io. Pure un fantasma distratto mi ritrovo!
Ho il fiato corto e un male assurdo alle gambe. Istintivamente mi fisso le mani, che rimangono solo dei pezzi di carne dove niente esce. Senza Ridley mi sento più tranquilla. Mi tolgo gli auricolari, infilandomeli in tasca. Le orecchie gioiscono al contatto con l’aria. Fisso ancora la strada, ma del fantasma non c’è traccia. E di nuovo mi disinteresso di lui. Per la giornata, credo di essermi incasinata abbastanza. Al diavolo lui e la sua ricerca. Quando una persona è morta dovrebbe andare dall’altra parte, qualunque cosa significhi la frase. Non può incasinare la vita ai vivi.
Sono tornata una ragazza di sedici anni. Se me lo continuo a ripetere, forse, anche Ridley inizierà a capirlo. Sedici anni. Non è normale andare a caccia di assassini! Non lo è per niente! Come non è normale scappare dalle Forze dell’Ordine: sono innocente, di qualsiasi cosa mi vogliano incolpare.
Urto con la spalla qualcuno, mi sento sospingere da una parte e una mano mi cinge il fianco. D’istinto alzo gli occhi e Chase mi sorride. Oh mio Dio. Sono consapevole di avere un corpo e distrattamente penso alla corsa appena fatta. Anche se sono sudata non posso dimenticarmi la mano di Chase appoggiata alla mia schiena, il suo viso così vicino al mio da riuscire a sentire il profumo del suo shampoo, il suo respiro caldo che mi solletica i capelli. Mi sorride, denti canditi e perfetti perché il solo guardare la sua bocca mi mette in subbuglio come non mai. Oh mio Dio, ho un pezzo di insalata incastrata tra i denti? Spero proprio di no.
   «Sei di fretta, come al solito.»
   «Ahn …» Ormai mi sembra che facciamo spettacolo e le persone ci scartano. Penseranno che siamo dei ragazzi precoci: io ho tutto l’aspetto di essere una sedicenne molto infantile tra le braccia di un avvenente ragazzo.
Chase mi attira a sé, in modo che il mio equilibrio non sia più così precario. Solo allora mi lascia andare. Ho i battiti a mille e, diciamocelo chiaramente, la corsa è del tutto innocente. No, la corsa un po’ è colpevole … un po’.
Chase mi osserva. Ti prego … ti prego: fai solo che le braccia non siano dritte come bacchette ai miei fianchi e che la mia bocca non sia aperta in un’espressione di incredulità. Questo sarebbe una bellissima notizia. Deglutisco e, dal fatto che ho la bocca arida, sono certa che almeno una delle mie preghiere è infranta. Sbatto gli occhi. «Scusa se … se ti sono venuta addosso.»
   «Il piacere è stato mio.»
Quel poco di viso che non sentivo ardere ora brucia. I suoi occhi verdi sono fissi su di me, divertiti dalla mia goffa conversazione. Il suo sorriso diventa più ampio e io, di risposta, abbasso gli occhi come ustionata da un sole troppo accecante. «Ti ho messo in imbarazzo? Credimi, Amabel, se l’ho fatto non era mia intenzione. Solo che sei … particolarmente bella.»
Mi sono sentita dire da mia nonna un sacco di volte che ero una ragazza carina … ma bella da una persona che non è della mia famiglia mi sembra di doverlo mettere su un altro piano. E, in quegli abiti, con quei capelli, dopo una corsa terrorizzante nei quartieri malfamati della città, mi sentivo tutto, tanto che meno graziosa.
Nervosamente mi scosto il ciuffo dalla fronte e ricambio il suo sguardo. È dannatamente sicuro e arrogante, un calcio alla mia timidezza e al fatto che, davanti a lui, mi sentissi una debole ragazzina di sedici anni in preda alle convulsioni perché il ragazzo più carino della scuola ti saluta. Sono certa che è la prima volta che mi sento pienamente donna, eppure mi sembra di aver già provato quel subbuglio. Strano miscuglio di sensazioni. «E tu sei molto arrogante.»
Mi sfiora con un dito il mento, dannatamente audace. «Arrogante. Lo reputo un complimento.»
   «Secondo il cattolicesimo, la superbia è uno dei vizi capitali.» Sì. Mostriamoci anche saccenti, tanto cosa mai potrò perdere da quella situazione che non sia la mia faccia?
Il dito di Chase preme un po’ più a fondo nell’incavo del mio collo, sfiorandomi poi con la mano i capelli. Qualunque cosa stia facendo, la fa molto bene. Lungo la schiena mi percorrono i brividi. «Sono a conoscenza degli otto vizi capitali.»
Otto? «Sono sette.»
Mi sorride di nuovo, sfiorandomi la fronte con un dito. «Giusto. I sette vizi capitali. Il tempo ticchetta, piccola Amabel. Dovrai darmi la risposta tra pochi giorni. Dovrai dirmi se ti va di uscire con me.»
Deglutisco e finalmente infila quella mano tanto intrepida nelle tasche dei jeans. «Qualcosa mi suggerisce che sei già a conoscenza della mia possibile risposta. Giusto?»
   «Chissà. Magari entrambi stiamo cercando di conoscerci meglio, senza mostrare troppo le carte in tavola. Sono sicuro che hai molto di più da mostrare, Amabel, della dolce ragazza che mi ritrovo davanti. Potrei scoprire anche il vero colore della tua anima.»
   «Va bene. Esco con te.»
Da dove mi uscisse tutta quella spavalderia non lo sapevo. Però quando Chase aveva parlato del colore delle anime qualcosa, non so esattamente dove, aveva reagito di conseguenza. Stringo le mani a pugno, perché fare uscire le catene in un momento del genere è ben al di là della capacità di sopportazione del ragazzo. E io non ho la certezza che senza la formula evocativa loro se ne stiano tranquille, ovunque esse siano.
   «Bene. Ti farò sapere a quando l’appuntamento.»
   «Non vedo l’ora.»
Mentre Chase si allontanava, mi chiedo se per caso non ci stessimo dichiarando, in un modo strano e precipitoso, guerra. Fino a poco prima flirtavamo, poi quando avevo fatto la prima mossa il ragazzo era cambiato, dimostrandosi più risoluto. Davvero, io potevo essere un tantino bugiarda, ma anche lui con la sua doppia personalità avrebbe fatto impazzire lo psichiatra di turno!
Indugiare lì non serviva a nulla, quindi abbasso lo sguardo per terra un attimo, poi mi stiracchio le braccia. Sì, ho dato abbastanza per la giornata. Anch’io ho le mie commissioni, che consistono in dei libri da leggere. Si presume che, in quanto studentessa, i libri non rientrassero nello zaino immacolati come appena presi.
Apro la porta di casa. Mi sfilo le scarpe sul tappeto, inspirando. La mamma non è ancora tornata. Sarebbe un bel cambiamento se, per una volta, fosse lei ad accogliermi con un sorriso. Mi farebbe sentire ancora la presenza di papà. Così, anche Edward inizia a insospettirsi che qualcosa non va.
E neppure Ridley è a portata di insulti. Stupido fantasma che prima monopolizza la giornata e poi se ne va per i fatti suoi. Da vivo doveva essere stato un vero cavaliere con il gentil sesso.
   «Sei tornata a casa?» Il bambino mi fissa serio dalla porta della mia stanza. Poi, come se trovasse qualcosa di particolarmente divertente, abbozza un sorriso. «Ti va di portarmi a fare un giro?»
Credo di aver fatto abbastanza movimento, per oggi, da non averne più bisogno. E a livello emotivo sono messa pure peggio. «No, preferisco stare a casa.»
Il bambino mi si avvicina, petulante. «Oh, dai. Ti prego!»
Sono ancora indecisa. Lo conosco da poco, ma so che non è da lui comportarsi così. Mi mordicchio le labbra, mandando a fanculo ogni remora. Bene. Si esce di nuovo. Non è proprio giornata per studiare.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** 9 ***


9
 
 
 
Sospiro, infilandomi quel dannato paio di scarpe. Esco di casa. Distrattamente lascio la porta aperta per far passare il bambino che, di buon grado, acconsente di attraversare. I miei amati auricolari sono ancora in tasca, quindi me li rimetto e traffico un po’ con il cellulare. In ogni caso dovevo andar a prendere Ed a scuola, quindi l’uscita con il fantasma è provvidenziale. Andiamo, Bel, ammettilo: non ti va proprio di uscire e cerchi solo di giustificare un capriccio. Sospiro.
Ho un bambino, davanti, quindi niente volgarità. «Dove stiamo andando?»
   «Ho voglia di andare in un bar.»
Oh, sì, ma una bella imprecazione ci sta proprio bene, non è vero? Soprattutto perché a sedersi in un bar ero solo io. Sospiro nuovamente. Un altro respiro del genere e avrei fatto io compagnia al fantasma bambino.
Stranamente non mi porta in un locale vicino a casa sua. In effetti, visti i precedenti, ne avrei fatto volentieri a meno. Rabbrividisco al pensiero del cadavere tagliuzzato in frigo, tra un cavolo e la bottiglia del latte. Il locale è un ambiente piccolo e contemporaneamente chiassoso. Dei ragazzini stanno giocando ai videogiochi, gomma da masticare in bocca e il povero sfortunato che regge le coca cola di tutti. Posso essere anche miei coetanei e, per quanto non patita dei giochi, ne invido le giornate.
Mi siedo in un tavolino a un posto, ordinando una coca cola alla cameriera sorridente. Il bambino rimane in piedi, fissando la porta del bagno. «Vieni in bagno con me?»
Mi sistemo meglio l’auricolare con una mano, osservando la cameriera impegnata a spinarmi la bibita. Seduto al bancone c’è un altro uomo, concentrato a inviare un messaggio al cellulare, con davanti a lui un caffè ormai freddo. «Sei un fantasma e non vai in bagno.»
   «Per piacere.»
Con una imprecazione tutt’altro che mentale, mi alzo. Scivolo vicino ai ragazzi che giocano, infilandomi nel bagno in comune. È stretto, buio e sa di urina. Arriccio il naso dal disgusto, scorgendo nel water il rimasuglio del precedente fruitore. Vicino alla parete, tra una scopa e l’armadio del magazzino, una ragazza se ne sta rannicchiata in posizione fetale. Che sia la vicinanza del bambino o di Ridley, o per qualsiasi altra cosa, so esattamente chi è. Forse perché se ne sta troppo comoda, incurante della puzza, o forse perché da lei proviene quel leggero tintinnare di catene, o per non so che altro, so che lei è un fantasma.
Alza gli occhi, incrociando i miei. «Sei qui per me?»
La sua voce mi sembra quasi eterea, di qualsiasi luogo e di nessun posto in particolare. Non lo so. Mi inumidisco le labbra, appoggiandomi alla porta. Sarebbe proprio divertente se qualcuno entrasse e mi vedesse intenta in un monologo paranormale. «Tu vuoi che io sia qui per te?»
Mi fissa le mani, che mi accorgo essere come rami rigidi lungo il mio corpo. «Le tue mani sono luminose.»
D’istinto me le fisso, ma nessuna catena né tanto meno una luce me le rendono diverse dal solito. Il fatto positivo è che la ragazza se ne sta ancora, lì, seduta a fissarmi meditabonda. Se non fosse un fantasma, mi sarei seduta vicino a lei per fare una chiacchierata. I suoi capelli sono ramati e lunghi fino alle spalle, arricciati sulle punte. Me l’immagino dotata di parecchia arguzia, perché i suoi occhi sono tutti tranne che spenti. Mi passo le mani dietro la schiena: decisamente le sento oggetto di un desiderio poco gradito. La ragazza alza gli occhi e, nuovamente, incrocia il mio sguardo. «Io sono morta e tu mi vedi. Sei qui per me?»
Per quanto avrei gradito aver una risposta diversa, non lo so. Nervosamente mi inumidisco le labbra. «Tu lo vorresti?»
   «Non lo so. È tutto confuso.»
Rido. «A chi lo dici. Comunque mi chiamo Amabel. Ne so ancora poco, ma dovrei essere un’esorcista.»
   «Un’esorcista? Quindi mi scaccerai da questo bagno?»
   «No!» O forse sì? Non sapevo ancora qual era il mio compito. E se fosse proprio di aiutarla? Con il bambino, però, la questione non aveva dato i suoi frutti. Dopo averlo aiutato lui mi era rimasto appresso. E lo stesso Ridley, per quanto affermare di avvicinarmi alla soluzione della sua morte fosse un’affermazione troppo ottimistica anche per me.
La ragazza continua a fissarmi, il che non mi aiuta. E io ricambio confusa la sua attenzione, il che diciamocelo non aiuta praticamente nessuno. Ecco, questo sarebbe il momento che intervenisse la ragazza dentro di me. E visto che non è accorsa in mio aiuto quando ero in pericolo, a Maiden Street, dubitavo che Dalila prenda il controllo in quel momento. Inutile esorcista.
Poi un movimento, e l’attenzione della donna si sofferma sul bambino, che con disinvoltura si muove. Ne sembra affascinata. «E tu chi sei?»
Il bambino si avvicina al water, guardandoci dentro con blando spirito di osservazione. Di nuovo, la donna cerca di legare con lui. «Tu non sei come me, vero?»
Il bambino bisbiglia piano. «Forse dovresti dire quelle parole. Sai: primo esorcismo. Sì, credo che quella sia la formula giusta.»
C’è qualcosa che non va, e non sono l’unica a pensarlo. Il bambino è troppo disinvolto e ho quella strana sensazione che mi opprime il petto. Di per sé non mi dispiace, ma è un qualcosa che so non essere pienamente a suo posto. Mi sento tradita e allo stesso tempo so che non posso farci nulla. Fisso la ragazza. Sospiro, alzando la mano sinistra e ponendola davanti al mio volto, con il palmo rivolto al fantasma. I suoi occhi sono di nuovo su di me, la voce mi chiede un aiuto che in cuor mio vorrei darle. «Mi farai del male?»
   «No.» Questa volta la voce è di Dalila. Sento le schegge sicure della sua determinazione. «Ti libero. È più veloce dell’addormentarsi. Starà bene.»
Lei annuisce, mentre bisbiglio «Primo esorcismo: catene della purificazione».
Le catene, che così tanto mi hanno terrorizzato, avvolgono il fantasma in un bozzolo di luce blu. Le vedo aderire al suo corpo senza materia, seguire le sue forme e adagiarvisi come una pelle. Mi sorride, facendosi passare una catena tra le dita, in evidente estasi. «Sono calde.»
Appena lo dice, sento il calore che divampa tra le mie dita, tanto che mi è impossibile continuare a tenere in quella posizione al mano. Sono costretta ad abbassarla. Il volto della ragazza scompare, immerso in quello sfavillante blu. Le catene si ritirano, lasciando il vuoto e una scia di elettricità vicino all’armadietto. Di lei non è rimasto nulla. Solo quel sorriso, nella mia mente, che mi accompagna mentre esco dalla porta del bagno. Trangugio in un sol sorso la bibita, pago l’ordinazione ed esco dal bar. Quindi è per quello che servono le catene. Io le ho usate contro i mortali, ma in realtà servono per aiutare i fantasmi ad andare oltre.
Il bambino zampetta al mio fianco. Sono costretta ad appoggiarmi a un muro, la testa a contatto con il ruvido cemento. E poi arriva, il pranzo, la coca cola e anche quello che ho mangiato a colazione. Arriva e io lo aspetto da quando ho esorcizzato quel fantasma. Mi trovo piegata, la mano sullo stomaco, nel tentativo di riprendere fiato e sperare che non ci sia un'altra vomitata liberatoria. Mi passo la mano sulla bocca, poi mi tergo dalla fronte il sudore. Faccio un bel sospiro, incamminandomi con apparente disinvoltura.
È per questo che sono un’esorcista, adesso lo so. Niente giri di parole, niente attacchi a persone vive, niente case infestate e Bibbia in mano. Il mio compito è solo quello di accompagnare al trapasso. Il camminare mi fa bene, snebbia la mente e mi rende chiara la questione. «Ehi, bambino, mi potresti anche dire il tuo nome. A meno che non ti piaccia essere chiamato in altro modo.»
   «Mi chiamo Lie.» Sorride, accordandosi al mio fianco. Lo vedo imitare la mia camminata, sbruffone, infilandosi le mani in tasca proprio come ce le ho io. «Solo Lie.»
Di nuovo, ho la sensazione di conoscerlo.
 
† † †
 
            In un certo senso invidio mio fratello. Quando ero piccola, non ricordo affatto di essere stata così piena di brio e frizzante dopo una giornata di scuola. Mi si fionda tra le braccia, mi strizza per bene la schiena e poi infila la sua mano nella mia. E ha un sacco di notizie da raccontarmi. Il semplice camminare non sembra bastargli per esprimere tutta la sua felicità, tanto che mentre percorriamo il viale alberato per andare da nonna, fa dondolare distrattamente il mio braccio a ritmo del suo.
   «Eleen ha detto a Michela che Tobia è innamorata di lei, ma non è vero. Lo ha detto solo perché a lei piace Dylan e vuole che Michela, che è tanto sua amica, si fidanzi con Tobia, perché Tobia è il miglior amico di Dylan.»
Oh, che bello. Quando andavo a scuola io si parlava di storia, italiano, matematica e dei cartoni animati. Adesso, invece, i bambini sono così precoci che danno avvio a dei mini Beautiful. Ci credo, poi, che al liceo sono tutti navigati! Alzo un sopracciglio, mentre Ed parla come una macchinetta di tutti gli intrighi amorosi della classe, come se lui fosse troppo grande per bassezze del genere.
   «Tuo fratello parla troppo.»
Giusto, il quadretto familiare e normale è un po’ sciupato dalla presenza ultraterrena di Lie. Che sarà mai stringere la mano di Ed da una parte e sentire le battute di un fantasma nell’orecchio?
Edward lascia la mia mano quando vede il cancello di nonna. Corre, a ritmo dello sbatacchiare del suo zaino sulla schiena. Lie mi cammina vicino, le mani infilate nelle tasche dei pantaloncini. Mi mordicchio il labbro inferiore. «Vorrei solo una giornata normale. Una sola.»
   «Tanto poi ti annoieresti.» Mi bisbiglia impudente il moccioso. Già, forse. Ma sperare nella normalità è proprio quello che mi ci voleva.
Nonna sta strizzando Ed, poi mi rivolge un suo ampio sorriso. «Ciao, tesoro!»
Lascio che mi abbracci, incurante come non mai che le sue braccia non mi danno il sollievo voluto. Ci fa accomodare in casa. Ed non sembra accorgersi del lieve bip dei macchinari di papà. In cuor mio spero che non scopra mai quello che gli è successo. Forse sono egoista, forse ho paura che ne rimanga traumatizzato. O, perché no, ho paura che anche lui, come me, inizi a sperare nell’impossibile.
Ed e nonna mi precedono lungo il corridoio. Stanno parlando dei gusti di gelato che potrebbero coronare una buona merenda. Mi fermo a fissare un vecchio ritratto di altri tempi. È una foto vecchia, appartenente alla nostra famiglia da tempo immemore. Nonna mi ha sempre detto che è stata trovata da sua mamma quando era giovane, nella soffitta della loro casa, e quando si era trasferita l’aveva portata con sé. L’avevo sempre guardata indifferente perché, come si sa, la storia è solo passato. Non ci avevo mai fatto caso che la risposta è sempre stata davanti ai miei occhi.
   «Nonna.» La chiamo, sentendo la mia voce che vibra dall’emozione. «Chi è questa donna?»
Il ritratto, fatto da un pittore morto secoli prima, mi guarda fiero e senza emozione. Ai bordi, il tempo lo ha segnato con piccole chiazze di unto che si arricciano e che rendono la carta ancora più fragile. Posso percepire la forza del suo sguardo e l’energia tagliente della parola che, al suo fianco, ne indica il nome: Dalila.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** 10 ***


