Against You - Sfidando le Stelle di the_scream_of_silence (/viewuser.php?uid=454894)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
PROLOGO
Luglio
2013
-Giulia!-
Il suo grido disperato giunse alle orecchie della ragazza con la stessa
intensità di una pugnalata, e per un attimo ebbe la
tentazione di mollare tutto
e rimanere lì, con quella famiglia che l’aveva
tanto amata ma che non sapeva.
Non poteva sapere. Scese in fretta
la
rampa di scale, il borsone pieno di vestiti gettati alla rinfusa e il
cuore
ricolmo di un’insana agitazione, e aprì la porta
d’ingresso ad un cielo che
traboccava di luci e ad una sensazione di immenso che
l’avvolgeva in maniera
impetuosa e improvvisa. Decise di non guardare. Sembrava quasi che
volessero
lanciarle una sfida, quelle stelle cui aveva affidato le sue
confessioni più
profonde, come a sottolineare la remota possibilità che
aveva di sopravvivere a
quella fuga matta e disperata. Diamine, questo lo sapeva anche lei. E
sapeva
anche che, se mai fosse ritornata a casa in futuro, non sarebbe stata
più la
stessa ragazza di una volta.
Per
niente.
Avrebbe
preso finalmente in mano la sua vita senza timore, si sarebbe graffiata
la
pelle per trattenerla e non avrebbe mai ceduto ai dubbi, alle
incertezze, a
tutto ciò che in passato le aveva impedito di essere in pace
con se stessa e
con il mondo.
Avrebbe
ottenuto la sua rivincita, deridendo il destino e quelle maledette
stelle.
Peccato
che le circostanze, almeno in quel periodo, non glielo permettessero
affatto.
Superò
spedita il giardino di casa e ne aprì il vecchio cancello
senza guardarsi
indietro. Il clangore di metallo contro la staccionata
risuonò nel viale di
case in cui era cresciuta, desolato a causa dell’ora tarda.
Si sentì
rabbrividire: aveva appena rinchiuso la sua intera esistenza in quel
giardino.
E sarebbe stato ancora più doloroso se non avesse
già rinunciato ai suoi sogni
tempo prima.
-Possiamo
parlarne!- continuava a dire suo padre raggiungendo rapidamente
l’atrio. Prese
un respiro profondo, uno di quelli che servono a capire se il macigno
di
sofferenza ti abbia ucciso o no, e cercò di convincersi che
tutto ciò era giusto,
che lo stava facendo per una
buona causa: l’amore per i suoi familiari. Soprattutto per lei.
Ma
poi la sentì. Mentre si avviava velocemente verso
l’auto parcheggiata a pochi
metri di distanza dalla sua proprietà, una voce infantile ma
adulta allo stesso
tempo, flebile come una fiamma esposta al vento, debole come una foglia
al
frusciare degli alberi, sussurrò: -Non partire.-
Alzò
lo sguardo. Nascosta dalla tenda della finestra del bagno che dava
direttamente
sul giardino, la sua sorellina la osservava muoversi nella notte con le
mani ad
asciugarsi le guance, quasi che stesse piangendo ma non volesse farsi
scoprire.
Le venne una fitta al cuore. Quella bambina... ragazza
di appena quindici anni rappresentava tutto il suo mondo:
il suo passato, il suo presente e, anche se in maniera piuttosto
paradossale,
il suo futuro. Era l’unica ragione che la spingesse a vivere
ancora, il motivo
per cui non si era uccisa subito dopo aver ricevuto la notizia.
Incarnava la
speranza. Pura e semplice speranza.
E,
per evitare di sopprimerla con l’angoscia e il senso di
smarrimento, doveva
allontanarsi da lei.
Le
lacrime iniziarono a pungerle gli occhi e dovette distogliere lo
sguardo, pur
sapendo che in quel modo sarebbe scoppiata definitivamente in un pianto
disperato, e continuò a camminare. Sua sorella
l’avrebbe odiata, lo sapeva
bene. L’avrebbe odiata come si odiano le persone impulsive,
quelle incapaci di
ragionare sulle proprie azioni poiché condizionate
dall’intensità del momento.
