Il Segreto degli Abissi di Julie_A (/viewuser.php?uid=471551)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un nuovo lavoro ***
Capitolo 2: *** Il Ladro di Donuts ***
Capitolo 3: *** La cacciatrice ***
Capitolo 4: *** Lasciate ogni speranza, o voi ch'entrate ***
Capitolo 5: *** Il Rifugio ***
Capitolo 6: *** Verità nascoste ***
Capitolo 7: *** Cattive abitudini ***
Capitolo 8: *** Un appuntamento singolare ***
Capitolo 9: *** Il leone e l'agnello ***
Capitolo 1 *** Un nuovo lavoro ***
capitolo
1
UN
NUOVO LAVORO
«Ecco
qui», disse la donna
dai lunghi
capelli corvini seduta dietro alla scrivania. «Questo
è il suo contratto.
Inizierà domattina alle sei.»
Crystal
guardò la
risma di fogli che pendeva dalle mani della donna per un momento che le
parve
interminabile. Non poteva credere di aver appena ottenuto il suo primo
contratto di lavoro. Con le mani che tremavano per
l’emozione, si allungò per
prendere i suoi documenti.
La
donna si
ritrasse appena sulla poltrona da ufficio, esitante.
«Prima
voglio
dirle una cosa, signorina Evans.»
Crystal
annuì, il
cuore che d’un tratto smise di battere.
«Ha
ottenuto
questo posto di lavoro perché la nostra precedente cameriera
è stata licenziata
in tronco.»
«Ma
l’annuncio
diceva…»
«So
bene cosa
diceva l’annuncio. Congedo per maternità. In
realtà è una questione delicata,
perciò ho preferito parlargliene di persona.»
«Ma
certo. Nessun
problema.»
«La
sua collega è
stata licenziata in seguito a sospetti e numerosi sparimenti di merce
dal
magazzino. Si trattava per lo più di alimentari.»
«Capisco»,
tagliò
corto Crystal. Parlare di furti con il suo neo-capo la metteva per
qualche
ragione in imbarazzo.
«Voglio
accertarmi
che questo non si ripeta», disse la donna.
«Assolutamente»,
mugugnò Crystal paonazza.
«Bene»,
concluse
porgendole la documentazione. «Allora domani alle sei.
Miranda sarà già lì ad
aspettarti. Ti mostrerà le tue mansioni.»
«Grazie
mille»,
seppe dire soltanto. Era così emozionata che le parole le
uscivano a stento.
L’indomani
Crystal
si fece trovare davanti all’entrata dell’Every
Flavour Donuts un quarto d’ora
in anticipo. Durante la notte era stata così in ansia per il
suo primo giorno
di lavoro che non era riuscita a chiudere occhio. Si era immaginata
almeno un
centinaio di versioni diverse della sua giornata, ma ora che il sole
era sorto
non si sentiva pronta per niente.
Si
spaventò quando
udì un rumore di ferri scricchiolanti. Si voltò
verso la vetrina e vide che la
serranda si stava sollevando meccanicamente. Concentrandosi
riuscì a scorgere
una figura dietro al vetro immacolato. Era una donna e indossava un
grembiule a
scacchi bianchi e verdi.
La
donna aprì la
porta a vetri non appena la serranda si fu sollevata del tutto.
«Ciao!»,
la salutò
allegramente. «Tu devi essere Crystal.»
La
ragazza annuì.
«Sì. E tu devi essere Miranda.»
«Indovinato.
Vieni, entra. Ho appena sfornato dei croissant fantastici.»
Crystal
non se lo
fece ripetere. Entrò nel locale e fu subito investita da
un’inebriante profumo
di brioches, cioccolato e schiuma di latte.
Si
guardò attorno,
curiosa ed eccitata. L’interno del locale era stato arredato
nei toni del
verde. Le pareti verde mela, il bancone di plexiglass color bottiglia e
le
piastrelle di un intenso smeraldo. L’unico colore di
contrasto era il bianco,
che si trovava nel soffitto a botte, nei quadri d’arte
contemporanea e nelle
sedie di fibra intrecciata sparse nella sala.
Non
era male come
prima impressione. Crystal era affascinata dal lungo bancone di vetro
da cui
faceva capolino ogni sorta di squisitezza, dalla composizione di frutta
fresca
che si ergeva sul banco di marmo e dalla grande macchina per il
caffè lucidata
a specchio.
Miranda
disse a
Crystal di sedersi dove preferiva e la raggiunse poco dopo portando con
sé un
vassoio ricolmo di prelibatezze.
«Che
profumino»,
commentò estasiata Crystal.
Miranda
le sorrise
gentile. «Ora faremo una bella colazione e parleremo del tuo
ruolo qui dentro.
Si discute sempre meglio a pancia piena.»
«Concordo»,
rispose Crystal con l’acquolina in bocca.
Miranda
era una
donna paffuta, sulla cinquantina. Portava i capelli rossi e corti,
ordinati in
una perfetta messa in piega. Sul naso le pendevano degli occhialetti
tondi che,
pensò Crystal, la facevano assomigliare ad un personaggio
dei cartoni animati.
La
donna le spiegò
per filo e per segno qual era il compito che le stava affidando. Le
raccontò dettagliatamente
la giornata tipo del locale e le descrisse brevemente Oliver, il
barista. Disse
che non era un tipo molto amichevole, ma se Crystal non avesse invaso i
suoi
spazi lui non le avrebbe dato del filo da torcere.
«E
cosa mi sai
dire sulla persona della quale ho preso il posto?»,
azzardò Crystal a bocca
piena. «La signora Helgen ha detto che è stata
licenziata in tronco per
negligenza.»
La
fronte di
Miranda s’increspò all’improvviso, come
quando si morde una fetta di limone.
«Vuoi
dire
Serena?», rispose a labbra strette. «La signora
Helgen l’ha cacciata perché negli
ultimi due mesi ci sono state delle strane sparizioni, qui al locale.
Ma
personalmente non l’ho mai vista fare niente di insolito.
Lavorava qui da quasi
un anno ed era una buona collega. È tutto quello che posso
dirti.»
Crystal,
curiosa
com’era, avrebbe voluto porgerle altre domande al riguardo.
Per esempio cosa ne
pensava delle sparizioni di cibo se era convinta che Serena non ne
fosse
coinvolta. Ma si morse la lingua e si trattenne dal dire qualsiasi
altra cosa.
Non voleva sembrare una ficcanaso, almeno non al suo primo giorno di
lavoro.
«Vieni,
ti mostro
il tuo armadietto», disse Miranda poco dopo.
Crystal
fu
contenta di alzarsi dal tavolo, perché aveva la netta
sensazione che il parlare
della donna licenziata avesse turbato Miranda.
La
pasticciera
attraversò la sala ed entrò in cucina, seguita da
Crystal che si guardava
attorno cercando di capire a che cosa servissero tutti quegli arnesi
colorati
sparsi sui banconi da lavoro.
Arrivarono
nel
retro bottega, in un’angusta stanzetta che fungeva da
spogliatoio. Miranda
indicò a Crystal l’armadietto più a
destra lungo la parete frontale.
«Ecco,
quello è il
tuo», la informò.
Crystal
annuì e si
avvicinò all’armadietto. Notò che la
chiave era già infilata nella serratura,
così la girò e aprì l’anta
grigia. All’interno trovò un piccolo ripiano vuoto
e
delle grucce sulle quali erano appesi due cambi della divisa da lavoro
ancora avvolti
nel cellofan.
«Su,
cambiati. Ti
aspetto al bancone», concluse Miranda prima di uscire dallo
spogliatoio.
Crystal
si sbrigò
a scartare la sua mise da lavoro, che era composta da una polo bianca,
lunghi e
morbidi pantaloni grigio topo e un grembiulino verde mela da legare in
vita.
Sul fondo dell’armadietto trovò anche delle
ciabatte bianche.
Una
volta vestita,
Crystal andò alla ricerca di uno specchio per legarsi i
lunghi capelli color ebano
e trovò una porta che conduceva ad un piccolo bagno. Accese
la luce e si guardò
intensamente allo specchio.
«Va
tutto bene»,
si disse. «Devi stare tranquilla. Sarai bravissima.»
Crystal
trovava un
po’ stupido rassicurare sé stessa davanti ad uno
specchio, però funzionava
sempre. Si sentiva già meno tesa.
Fece
un respiro
profondo, poi si legò i capelli in un’alta coda di
cavallo. Sì lisciò il
grembiulino e fece dei risvolti ai pantaloni, che le stavano un
po’ lunghi.
Era
pronta per
iniziare.
Nel
pomeriggio
Crystal si sentiva già più a suo agio dietro alla
vetrina dei dolci. Serviva i
clienti con disinvoltura e riusciva ad utilizzare la cassa senza troppi
intoppi.
In
un momento di
calma piatta, verso sera, Miranda chiese a Crystal di rifornire la
vetrina dei
donuts. Crystal la raggiunse nel laboratorio e prese la prima teglia di
ciambelle appena glassate. Tornò al bancone e le espose
ordinatamente nella
vetrina. Poi tornò da Miranda per il secondo giro.
«Queste
sono alle
nocciole», le disse Miranda. «Mettile a
sinistra.»
«Certo»,
rispose
allegramente.
Crystal
tornò al
bancone e si mise a disporre le ciambelle dalla glassa scura, quando
notò uno
spazio vuoto lungo la fila delle ciambelle che aveva sistemato poco
prima.
Curioso,
pensò la ragazza. Sono convinta di
averle disposte una accanto all’altra.
Lo
spazio tra le
due ciambelle era effettivamente quello di una terza mancante, come se
qualcuno
l’avesse presa mentre lei era in laboratorio.
Crystal
si guardò
attorno circospetta, cercando qualcuno che si aggirasse per il locale.
Ma
l’unica persona oltre a lei era Miranda. Oliver, il barista,
sarebbe arrivato
mezz’ora più tardi, all’ora in cui
Crystal avrebbe smontato.
La
ragazza non
sapeva se trovarlo divertente o sconcertante. I
donuts non camminano di certo, disse fra sé.
Decise
comunque di
non coinvolgere Miranda. Continuò a lavorare fino al termine
del suo turno
senza dire una parola.
Stava
per uscire
dallo spogliatoio, esausta, quando sull’uscio
incappò in un ragazzo dai capelli
scuri e gli occhi di ghiaccio.
«Ciao»,
gli disse
un po’ sorpresa.
«Ehi»,
rispose lui
in tono monocorde.
«Immagino
che tu
sia Oliver», aggiunse lei.
Crystal
pensò che
il ragazzo era davvero carino, con quei ciuffi castani che gli cadevano
sulla
fronte e quelle labbra sottili contornate da un mento e una mascella
spigolosi.
«Sì.»
«Io
sono Crystal.
È un piacere.»
Il
ragazzo scrollò
le spalle con noncuranza. «Sei qui per sostituire Serena o
sei solo un’altra di
quelle stupide stagiste della Saintsbury?»
«Cos’hai
contro
quelle della Saintsbury?», chiese lei stizzita.
Crystal
ricordò le
parole di Miranda. “Non infastidirlo
e
lui non infastidirà te.”
Oliver
fece
spallucce. «Niente di personale.»
«Comunque
sostituisco Serena», disse lei.
«Oh,
be’, non ti
invidio comunque», rispose. «Buona
fortuna.»
Oliver
la spostò
di lato e s’introdusse nello spogliatoio senza aggiungere
altro.
Crystal
fu lì lì
per chiedergli che cosa intendesse dire con quell’ultima
frase, ma le sue
intenzioni di dissolsero quando Oliver chiuse la porta con un colpo,
facendola
sobbalzare.
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PERSONAGGIO DEL GIORNO:
Crystal Evans
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Capitolo 2 *** Il Ladro di Donuts ***
capitolo
2
IL
LADRO DI DONUTS
Quel
pomeriggio Crystal si
trovò a gestire
da sola il locale. Il venerdì era il giorno di riposo di
Oliver, e Miranda si
era allontanata per consegnare un ordine dall’altra parte
della città.
La ragazza pensò che se
Miranda non si era
fatta problemi a lasciarla da sola voleva dire che già si
fidava di lei. In
realtà a quell’ora non c’era mai molto
andirivieni di clientela, ma Crystal era
comunque soddisfatta della buona impressione che aveva fatto nella sua
prima
settimana di lavoro.
Andò a sedersi ad uno
dei tavolini all’entrata
con il quotidiano tra le mani. Avrebbe letto i titoli giusto per
ammazzare il
tempo, in attesa che Miranda tornasse per darle il cambio.
Aveva appena sfogliato la prima
pagina,
quando con la coda dell’occhio le parve di vedere
un’ombra scivolare oltre la
porta d’ingresso aperta.
Volse lo sguardo per controllare,
ma non
vide nessuno. Probabilmente si trattava soltanto dell’ombra
proiettata dai rami
degli alberi in strada che dondolavano al vento.
Tornò a posare gli occhi
sul titolo di
testa, che parlava dell’ennesimo atto vandalico sulla Pacific
Palisades, poche
miglia lontano dall’Every Flavour Donuts. Sembrava che delle
gang si stessero
contendendo il dominio di quella zona.
All’improvviso
udì una risata femminile provenire dalla veranda del locale
e si voltò
allarmata. Una ragazza alta e dalla chioma color ruggine se ne stava in
piedi
al centro della veranda, una mano appoggiata su una delle sedie di
vimini.
Crystal non fece in tempo a
chiedersi come
avesse fatto ad entrare, che un ragazzo biondo balzò
all’interno scavalcando la
siepe che delimitava il terrazzino con un’agilità
da parkourer. Atterrò sulle
punte dei piedi, accovacciato e con le braccia tese. Sì
rizzò in piedi veloce
come un furetto, prese la rossa per i fianchi e la baciò.
Esterrefatta, Crystal
pensò a che cosa
dovesse fare. Quello non era di certo un comportamento da tenere in un
locale,
ma Crystal rifletté anche sul fatto che quei due teppisti
dovevano avere più o
meno la sua età e non aveva la minima idea di come avrebbero
reagito vedendo
che a riprenderli fosse una loro coetanea.
Si avviò verso la
veranda, paonazza in
volto per la rabbia, quando un rumore alle sue spalle le
gelò il sangue nelle
vene. Era lo scricchiolio che il soppalco produceva ogni volta che
qualcuno
saliva dietro al bancone.
Crystal si voltò di
scatto e sorprese un
ragazzo dai capelli scuri trafficare nella vetrina dei donuts. Stava
agendo
indisturbato, come se nessuno potesse vederlo.
«Ehi, giù le
mani da lì!», gridò Crystal
correndo verso il ragazzo.
Lui alzò appena la
testa, con aria
indifferente.
«Dimmi, sei sordo per
caso?», insistette
la ragazza.
Il ladro addentò una
ciambella, poi volse
lentamente lo sguardo verso Crystal. La fissò per un lungo
momento prima di
aprire bocca. «Stai… Parli con me?»,
domandò con nonchalance.
Crystal pensò che non
aveva mai incontrato
nessuno con tanta faccia tosta. Alzò le braccia in aria,
spazientita. «Con chi
altri, se no? Vieni subito via da lì!»
Il volto del ragazzo
cambiò. Crystal vide
stupore e incertezza nei suoi occhi verdi come l’erba in
primavera.
«Allora?»,
continuò lei sempre più
nervosa.
«Io…tu…»,
balbettò il ragazzo. «Tu riesci
a vedermi?»
Crystal levò gli occhi
al cielo. «Oh, Dio,
un'altra vittima della Crocodile. Sei già il terzo questa
settimana.»
«Non sono un
drogato», replicò secco il
ragazzo. «Come ti chiami?»
Crystal impuntò le mani
sui fianchi. «Cosa
vorresti fare, flirtare con me per farti passare il fatto che ti ho
appena
sorpreso a rubare dalla vetrina?»
Lui fece un sorriso sghembo,
mostrando
denti così luminosi da non poter essere naturali.
Nel frattempo, il tizio biondo che
Crystal
aveva visto in veranda si era avvicinato ai due, attirato dal trambusto.
«Che cosa succede,
Gabe?», intervenne alle
spalle di Crystal. «Ti stai divertendo con la mondana?»
La ragazza fece un balzo per lo
spavento,
poi si voltò furente verso il biondo. «Come mi hai
chiamata, scusa?»
Lui parve rimanere sorpreso. Forse
non era
abituato alle ragazze come Crystal, che non avevano paura di niente,
nemmeno di
rispondere in quel modo ad un ragazzo tanto bello.
Gabe lanciò al compagno
uno sguardo
confuso. «Ecco, appunto», disse. «Cosa
credi che sia?»
«Non è
abbastanza bella per essere una
fata…», constatò l’altro con
aria seria,
«…però…»
«Siete pessimi ladri
quanto pessimi
adulatori», replicò Crystal.
«Non era un complimento,
sciocca mondana», rispose
il biondo.
«La vuoi piantare di
chiamarmi in quel
modo?»
«Che cosa facciamo,
Cole?», intervenne
Gabe. «Sembra che lei non sappia nulla.»
Il biondo, che rispondeva al nome
di Cole,
scrollò le spalle. «Non ne ho idea. Forse sta solo
fingendo. Hai controllato il
Rivelatore?»
Gabe annuì.
«Nessuna traccia di attività
demoniaca. Questa qui è una mondana.»
Crystal, che aveva assistito a
quella patetica
scenetta in silenzio, sbuffò. «Sentite, siete
completamente pazzi. Vi conviene
darmi delle spiegazioni sensate prima che io decida di chiamare la
polizia»,
obiettò. «Perché sei entrato
scavalcando la siepe?», chiese rivolta a Cole. «E
tu perché sei salito dietro al bancone come se io non avessi
potuto vederti?»,
aggiunse parlando a Gabe.
«Perché,
tecnicamente, tu non dovresti
riuscire a vederci», obiettò il moro.
Crystal fece una risatina
amareggiata.
«Ancora con questa storia?»
«Gabe, questa non
può essere una mondana.
Nessun mondano può avere la Vista
e lei ce l’ha», dedusse il biondo.
«Questo lo so»,
replicò infastidito.
«Dovremmo portarla da Victoria. Forse lei saprà
dircelo.»
«Io non vengo da nessuna
parte!», esclamò
Crystal. Stava quasi urlando. «E chi è quella tipa
laggiù? Perché ci sta
fissando?»
«Oh, lei è
Julie», disse il biondo. «E’
rimasta a fare da palo. Sai, le precauzioni contro i demoni non sono
mai
troppe. Ultimamente agiscono indisturbati anche in pieno
giorno.»
«Taci, Cole»,
lo zittì Gabe. «Non devi
parlare di questo con lei. Non sappiamo ancora che cosa
sia.»
«Chiediamo un parere a
Julie», propose Cole.
«Lei è una mezza fata, no? Forse ne capisce
più di noi.»
«Già, buona
idea», disse l’altro prima di
fare un cenno alla ragazza con la mano.
Appena colse il segnale, la ragazza
diede
un’occhiata fugace alla veranda, poi entrò
all’interno del locale.
Crystal non poté non
notare l’eleganza con
cui ella si muoveva, sinuosa e bellissima in un paio di jeans scuri ed
una
giacca di pelle nera. I lunghi capelli ramati le danzavano sulle spalle
in
morbidi boccoli composti.
«Che cosa
c’è?», domandò lei con fare
annoiato.
Ora che era ad un metro da lei,
Crystal
vedeva la perfezione del viso della ragazza. La pelle diafana e liscia
come
quella di una statua greca, gli occhi verdi impreziositi da pagliuzze
ambrate,
le labbra piene e rosse. Portava un septum al naso, un semplice
cerchietto
argentato abbellito da minuscoli diamanti.
«La ragazza non
è una mondana»,
decretò Cole con un tono da sentenza giudiziaria.
«Però. Che
occhio», lo schernì lei. «Se ci
vede senza che abbiamo attivato la runa della visibilità
è per forza una di
noi.»
I due ragazzi si guardarono negli
occhi,
poi entrambi si tirarono su le maniche delle giacche nere.
Crystal rimase terrificata nel
vedere che
le braccia di Cole e Gabe erano piene di strani tatuaggi, alcuni scuri
e altri
più chiari. Alcuni sembravano quasi delle cicatrici.