10
 
 
 
           La nonna mi si avvicina, arricciando il naso. Dal rumore, Ed ha trovato il gelato che gli piace e lo sta attaccando come se non ci fosse domani. La nonna osserva Dalila nel ritratto, nello stesso modo in cui può fare un profano.
   «Donna? Ahn, stai parlando del ritratto. Te ne ho già parlato. Mia madre, da giovane …»
   «No, nonna.» La storia della soffitta la so. Quello che voglio sapere è chi ne è la protagonista. Il mio cuore palpita. Non riesco quasi a trattenere l’emozione della mia voce. Ho la sensazione che tutta la mia esistenza sia racchiusa tra quel legno lavorato. «Chi è la donna del ritratto?»
Nonna guarda la ragazza, con un misto di ammirazione e scetticismo. «Dalila. È una ragazza che morì bruciata sul rogo, nel 1400. Una vecchia leggenda tramandata da generazioni.»
Mi passo d’istinto le dita ai polsi. Mi sembra che delle pesanti catene siano lì, che mi sigillano e impediscono al mio corpo di muoversi. Sono costretta ad abbassare lo sguardo per confermare che è solo frutto della mia immaginazione. Se alzo gli occhi, vedrò un paesaggio sconosciuto dalle sbarre di una prigione? È immaginazione anche il senso di oppressione al mio cuore? Tuttavia, quando alzo gli occhi, Dalila mi continua ad osservare. Cosa dovrei sapere di te? «Perché fu bruciata?»
   «Era una pratica comune, a quel tempo. Penso fu accusata di stregoneria. Di Dalila si sa ben poco, fino alla sua esecuzione. La mamma di mia nonna disse che fu bruciato un diario, quando era piccola, che narrava la storia della nostra antenata, di come viaggiasse in Europa da sola, senza un vero obiettivo.» Lie, incurante, segue la conversazione in silenzio.
   «Perché fu bruciato il diario?»
   «Oh, Amabel, tesoro. Stiamo parlando di una signora molto anziana che raccontava qualcosa che le era successo quando era piccola. Sicuramente la fantasia deve aver avuto la meglio. Può essere che Dalila in realtà sia stata una donna ritratta e che, attraverso le generazioni, è arrivata nella nostra famiglia. E che questo fantomatico diario non siano altre che carte vecchie già ai tempi di mia madre. Non c’è nessuna prova della sua esistenza, né che sia nostra antenata.»
Sento il fuoco, dentro i polmoni. Ne sento l’ardore e, lo so, lo sguardo serio di Dalila non è altro che il suo modo di dirmi che è delusa da me. Mi mordo le labbra. «E se fosse vera la storia, Dalila sarebbe stata bruciata viva?»
   «Probabilmente sì.»
   «Ed è una nostra antenata.»
Vedo il profilo di nonna annuire. «Sì, così diceva mia madre. Non c’è nessuna prova che Dalila, però, fosse nostra parente. In verità, lei non ebbe mai figli e, a meno che le informazioni giunte a noi siano manchevoli, non aveva parenti in vita quando è morta.»
In un qualche modo non riesco a distogliere lo sguardo. È come guardarsi allo specchio, pur sapendo che il riflesso è diverso. Lei ha i capelli neri, io chiari; lei ha profondi occhi neri, i miei sembrano piuttosto insulsi e inespressivi. Anche così, attraverso quel tratto indeciso e imperfetto, lei ispira quasi terrore. Sì, Dalila fu bruciata sul rogo. Lo so. Nelle mie vene, in piccola parte, scorre il suo sangue. So anche questo. Una donna, un’esorcista, con quel nome, morì. Perché ho questa sicurezza? Semplice: perché, dannazione, ricordo di essere morta tra quelle fiamme.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** 11 ***


11
 
            Picchietto con le dita al computer: Ridley Scott. Il nome compare in lista in qualche articolo, a svelare quello che avevo supposto, ovvero che il fantasma è quello di un detective. Niente di nuovo da quel fronte. Nessuna immagine, nessuna foto. Solo la lista degli articoli. Prima di morire, posso dirlo, si era dato ben da fare. Doveva aver pestato i piedi a parecchie persone. Beh, immagino che si possa dire lo stesso di molti delle Forze dell’Ordine. È il loro lavoro, in fondo. L’ultimo articolo in cui compare parla di una partita di cocaina recuperata, guarda un po’ come è piccolo il mondo, a Maiden Street. Un trafiletto di appena un paio di righe. Controllo per scrupolo la data: poco più di due mesi fa. Interessante e sospetto.
Ho visto abbastanza di quel quartiere che col cavolo che ci ritorno. E, come avevo scoperto a mie spese e poi confermato da Ridley, non potevamo andare dalla polizia. Non sapevamo di chi fidarci e, fulmini dal cielo, finalmente il fantasma aveva ammesso che ero un po’ troppo giovane e avrei attirato l’attenzione come informatrice. Durante la mia fuga dalla stazione, lui era rimasto indietro a osservare quel detective che si occupava delle indagini e non sembrava averlo riconosciuto. Secondo me, invece, era rimasto indietro apposta perché il nome gli diceva qualcosa. Solo che non lo ricordava.
Lie se ne sta seduto sul letto, il naso schiacciato al vetro della finestra, concentrato in chissà quale attività quotidiana. Ridley passeggia nervosamente, bofonchiando piano. Credo che una pentola di fagioli mi disturberebbe di meno. «Ridley, mi stai mandando in bestia. Smettila di muoverti.»
   «Sono un tipo portato all’azione.»
Glielo dico, non glielo dico. Sto spennacchiando una margherita mentale. «E guarda un po’ dove ti trovi adesso.»
Gliel’ho detto. Lie ridacchia piano e, anche se gli volto le spalle, so che Ridley lo ha fulminato con lo sguardo. «E tu, ragazzino? Che ci fai ancora qui? Non dovresti essere stato esorcizzato?»
Avevo parlato al detective della mia missione, o di quello che avevo interpretato come la mia missione, e siamo convenuti entrambi che Lie è un bambino fantasma un po’ particolare. So, e non ho ben capito come, che non posso in alcun modo esorcizzarlo. Ciò che posso fare è aspettare che mi venga un altro flash su come comportarmi.
Scorro con il puntatore la pagina internet, ma ho letto tutto quello che mi serviva. Zero. «Lascia stare Lie. Lui ha il diritto di rimanere qui quanto te.»
In effetti, nessuno dei due aveva diritto di rovinarmi così tanto la vita! Picchietto distrattamente sulla tastiera, senza pensarci ho scritto Maiden Street. Si vede proprio che mi piace quella strada. Mi compaiono una serie di notizie poco confortanti, che riportano in definitiva l’aumento della criminalità in quel quartiere e una dilagante crescita della prostituzione minorile. Mi fa ben piacere sapere di essere stata tanto vicina a essere una delle tante ragazze scomparse!
Mi accorgo che una mano ha abbandonato la tastiera e io mi sto mangiucchiando nervosamente l’unghia. So il perché. Qualcosa della faccenda non mi piace. Ridley è scomparso con troppa facilità, non si fa menzione di lui. Due mesi fa, bang: scomparso. Un po’ strano, no? «Come se qualcuno lo avesse fatto sparire.»
Lo dico sovrappensiero. La reazione è naturale. «Scusa, non ho capito.»
Ridley si è fermato e mi osserva. Scuoto la testa. Mi osservo l’unghia martoriata, me la sono mangiucchiata a sangue, e alzo le spalle. «No, niente. Pensavo a un vecchio compito in classe.»
Lie mi gira le spalle di nuovo, osservando il paesaggio dalla mia finestra. Ho la tentazione di andarlo ad imitare, anche se so che più della signora Simon che pulisce il marciapiede davanti al condominio non posso vedere. Tutto, pur di non ammettere con Ridley il sospetto che qualcuno lo abbia voluto togliere di mezzo per la partita di droga. Spengo il computer e, girandomi, vedo che il fantasma mi sta ancora osservando, sospettoso. Beh, forse una mezza idea su quello che non ho detto ce l’ha.
 
† † †
 
         Il professore di biologia sta scorrendo un dito sul registro delle presenze. Mi sento quasi strabica, con una parte del cervello che cerca di ricordare l’argomento trattato, e l’altra parte intenta a controllare dove quel dito si vuole appoggiare. Ogni volta che arrivava a fine pagina, impreco tra me e me. «No lì … su, vai su. Va via da lì.»
Rose si sbraccia dal suo banco, avvicinandosi pericolosamente al mio. Se quello alza lo sguardo e vede la mia compagna così vicino, poco ma sicuro chiama me. La legge di Murphy è una delle poche certezze della mia vita: se qualcosa può andare male, andrà male. «Ehi, Bel.» Giro appena il capo, per vedere Rose lanciare un’occhiata al professore. Il silenzio in classe si può affettare con un coltello e lo si può spalmare, senza problemi, su una fetta di paura. A un sospiro del professore, fiata. «Non ti puoi offrire volontaria? Tu hai studiato!»
Tutto quello che mi viene in mente di quest’ultimo periodo e del libro di biologia sono fantasmi, “Primo esorcismo: catene della purificazione”, un braccio nel frigo e la mia prematura morte nel rogo. Tutti argomenti che hanno pertinenza con una cellula quanto dire che il lupo ha un patrimonio genetico simile alla pietra, perché entrambi possono avere delle tonalità di colori simili.
Scuoto la testa, con ritrosia, e alzo lo sguardo nel momento in cui il professore lo distoglie dal registro. Tutti i miei compagni stanno fissando più o meno interessati il libro, con l’intento di sprofondarci e di non emergere più, quindi il docente può solo abbozzarmi un sorriso.
   «Proprio lei, Wright.» Vaffanculo. Nella mia mente lo sto scandendo con enfasi. «Venga pure qui, come volontaria.»
Mi alzo, borbottando. Volontaria un corno. Se non fosse stato per Rose, avrei fatto di tutto per non alzare lo sguardo dal libro. Accenno un sorriso al docente, pensando a un modo per annegarlo della sua faccia tosta. Mi ha chiamato e pretende pure di parlare di uscita volontaria. Abbassa lo sguardo, alla ricerca di un’altra anima da punire. Il mio posto è vicino a lui, davanti alla lavagna. Appoggio i piedi prima sulle punte, poi sui calcagni per sfogare la paura. Lo vedo puntare il dito poco sopra a dove c’è il mio cognome. E di nuovo cerco di convincerlo a desistere. «No no no … no!»
   «White? Anche lei volontaria.»
Julia si alza, raschiando con la sedia per terra. Abbasso gli occhi, mentre si mette al mio fianco, davanti alla lavagna. Dovevo immaginarlo che avrebbe chiamato Julia. Come c’è da aspettarsi il suo commento tra tre, due … uno. «White e Wright.»
Bastardi, i nostri compagni di classe che si sono salvati dall’interrogazione, ridacchiano. Alcuni infilano anche il libro dentro lo zaino, con disinvoltura. La cosa positiva è che, qualunque sia il risultato, alla prossima interrogazione non può chiamarci! Julia muove nervosamente il piede al mio fianco, arrabbiata.
Per un’ora ci trasciniamo tra cellule eucariote, procariote, suddivisioni varie e tutto quello che il libro aveva da offrirci. C’è da dire che, da brave studentesse, io e Julia abbiamo studiato quel tanto da far vedere che abbiamo per lo meno aperto il libro, ma non abbastanza per far brillare la nostra interrogazione. Di natura, sopra all’otto nella sua materia non sono mai arrivata, e anche in quelle eccezioni il voto era stato sudato. Julia, di risposta, non si schiodava mai dal suo amato sei.
Dalla spalla del professore vedevo una sfilza di più che mi rassicuravano. Alla fine, decide di interrompere il calvario con un sei e mezzo per Julia e un sette, non meritato, per me. Sospiro. Il suono della campanella non è mai arrivato così benvoluto. Il docente si alza dalla sedia, ci fa un sorriso e richiama alcuni ragazzi che si sono già fiondati nel corridoio, per andare al bar a prendere da mangiare.
   «Beh, tutto sommato ci è andata bene.»
In quel periodo, espormi troppo con Julia è pericoloso. Difatti gira la testa, alzando un sopracciglio. «Tu lo definisci bene?»
   «Beh, abbiamo tutte e due raggiunto la sufficienza.» Per quello che ho studiato, il mio voto è alto! E conoscendo Julia e la sua ritrosia per la biologia, so che non ha studiato tanto più di me.
   «Ahn, giusto.»
Il tono di Julia è tutt’altro che comprensivo. «Senti, Julia, se hai dei problemi con me …»
   «Perché mai dovrei avere dei problemi con te?»
Mi sembrava che di seccature tra di noi ce ne fossero a bizzeffe. La fisso, vendendo che fa quel sospiro prima della grande battaglia. Prevedibile. Se fossimo nel Medioevo, avrei alzato il mio scudo per difendermi dall’assalto. «Perché qualcuno mai dovrebbe avere problemi con te, vero? Da una parte sorridi, dall’altra sei una voltafaccia senza scrupoli. Non sei mai stata affidabile.»
Un attimo: non stiamo parlando di biologia, ma ancora di quel concerto? Mi sembra un po’ troppo prendersela ancora, anche perché da quello visto in mattinata, ha perdonato bene Mary. «Sono sincera. Non ti ho mai taciuto nulla.»
   «Sei una bugiarda patologica, Bel.» La sua affermazione mi fa trasalire un attimo. Continua. «Menti per ogni cosa: menti su quello che provi, su cosa fai, sulle amicizie. Non c’è un solo giorno in cui tu dica la verità, ed è sempre stato questo il tuo problema. Non ho mai capito se posso fidarmi di una persona del genere, quando su tua stessa ammissione non sei la persona limpida che appari.»
So di essere una bugiarda, è più forte di me. Però so che sono sincera nelle cose che contano: nelle amicizie e sui sentimenti. Essere attaccata in ogni punto mi sembra una gran scorrettezza. «Non sai che stai dicendo.»
Julia mi punta un dito in mezzo al petto, conficcandomelo a fondo. Alex, impegnato con un nostro compagno a parlare, si alza per venire in mio soccorso. La situazione ci sta sfuggendo di mano. La sua ira, ormai, mi ha accerchiato e io non riesco ad emergere. «Io so cosa hai fatto, Bel, e lo sai anche tu. Smettila di fare quella faccia da santarellina. Sappiamo tutti che sei una bugiarda.»
   «Julia, adesso basta.» Alex si è messo tra me e lei, per bloccare ogni rissa. Anche Margareth si è avvicinata, per quanto la vedo nascosta dal profilo della mia rivale. Rose è bloccata, un piede per metà fuori dalla porta. La classe è in silenzio, in attesa. Sento Mary, da qualche angolo, bisbigliare piano. «Basta così.»
Julia mi molla una spinta, urto il petto di Alex che rimbrotta contro la ragazza. Vedo tuttavia il suo profilo, irato quanto il mio sconvolto. Qualcosa, lo so, si è rotto. E non ho capito il perché.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** 12 ***


12
 
 
 