Le avrebbe dato dell’ingrata, perché in fondo la
storia di cui era protagonista
la vedeva come un’ingrata. E pian piano iniziava a crederci
anche lei.
Mille
domande affollavano la sua mente e agitavano il suo animo, mentre
cercava di
trattenere l’istinto di correre a consolarla come sempre.
Sarebbe riuscita a
superare anche questa? Sarebbe stata in grado di affrontare la vita con
la
stessa forza d’animo che caratterizzava le donne di quella
famiglia? Sarebbe
stata... felice?
Ma
certo che lo sarebbe stata. Nei suoi occhi brillavano la fierezza,
l’invincibilità, lo spirito di una combattente che
non avrebbe ceduto di fronte
a nulla, e un giorno quella donna sarebbe emersa dal corpo di ragazzina
in
tutto il suo splendore. Ne era sicura.
Ma
non rendeva le cose più facili.
E
quando si sentì dire ancora più forte: -Non
andartene!-, accompagnato dal
pianto sommesso del papà che se ne stava accasciato sulla
soglia della porta di
casa, incapace di reagire, le sembrò di perdere tutto
ciò che le era rimasto di
buono nell’anima.
Stringendo
le labbra in una smorfia che voleva tenere a bada il dolore,
aprì la portiera
del SUV senza guardarsi indietro.
-Ehi-.
Il ragazzo al volante accostò le labbra alle sue per
salutarla, ma lei lo
rifiutò con un gesto della mano e iniziò ad
armeggiare con la cintura di
sicurezza. Ormai aveva le guance interamente bagnate.
Lui
non disse niente: parve aver capito ogni cosa, come sempre. E come
sempre lei
si ritrovò col cuore colmo di gratitudine.
-Andiamo-.
Continuava a tirare su col naso.
-Sei
sicura?- le chiese apprensivo, asciugando qualche lacrima con il
pollice. –Non
siamo costretti. Loro potrebbero aiutarti-.
Incrociò
per un attimo il suo sguardo e si stupì della nota di dolore
che vi leggeva
dentro: a quanto pareva, nemmeno per lui era così semplice
abbandonare la
propria famiglia senza sapere quando avrebbe potuto rivederla. La morsa
di
tristezza che le strinse il petto mentre pronunciava quelle parole fu
forse la
più forte che avesse mai sentito in vita sua: -Tu
non sei costretto-.
-Cosa?-
Ora sembrava confuso e vagamente arrabbiato.
-Non
voglio che tu soffra come me. Insieme a me-. Era come se mille aghi
dalla punta
avvelenata le trafiggessero il cuore, e si disse che era meglio
così, che non
poteva costringere il ragazzo che più amava ad una fuga che
non aveva meta se
non la fine, che sarebbe stato meglio senza di lei sin
dall’inizio, che magari avrebbe
incontrato qualcuno che non l’avrebbe immischiato nei propri
assurdi,
impensabili, grandi casini, e sarebbero stati insieme una coppia
felice. Normale.
Quel
pensiero le faceva male, certo, perché non era nemmeno
lontanamente capace di
immaginare un giorno lontana da lui, figuriamoci
un’eternità intera, ma le
faceva ancora più male sapere che lui volesse seguirla verso
un futuro che era
ormai già deciso e lasciarsi trascinare nel baratro, quando
aveva la
possibilità di tirarsene fuori. Forse all’inizio
sarebbe stato l’amore a dargli
la forza di rimanere, ma se alla fine fosse scomparso come succedeva
spesso in
quei casi? Sarebbe stato costretto a vivere una vita che detestava solo
per il
senso di colpa? E ammesso che l’amore non lo lasciasse,
sarebbe mai più
riuscito a provare felicità, gioia, leggerezza? Ad amare?
Non
poteva accettare quelle eventualità. Non poteva annientare
anche quel che c’era
di buono in lui.