«La mia non è
attiva», disse Gabe
indicandosi uno tra le decine di segni sull’avambraccio
destro.
«Neanche la
mia», rispose Cole guardandosi
il gomito sinistro.
«Allora o è
una Nephilim o è una Nascosta.
C’è poco su cui riflettere»,
obiettò la rossa.
«Ma di che diavolo state
parlando?», urlò
Crystal in preda al panico.
Era convinta che quei tre stessero
cercando di farla uscire di senno.
«Io so chi siete
voi», continuò. «Fate
parte di una di quelle stupide bande che stanno facendo casino sulla
Pacific
Palisades, non è vero? Per cos’è, per
la droga? Si spiegherebbe perché nessuno
di voi ha ancora detto una frase che abbia un senso.»
«Solo perché tu non ne vedi il senso
non vuol dire che non ci sia, mondana»,
la prese in contropiede Cole.
«Non chiamarla
così», fece Julie in tono
quasi materno. «Non lo è.»
Crystal ne ebbe abbastanza di quei
tre
psicopatici. «Io chiamo la polizia»,
sentenziò mostrando sicurezza. In realtà era
terrorizzata.
Cole scoppiò a ridere.
La sua risata suonò
quasi malvagia. «Certo. E cosa dirai? Chi ti
crederà, se nessuno può vederci a
parte te?»
«Ma che accidenti
stai…» S’interruppe
quando udì dei passi alle sue spalle.
«Eccomi, Crys».
Era la voce di Miranda.
«Con chi stavi parlando?»
La ragazza si girò, il
volto esangue. «Oh,
ciao. Io…»
«Ehi, ti senti bene?
Sembra che tu abbia
appena visto un fantasma.»
Crystal guardò dietro la
sua spalla,
cercando le sagome di Gabe, Cole e Julie, ma non vide nessuno. Allora
compì
mezzo giro e fu allora che li vide, in piedi nella veranda. Cole stava
sogghignando e le faceva il saluto militare, mentre Gabe e Julie erano
impegnati a parlare fra di loro.
«Crystal?»
Lei si volse nuovamente verso
Miranda. Sospirò.
«È tutto okay. Credo di aver avuto un calo di
pressione.»
Crystal richiuse la porta
d’ingresso con una
gomitata. Le gambe le tremavano. Il suo cervello non riusciva ancora ad
elaborare ciò che era successo al locale. Sebbene ci avesse
riflettuto per
tutto il tragitto fino al suo appartamento, non era arrivata a nessuna
spiegazione logica. Chi erano quegli strani individui tatuati che aveva
visto?
E soprattutto che cosa volevano da lei?
Si gettò sul letto e
calciò via le scarpe
nervosamente. Stava cominciando a pensare di essersi immaginata tutto.
Loro le avevano detto che nessuno
poteva
vederli, che nemmeno lei avrebbe dovuto. Però lei ci
riusciva. Eccome.
Crystal li aveva definiti degli
psicopatici fino a che Miranda non era entrata nel locale e le aveva
chiesto
con chi stesse parlando. Era stato in quel momento che lei aveva capito
che la
sua collega non riusciva davvero a
vedere i tre teppisti vestiti di nero, mentre lei sì.
Parole sconosciute le risuonavano
nella
testa. Rune. Rivelatore. Nascosta. Demoni.
Fate.
Mondana.
Cole e Gabe l’avevano
chiamata così più
volte. Ma che cosa significava davvero quella parola?
Si rigirò nel letto e
affondò la testa nel
morbido cuscino di piuma d’oca. Quei tre fantasmi erano
troppo strani, troppo
seri e perfino troppo perfetti per essere dei semplici componenti di
una banda
criminale. Parlavano con scioltezza usando quei termini inusuali come
se
fossero stati delle parole in codice. Non puzzavano d’alcol,
né parevano dei
rozzi. La ragazza poi, Julie, era di una bellezza quasi esagerata.
Crystal la
immaginava più sfilare lungo una passerella vestita da
Armani, piuttosto che
ritirare mazzette tra i vicoli.
Chiuse gli occhi, cercando pace. Ma
presto,
quand’era sul punto di addormentarsi, davanti alle palpebre
abbassate iniziò a
vedere strani segni luminosi simili a geroglifici.
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PERSONAGGIO DEL GIORNO:
Gabriel 'Gabe'
Moorefield
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Capitolo 3 *** La cacciatrice ***
capitolo
3
LA
CACCIATRICE
Quando
quel martedì pomeriggio
Crystal entrò all’Every Flavour Donuts la prima
cosa che vide fu un ragazzo
moro proteso verso la vetrina delle torte.
Il
cuore le balzò nel petto, prima
di scoprire con un filo di delusione che si trattava soltanto di
Oliver.
Dovette ammettere a sé stessa che per una frazione di
secondo aveva pensato, sperato, che
si trattasse di Gabe. L’affascinante
e tenebroso ladro di donuts.
Per
tutto il week-end Crystal non
si era data pace. Aveva continuato a pensare a quegli strani individui
vestiti
di nero che l’avevano riempita di domande e paroloni. Come se
fosse stata lei
quella sbagliata.
Si
era ripetuta come un mantra una
delle frasi di Gabe che più le avevano dato il tormento,
cercando di trovarci
un senso. Che cosa credi che sia?
Gabe aveva detto cosa, non chi. Come se non l’avessero
considerata
un essere umano.
Quando,
sull’uscio, il campanello
trillò sopra la testa di Crystal, Oliver guardò
verso l’ingresso e sospirò. «Ce
l’hai fatta.»
Non
le sembrava di essere in ritardo. Diede un’occhiata
all’orologio a muro appeso
sulla parete di destra tra i numerosi quadri e ottenne la conferma di
essere in
perfetto anticipo di cinque minuti.
«Giornataccia?»,
domandò Crystal avvicinandosi al bancone.
Oliver
si slacciò il grembiule da cameriere e lo gettò
sul pianale di marmo, mancando
Crystal di qualche centimetro. Sbuffò. «Non credo
siano affari tuoi.»
Crystal
lo guardò indispettita. «Cercavo solo di essere
gentile», replicò. «La prossima
volta mi ricorderò di lasciarti nel tuo brodo.»
Oliver
la fissò per un momento lunghissimo. I suoi occhi di
ghiaccio penetravano in
quelli cobalto di lei. Crystal si sentì percorrere da un
brivido lungo la spina
dorsale.
Poi
il viso di lui si rilassò. «Scusa»,
mormorò. «È che ho avuto da discutere
con
Miranda e ora sono un po’ nervoso.»
«Con
Miranda?» Crystal faticava a crederci. Miranda era
così gentile e composta che
non riusciva proprio a immaginarsi il suo viso paffuto contorto dalla
rabbia. O
la sua voce mielosa spezzata dal disappunto.
«Sì»,
continuò Oliver. «Ma preferirei non
parlarne.»
Crystal
annuì. «Certo, come vuoi.»
Oliver
riprese il grembiule che pendeva verso il lato esterno del bancone e lo
piegò
minuziosamente. Guardò l’orologio, che segnava
qualche minuto dopo le quattro,
e la sua espressione pensosa si affievolì.
«Sarà meglio che vada», disse
voltandosi.
«Oliver»,
lo chiamo Crystal d’impeto. C’era una cosa che
voleva chiedergli.
«Sì?»,
rispose lui. Volse solo la testa, mostrandole il profilo dritto del suo
viso.
«Io…volevo…
Devo farti una domanda.»
«Spara.»
Crystal
si avvicinò e gli si mise davanti, in modo da poterlo
fissare negli occhi. Di
solito era brava a capire se qualcuno mentiva, interpretando lo sguardo.
«È
a proposito di quella cosa che hai detto l’altro giorno. Che
non mi invidi per
il fatto di aver preso il posto di Serena», fece.
«Perché? Cosa sai che io non
so?»
Gli
occhi di Oliver cambiarono colore. O almeno così parve a
Crystal. Le iridi del
ragazzo si scurirono fino a diventare di un grigio nube.
Oliver
rimase in silenzio, cupo, ma compì un passo verso di lei.
Tese le labbra fino a
farle scomparire. «Sei una ragazza curiosa», le
disse. «E i curiosi non filano
bene da queste parti.»
Crystal
ne aveva abbastanza dei suoi giri di parole. «Tu non pensi
che fosse colpa di
Serena, non è così? Parlo delle
sparizioni.»
«Ciò
che penso io non ha molta importanza.»
«Invece
sì.»
Oliver
le posò una mano sulla spalla con fare poco amichevole, poi
avvicinò le labbra
al suo orecchio destro. «Non credo sia stata colpa
sua», sussurrò. «Anzi, ne
sono certo.»
A
Crystal vennero i brividi. Non seppe se per la rivelazione di Oliver o
per il
caldo alito di lui che le accarezzava la guancia. Fece un passo
indietro.
«Chi,
allora?», domandò con decisione.
Il
ragazzo sorrise, mostrando un minuscolo brillantino
sull’incisivo sinistro. «Ti
conviene moderare la tua curiosità, ragazzina», le
ripeté.
Il
modo in cui Oliver l’aveva chiamata le fece venire la pelle
d’oca. Ragazzina. Suonava
quasi peggio di mondana.
Oliver
la salutò
con un cenno del mento, poi
si voltò e si diresse verso lo spogliatoio, lasciando
Crystal con più domande
di quante non ne avesse avute prima.
Quando
Crystal tornò dal retrobottega, formale nella sua divisa che
profumava ancora
di ammorbidente, non fece in tempo a salire sul soppalco del bancone
che una
familiare chioma color rame catturò la sua attenzione.
Julie
se ne stava seduta al contrario su una delle sedie della sala, gli
avambracci
appoggiati sullo schienale a sorreggerle il mento. La sua testa
dondolava lenta
e le sue labbra stavano producendo un leggero fischiettio.
Notò che sul corpo
aveva tatuaggi identici a quelli che aveva visto addosso a Gabe e Cole,
ma in
quantità decisamente inferiore.
Crystal
finse di non notarla, sebbene il cuore avesse preso a martellarle nel
petto
così forte che temette che la rossa potesse sentirlo.
Andò dietro al bancone e
iniziò a trafficare con le tazzine impilate sopra alla
macchina del caffè.
Sentiva addosso lo sguardo inquisitore di Julie.
Alla
fine la rossa si decise a parlare. «Sai, non credo che
fingere di non vedermi
servirà a qualcosa.»
Crystal
si trattenne dall’impulso di voltarsi e sputare qualche
insulto.
«Ho
attivato la runa della Visibilità. Chiunque può
vedermi, adesso. Anche la tua
amica pasticciera che sta in laboratorio.»
La
mora non riuscì più a ignorarla. Si
voltò di scatto. «Che cosa vuoi?»,
ringhiò.
Julie
fece un risolino divertito. «Bugia», disse
mostrandole un polpaccio tatuato
lasciato scoperto da degli shorts di jeans. «Non ho attivato
alcuna runa. Tu
hai davvero la Vista.»
Crystal
sbuffò dal naso, arrabbiata e ferita. Si sentiva una stupida
per essere cascata
nel tranello di quella… quella… Non sapeva
nemmeno come identificarla.
«Vorresti
dire che agli occhi della gente ora sembro una psicopatica che parla da
sola?»,
le chiese.
Julie
sorrise. «Già», rispose. «Non
gesticolare troppo. Attirerai meno l’attenzione.»
«Che
cosa volete da me?», chiese di nuovo, questa volta
più pacata. «Tu e i tuoi due
amichetti?»
Julie
alzò le spalle nude. «Ci incuriosisci.»
«Chi…
Che cosa
siete?», domandò a bruciapelo. Utilizzò
lo stesso termine che
loro avevano usato con lei. Cosa,
non
chi.
«Shadowhunters»,
rispose con nonchalance. «Cacciatori di demoni.»
«Cacciatori
di che?», le fece eco. «È un modo
simpatico per dire che siete degli agenti
sotto copertura a caccia di criminali?»
Julie
sorrise ancora. «È una buona definizione da
mondani, questa», fece. «La
proporrò a Victoria.»
«Chi
è questa Victoria?», domandò Crystal.
Era tesa come una corda di violino.
«Avete detto che volete portarmi da lei. Chi è, il
vostro superiore?»
«Una
specie. È la nostra Maestra», le
spiegò. «Comunque, quando dico demoni parlo
alla lettera. Creature demoniache che infestano questo e altri mondi e
che lo
stanno portando alla rovina. Noi li combattiamo e li rispediamo nella
loro
dimensione originaria, lontano da qui.»
Crystal
non sapeva se trovarlo spaventoso oppure divertente. Chi era la pazza,
fra le
due? Chi delle due stava delirando, adesso? Crystal non ne era
più così sicura.
«Mi
trovate interessante perché riesco a vedervi»,
constatò con amarezza.
«Teoricamente non dovrei riuscirci, giusto? I mondani,
come li chiamate voi, non posso vedervi. Eppure io sì.
Perché?»
«È
per questo che sono qui,
Crystal», le rispose la rossa piegando la testa di lato.
«Per scoprirlo.»
Era
la prima volta che Julie nominava il suo nome, e nelle orecchie di
Crystal
parve suonare in modo strano, un modo a cui non era abituata. Sapeva di
famiglia, anche se solo vagamente. Il modo in cui una madre chiama un
figlio, o
una ragazza chiama la sua migliore amica. Cose che a Crystal non era
mai stato
possibile apprezzare.
«Ti
porterò a casa», aggiunse Julie.
«A
casa?», domandò sorpresa. «Quale
casa?»
Julie
sorrise di sbieco. «Be’, non è proprio
una casa. Diciamo che è un rifugio. Ci
siamo stabiliti a Long Beach solo da un paio di settimane, dopo esserci
allontanati dall’Istituto di Los Angeles. È una
misura temporanea.»
«Sarebbe
il posto dove vivete tu, Cole e Gabe?»
«Sì,
ma non siamo gli unici. Con noi ci sono anche Caleb e Vanessa, da
Washington
DC. Il loro Istituto è stato attaccato da un branco di lupi
mannari circa un
mese fa. Poi c’è Donovan, direttamente da Idris -
la nostra città d’origine. E
ovviamente Victoria.»
«Aspetta,
ferma. Hai detto lupi mannari?»
Julie
parve cadere
dalle nuvole. «Sì. Neanche a me piacciono molto.
Puzzano come cani bagnati e
lasciano bava ovunque.»
Crystal
la fissava
come se Julie le avesse appena confessato un omicidio.
La
rossa si alzò
in piedi e si sistemò il top di pizzo nero che le si era
sollevato un po’ sui
fianchi pallidi. «Okay», fece. «Credo che
per ora possa bastare. Sarà meglio
che tu elabori tutto questo un po’ per volta.»
«Dove
stai
andando?», disse d’istinto. Per qualche ragione la
presenza di quella ragazza
la rassicurava e si ritrovò inaspettatamente a desiderare la
sua compagnia.
«Al
rifugio»,
rispose. «Stiamo elaborando un piano d’attaccato
per… Hey, ma che importa.»
Andò verso la porta d’ingresso. «A che
ora smonti?»
Crystal
esitò un
istante. «Alle nove.»
«Ti
aspetterò nel
vicolo qui dietro», la informò.
«Victoria desidera vederti.»
La
ragazza non
seppe cosa rispondere. Una parte di lei bramava ardentemente
informazioni,
scoprire di più riguardo agli Shadowhunters e vedere dove si
nascondevano. Ma
l’altra parte, quella razionale, era terrorizzata
all’idea di venire a
conoscenza di altre cose o fatti spiacevoli. Crystal tremava come una
foglia al
solo pensiero di sentir parlare ancora di demoni, fate e licantropi.
Forse,
pensò, era più facile non credere al
sovrannaturale che sforzarsi per farlo.
Forse era meglio che Julie la lasciasse in pace a continuare la sua
noiosa e
semplice vita da mondana.
Ma
quello che le
uscì dalle labbra, contro ogni logica, fu:
«D’accordo.»
Julie
le fece un
cenno con la testa, poi si voltò ad aprire la porta a vetri
che dava sulla
strada. Quando scattò, veloce come un gatto, verso la
Quattordicesima il
meccanismo a campanello sopra lo stipite tintinnò appena.
Si
era alzato il
vento. Crystal era stretta nel suo cappotto grigio, la testa bassa per
evitare
che i capelli le frustassero il viso. Si era infilata in un vicoletto
buio tra
Atlantic Avenue e Lime Avenue, aspettandosi che Julie fosse
già lì ad
attenderla, appoggiata contro il muro di mattoni con le braccia
incrociate
davanti al seno e una suola della scarpa schiacciata contro la parete.
Ma il
vicolo era scuro e silenzioso. Si udiva solo un lieve scricchiolio di
roditori
che frugavano tra i sacchetti dell’immondizia abbandonati
lungo i bordi della
stradina.
«Julie?»,
tentò.
«Sei qui?»
Non
ottenne alcuna
risposta. Decise di utilizzare la torcia dello smartphone per
illuminare almeno
un po’ il vicolo.
Un
fascio di luce
gialla fendette l’aria e si posò
sull’asfalto slavato, tracciando un cono.
Crystal vide solo dei cassonetti, una bicicletta arrugginita e delle
cassette
di legno. Non c’era traccia di Julie.
Guardò
l’ora.
Erano quasi le nove e mezzo. Con un sospiro, decise di tornare in
strada e
sedersi su una panchina ad aspettare. Chissà, forse Julie
aveva avuto un
contrattempo e stava ritardando.
O
forse si era soltanto presa gioco di lei.
Quell’idea
iniziò
ad invaderle i pensieri, fino a diventare l’unica soluzione
possibile. Un peso
le si formò alla bocca dello stomaco: sapeva di umiliazione.
Attese
fino a che
il campanile su Broadway Court non batté le dieci in punto.
Crystal sentiva in
bocca il sapore dell’orgoglio ferito e della rabbia che
montava.
Chiamò
un taxi,
furiosa. La prossima volta che l’avrebbe vista, se mai fosse
accaduto, gliel’avrebbe
fatta pagare per bene.
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NOTA DELL'AUTRICE: Fine del terzo capitolo. Spero che
la storia cominci a sembrarti interessante! Se ti va, mi farebbe molto
piacere se mi lasciassi una piccola recensione con le tue opinioni. Sia
positive che negative. Grazie mille :)
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PERSONAGGIO DEL GIORNO:
Julie Reyes
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Capitolo 4 *** Lasciate ogni speranza, o voi ch'entrate ***
capitolo
4
LASCIATE
OGNI SPERANZA, O VOI CH’ENTRATE
Una
fitta coltre di nubi grigie sovrastava
Long Beach, donandole un’aria malinconica e dimenticata.
L’Atlantic Avenue era
quasi deserta alle sei del mattino e la poca luce rossastra che
filtrava dalle
nubi trasformava la strada in un paesaggio tetro e surreale, dove gli
alti
palazzi svettavano verso il cielo senza proiettare alcuna ombra sui
marciapiedi
e le vetrine dei negozi riflettevano le fronde degli alberi che si
muovevano
agitate al ritmo delle raffiche di vento.
Crystal
si tirò il cappuccio della felpa
sopra la testa per ripararsi dalle prime gocce di pioggia. Sapeva che
in pochi
minuti sarebbe scoppiato un acquazzone, perciò
affrettò il passo: non aveva
alcuna intenzione di beccarsi una polmonite.
Quando
finalmente arrivò davanti all’Every
Flavour Donuts la pioggia si era infittita. Crystal infilò
una mano tra le
grate della serranda abbassata e bussò sul vetro della porta
d’ingresso con
impazienza. Riusciva a vedere l’ovale di luce che filtrava
dall’oblò del
laboratorio.
Saltellava
sui piedi
per scacciare il
freddo e con una mano si teneva il cappuccio ben tirato sulla fronte.
Ma dove
diavolo si era cacciata Miranda? Perché ci metteva
così tanto?
Sussultò
nell’udire la serranda che si
alzava. Solitamente Miranda la raggiungeva alla porta
d’ingresso per attivare
il meccanismo automatico, ma probabilmente doveva esserci anche un
pulsante di
attivazione in laboratorio di cui Crystal non era a conoscenza.