             «Bel, tesoro?» Cinguetta mamma. Ho tutto il tempo di aprire una nuova scheda e di chiedere a Google informazioni su Napoleone. Così quando mia mamma entra in stanza, la sua primogenita è tutta impegnata a studiare … il programma scolastico per l’anno prossimo. Ormai non posso più usare la scusa del cercare informazioni sulla cellula. E sono stata troppo lenta a pensare a cosa sto studiando in storia. E la cosa mi preoccupa, visto che avere informazioni sull’argomento trattato in classe fa parte del mio compito da studentessa.
Mi sorride con fare complice. Non ho fatto nulla. Nulla che lei sapesse, per lo meno. E nulla che la facesse sorride nel momento in cui mi scoprisse. In effetti, quel sorriso mi terrorizza. «Hai una chiamata.»
Il cellulare è silenzioso sul comodino. Perché Mary mi dovrebbe chiamare al telefono di casa? Julia mi ha un po’ sbatacchiato oggi, quindi per principio non può essere lei. «È un ragazzo.»
Mi alzo dalla sedia, più confusa che mai. Prendo in mano il ricevitore, mentre mamma si porta un fazzoletto agli occhi. Sto rispondendo al telefono, mica ho appena ricevuto una proposta di matrimonio! «Pronto.»
   «Ciao Amabel.»
   «Chase!» Mamma è in brodo di giuggiole. Non reprime neppure le lacrime dalla contentezza e, lo so, si sta facendo un’idea molto particolare e dannatamente corretta del perché il ragazzo mi ha chiamata. Volto le spalle a mia mamma, bisbigliando. «Ciao.»
   «Momento particolare?»
   «No, figurati.» Solo un attacco isterico di mamma. Lo gestisco io con calma non appena riattacco. Urge, tuttavia, informarsi su qualcosa di più preoccupante. «Come facevi ad avere il mio numero?»
Lo sento ridere. «Ho fatto un po’ di pressioni a scuola. Si può ottenere tutto se sei un rappresentante d’istituto e devi dare delle indicazioni su delle carte da portare. Ti va bene se ci troviamo domenica pomeriggio al parco vicino alla scuola? Perché ti ricordi che mi hai detto che uscivi con me, vero?»
   «Certo, come posso dimenticarlo?» Non è vero. Mi era uscito di testa tra l’esorcismo, l’aver ricordato come era morta Dalila e la litigata con Julia. Beh, anche l’interrogazione di biologia ha avuto il suo momento di gloria durante la mattinata. A mia discolpa c’è da dire che, per quanto Chase sia un bel ragazzo, ricordare la propria prematura morte ha sempre la priorità. «Va benissimo trovarci domenica pomeriggio.»
   «Oh, Bel!» Dall’altra parte del ricevitore Chase è ammutolito, mentre io con ogni parte libera del corpo intimo mamma a starsene buona e a tenere per sé ogni espressione di giubilo. «Sì, per che ora ci vediamo?»
   «Facciamo per le quindici. E, Amabel?» Sento la sua voce quasi vibrare. «C’è tua madre vicino a te?»
Abbasso la testa, sconfitta. «Sì.»
   «Ed era suo l’urlo di gioia.»
   «Sì.»
   «È felice che tu esca domenica?»
   «Sì.»
Ridacchia. «Mi farai conoscere tua madre, prima o poi. Deve essere un tipo interessante.»
   «No. Ci vediamo domenica.»
   «Va bene.» Attendo che dica qualcosa. Lo so, c’è nell’aria la continuazione della nostra conversazione, un dialogo che abbiamo interrotto non so quanto tempo prima. Mi mordicchio le labbra, arricciando il filo del ricevitore. Cosa sto aspettando da lui? Sento Chase sospirare. «Ciao. Ci vediamo allora.»
   «Ciao.» Lo soffio, più che pronunciarlo, al ricevitore che suona a vuoto.
Rimango a fissare davanti a me, il tavolino lucido con impressa la mia impronta digitale, il foglietto degli appunti e una penna. La prendo in mano distrattamente, mentre appoggio la cornetta al tavolino. La rigiro tra le mani, cerco un qualcosa che non ricordo. Cosa mi manca per scrivere? Dopo un attimo, fingendo di scrivere sul foglio, mi accorgo che la mia mente sta cercando il calamaio in cui attingere all’inchiostro. Una sensazione strana, come se passato e presente si fossero incontrati.
Un passo, mi volto a guardare la donna, ancora intenta a passarsi il fazzoletto sugli occhi. «Oh, tesoro. È il tuo primo appuntamento. Ti devi fare bella.»
Fare bella. Che cosa mi sta dicendo la donna sconosciuta davanti a me? Perché dovrei rendermi attraente? Vedo il profilo di Lie, rassicurante, vicino alla porta del salotto. La donna sconosciuta è mia madre. E io non sono Dalila, tra le mie mani non ho un pennino e mi sta parlando in inglese, un inglese moderno. Non è latino.
Sbatto gli occhi, distogliendo la mia attenzione da Lie e tornando a incrociare il nocciola degli occhi di mamma. «Sì, devo farmi proprio bella.»
Non sto pensando all’appuntamento. Non sto neppure pensando a Chase. Penso a Dalila, alla sua solitudine, e al perché mi sembra di essere incastrata tra presente e passato senza possibilità di fuggire. A questo sto pensando.
   «Io vado a finire di studiare.»
Accenno a fare un passo, ma ho le gambe pesanti. Dannazione. Vorrei dire che sono preoccupata per la scuola, per l’allenamento con la Lowry … ma non è vero.
Sobbalzo quando mamma mi accarezza la guancia, scostandomi i capelli. Mi passa un ciuffo dietro all’orecchio, i suoi occhi sono ancora umidi dalla felicità. «Non si direbbe proprio che stai crescendo, vero? Credo che tu rimarrai sempre la mia bambina.»
Ho inspiegabilmente paura di crescere. Qualcosa, nel diventare adulta, so che mi farà male. E non è quello che pensa mamma. È legato al dolore, all’abbandono, al lezzo della fossa comune nel villaggio. Abbozzo un sorriso, cercando di dimenticare l’ultima parte. «Dai, mamma. È solo un’uscita con un amico.»
   «Non parlavo di quello.» Mi dice, inclinando la testa di lato. «Non è solo quello. Ti ho visto prima, mentre prendevi gli appunti. Bel, sembravi un’altra persona.»
Forse in quel momento ero un’altra. «In un certo senso sei diventata grande senza che me ne accorgessi. Papà non ti riconoscerà neppure, se continui così.»
Papà. Abbasso lo sguardo, pensando che sarebbe un bene se papà non mi riconoscesse. Questo significherebbe che si è svegliato, contro ogni verità medica. «Non mi sento più grande. Sento solo che ho più responsabilità.»
Lie, Ridley, mamma, Ed e nonna. In parte anche papà, Mary … e Julia, che quasi non riconosco più. Sento che tutti dipendono in qualche modo da me e da quello che sto diventando. Mi terrorizza. Mi obbligo a mettere da parte tutto il mio mondo. Sorrido, incontrando lo sguardo perso di mia mamma. «Beh, vado a studiare.»
Scivolo tra la sua mano, sfiorandola nel passare. Il suo profumo mi colpisce come non aveva mai fatto. Mi sembra che sia più viva del solito e, nello stesso tempo, più vulnerabile. Può essere ferita.
Mi infilo nella mia stanza, chiudendomi la porta alle spalle. Che cos’era stato quel momento di confusione, in cui non sapevo dove mi trovavo? Dalila sta prendendo il controllo del mio corpo? Il solo pensarlo mi sembra assurdo. Dalila, e lo so per certo, non era quel tipo di persona. Un’esorcista, forse molto più determinata di quanto potrei essere io, ma aborriva l’uso della violenza gratuita. È per quello che a Maiden Street non aveva preso il controllo del mio corpo: sapeva che potevo reagire da sola. Le nostre anime si mescolano solo quando io non so gestire la situazione. È l’unica spiegazione che ha senso.
Con quella nuova verità, accenno un sospiro e alzo lo sguardo. Ridley mi fissa a braccia conserte davanti al computer. «Oh, porcamerda
   «Sì, di solito ti faccio questo effetto.» Replica duro. Lie abbozza un sorriso, sedendosi sul letto senza peso.
Abbandono la testa sulle spalle. «E basta. Sono stanca che tutti vi arrabbiate con me, oggi.»
Ridley sembra proprio irato. Non solo la sua postura rigida, ma anche i tratti del viso, duri come se scolpiti nel legno. E la voce, tagliente e sarcastica. Alza un sopracciglio. «Scusa, ho urtato il tuo ego? Mi sono intrufolato nella tua affollata giornata?»
Mi incammino, sedendomi davanti al computer. Un dipinto di altri tempi di Napoleone osserva la battaglia della mia stanza. Chissà se il suo spirito vaga ancora in Francia. Mah. Non è un mio problema. «Ci deve essere qualcosa nell’aria, tipo luna piena, un virus che rende tutti più nervosi, un’epidemia di rabbia. Non mi sembra di aver fatto nulla per cui tutti dovete arrabbiarvi con me. Ho solo due mani e una mente: pretendere di più mi sfinisce.»
Chiudo la scheda di storia, ricomparendo l’ultima ricerca effettuata. Prima che mamma mi chiamasse, e una parte della mente mi ricorda il perché, stavo cercando incidenti accaduti negli ultimi mesi, vicini a Maiden Street. Ridley continua, il tono più aspro. Un altro po’ più forte, e potrò verificare se è vero che gli animali sentono più degli esseri umani. «Ti ho chiesto di aiutarmi e non stai facendo nulla in merito. Posso capire che avere sedici anni deve essere una gran bella gioia, ma mi aspettavo un atteggiamento un po’ più maturo e meno frivolo.»
   «Se non stessi facendo nulla, ti avrei già esorcizzato.» Punto un dito al monitor. Lo vedo sporgersi sopra la mia spalla. Certo, è un fantasma ma vedere il ragazzo barbuto vicino a me mette un po’ in subbuglio la mia anima. Non sono immune all’altro sesso, per lo meno. Né dimentico facilmente le accuse, ma posso comprendere la sua situazione. Scuoto la testa, scorrendo il mouse sulla pagina. «Questi sono gli incidenti che ci sono stati negli ultimi due mesi. Non ho capito bene che filtro devo mettere ... e soprattutto come metterlo, quindi ho scartato manualmente questi due articoli perché si riferivano a incidenti accaduti prima di questo tempo.»
   «Perché negli ultimi due mesi?»
Alzo le spalle. «Gli ultimi articoli che parlano di te si riferiscono a due mesi fa. Possiamo ipotizzare che almeno in quel periodo eri vivo. Comunque, vicino a Maiden Street ci sono stati parecchi incidenti, li ho letti velocemente e suppongo che questo potrebbe essere interessante.» Clicco con ferocia nel link di mio interesse, aspettando che la pagina si carichi. «Allora, nell’articolo non compare espressamente il tuo nome ma … ecco qui. Vedi? “R.S., di anni 26, maschio”. Ora, non vorrei essere troppo ottimista …»
   «Ho 26 anni.» Ammette Ridley, leggendo l’articolo.
Bene, questo semplifica le cose. Continuo, riassumendo l’articolo che ho già letto. «Si parla di questo R.S. che è stato ferito gravemente e portato in ospedale. Non parlano molto della ferita, anche se accennano ad almeno una pallottola. Arrivato in ospedale, le condizioni sono state giudicate critiche, ha subito un’operazione e, da qui, la questione si complica. La prognosi è riservata.»
Ridley distoglie lo sguardo dal computer, per guardare me. «La questione si complica? Non ti sembra abbastanza chiara? Sono qui, da fantasma, davanti a te.»
Dibatto la testa, in segno di diniego. «No, per me è molto complicata. Non sarò un’esorcista provetta, ma quando ho esorcizzato la ragazza, è stato semplice, naturale. Sapeva di essere morta, mi ha visto e ha intuito che ero lì per lei. Con te è come con Lie. So che non posso esorcizzarvi.»
   «Mi stai paragonando a un bambino.»
   «Smettila di travisare tutto quello che dico e ascoltami. Ascoltami sul serio. Tu e Lie siete diversi da quella ragazza, come siete diversi tra di voi. Sento che non è giusto esorcizzarti e qui si aggancia l’articolo. Ho cercato altre informazioni, ma non dicono altro. Se tu fossi morto, credo che lo metterebbero.»
   «Per te non sono morto?»
   «No, non sei morto.» Alza un sopracciglio, perplesso. Alzo una mano. «Okay, forse la questione non è limpida come sembra, ma sono certa che non sei morto. I fantasmi dovrebbero ricordare la loro morte. Tu no. E so questo per un’ultima illuminazione che ho avuto da Dalila. Sei solo in una situazione simile alla morte. Tipo … tipo … tipo il coma.»
Il ragazzo mi fissa. Se non fosse spirito, sentirei il suo fiato solleticarmi il viso. È così vicino a me che posso vedere le pagliuzze di un verde più scuro nell’erba estiva dei suoi occhi. Vedo le sfumature castane e bionde della barba incolta, un po’ più lunga della prima volta che l’ho visto. Anche quello, il fatto che cambia giorno per giorno, mi fa pensare che da qualche parte il suo corpo sta subendo le medesime modifiche. Lie, all’opposto, è rimasto l’immutato fanciullo di quel giorno davanti al market. Abbassa lo sguardo, accennando un sorriso. «Io … sono stato insensibile con te. Ti adoro, Ama.»
Sospiro, selezionando il nome dell’ospedale citato nell’articolo. «Se non sapessi in che situazione sei, ti avrei già esorcizzato. Questo è il nome dell’ospedale. Ho già messo in subbuglio mamma poco fa, quindi vado a controllare un altro giorno.» Già. A parte che, dopo averle detto che andavo in camera a studiare, avevo poche speranze che una delle mie bugie reggesse.
Legge il nome che trascrivo sul foglio, alzandosi in piedi. «Se mi hanno sparato, non ricordo neppure quello. Neppure chi è stato.»
Buco il post-it facendo il puntino della “i” con troppo vigore. Consolare un fantasma non è il mio forte, quindi prendo una delle frasi che nonna mi butta sempre lì, a tradimento. «Tutto andrà a suo posto.»
   «Ho bisogno di stare solo.»
Mi giro, vedendolo attraversare la porta. Sono brava a mettere in crisi una persona. Dannatamente brava. Potrei farlo presente al corso di orientamento, nelle attitudini particolari. Mi mordicchio il labbro. «Anche messa così, lo trovo strano anch’io.»
La voce di Lie giunge da qualche parte, sicura. «Può essere che sia morto per qualche minuto. La sua mente non ha ancora capito che è vivo.»
   «Ne sei sicuro?»
È una domanda di convenienza, per avere più tempo sola con i miei pensieri, mentre liscio con la mano il foglietto di carta. Tuttavia, la risposta di Lie è contraria alle mie aspettative. «Figuriamoci. Semplicemente il suo spirito ha lasciato il corpo e rifiuta di ricongiungersi.»
Lie, menzogna. … io, fregata.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** 13 ***


13
 
 
 
            Il mio cuore non perde un colpo. È calmo, è sicuro, sa cosa fare. Ho la stessa sensazione di quando ero a casa dell’assassino di Lie, solo che ora non avevo nulla che intralciasse il mio interrogatorio. La stessa sicurezza che avevo nel bagno quando ho esorcizzato la ragazza, quando ho deciso di non indagare sull’affermazione che lui non era come il fantasma che mi ritrovavo davanti. Infilo il post-it sotto a un libro, per nasconderlo all’occhio indiscreto di mamma. Guardo il bambino, che alza le spalle incurante davanti a me. «Direi che posso smettere di mentire, mm? A volte, però, lo trovavo divertente.»
   «Esattamente cosa trovi divertente?»
   «Un po’ tutto. Sai, il sole che si alza nel cielo, le formiche che camminano per terra, …»
   «Cosa trovi di divertente?» Con un po’ di stizza ripeto la domanda. Una consuetudine che mi ero dimenticata di avere. Lie ridacchia. «Questo, Dalila. Il punzecchiare tra me e te, la tua rabbia. Cerchi di cambiare me, quando sai che non ci riuscirai mai.»
Lie si siede meglio sul letto. Mi sono appena accorta che, a differenza di Ridley, ha consistenza corporea. «Non ti ricordi di me, giusto?»
   «Chi diavolo sei? E non obbligarmi a chiedertelo di nuovo.»
   «È uno di quei momenti? Ogni tanto me lo dicevi: “non è il momento per mentire. Risposte semplici e concise”. Di solito capitava in battaglia, o in quelle che noi in passato chiamavamo battaglie. La domanda è chi sono. La vera risposta, però, include chi sei tu. E lo sai già. Tu sei Dalila, un’esorcista che morì bruciata sul rogo dalla Chiesa, che la condannò a morte per stregoneria. Credo non avessero più bisogno di te. Non l’ho mai saputo. Sai, non mi hai permesso di starti vicino.»
   «Non avevano bisogno di me?»
Lie annuisce. Sembra fare un discorso già preparato e ha tutta l’intenzione di concluderlo. «Gli esorcisti lavoravano per la Chiesa, prima che il periodo non fosse più idoneo per la loro sopravvivenza. Ci furono molte morti programmate, non solo la tua. Tu sei nata così, e io sono nato da te. Sono il tuo più intimo vizio, sono la tua vera essenza. Tu lo pensi, io lo faccio; tu nascondi, io mi mostro.»
   «Il mio vizio?»
   «Sei una bugiarda patologica, Dalila. Mentivi secoli fa e, da quello che ho visto, te la cavi piuttosto bene anche in questo secolo. Tu sei la menzogna allo stato puro.»
Se non fossi già seduta, probabilmente mi inginocchierei per terra. Mi massaggio la fronte con una mano. «Io … porcamerda
   «Non occorre che parli. Sono legato a te, quindi so cosa ti passa per la testa. Stai pensando che tutti mentono, che non deve per forza essere un tuo personale vizio, ma mentre pensi a questo sai che non mento. Dalila, hai sempre saputo individuare la verità nelle mie parole. Facevamo lunghe chiacchierate su questa tua caratteristica e non ti è mai importato molto. Anche perché tutti sapevano che mentivi, quindi anche quando eri sincera il risultato era pressappoco simile.»
Abbozzo un sorriso. «È un modo per mettermi alla prova? Noi non abbiamo mai fatto lunghe chiacchierate.»
   «Molto bene. Cosa facevamo allora?»
Lie … Lie e Dalila. Io e lui. No. Non aveva quell’aspetto. Piano piano nella mia mente si forma un’immagine sfocata, un infante che mi cammina appresso e che segue ogni mia mossa. Molto più piccolo di quel bambino, dalla lingua altrettanto tagliente. Mi prude una gamba, per cui anche in passato dovevo aver avuto l’istinto di dargli quattro calci in culo. «Non avevi quell’aspetto.»
   «Ovviamente no. Ti aspettavi che rimanessi per sempre alto come una pulce? Quando ti sei reincarnata mi sono risvegliato. Ti sono stato vicino per un po’, almeno fino a quando mi sono reso conto che pur vedendomi non mi riconoscevi e non avevi la minima intenzione di ritornare quella di un tempo.»
   «Quando ti ho visto?»
   «Credo che andassi alla scuola materna.»
Io vedevo i fantasmi sin da quell’età? Possibile che la mia mente si sia protetta fino a quando non avessi avuto un età opportuna per accettare tutto quanto? Cosa mi aveva detto nonna? “È strano come tu mi abbia già fatto questa domanda”. Dannazione. Lie muove i piedi, dondolando il busto avanti e indietro. «Poi hai parlato con Ridley. A parte il fatto che per te è veramente strano, ci hai parlato e hai deciso di aiutarlo. Già il solo accettare che esistano spiriti, fantasmi, un mondo oltre questo reale mi ha fatto dire che la mia Dalila stava tornando. Eppure tu non sei del tutto lei. Avrai il suo spirito, in un combattimento le somigli molto ma è solo lì. Ti devi ancora risvegliare dal tutto. Così mi sono trovato ad avere la mia esorcista in una mente da adolescente, che cerca di aiutare un fantasma che non accetta la sua condizione, … e un bambino che era appena stato ucciso vagava disperato, alla ricerca di aiuto. Ho fatto un patto con il bambino: in cambio della sua proiezione, io avrei trovato qualcuno che lo potesse aiutare.»
   «Vuoi dire … vuoi dire che tu stai ancora usando l’anima del bambino?»
   «No, nel momento in cui hai trovato il suo corpo, lui si è liberato dalle catene di questo mondo ed è andato oltre. E tu sai dove è andato … è da dove vieni.»
Scuoto la testa. «Non ricordo.»
   «Sei morta bruciata. Qualche ricordo di quello che è successo devi pure averlo. Ci hai passato più di sei secoli!»
Mi massaggio la testa. Ho caldo, dannatamente caldo, e mi sembra che qualcosa stia cercando di uccidermi. Questo è il momento di una bella imprecazione liberatoria. Sospiro, cercando di non pensare alla mia morte. I pensieri si stanno ingarbugliando e mi ritrovo in piedi, con le mani davanti al petto come se volessi allontanare Lie. «Okay, va bene. Ammesso e non concesso che io ti creda, mi stai dicendo che io sono la reincarnazione di un’esorcista di nome Dalila, morta secoli fa ad opera della Chiesa, e che tu sei il mio vizio? Non esiste neppure la menzogna come vizio!»
   «I vizi capitali sono otto, Dalila. Solo che i non esorcisti lo hanno dimenticato.»
Perché quella frase mi ricordava qualcosa? Chi mi aveva detto che i vizi capitali erano otto? «Ho la testa che mi scoppia.»
   «Ovviamente ti senti in subbuglio. La tua anima, rispetto a questo secolo, è quasi un’infante. L’ultima volta che ti ho vista credevi ancora che la Terra fosse piatta.»
Felice che il mio livello di cultura fosse aumentato, mi trovo a fissare Lie. Mente o mi dice, forse per la prima volta, la verità? Il punto è che io so già la risposta. E non mi piace.
Poi sento un urlo. Non è uno di quelli legati a qualche scherzo infantile. È, in qualche modo, più agghiacciante. Sento la televisione dall’altra parte della parete, nessun tramestio preoccupato quindi deve essere una voce che posso udire solo io. Ho capito che imprecare, oggi, mi serve molto poco.
Lie ha socchiuso gli occhi. Di profilo, con lo sguardo truce, mi sembra una figura sfocata che ho già visto. Mi precipito alla finestra, affacciandomi verso la strada. Una donna sta portando a passeggio il suo cane, che sembra agitato per un qualcosa. Continua a tirare, indisponendo la sua padrona già esausta. Guardo alle loro spalle, dove un ragazzo sta scappando. È appena caduto a terra, fa fatica ad alzarsi tanto è terrorizzato. Arranca, continuando a urlare. Solo che non capisco da cosa scappa. Inevitabilmente è appena sbucato dall’angolo della via, quindi chiunque gli dia la caccia deve ancora essere nascosto.
E poi lo vedo.
È uno spirito, anche quello, solo che a differenza del ragazzo sembra più pericoloso. Ha l’aspetto di un uomo che dibatte la testa, come per cacciare dei pensieri negativi e, quando si avventa sul ragazzo, questo lo evita con molta difficoltà. Perché uno spirito attacca un suo simile? Fino a quel momento li avevo visti solo dalla loro parte bisognosa di aiuto.
   «Cosa fanno?»
   «Bene.» Lie guarda la scena, a braccia conserte e soddisfatto. «Se fossi in te ne sarei lusingato. Hai appena ricordato qualcosa del tuo passato e ora dovrai affrontare uno spirito di secondo livello. Il che equivale a utilizzare il secondo esorcismo.»
Distolgo l’attenzione dalla strada, dove il ragazzo sta evitando un nuovo attacco e il suo urlo riecheggia nella mia stanza. Mi manca il fiato. «Cosa?»
   «Su, andiamo. Lo spirito di primo livello non resisterà ancora a lungo. A meno che tu non voglia vedere come può essere l’omicidio di uno spirito. Potrebbe essere molto educativo.»
Non so se essere scandalizzata o disgustata. Quale che siano le mie emozioni, tuttavia, quello che so è che non voglio fare la CSI dei fantasmi!