-Che
cazzo stai dicendo?- ringhiò, le nocche rese bianche dalla
forza con cui
stringeva il volante. Lei sussultò sul sedile ma non perse
il controllo delle
emozioni che le suggerivano tutt’altra decisione. Maledetto
egoismo.
-Meriti
di essere un ragazzo come tutti gli altri. Di... vivere la tua vita
senza
preoccupazioni-. Dio, quanto soffriva.
-Cosa
significa?-
-Che
forse è meglio lasciarsi, prima di rovinare tutto-. E
ricacciò indietro le
poche lacrime che le erano rimaste da versare.
-Ne
abbiamo già parlato. Io voglio stare con te - disse, dopo
aver preso un respiro
profondo per calmarsi e stretto dolcemente la sua mano. Adesso nel suo
sguardo
non c’era che preoccupazione.
–Io
voglio stare con te perché la mia vita non sarebbe la stessa
senza il tuo
sorriso, la tua risata, le tue labbra sulle mie. Non riuscirei nemmeno
ad
aprire gli occhi la mattina, capisci?- Le sollevò il mento
con le dita e la costrinse
ad affrontare una volta per tutte la verità: -Io ti amo,
Giulia. Non mi importa
se sarà difficile e dovrò soffrire, dovremo
soffrire. Voglio rimanerti accanto. Altrimenti non me lo perdonerei
mai-.
Sorrise
commossa come se le avesse appena chiesto di sposarlo e si sporse dal
suo
sedile per abbracciarlo e riempirlo di baci sul viso. Quelle parole...
quelle
parole erano assolutamente sbagliate, ma non poteva farci niente, non potevano farci niente, perché
si amavano
alla follia e quel poco di tempo che aveva a disposizione non sarebbe
mai stato
lo stesso se avessero deciso di separarsi.
E
per quanto potesse essere scorretto da parte sua, lei l’aveva
sempre voluto con
sé in quella battaglia già persa in partenza.
Intrecciò
le dita alle sue, si accoccolò sulla spalla che le porgeva e
chiuse gli occhi,
mentre il motore si azionava con un rombo viscerale e la macchina
sfrecciava
via verso l’ignoto.
-Mi
prometti una cosa?-
-Qualsiasi
cosa-. Le passò una mano tra i capelli con fare protettivo,
gli occhi rivolti
alla strada davanti a sé.
-Non
dovrai mai smettere di amare. Mai-.
Lui
si irrigidì. –Perché me lo dici proprio
adesso?-
-Lo
sai bene- gli rispose in tono perentorio. –E sai bene che
prima o poi sarai
costretto a capire-.
Non
ribatté. Si limitò ad annuire rigido e a
stringerla a sé con più vigore.
Nessuno
dei due si azzardò a rompere quel silenzio consapevole:
avevano ancora molta
strada da fare.
E
non solo in quel viaggio.
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Capitolo 2 *** Capitolo 1 ***
CAPITOLO
1
Luglio,
3 anni dopo
Ho
sempre pensato che i cambiamenti, positivi o negativi che siano,
abbiano
l'unica conseguenza di distruggere tutto ciò per cui si
è combattuto, sudato,
vissuto. E non importa se il tempo sarà gentile con te e
farà in modo che
diventino "nuova realtà": l'anima ricorderà
sempre quel che ha perso
e immaginerà un futuro diverso in cui ogni cosa segua il
corso di prima, come
se non fosse accaduto nulla.
Ed
io lo immaginavo. Sì, lo immaginavo, mentre ero seduta su
quel divano a
lasciarmi consumare dalla rabbia che ogni singola parola accendeva come
miccia.