Quanto
la pesante struttura metallica si
fermò con un clic,
Crystal posò una
mano sul pomolo della porta e questa scivolò subito verso
l’interno. Era
aperta.
La
ragazza entrò nella sala, già pronta a
levarsi la felpa umida per scaldarsi nel tepore dei forni accesi. Ma
subito si
rese conto che l’ambiente era gelido, forse ancora di
più di quanto non fosse
all’esterno. Il suo respiro caldo produceva nuvolette di
vapore che si
dissolvevano sopra la sua testa.
Crystal
guardò l’orologio a muro. A quell’ora
l’aria avrebbe dovuto essere satura del profumo delle
brioches, dell’olio
scoppiettante in cui venivano fritti i donuts e delle crema
pasticciera. Invece
c’era soltanto un vago odore dolciastro che riempiva tutto il
negozio.
I
peli biondicci le si rizzarono sulle
braccia come dei sonar. C’era qualcosa di lugubre in quella
semioscurità e in
quel silenzio innaturale, qualcosa che aveva attivato in Crystal un
campanello
d’allarme.
Si
avvicinò con passo felpato verso
l’oblò. Si alzò sulle punte per
guardarvi all’interno, ma il laboratorio era
deserto. Sul bancone d’acciaio c’erano degli
attrezzi da lavoro sporchi e una
ciotola traboccante di glassa al cioccolato.
«Miranda?»,
tentò.
Pensò
che probabilmente si era recata in
cantina a prendere qualche ingrediente, oppure al bagno. Decise di
andare a
controllare nel retrobottega.
La
porta dello spogliatoio era chiusa e
dal bordo inferiore filtrava una striscia di luce che disegnava un
rettangolo
sul pavimento. Si udivano delle voci basse all’interno, roche
e gutturali. Con
la mano che tremava, come in preda agli spasmi, Crystal
abbassò la maniglia ed
aprì la porta di scatto.
Rimase
con il fiato sospeso anche quando
vide che all’interno dello spogliatoio c’era
Oliver. Soltanto Oliver. Era a
torso nudo e si asciugava il collo con un piccolo asciugamano bianco.
Il
ragazzo si voltò repentinamente.
«Hey!», esclamò. «Nessuno ti
ha insegnato le buone maniere?»
Crystal
divenne paonazza. «S-scusa»,
balbettò. «Io…»
Il
ragazzo gettò la salvietta a terra. «Tu
cosa?»
«Stavo
cercando Miranda. Non pensavo che
ci fossi tu», rispose. «Non è il tuo
giorno libero?»
Oliver
allargò un sorriso che a Crystal
fece venire la pelle d’oca. C’era qualcosa di
strano nei suoi occhi di
ghiaccio.
«Cambio
di programma», disse lui. Si chinò
verso il suo armadietto aperto, quello a sinistra accanto alla porta
del bagno,
per prendere la divisa da una delle grucce.
Fu
allora che Crystal la vide. Una
striscia trascinata di sangue che usciva da sotto la porta del bagno e
terminava nel punto in cui Oliver aveva gettato l’asciugamano.
La
ragazza si sentì svenire. L’odore
metallico del sangue la investì in pieno come un treno in
corsa. Tutto questo
non aveva il benché minimo senso.
Si
era accorta che il sangue le era
defluito dal volto, perché lo specchio nella parete opposta
ora stava
riflettendo l’immagine di un fantasma dai capelli scuri. Ma
Oliver non doveva
notarlo.
Raccolse
dentro di sé tutta la forza che
trovò per non gridare. Per quanto potesse sembrare assurdo e
impossibile,
doveva cercare di mantenere la calma.
«Con
chi stavi parlando, poco fa?», gli
domandò Crystal, la voce tremolante.
Oliver
si volse verso di lei, mostrandole
tutto il suo arsenale di muscoli. S’infilò nella
testa la polo bianca su cui
era stampato il logo dell’Every Flavour Donuts. Aveva
completamente ignorato la
domanda.
«Dov’è
Miranda?», ritentò. Il tono della
sua voce si era fatto più alto ed insistente.
«Oliver.»
Il
ragazzo si avvicinò a lei senza
togliersi quel ghigno dalla faccia, la t-shirt che gli pendeva dal
collo spiegazzata.
«Ti ho già detto che sei troppo curiosa?»
Crystal
rimase immobile, il cuore che
pulsava frenetico dietro alle costole. «Tu li vedi, non
è vero?», mormorò, a
voce così bassa che temette non l’avesse sentita.
«Riesci a vederli.»
«Non
so di cosa tu stia parlando.»
«È
per questo che eri certo che le
sparizioni di cibo non fossero colpa di Serena»,
continuò. «E perché mi hai
augurato buona fortuna. Sapevi che sarei stata licenziata
anch’io per lo stesso
motivo. Sapevi che il cibo spariva perché loro
venivano a prenderselo.»
«Loro
chi?», replicò. «Sicura di non avere
la febbre? Stai delirando.» Allungò una mano per
posargliela sulla fronte.
Crystal
scostò la mano di Oliver con un
gesto secco. «Chi sei?», domandò.
«Non sei uno di loro. Loro sono pieni di quegli
strani tatuaggi…»
«Loro?»,
la scimmiottò lui. «Perché non li
chiami con il loro nome?», aggiunse. «Quegli
schifosi traditori alleati con il Conclave...»
Crystal
guardò oltre la spalla di Oliver,
cercando la striscia di sangue che aveva visto poco prima.
Sentì le lacrime
addensarsi sugli occhi.
«Che
cosa le hai fatto?», latrò. Era
sull’orlo della disperazione.
Oliver
scrollò le spalle. «Sapeva troppo»,
rispose. «Proprio come te.»
Una
lacrima calda scivolò sulla guancia
della ragazza. «Che cosa vuoi da me?»
Lui
sogghignò, negli occhi una spietatezza
che Crystal non aveva mai visto. «Io? Da te?
Niente», obiettò. «Ma sono mesi
che ti stiamo dietro. La nostra Signora ti vuole a tutti i
costi… Dice che sei
importante.»
«Che
cosa?»
«Ad
essere sinceri neanche a me sembri
niente di speciale, ragazzina. Ma gli ordini sono ordini.
Consegnerò il tuo
corpo alla Signora di Avalon.»
Le
mani di Oliver scattarono come saette
sulla gola di Crystal e strinsero così forte che la ragazza
iniziò a vedere
strani bagliori davanti agli occhi. Boccheggiava come un pesce, in
debito
d’ossigeno, senza sapere che cosa fare.
Crystal
afferrò i polsi di lui e affondò
le unghie nella sua carne con tutta la forza che aveva. Lo
guardò dritto negli
occhi, sperando che un barlume di compassione lo convincesse a
lasciarla
andare.
Ma
con terrore vide le iridi del ragazzo
dissolversi lentamente come fumo, e ora due palle bianche simili ad
albumi
fissavano il vuoto.
«Non
opporre resistenza, Iwak».
La voce di Oliver si era
arrocchita e abbassata di due ottave. Sembrava risalire direttamente
dagli
Inferi.
Le
dita della mano libera del ragazzo si
allungarono mostruosamente fino a diventare tentacoli lividi con cui
circondò e
legò le braccia e il corpo di lei.
«Ti
prego», sussurrò Crystal senza voce. Il
suo volto era il dipinto del terrore.
«Non
pregarmi, ragazzina», replicò il
mostro umanoide. «Solo i deboli pregano.»
Proprio
quando Crystal sentì che stava per
spegnersi, come l’esile fiamma di una candela si abbandona
all’insistenza della
pioggia, un squarcio di assi rotte rimbombò nella stanza.
Crystal
riconobbe con la coda dell’occhio
l’alta e scura figura di Gabe, che aveva irrotto nello
spogliatoio mandando in
frantumi la porta di legno.
«Lasciala
andare», ordinò Gabe alla sagoma
deforme che stringeva il corpo di Crystal. Nella mano destra teneva una
spada
argentea, che a Crystal parve di vetro.
«Spiacente,
Shadowhunter», rispose
l’essere demoniaco. «La ragazza appartiene a
noi.»
«Risposta
sbagliata», dichiarò Gabe prima
di scaraventarsi contro il demone a tutta velocità.
La
spada vitrea roteò in aria e fendette
il braccio del mostro. La mano tentacolata che stritolava il corpo
minuto di
Crystal cadde a terra e del sangue nero e denso come il catrame
iniziò a
riversarsi dall’avambraccio monco, imbrattando il pavimento.
Un
gridò animalesco di dolore uscì dalle
fauci aguzze del demone, il cui volto si deformava sempre di
più. Crystal, in un
delirante attimo di riflessione, pensò che restava ben poco
dell’affascinante
barista dagli occhi di ghiaccio che aveva conosciuto.
I
tentacoli allentarono la presa dal corpo
di Crystal, così come la mano sana che premeva sul suo
collo. La ragazza cadde
ai piedi del demone con un tonfo sordo.
Gabe
diede un’occhiata fugace a Crystal,
prima di accanirsi nuovamente sull’essere demoniaco e
conficcargli la spada
angelica nel torace fino all’elsa.
«Alea
iacta est, Nephilim», gorgogliò il
demone. Guardò Gabe negli occhi per un
istante interminabile, prima di accartocciarsi su sé stesso
come un palloncino
sgonfio fino a scomparire.
Il
dado è tratto.
Gabe
sollevò lo sguardo verso Crystal. La
trovò svenuta in una pozza di sangue demoniaco, il collo
livido dove il demone
l’aveva stretta e il volto esangue. Le sue labbra erano
cianotiche.
Lo
shadowhunter sperò con tutto sé stesso
che non fosse troppo tardi. Se la ragazza fosse morta perché
lui aveva
indugiato troppo fuori dalla stanza non se lo sarebbe mai perdonato.
Si
sedette a terra, accanto a lei, e si
issò la testa della ragazza su una coscia fasciata di cuoio.
Le diede dei
buffetti sulle guance, augurandosi che reagisse.
«Crys?», la chiamò. «Mi senti?
Crystal!»
La
ragazza aprì lentamente gli occhi e il
giovane shadowhunter poté smettere di trattenere il fiato
per la tensione.
Crystal
dovette sbattere più volte le
palpebre prima di realizzare che cosa era successo. Percepiva la mano
di Gabe
accarezzarle la guancia. Sentiva i vestiti fradici appiccicati alla
pelle e i
capelli impiastricciati di una sostanza oleosa che le si incollavano
sulla
fronte.
«Ti
senti bene?», le chiese Gabe.
«Certo»,
rispose lei sarcastica. Notò che
la voce le usciva strozzata. «Mai stata meglio.»
«Ti
ho appena salvato la vita», rispose
lui indignato. «Potresti almeno fingere
di essermi grata.»
La
ragazza si appoggiò a Gabe per issarsi
in piedi. Lui la seguì.
«Perché
dovrei?», fece lei, cercando di
scrollarsi via il sangue di dosso. «Non mi sembra vi sia
importato molto, ieri sera,
di avermi lasciata sola ad aspettare la tua amica in mezzo ad una
strada. E ora
piombi qui a fare l’eroe e pretendi che io ti sia
riconoscente!»
Gabe
annuì consapevole. «Ieri notte Julie
è stata attaccata da un demone Ravener. Se
l’è vista brutta. Il morso del
Ravener contiene una potente tossina in grado di distruggere i tessuti
del
corpo», le spiegò. «Nessuno di noi
sapeva che aveva un appuntamento con te. Se
l’avessi saputo prima non sarei venuto ad avvisarti soltanto
ora, non ti pare?»
Crystal
sentì il cuore stringersi per il
senso di colpa. Aveva creduto che Julie l’avesse piantata in
asso, mentre invece
si era trovata in pericolo mortale. «Mi dispiace»,
mormorò. «Come sta adesso?»
«Se
la caverà», rispose soltanto.
Crystal
guardò il punto del pavimento dove
il demone si era rimpicciolito fino a sparire ed istintivamente si
portò una
mano al collo per constatare i danni. Un grosso nodo le si
formò in fondo alla
gola. «Grazie», sussurrò con la voce
spezzata. «Per avermi salvato la vita.»
Fece
spallucce. «Non c’è di che.»
Crystal
lasciò cadere la testa sulla
spalla di Gabe e si lasciò trascinare in un pianto
liberatorio. Le lacrime le
scendevano copiose sulle guance in fiamme, mentre le labbra le
bruciavano come
fossero state coperte di sale.
Gabe
strinse la ragazza a sé circondandole
le costole con un braccio e posò l’altra mano
sulla testa di lei, per attutire
i tremori dei suoi singhiozzi.
«Va
tutto bene, adesso», le sussurrò
all’orecchio
cullandola. «Ci sono io a proteggerti.»
Crystal
annuì sulla sua spalla: questa
volta gli credeva. Abbracciata a lui, la giacca di pelle che le
scaldava il
corpo infreddolito e le sue mani che la accarezzavano, si sentiva
finalmente protetta.
«Andremo
al rifugio», le disse lo
shadowhunter. «Lì sarai al sicuro.»
Senza
volerlo, lo sguardo di lei cadde
sulla porta semichiusa del bagno, dove c’era ancora quella
macabra striscia di
sangue scarlatto. «Miranda…»,
sussurrò, cercando di staccarsi da Gabe per
andare a controllare.
«È
meglio che tu non veda», le consigliò
Gabe trattenendola. «Non è un bello spettacolo.
Credimi.»
«Ma
forse è ancora viva. Forse…»
Gabe
scosse la testa. «I demoni mutaforma
come quello fanno vere e proprie carneficine. Non la riconosceresti
nemmeno.»
L’ennesima
lacrima le rigò il viso
ceruleo. «Potresti… andare a controllare
tu?», le chiese in tono di supplica. «Per
favore.»
Gabe
annuì serio e si staccò da lei per
raggiungere il bagno. Crystal fu investita da una ventata di aria
gelida e per
un istante rimpianse di aver allontanato il ragazzo con la sua calda
giacca di
pelle.
Lui
entrò nel bagno. Ci restò per un
minuto o forse più, mentre Crystal nello spogliatoio si
torturava le mani dall’ansia.
Quando Gabe uscì chiudendo la porta, lei capì che
non c’era più niente da fare.
Crystal
si portò le mani davanti alla
bocca e soffocò un grido. Tutto questo non poteva essere
reale.
Gabe
si affrettò a raggiungerla, le
circondò le spalle con un braccio e la trascinò a
forza fuori dalla stanza,
mentre lei continuava ad urlare e singhiozzare come solo chi vede la
morte in
faccia può fare.
Gabe
aveva caricato Crystal nella sua
Shelby grigio metallizzato e aveva guidato fino a Liberty Court, dove
si
trovava l’entrata al rifugio degli Shadowhunters. Ora si
trovavano in un vicolo
semibuio disseminato di immondizia, precisamente davanti a una botola
nascosta
sotto ad un grosso bidone della spazzatura verde.
Il
ragazzo estrasse dalla giacca di pelle
uno strumento simile ad una penna, con la punta arrotondata e
luminescente. «Questo
è uno stilo», spiegò a Crystal
mostrandoglielo. «Serve a farci i Marchi… e
anche a fare questo» continuò infilando la punta
dello stilo in una strana
serratura su uno dei lati della botola. Questa scattò e si
sollevò di qualche
centimetro, giusto per infilarci sotto le mani. «Anche se
immagino che non sia
il momento migliore per farti una lezione sugli Shadowhunters, non
è vero?»
Crystal
lo guardò di sbieco. Era ancora
sotto shock. «Già, grazie.»
Gabe
sollevò il coperchio della botola e indicò l’orbita
vuota. «Prego, prima le signore.»
Crystal
stava per ribattere qualcosa,
quando notò che alcuni scalini si stavano materializzando
nel buio per formare
una scala. Non disse nulla e scese i gradini col fiato sospeso.
Il
ragazzo le fu dietro in un attimo,
chiudendosi la botola alle spalle. «Prosegui
dritto.»
Quando
Crystal compì un passo, come per
magia delle torce ai lati di un lungo corridoio si accesero, rivelando
la
strada a poco a poco. Crystal osservò le fiamme tremolanti
delle torce,
chiedendosi con quale meccanismo si accendessero in quella sequenza.
La
ragazza sentiva i passi di Gabe dietro
di lei, ma continuava comunque a voltarsi per assicurarsi che si
trattasse di
lui. Ogni volta il moro, con infinita pazienza, le sorrideva gentile.
Presto
arrivarono ad una porta, illuminata
da una plafoniera dalla luce intermittente. C’era un pezzo di
cartone appeso
sulla soglia, imbrattato da una scritta a pennarello.
«Lasciate
ogni speranza, o voi ch’entrate», lesse
Crystal trattenendo un brivido.
A
Gabe sfuggì una risatina. «È stato
Cole.
A lui piace fare questo tipo di umorismo.»
Crystal
fece una smorfia. «Già»,
replicò. «Davvero
divertente.»
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PERSONAGGIO DEL GIORNO:
Nicholas 'Cole' Dawson
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Capitolo 5 *** Il Rifugio ***
capitolo
5
IL
RIFUGIO
Qualsiasi
cosa Crystal si fosse aspettata
oltre lo spesso portone di legno, non era di certo ciò che
si trovava ora di
fronte agli occhi.
Una grande stanza grigia e
rettangolare si
stagliava davanti a loro, spoglia e fredda come una vecchia cantina.
Alcuni
tappeti stracci e pezzi di vecchie scatole di cartone erano stati
sistemati alla
bell’e meglio sul pavimento di cemento grezzo per attutire il
freddo. Sulle
pareti incementate, dove a tratti comparivano dei mattoni sbeccati,
erano
appesi degli arazzi colorati raffiguranti strani simboli simili ai
tatuaggi
impressi sulle braccia muscolose di Gabe.
Crystal rivolse al ragazzo uno
sguardo
confuso. «Quindi… tu vivi qui?»
Gabe annuì.
«Non sembra molto
accogliente.»
«Già, lo so.
Ma è il meglio che siamo riusciti
a rimediare fino ad ora», mormorò con un velo di
risentimento nella voce.
«Presto troveremo un posto più adatto. Un ospedale
abbandonato, una villa in
rovina… Qualcosa del genere.»
Prima che Crystal potesse replicare
qualcosa, una figura leggermente incurvata in avanti spuntò
dall’ombra. La
ragazza riconobbe la chioma color ruggine della shadowhunter.
Il viso di Julie affiorò
dall’oscurità
come se fosse emersa da una vasca d’acqua, e fu allora che
Crystal notò il suo volto
deturpato e più gonfio di come lo ricordava.
«Ehilà»,
li salutò. «Ben arrivati.»
Crystal le rispose con un cenno,
concentrata ad osservare la cicatrice che le correva trasversalmente
sulle
labbra. Quando gli occhi si abituarono alla semioscurità
della stanza, Crystal
vide con orrore che le braccia di Julie erano tappezzate di solchi
simili a
gravi bruciature.
Allora
è questo che fa il morso di un Ravener, pensò con ribrezzo.
Poi notò che sul dorso
della mano sinistra della rossa appariva un complesso tatuaggio nero.
«È un iratze»,
le disse Gabe seguendo il suo sguardo «Una Runa della
Guarigione. Serve a far
guarire le ferite più in fretta.»
Crystal annuì, come
assorta.
«Mi spiace di averti
lasciata là da sola,
ieri notte.» Il dispiacere nella voce di Julie era autentico.
«Sono stata presa
alla sprovvista da un demone sulla Pacific Palisades, mentre venivo da
te. Non
mi è andata molto bene. Non mi ero nemmeno fatta dei Marchi
di protezione e…»
«Non importa»,
la interruppe Crystal.
«Come ti senti?»
Julie fece una smorfia.
«Come se mi avesse
investita un camion, fossi stata presa a pugni da un lottatore di sumo
e
gettata in una vasca d’acido contemporaneamente.»
«Una meraviglia,
insomma», intervenne
Gabe.
«Già.»
«Fortuna che
c’è Cole a prendersi cura di
te.»
Nonostante la scarsa illuminazione,
Crystal vide le guance di Julie tingersi di rosso.
«Smettila,
Gabe», replicò la rossa. «Non
c’è niente fra me e…»
Gabe fece un sorriso sornione.