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** 14 ***


14
 
 
 
       Agguanto il cellulare, appoggiato alla scrivania. Esco dalla stanza, sicura che quella giornata non può andare peggio di così. È umanamente impossibile che peggiori di più!
Mamma sta cucinando e non so neppure se mi vede. Di certo sente il mio urlo «Ho dimenticato un libro a scuola». Se mi fermo, sono perduta.
Non mi risponde, tralasciando che non le ho lasciato il tempo, e mi precipito fuori di casa. Lie mi segue. Ne sento la presenza alle mie spalle. Senza di lui, in quel momento, avrei potuto fare gran poco. Salto gli ultimi quattro scalini, attutendo la caduta con le mani. Mi do una spinta, alzandomi in piedi. Sento rimbrottare la donna contro il suo cane. «Oh, andiamo Berry. Che cos’hai oggi? Fai il buono!»
Quello che la signora non sa, è che il caro e vecchio Berry ha tutte le ragioni di questo mondo di mettere la coda in mezzo alle chiappette e di fuggire da quella via.
Li sorpasso, Lie sghignazza alle mie spalle. «Ha molto rancore.» Non so se sta parlando di me, della signora, del cane o dello spirito. Credo che tutti e quattro stiamo facendo una bella gara di imprecazioni.
Mi fermo, la signora scompare dietro l’angolo e mi ritrovo da sola nella strada. Infilo il cellulare in tasca. In quel momento non mi è di alcuno aiuto. Sto ansimando. «Devi … devi dirmi tutto quello che sai. Non lo conosco.»
Lo spirito di secondo livello, riconoscibile perché continuava ad attaccare l’altro, urla e si dibatte nervoso. Lie annuisce a se stesso. «Gli spiriti di secondo livello sono spiriti intermedi, il cui livello di rabbia fa attaccare loro altri tipi di spirito. Di per sé non sono pericolosi. La loro rabbia non è legata alla vita terrena, ma al fatto che vagano nella Terra da parecchio tempo. Tutto sommato, per le condizioni in cui ti ritrovi adesso, potrebbe essere abbastanza ostico.»
Prende pure per il culo. Mi tergo con una mano il rivolo di sudore che mi cola dalla tempia. «Se mi avvicino mi attacca?»
   «Non è interessato agli esseri umani, seppur ai suoi occhi tu potresti essere qualcosa di più. Però immagino che sì, è possibile che ti punti.»
   «Cosa devo fare?»
   «Impedire che ti tocchi. Gli spiriti di primo livello non hanno consistenza neppure per gli esorcisti. Quelli di secondo, invece, sì. Un suo pugno è come un pugno di qualsiasi persona viva.» Allunga la mano, che si stringe fredda intorno al mio polso. «Potranno non toccare nulla di materiale, ma tu per metà sei del loro mondo.»
   «Altre belle notizie?» Replico con stizza, mentre Lie abbassa la mano. «La formula di evocazione. Imita la posizione del primo esorcismo, con entrambe le mani sollevate. Pronuncia “Secondo esorcismo: ascensione”. E, Dalila: buona fortuna. Ne avrai bisogno.»
Faccio un balzo in avanti, attirando l’attenzione dei due spiriti. Il ragazzo sta gemendo piano, l’altro ha strozzato l’urlo in gola, inclinando la testa di lato. Oh, che bello. Sto facendo nuove amicizie. Alzo entrambe le mani e, forse prevedendo quello che voglio fare, l’uomo mi getta contro le catene che gli stringono i polsi. Mi passano sopra la testa, rizzandomi i capelli. Scivolo di lato, un suo urlo mi fa arretrare contro la parete. «È fatto di rancore, Dalila. Non permettergli di disperarsi di più della sua condizione.»
Di nuovo alzo entrambe le mani, ancora intercetta il mio movimento e mi fa sgusciare di lato, lontano da lui. Dannazione. Perché non se ne sta fermo? Già ho i miei problemi quotidiani, più lui si muove velocemente e arresta i miei movimenti. Le catene che gli dovrebbero impacciare i movimenti, sono un pericolo solo per me! Per la terza volta sollevo le mani e, di nuovo, muove le catene. Questa volta mi colpiscono una gamba e sento la sua forza rovinarmi addosso. Ammetto, ho avuto una pessima giornata, rallegrata solo dalla prospettiva di uscire domenica con Chase. Il mio stato emotivo è alterato e lo spirito davanti mi ha rotto i jeans. Il suo rancore, al momento, è pari al mio.
Scatto, come se fosse una delle solite staffette e al posto di Lie ci fosse la Lowry, che mi incita a non rallentare davanti al traguardo. Sono disposta a distruggere quella dannata linea di arrivo! Mi ritrovo davanti allo spirito e, arrabbiata, gli mollo un pugno in pieno volto. «Mi hai fatto male!»
Il mio pugno non ha l’effetto voluto, se non quello di calmare un attimo l’uomo, che mi guarda basito. Sono così vicina a lui che se alzasse le catene non ne uscirei con una semplice sbucciatura e i jeans rotti. Di nuovo alzo le mani velocemente. «Secondo esorcismo: ascensione.»
Le catene escono dapprima dalla mano destra, percorrono il braccio come serpi, si agganciano all’altra spalla per uscire dalla mano sinistra, ribelli. Sono così vicina allo spirito che le catene si avvolgono in una manciata di secondi. L’uomo non può far altro che urlare, ma so che non è per il dolore. È solo incazzato che io non sia arrivata prima. Beh, tante scuse, non è l’unico a essere deluso di quel giorno. Poco prima di essere inghiottito completamente, però, abbandona ogni resa e si lascia cullare dal caldo. I suoi muscoli si rilassano e lo sento nel piacevole momento dell’abbandono.
Arretro, ansimando e richiamando le catene con un dito. Scompaiono, inghiottite dalla mia carne calda e pulsante. Mi massaggio la mano. Dannazione. Dare una sberla a un fantasma fa male come prendere a pugni il muro. E non mi dà la soddisfazione voluta.
Lo spirito di primo livello mi guarda atterrito. Non è da tutti vedere un’esorcista. Se poi lo vedi dalla parte del fantasma, di certo vedermi fare il secondo esorcismo deve avergli messo una strizza tale che non mi permetterà di avvinarmi. Con un sospiro faccio un passo, lo spirito striscia più verso il muro. Se lo attraversa sarò costretta a inseguirlo per tutta la città. Non ne ho il tempo, la forza e mi fa pure male la gamba! Alzo le mani, in segno di resa. Spero con tutto il cuore che nessuno si affacci da qualche finestra, perché sarebbe un bel colpo per la mia sanità mentale. «Va bene. Va bene. Non faccio nulla. Voglio solo parlare.»
Lo spirito emette un suono strozzato. Molto bene. Da qui a farsi capire bene la strada sarà molto lunga. «Vedi? Non sto facendo nulla.»
   «Ho … ho visto! Escono … escono … le tue mani luccicano!»
Lie è a braccia conserte di fianco a me. Aiutarmi? No, non se ne parla. Meglio guardare altezzoso il ragazzo. Quello sì che può essermi d’aiuto. E le mie mani a neon di certo non semplificano le cose. Dovrò farmi spiegare da Lie se con i guanti i fantasmi smetteranno di essere più terrorizzati dalle mie mani che dall’esorcismo in sé. «Lo so. Non ti voglio fare del male. Io sono solo un’esorcista. Sono …» Che avevo detto la prima volta che Dalila aveva preso il controllo del mio corpo? «Io sono un mediatore di Dio … e una cosa che trapassa.»
   «L’arma del trapasso.» Mi viene in soccorso Lie.
   «Mi chiamo Dalila e sono un’esorcista. Io … è un po’ strano parlare con te, perché in effetti di solito vi mettete in fila per farvi esorcizzare.» Tralasciamo lo spirito di secondo livello, che era un po’ ritroso ad avere a che fare con me.
Di risposta, il ragazzo arretra di qualche centimetro. Non ci siamo. Lie sospira. «Che aspetti? Esorcizzalo e basta. Quando sarà dall’altra parte avrà tutto il tempo di accettare la sua situazione.»
   «Non posso farlo! Guarda: ha paura di me. L’esorcismo dovrebbe aiutare gli spiriti ad accettare la loro morte. Come posso imporlo a lui?»
   «State parlando di uccidermi!»
Lie scuote la testa. «Affatto. Sei già morto e l’omicidio implica almeno un vivo. Lei ti vuole solo aiutare ad andare dall’altra parte.»
   «Dall’altra parte? In … in Paradiso?»
   «O all’Inferno, per noi è indifferente.»
   «Lie!»
Il ragazzo si affloscia come un lenzuolo a terra. Sì, esatto. I fantasmi svengono e io non smetto mai d’imparare. Questa volta il mio vizio gli gira le spalle. «Ora lo puoi esorcizzare.»
Mentre richiamo le catene ho un nauseante déjà-vu: ho la certezza che prima o poi mi ritornerà in mente i veri sentimenti che avevo contro quel dannato bugiardo.
 
† † †
 
            Mi sento sfinita dalla giornata. Tra la chiacchierata con Ridley, l’aver percorso secoli con Lie, l’aver esorcizzato due spiriti nel giro di poco tempo, la raccapricciante scoperta che ci sono anche spiriti di secondo livello (fino alla mattina ignoravo di aver avuto a che fare solo con quelli di primo) il mio corpo richiede riposo. Sono certa di aver fatto passi da gigante. Mi tiro la coperta fino alle spalle, gli occhi mi si chiudono all’improvviso.
Ho male ovunque. Le gambe, le braccia, il solo respirare è un dolore al di là di quello che posso sopportare. Delle mani rudi mi stanno trascinando, apro gli occhi quel tanto da vedere i miei piedi, scalzi e insanguinati, zampettare senza forza. Volto appena il capo per guardare i due uomini che mi trasportano, ma non ho la forza di riconoscerli. Quasi mi temano, abbassano l’elmo e di loro non vedo neppure il profilo delle labbra.
Un ciuffo di capelli neri mi scivola dalla fronte, annebbiando la vista. Sono stanca. Ho bisogno di riposare.
Una guardia lascia la presa, l’altra mi stringe il braccio e l’osso, già incrinato dalle percosse, mi sembra sgretolarsi come una pergamena al fuoco. L’ultimo tratto lo faccio in piedi, ansimante, e quando vengo gettata a terra non ho la forza di alzarmi. Il profumo confortante della terra. Affondo una mano sul terriccio secco, un’unghia mi si stacca di netto.
Altre mani mi sollevano, qualcuno mi tira i capelli e fa alzare la mia testa. Ho la gola arida quando vengo legata al palo. Dietro la mia schiena, sento quel pezzo di legno che sono costretta ad abbracciare. Anche tu, come me, sei un condannato? Sono triste e ho paura. Il mio cuore è lacerato in così tanti punti che il futuro è solo la giusta punizione, per me. Questo non mi consola.
Il liquido che mi gettano addosso snebbia la mia mente, mi dibatto contrariata. Un prete dalle mani tremanti mi bagna dolcemente le labbra. Se muoio nel rancore, rimarrò aggrappata a questa vita come uno degli spiriti che combatto? Però il rancore non racchiude tutta la mia anima. Forse quello mi salverà. Quella piccola scintilla che non sono riusciti a estirpare, forse quella mi impedirà di ritornare in altra forma.
Un alto uomo incappucciato mi si avvicina, mentre il prete inclina la testa e arretra di qualche passo. Non vedo il volto dell’uomo, ma lo riconosco. Ogni lembo di pelle ancora attaccata alle mie ossa conosce le sue mani, le sue fustigazioni, i suoi silenzi. Quello mi ha recato più danno: il fatto che fossi torturata senza neppure aver la possibilità di parlare.
L’Inquisitore mi fronteggia. So come si sente. Lo vedo dal petto esteso, dalla voce sicura. «Come vi dichiarate?»
Per un qualche motivo fisso la folla che sta aspettando. Punto i piedi sulla catasta di legna, mi rizzo in piedi. È così che muore un’esorcista, dritta, gli occhi aperti e la voce ferma. Ho la gola dolorante e i piedi sono conficcati nella legna secca e marcia. «Colpevole. Degli altri nomi di cui ho fatto menzione, che Dio possa perdonarmi, proclamo la loro innocenza. Solo io sono un vessillo del male.»
Perché quelle parole mi lacerano come la sua spada non era riuscita a fare? Perché la sua risposta mi giunge lontana e, allo stesso tempo, mi distrugge.
Qualcuno lancia una fiamma sulla catasta di legna. Chiudo gli occhi e una lacrima mi scende sulla guancia. Ci sono dei nomi, lo so, ma non li ricordo. Ci sono dei volti, marchiati nel mio cuore, di cui non ho menzione. Li sto pensando, mentre urlo alle fiamme a contatto con i miei piedi. Urlo e qualcosa mi si scioglie tra le dita.
E urlo, come se potesse il dolore sovrastare le ferite della mia anima.
Qualcuno mi scuote. «Amabel!»
Apro gli occhi e mamma mi sta fissando. Ha i capelli arruffati e lo sguardo atterrito. Devo aver urlato nel sonno. Ho male alla gola e respiro a fatica. Lie è seduto sulla scrivania, anche lui sospettoso del mio incubo. La allontano un attimo da me, scoprendo le lenzuola. Una chiazza di sangue si è formata a formare una farfalla vermiglia dove, arrossati, emergono i piedi. Lì, fino alla caviglia, si sono formate le bolle di liquido come se il mio sogno, che ora so essere solo il mio passato, avesse tentato di farmi rivivere nuovamente il modo in cui sono morta.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** 15 ***


15
 
 
 
          Mamma sta parlando con l’infermiera del Pronto Soccorso. È nervosa, urla un po’. Non capisce cosa mi è successo e ha la certezza che io non mi sono ustionata così, da sola e senza fuoco. Per di più profondamente addormentata. Edward ha appoggiato la testa sulla sedia e sta dormendo, il suo piccolo petto si alza e abbassa al ritmo del suo respiro.
Fisso i miei piedi, ormai medicati, chiedendomi se è normale. Va bene un sacco di cose, ma risvegliarsi nel cuore della notte perché il tuo passato ha cercato di farti fuori non è da tutti i giorni. Lie è ipnotizzato dalle mie gambe e da quando mi sono svegliata sembra essere immerso in un mondo tutto suo.
   «Ti fanno male?»
   «No.» Mento.
Subito dopo averlo detto, mi rendo conto che Lie sa quando dico la verità. Lui non si esprime. Mi fanno male le gambe, è ovvio. Sono preoccupata perché io, tra quelle fiamme, ci sono morta. Se mia madre non mi avesse svegliato, cosa sarebbe successo? Avrei continuato a dormire, morendo nel sonno?
Alzo lo sguardo. Mamma si sta arrabbiando ancora, con la dottoressa chiamata dall’infermiera. Non è quella la soluzione. Mamma può arrabbiarsi quanto vuole, ma non è quella la soluzione al mio problema. L’infermiera guarda il match desolata, la dottoressa si sta spazientendo e mamma, già provata, ha raggiunto un tono di voce allarmante. Mi rannicchio nella poltrona e, nel farlo, mi tocco le gambe. Delle scosse tipo trapanature si irradiano dal piede fino alla coscia. Emetto un gemito.
   «Lie, è normale?»
   «Non so. Supponevo che, prima o poi, iniziassi a ricordare qualcosa della tua precedente vita. L’assenza di ricordi mi stava allarmando. Tuttavia, non immaginavo che il rivivere la tua morte potesse avere ripercussioni sulla tua vita presente. Il passato è passato.»
Ed si muove nel sonno. Mi alzo piano, più per il male che per paura di svegliarlo, usando le due sedie della stanza come giaciglio. Sono in una stanza con tre letti, tutti vuoti. Io stessa mi ero rifiutata di stendermi e sto ancora seduta su una piccola poltroncina dall’imbottitura rigida. Lie è coricato sul letto, ma la sua presenza non fa testo. Mio fratello non si muove quando lo tocco per sistemarlo meglio in quel giaciglio approssimativo. Il piccolo ha un sonno pesante. «Ho sognato come sono morta.»
   «Lo immaginavo. Sono ferite da rogo.»
   «Allora perché?»
La domanda mi muore in gola. Lie scuote la testa, abbandonando la sua attenzione dalle mie gambe. Incrocio i suoi occhi e so che in quel momento ci capiamo alla perfezione. «Davvero, non lo so. Forse … forse sono ferite maledette. Ma maledette da chi? E dopo secoli direi che non può esserci nessuna maledizione, passata o futura, che può provocare danni del genere.»
La lista di tutto ciò che avevo pensato non esistere si sta allungando: fantasmi, esorcismi, reincarnazione, ora pure maledizioni. Aspetto con trepidazione il primo vampiro che mi si presenta alla porta. Possibilmente carino e anche con un’anima. Così evita di dissanguarmi. Non si sa mai. «Ferite maledette. Il nuovo giorno inizia meglio di come è terminato quello passato.»
Lie scuote la testa. «Non mi piace questo secolo. Potrai essere felice, qui, e hai le tue buone ragioni per non voler ricordare il passato, ma allora eravamo protetti.»
   «Questo non mi ha impedito di morire bruciata.»
   «Ci sono fatti che non mi sono chiari. Quando ti hanno catturata, ti hanno indebolita e non sono stato in grado di muovermi.» Fisso Lie. Lui è parte di me, il mio vizio più segreto. Se io sono ferita, lui è ferito; se io muoio, lui segue la mia sorte. Appoggio il mento sulla mano. «Dalila, tu mi hai fermato e io non posso dirti quello che è successo. Non l’ho mai saputo. Nel passato, però, avresti avuto la protezione della Chiesa. Qualcuno ti avrebbe dato delle risposte.»
   «Risposte a cosa? Al perché porto i segni del rogo nelle gambe? È stata la Chiesa, a farmeli. Non ho domande da fare a nessun uomo di Chiesa, non le avrò mai.» Perché provo odio per tutte le figure clericali? Non per la religione, per la Chiesa come figura astratta, ma per la sua parte più concreta. Mi passo con un dito le bende alle caviglie
Sento dei passi riottosi, poi mamma prende una sedia appoggiata al muro e la mette vicino a me e a Ed. Mio fratello ha un piccolo gemito, alzo lo sguardo per vederlo sorridere soddisfatto e continuare il suo sogno. Mamma mi scosta i capelli dalla fronte. Chiudo gli occhi, pensando alla sua mano che senza pensarci, in un suo tipico tic, mi allontana i ciuffi dalla faccia, fino a quando il mio volto sembra sbocciare dal nulla.
Con gli occhi della mente, vedo un volto diverso da quello di mamma, ma con alcune caratteristiche simili: le piccole rughe intorno agli occhi dolci, le mani che cercano il contatto. Quella deve essere stata la madre di Dalila. Apro gli occhi, rendendomi conto che se è sua madre, significa che in parte è anche la mia.
Mamma sorride. «Stai bene?»
   «Sì. Non mi fanno più male.» Lie sbuffa, distraendomi e obbligandomi a guardare il posto vuoto che lui in realtà occupa.
Mamma segue il mio sguardo, io scuoto la testa e il ciuffo che ha tentato di allontanarmi dagli occhi mi ricade dov’era. «Niente. La solita mosca che non sono riuscita ad uccidere.»
Alle spalle di mamma, vedo la dottoressa che consegna dei fogli all’infermiera. Parlano così piano che nel silenzio del Pronto Soccorso sento appena il fruscio. La soluzione non è lì. L’ospedale non troverà nulla, perché non mi sono fatta del male. Le ferite possono negare la mia affermazione, ma io so che è vera. Cosa potrebbero trovare? I segni dei ceppi incandescenti che sfrigolavano a contatto con la mia pelle? Solo a pensarlo è assurdo. «Torniamo a casa?»
Lo dico con il tono più fanciullesco che il mio repertorio ha da offrire. Mi sembra falso al mio stesso orecchio, ma mamma mi scosta di nuovo i capelli dall’orecchio e mi sorride. «Sì, adesso torniamo a casa. Chiameremo l’ospedale in settimana per avere i risultati. E se succede di nuovo …» La sua mano trema appena a contatto con la mia pelle. «… rimani qui in ospedale finché non ci diranno che cos’hai.»
Risultati che saranno inutili, quanto il rimanere un anno dentro quelle pareti asettiche. Mi infilo le ciabatte lentamente, dando il tempo a mamma di prendere i fogli della dimissione e alzare un altro po’ la voce contro la dottoressa. Titubante mi alzo in piedi. A parte un leggero male, simile a quello che ho dopo un estenuante allenamento, mi reggo bene in piedi e all’accenno di un passo vedo che la mia camminata è tutto sommato stabile. Ottimo.
Lie è in piedi al mio fianco, le mani infilate nei pantaloni. Sospiro, fissando mamma che chiede delucidazioni all’infermiera. Mi sono persa la parte in cui la dottoressa, sicuramente inveendo con quella donna, si è allontanata. «Perché continui a usare la proiezione del bambino?»
Lie muove le dita, come in uno spettacolo di magia. «Rispetto all’essere un solo vizio, avere la proiezione di un fantasma mi permette di avere più mobilità. Inoltre, ho fatto un patto con quello spirito. I patti tra fantasmi non sono facili da rompere e, visto che il proprietario di questo corpo è già andato oltre, mi è impossibile abbandonare questa forma.»
Guardo l’ora che lampeggia sopra alla porta. Colpa mia, ad avere fatto un’osservazione così stupida alle due di notte. Me ne assumo la colpa. Mamma si carica Ed in braccio, io prendo le carte e mi incammino. Sento lo sguardo di mamma e cerco di trattenere qualsiasi smorfia di dolore. Non è così faticoso: effettivamente non mi duole in maniera eccessiva.
   «Sarebbe meglio se non me lo chiedessi.»
Mamma ha appena varcato la porta elettronica, per uscire nel parcheggio. Socchiudo gli occhi colpita dalla fredda brezza notturna, con la certezza che non posso in alcun modo rispondere a Lie per la presenza dei miei familiari. E lui lo sa. Inclino la testa di lato, rallentando l’andatura e dando modo alla porta di chiudersi dispettosa di fronte a me. Seguo lo sguardo di Lie, verso la mia sinistra, dove una coda ballonzolante conosciuta segue la scia di un uomo corpulento.
   «Qualunque questione sia, Dalila, è troppo delicata perché io possa parlarne.» Continua Lie, aspettando come me l’apertura della porta. «E sappiamo entrambi che se tu lo volessi, io non potrei nasconderti nulla.»
Abbasso lo sguardo, colpita per la seconda volta dalla brezza notturna e da mamma che mi sorride, nello spiazzo vuoto della fermata dell’autobus.
Mi ritrovo a sorridere di risposta, mantenendo il gelo all’interno di me. Perché nulla che obbliga Mary e suo padre a entrare alle due di notte in ospedale, può rendermi felice.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** 16 ***