Ma, cavolo, quale comune ragazza di diciotto anni si preoccuperebbe di
questioni del genere? Non ne ha affatto bisogno: si diverte, va in giro
per
discoteche con i propri amici e magari ne approfitta per accendere la
sua prima
sigaretta o aspirare la sua prima riga di polvere magica. No, a
pensarci bene
non si tratta di una comune ragazza di diciotto anni: questo
è il ritratto
della tipica quindicenne disposta a bruciare le tappe pur di sembrare
"adulta" agli occhi dei altri. Di certo non avevo intenzione di
rimettermi al passo con le altre ragazze della mia generazione, ero
troppo
giudiziosa e forse anche troppo ingenua per farlo, eppure in quel
momento, lo
ammetto, mi sarebbe servito qualcosa di forte per digerire la
situazione e gli
sguardi di mio padre e della sua compagna, Claudia, mentre cercavano di
spiegarmi tutto nella maniera più calma e ponderata
possibile: -Non è un
cambiamento così drastico, tesoro: saremo distanti da qui
soltanto di pochi
chilometri e tu potrai continuare a frequentare i tuoi amici, ad uscire
in
città, a vivere la tua vita come al solito. Dobbiamo farlo,
altrimenti sarebbe
impossibile gestire tutte le esigenze della nostra famiglia allargata-.
Prima
cosa: odiavo il nomignolo "tesoro", che fortunatamente mio padre
usava solo nei casi in cui occorreva addolcirmi con qualche parola
affettuosa
risalente ai tempi dell'asilo. L'avrei volentieri fulminato con
un'occhiataccia, ma non mi sembrava il momento ideale per dare sfogo
alle mie
"esigenze di adulta".
Seconda
cosa: famiglia allargata. Certo, come no. Erano una coppia da quasi due
anni,
ormai, e si definivano "famiglia allargata" solo adesso? Per una
cerimonia formale che li riconosceva marito e moglie agli occhi dello
Stato?
Non
capivo. La nostra vecchia casa era abbastanza grande da accogliere
altre
persone, perché trasferirsi?
-Sei
una ragazza molto intelligente, Talia. Saprai già che
questa...- Claudia si
guardò intorno con un'aria vagamente infastidita, alla
ricerca della parola
giusta. Mi trattenni dal gridarle che, fino a prova contraria, quella
era
ancora casa nostra. -...struttura, non va bene per tutti. Io non
riuscirei a
viverci neanche un giorno, ad essere sincera, e il mio vecchio
appartamento è
troppo piccolo per ospitare anche voi-.
E
all'improvviso mi fu chiaro il motivo del trasloco: Claudia. Come avevo
fatto a
non pensarci? Era sempre lei a cambiare le carte in tavola,
stravolgendoci la
vita che avremmo potuto trascorrere serenamente anche senza tutti quei
fronzoli.
O,
almeno, era quello che credevo io.
E
non sarei mai riuscita a capire in che modo mio padre, modesto
impiegato presso
una piccola azienda di Firenze, gentile e onesto come pochi uomini,
avesse
perso la testa per lei, un'imprenditrice senza scrupoli che sembrava
aver
venduto la sensibilità e le emozioni umane in uno dei suoi
famosissimi affari,
ambiziosa al punto da utilizzare qualsiasi mezzo, anche il
più meschino, per
raggiungere i propri obiettivi. Okay, poteva sembrare che io la
giudicassi una
cattiva persona ma, fidatevi, non era così. Al contrario:
sin da subito avevo
pensato che fosse una donna elegante e con carattere, dotata di un
fascino che
la rendeva il bersaglio di tutti gli sguardi in un ristorante o in un
qualsiasi
altro posto di vita mondana. Insomma, una che ispirava rispetto. Ed era
proprio
questo il problema: cosa ci faceva con mio padre? Non che fossero del
tutto
incompatibili, ma... Quasi.
E
supponevo che la cosa valesse anche per me e lei perché, se
quella era una
coppia destinata a non resistere alla convivenza per più di
qualche mese, io
non avevo neanche la minima possibilità di uscirne indenne.
Immaginavo
già i suoi occhi grigi, costantemente pieni di biasimo,
seguire ogni mio gesto
a tavola senza mollarmi un solo istante; inquietante, no? Mi chiedevo
se anche
mio padre ne fosse terrorizzato.
No,
certo che no: probabilmente era così innamorato da
considerarli pagliuzze di
mare incastonate in un volto angelico.
Bleah.
-Che
ne pensi, tesoro?- cercò lui di richiamare la mia
attenzione, con
un'espressione che non avrei saputo dire se di speranza o timore.