«Certo,
come no.»
Julie distolse lo sguardo dal moro
per
posarlo su Crystal. «Vieni, ti mostro il tuo letto.»
S’incamminò
lentamente verso il punto da
cui era arrivata: una rientranza a destra della stanza. Crystal si
accorse che
la ragazza claudicava, anche se cercava di non darlo a vedere.
Si affacciarono su un'altra stanza,
più
stretta della prima e più illuminata. Alcune torce appese ai
muri rischiaravano
e intiepidivano l’ambiente.
Lungo la parete destra correvano
dei letti
di fortuna, formati da vecchie strutture di ferro battuto e materassi
strappati
su cui giacevano alcune coperte e cuscini logori.
«Qui dormono Vanessa e
Caleb», informò
Julie. «E Donovan, quando c’è.»
«Cioè quasi
mai», aggiunse Gabe.
Sulla parete di sinistra
c’erano invece
dei cassettoni e uno scaffale di metallo su cui erano appoggiati alcuni
libri e
degli effetti personali. Crystal rimase senza parole nel vedere un
grosso
coltello dalla lama argentata su uno dei ripiani, lasciato
lì così, alla
portata di tutti.
Julie attraversò la
stanza seguita da
Crystal e Gabe, che chiudeva la fila con fare annoiato. Aprì
una porta che dava
su un corridoio, il quale su entrambi i lati terminava in una stanza.
La rossa indicò a
sinistra. «Di là
dormiamo io, Gabe e Cole.»
«L’Angelo solo
sa quanto vorrebbero poter
dormire da soli», disse ironico Gabe.
Julie gli sferrò un
pugno sulla spalla.
«Finiscila!», esclamò. «Credi
che avrei problemi a relegarti nella dispensa, se
lo volessi?
Il moro soffocò una
risatina.
«Tu dormirai di
qua», continuò Julie
rivolta a Crystal, indicando la stanza a destra. «Di solito
ci dormo io, ma ho
pensato che avessi bisogno di un po’ di privacy.»
«Non avresti dovuto
disturbarti», rispose
Crystal imbarazzata.
La rossa fece spallucce.
«Figurati.»
«Dov’è
Cole?», chiese senza quasi rendersene
conto.
«Oh, dovrebbe essere qui
a momenti…»
«Eccomi»
proruppe una voce alle loro
spalle.
I tre ragazzi si voltarono a
guardare il
biondo che stava fermo sulla soglia, stretto in un gilet di cuoio e dei
pantaloni scuri. Nella mano destra teneva per i manici un borsone blu
da
palestra.
Crystal non fece in tempo a
chiedersi che
cosa contesse, che Cole allungò un braccio e gliela porse.
«Tieni. È roba
tua», le disse.
«Roba mia?»,
ripeté la ragazza prendendo
il pesante borsone.
«Ho mandato Cole al tuo
appartamento per
prendere un po’ delle tue cose. Vestiti, trucchi…
roba del genere», le spiegò
Gabe. «Conosco voi donne. Morireste per il vostro
fondotinta.»
Crystal lo guardò torva.
«Come sai dove
abito?»
Il moro sorrise, mostrando un
accenno
imbarazzato che non si addiceva per niente al suo viso da cattivo
ragazzo.
«Gabe ti ha seguita,
l’altra sera», le
svelò Julie con un ghigno.
«Non è
vero», cercò di difendersi lui.
«Oh, sì, che
è vero», aggiunse Cole.
Gabe guardò Crystal come
per scusarsi. «Non
ti stavo seguendo. Volevo soltanto
assicurarmi che tu fossi al sicuro.»
«Uh, giusto!»,
replicò Julie. «Gabe è
convinto di doverti proteggere da qualcosa. Dimmi, di che cosa dovrebbe
avere
paura una ragazza che a malapena sa della nostra esistenza?»
«Parla quanto vuoi,
Juls», la rimbeccò il
moro. «Sta di fatto che per poco oggi non si è
fatta ammazzare da un mutaforma.
L’ho trovata nello spogliatoio dell’Every Flavour
Donuts giusto in tempo perché
lui non la strozzasse.»
Le bocche di Julie e Cole si
spalancarono
come se la loro mascella si fosse addormentata tutto d’un
colpo. «Che cosa?»,
fecero all’unisono.
«Il barista»,
spiegò Gabe. «Era un demone.
Ha fatto fuori la pasticciera… e ci è mancato un
soffio che uccidesse anche
Crys.»
«Crys»,
ripeté Cole con ironia. «Ma sentilo. Siete
già passati ai diminutivi?»
Julie fece un colpo di tosse per
camuffare
una risata.
«Siete proprio degli
idioti», convenne
Gabe con disappunto.
«Io invece sono
dispiaciuto per quelle
ciambelle», cambiò argomento Cole.
«Erano così buone. Ora dovremmo cercarci
un’altra pasticcieria per arraffarci la colazione.»
«Da quanto rubavate al
negozio?», chiese
Crystal con una punta di disapprovazione. «Una ragazza
è stata licenziata per
colpa vostra.»
Cole annuì.
«Lo so. Ma noi dovremo pur
mangiare! Il Conclave non ci passa il vitto, qui.»
«Già»,
s’intromise Julie. «Da quando ci
siamo separati dall’Istituto di Los Angeles sembra che il
Conclave non ci veda
di buon occhio.»
«Non abbiamo un soldo.
L’unico oro che possediamo
è quello di famiglia, che viene tramandato tra generazioni
di Shadowhunters da
secoli. Non ci sembra il caso di scambiarlo con delle provviste, per
quanto io
ami il cibo.»
«O altrimenti ci sarebbe
l’auto di Gabe»,
propose Julie. «Se ci pensate, potremmo farci dei bei
soldi…»
«Scordatelo,
Reyes», replicò Gabe.
«Capisco»,
mormorò Crystal assente, corrugando la fronte. La testa le
doleva tanto che le
orecchie le fischiavano.
Gabe posò le mani sulle
spalle di Crystal.
«Vieni», le disse. «È il caso
che ti riposi.»
Crystal non oppose resistenza. Gli
consegnò il borsone e si lasciò guidare verso la
sua stanza barcollando.
Julie sgomitò nel fianco
di Cole ed
entrambi rimasero in corridoio a fissarli divertiti.
«È la prima
volta che vedo Gabe così…»,
sussurrò Julie, fermandosi a metà per cercare le
parole.
«…umano?»,
suggerì Cole.
«Già»,
confermò lei. «Umano.»
Gabe era rimasto seduto sul bordo
del
materasso fino a che Crystal non si era addormentata. Ora che la sua
mente si
era alleggerita del peso della realtà, pensò
Gabe, aveva dipinta sul volto un’espressione
dolce e serena che non le aveva mai visto.
Per un momento ripensò a
qualche ora
prima, quando era entrato all’Every Flavour Donuts pensando
ad una stupida
battuta per fare colpo su di lei e invece era finito col doverle
salvare la
vita da un demone. Se avesse ritardato anche di un solo minuto, magari
per
arraffare un donut dall’espositore… Gabe non ci
volle pensare.
Quando l’aveva vista a
terra, esanime, con
il volto pallido come la cera… A Gabe non era mai capitato
di provare paura per
qualcuno, in special modo per una mondana – anche se in
realtà Crystal non era affatto
una mondana, rifletté. Non aveva
mai sentito il sangue raggelarsi nelle vene come quando si era posato
il capo
di lei, appiccicoso di sangue demoniaco, sulla gamba e aveva iniziato a
scuoterla sperando che ciò bastasse a rianimarla. E la
ventata di sollievo che
lo aveva investito quando lei aveva aperto lentamente le palpebre e i
suoi
occhi lucenti come zaffiri lo avevano guardato, confusi e
disorientati…
Gabe sentì dei passi
dietro di sé.
Riconobbe il passo leggero di Julie e non si voltò. Il suo
sguardo rimase posato
sull’esile corpo di Crystal, che dormiva beata sotto ad un
pesante strato di
coperte.
«Come sta?»,
gli chiese la rossa.
«È
scossa», rispose. «Si è addormentata a
fatica. Tutto questo non dev’essere facile per lei.»
La sentì appoggiarsi con
una spalla allo
stipite della porta, come faceva spesso. «Gabe», lo
chiamò.
Lui si volse lentamente, quasi
avesse
timore a distogliere lo sguardo dalla sua protetta.
«Fa’
attenzione», gli mormorò. «Gli iratze non possono guarire i cuori
spezzati.»
Gabe sorrise. «Da quando
ti preoccupi per
me?»
Lei lo guardò torva.
«Ehm, da sempre?»
«Intendevo dire per i
miei sentimenti.»
Sospirò.
«Riconosco quello sguardo, Gabe.
Il modo in cui la guardi. È lo stesso… con cui
guardavi Meghan.»
All’udire quel nome, Gabe
fremette come
avesse preso una scossa elettrica. Il suo sguardo
s’indurì.
«Non voglio che tu
soffra… ancora»,
continuò la ragazza, passandosi una mano fra i capelli color
del rame. «Il clan
ha bisogno di te. Io ho bisogno di
te.»
«Lo so»,
replicò. «Va tutto bene, Juls. È
solo che… sento di
doverla
proteggere». Nel vedere che Julie non era convinta aggiunse:
«Non vi
abbandonerò. Non questa volta.»
«Ti credo»,
rispose a bassa voce. «Ma, ti
prego, stai attento. Non sappiamo nemmeno chi lei sia o da dove
venga.»
All’improvviso Gabe
s’illuminò, ricordando
un fatto che lo aveva incuriosito. «Ho sentito il demone
dirle che la stava
seguendo da mesi. Che l’avrebbe consegnata ad una donna, una
certa Signora di
Avalon.»
«Avalon? Mai
sentito», fece Julie
soprappensiero. «Che si trovi in una dimensione
demoniaca?»
Gabe si strinse nelle spalle
muscolose.
«L’ho anche sentito chiamarla in un modo strano. Iwak. Hai idea di che cosa
significhi?»
Julie scosse la chioma rossa.
«No. Proverò
a chiedere a Vanessa, non appena lei e Caleb rientreranno dalla
missione. A
quanto pare se ne intende parecchio di lingue antiche.»
«D’accordo.
Grazie.»
Julie girò sui tacchi
verso il corridoio. «Esco
a cercare qualcosa per fare colazione», concluse.
«Uh, Victoria vi aspetta
nella Sala. Andate da lei, quando Crystal si sarà
svegliata.»
Gabe annuì senza
aggiungere altro, poi
tornò a posare gli occhi sul volto pacifico di Crystal.
Quando lei si svegliò,
intorpidita e
spaesata, la prima cosa che mise a fuoco fu Gabe seduto su una sedia da
toeletta, accanto a una specchiera, proprio di fronte a lei. Stava
trafficando
con il cellulare.
Si alzò goffamente su un
gomito, cercando
di distinguere il pavimento dal soffitto. La testa le girava come fosse
appena
scesa da una giostra. Fece appena in tempo a sporgersi dal letto, che
un conato
di vomito la costrinse a riversare la sua colazione sul tappeto viola
di Julie.
Gabe la guardò alzando
un sopracciglio.
«Be’, buon pomeriggio anche a te.»
Crystal sputacchiò, poi
si pulì la bocca
con il braccio. Alzò lo sguardò verso il ragazzo,
livida per la vergogna. «Scusa…
Non volevo.»
Gabe si alzò in piedi
storcendo il naso.
«Dillo a Julie. Lei sì che
s’incazzerà.»
«Mi dispiace»,
ripeté a fatica.
Lui sorrise. «Lascia
perdere. Mica l’hai
fatto apposta.» Si chinò sul pavimento e
ripiegò il tappeto su sé stesso,
intrappolando la poltiglia al suo interno, e lo appoggiò
davanti alla porta per
ricordarsi di andare a buttarlo.
Si avvicinò a Crystal
studiando le ombre
violacee sotto i suoi occhi cobalto. «Come va? Passata la
nausea?»
«Sembrerebbe di
sì.»
Si accovacciò davanti a
lei per trovarsi
alla sua altezza. «Victoria ci sta aspettando nella Sala. Ma
se non te la senti
possiamo rimandare.»
Crystal cercò di
mettersi seduta. «No, va
bene. Ce la faccio.»
Gabe le sorrise, affascinato dalla
sua forza
d’animo. «D’accordo. Vai a darti una
sciacquata», le disse dolcemente. «Il
bagno è di là. Io ti aspetto fuori.»
Crystal fece di sì con
la testa e scese
lentamente dal letto, assicurandosi di avere l’equilibrio per
rimanere in
piedi. Andò alla sua borsa ed estrasse alcuni vestiti,
notando con curiosità
che Cole aveva prelevato dal suo armadio soltanto abiti dai toni scuri:
grigio,
blu notte e nero. Scelse un paio di jeans strappati e una t-shirt nera
che
lasciava scoperta una spalla, poi andò nel bagno e chiuse la
porta a chiave.
Non che ce ne fosse bisogno, pensò, ma così si
sentiva più al sicuro.
La ragazza notò con una
vena di disappunto
che la doccia non era costituita altro che da una spina
d’acqua corrente
posizionata poco sopra alla sua testa e da un telo di plastica a fiori
fissato
ad una sbarra di ferro sbilenca. Era abituata al comfort della sua
doccia a
Long Beach Avenue, ma dovette accontentarsi. In fondo,
pensò, era già un lusso
che avesse una doccia tutta per sé in camera sua.
Si tolse i vestiti ancora luridi di
sangue
e sudore e sgusciò sotto il getto bollente della doccia.
Rimase sotto per
alcuni minuti, immaginandosi che la sua ansia le scivolasse sul corpo e
finisse
nel buco di scolo insieme all’acqua e al sudiciume che la
ricopriva.
Trovò
un asciugamano azzurro appena oltre
la tenda. Si asciugò e si infilò i vestiti
puliti. Doveva ammettere che si
sentiva già molto meglio.
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PERSONAGGIO DEL GIORNO:
Victoria Hangsword
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Capitolo 6 *** Verità nascoste ***
capitolo
6
VERITA’
NASCOSTE
La
Sala era molto diversa rispetto
al
resto del Rifugio. L’arredamento era più curato,
con librerie lungo le pareti,
un’imponente scrivania di ciliegio al centro, grandi e
colorati tappeti
persiani che adornavano il pavimento grezzo. L’alto soffitto
a volta era
dipinto degli stessi simboli neri che Crystal aveva visto
all’entrata.
La ragazza
s’incamminò all’interno,
esortata da Gabe. Vide delle lunghe spade appese alle pareti, simili a
quella
con cui Gabe aveva ucciso il demone che si era impossessato di Oliver;
avevano
l’elsa dorata impreziosita da pietre luminescenti e la lama
sottile e
trasparente come vetro. Crystal allungò una mano per
sfiorarne la superficie,
quando Gabe la afferrò per il polso a pochi centimetri dalla
spada.
«Meglio di no»,
le disse piano.
Crystal annuì e ritrasse
la mano. Subito
dopo il suo sguardo fu catturato da un maestoso pianoforte a coda,
posto dietro
la scrivania. La ragazza pensò che uno strumento tanto bello
fosse fuori luogo
in una vecchia e umida cantina, ma sentì le punte delle dita
pizzicare dal
desiderio di preme quei lunghi tasti bianchi.
«Ti piace la
musica?», le chiese Gabe.
Parlava sottovoce, come si farebbe in una biblioteca.
«Sì,
molto», rispose lei.
«Anche a me».
Gabe si sporse verso il
pianoforte e premette alcuni tasti, producendo un suono dolce e
così intenso
che a Crystal venne la pelle d’oca.
La ragazza stava quasi per cedere
alla
tentazione di sedersi sullo sgabello e suonare Al
Chiaro di Luna di Beethoven (quel pezzo rispecchiava
perfettamente il suo umore in quel momento), ma un colpo di tosse
aldilà del
pianoforte la fece tornare alla realtà.
Una donna dai capelli scuri come
pece li
fissava a braccia conserte, fasciata da un tailleur color vinaccia.
Aveva occhi
appuntiti come quelli di un gatto, di un grigio smog, e zigomi alti e
pronunciati.
Crystal, dubbiosa sul da farsi,
porse alla
donna un sorriso di cortesia, poi guardò Gabe in cerca di un
suggerimento.
«Victoria»,
disse lui a mo’ di saluto.
«Questa è Crystal, la ragazza di cui ti ho
parlato.» Posò una mano sulla
schiena di Crystal e la sospinse in direzione della donna, come per
esortarla a
camminare.
La ragazza si avvicinò
alla donna di nome
Victoria. Vide che il suo viso era cosparso di minuscole increspature
ai lati
degli occhi e sulla fronte, e che una lunga cicatrice correva lungo la
parte
sinistra del suo volto, partendo dal sopracciglio e tagliando a
metà la guancia
scarna. Un brivido freddo le corse giù per la spina dorsale
quando realizzò che
il suo occhio sinistro era cieco.
Crystal fece un mezzo inchino, in
evidente
imbarazzo. «È un piacere, Signora.»
«Ti prego, chiamami
Victoria», replicò lei
porgendole la mano. La sua voce era pacata e leggera come una
pioggerella
estiva.
«Crystal
Evans», rispose la ragazza
stringendole la mano. Sentì il palmo freddo e le dita esili
della donna contro
le sue.
«Vuoi che ti lasci sola
con lei,
Maestra?», disse Gabe, che era rimasto accanto al pianoforte.
«Come preferisci,
Gabe», rispose la donna.
«Per favore,
resta», sfuggì a Crystal.
Sentì gli occhi di Victoria e di Gabe puntati addosso e si
sentì avvampare.
«Voglio dire…», attaccò.
Gabe annuì.
«Non c’è problema. Rimango.»
Si sedette sullo sgabello del pianoforte, sparendo dietro al coperchio
laccato.
«Vieni,
sediamoci», disse Victoria a
Crystal, indicandole una delle sedie davanti alla scrivania di
ciliegio.
Victoria si sedette nella poltrona da ufficio di pelle nera di fronte
alla
ragazza. «Gabe mi ha detto che questa mattina sei stata
attaccata da un demone
mutaforma.»
Crystal corrugò la
fronte, ripensando al
volto di Oliver che si deformava in un viscido mostro dai denti aguzzi.
«Sì.»
Victoria annuì pensosa.
«E dimmi, da
quanto sai dell’esistenza del Mondo Invisibile?»
«Vuol dire la prima volta
che ne ho visto
uno? Un demone?», chiese Crystal confusa. «Era
quella la prima volta. Non mi
sono mai imbattuta in niente del genere.»
«No, intendo dire
qualsiasi essere
appartenente al Mondo Invisibile. Nephilim, vampiri, lupi mannari,
fate…»
A Crystal vennero le vertigini.
«Io…»,
mormorò. «La prima cosa strana
che ho
visto in tutta la mia vita è stato Gabe.»
«Hey, grazie!»,
esclamò Gabe con tono
lamentoso da dietro il pianoforte.
«L’ho sorpreso
la settimana scorsa mentre
rubava indisturbato dalla vetrina dei donuts»,
continuò Crystal come se non
l’avesse sentito. «È stata la prima
volta che mi è capitato di vedere uno di
voi. Lo giuro.»
Victoria si accigliò, lo
sguardo
concentrato su di lei. «Quanti anni hai, Crystal?»
«Ventuno»,
rispose.
«Non è
possibile che tu abbia ottenuto la
Vista a ventun anni. Con la Vista ci si nasce, mi segui? Avrai
sicuramente visto qualcosa di
insolito durante tutti
questi anni. Un piccolo elfo correre tra i cespugli della
Quattordicesima, una
pixie saltellare tra i fiori...»
Crystal scosse la testa con
veemenza. «No.
Glielo giuro», ripeté.
«I tuoi giuramenti
mondani non hanno alcun
valore per noi, mi spiace», replicò la donna con
apprensione.
Gabe si sollevò dallo
sgabello premendo
per sbaglio alcune note gravi sulla tastiera. «Lei non mente,
Victoria»,
replicò.
«E come puoi esserne
così sicuro?», fece
la donna. «Da quanto la conosci?»
«Non ha importanza. So
che sta dicendo la
verità. Non avrebbe alcun motivo di…»
«Saresti pronto a
garantire per lei?»