16
 
 
 
           Mary non è venuta a scuola. Fisso il suo banco vuoto, chiedendomi il perché della sua assenza. Da quando ho incontrato Lie e Ridley, mi rendo conto che sono stata più sfuggente del solito. Visto dal punto di vista delle mie amiche, la strigliata di Julia mi sembra del tutto giustificabile. Mi sono completamente dimenticata di loro e delle loro necessità. Prima sono stata presa dall’assassinio di quello che è ora la proiezione di Lie, poi dalle indagini sulla non-morte di Ridley, frammentate dalla verità sul mio passato. Sono una pessima amica.
In questo periodo sono in grado solo di fare imbestialire le persone. Anche il modo in cui ho spiegato la mia ipotesi a Ridley, solo il giorno prima, mi sembra essere stata dispettosa. Non vai a dire a uno che crede che è morto «ehi, guarda che ti sbagli e io credo che tu sia vivo». Non si fa e basta. Soprattutto perché io non ho avuto nessuna conferma pratica su quel punto. Solo una sensazione trasmessa da Dalila, che mi diceva solo che uno spirito ricorda sempre come è morto. Se Ridley non lo ricorda, deve conseguire semplicemente che è ancora vivo, giusto? Meglio fare una capatina a confermare almeno quel punto. Non vorrei aver dato troppe speranze a Ridley e, visto che è da ieri che non torna, avergli dato la speranza che ritrovando il suo corpo basti saltarci dentro.
Reprimo uno sbadiglio, girando la testa per incrociare lo sguardo di Julia. Se sta scrivendo, deve riuscire a farlo senza penna, senza inchiostro e solo con il pensiero, visto che il foglio è dannatamente vuoto e la mano è sospesa a un centimetro dalla carta. Prima di allontanare la mia attenzione dalla classe dietro di me, vedo che Alex, nel banco dietro a Julia, mi sta fissando. Sillabo lentamente «grazie» per avermi difeso il giorno prima. Lui sorride, mi mostra i palmi delle mani vuote, e poi se le passa ripetutamente sul petto, contrariato. Corruccio la fronte, prima di riflettere con che persona ho a che fare. Vaffanculo. Gli volto alle spalle, sentendolo sghignazzare. Già, è Alex. Lui non mi chiama “senza-tette”? Aspettarmi un atteggiamento gentile è stato molto ingenuo da parte mia.
La campanella suona la fine delle lezioni, io mi prendo tutto il tempo per mettere i libri nello zaino. Potrei fare un salto nell’armadietto, ma in effetti tutti i libri che mi servono ce li ho a portata di mano. Forse, però, sarebbe il caso di prendere il libro di storia, tanto per sapere che argomento trattiamo e non essere costretta a inventarmi una scusa su due piedi e cercare in internet informazioni sulla Seconda Guerra Mondiale. E, almeno che io non sia così manchevole, non dovrebbe essere il programma di quest’anno.
Cammino lentamente. Se tornassi a casa, non ho nulla da fare. A parte studiare, è ovvio. Mamma ha il turno di riposo, quindi se c’era da pulire in casa lo ha fatto, andrà a prendere Ed, il frigo sarà rifornito e sarà andata da nonna per fare assistenza a papà. Io, quel giorno, sono inutile.
Apro l’armadietto, una lettera ne sguscia fuori dispettosa. La prendo titubante. Non c’è scritto né mittente né destinatario. Può essere destinata a me come a chiunque nella scuola. Mi mordicchio le labbra, appoggiando lo zaino a terra e estraendo il libro di storia tra altri tomi. Lo infilo senza tante cerimonie nello zaino, soppesando ancora la lettera. Però c’è da dire che è nel mio armadietto. Non mi costa nulla aprire la missiva, dare una veloce occhiata e portarla al destinatario. Con uno sbuffo, chiudo l’armadietto appoggiandomi. Con uno strappo, la busta mi rivela il contenuto. Consiste in due biglietti e una lettera. I biglietti sono per entrata e consumazioni in un piccolo teatro, dove so che nella data del cinque dicembre gli Amantine si esibiranno. Gentili a offrire lo spettacolo. Apro la lettera.
 
Per Amabel Wright,
nella speranza che prima del concerto tu possa espiare le tue colpe.
P.C.
 
            Sollevo un sopracciglio. Chiaro come l’oro, so che non è un regalo. È più che altro una minaccia. Una minaccia che questo P.C. spera accada prima del cinque dicembre. Siamo a ottobre, quindi la minaccia ha un mese e mezzo prima che si realizzi. Infilo la lettera in borsa, in una parte della mente che potrò sempre recuperare al tempo debito. Per lo meno, adesso ho la certezza che la lettera fosse destinata a me.
 
† † †
 
            Quando esco dal cortile della scuola, mi sorprendo a trovare parecchi gruppetti intenti a parlare. Gruppi al massimo di tre o quattro persone, in cui spicca per maggioranza i ragazzi che poi faranno l’allenamento di calcio. Lowry è ammalata, quindi è una fortuna che io mi sia fatta male le gambe proprio nel giorno in cui è assente.
Tra i ragazzi vedo il profilo battagliero di Chase. Alza la testa nel momento in cui mi volto a fissarlo. Istintivamente alza una mano in cenno di saluto e io gli faccio ciao. Abbasso la mano sconfitta dalla stupidità del gesto, neppure fossi una bambina di sei anni. I ragazzi fischiano e quando guardo Chase gli stanno dando dei buffetti. Beh, sembrano proprio pugni, almeno dallo schiocco. Un ragazzo dalla voce tonante lo redarguisce. «Ti sei fatto la ragazza.»
Dannazione. Abbasso la testa e me la filo alla chetichella, prima che qualcuno abbia la brillante idea di prendermi e portarmi in mezzo alle belve.
Quella piccola deviazione mi ha fatto dimenticare il mio obiettivo della giornata. Non è la lettera, che mi sembra pure puerile, e non è l’appuntamento di Chase. Ci metto un po’ a pensare che dove voglio andare è esattamente il posto in cui Ridley mi ha detto che ero in pericolo. Ho una maglia con il cappuccio, quindi me lo tiro su fino alla fronte e lascio che l’unica parte che si veda siano solo le labbra. Il tempo aiuta, mantenendo quella sua caratteristica uggiosa. Quando andai alla stazione di polizia, ero ancora traumatizzata dalle catene e dal fatto che poco prima ero stata obbligata ad andare a Maiden Street. Ora … beh, ora so che le catene sono una parte di me, che sono un’esorcista e anche se continuo a essere terrorizzata da quello che sono, posso accettare un confronto. Ricordo che il poliziotto mi disse che chi si occupa del caso è un certo Tobia Light. Strano come io, che confondo i nomi di tutti gli imperatori, generali o che altro che mi capita di trovare nel libro di storia, ricorda un nome sentito una sola volta.
Mi porto una mano alla bocca. «Lie, vieni da me.»
Non so come funziona, ma se in passato gli ho detto di non venire da me, deve valere anche dal verso opposto. Mi fermo un attimo, per allacciare una scarpa e per controllare se il mio richiamo ha dato i suoi frutti. Può anche avermi deliberatamente ignorato. «Lie, è un ordine.»
   «Lo avevo intuito dal primo appello.»
Il nodo che ho appena fatto si scioglie al primo sussulto. Alzo lo sguardo per vedere Lie che ride. Si diverte a vedere che non mi sono ancora abituata. «Come mai volevi vedermi con tanta urgenza?»
Mi porto una mano alla bocca. «Dobbiamo andare alla stazione di polizia per parlare con il detective che si occupa del caso di Ridley.»
   «Temi che non sia in coma?»
Alzo le spalle in un gesto non compromettente ma tanto ci basta. Il posto è come lo ricordavo, con la sola eccezione che la presenza del mio vizio mi rassicura. Certo, l’edificio si presenta sempre alto, io ne sono intimorita e di risposta mi nascondo di più dietro al mio cappuccio.
   «Attiri l’attenzione.» Mi riprende Lie, facendo cenno di alzare il mento. «Ricorda: non possono farti nulla. Sei minorenne e hai qualcosa che loro non hanno. Sai capire se mentono, Dalila.»
L’ultima parte la dice quasi con uno sbuffo, tirando fuori un sorriso. Mi sfilo il cappuccio, muovendo i capelli e facendo uscire il biondo dal grigio. Fermo al bancone c’è un altro poliziotto, che mi fissa curioso. «Salve.»
Accenna lievemente con la testa a un saluto, attendendo. Ecco, quella è la parte che mi piace di meno. E poi ho un’illuminazione. È tutto così semplice. «Il signor Scott Ridley mi ha detto di presentarmi qui.»
L’uomo alza un sopracciglio, io sbatto le ciglia cercando di sembrare una dodicenne invece di sedicenne, stupida invece …. Beh, lì non ho molti problemi. «Ti ha chiamata lui?»
Scuoto la testa con veemenza, facendo sbatacchiare i capelli sulla schiena. «No. Lui, ecco … lui mi ha detto che potevo chiamarlo se avevo problemi ma … ecco, non risponde.» Ovvio che non risponde, visto che è un fantasma. Mi costringo a fare una pausa prolungata, cogliendo l’occasione per guardarmi alle spalle. Se la carriera da esorcista non dovesse fruttare soldi, posso sempre puntare a fare l’attrice. «Non mi piace tanto stare qui. Da fuori mi vedono.»
L’uomo mi fa cenno di andare dietro al bancone, così nessuno può vedere quello che faccio. E ho la certezza che lui se l’è bevuta. Lie sospira, sedendosi sulla sedia. La vedo ondeggiare pericolosamente, obbligandomi a stringere il polso del poliziotto. «Dov’è il signor Scott?»
   «Al momento non può venire qui.» Forse sono stata troppo convincente e crede che sia così piccola da non accettare le sue reali condizioni. Lo sento soppesare le parole, prima di pronunciarle. «Che cosa ti ha detto, esattamente?»
Mi obbligo a deglutire. Sono convinta pure io delle mie emozioni. «Mi ha detto che se avevo dei problemi potevo o chiamarlo o venire qui. E … e parlare solo con lui o … o con un’altra persona che non conosco. Credo che si chiami Light, o qualcosa del genere.»
Abbastanza platealmente, con quell’ultima frase gli avevo appena fatto la linguaccia e negato che potevo parlare con lui. Era d’obbligo che chiamasse Tobia Light, cosa che non richiese neppure un minuto. Fisso Lie, che giocherella con i piedi, facendo oscillare la sedia. Quando alzo un sopracciglio, decide che è il momento di piantarla. Il poliziotto mi mette una mano sulla spalla, io fingo di pendere dalle sue labbra. «Ora devi prendere l’ascensore, andare al secondo piano. Lì troverai un uomo, Tobia Light. È il partner di Scott. Di lui si fida.»
   «E lui dov’è?»
   «Non ti preoccupare. Lui sta bene.» Gli farei incontrare Ridley per chiedergli se questo è stare bene, ma mi limito a un cenno con il capo e a salire sull’ascensore. Appena di aprono le porte, ho appena il tempo di guardare che mi trovo davanti a un ampio atrio con delle vetrate, dietro alle quali ci sono delle persone in divisa che camminano in un lento andirivieni, quando un ragazzo blocca la mia visuale.
L’ho definito ragazzo, anche se i suoi modi giovanili sembrano un po’ forzati. Ha corti capelli ricciuti, che gli incorniciano il viso dalla mascella quadrata. Ha un piccolo naso a pallina e delle labbra sottili che mi aprono in un sorriso quando mi vede. Gli occhi, nocciola, sono quasi di ghiaccio. Quello, più l’altezza non indifferente e quella leggera prominenza sulla pancia mi fa corrucciare la fronte. Quello davanti sembra più un uomo da Battaglia Navale che da Cluedo. Mi allunga una mano, che stringo prima di farmi travolgere da un brivido. L’uomo non mi piace.
   «Piacere, sono Tobia Light. E tu, come ti chiami?»
   «Mary White.» Ho pensato d’istinto a Mary e a Julia. Ed è preferibile un cognome come quello di Julia, rispetto a quello di Mary: immagino che sia facile individuare che in città non ci sia nessuna Julia Costela.
   «Ci sediamo, mm?»
Indica un paio di sedie vicino all’ascensore. Non mi serve il monito di Lie per capire che devo stare attenta all’uomo. So che quella è una delle persone che Dalila chiamava “Caino”. Non so che significa, se non che non è un complimento.
Appena mi siedo, la domanda mi parte spontanea. Non ho più l’interesse di farmi passare per una debole ragazzina, quindi accantono moine varie. «Dov’è il detective Scott?»
    «Dritta al sodo. Durante un appostamento, Scott è stato ferito. Al momento è in ospedale. Le sue condizioni non sono gravi, quindi stai tranquilla.»
Non sono agitata per Ridley, ma per il fatto che l’uomo ha stretto la mano a pugno come se non apprezzasse qualcosa. Fisso davanti me, dove gli uomini continuano a camminare. Light si insinua nella mia mente. «Sì, siamo un po’ indaffarati. Stiamo cercando una persona.» Sorride, ma gli occhi rimangono freddi. «Un omicida ha detto di aver incontrato una ragazza e che lei gli ha procurato quelle ferite alle mani.»
Ferite alle mani? Omicida? Lie si alza, attraversando la vetrata e andando a osservare da vicino la situazione.
Mi inumidisco le labbra. «Oh. E l’uomo sta bene?»
   «Oh, sì sì. Sta bene. È solo sotto shock. Continua a ripetere che le uscivano le catene dalle mani. Non è molto credibile.» Bene. Sono ricercata pure dalle Forze dell’Ordine, casomai essere un’esorcista, avere una vita sociale che fa schifo e portare i segni di quando morii sul rogo in passato fossero poco. Per lo meno, il fatto che l’uomo avesse nel frigo il corpo del bambino potrebbe far capire alla polizia che è lui, il cattivo, e non io. «Come mai cercavi il detective Scott?»
Ahn, già, lo cercavo. Beh, sì. «Sono di Maiden Street.» Gli occhi di Tobia Light lampeggiano e capisco che ha paura prima ancora di saperne il motivo. «Il detective mi ha detto che se ci fossero stati problemi avrei dovuto venire da lui.» Mi avevano inseguito con un coltellino svizzero: innocenti non lo sono di certo. «Dei ragazzi, non so come si chiamano, hanno preso il controllo della zona vicino al ponte. Ogni volta che ci passo mi inseguono con i coltelli. Mi fa paura, tornare a casa.»
Mi appoggia una mano sudaticcia sul ginocchio. «Che ne dici se facciamo così: ti accompagno a casa e tu mi indichi i ragazzi così ti aiuto.»
Sta mentendo. E non so su cosa. Fisso gelida la mano sul ginocchio, lui la ritira di scatto. Lie compare. «Non sanno niente di te. Lui non mi piace. E qui possiamo dire che abbiamo finito.»
Mi alzo gelida, chiamando l’ascensore con un pugno. «Non si preoccupi. Vado a dormire da una mia amica.»
Prima di infilarmi dentro, vedo i suoi occhi fissarsi su ogni centimetro del mio viso. Sbuffo, mentre lentamente l’ascensore scende e io smetto di tremare. Soffio di nuovo. «Non sono certa che Ridley sia stato ferito durante un appostamento da fuoco nemico.»