Quel
"tesoro" mi fece ritornare immediatamente alla realtà e per
poco non
persi la pazienza che avevo preservato con grande fatica.
Almeno
fino ad ora.
Che
ne penso?
Non
potevo crederci: me l'aveva chiesto sul serio. Eppure ero abbastanza
sicura che
sulla mia fronte lampeggiasse una parola non proprio carina che
riassumeva
molto bene quello che pensavo.
Fissai
entrambi con una certa indifferenza. Si aspettavano che io dicessi
qualcosa,
era chiaro. Qualsiasi cosa. Che sbraitassi. Che urlassi. Che mi
dimenassi a
terra e piangessi come una disperata. Continuai a fissarli, e dai
muscoli del
viso che si distendevano pian piano, rilassati, capii che si stavano
convincendo di poter ottenere una risposta positiva.
Lo
pensavano davvero?
Bene.
Al
diavolo tutti.
Non
li degnai di una singola parola mentre mi alzavo dal divano e
raggiungevo la
rampa di scale del primo piano, verso la mia stanza.
Mi
sembrò quasi di sentire il rumore delle aspettative che
andavano in frantumi.
-Talia!-
sentii gridare mio padre, seguito da un verso stridulo di Claudia che
doveva
essere il mio nome.
Non
appena entrata, mi lasciai richiudere la porta alle spalle.
Quella
casa, che poteva disgustare Claudia e, forse, apparire anche cadente e
mal
ridotta dal corso del tempo, era il luogo in cui avevo trascorso i
momenti
migliori della mia infanzia. E non mi importava delle fottute "esigenze
della nostra famiglia allargata": io volevo rimanere lì.
Avrei dovuto
rinunciare ai miei ricordi solo perché non possedevano alcun
valore agli occhi
degli altri?
Se
lo potevano scordare.
E
mentre percorrevo a grandi falcate il perimetro della stanza, cercando
di
placare con respiri profondi la fitta di rabbia mista ad impotenza che
mi aveva
colpito il petto e lo stomaco, il mio sguardo cadde sulla porzione di
giardino
che si intravedeva dalla finestra, delimitato ai margini da una
staccionata che
aveva ormai perso il bianco acceso di un tempo, e per un istante mi
sembrò di
vedere una bambina mingherlina dalla chioma arancione che giocava a
nascondino
con i figli dei vicini, gridava di eccitazione ed euforia sul
seggiolino
dell'altalena al primo volo in alto e si riparava nello sgabuzzino
degli attrezzi
per sfuggire all'ira funesta del papà che, nonostante le
minacce, non avrebbe
osato nemmeno torcerle uno dei suoi lunghi capelli.
Sul
viso prese forma un sorriso amaro.
E,
a questo punto, la domanda che continuava a martellarmi nella testa
era: chi avrebbe
acquistato il mio passato? A che prezzo, poi? Quale bambino (o bambina)
avrebbe
rigurgitato il pranzo sulla parete della cucina o segnato la propria
altezza
sullo stipite della porta d'ingresso? Quale uomo di famiglia si sarebbe
appropriato del garage e avrebbe allestito lì un posto dove
evadere dalla
routine quotidiana? Ma soprattutto, chiunque fosse la nuova famiglia,
avrebbe
amato quella casa come l'avevano amata i miei genitori, anche se era
l'unica
che potessero permettersi con il misero budget di partenza? Come
l'avevo amata,
e continuavo ad amarla, io?
Mi
accasciai sconsolata contro le ante chiuse dell'armadio in legno e
affondai la
testa tra le ginocchia.
Respira,
Talia.
Perdere
la calma non cambierà le cose.
A
meno che...
-Talia!-
Mio padre continuava a bussare con insistenza alla porta. -Apri la
porta, ti
prego-.
Iniziai
a frugare tra le mie cose, alla ricerca della scatola a motivi floreali
in cui
avevo riposto tutti i soldi che le mie vecchie zie mi avevano regalato
per
varie occasioni: compleanno, Natale, Epifania, Pasqua.