Lo sguardo di Gabe passò
veloce da
Victoria agli occhi atterriti di Crystal, poi di nuovo su Victoria, che
lo
osservava con sguardo di sfida. Le parole del Giuramento gli
risuonarono nella
testa, insieme a tutte le conseguenze che avrebbe dovuto affrontare se
l’avesse
pronunciate ad alta voce. Così, con un sospiro, si risedette
in silenzio,
sconfitto. Non era pronto ad un simile passo per una ragazza di cui
conosceva ancora
così poco.
«Proprio come
pensavo», obiettò Victoria
riportando lo sguardo su Crystal.
«Ho vissuto
nell’Orfanatrofio di Seaside
Park fino ad un paio di settimane fa», mormorò
Crystal fissandosi le punte
delle scarpe. «Non sono mai uscita di lì prima del
mio ventunesimo compleanno.»
Gabe si alzò di nuovo in
piedi. «Ecco la
spiegazione! In un posto come quello è ovvio che non abbia
mai visto un
Nascosto. Chi mai entrerebbe in un Orfanatrofio?»
Victoria alzò gli occhi
al cielo. «Per
favore, Gabe. Se intervieni un'altra volta sarò costretta a
cacciarti dalla
Sala», replicò. «E si dà il
caso che il parco di Seaside sia brulicante di
fate. Impossibile che non ne abbia mai visto una.»
«L’orfanatrofio
possiede un piazzale
interno con un piccolo giardino. È lì che
uscivamo tutti, dopo i pasti.»,
continuò Crystal affranta. «Come le ho appena
detto, Signora, non sono mai
uscita da quel posto prima di due settimane fa.»
«A che età sei
stata portata in
orfanatrofio?», le chiese la donna.
«Non ricordo»,
rispose la ragazza. «Per
quanto ne so, potrei esserci nata, lì dentro.»
Gabe la fissava, gli occhi verdi
come
l’erba in primavera velati da un sottile strato di lacrime
trattenute. Pensò ai
suoi genitori, a tutte le volte che aveva ripetuto loro quanto li
odiasse e
quanto avrebbe desiderato andarsene dall’Istituto. Ma il
pensiero che Crystal
non sapesse nemmeno chi l’avesse messa al mondo e
l’idea che avesse trascorso
la propria infanzia in un orfanatrofio, lo fece riflettere sul fatto
che forse
lui non era messo poi così male.
Victoria alzò gli occhi
su Gabe. «Tu le
credi, Gabriel?»
«Tu no?»,
replicò lui secco.
«Per quanto mi riguarda,
potrebbe anche essere
una spia del Conclave.»
Gabe scivolò da dietro
il pianoforte e
raggiunse la scrivania, fermandosi alle spalle di Crystal.
«Non porta i
Marchi», disse rabbioso. «Non ha la minima idea di
che cosa sia una Runa o uno
Stilo. Stava per farsi uccidere da uno dei demoni più
semplici da sconfiggere.
Non credo che stia mentendo.»
«Oliver…»,
mormorò Crystal. «…voglio dire,
il
demone che mi ha attaccata, mi ha chiamata con uno strano
nome…»
«Iwak»,
disse Gabe.
Crystal guardò dietro la
sua spalla
cercando gli occhi di Gabe. «L’hai sentito anche
tu? Che cosa significa?»
«Non lo so»,
rispose lui. «Stiamo cercando
di scoprirlo.»
Victoria batté i palmi
delle mani sulla
superficie liscia della scrivania. «Bene. Mentre voi vi
divertirete a imparare
le lingue demoniache, io andrò nella Sala
d’Addestramento», disse secca
alzandosi. «Buon pomeriggio.»
Gabe fece segno a Crystal di
alzarsi dalla
sedia e uscire. La ragazza annuì e, sussurrando un lieve
‘grazie’, uscì dalla
sala precedendo Gabe.
«E…
Gabe», lo chiamò Victoria. «La voglio
fuori di qui entro domattina», obiettò indicando
Crystal.
Il ragazzo alzò un
sopracciglio. «Come,
scusa? Perché? Sei stata
tu a
chiedere che la portassimo qui.»
«Già, ma
vorrei ricordarti che questo rifugio,
come ogni Istituto, è lieto di accogliere solamente i
Nephilim. E dal momento
che non abbiamo la minima idea di chi sia quella ragazza, non potrai
tenerla
qui. Sono spiacente.»
«È
assurdo», replicò Gabe schioccando la
lingua.
«È la legge,
Gabriel Moorefield. Che ti
piaccia oppure no.»
Gabe si richiuse la porta della
Sala alle
spalle, imprecando. Solitamente Victoria era comprensiva, seppur un
po’ severa.
Non riusciva a capire perché non potesse esserlo anche con
Crystal, come lo era
stata con decine di Nascosti prima di lei. Chi pensava che fosse? Un
demone Drevak
travestito da bella ragazza?
Si sporse in avanti per guardare
oltre la
tenda scura di capelli che copriva il profilo di Crystal. Gli occhi
della
ragazza erano inespressivi.
«È tutto
okay?», le chiese preoccupato.
«Non fare caso a Victoria. È un po’
lunatica.»
La ragazza alzò
leggermente le spalle.
«Non importa.» Continuava a vagare a grandi passi
per il Rifugio, cercando
l’uscita. Quel labirinto di corridoi la stava mandando in
confusione.
«Dove stai
andando?» Sebbene fosse un
cacciatore ben addestrato, Gabe faticava a stare dietro al passo
rabbioso di
Crystal.
«A casa», disse
secca lei. «È evidente che
non sono la benvenuta, qui.»
Gabe l’afferrò
per un polso, impedendole
di continuare a girare a vuoto. La costrinse a voltarsi.
«Sì, che lo sei»,
mormorò cercando il suo sguardo. «Mi hai sentito?
Nessuno ti sta cacciando.»
Crystal impuntò le mani
strette a pugno
sui fianchi, guardando Gabe di sbieco. «Strano,
perché mi pare di aver appena
sentito Victoria dire il contrario.»
«Tu non darle retta,
d’accordo?» Il tono
di Gabe era dolce quanto una carezza. «Julie ha chiesto a
Vanessa di scoprire
il significato di quella strana parola. Forse ci aiuterà a
capire chi sei... E
stai certa che quando faremo luce sulle tue origini, Victoria si
prenderà cura
di te come una figlia, proprio come fa con noi.»
Gli occhi languidi di Crystal lo
guardavano con profonda disperazione. «E fino ad
allora?»
Gabe sospirò.
«Fino ad allora… Victoria
dovrà sopportare l’idea di incrociarti per i
corridoi.»
Crystal arricciò le
labbra. Stava per dire
qualcosa, quando dei passi alle sue spalle la interruppero. Quando si
volse
vide due sagome emergere dall’ombra: una ragazza dai lunghi
capelli chiari come
spighe di grano e un ragazzo alto dai capelli rasati e una t-shirt
strappata
sul petto, da cui s’intravedeva la pelle d’ebano
deturpata dai Marchi e da
lunghe cicatrici biancastre. Avevano l’aria di due che erano
appena stati
attaccati da un branco di cani randagi.
«Vi siete imbattuti in un
grizzly, di
ritorno dalla biblioteca comunale?», li schernì
Gabe.
Il ragazzo, dagli occhi ambrati
come quelli di un gatto, gli si avvicinò e gli diede uno
scappellotto.
«È bello fare umorismo
stando protetti tra le mura del Rifugio, vero Gabe?»
La ragazza, che era rimasta ferma
sulla
soglia, guardava Crystal come se la stesse studiando a memoria.
«E così tu sei
la nuova cavia da laboratorio di Gabe», disse freddamente.
Gabe interruppe lo scambio di
battute con
il ragazzo dalla pelle scura come la notte per fulminare la bionda con
un’occhiataccia.
«Non ricordavo che ci si presentasse in questo modo ai nuovi
arrivati.»
La bionda fece una smorfia
d’insofferenza.
«Dammi tregua, Gabe. Siamo appena tornati
dall’Istituto di Los Angeles e per
poco Caleb non si faceva ammazzare da un Raum.»
Lo sguardo di Gabe cadde sulla
maglietta
sbrindellata del ragazzo. «Capisco…»
«Mi è saltato
alle spalle mentre
controllavo dove ti fossi cacciata», replicò
Caleb. «Non sono uno sprovveduto.»
«Mai detta una cosa del
genere,
tesoruccio.»
Caleb alzò gli occhi al
cielo. «Donne.»
«Uh, Gabe»,
intervenne la bionda
lanciandogli un piccolo sacchetto di caucciù.
«Ecco la tua Stregaluce. Sono
riuscita a infilarmi in camera tua con la scusa del bagno. Caleb ha
tenuto
occupati i Cacciatori. Nessuno si è accorto di
niente.»
«Grazie,
Vanessa», rispose lui.
La cosa che Gabe estrasse dal
sacchetto
stropicciato lasciò Crystal senza fiato. Si trattava di una
piccola pietra
rotondeggiante che, quando Gabe la strinse attorno al suo palmo,
s’illuminò di
una luce propria irradiando fasci luminescenti tra le sue dita.
«Che
cos’è?», domandò Crystal.
Vanessa strabuzzò gli
occhi argentei.
«Stai scherzando, vero? Non…»
Gabe la zittì con lo
sguardo. «Una pietra
runica di stregaluce», spiegò pazientemente
rivolto a Crystal. «Serve ad
illuminare i posti bui. Ogni Shadowhunter ne possiede una.»
«Gabe», lo
chiamò Caleb. «L’uomo che
gestisce l’Istituto è tuo padre, non è
vero?»
Gabe annuì
lentamente, tenendo gli occhi fissi su Crystal. Voleva evitare che
Caleb
notasse la vena di frustrazione che c’era nel suo sguardo
mentre ripensava a
suo padre.
«Gli assomigli
molto.»
«Solamente
nell’aspetto», disse con un
tono rancoroso che non sfuggì a nessuno. Ora sei occhi lo
fissavano
incuriositi.
Vanessa si schiarì la
voce. «Cooomunque…
Ho qualcosa che non ti piacerà. E nemmeno a
Victoria», disse rivolta a Gabe.
«Hai scoperto qualcosa a
proposito di
quella parola?»
«Molto di
più.» Guardò Crystal con
un’intensità tale che la ragazza sentì
i peli rizzarsi sul collo. Consegnò un
foglietto ripiegato a Gabe, poi sputò a terra: un chiaro
segno di repulsione.
«Sei fortunata che questa terra non sia consacrata.»
Gabe la guardò come se
avesse appena
confessato un segreto di Stato. «Cosa…»
«Creature bandite sia dal
Paradiso che
dall’Inferno, ecco cosa siete. Maledetti
mezzosangue…»
Crystal fissò Vanessa
per dei secondi che
parvero interminabili, prima di voltarsi e scappare oltre il portone e
lungo il
corridoio illuminato dalle torce. Calde lacrime le rigavano il viso
mentre
correva.
Gabe spintonò Vanessa
con una spallata.
«Grazie tante.»
E prese a correre.
La bionda fece una smorfia, poi
guardò
Caleb interrogativa. «Che ho detto?»
Caleb roteò gli occhi.
«Un po’ di tatto
non guasterebbe, ogni tanto.»
«Ma lei
è…»
«Lo so, Ness. Ma per Gabe
è importante.»
Nel mentre, Gabe aveva raggiunto
Crystal,
che si era fermata al di sotto della botola sul soffitto, cercando di
trovare
il modo di far ricomparire gli scalini di pietra dei quali si era
servita per
scendere. Il ragazzo posò le mani dalle lunghe dita
affusolate sulle spalle di
lei, tentando di attutire i suoi sussulti.
«Lasciami»,
latrò lei provando a
scrollarselo di dosso. Stava tastando la pietra fredda alla ricerca di
una leva
o un pulsante di attivazione. «Apri questo accidenti di
affare!»
Gabe provò a fermarla.
«Crystal. Calmati,
per favore.»
«No, non mi calmo
affatto!», gridò.
«Voglio tornare a casa e non vederti mai più. Ne
tè, né quegli stronzi dei tuoi
amici… né questo accidenti di posto!»
«Crys», la
chiamò, mantenendo un tono
rassicurante. «Non puoi tornare a casa. Quel demone che ho
ucciso al negozio ha
detto che ti stanno seguendo da tempo, ricordi? Vuol dire che altri
verranno a
cercarti molto presto. E io non potrò proteggerti se
tornerai a casa tua.»
Crystal scosse la testa. I capelli
le si
incollarono sul viso bagnato di lacrime. «Non voglio la tua
protezione!», sputacchiò.
«E che mi vengano pure a prendere. Non ho più
niente da perdere. Non ho una
famiglia, né amici, e grazie a voi Invisibili
del cavolo ora non ho nemmeno più un lavoro!»
Gabe rimase ad ascoltarla in
silenzio. In
qualche modo riusciva a sentire la
disperazione nella voce di Crystal.
«Aiutami ad aprire questa
dannata botola»,
ripeté. «Voglio andarmene.»
«Crys…»
«No, Gabe. Non puoi
obbligarmi a stare
qui», replicò. «Tutto questo
è da pazzi. E io non ho aspettato ventun anni
della mia vita per ridurmi a questo.»
Improvvisamente Gabe si
ritrovò a
immaginare una Crystal bambina, vestita con un serioso vestitino blu
notte e
due lunghe trecce scure che le scendevano sulla schiena; era seduta
alla
finestra guardando altri bambini liberi
rincorrersi e giocare a pallone nel parco di Seaside, immaginando il
lontano
giorno in cui anch’ella avrebbe potuto trottare e rotolare in
quell’erba
verdissima. Un moto di rabbia s’insinuò nel petto
di Gabe, che desiderò aver
strappato quella bambina innocente da quello spoglio ed infelice
orfanatrofio.
«Allora?» La
voce di Crystal, acuta come
lo scampanellio di una pixie, lo riportò alla
realtà. «Vuoi aprire questo
dannato coso?»
Gabe, suo malgrado,
annuì. Estrasse lo
stilo dalla tasca dei pantaloni e lo infilò in una fessura
all’interno di una
runa angelica solcata nella pietra. La terra sopra le loro teste
iniziò a
tremare, e una scala di gradini di sasso si allungò verso di
loro. La serratura
della botola scattò.
«Vuoi che ti accompagni a
casa?», le
chiese Gabe.
«No», rispose
lei secca. «E giurami che
non mi cercherai più. Mai più.»
Gabe fece una smorfia.
«Ok.»
«Giuralo.»
Alzò gli occhi al
soffitto. «D’accordo. Lo
giuro.»
«Bene»,
concluse avviandosi lungo la scala
di pietra. «Addio.»
Gabe guardò la ragazza
uscire dalla
botola, mordendosi il labbro inferiore con tanta ira che in bocca
sentì il
sapore metallico del sangue. Avrebbe voluto fermarla, cercare di farla
ragionare. C’erano così tante cose che avrebbe
voluto dirle… Invece la lasciò
andare.
Quando strinse i pugni, pronto a
scagliare
la sua rabbia contro la parete di pietra che si trovava di fronte,
sentì
qualcosa accartocciarsi dentro al suo palmo destro. Aprì le
dita, trovando il
foglietto spiegazzato che gli aveva dato Vanessa. Lo
dispiegò con cura,
riconoscendo la calligrafia ordinata della bionda.
Lesse che cosa aveva
scritto… e per poco
non si soffocò con la sua stessa saliva.
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PERSONAGGIO DEL GIORNO:
Caleb Milestone
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Capitolo 7 *** Cattive abitudini ***
capitolo
7
CATTIVE
ABITUDINI
Crystal aveva appena rigirato la
chiave
nella toppa, i tremori alle mani che le ostacolavano i movimenti,
quando si
sentì improvvisamente stanca e priva di forze.
Aprì la porta, cadendoci quasi
addosso, incespicando nei suoi stessi piedi.
Cercò tastoni
l’interruttore della luce,
ma quando lo premette fu come non lo avesse fatto. Non accadde nulla.
Crystal
rimase nell’oscurità assoluta del corridoio,
chiedendosi a fatica che cosa
stesse succedendo. Non poteva credere che si fosse già
fulminata una lampadina.
Si diresse lentamente verso la
cucina,
misurando i passi. Abitava da poco in quell’appartamento e
non era certa di
avere già impresso nel cervello una piantina affidabile con
la giusta disposizione
dei mobili. Si ricordò della lampada da terra accanto alla
porta del bagno di
servizio giusto in tempo per non inciamparci sopra. Cercò
l’interruttore, e
quando lo trovò lo premette con il cuore in gola. Clic. Ma tutto rimase di un inquietante
buio pesto.
Cercò allora la parete
destra del
corridoio, le mani allungate nel buio. Tastò
l’aria protendendosi lentamente,
un piccolo passo alla volta.
Riconobbe sotto ai polpastrelli lo
stipite
della porta della cucina e compì un altro passo in quella
direzione, quando la
sua mano si ritrovò a sfiorare qualcosa di molle, viscido
come il tentacolo di
un polpo.
Crystal ritrasse la mano come
colpita da
una scossa e lanciò un urletto acuto. Che cosa diavolo aveva
appena toccato?
Non fece in tempo a ragionarci
sopra che improvvisamente,
fluttuanti nel buio, apparvero due occhi gialli come quelli di un gufo,
ma
grandi quanto palle da tennis. Un ringhio rimbombò nelle
tenebre, mentre un
ticchettio sul parquet fece intuire a Crystal due grosse fauci aperte
da cui colava
viscida bava.
La ragazza, improvvisamente
circospetta,
indietreggiò nell’oscurità cercando di
non fare rumore, ma quando il ringhio si
fece più forte si voltò e prese a correre verso
la porta d’ingresso urlando.
Scattò giù
per le scale, rampa dopo rampa,
mentre sentiva quella cosa viscida dagli occhi gialli scivolare
giù per gli
scalini. Il terrore che la raggiungesse era così forte che
non pensò
minimamente al fatto che qualche inquilino, attirato dalle sue grida,
potesse
uscire sul pianerottolo e vederla scappare da… nessuno.
Le mancavano solamente due rampe di
scale,
quando si sentì afferrare per le caviglie. Crystal cadde in
avanti, atterrando di
faccia sul ballatoio di marmo scuro. Per un momento pensò di
esseri fratturata
la mascella, ma quando si sentì tirare per i piedi se ne
dimenticò
completamente.
Volse lo sguardo mentre scalciava
per
liberarsi. I suoi occhi spaventati incontrarono quelli gialli del
mostro. Ora
che lo poteva vedere, nella luce dorata delle plafoniere del
pianerottolo,
Crystal sentiva montare la nausea. Il demone assomigliava a una piovra
gigante,
nera come le tenebre e dalle fauci di squalo. Dai denti colava un
liquido
verdastro simile a melma, che si riversava sulle scarpe e sui jeans
della
ragazza. L’aria puzzava di alghe putride e di acqua salmastra.
«Lasciami!»,
gridò Crystal scalciando i
tentacoli del mostro marino che ondeggiavano in aria, iridescenti.
Sentiva il
viso in fiamme e le caviglie nude che pizzicavano al contatto con il
liquido viscoso
che ricopriva il corpo purulento del demone.
Le fauci della piovra si
spalancarono con
un suono viscido, mostrando a Crystal un primo piano di denti affilati
come
coltelli.
La ragazza si sentì
percorrere da un
tremito. Per una frazione di secondo ripensò alle parole di
Gabe prima che lei
abbandonasse il rifugio. Aveva ragione,
pensò. Mi stavano ancora cercando.
E mi
hanno trovata.
Le fauci del demone si gettarono su
di lei,
e Crystal, amaramente consapevole di come sarebbe andata a finire di
lì a poco,
chiuse gli occhi pregando che la sua morte fosse breve. Sentiva le
lacrime
salate che le mandavano a fuoco le guance e l’alito caldo del
mostro sulla sua
testa.
Ma i denti aguzzi del demone non la
raggiunsero mai. Udì uno rumore di metallo che affondava in
carne che non era
la sua, ma restò comunque schiacciata contro la parete con
le palpebre serrate.
Un grido acuto e inumano
rimbombò nella
tromba delle scale, e poco dopo Crystal percepì che i
tentacoli stretti attorno
alle sue caviglie avevano allentato la presa.