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** 17 ***


17
 
 
 
       Ho dei pantaloni jeans attillati e una maglia, altrettanto stretta. Mi guardo di profilo, sentendomi tradita dal mio stesso corpo. Mamma e nonna hanno un seno prosperoso, potevano regalarmene almeno un po’ a me! Per il resto, mi sento tutto sommato carina per fronteggiare Chase.
Sono felice di non dover affrontare mamma o Ed: entrambi farebbero domande inopportune. Già mi ero sorbita gli occhi lucidi di mamma, prima di andare a lavoro. Ho la certezza che avrei dovuto spiegare un bel po’ di cose. Edward, dalla nonna, mi dava sicurezza. A meno che non parlasse con nonna di dove andavo al pomeriggio, il che significava che si sarebbe fatto un affare di stato come con la mia prima mestruazione. Sono ancora convinta che nessun familiare prepari una torta con una bella candelina per festeggiare il lieto evento. Ne ho quasi la certezza.
Guardo lo specchio, non vedendo nulla alle mie spalle. Strano. Sento quasi la presenza di qualcuno. Mi metto un po’ di matita nera sotto gli occhi, così da farli sembrare più piccoli e accentuare il grigio azzurro delle iridi. Mi sciolgo i capelli, muovendoli e cercando di renderli più voluminosi.
Mi giro, sobbalzando. «Lie!» Sibilo adirata. Mai entrare in un bagno quando c’è una ragazza! Non è buona educazione.
   «Che c’è? Ti conosco da secoli e so ogni cosa di te. Mica mi scandalizzo se ti vedo seduta nel water.»
Parlare con Lie è come cercare di spiegare qualcosa a un bambino particolarmente viziato. Più ci provo, e davvero ci provo, più quello fa di testa sua. Sospiro piano, invocando un mio personale mantra: è già morto, non puoi ucciderlo; è già morto, non puoi ucciderlo. Non ha l’effetto voluto, ma per lo meno quando fisso Lie mi sembra di essere più ragionevole con lui. In fondo è un sociopatico bugiardo che casualmente si trova nel corpo di un bambino. Tutto nella norma. «Spero che Ridley sia più educato di te.»
   «Non c’è. Deve essere andato a fare un giro da qualche parte.»
Mi lascia ancora perplessa il fatto che un fantasma possa andare in giro come nulla fosse per la città. Non ha ancora metabolizzato tutta la questione del suo coma. E io non ho avuto il coraggio di parlare del mio incontro con il suo partner. Non mi piace a pelle, confermato anche da Lie, quindi tutte le supposizioni negative su di lui possono essere di parte. Scuoto la testa. «Perché sei in bagno?»
   «Mi chiedevo cosa stavi facendo.» Lie si mordicchia un labbro. «Perché ti vesti bene per uscire con un ragazzo?»
E Lie non capisce cosa significa essere una ragazza di sedici anni che ha un appuntamento. In effetti, Dalila doveva vedere i ragazzi, nel passato, molto meno di quanto vedesse i fantasmi. «Questo è quello che succede quando si ha un appuntamento. Ci si veste carini, ci si profuma per bene e si fantastica su quello che succederà. Si chiama essere adolescenti. Mai sentito?»
   «Quando uscivi nel passato mica ti mettevi in tiro.» Borbotta. «Avevi sempre il tuo abito e te ne andavi in giro armata. Hai intenzione di portarti via dei pugnali?»
   «Non mi aspetto di essere attaccata.» Seppur la lettera, vista da una delle ammiratrici di Chase, potrebbe avere un suo senso. Può esserci nella scuola qualcuna che si chiama P.C., in effetti.
Storce la bocca. «Sei piuttosto ottimista.»
No, qualunque cosa lui mi dicesse, non sarei andata in cucina e non avrei rubato dei coltelli! Mi aspettavo che gli spiriti, almeno per quel giorno, decidessero di essere clementi con me. E, ora che ci penso, forse i pugnali in passato mi servivano per i briganti, più che per i fantasmi. Mi passo la lingua sulle labbra e il poco lucidalabbra che mi sono messa è già nel mio stomaco.
   «Perché esci? Non l’ho ancora capito. Questo … questo ragazzo ti darà qualche informazione utile alla tua missione?»
Corruccio la fronte, sistemando il disastro fatto sul lavandino con la matita. «No, niente del genere.»
   «Quindi questo ragazzo non ha nulla a che fare con gli esorcisti?»
   «No.»
   «Perché allora perdi un pomeriggio dietro a uno che non ti aiuterà nel tuo compito? Dovresti essere in giro a esorcizzare e a riportare l’ordine in questo caos. Non è compito tuo fare da intrattenitrice.»
So per certo che l’ultima parola utilizzata da Lie, nel passato, poteva essere usato allo stesso livello di prostituta, quindi dimentico per un attimo che è un bambino. «Intrattenitrice?! Ora stammi a sentire, Lie. Mi va bene essere usata come antenna per gli spiriti e paletta per i morti. Davvero, nessun problema nel sentirmi dire vai a destra, vai a sinistra, esorcizza questo, fai quel altro. Però dimentichi una cosa importante: io non sono Dalila. Posso avere il suo spirito, non metto in dubbio che in passato posso essermi chiamata così, ma io sono Amabel. E si dà il caso che abbia sedici anni e, magia, un appuntamento con un ragazzo. Per un giorno, un solo giorno, vorrei essere una normale ragazza che non vede fantasmi, che non si sveglia di notte urlando perché nel suo passato l’hanno bruciata viva e, di certo, non voglio neppure dare la caccia a qualche assassino. Riassumendo: oggi non voglio essere un’esorcista, non voglio essere Dalila e di certo non voglio essere mandata a zonzo per la città alla ricerca di chi ha ucciso Ridley. Chiaro?»
Lie annuii serio, grattandosi il naso con un dito. «Chiaro. Solo una curiosità: questo sfogo è quello che viene definito classico nella ribellione adolescenziale, è la sindrome premestruale o qualcosa che non ho ancora capito di questo secolo?»
   «Non so. Credo che dipenda tutto dal fatto che l’essere o meno il mio vizio ti renda più o meno suscettibile a prendere i calci nel culo dal tuo esorcista.»
Lie mi sorride, inclinando la testa. «Beh. Allora buon appuntamento.»
Sbatto la porta del bagno. Possibile che per uscire di casa debba subire il terzo grado da qualcuno che non è mai stato in vita? Fortunatamente Ridley non è in casa, perché sono certa che anche lui considerasse del tutto fuori luogo la mia uscita.
Mi devo trovare con Chase al parco vicino alla scuola. Arrivo con cinque minuti di anticipo e mi metto all’ombra di un grande albero. A naso in su, guardo le sue fronde. Già, nel passato non dovevo essere uscita granché. Un po’ mi dispiace per Dalila. La sua vita doveva essere stata abbastanza solitaria. Eppure, dai brevi sprazzi che mi è stato concesso ricordare della sua vita, non mi sembrava. Anche quando stava bruciando nel rogo, seppur in quella occasione la mia mente era poco propensa a metabolizzare la cosa, lei pensava alle persone che si stava lasciando alle spalle. Persone di cui io non riesco neppure a ricordare i volti. Intorno a me c’è un gran vociare, persone che parlano, bambini che urlano, cani che abbaiano e quell’uccellino che ha attirato la mia attenzione si sta dedicando a un po’ di toelette in bella vista.
   «È una quercus petraea.» Chase mi ha affiancato. Per l’occasione ha indossato una maglia a maniche corte e un paio di jeans. Sembra quasi un sedicenne un po’ precoce. Si passa distrattamente la giacca in pelle da un braccio all’altro, prima di fissare l’uccellino che si stava preparando per spiccare il volo. «E quello è un plintimus
Abbozzo un sorriso. «Non sarò un genio, ma sono sicura che quello è un passero e non quello che hai detto.»
Ride, indicando un cartellino a una manciata di passi da lui. «Per lo meno non hai nulla da obiettare sulla quercia. Avevo una pronuncia latina impeccabile.» Passa una mano sulla mia schiena, accompagnando la mia camminata. Mi lancia uno sguardo penetrante, prima di sorridermi di nuovo. «Stai veramente bene.»
   «Grazie.»
Per la prima volta da quando sono nata so di essere carina solo dallo sguardo del ragazzo al mio fianco. E mi piace. In tutta quella bolgia che è la mia vita, mi piace.
 
† † †
 
          Sono tornata a casa dopo un bel pomeriggio. Ho ancora il sorriso sulle labbra quando apro la porta della mia stanza, seppur non abbia fatto altro che parlare del più e del meno con un ragazzo della mia scuola. È sorprendente come l’immaginazione collettiva avesse immaginato Chase il ragazzo irraggiungibile, quando in realtà era un comune ragazzo che faceva pure battute. Per gli standard dei miei compagni di classe, anzi, è stato un cavaliere. Non ha provato a forzarmi in nulla, non si è abbassato a guardarmi il seno, e a dir la verità non si è perso niente, non mi ha forzato nel saluto del pomeriggio.
Mi ha accompagnato nella mia via, abbiamo parlato altri cinque minuti e poi se n’era andato. Un pomeriggio con niente di particolare in cui il tempo era volato. Ho, in ogni modo, la strana sensazione che abbiamo solo scavato in superficie. Strana impressione. Mi sembra che entrambi ci siamo mossi in argomenti piuttosto piatti, con tutto l’intento di non esporci troppo.
Chiudo la porta della stanza e ritorno alla realtà, con Lie disteso sul letto in attesa. «Passato un bel pomeriggio?»
   «Sì.» Mi sfilo cautamente la collana, appoggiandola al comodino. «Lie, senti: quella cosa dei calci in culo non l’avrei veramente fatta.»
Il mio vizio ridacchia. «Sei una bugiarda. Lo avresti fatto eccome.»
Beh: può essere, almeno nel momento in cui mi ha definito un’intrattenitrice. Appoggio la borsetta alla sedia. «Che cosa hai fatto?»
Lie alza le spalle. «Niente. Me ne sono stato buono qui a fissare il soffitto.» Buon per me. Sapere Lie in giro, per quanto nella sua forma incorporea, mi mette a disagio. Ricordo poco di cosa è in grado di fare, ma ho la sensazione che sia molto più di un semplice fantasma. Troppo rischioso. Lui continua. «E ho detto a Ridley che sei uscita per un appuntamento.» E questo è molto dannoso per me.
Ormai ho tolto tutto ciò che posso davanti a Lie, il resto mi serve un po’ di intimità in bagno. Mi giro a fronteggiarlo. «Ti annoiavi troppo oggi pomeriggio, vero?»
   «Abbastanza.» Si limita a bofonchiare. «Poi è arrivato Ridley e ha iniziato a chiedere dove eri, se stavi indagando, a sbraitarmi contro perché me ne stavo disteso sul letto. Tra parentesi, non gli ho detto che sono il tuo vizio e che ti sei ricordata qualcosa del passato.»
Mi siedo sulla sedia, con un lungo sospiro. Gli avevo taciuto anche su quella parte perché, a dispetto di tutto, so che Ridley non si fida di me. Posso essergli utile per trovare chi lo ha ridotto in coma, ma la nostra collaborazione finisce lì. Se avesse anche solo il sospetto che pure in una mia vita passata ero un’esorcista e ora lo ricordo, pretenderebbe da me di più di quello che in questo momento posso offrire.
Socchiudo gli occhi, tendendo le orecchie. Ridley deve essere in cucina. Sento il lieve tintinnio che preannuncia un fantasma. E Lie ha appena abbozzato un sorriso, quindi si aspetta un bel po’ di urla. Mi alzo, esco dalla camera e vado in cucina, fingendo di aver bisogno di un bicchiere d’acqua. Già che ci sono potrei addirittura berlo. «Bentornato, Ridley.»
L’ho fatto sobbalzare. Buon per me. Troppo spesso i fantasmi entrano nelle mie stanze senza annunciarsi. «Sei tornata.»
Mi riempio il bicchiere e sorseggio piano. «Già.»
   «Sei una ragazzina.»
Ha tutto il tono e il desiderio di essere un’offesa, ma ho passato troppo un bel pomeriggio per prendermela. «Così c’è scritto nella mia carta d’identità. Sarebbe utile che tu mi dicessi quello che pensi. Oppure possiamo parlare di quello che ti dà fastidio. E non ho ancora capito cos’è. Quando hai chiesto il mio aiuto, sapevi che avevo sedici anni, che frequentavo la scuola e che avevo la mia vita di vivere.»
   «Tu hai accettato di aiutarmi.»
   «Te lo ripeto, Ridley. Sono un’esorcista e il mio compito è di esorcizzare. Il che significa che per me, aiutarti, equivale a legarti con delle catene e a farti andare oltre. Sono del tutto impreparata a spiriti come te. Devi lasciarmi del tempo.»
   «Io non ho tempo!»
Ridley ha sollevato il labbro, in tono di sfida. Stringe i pugni e io mi limito a sorseggiare il bicchiere. «Che intendi dire?»
   «Sono andato all’ospedale. Mi trovo al terzo piano, stanza 12. Non sono messo bene.»
Alzo le spalle, nel modo più indifferente possibile. «Non sono un medico.»
   «Devi farmi tornare nel mio corpo!»
   «Non ne sono in grado. Io posso accompagnare, posso aiutarti a risolvere il mistero della tua aggressione, ma in alcun modo io posso legarti al tuo corpo. Non è di mia competenza.»
Cerca di colpire il vaso di fiori sopra la tavola. La mano gli passa attraverso e, oltre a sentirsi ridicolo, ora è pure frustrato. «Cosa diavolo è di tua competenza? Non stai facendo nulla!»
La frustrazione di Ridley la capisco. Comprendo la sua rabbia. In alcun modo, tuttavia, posso muovermi e dargli ciò che vuole. Mi inumidisco le labbra, poi mi accuccio e sollevo i pantaloni. Le bende pulite sono ancora lì, sigillano le ferite ancora doloranti. Abbasso un poco i calzini, quasi appallottolando la punta dentro le ciabatte. A dispetto della sua rabbia, Ridley mi osserva scettico. Ho mentito anche su quello: non ho taciuto a Ridley di quello per paura di ciò che si aspetta da me. Ho mantenuto il segreto perché quelle stesse ferite mi fanno tremare. «Sono la reincarnazione di Dalila, un’esorcista che morì bruciata sul rogo nel 1400 dalla Chiesa. Ho sprazzi di memoria in cui ricordo il mio passato. Faccio incubi in cui sogno come sono morta.»
Non sono incubi, ma tralascio quella ovvia affermazione. «Ogni esorcista ha un vizio che guida la sua esistenza. Io sono Lie, la menzogna, e sono il vizio di Dalila.»
Ridley fissa Lie, appoggiato alla porta. Come per confermare una sua domanda, il mio vizio alza lentamente una mano e sfiora un foglio di carta vicino al tavolino. Questo ondeggia, prima di crollare a terra con un turbinante svolazzo. Il detective arretra di un passo. «Che diavolo siete voi due?»
Lie sorride. «Solo due che hanno a che fare con i fantasmi da molto tempo.»
Suona il telefono. Sono così vicina che in un passo ho preso la cornetta e me la porto all’orecchio. Mi sistemo pure i pantaloni. L’ultima cosa che voglio è mettere in subbuglio quel poco di Ridley che c’è nella stanza. «Pronto.»
   «Amabel.»
   «Mary, va tutto bene?» Controllo il telefonino in tasca. Ho ricevuto tre sue chiamate e un messaggio. La sento singhiozzare e colgo l’occasione per leggere. Sono pietrificata. «Mary, Carlos sta bene?»
Ha scritto poche parole, ma dal significato chiaro. Carlos ha avuto un’overdose. Ora è in coma farmacologico. Poche parole che mi pugnalano da parte a parte. Ridley corruccia la fronte quando vede che lo sto fissando. La mia amica sta ancora singhiozzando e poi, il perché è rimasta a casa da scuola, quella notte in cui l’ho vista in ospedale, tutto si sistema. E i miei problemi personali iniziano a farsi piccoli. «Devi dirmi dove sei.»
La sento trattenere un altro singhiozzo, prima di bisbigliarmi il nome dell’ospedale: lo stesso di quella notte, lo stesso di Ridley. «Va bene. Sto arrivando. Aspettami lì.»
Butto la cornetta, mi infilo le scarpe ancora davanti alla porta e mi precipito fuori di casa. Non voglio che mi seguano. Forse lo capiscono, forse non gli interessa. Quando giro le spalle vedo che né Lie né Ridley sono nella via. Ci sono troppe persone che conosco in coma. Troppe volte quella parola ha per me significato che non si sarebbero più ripresi. Sono arrabbiata con Carlos. È sempre stato un ragazzino precoce, un tredicenne troppo allegro e con fare da bulletto. Ma addirittura drogarsi! È assurdo. Sto cercando di combattere contro le stesse parole di Mary.
Ansimo quando entro in ospedale. È triste stare lì dentro, pure di domenica. C’è gente. Il piccolo bar nell’angolo sforna caffè a ritmo incessante e io mi lascio cullare dall’aroma, prima di dirigermi alle scale. Salgo fino al primo piano, poi fermo un’infermiera per chiedere la stanza di Carlos Costela. Estrae dalla tasca un quadernino e quello, più una sfilza di penne e il fatto che non fosse tanto più vecchia di me, mi fa sospettare che sia una tirocinante. Mi indica una stanza, a due porte da dove sono io. Annuisco, ringrazio o borbotto qualcosa di non meglio specificato prima di entrare. La stanza sa di pulito, di biancheria appena lavata e di bagnoschiuma. Un piccolo bip fa da sottofondo al silenzio del reparto. Si sentono appena le auto oltre la finestra. Il signor Costela si alza in piedi appena mi vede, facendomi un cenno con la testa. La signora, invece, stringe la mano di Carlos. So che gli sta chiedendo di aprire gli occhi. È una scena che mi si è presentata troppe volte con papà. Mary mi abbraccia. Sono lì, immobile, indecisa su cosa fare e comportarmi quando mi rendo conto che la mia amica sta piangendo sulla mia spalla. Le do dei colpetti affettuosi, la bocca impastata di tante frasi di convenienza. Il signor Costela mi volta le spalle, fingo di non notare le spalle che si alzano e abbassano a ritmo di singhiozzi.
Guardo Carlos steso sul letto. Sembra addormentato, se non fosse per tutti quei tubicini attaccati al braccio. Mi ricorda tanto il mio papà e le emozioni che mettono in subbuglio la mia anima sono pure le stesse. Seguo la sua figura, fino ai piedi, vedendo il suo spirito che mi fissa. Mi irrigidisco, ma Mary sta ancora piangendo sulla mia spalla. Non si accorge di nulla. La signora Costela ha appena emesso un gemito di dolore, simile a un guaito. Carlos alza lo sguardo e si accorge che, a dispetto di tutto, io lo vedo.
Fisso il suo corpo, decisamente vivo visto che il monitor continua a mostrare l’attività elettrica del cuore, e poi nuovamente quella che deve essere una parte di lui che si è staccata.
   «Amabel.»
Non sono abituata a sentire la voce di qualcuno che conosco, da fantasma. E non voglio neppure abituarmici! Lui continua. «Amabel … Amabel, ti prego: aiutami!»

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** 18 ***


18
 
 
 
            Di nuovo. Qualcuno che chiede il mio aiuto, aspettandosi chissà quali modifiche. Per sottolineare di più questo desiderio, Carlos si avvicina a me, con passo fluttuante. Non è ancora morto, ma si muove come se fosse spirito da anni, invece che da giorni. Mary mi stringe, singhiozzando e mi sento un’intrusa nel dolore della famiglia. Soprattutto perché io vedo Carlos. Scuoto la testa piano, mordendomi a sangue il labbro. È sbagliato. Quello che mi sta chiedendo, anche se non mi è ancora chiaro, è di per sé sbagliato. Lo è e basta. Non occorre pensarci su.
   «Ragazze.» Il padre di Mary, seppur un omaccione grande e grosso, dalla voce ferma, è sempre stato pronto al riso. Sempre. Ora, la sua voce è intrisa di schegge. Chi sono io per entrare nel suo dolore? «Ragazze, che ne dite di …»
Gli mancano le parole, ma ho capito. Prendo Mary per un braccio. «Mary, andiamo a prendere un po’ d’aria.»
Prima di andarmene il signor Costela mi passa una banconota. Ho dimenticato il portafoglio a casa, con la borsa, per la verità, e tutto quello che mi rimane è il cellulare e le chiavi di casa. Accetto di buon grado i soldi, trascinandomi la mia amica. Nel piano c’è un piccolo bar, dall’aspetto mediocre. Due degenti sono seduti con le rispettive famiglie, in un clima tutto sommato colloquiale. Sistemo Mary su una sedia, andando al piccolo banco. Ordino due coca cola e aspetto.
   «Amabel, mi vedi, vero?»
Mi mordo le labbra, fissando Mary alle mie spalle. È interessata alle punte spigolose delle sue ginocchia e annuisco a me stessa. Carlos mi si avvicina ancora. «Quindi davvero mi puoi vedere. Mi devi aiutare.»
Apro appena le labbra. «Non posso.»
   «Sì, che puoi.» Passo nervosa le mani sul piano, così Carlos può fissarle e fare uno dei soliti commenti. «Le tue mani! Tu … tu mi puoi aiutare, vero? Le tue mani mi possono liberare.»
Qualunque folle idea voglia fare con le mie mani, di certo io non posso liberarlo. È un dato di fatto. Ritorno a concentrarmi sulla spinatura delle mie bibite che, essendo piccole, ci stanno mettendo troppo. E il barista mi sta fissando come se temesse per la mia sanità mentale. Gli basta un’occhiata alle mie spalle, per scorgere la desolazione di Mary, e subentra quell’umiliazione che mi veniva riservata quando papà era in ospedale e io venivo allontanata dal suo capezzale per avere la tangente di un gelato. Ti guardano tutti come se fossi in procinto di sfracellarti a terra. Il che, a dirla tutta, non è molto lontano da come ci si sente in realtà.
Pago le ordinazioni e mi prendo le due bibite. Ignoro del tutto Carlos, seppur mi sia difficile. «Ti ho preso una coca.»
Gliela infilo in mano. Mary alza appena lo sguardo, mettendomi a fuoco. «Bel.»
   «Bevi, prima …» Prima che si raffredda? Una coca cola? Deglutisco e ringrazio che Mary mi ha ubbidito prima di ascoltare il resto. Trangugia buona parte della sua bibita in un sorso, mentre io appena accosto le labbra al vetro. Accavallo le gambe, in attesa.
Cosa si dice in occasioni del genere? Cosa ha detto a me, Mary, con papà? Non lo ricordo. So che non volevo che nessuno mi parlasse. Quella è l’unica certezza che avevo. Però è anche vero che non sono una persona che parla molto di sé. I miei segreti sono sempre stati tenuti segregati all’interno di me. All’opposto, Mary è … lei.
Rimango a fissarla mentre finisce la coca cola, la appoggia al tavolino, e poi torna a fissarsi le ginocchia. Rimaniamo lì finché non finisco di bere la mia, a piccoli sorsetti frequenti. Ho lo stomaco chiuso ma so che Mary deve stare lontano dai suoi per un po’. Due genitori non possono mostrarsi troppo deboli davanti ai suoi figli. L’ho provato a mie spese, sentendo i pianti soffocati di mamma nel cuore della notte.
Poi ci alziamo e arrivata alla stanza bussò appena alla porta. Quando entriamo, i genitori di Mary hanno ripreso compostezza. La mia amica ha gli occhi bassi, ma io non posso ignorare i volti gonfi e gli occhi rossi. Sono segnali chiari. Il signor Costela abbozza un sorriso. Sembra mi voglia ringraziare. Per cosa? Non sono stata in grado neppure di consolare Mary. «Noi … noi andiamo …. Vuoi …?»
   «Ho una commissione da fare.» Di domenica pomeriggio. Vestita come se avessi un appuntamento. È una delle bugie più palesemente false che ho raccontato.
La famiglia Costela è racchiusa nel suo lutto, quindi sono al sicuro. Mi avvicino a Mary, la stringo forte e le do un bacio sulla guancia. È tutto quello che le posso offrire. È poco, ma spero lo apprezzi. Sono una persona che non piace essere toccata gratuitamente. Quel gesto mi è costato. Mary abbozza un suo vecchio sorriso annacquato, segue la famiglia che si allontana.
Scuoto la testa. «Carlos, ritorna dentro al tuo corpo. I tuoi genitori e tua sorella sono preoccupati per te. Non dargli altri dispiaceri.»
Carlos è in piedi, vicino alla stanza in cui riposa il suo corpo. «Per piacere, Amabel. Devi aiutarmi.»
   «Tu non sai veramente cosa mi stai chiedendo.»
Allunga la mano, nel tentativo di toccarmi, e questa mi passa attraverso. Giusto. Lui non è come il mio vizio. Non è neppure il ragazzino pestifero che mi infastidisce prima di andare a scuola. «Sono stanco, Amabel. Sono stanco di … questo.»
Si tocca il corpo. Dov’è quel ragazzino esuberante che inseguiva me e Julia? Dov’è quel bambino che correva e chiedeva maliziosamente a chi doveva dare, tra le due, il suo primo bacio? Dov’era andato il fratello della mia migliore amica? «Amabel, io non mi risveglierò.»
   «Sì, lo farai.»
   «No. E se succedesse finirei di nuovo qui, in ospedale. Con altre ferite. E di nuovo cercherebbero di salvarmi. Se ci riuscissero, io ci proverei di nuovo … di nuovo. Finché non ci riuscirò. O finché non distruggerò la mia famiglia.»
Non è andato in overdose … ha tentato il suicidio. Il che mi sembra anche peggio. Soprattutto perché sta pianificando di farne altri. Voglio comprendere, ma è così necessario? Vorrei chiedergli perché, vorrei farlo desistere, ma è quello il mio compito. Sono un’esorcista, io cammino tra i morti. Non cerco di salvare i vivi.
È questo che sarò costretta a fare, un giorno? Papà e Ridley mi si presenteranno davanti e mi chiederanno di esorcizzarli. Farò questo? «I miei torneranno tra poco. Sono andati solo a mangiare. Tornano sempre.»
È questo che ha pensato mentre si impasticcava? Al fatto cha la sua famiglia stesse tornando a casa e dovesse muoversi? Mi infilo nel bagno per il pubblico, chiudendomi la porta alle spalle. «Amabel?»
Mi chiama con troppa frequenza perché possa sospettare di potergli far cambiare idea. Non lo farà. E io non posso intromettermi oltre. Anche se Mary è una mia amica, anche se conosco Carlos, anche se in cuor mio so che è sbagliato, il mio compito si ferma qui. «No.» E lo bisbiglio al water, unico spettatore del mio crimine. «Io sono un mediatore di Dio, sono l’arma per il trapasso. Sono un’esorcista e mi chiamo Dalila.»
Alzo la mano sinistra, riluttante. «Un corpo senza anima non può vivere. Se è questo che chiedi, ti aiuterò ad andare oltre.»
Carlos chiude gli occhi, sorridendomi. «Sì. E … mi … mi farà male?»
   «No. Il male lo sto facendo io alla tua famiglia. Primo esorcismo: catene della purificazione.»
 
† † †
 
Chiudo la porta della stanza. Ho versato tutte le lacrime che avevo. Non mi rimane niente, se non la certezza che sono un’assassina. E mi rimane solo la consolazione che, nonostante tutto, sia stato Carlos a chiedermi di mettere fine alla sua vita. Non cambia poi tanto. Non ho ucciso il suo corpo. Ho aiutato il suo spirito ad andare oltre. E corpo senza spirito non esiste. Era certo a cosa andasse incontro.
Mary mi ha mandato un messaggio nella strada di ritorno. Le ho mandato un messaggio e mi ha scritto che preferiva stare da sola. Ho pianto per tutta la strada, chiedendomi se avessi o meno capito il mio compito.
Ridley mi volta le spalle. La sua rabbia, ora come ora, mi fa arrabbiare a mia volta. Butto il cellulare sul letto, dove rimbalza e rimane sospeso in una piega. «Se tu non fossi un fantasma, te lo giuro, ti avrei preso a calci in culo dalla prima volta che ti ho visto.»
Vedo le sue spalle irrigidirsi, ma continua a rimanere chiuso dentro il suo bocciolo. Tutto quello che mi sto tenendo dentro si riversa fuori. «Tu non hai idea di che significa essere in continuazione qualcosa per qualcuno. Per mia madre devo essere una figlia, per mio fratello una sorella giudiziosa, per Lie quella dannata Dalila, per te una sorta di detective che cerca di trovare il colpevole, per i fantasmi un’esorcista, per i miei amici non ho ancora capito cosa devo essere. Sono costretta a indossare così tante maschere che non riesco neppure più a capire chi sono io.»
Ho calciato così forte un cuscino che ha colpito la lampada e questa è finita per terra. Le schegge della lampadina hanno dipinto il pavimento di piccoli brillantini argentati. Ho il fiato corto e finalmente il fantasma si gira a fissarmi. Sentendo il mio grido, Lie è rientrato nella stanza mi fissa, guardingo. «Tu non hai la minima idea di che significa, di continuo, essere con la mente nel presente e sentire le interferenze del passato. Guardare mia madre e paragonarla alla madre di Dalila. Rendersi conto che lei è vulnerabile perché Dalila ha perso i suoi genitori che era ancora piccola!»
Di nuovo, calcio qualcosa che mi capita sotto i piedi e vedo una maglia sporca svolazzare felice per dieci centimetri e ricadere patetica poco lontano. Punto un dito fuori dalla finestra. «Tu non hai idea di che significa andare dalla mia migliore amica, vederla distrutta vicino al fratello in coma farmacologico e cercare di uscire dalla situazione in cui lui ti ha messo, perché quell’idiota ti ha pure chiesto aiuto. E io posso aiutare solo in un modo!»
   «Dalila.»
   «Sì, Lie!» Non è vero. Ho ancora lacrime, anche se sembra che stiano uscendo mescolate con il sangue, da quanto mi fa male. «Sì, l’ho esorcizzato. Ho esorcizzato il fratello della mia migliore amica.»
Fisso Ridley e, a parte il dolore per quello che ho fatto, non capisce perché sto urlando. Non lo comprende come possiamo fare io e Lie. Tiro su con il naso, pulendomi le guance con il palmo della mano. «Un corpo senza spirito non può esistere.»
Sbarra un attimo gli occhi e capisce. Sì, per salvare Carlos ho dovuto ucciderlo. Non è quello il vero punto, però. E adesso gli è chiaro. Lui mi accusa di non aiutarlo. Il punto è che se lo aiuto, io in verità posso solo dare fine alla sua vita. Né più … né meno.

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** 19 ***


19
 
 
 
         Sospiro, raccogliendo con la paletta il disastro che io stessa ho combinato. La lampada pende da una parte, ma come da piccola ho detto a mamma che ero scivolata sopra al mio orso Bubu rompendogli gli occhi di plastica, mi avrebbe creduto che mi era scivolata dalle mani. Non aveva mai scoperto che Bubu si era macchiato del terribile crimine, con i miei occhi da bambina, di guardarmi storto e che i pugni se li era meritati tutti. Con il seno di poi, credo che dentro a Bubu ci potesse essere solo Lie. Il che mi avrebbe giustificato per il mio momento di furia omicida. Io, per lo meno, mi sono già perdonata.
Getto il rimasuglio della lampadina nel cestino, tornando in camera. Ridley è meno maldisposto nei mie confronti. All’opposto, sembra essere terrorizzato da Lie e gli sta lontano. Chiudo la porta della stanza. In casa non c’è nessuno, ma manca poco al rientro di mamma con Ed. Potrei essere distratta quel tanto da non accorgermi di loro.
Mi lascio cadere nel letto. «Sono andata a parlare con il tuo partner, Tobia Light.»
   «Mi ricordo di Tobia.» Ammette piano. Come la prima volta che ha sentito il suo nome, però, il suo tono è guardingo. Quella volta, mi ha intimato di uscire. Io continuo, come se non mi avesse interrotto. «Nel descriverlo, Dalila lo avrebbe definito un Caino.»
   «Che significa?»
   «Non ne ho la più pallida idea.»
Ridley si massaggia il mento. «Non sono cattolico. Conosco vagamente la Bibbia.»
Io, da cattolica, conosco la Bibbia ma a parte sapere che Caino uccise suo fratello Abele, commettendo il primo delitto dell’umanità, non capisco come possa attaccarsi l’epiteto al detective. Lie si è seduto per terra, meditabondo. E quando pensa, significa che io sono nei guai. «Lie?»
Scuote la testa, guardandosi le mani e fingendo di colpire qualcosa davanti a sé. Nei dipinti, Caino viene raffigurato con una pietra mentre colpisce il fratello. Lie sembra voler imitarlo. Di nuovo, muove la testa come scacciare un pensiero. «Io non sono come te, Dalila. Sono in collegamento con te, posso sapere cosa stai pensando ma non il perché. Non mi piaceva l’uomo perché era a te che non piaceva. Non avevo pensato che fosse un Caino.» Alza lo sguardo, fissando alternativamente me e Ridley. «In un tempo in cui bisognava fare attenzione a ciò che si diceva, le parole avevano molto peso. Non si poteva andare in giro a parlare di spiriti, fantasmi, maledizioni e omicidi. Si cercava di non usare parole fuorvianti, ma se era necessario comunicare dovevano passare inosservate. Ecco che per parlare di omicidi, si diceva che una persona era un Caino.»
   «Quindi anch’io sono un Caino. Sono un poliziotto e ho sparato più di qualche volta.»
Lie nega con il capo. «No, non è così semplice. Caino è una persona che non prova rimorso per quello che ha fatto, e lo ha fatto per il suo tornaconto personale. Davide ha ucciso Golia, ma Davide non è un Caino.»
   «Sta parlando di una vicenda biblica.» Mi frappongo tra i due, prima che Ridley chieda chi siano Davide e Golia.
Ridley si mette a camminare avanti e indietro per la stanza. «Quindi, solo perché a voi due non piace Tobia lo accusate di essere un Caino?»
   «Il fatto che a me e a Lie abbia dato una brutta impressione non è niente. È la tua reazione che mi ha lasciato perplessa. Quando hai sentito il suo nome, mi hai detto di uscire dalla stazione della polizia.»
   «Ritenevo che non fosse saggio per te stare lì.» Mi dice. Non ha il tono sicuro.
   «Però non eri tanto preoccupato della mia sicurezza quando sono andata a Maiden Street.»
   «Che cosa stai insinuando?»
Con un unico movimento, mi accoccolo sul letto, con le gambe nella stessa posa di un nodo. «Sulla tua aggressione ci sono tanti punti non chiari. A detta del detective, sei stato ferito durante un appostamento. Non puoi essere stato lì da solo.»
   «Non ricordo nulla di quei momenti.»
Lie si insinua subdolo. «Non apprezzi il tuo partner.»
   «Ogni persona ha degli screzi con le altre. Perché voi due andate sempre d’accordo?»
   «Per niente. Sono più le volte che bisticciamo che quelle in cui siamo in pace, però non ho mai attentato alla vita di Dalila. E lei ha un sesto senso per individuare la vera natura delle persone. Se dice che quell’uomo è un Caino, io mi fiderei della sua opinione.»
Sospiro, concentrandomi su Lie. «In passato hai già avuto a che fare con qualcosa di simile? Persone vive che non si risvegliano?»
   «Nel 1400 si moriva per una ferita non curata a dovere, Dalila. Tu stessa sei nata in un villaggio appestato.» Già: zero persone in coma. «So che non mi è mai capitato uno spirito che non ricorda il modo in cui è morto. È proprio la morte che segna la tua vita ultraterrena.»
   «Sono un fantasma strano.» Commenta ironico Ridley, al che Lie lo punzecchia. «No, non sei strano. Credo che tu abbia tutte le capacità e le possibilità di risolvere il mistero del tuo coma, ma sei troppo pigro per metterlo in atto. O hai paura. Sai …» Alza la voce, per sovrastare la rivoluzione che ha messo in moto contro di lui Ridley. «… non è detto che risolvere il caso ti dia la possibilità di svegliarti. Potrebbe invece liberarti dalle catene che ti legano a questa terra. Risolvere il caso potrebbe portarti alla morte.»
   «Non sono un vigliacco. Sono un tipo portato all’azione.»
   «Allora agisci. Chi ti ha sparato?»
   «Non lo so.»
   «Noi ti abbiamo detto i nostri sospetti. Sei tu che devi indagare.»
Ridley sbuffa. «Cosa dovrei fare? Andare alla stazione di polizia e chiedere informazioni?»
   «Sei un fantasma, puoi muoverti ovunque tu voglia senza destare sospetti. Di certo qualcuno starà indagando su di te. Basta seguire quella persona e vedere se ripercorrendo i fatti ti ritorna la memoria. Dalila è, al momento, un essere vivo.»
Ho appena incrociato le dita. Ridley mi fissa un attimo, prima di annuire e lasciare la stanza. Alzo una mano per farmi battere il cinque da Lie, ma mi ignora. «Non ho intenzione di diventare la tua arma solo perché non ricordi che se congiungiamo le mani io assumo forma fisica. E, per Dio Dalila, inizia a ricordare qualcosa. Parlare con te sta diventando più snervante del plagiare quel fesso.»
 
† † †
 
            Non ho dimenticato Carlos. Non posso. E non posso confessare, perché di fatto io non ho staccato nessuna spina. Il suo cuore ha smesso di battere. Sarà l’autopsia a dire quale parte del corpo ha ceduto per prima, se il cuore, i polmoni o che altro. Entro nella casa di nonna. Non sono ancora stanca di quella domenica, anche se mi sembra di non aver fatto altro che correre e distruggere.
Edward si è appisolato sul divano, nonna mi fa cenno di fare silenzio e mi abbraccia. Mamma esce dalla porta in cui c’è papà, preoccupata. Mi si ferma il cuore a pensare che qualcosa con papà non vada bene. Nonna è al mio fianco, quindi forse è solo preoccupata che io sia venuta a prenderli. Mi inumidisco le labbra. «Carlos è morto due ore fa in ospedale.»
Mamma si porta le mani alle labbra, cercando di nascondere il terrore. Però vedo i suoi occhi che guizzano in direzione del papà. Sono venuta anch’io a controllare per quello. Sguscio dalle mani di nonna e fisso papà dalla porta. Il solito ticchettio degli strumenti, il solito rumore tipo soffio che gli espande i polmoni, la solita pappa nauseante che gli scorre fino in pancia. Distolgo lo sguardo da lui, ma non c’è. Il suo spirito non mi chiede di esorcizzarlo e, anche se per poco, quella giornata inizia a sprizzare un po’ di luce.
   «Com’è successo?»
Alzo le spalle. «Non era il caso di parlarne. Me lo spiegherà meglio Mary quando se la sentirà. So che ha avuto un’overdose e … e quando sono andata a trovarlo era in coma. È morto poco dopo.»
   «Oh, tesoro.»
Mamma mi abbraccia. Lo farebbe lo stesso, anche se fosse a conoscenza della verità? Voglio avere la speranza che tra noi possa rimanere sempre così. Lascio che mi stringa e sfoghi un po’ della sua frustrazione, stringendo un po’ forte la mia vita. Vorrei dirle che va tutto bene, ma non quando un ragazzino di tredici anni è morto perché ha voluto provare l’ebrezza della droga. Quello non significa che il mondo va bene. Quello significa che il mondo è diventato un luogo ignorante dove per un semplice capriccio ti puoi iniettare acido nelle vene e vedere che cosa succede. E preferisco pensarla così, piuttosto di avere la certezza che questo mondo ha vomitato odio in un bambino tanto da fargli odiare la vita.
   «Non ti dispiace se vado a fare quattro passi? Ho bisogno di snebbiarmi la mente.»
Mamma si asciuga le lacrime e io mi allontano. Mi sento una bestia rara ed è strano. Quando sono sola ho bisogno degli altri, quando sono con gli altri cerco la solitudine. Forse è questo che significa essere segnati.
Percorro il viale, i lampioni si accendono con uno snervante sfrigolio, tipo olio che frigge. Alzo la testa per fissare il cielo, ma c’è troppa luce per scorgere le stelle. Sono pure nostalgica. Oggi sono un disastro di emozioni.
Mi guardo alle spalle, immobile, per un minuto. Poi decido che la sensazione di essere seguita è solo suggestione. Svolto l’angolo e so con certezza che dei passi fanno eco ai miei. Con la scusa di sistemarmi i capelli, guardo alle mie spalle e impreco sotto voce. «Dannazione, Lie! Mettiti un campanello, avvisami che ci sei. Non puoi sbucare come un ladro.»
   «Ti ricordi il nostro gentile Caino? Il detective ti sta seguendo. Vai in una via dove ci sia almeno un testimone. Non mi sento al sicuro.»
Vedo un signore anziano con un bastone che zampetta a passo di lumaca. È un testimone un po’ fiacco, ma non sono in vena di fare la schizzinosa. Un gatto sguscia dietro l’uomo, acquattandosi come se volesse fare un’imboscata. È lui che fisso, perché ha appena rizzato il pelo e soffia verso l’uomo. Questo è fermo, con il sacchetto della spesa ancora in mano. Ricordo il cane, il giorno dell’incontro con lo spirito di secondo livello, e impreco. «Dannazione.»
Faccio uno scatto, trascinandomi Lie che è come legato alla mia persona. Non mi ero accorta che era così anziano, né che si muovesse come un automa, né che fosse così rigido. Non ho pensato che il rancore per essere rimasto troppo a lungo al mondo terreno dovesse essere preso così alla lettera. Sono a una decina di metri, ma non sono abbastanza veloce. Sento un boato e poi il corpo del vecchietto si accartoccia nel terreno e, al suo posto, compare uno spirito di secondo livello.