Aprì un occhio e scorse
una figura
incappucciata davanti a lei, una spada angelica sguainata nella mano
destra e
un’altra conficcata nel palato del mostro.
«Non fai più
il figo, adesso, uh?»
Era Gabe. Crystal non sapeva se
sentirsi
sollevata o provare rabbia. Lui le aveva giurato che non
l’avrebbe più cercata,
ma ora eccolo lì, scuro come la notte nella sua veste da
Cacciatore, pronto a
salvarle la vita per la seconda volta in un solo giorno.
Il demone ringhiò
ancora, schizzando dappertutto
bava e sangue nero come pece. Sollevò uno dei pesanti
tentacoli e lo indirizzò
verso Gabe, che fu più veloce e lo schivò
saltando verso destra.
Gabe alzò le spade di
vetro in aria, poi
con un grido soffocato di rabbia le fece roteare, fendendo alcuni
tentacoli del
mostro, che caddero a terra con un tonfo sordo.
«Sai, ho sempre schifato
l’insalata di
polpo», riuscì a dire mentre caricava per colpirlo
un’altra volta.
Crystal non riusciva a capire come
potesse
fare dell’humor in una situazione del genere. Lei era
lì, premuta contro la
parete con le ginocchia al petto e le mani che tremavano come foglie al
vento,
mentre Gabe… sembrava quasi che si stesse divertendo.
Quando una spada angelica gli
trafisse
l’addome, il mostro indietreggiò emettendo
sinistri suoni gutturali. Per un
momento parve arrendersi allo scintillio azzurrino della spada, ma poi,
improvvisamente, alzò un tentacolo e sferzò il
volto di Gabe, che per via del
contraccolpo rotolò a terra.
«Gabe!»,
gridò Crystal terrorizzata.
La grossa piovra lo sovrastava,
allungando
i suoi tentacoli viscidi sul corpo del ragazzo. Crystal
riuscì a vedere che il
volto di Gabe era livido dove il demone l’aveva colpito, e
bolle di pus
purulente gli si stavano gonfiando sulla fronte e sulla guancia.
«Scappa!», le
gridò lui mentre tentava di
trascinarsi sui gomiti. I tentacoli si stavano arrotolando alle sue
caviglie
come un serpente attorno ad un topo. «Mi hai sentito? Vattene!»
Crystal cercò di
rimettersi in piedi.
Sentiva male dappertutto, come se si fosse buttata sotto ad un treno in
corsa.
Scuoteva la testa nervosamente, anche se sapeva che Gabe non riusciva a
vederla, dal punto dove si trovava.
«Crys!»,
le urlò di nuovo. La sua voce si spezzò in un
suono acuto e disperato. Volse la
testa cercando la ragazza.
Quando i loro occhi
s’incontrarono, in
qualche modo Crystal riuscì a cogliere un bagliore riflesso
negli occhi verdi di
lui: l’inconfondibile luminescenza del vetro antidemoni. Il
suo sguardo cadde
su una delle spade angeliche che erano scivolate sul pavimento. Si
trovava a
soltanto qualche passo da lei, alle spalle del demone che stava per
stritolare
Gabe.
Senza pensarci due volte si
gettò sulla
spada e l’afferrò per l’elsa. Era
rovente, pensò Crystal, e pulsava come un
cuore impazzito. Quando la strinse, la lama di vetro
s’illuminò di un bagliore
argenteo.
Crystal alzò la spada
sopra la sua testa e
poi, con un grido di sforzo, la conficcò tra le scapole del
demone. Questi
urlò, poi scoppiò come un fuoco
d’artificio dissolvendosi in una cascata di
frammenti di braci e carbone. Tutto ciò che rimase
dell’essere mostruoso fu un
mucchietto di cenere sul pavimento.
Gabe era ancora sdraiato a terra,
il volto
deturpato dal veleno del demone e il respiro pesante. Guardò
Crystal, con il
solo occhio sano, in un misto di scontento e ammirazione.
«Wow», disse.
«Pensavo che ti avrei detto che salvarti la vita non dovesse
diventare un’abitudine,
ma ora credo di poter dire che siamo pari… no?»
La ragazza lasciò cadere
la spada a terra.
Fissò terrorizzata il mucchietto di cenere, per poi pestarci
sopra furiosamente
con la suola della scarpa. «Vaffanculo!»,
gridò calciando via la polvere scura,
che formò una nuvola di fumo grigiastro. L’aria
sapeva di bruciato.
Gabe si alzò in piedi a
fatica e
s’incamminò verso Crystal, una smorfia di dolore
chiaramente dipinta sul viso
sfigurato. Lei lo guardò, cercando di riconoscere dietro
quei lividi il bel
ragazzo moro dagli occhi verdi e la mascella quadrata che aveva
sorpreso a
rubare dalla vetrina del negozio.
Lui stava quasi per sorriderle,
quando
qualcosa lo colpì con violenza sulla guancia sana.
Guardò Crystal, sgomento.
«Ma che diavolo fai?»
Crystal si fissò torva
il palmo della mano,
arrossato per l’urto contro la pelle di Gabe. «Me
lo avevi giurato»,
ringhiò. «Mi avevi promesso che non mi avresti
seguita. Credevo
di aver capito che i giuramenti degli Shadowhunters fossero
vincolanti.»
«E lo sono»,
rispose lui. «Ma io non ti ho
fatto un vero Giuramento. Per quello serve recitare una specifica
formula
contenuta nel Codice. È una specie di rito.»
Crystal sospirò,
esausta. «Quindi ti sei
preso gioco di me.»
Lui scrollò le spalle.
«No, ho
semplicemente giurato come fate voi mondani. Non sembra che diate molto
peso ai
giuramenti, non è così?»
«Io non sono una mondana», replicò
lei, quasi sputando l’ultima parola.
«Già,
l’ho visto», rispose. «La spada non
ti avrebbe risposto se tu non fossi in parte un angelo, come lo siamo
noi
Shadowhunters.»
«Che cosa?
Un angelo?»
Gabe fece un sorriso sbilenco.
«Non ti
gasare, zuccherino. Lo siamo
solamente in parte. Gli Shadowhunters sono figli dei Nephilim, creature
per
metà umane e per metà angeli. I veri angeli non
gironzolano per Long Beach a
caccia di demoni.»
«E che cosa fanno,
allora?»
Gabe scrollò le spalle.
«E chi lo sa»,
mormorò. «Comunque sei stata fortunata che io non
abbia mantenuto la parola. A
quest’ora saresti stata impasto per pancake
demoniaci.»
Crystal lo fulminò con
lo sguardo, poi il
suo volto si ammorbidì. In fondo gli doveva la vita per ben
due volte. «Hai
ragione. Grazie.»
Lui le sorrise, scoprendo i denti
bianchissimi. «E vedi di non farlo più,
okay?», le disse allungando una mano
verso il suo viso.
«Già. Non
volevo colpirti. Credo sia stata
l’adrenalina.»
Gabe le sistemò una
ciocca di capelli
dietro l’orecchio. «Intendevo
scappare.
Non posso passare il mio tempo tirando ad indovinare dove tu ti sia
cacciata.
Il tempismo perfetto è solo roba da film
d’azione.»
Crystal sentì il sangue
fluire sulle
guance. Il tocco di Gabe era delicato come i petali di una rosa.
«D’accordo»,
sussurrò abbozzando un sorriso. «Però
oggi hai dato prova di un ottimo
tempismo, direi.»
«Fortuna
sfacciata», ammise. «In realtà
non capita quasi mai.»
Crystal incastonò i suoi
occhi in quelli
di Gabe, come se stesse cercando di capire che cosa stava provando.
«Perché mi
hai seguita?», gli chiese.
D’istinto Gabe
infilò la mano nella tasca
dei pantaloni e le punte delle sue dita raggiunsero il bigliettino di
carta scritto
da Vanessa. Improvvisamente sentì freddo. Non
posso ancora dirglielo, pensò. Devo
prima esserne completamente certo.
Gli occhi di lei lo fissavano.
Erano lo
specchio della disperazione. Gabe avrebbe voluto raccontarle la
verità, dirle
che cosa avevano scoperto su di lei…
Era per questo che
l’aveva seguita fino a
casa sua, per rivelarle chi - che cosa
- credevano che lei fosse. Ma in quel momento capì che lei
non era ancora
pronta per accettarlo. Sembrava così fragile in quel
cardigan beige macchiato
di sangue demoniaco, la pelle così pallida, gli occhi
così stanchi e confusi.
Gabe la guardò ancora
attraverso gli occhi
gonfi e martoriati dal veleno di demone. Nonostante avesse i vestiti
ridotti a
brandelli, i capelli scuri scompigliati e sporchi di sangue demoniaco
appiccicati al viso, e la puzza di demone addosso, Gabe la trovava
bellissima
come il giorno in cui l’aveva vista per la prima
volta…. quand’era entrato di
soppiatto nel locale dove lei lavorava e aveva svaligiato la cantina
senza
destare sospetti. Nel momento in cui era passato davanti al
laboratorio,
invisibile agli occhi dei mondani, aveva intravisto Crystal dal grande
oblò ed
era rimasto a contemplarla per dei minuti prima di sgusciare
giù per le scale.
«Gabe?» La voce
di Crystal era un
sussurro, che fece risvegliare il ragazzo come da un bel sogno.
«È tutto…?»
Crystal non riuscì a
terminare la frase,
perché Gabe si era proteso verso di lei e
all’improvviso le loro labbra si
erano scontrate, così, quasi per sbaglio. Lei rimase
immobile, bloccata per la
sorpresa, mentre lui le posava le mani sui fianchi e la tirava
delicatamente
verso di sé.
Le labbra di Crystal si schiusero
lentamente sotto la pressione di quelle di Gabe. Il bacio fu dolce,
come
guardare un tramonto sulla riva di una spiaggia deserta. A Crystal
parve di
vedere le sfumature rosse, gialle e viola di un cielo immaginario sopra
le loro
teste, ma quando Gabe la lasciò andare, infrangendo il
sogno, lei scorse
soltanto il soffitto biancastro del pianerottolo.
Il volto deformato di lui era
indurito da
una smorfia indecifrabile. «Per riportarti a casa»,
disse.
Crystal impiegò dei
secondi prima di
capire che aveva appena risposto alla sua domanda. «Il
rifugio?», chiese
stordita.
«Sì. Soltanto
lì sarai al sicuro.»
Crystal lo vide estrarre lo stilo
dalla
tasca della giacca e tracciarsi delle linee sul braccio. La sua pelle
sfrigolava come carne su una griglia al contatto con la punta
luminescente
dello stilo. La sua bocca era contorta in una muta manifestazione di
dolore.
«Che cosa
fai?», gli domandò ansiosa. Nel
vederlo soffrire le si stringeva il cuore.
«Mi sto tracciando un Iratze», rispose.
«Una runa…»
«…della
Guarigione», concluse lei.
Lui la guardò con una
vena d’orgoglio
negli occhi. «Sì. Brava. Farà poco o
niente contro il veleno del demone, ma
perlomeno mi sistemerà le costole rotte.»
Terminò di disegnare la runa, poi si tirò
la manica della giacca fino al polso. «Ci conviene
andare», aggiunse.
«Potrebbero arrivarne altri da un momento
all’altro.»
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PERSONAGGIO DEL GIORNO:
Vanessa Evergreen
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Capitolo 8 *** Un appuntamento singolare ***
capitolo
8
UN
APPUNTAMENTO SINGOLARE
Crystal
fissava il soffitto di
pietra,
sdraiata sul suo letto al Rifugio. Sul suo ventre era appoggiato un
libricino
rosso dalla copertina logora, aperto sulla pagina della Runa della
Chiaroveggenza. Glielo aveva dato Gabe qualche giorno prima, dicendole
che era
il suo vecchio quaderno degli appunti, risalente a quando aveva preso
lezioni
di Runologia all’Istituto di Los Angeles. Aveva studiato
tutto il pomeriggio, e
ora stava cercando di ricordare le linee che componevano alcune rune.
Immaginò
di tracciare la runa della Chiaroveggenza sul soffitto di roccia con
l’indice e
che questa iniziasse a brillare di luce propria.
Sollevò il libro per
guardare la runa
un’ultima volta. Accanto al disegno, simile ad un occhio
aperto, c’era una
breve annotazione. Crystal posò la punta del dito sulla
carta, seguendo la
calligrafia di Gabe. Non se lo immaginava per nulla seduto dietro ad un
banco,
chino su quel quaderno a prendere appunti.
Una fitta di nostalgia le strinse
il
cuore. Gabe era uscito quella mattina assieme a tutti gli Shadowhunters
meno
che Julie, la quale era rimasta a farle da guardia. Ricordava
l’espressione
dura di Gabe e il suo tono intransigente mentre diceva alla rossa di
tenerla
d’occhio. Per quanto ne sapeva, erano andati in missione a
San Diego per conto
del Conclave.
Chiuse il libro e lo
posò sul comodino di
legno scuro. Lei e Gabe non avevano ancora avuto modo di parlare di
quello che
era successo nel pianerottolo di casa sua, dopo che lei aveva ucciso il
demone.
Al solo pensiero di Gabe che le si avvicinava e le stringeva i fianchi
sussultò. Si portò una mano sul viso, sfiorandosi
le labbra con le punte delle
dita. Il modo in cui l’aveva baciata era stato duro e dolce
al tempo stesso,
come una magnifica rosa opalescente che abbia centinaia di spine
acuminate come
punte di coltelli.
Si mise seduta sospirando. Il
display del
suo cellulare segnava le otto di sera. Julie era passata dalla sua
stanza circa
mezz’ora prima per chiederle se avesse voglia di mangiare
qualcosa, ma Crystal
aveva risposto di no. Ora, però, il suo stomaco vuoto
gorgogliava.
Se pensava a come la sua vita era
stata
completamente sconvolta nel lasso di un paio di settimane scarse, le
girava la
testa. Aveva trascorso la sua infanzia e la sua adolescenza tra le
quattro
fredde mura dell’orfanotrofio di Seaside Park, immaginando
come sarebbe stata
la sua vita una volta che fosse uscita di lì. Aveva sognato
mille versioni del
suo possibile futuro, ma nessuna si avvicinava minimante a quello che
stava
vivendo adesso. Alloggiava in una specie di scantinato insieme a
ragazzi
tatuati e addestrati per essere macchine assassine. Aveva perso
l’unico lavoro
che avesse mai svolto. Aveva sentito Vanessa darle della mezzosangue e,
sebbene
non avesse ancora approfondito la questione, si sentiva spaesata e
preoccupata
come al risveglio da una sbornia. Era stata strappata da morte certa
per ben
due volte dal ragazzo più sexy e insopportabile del pianeta,
il quale l’aveva
addirittura baciata. Aveva ucciso un demone utilizzando una specie di
spada
luminosa che assomigliava a quelle dei cartoni animati che guardava da
bambina.
E ora si ritrovava nella stanza di qualcun altro a consultare un libro
sulle
rune angeliche.
Si passò una mano sul
volto. Si sentiva
come se si trovasse in un incubo senza fine da cui non riusciva a
riemergere. A
volte, quando si addormentava al chiaro della stregaluce, sognava
Miranda che
le sorrideva da dietro quei suoi buffi occhialetti, oppure Oliver che
la
liquidava con freddezza. Lavorare all’Every Flavour Donuts
era la cosa migliore
che si fosse mai aspettata che le accadesse, e ora, a distanza di un
solo paio
di settimane dalla sua assunzione, quel posto era soltanto un brutto
ricordo.
Alcune notti si svegliava nell’oscurità, sudata e
in preda ai singhiozzi. I
suoi incubi si manifestavano in tutto il loro orrore, ricordandole che
Miranda
era morta in un bagno di sangue e che Oliver-il-demone era stato ucciso
brutalmente
da Gabe.
Si alzò in piedi
lentamente, rimpiangendo
per un momento l’orfanotrofio. Nella sala ricreativa, dove
lei andava ogni
pomeriggio, c’era un pianoforte nero davanti a cui si sedeva
ogni volta che si
sentiva un po’ giù. La musica era sempre stata un
ancora a cui aggrapparsi
quando si era sentita affondare nelle tenebrose acque della solitudine.
Avrebbe
voluto potersi sedere ancora di fronte a quel pianoforte e suonare il
primo
pezzo che le veniva in mente.
Poi ricordò.
C’era un pianoforte nella
Sala in cui aveva incontrato Victoria per la prima volta. Julie le
aveva detto
che avrebbe potuto visitare la Sala ogni volta che ne avesse sentito il
bisogno, che fosse per leggere un libro o per scrivere una lettera.
Decise che
ci sarebbe andata.
Quando entrò, la Sala
era fievolmente
illuminata da torce azzurre di stregaluce, ma nonostante la
semioscurità
Crystal non si sentiva a disagio. L’aria profumava di pagine
di libri antichi e
di inchiostro. Camminò verso il pianoforte, i passi attutiti
nei pregiati
tappeti persiani. Si sedette davanti alla tastiera, posando le punte
delle dita
sui tasti d’avorio.
Premette qualche nota a caso,
godendosi il
dolce suono della musica che rimbombava nella stanza silenziosa.
Crystal si
sentì svuotare di ogni sorta di preoccupazione e
iniziò a suonare, lasciando
che il suo cuore la guidasse. Per troppo tempo era stata lontana dalla
musica,
tanto che si chiese come avesse fatto a resistere. La musica era la sua
essenza, come per gli Shadowhunters lo era l’uccidere. Bel paragone, pensò.
Si perse nelle sue stesse melodie
per un
tempo indecifrabile. Minuti, forse ore. Non avrebbe smesso fino a che
non le si
fossero indolenzite le dita.
«Allora è
vero…»
Quella voce la fece trasalire. La
musica
s’interruppe con un accordo sgraziato. Quando
guardò oltre il pianoforte, vide
Gabe sulla soglia, appoggiato ad uno stipite.
«No, non smettere. Per
favore», aggiunse
incamminandosi nella sala.
«Da quanto sei
lì?», gli chiese lei
imbarazzata.
Il bagliore delle torce lo
illuminava di
azzurro, addolcendo la sua mascella tesa e schiarendo i suoi capelli
corvini.
Indossava una t-shirt nera e le sue braccia erano fresche di Marchi. Un
grande Iratze gli adornava
l’avambraccio
destro. Non le rispose.
Crystal sistemò la
seggiola e si diresse
verso di lui. Notò che le sue spalle larghe e muscolose
erano rigide come
quelle di un manichino. «Come stai?»,
ritentò.
«Bene», rispose
fermandosi a mezzo metro
da lei. «Siamo stati attaccati da alcuni demoni Shax mentre
cercavamo il
passaggio per…». Sollevò una mano in
aria. «Non importa. Piuttosto, come ti
senti?»
«Gabe, perché
ho la brutta sensazione che
tu mi stia…», replicò lei guardandolo
dritto negli occhi verdissimi.
«…evitando?»
«Non capisco. Cosa vuoi
dire?»
«Non lo so»,
mormorò. «Ogni volta che mi
parli ti interrompi come se ci fosse qualcosa che non vuoi dirmi.
Nell’ultima
settimana non hai risposto a nessuna delle mie domande. Che cosa
c’è?»
Gabe sospirò e il suo
sguardo scivolò
oltre la spalla di Crystal. «Suoni molto bene il
pianoforte.» La sua voce era
un sussurro.
Lei guardò dietro di
sé. «Me la cavo. Era
il mio passatempo preferito all’orfanotrofio.»
Gabe annuì.
«Crys… C’è una cosa che devo
dirti.»
«Sentiamo.»
«Riguarda le tue
origini.» Cercò la mano
di Crystal nella semioscurità e la strinse nella sua.
«È da un po’ che volevo
parlartene, ma volevo prima esserne assolutamente certo.»
Il cuore di Crystal
iniziò a battere
freneticamente. Lo sentiva pulsare attraverso le dita strette in quelle
di Gabe.
«Quando sei entrato poco fa hai detto: “Allora
è vero”. A che cosa ti
riferivi?»
«Vedi, quelli come te
hanno un talento
innato per la musica. Riescono persino ad incantare
gli umani…»
«Quelli come me?», lo interruppe.
«Vuoi dire che io e te non…»
«Non siamo la stessa
cosa, no.»
Lo sguardo di Crystal
vagò disperato per
la stanza. «Ma lo hai detto tu. Io ho sangue angelico. La
spada…»
«Lo so. Caliel ti ha
risposto perché nel
tuo corpo scorre anche sangue angelico.»
«Caliel? È
così che si chiama la tua spada?»
«In un certo senso. Ad
ogni spada angelica
deve essere assegnato un nome prima di essere utilizzata in battaglia.
Nomi di
angeli, s’intende.»
«Capisco»,
rispose lei. «Ma se hai detto
che in me c’è sangue angelico, cos’altro
c’è che… che non va?»
Gabe strinse la mano di Crystal con
più
decisione, quasi da farle male. «Il fatto
è», mormorò. «che
l’altra parte di te
non è fatta di sangue umano, come lo siamo noi Nephilim, ma
di sangue…
demoniaco.»
Crystal sbiancò. Non
poteva credere alle
sue parole. «C-cosa?», balbettò.
«Deve essere uno scherzo. Io non posso essere…
non posso essere come quegli esseri ripugnanti che… che
abbiamo ucciso.»
Gabe la guardò
intensamente. I suoi occhi
emanavano puro dispiacere. «È
così», confermò in un sussurro.
«Ma solamente in
parte. Il sangue angelico predomina sull’altro, altrimenti
Caliel non avrebbe
reagito quando l’hai presa. Le spade angeliche sono costruite
con l’Adamas, uno
speciale metallo anti-demoni.»
«Questo non mi rassicura
affatto», mormorò
Crystal. Aveva la sensazione che la terra le stesse franando sotto i
piedi e
che presto sarebbe stata risucchiata dal pavimento per scomparire negli
Inferi.
Gabe le accarezzò il
mento. «Sei una Seelie,
Crystal», le disse. «Una delle creature
più meravigliose ed interessanti di
questo mondo.»
«Una che?»
«Una Seelie. Fai parte
del mondo fatato,
come Julie», rispose. «Solo che tu… sei
un po’ diversa.»
Crystal si stava spazientendo.
«In che
senso diversa?!»
«Crys, sei una
sirena.»
Lei lo guardò in
cagnesco. Niente di
quella conversazione aveva un senso. «Una… sirena?
Vuoi dire quelle con le
pinne?»
«Quali altre, se
no?», ribadì. «Ricordi il
modo in cui ti ha chiamato il demone? Iwak.
È in un’antica lingua polinesiana. Significa
‘pesce’.»
«Quindi loro…
i demoni… lo sanno. Sanno
che cosa sono.»
«Sì»,
obiettò. «Entrambi i demoni che ti
hanno attaccato avevano sembianze di esseri marini. Questo ci ha
portati a
pensare che provengano da Oceanus, un luogo remoto fra le isole
polinesiane. È
lì che si trova la Corte delle Sirene.»
«Ma non è
possibile», continuò Crystal
confusa. «Se sono una sirena, dove sono le mie pinne?
Perché accidenti non vivo
in una vasca per pesci?»
Gabe sorrise. «Riesci a
fare
dell’umorismo. Mi piace.»
«No, seriamente,
Gabe.»
Lui si strinse nelle spalle.
«Non lo so.
Dobbiamo ancora scoprirlo. In realtà
c’è una leggenda che racconta di sirene in
grado di uscire dall’acqua e trasformare la loro coda in
gambe umane...»
«Come ne ‘La Sirenetta’?»
«Che?»
Crystal strabuzzò gli
occhi. «Walt Disney.
Davvero non sai...? Be’, lasciamo perdere.
Continua.»
Gabe increspò le folte
sopracciglia nere. «È
solo una leggenda, appunto. E in ogni caso la storia dice che le sirene
non
potevano allontanarsi per troppo tempo o troppo lontano
dall’acqua, perché il
richiamo degli abissi glielo impediva. Non si spiega perché
tu sia vissuta per
tutto questo tempo sulla terraferma.»
«Forse vi siete
sbagliati. Forse io non
sono…»
«Lo sei»,
replicò. «Su questo non c’è
dubbio. Hai la bellezza di un essere angelico… e sei
tagliente come un demone.
Hai un talento smisurato per la musica. E la tua voce ha il potere
persuasivo
dei Seelie.»
Crystal esitò. Sentiva
le guance scottare
per l’imbarazzo, ma non sapeva se fosse perché si
sentiva offesa o lusingata.
«Doveva essere un complimento, il tuo?»
Lui sorrise, e i suoi denti
brillarono
d’azzurro al chiarore delle stregaluce. Passò un
polpastrello sulla guancia di
lei, disegnando linee contorte come stesse tracciando una runa.
La sua pelle era liscia e perfetta
come
quella di Julie, pensò Gabe con un tonfo al cuore, e quindi
identica a quella
dei Seelie. Come aveva potuto non farci caso prima? Le ragazze
dell’età di
Crystal solitamente avevano il viso cosparso di brufoletti purulenti,
pelle
secca e acne, invece il suo era liscio come una tavola da surf.
«Dove sei stato tutto il
giorno?», chiese
lei senza quasi accorgersene. Era persa negli occhi di lui, a
contemplare quanto
verdi fossero le sue iridi anche sotto la luce azzurrina emanata dalle
torce.
«Perché, ti
sono mancato?»
Crystal non era certa che ci fosse
del
sarcasmo nella sua domanda. Terribilmente,
avrebbe voluto rispondere, ma si limitò ad una smorfia
seccata.
Lui si dondolò sul
posto. «Julie mi ha
detto che non hai voluto cenare.»
«Non avevo
fame», si giustificò malamente.
«E ora ne hai?»
Crystal accennò un
sorriso. «Un po’»,
ammise.
«Perfetto, allora
sarà meglio che io vada
a darmi una ripulita, uh?», disse abbassando lo sguardo sulla
sua maglietta
imbrattata di sangue secco. «Non è il caso che
esca conciato così.»
«Uscire?»,
domandò sorpresa. «E dove
andiamo?»
Lui le pizzicò
leggermente il mento. «A
mangiare qualcosa di buono. Ad essere sinceri anch’io ho una
certa fame.»
Crystal annuì piano.
Era… era un
appuntamento, quello che Gabe le stava offrendo? Si trovò
confusa al riguardo.
Negli ultimi giorni Gabe non era sembrato molto propenso a dare un
seguito, o
almeno una spiegazione, a ciò che era successo in quel
pianerottolo. Ora aveva
cambiato idea?
«Ci vediamo
nell’atrio fra una ventina di
minuti, ti va?», le chiese.
«Va bene»,
concluse lei.
Fece per avviarsi verso la sua
stanza,
quando sentì le mani di Gabe sui fianchi. La pressione di
lui la costrinse a
voltarsi, e ora improvvisamente i loro nasi si sfioravano. Gabe la
guardò per
un lungo momento, mentre lei sentiva una strana sensazione sulle
labbra, come
se le prudessero. Un impulso sconosciuto le suggeriva di protendere il
viso
verso quello di Gabe e colmare il vuoto che c’era fra le loro
labbra, ma
un’altra sensazione, più intensa e viscerale,
glielo impedì. Era come se fosse
attratta e spaventata da lui allo stesso tempo.
«Gabe…»,
sussurrò, e quando lo fece il suo
labbro inferiore sfiorò quello di lui.
Lo shadowhunter era serio, la
mascella
serrata. I suoi occhi erano incatenati in quelli di lei, in una sorta
di legame
silenzioso che lui non riusciva a spezzare. Fu lei a scioglierlo, poco
dopo,
scostando lo sguardo sulla sua t-shirt macchiata.
Gabe sospirò.
Picchiettò l’indice sulla
clavicola di lei, rigido come un burattino, poi la
allontanò. «Si sta facendo
tardi», obiettò.
Crystal assentì, il
cuore che ancora
scalpitava per la vicinanza con Gabe, e a passo indeciso
uscì dalla Sala.
Quando Crystal giunse
nell’atrio, vestita
con una lunga gonna nera che le sfiorava le caviglie e un top bianco
incrociato
sulla schiena, la prima cosa che vide fu Gabe, informale in jeans e
giacca di
pelle, che parlava a bassa voce insieme a Julie. Più che
parlare, constatò
Crystal con una seconda occhiata, si stavano sussurrando
all’orecchio. La mano
di lui era posata sulla spalla di lei in un modo che, per qualche
ragione,
attivò un moto di gelosia nello stomaco di Crystal. Julie,
in tenuta da
cacciatrice, aveva invece un’espressione tra il preoccupato e
l’incerto.
Accarezzò una guancia di Gabe con il dorso della mano, prima
di fare un sorriso
amareggiato e sgusciare nel corridoio che portava alla Sala.
Crystal, il cuore che batteva
impazzito,
attese qualche attimo prima di raggiungere Gabe. Quando lui la vide, i
suoi
occhi si illuminarono. «Hey», lo salutò,
cercando di mitigare la gelosia.
Lui le sorrise.
«Accidenti», mormorò
lanciandole un’occhiata da testa a piedi. «Sei
davvero…»
«Andiamo?», lo
interruppe lei. «Comincio
ad avere i crampi per la fame.»
Gabe la guardò di
sbieco. «Certo», disse
con incertezza.
Quando uscirono nel buio di Liberty
Court,
Crystal rabbrividì per il calo repentino di temperatura.
Lasciò che Gabe la
precedesse lungo il vicolo e procedette in silenzio, facendo attenzione
a dove
metteva i piedi.
Dopo qualche metro sfociarono
sull’illuminata Pacific Palisades, che a quell’ora
della sera era ancora
piuttosto trafficata. Il cielo era torbido, e l’aria odorava
di smog e pioggia.
«Stammi
vicino», le disse Gabe offrendole
la mano. «Questa strada pullula di demoni
Du’sien.»
Crystal fissò la mano
protesa verso di
lei… e la rifiutò scostando lo sguardo verso
l’altro lato della strada. Tre
ragazzi malconci si stavano riscaldando al tepore di un fuoco acceso in
un
bidone, all’imbocco di un vicolo. «Quindi fammi
indovinare: siete voi che avete
creato tutto quel casino nelle ultime settimane?»,
domandò.
«Già»,
rispose Gabe ripensando a quando,
due settimane prima, era finito contro la vetrina di un negozio di
biciclette
durante uno scontro con un Eidolon. «I demoni hanno iniziato
a materializzarsi
quando hanno scoperto che ce ne siamo andati da Los Angeles. Questo
posto, a
differenza dell’Istituto, non è consacrato, quindi
possono girare indisturbati.
Di solito se ne stanno qui nei paraggi in cerca di un Nephilim con cui
fare
merenda.»
«Bello»,
ironizzò lei. «Ora che ci penso non
mi hai ancora detto perché ve ne siete andati.»
Gabe si voltò a
guardarla e schiuse la
bocca, come se per un momento avesse deciso di parlare. Ma poi la
richiuse con
una smorfia, lasciando Crystal in preda alla curiosità.
«Non manca molto»,
disse tornando a guardare davanti a sé.
Nel punto in cui la Pacific
Palisades
s’intersecava con Elm Avenue, Crystal si ritrovò a
chiedere a Gabe di
rallentare il passo. Aveva il fiato corto: stare dietro alle sue
falcate decise
era un’impresa non da poco.
Gabe alzò gli occhi al
cielo. «Ti ci vorrà
un bel po’ d’addestramento»,
obiettò con più asprezza nella voce di quanto
avrebbe voluto. «Nelle tue condizioni non riusciresti a
sfuggire ad un
Behemoth.»
«Mi rincresce, signor Moorefield», lo
schernì lei imitando la voce tagliente di Victoria.
«del fatto che io non sia una podista. O che non sia in grado
di arrampicarmi
lungo i muri come un ragno. O che non faccia roteare la spada come un
samurai.
Mi dispiace così tanto di
non
soddisfare le Vostre aspettative!»
Gabe arricciò il naso.
«Già», disse, parlando
quasi fra sé. «Avevo ragione. Sei proprio un mezzo
demone.»
Crystal sentì montare la
rabbia. Per un
attimo ebbe l’impulso irrefrenabile di rompergli il naso, ma
qualcosa la
trattenne. Forse,
rifletté, è
perché è la verità.
Quel pensiero le invase la mente.
Lei era
in parte demone, fatta della stessa sostanza di quei mostri che la
gente
attorno a lei era abituata ad uccidere. I Cacciatori erano nati per combattere quelli come lei, e
Crystal si ritrovava a
convivere con alcuni di loro.
Ripensò
all’espressione di Gabe quando le
aveva detto che lei e Julie erano entrambe delle Seelie. La prima volta
che
Crystal aveva incontrato Gabe, Cole e Julie, li aveva sentiti
farneticare sul
fatto che quest’ultima era una mezza fata. Mezza.
Cioè meno sangue demoniaco di quanto non ne avesse Crystal.
E in ogni caso,
Julie era troppo bella, affascinante e gentile per poterle rinfacciare
di
essere in parte un demone. Lei, invece, non era niente di tutto
questo… o
almeno ne era convinta.
Ad un tratto Gabe si
fermò. Crystal,
ancora immersa nelle sue congetture, non se ne accorse e
andò a sbattere contro
la sua schiena. «Accidenti!», brontolò
scostandosi.
Gabe si voltò
corrucciato. «Sei anche
impacciata come una mondana»,
replicò. «Questo è il posto»,
aggiunse indicando alla sua destra. «Siamo
arrivati.»
Crystal seguì lo sguardo
di Gabe e si
ritrovò a fissare l’insegna spenta di un
supermercato. «È uno scherzo?», chiese
esterrefatta. «Perché non è molto
divertente.»
Gabe si avvicinò alle
vetrate del negozio,
posando le mani sul vetro freddo. «Niente affatto.»
«Io… io che
credevo che…»
Il ragazzo si volse a guardarla con
un
sorriso sbilenco. «Credevi che ti saresti rimpinzata di
champagne e caviale?»,
domandò ridacchiando.
«No, per l’amor
di Dio», rispose esasperata.
«Ma nemmeno questo. Non ho intenzione di compiere
un’effrazione.»
«Okay, allora
vorrà dire che te ne starai
ad aspettarmi qui fuori a pancia vuota, mentre io sarò
lì dentro a imbottirmi
di patatine e coca cola. Ci stai?»
Crystal sbuffò. Mai
nessuno aveva sfidato
il suo autocontrollo quanto Gabe. Era certa che prima o poi
l’avrebbe fatta
scoppiare, e allora nessuna runa sarebbe riuscita a salvarlo dalla sua
furia.
«D’accordo, aspetta. Vengo con te.»
Gabe sogghignò.
«Ti conviene fare piano.
Io ho questa», mormorò indicandole una runa che si
era tracciato alla base del
collo. «Ma tu potresti far scattare l’allarme. E
non credo sia il caso che la
polizia ti scopra a rubare in un supermercato, uh?»
«Dammi il tuo
stilo», replicò lei. «Me la
traccerò anch’io. L’ho studiata, so come
è fatta.»
«In
realtà», fece Gabe. «Non è
decisamente
il caso. Non ho la minima idea di che effetto potrebbe fare su di
te.»
«In che senso,
scusa?»
«Nel senso che soltanto
coloro a cui
scorre sangue angelico nelle vene possono tracciarsi le rune.»
«Ma io ho
sangue angelico!»
«Già»
Il suo tono di voce era imbarazzato.
«Ma devi sapere una cosa. Le rune bruciano, a contatto con il
sangue demoniaco.
In quel caso moriresti lentamente, sciogliendoti come se ti avessero
gettato in
una vasca piena d’acido fluoridrico. Se vuoi il mio modesto
parere, te lo
sconsiglio vivamente.»
Crystal lo fissava sconvolta,
immobile
come una statua di cera. «Quindi… stai dicendo che
mi hai dato da studiare un
libro a proposito di cose che su di
me risulterebbero letali?!»
Gabe non sembrava molto
preoccupato. Si
strinse nelle spalle. «Perché ancora non ne ero
certo. Neanche ora lo sono, in
realtà. Caliel non ti ha bruciato
quando…»
Lei si gettò in avanti e
lo afferrò per il
colletto della giacca. «Sarei potuta morire,
razza di idiota!», gridò. «Ti
è mai passato per l’anticamera del cervello che
avrei potuto tentare di tracciarmene una?»
«No», rispose
con nonchalance,
scrollandosi di dosso la ragazza. «E parla piano. Quei
mondani ti stanno
fissando come se fossi una pazza.»
Crystal si volse lentamente.
Aldilà della
strada, una coppia di uomini sulla cinquantina la stavano osservando
con
un’espressione mista tra curiosità e compassione.
«Dannazione», mormorò a denti
stretti. «Non riesco ad abituarmi al fatto che voi siate
invisibili agli occhi
dei mondani.»
«Allora,
andiamo?», la esortò Gabe. Aveva
lo stomaco che brontolava e non aveva intenzione di rimanere su quella
strada ancora
a lungo. Meno restavano negli spazi aperti e meglio era.
«Seguimi. Entreremo dal
retro.»
«Hai detto che io e Julie
siamo entrambe
Seelie», obiettò Crystal mentre seguiva Gabe
all’interno di uno stretto vicolo,
buio e maleodorante. «Allora perché lei
può tracciarsi le Rune e io no?»
«Prima di
tutto», rispose lui con voce
seccata. Schivò un sacchetto di immondizia con un salto
aggraziato. «Julie è
dovuta passare sotto l’esame del Clave di Idris per diventare
una Shadowhunter.
Ha ricevuto il suo primo Marchio durante l’assemblea del
Conclave, dove ha
pronunciato il Giuramento.» La voce di Gabe si
addolcì mentre parlava di Julie.
«Compirò la mia missione
con il coraggio
degli angeli. Servirò la giustizia degli angeli. E la
servirò con la pietà
degli angeli…»
«Sul serio dite queste
cose?», domandò
Crystal stupefatta.
Gabe sembrò non
sentirla. «Inoltre»,
seguitò. «Julie è soltanto per
metà Nascosta. Sua madre era una fata, mentre
suo padre uno Shadowhunter. Questo significa che, a conti fatti,
è demone
soltanto per un quarto.», le spiegò.
«Sai, le Rune bruciano sulla sua pelle in
modo leggermente diverso dal mio, o di qualsiasi altro comune
Shadowhunter… E guarisce
più in fretta rispetto a noi, anche senza usare l’Iratze. E, come avrai sicuramente notato,
la sua bellezza non è
terrena. Su questo ha preso da sua madre.»
Crystal sentì una fitta
al cuore. Pensò
alla prima volta che aveva visto Julie, il passo deciso mentre
attraversava la
sala, il corpo longilineo di una modella, i capelli ramati che le
contornavano
il viso lattiginoso. Riportò alla mente il ricordo di quel
volto ovale e
perfetto, senza l’ombra di un brufolo o una ruga
d’espressione. Ricordò anche
quando l’aveva rivista al Rifugio, claudicante e ferita, e
con una cicatrice
che le tagliava le labbra. Nonostante quel difetto così
evidente, aveva pensato
Crystal, Julie rimaneva perfetta come una bambola di porcellana.
«Crys», si
sentì chiamare. «Ci sei?»
La ragazza si rianimò
con un brivido e la
figura di Gabe nell’ombra si rimise a fuoco. Lo vide
leggermente proteso in
avanti, una mano a tenere aperta la porta dell’ingresso sul
retro del
supermercato.
«Ma
come…» Prima di terminare la domanda,
Crystal notò la runa di Apertura disegnata sulla maniglia.
Brillava di un tenue
bagliore azzurro.
«Sei pronta?»,
le chiese Gabe. «Se non te
la senti puoi rimanere qui. Ci metterò soltanto qualche
minuto.»
La luna proiettava dei riflessi
argentati
sui capelli di Gabe, facendolo quasi sembrare biondo, e accentuava le
linee
dure del suo naso e della sua mascella. Crystal rimase a contemplarlo
per
qualche secondo, prima di annuire con un velo di incertezza.
«No, vengo con
te.»