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** 20 ***


20
 
 
 
         Scatto a destra, prima che la sua catena mi colpisca. Io le sego, quelle catene! Una a una. Per il salto e lo sbilanciamento faccio una capriola, rialzandomi prima che un’altra frustata faccia una frittata di esorcista. Per essere stato vecchio e decrepito in vita, si muove troppo velocemente e con troppa enfasi.
Scivolo di lato prima di un nuovo attacco. I capelli mi si muovono perché la catena c’è andata dannatamente vicina.
Lie si tiene in disparte, lontano dal fulcro del combattimento. «Uno spirito interessante.»
La tentazione è quella di allearmi con chi sta cercando di ferirmi per andare a prendere a pugni Lie. Niente di quello che mi sta succedendo è interessante. Si muove troppo velocemente rispetto alla mia precedente esperienza. È quasi se … «Fosse a metà tra uno spirito di primo e uno di secondo livello.»
L’intuizione è arrivata anche a me, seppure non penso di aver pensato di poterla definire interessante. Per la verità, questo mi sembra complicare di più la questione.
   «Ha il tempo di uno spirito di primo livello appena forgiato. È appena nato.» Ha circa settant’anni più di me! Proprio un giovincello. «E allo stesso tempo prova il rancore di uno di secondo.»
Mi muovo e evito un nuovo attacco. Sfioro la parete alle mie spalle e sono fortunata di essere rapida, oltre che piccola, il che mi fa sgusciare come una saponetta tra le catene. Alzo d’istinto la mano sinistra e pronuncio l’invocazione prima di sapere esattamente cosa sto facendo. «Primo esorcismo: catene della purificazione.»
Le catene blu si attorcigliano intorno allo spirito, come serpenti. Non le sento calde, ma gelide e so il perché. L’ho fatto d’istinto perché così il mio cuore diceva essere giusto, ma le catene mi servono solo per contenere i colpi. Di fatto, con quelle posso fare un’altalena per gli spiriti di quel livello.
   «Oddio.»
Io e Lie ci giriamo, scorgendo il poliziotto oltre la luce del lampione. Sono o non sono nella merda? Sono certa che mi veda, inutile pensare che non veda le catene e, ora come ora, so che può vedere anche lo spirito perché qualcosa deve esserci dentro al bozzolo che ho creato. Volto le spalle all’uomo.
Un problema alla volta. E visto che la giornata non vuole volgere al termine, quello è un ottimo moto per arrivare al domani. Faccio passare la mano destra tra le catene, alzandola speculare alla sinistra. «Secondo esorcismo: ascensione.»
Come nel momento in cui lo spirito ha lasciato il corpo, sento un boato e i miei piedi si sollevano di qualche centimetro da terra, lasciandomi galleggiare nel vuoto. Sono avvinghiata in quel dedalo di catene che io stessa ho creato, mentre lo spirito si dibatte, pericolosamente vicino al corpo da cui è uscito. Con le punta cerco di ritornare a terra, ma più lo spirito si dibatte, più il terreno scappa. Borbotto piano, a mo’ di maledizione. «Sono un mediatore di Dio … sono l’arma del trapasso.»
Lo spirito si agita, ruggendo la sua contrarietà. Lo so, dannazione. Te ne stavi camminando con la tua borsetta ed eccoti lì, a questionare con un’esorcista se è giusto o meno essere esorcizzati. Riesco a toccare con i piedi per terra. La sua forza, ora, sembra essere controllabile. I suoi occhi, unica cosa che vedo tra le catene, mi fissano acquosi. Sto ansimando e, per quanto fino a un secondo prima lo avrei trapassato da parte a parte con le catene, sono dispiaciuta per lui. Abbasso la testa, fissando il corpo senza vita. «Lo troveranno. Te lo prometto.»
Chiude gli occhi, prima che la luce dell’esorcismo lasci la strada elettricamente carica. Sono stanca. Due esorcismi nel giro di una manciata di minuti. È come se avessi corso per venti chilometri con la Lowry che mi diceva di non rallentare.
   «Dalila, è alle tue spalle.»
Lo so, Lie. Lo so. Un minuto e mi giro. «Non hai un minuto. Sta estraendo la pistola.»
Farà come con Ridley? È per questo che lui non ha mai ricordato cosa è successo? Un colpo alle spalle. Preciso. E farà così anche con me. Ecco perché ho visto la paura tra i suoi occhi, quando ho nominato Maiden Street. Ecco perché voleva accompagnarmi a casa. Perché capisco le cose solo quando è chiaro che non posso più modificarle?
   «Dalila.»
Ho alzato un piede, distrattamente. Lo appoggio poco lontano, come se non stessi facendo altro che soppesare il terreno. La voce della Lowry mi riecheggia quanto sollevo leggermente il tallone. «Wright, più alte le gambe. E non rallentare quando vedi il traguardo!»
Non rallenterò neppure se trovassi una schiera di spiriti di secondo livello. Guardo distrattamente il vecchio, esanime. Mi capirà se non chiamo subito i soccorsi. E poi, d’istinto, scatto. Parto di corsa, senza guardami alle spalle, con il cellulare che sbatacchia nella tasca e le chiavi tintinnano nell’altra. Non mi volto per vedere chi mi segue o chi ho lasciato alle spalle. Sguscio in una via trafficata, sfilo sotto al braccio teso di una donna di mezza età, sniffo qualche odore non ben apprezzato. E non rallento, neppure quando le bende alle gambe iniziano a spurgare quello che credo essere sangue e pus. Mi guardo alle spalle, vedendo le persone che camminano e guardano i negozi. Mi concedo due secondi per osservare se il poliziotto mi segue. Troppo, però, visto che sto correndo alla cieca. Troppo. Urto pesantemente qualcuno. Gli finisco praticamente nel petto, sento i muscoli dei pettorali e degli addominali che mi respingono tipo muraglia. Rimbalzo e chiudo gli occhi, allungando la mano per attutire il colpo. Il mio polso viene stretto da una mano troppo grande e calda. Alzo lo sguardo, scorgendo il palestrato biondo che mi tiene sospesa dal finire a terra. Alto, biondo, con gli occhi nocciola, completamente sbarbato. Deve essere il fratello meno carino e più pericoloso di Chase. Ci fissiamo per una manciata di secondi, il tempo di sentire un pizzicore al polso e a vedere lui abbandonare la presa. Cado sul sedere, ma sono preparata e mi alzo a molla.
Vorrei aprire la bocca per chiedergli scusa. Mi terrorizza. Non solo il suo sguardo, che mi passa da parte a parte, ma anche tutto il resto. Ho un’inspiegabile paura: per me, per Lie, per Ridley. Stranamente ho panico anche per lui, lo sconosciuto che mi fissa.
Sono ferma da troppo tempo. Guardo alle mie spalle, distratta nuovamente dal ragazzo che si allontana.
Nessuno mi segue. I miei occhi percorrono la strada ma nessuno mi segue. Non lui. Perché quella strana sensazione, allora? Tutto mi sta sfuggendo dalle mani. Ringhio a me stessa. «Avanti, Bel. Inizia a correre.»
Riprendo la corsa, certa che le gambe si rivolteranno e dovrò tornare a casa strisciando. Infilo la mano in tasca per prendere le chiavi, infilandole nella serratura con mano tremante.
Ridley.
Apro la porta della mia stanza, ansimando. Sono quasi sicura che il ragazzo mi accolga, sorridente o irritante che sia per quel giorno. Non so perché, ma dopo lo scontro con il ragazzo muscoloso mi sembra che vederlo stare bene sia tutto quello che mi è concesso chiedere.
Non c’è.
Mi infilo nella stanza dei miei, poi in quella di Ed, e in ognuna prima di aprire la porta ho la speranza che lui mi richiami, chiedendomi perché sono così tanto preoccupata. Anche se è un fantasma, non può rimanere fuori a lungo. Non avrebbe senso. Chiunque stia indagando su ciò che gli è successo tornerà a una qualche casa. Il ragazzo che ho urtato, quel poliziotto … che diavolo sta succedendo?
Con un’ultima speranza vado in bagno. «Ridley?»
   «Non credo che tornerà.»
Fisso Lie alle mie spalle. Scuote la testa. «Dalila, è probabile che lui sia andato oltre.»

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** 21 ***


21
 
 
 
     Andato oltre. Quando Lie mi ha chiesto se ricordavo il posto da dove venivo, ero stata sincera. Non so come sia l’aldilà. Eppure, associato a Ridley, ho chiara in mente l’immagine di quel posto. Un luogo lugubre, nero, solitario. È assente il rumore, la luce, la materia. Non sai di essere lì, non sai nulla finché qualcosa non compare, fugace. Penso che quelle presenze effimere fossero anime, più fortunate di me, che avevano la virtù di sostare in quel niente per poco tempo. Quel posto era doloroso. Lo ricordo. E non era un dolore fisico, quanto il sapere di non poter far nulla per opporsi. Un lungo tunnel in cui non potevi toccare la superficie, continuamente privato dei sensi.
   «Andato oltre.» No. Mi rifiuto di credere che Ridley se ne sia andato così. «No, non è andato oltre.»
   «A qualche spirito capita.» Mi spiega Lie. «Se il suo scopo è concluso, se tutte le questioni sono risolte …»
   «Non è concluso nulla! Lui … quel poliziotto è a piede libero. Mi rifiuto di credere che tempo in cui Ridley è sospeso tra la vita e la morte, nel momento in cui siamo tanto così …» Mostro a Lie pollice e indice che quasi si sfiorano. «… dal risolvere il suo caso, lui decida che è il momento di morire. Non glielo permetto. Mi sono fatta il culo per lui!»
Lie solleva un sopracciglio. «La questione non è, usando il linguaggio giovanile che ti piace tanto, farsi il culo. Il fatto è che lui non ha più nulla da fare qui. Quel poliziotto non vuole che tu indaga su Ridley. So che hai pensato che molto probabilmente è lui che ha ferito il ragazzo. Hai il mandante o forse l’artefice del suo attentato. Fatto. Risolto il caso. Non ha motivo di rimanere qui. Dalila? Stai bene?»
Mentre Lie stava parlando, qualcosa è scattato nel mio cervello. No, Ridley non era andato oltre. Non poteva. Si arrabbiava troppo di frequente, non era uno spirito in pace con se stesso. L’unico modo che aveva di andarsene era tramite me. E io non l’ho esorcizzato. «Non può essere andato oltre. Lui … lui non è andato oltre. E non essendo qui c’è solo un posto dove andare: Ridley è rientrato dentro il suo corpo. Cosa succede quando un’anima si ricongiunge?»
   «Niente. Tutto torna come dovrebbe essere.»
Significa che Ridley sarebbe tornato come al principio. «Per Dio! Ridley si sta risvegliando!»
   «Non credo che il poliziotto accetterà di buon grado il suo risveglio.»
Mi butto fuori in corridoio, incespicando sul tappeto. Sfreccio giù dalle scale del condomino, ripromettendomi che per il mio compleanno chiedo a mamma uno scooter. È umanamente impossibile che ogni giorno io debba correre a piedi per mezza città! Sento Lie seguirmi alle spalle. O almeno lo spero. Tra poco mi ritroverò a fronteggiare un uomo, tutt’altro che terrorizzato da me e dalle mie catene, e l’unico che conosce le mie vere capacità è un bambino sociopatico menzognero: non può permettersi di lasciarmi andare sola.
Attraverso la strada con il semaforo arancione, correndo come se mi stessero per uccidere. Perché non ci avevo pensato prima? Ridley è sempre stato in bilico per svegliarsi. Non era come Carlos, che aveva preferito abbandonarsi al dolore di vivere. Ridley e papà sono dei combattenti.
Faccio una scivolata sull’atrio dell’ospedale, colpendo in pieno una carrozzina vuota parcheggiata lì. Ignoro la signora delle casse che, indispettita, mi critica. Acchiappo al lazo un ascensore, premendo ripetutamente “Terzo piano”. Spero che sia ancora orario di visite. No, anzi, meglio che non lo sia proprio. Oddio, non so se voglio o meno testimoni! Il vecchio, come testimone, è stato pessimo. «Come ti comporterai se l’uomo è già lì?»
Dannazione. «Non lo so. Probabilmente userò il secondo esorcismo.»
   «Solo il primo può esser usato con gli esseri umani.»
E allora, Lie, se sai già la risposta cosa mi fai perdere tempo a incazzarmi pure con te?! Con un ultimo scatto mi precipito nella stanza di Ridley. Credo di aver lasciato la milza a casa, il polmone al semaforo e una rotula, almeno dal dolore, incollata alla carrozzina. Cerco di riprendere fiato. Appoggio le mani alle ginocchia, il corpo sconquassato dalla fatica.
Alzo lo sguardo alla stanza. Ridley è steso a letto, i monitor suonano la loro melodia confortante. Bene. Sono arrivata in tempo.
   «Dalila, dietro!»
Mi sono dimenticata che, in realtà, sono una ragazza piccola e magra mentre il poliziotto è tutt’altro che debole. Ho dimenticato che posso dibattermi quanto voglio, ma se non ho la forza di respirare i miei tentativi sono inutili. Le mani dell’uomo, sul mio collo, sono forti e mi sento sollevare da terra. Mi manca l’aria. La stanza è immersa in una seria di puntini rossi e neri. Vedo Lie cercare di colpire l’asta vicino alla porta. La mano gli passa attraverso. Dannazione. Se ne esco viva, insegno a Lie a colpire uno stupido oggetto anche sotto stress! Finalmente riesce a colpirla e lo so perché, anche solo per un attimo, la sua mano diventa solida.
Il pezzo di ferro ha solo l’obiettivo di distrarre l’uomo, che volta il capo per vedere se c’è qualche presenza nella stanza. Mollo un calcio nelle parti basse, così forte che se mi sono fatta io male con il piede non oso pensare lui. Lascia la presa con un’imprecazione.
Mi accartoccio per terra, grata dell’aria nei polmoni. «Hai un amico?»
Alzo lo sguardo, ansimante, mentre l’uomo mi si avvicina. Una mano protegge la parte che ho appena danneggiato. Arretro d’istinto ma la stanza finisce ben presto e mi sollevo, usando la porta della terrazza alle mie spalle come ancora di sicurezza. «Sì.»
Guarda di nuovo in giro. Scusa, ma da piccoli non ti insegnano che le Forze dell’Ordine sono buone? Lui, di risposta, mi sembrava cattivo. Tira fuori la pistola d’ordinanza. «Bene. Dì al tuo amico di uscire.»
Lie è alle sue spalle, invisibile e del tutto inutile anche per me. «Non posso.»
Minaccioso, fa schioccare la pistola. Se mi spara, il mio essere esorcista non mi aiuterà per nulla. Guardo la porta e l’uomo mi sorride. «Non ti preoccupare. Non verrà nessuno. Il detective Scott è un cliente speciale. Il tuo amico, ragazzina: dov’è?»
   «Dalila.» Distolgo un attimo lo sguardo dall’uomo, per vedere Lie che mi annuisce, calmo. Se sopravvivo a quell’esperienza, dobbiamo parlare delle priorità dei toni di voce. «Devi mantenere la calma. Tu hai un qualcosa che lui non ha. Lo sai che è così.»
L’uomo si avvicina. Bene. Usiamo il mio vizio. «Ho chiamato la sicurezza.»
La mia bugia ha l’effetto di farlo fermare, pur vedendo bene la canna della pistola ancora puntata sul mio petto. «Stai mentendo.»
   «Se lo crede perché non mi spara? Ho chiamato la sicurezza mentre venivo al piano. Stanno arrivando.»
Appoggio la mano alla maniglia, socchiudendo la porta. La brezza della terrazza mi sfiora la schiena. «Ho detto che qualcuno stava attentando alla vita del detective Scott. Per quanto possono non fidarsi di una minorenne, di fatto è sospetto la comparsa di un poliziotto con un’arma in mano. E ancora di più se un poliziotto spara a una ragazzina. Che danno mai posso arrecare?»
Mi sembra che la pistola in mano dell’uomo inizia ad abbassarsi. Deve credermi subito, perché sarà chiaro presto che nessuno sa dove sono. Meglio ancora: lui ha tutti i motivi di questo mondo per spararmi. Io lì non dovrei neppure esserci.
Con uno sbuffo infila la pistola nella fondina. «Bene. L’hai convinto. Senza pistola è solo un umano.»
Il mio collo è del tutto insensibile alle parole di incoraggiamento di Lie. Solo un umano. Stringo a pugno la mano sinistra. Specularmente, ogni passo che avanza arretro quindi, con la porta aperta, non posso far altro che infilarmi in quella piccola terrazza. Mi sembra sospetto pure che sia aperta. Dovrò mandare una lettera di ringraziamento agli operatori che non l’hanno chiusa. Sia ringraziato quell’anima negligente!
Mi appoggio alla muretta. L’uomo sorride. Mi sorprende a pensare che il suo nome lo conosco, ma mi sono sempre riferita a lui come a un oggetto impersonale. Forse perché dire che il poliziotto ha cercato di uccidere Ridley sembra avere meno peso di Tobia che tenta nuovamente l’omicidio di un suo collega. Alzo la mano sinistra. «Primo esorcismo: catene della purificazione.»
Qualcosa, nello sguardo del poliziotto, si accende. Con un gemito mi si fionda addosso. D’istinto muovo il dito medio, senza davvero pensarci, e la catena che aveva solo il compito di proteggermi si muove, in attacco. Che sia la spinta, che sia stata io, o le mie catene, o lo slancio o una serie di sfortunati eventi, vedo appena le gambe dell’uomo scomparire oltre la muretta. Ho gli occhi sbarrati e un urlo ai piani inferiori mi lascia impietrita. Lie guarda oltre la muretta. «Tranquilla. Non può tornare.»
Non è quello a cui ho pensato. Ho sentito, mentre mi passava vicino, la sua anima che si librava e si allontanava. Ansimo appena, mentre le catene ritornano all’interno del mio corpo. Il mio respiro è pesante, spalle e petto si alzano come dopo una corsa lunga una vita. «Che diavolo sto diventando, Lie? Prima Carlos poi …»
   «Non pensarci neppure, Dalila.» Mi riprende. «Non pensarlo. Il ragazzo te l’ha chiesto e lui … tu non sei un’assassina.»
Però dannazione se mi stavo avvicinando ad esserlo. Lie continua: in fondo lui sa esattamente a quello che penso. Ed è anche vero che lui è il mio vizio: mentire gli viene facile almeno quanto a me. «Non occorre che guardi. Non è uno spettacolo per te. Dobbiamo andarcene. Dalila, dobbiamo uscire da qui prima che arrivi qualcuno.»
In che condizioni è, quel corpo, se proprio quel fantasma mi aveva fatto trovare un cadavere nel frigorifero? Il pensiero non mi aiuta. In quel frangente, se non fosse stato per le continue urla e richieste di aiuto, sarei rimasta immobile annichilita all’interno del mio corpo. «Ridley.»
So che c’è tutta l’urgenza che io me ne vada. Lo so. Eppure devo controllare. Con passo malfermo mi avvicino al letto. Ridley continua il suo riposo, la sua lotta, qualunque nome si possa dare a ciò che faceva. Ha gli occhi chiusi e qualcosa è cambiato. Il monitor, adesso, emette un piccolo suono d’allarme. Presto o tardi qualche medico entrerà nella stanza e io non posso essere lì. Il ragazzo emette un gemito, il respiro si fa sempre più incerto.
   «Ridley.»
Gli sfioro la mano.
Qualcosa vibra. La sua mano è scossa da un leggero tic a cui segue un profondo respiro. Mi avvicino a lui per vedere gli occhi aprirsi e qualcosa di vivo bruciare nel verde dell’iride.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3495178