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Ciao! Che ne dici di recensire? Ti ci vogliono
soltanto due minuti e per me significherebbe molto! Grazie :)
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Capitolo 9 *** Il leone e l'agnello ***
capitolo
9
IL
LEONE E L’AGNELLO
«Bene,
dunque», disse Gabe. «Prima le
signore.»
Crystal lo sorpassò
lanciandogli
un’occhiataccia. All’interno, l’ambiente
era buio e freddo. L’unica fonte di
illuminazione era la luce dei lampioni che si riversava
dall’esterno. Crystal
avanzò piano nell’oscurità, tenendo
d’occhio la strada dai finestroni della
vetrina: aveva il terrore che qualcuno la notasse.
Gabe le picchiettò sulla
spalla. «Tieni
questa», mormorò posandole qualcosa nel palmo
della mano.
Crystal osservò
l’oggetto rotondeggiante,
e quando ci chiuse le dita sopra, un bagliore celeste si
sprigionò
all’improvviso dalla piccola pietra. La ragazza
cercò di soffocare la luce con
le mani, improvvisamente agitata. «Spegniti,
accidenti!», esclamò.
«Non ti
preoccupare», la rassicurò Gabe.
«I mondani non possono vederla.»
Crystal tirò un sospiro
di sollievo.
«Avresti potuto dirlo prima
che mi
venisse quasi un infarto.»
Gabe ridacchiò.
«E perché? È stato così
divertente!»
Se avesse potuto, Crystal lo
avrebbe
incenerito con lo sguardo. «Allora adesso che si
fa?»
«Non so tu, ma io ho una
gran voglia di
una bella coca ghiacciata!»
«Sì, va bene
anche per me.»
«Okay. Vado a prenderne
qualcuna», rispose
in un sorriso. «Tu fatti un giro, se ti va.» Gabe
estrasse dalla tasca dei
jeans quello che sembrava un sacchetto per la spesa di tessuto nero e
glielo
lanciò. «Prendi quello che ti serve.»
Crystal annuì, e poco
dopo vide Gabe
svanire dentro alla corsia delle bevande, una pietra di stregaluce
nella mano
destra che disegnava la sua ombra sul pavimento.
La ragazza si infilò nel
corridoio di
fronte a sé, scoprendo con piacere che si trattava del
reparto dei dolci. Prese
a rovistare tra gli scaffali e, di tanto in tanto, una confezione di
biscotti o
caramelle scivolava nel sacchetto che le aveva dato Gabe.
Aprì una scatola di
brioches, se ne ficcò una in bocca e versò il
resto del contenuto nella borsa.
Perlomeno avevano di che fare colazione la mattina successiva,
pensò.
Passò poi al reparto
successivo,
trovandosi circondata da deodoranti, spazzole per capelli e boccette di
profumo
colorate. Prese alcuni oggetti utili, come ad esempio uno spazzolino e
del dentifricio,
e si spruzzò addosso un profumo scelto a caso
dall’espositore.
Quando il sacchetto fu ricolmo,
Crystal
decise di andare a cercare Gabe. Lo trovò al frigo dei
salumi, nella pozza di
luce argentea emanata dalla sua stregaluce. Dalla bocca gli pendeva un
panino imbottito
mentre infilava delle confezioni di prosciutto e salame in un sacco di
tela
nera.
«Eccomi», disse
Crystal.
In tutta risposta, Gabe
sollevò
leggermente la testa e le lanciò una latina di Coca Cola,
che lei afferrò al
volo. Era ghiacciata. Subito dopo le porse anche quello che aveva tutta
l’aria
di essere un panino al formaggio.
Crystal ci affondò i
denti, affamata come
mai lo era stata prima. Il formaggio le si sciolse in bocca, fresco e
dolce.
«Meglio di qualsiasi
mensa self-service,
che dici?», fece Gabe a bocca piena.
Crystal si scoprì a
ridacchiare. «Già, non
male», disse. «Ma nessuno si accorge di tutte
queste sparizioni? Immagino che
veniate qui spesso.»
«In realtà non
molto spesso», rispose lui.
«Proprio per non dare troppo nell’occhio. Di solito
alterniamo con altri due o
tre supermercati… Ma a dire la verità dubito che
i mondani che lavorano qui si
siano mai insospettiti. E al massimo darebbero la colpa a qualche
teppistello
del quartiere.»
Mentre parlava con Gabe, Crystal
scorse
una luce gialla provenire dalla vetrina che dava sulla strada, come i
due fari
di un’auto. Disegnavano due coni di luce, uno poco distante
dai suoi piedi.
«Gabe…», lo chiamò,
indicandogli la fonte di luce.
Gabe si alzò in piedi,
circospetto.
«Poliziotti», le spiegò.
«Cammina verso di me lentamente. Niente movimenti
avventati.»
«Gabe»,
ripeté lei, nel panico. La sua
voce tremava mente il cono di luce avanzava verso i suoi piedi.
Gabe l’afferrò
per un polso e la nascose
dietro ad uno scaffale giusto in tempo prima che la luce della torcia
la
illuminasse in pieno. Poteva sentirle il cuore battere impazzito dietro
alle
costole. «Andiamo», le disse.
«Gabe, ho
paura», rispose lei. Le pareva
di avere le ginocchia di gelatina.
Lui la trascinò verso
l’uscita del retro,
da dove erano entrati, cercando di schivare le chiazze di luce che si
muovevano
per il negozio attraverso le vetrate. Quando furono fuori,
bloccò la porta con
una Runa di Chiusura e si tirò appresso Crystal, rigida come
una statua di
gesso, lungo il vicolo buio.
Pioveva. Crystal sentiva sulla nuca
le
gocce di pioggia che filtravano tra i tetti e il rumore
dell’acqua che
rimbalzava sull’asfalto.
Allo sbocco del vicolo, Gabe si
sporse per
controllare e vide che i poliziotti stavano salendo sulla loro volante.
«Se ne
vanno», disse a Crystal.
Lei trasse un rumoroso sospiro di
sollievo, poi si lasciò scivolare lungo il muro di una casa,
finendo seduta.
Gabe si accovacciò di
fronte a lei, l’aria
vagamente preoccupata. «Crys, è tutto
okay?»
La ragazza, il pallido volto
illuminato
dalla luce fioca della luna, annuì piano.
«Sì, è solo che… per un
momento ho
creduto che…»
Lui le accarezzò una
guancia, sorridendo.
«Lo so. Sarebbe tutto più semplice se tu potessi
fare uso delle Rune. Ma non è
andata male, dopotutto, no? Qui abbiamo cibo sufficiente per una
settimana»,
disse indicando la refurtiva.
«Ottimo.»
Crystal si fece aiutare a
rimettersi in piedi, ma Gabe la tirò con troppa forza e lei
rovinò su di lui,
il quale colpì la parete opposta del vicolo con la schiena.
«Oh…
mi spiace», mormorò Crystal imbarazzata. Erano
così vicini che i capelli di lui
le solleticavano la fronte.
«A me no»,
rispose lui in un sorriso
mozzafiato.
Si sentì avvampare.
«Gabe…», si lamentò
cercando di sottrarsi, ma le mani di lui tenevano uniti i loro bacini.
«Sì?»
Gli occhi smeraldini di lui la
fissavano irrequieti.
Crystal si chiese, con una punta di
fastidio, perché mai quando si trovava così
vicina a Gabe non riusciva a
pensare ad altro che a baciarlo. Eppure avrebbe dovuto essere
arrabbiata per
come lo aveva visto comportarsi con Julie, o per le sue insopportabili
frecciatine, o per averla fatta quasi sorprendere a rubare in un
supermercato…
Ma non lo era. E questo la irritava parecchio.
Le labbra di Gabe sfiorarono la sua
guancia: una carezza accennata. «Vuoi tornare al
rifugio?», domandò contro la
sua pelle.
Il che, nelle orecchie di Crystal,
suonò
come Vuoi che ti baci oppure no?
Crystal faticava a sostenere il suo
sguardo. «E tu?», gli chiese.
Lui la fissò.
«Non si risponde ad una
domanda con una domanda», disse con aria offesa.
«Hai paura di fare qualcosa di
sbagliato?»
La ragazza sentì nella
gola la morsa
dell’imbarazzo. Le gambe le parvero sciogliersi come burro al
sole. «Veramente,
io…»
Una goccia di pioggia
scivolò fra i tetti
e cadde sul viso incupito di Gabe, brillando alla luce della luna come
una
lacrima argentea. «Sarà meglio andare»,
disse dopo un po’, rompendo il silenzio.
«Gli altri si staranno chiedendo dove siamo finiti.»
Gabe fece per uscire dal vicolo,
quando Crystal
strinse le mani attorno al suo braccio.
«Aspetta…»
Lui si volse, le sopracciglia e la
fronte accartocciate
dall’indignazione. Forse, pensò Crystal, mai prima
d’allora una ragazza aveva
esitato quand’era stata l’ora di farsi baciare da
lui. «Aspetta cosa?»,
replicò sollevando un
sopracciglio scuro.
Senza indugiare, Crystal si sporse
sulle
punte e premette le labbra contro quelle dure di lui. Gabe sembrava di
marmo,
sotto il suo tocco insicuro. La ragazza cercò le sue mani
nel buio, e quando le
loro dita s’incontrarono Gabe trasalì appena. Era
come se anche lui, pensò
Crystal, fosse combattuto per i suoi sentimenti. Come se stesse
continuamente
ponderando che cosa fosse più giusto.
Anche lei si sentiva
così, in bilico tra
la voglia costante di gettarsi fra le sue braccia ed il fuggire il
più lontano
possibile da lui. L’idea che Gabe fosse uno shadowhunter, un
Nephilim, la
faceva sentire inadeguata, quasi indegna. Come in uno di quei film dove
la
ragazza qualunque di turno s’innamora del bellissimo,
ricchissimo e amatissimo
unico figlio della famiglia più abbiente della
città. Sebbene nei film, alla
fine, si scopra sempre che il ragazzo ricambia i sentimenti di lei ed
è pronto
a contraddire tutta la sua famiglia pur di sposare la fanciulla.
All’improvviso Gabe, come
se avesse potuto
leggerle nel pensiero, la prese per i fianchi e uscì dal
vicolo, spingendola
contro la parete ruvida della casa. Lì non c’erano
tetti o altre protezioni a
contrapporsi tra loro e la pioggia, che adesso scrosciava incessante.
Crystal
sentiva le gocce fredde colpirle la fronte e scivolarle lungo le
braccia, ma
non le importava. Il modo in cui Gabe aveva preso a baciarla, adesso,
le
avrebbe fatto dimenticare anche cose ben più gravi del
rischio di beccarsi una
polmonite.
Crystal si lasciò
sfuggire un gemito di
sorpresa quando le mani di lui sollevarono il bordo del suo top e
sfiorarono la
sua schiena nuda. Le dita di Gabe erano lisce e fredde contro la sua
pelle.
In quel momento
un’automobile sfrecciò
lungo Elm Avenue e, quando passò di fianco a Gabe e Crystal,
sollevò una pozza
d’acqua che schizzò verso il marciapiede.
L’onda li investì in pieno, ed
entrambi si ritrovarono improvvisamente fradici ed infreddoliti.
Gabe scoppiò a ridere
contro le labbra di
Crystal, mentre al contempo lei lanciava un’imprecazione.
«Be’, se non altro
ora riesco a capire l’espressione “È
stato come una doccia fredda”!»
Crystal non riuscì a
trattenere un
risolino, sebbene l’idea di essere completamente zuppa
d’acqua non la
divertisse particolarmente. Subito dopo fu percossa da un brivido
gelido.
«Hai freddo?»,
le domandò Gabe.
Crystal annuì,
trattenendo l’impulso di
battere i denti. «Un po’.»
Lui, con fare un po’
teatrale da
cavaliere, si sfilò la giacca di pelle dalle braccia e la
posò sulle spalle
irrigidite di lei. «Va un po’ meglio?»
Crystal gli sorrise.
«Molto meglio»,
rispose. «Ma ora sarai tu a morire assiderato»,
aggiunse notando che indossava
soltanto un’attillata t-shirt scura, da cui si intravedevano
i gonfi muscoli
dell’addome.
Gabe scrollò le spalle.
«Meglio io che
te.»
La ragazza non poté che
arrossire. Mai,
nella sua vita, aveva ricevuto tante attenzioni da qualcuno. Il massimo
che si
sarebbe potuta aspettare all’orfanotrofio, se mai si fosse
fatta trovare
bagnata fradicia per i corridoi, sarebbe stato una bella sgridata,
seguita da una
settimana di punizione per aver imbrattato i pavimenti.
A quel pensiero, Crystal
rabbrividì tra le
mani di Gabe. Si chiese come avesse potuto rimanere là
dentro per ventun anni
senza dare di matto. Pensò al sapore salato del brodo
vegetale, in
contrapposizione a quello dolce della Coca Cola che là
dentro non aveva mai
nemmeno potuto assaggiare. O all’odore acre del
caffè al mattino, così diverso
dal profumo inebriante dei croissant che si gonfiavano nel forno
dell’Every
Flavour Donuts.
Gabe notò il suo sguardo
distante. «Crys.
È tutto okay?»
Crystal rinsavì, lieta
che i suoi occhi
mettessero a fuoco una cosa tanto bella come Gabe, abbandonando la
visione
degli spogli corridoi dell’orfanotrofio. «Stavo
solo… pensando ad una cosa.»
Gabe
s’incamminò lungo il viale, prendendola
per mano. «Ed era una cosa brutta?»
«No, non
proprio», rispose mostrando un
timido sorriso. «Pensavo all’orfanotrofio.
Là dentro non è stato molto facile
per me, ma credo che proprio per questo ora riuscirò a
godere davvero delle
cose belle. Qui fuori è tutto così… amplificato.»
Gabe le sfiorò il mento
con le dita.
Mentre camminavano, i loro capelli bagnati rilucevano come argento
liquido in
contrasto con l’asfalto scuro. «Ti capisco.
Anch’io ho trascorso gran parte
della mia infanzia rinchiuso nell’Istituto di Los Angeles.
Quando sono uscito
per la prima volta ho visto, sentito e provato così tante
cose insieme che mi
sono sentito scoppiare la testa», mormorò.
«Non è proprio la stessa cosa, ma
riesco a farmi un’idea.»
«Gabe, so che non ne vuoi
parlare», iniziò
Crystal. «Ma mi stavo chiedendo se tu abbia deciso di
abbandonare l’Istituto
per via dei tuoi genitori.»
Il ragazzo sembrò
sorpreso, ma poi si
ricompose in una smorfia seria. «Io e mio padre
non… non andiamo molto
d’accordo», riuscì a dire. Crystal aveva
la sensazione che Gabe stesse
misurando le parole. «Perché questa
domanda?»
«Perché quando
Caleb ti ha chiesto se
fosse tuo padre l’uomo che dirige l’Istituto, tu
sei improvvisamente diventato
di ghiaccio», gli spiegò con delicatezza.
«E poi Vanessa ti ha dato la
stregaluce, dicendo che l’aveva presa di nascosto dalla tua
stanza. Ho pensato
che se tu non eri tornato di persona a riprendertela poteva voler dire
che non
avevi intenzione di rivedere i tuoi genitori.»
«E hai pensato
bene», rispose con tono
severo, sorprendendo Crystal. «Abbiamo avuto
delle… divergenze
d’opinioni, in passato. Quando ho compiuto ventun
anni
ho capito che non avrei seguito la strada che loro avevano scelto per
me. E
quando ho ottenuto l’appoggio di Julie e di Cole me ne sono
andato.»
«Capisco.»
«Ora la mia famiglia sono
Julie, Cole e
Victoria», disse. «Le uniche persone di cui mi fido
ciecamente e per le quali
sarei disposto a dare la vita, se fosse necessario. Loro farebbero lo
stesso
per me.»
«E che mi dici di Caleb e
Vanessa?»
«Non so per quanto ancora
resteranno con
noi», rispose pensoso. «Vanessa è amica
di Julie dai tempi in cui entrambe
vivevano a Idris. Poi Vanessa fu inviata a Washington D.C., mentre
Julie scappò
a Los Angeles. Quando ci è giunta notizia che
l’Istituto di D.C. era stato attaccato
dai lupi mannari, Julie ha proposto a Vanessa di raggiungerci a Long
Beach. E lei
si è presentata qui insieme a Caleb.»
«E quel
Donovan?», continuò Crystal.
«Avete detto che non c’è quasi mai. Dove
va?»
Gabe sorrise. «Donovan
è un tipo particolare.»
«In che senso?»
«Nel senso»,
fece Gabe senza nascondere
una punta di divertimento. «che è un
vampiro.»
«Un vampiro? Dici sul
serio?»
«Già»,
replicò. «Ma è un bravo ragazzo,
dopotutto.»
Il viso di Crystal si
deformò in una
smorfia disgustata. «Ma di cosa si nutre?»
«Secondo te?»
Crystal stava per avere un conato
di
vomito. «Vuoi dire che uccide i mondani?»
Gabe ridacchiò.
«Certo che no! Si nutre
soltanto di sangue animale. Credi che faremmo entrare di proposito un
assassino
nel nostro rifugio?»
Lei si sentì subito
risollevata. «E dove
sta tutto il tempo, se non è con voi?»
«Donovan vive con il suo
clan in Myrtle
Avenue, in una vecchia casa abbandonata… Come potrei
spiegarti? Lui fa da
filtro tra noi e loro. Non so se te l’ho già
detto, ma Nephilim e Nascosti non
vanno molto d’accordo», spiegò.
«Donovan è un idealista. Sta cercando di
mitigare le avversioni che abbiamo gli uni contro gli altri.»
Crystal era confusa. «Non
ti piace l’idea
di andare tutti d’amore e d’accordo?»
«Non è che non
mi piaccia», specificò. «È
che lo vedo alquanto impossibile. I vampiri e i licantropi si odiano da
sempre,
così come i Nephilim si sono sempre tenuti alla larga da
ogni tipo di Nascosto.
Non ci si può svegliare una mattina e decidere che tutto
questo deve cambiare.
Sarebbe come chiedere ai mondani di dimenticare le differenze che loro vedono tra un bianco ed un nero, tra
un cristiano ed un ebreo, o tra un etero ed un gay. Credi che basti
qualche
decina di menti aperte per cambiare la convinzione di un intero
mondo?»
«D’accordo, ma
pensaci: già il fatto che
voi vi rapportiate con Donovan, significa che non siete di vecchio
stampo, come
ad esempio potrebbero esserlo i tuoi genitori. Julie è una
mezza fata, mezza
Nascosta, giusto? E io sono una sottospecie di sirena senza pinne.
Tutto questo
è la prova che le convinzioni stanno già
cambiando.»
«Soltanto
perché per me non risulti un
problema avere degli amici Nascosti, non significa che valga lo stesso
per
tutti. Victoria ha impiegato parecchio ad accettare Donovan,
così come i miei
genitori hanno accolto Julie all’Istituto soltanto
perché aveva ottenuto il
primo Marchio direttamente dal Clave. Come vedi, l’idea che i
Nephilim siano
superiori ai Nascosti è un pensiero ben radicato.»
A Crystal prudevano le labbra dal
desiderio di sapere una cosa in particolare. «Credi che i
tuoi genitori non
approverebbero che… insomma, se io e
te…»
A Gabe sfuggì una
risatina. «Che io e te
usciamo insieme, dici?», concluse al suo posto.
«Be’, questo è uno dei tanti motivi
per cui mi sono allontanato da loro.»
«Forse hai
ragione», rifletté Crystal.
«Chiedere agli adulti di cambiare i loro ideali potrebbe
essere impossibile, ma
voi siete una nuova generazione di Nephilim. Se provaste a cambiare
questa
assurda mentalità, le generazioni future di Nephilim e
Nascosti potrebbero
collaborare, non pensi?»
Gabe si fermò e le
pizzicò dolcemente la
guancia. Crystal non si era accorta che erano arrivati in Liberty
Court,
davanti alla botola d’entrata per il Rifugio.
«Penso», disse. «che tu sia un
po’ sognatrice, Crystal Evans» Sciolse la presa
dalla sua mano per picchiettare
l’indice contro la sua fronte, e aggiunse: «Ma
c’è del potenziale qui dentro.»
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PERSONAGGIO DEL GIORNO:
Donovan Mortenson
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