Ero
sicura di aver racimolato un bel gruzzolo.
Quando
lo trovai, sollevai il coperchio ed iniziai a contare le banconote sul
letto.
Siamo
ringraziate tutte le vecchie zie del mondo.
-Esci,
per favore-.
E
se avessi vissuto in quella casa per conto mio? Se nei primi tempi
avessi
badato a me stessa grazie al denaro del budget di partenza che avevo a
disposizione e poi avessi trovato un qualsiasi lavoro estivo, da
sostituire con
qualcosa di più serio nell'arco del prossimo,
nonché ultimo, anno scolastico?
Se
fossi stata completamente indipendente e... felice? Ormai avevo
diciotto anni,
non ero più una bambina. Potevo cavarmela.
Sì,
ce l'avrei fatta.
Quell'idea
mi provocò una scarica di adrenalina e di eccitazione che mi
fece tremare le
gambe e le mani.
C'era
ancora un misero barlume di speranza, in fondo. Ed io mi stavo
aggrappando ad
esso con tutta me stessa.
-Possiamo
parlarne!-
Rimasi
di ghiaccio.
Possiamo
parlarne.
Sapevo
che non l'aveva detto di proposito, probabilmente non ricordava nemmeno
in
quale occasione avesse usato quelle due parole, ma io sì.
Era questo il
problema.
E,
come sempre, mi sentivo colpevole.
Diedi
un'occhiata al letto dove le banconote, soggette al venticello estivo
che
rinfrescava la stanza attraverso la finestra aperta, si muovevano a
malapena.
Per
poco non ebbi la tentazione di sbattere la testa contro il muro.
Ma
cosa stavo facendo?
Avevo
davvero pensato a tutto quello, come se... volessi scappare.
Sono
uguale a lei.
No,
era impossibile.
Lei
ed io eravamo diverse.
Lo
dicevano tutti.
O
no?
Non
riuscivo neanche a sopportare quel pensiero e così, per
dimostrare agli altri
ma soprattutto a me stessa che era una grande menzogna, feci la
più grande
stronzata della storia che, ne ero sicura, avrei ricordato per tutta la
vita
con grande rimpianto.
Maledetto
orgoglio.
Uscii
dalla stanza, lo sguardo fisso sui piedi.
Mio
padre sorrise per il sollievo.
E
dopo nemmeno un paio di settimane mi ritrovai su un camion traslochi,
diretta
alla zona di campagna fuori Firenze.
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Capitolo 3 *** Capitolo 2 ***
CAPITOLO
2
Non
sarei mai più riuscita a dormire.
E
purtroppo non era una battuta.
Perfino
le pareti della stanza che mi era toccata mi creavano disagio, come se
avvertissi l'incessante bisogno di tornare alla mia vecchia
mediocrità. Strano,
no? Un povero, anche se sentimentalista, non dovrebbe avere
l'intenzione di
rimanere tale, anzi, sarebbe felicissimo di poter finalmente emergere
dal
cumulo di polvere che era la sua vita precedente. Mio padre ne era un
esempio:
saltellava da un posto all'altro come un coniglio impazzito e ripeteva
di
continuo, tra sé e sé: "Non è
stupenda? Non è meravigliosa?",
pretendendo che anche gli altri condividessero il suo immenso
entusiasmo.
Se
fosse stato qualcun altro a comportarsi in quel modo, e non lui, figura
genitoriale cui ero costretta a riservare il massimo rispetto (talvolta
a
scapito dei miei nervi)... Ecco, non volevo sapere come sarebbe andato
a
finire. Perché quella vita stupenda, meravigliosa, agiata,
da signori che
purtroppo fino ad allora non eravamo mai stati, non faceva per me o,
meglio,
non mi sembrava autentica, quasi che in realtà si trattasse
di uno spettacolo
da quattro soldi in cui eravamo sfortunatamente capitati e ogni nostra
mossa
fosse controllata da qualcuno di assai superiore.
La
perfezione può risultare insopportabile a tal punto?
Be',
a quanto pare sì.
Claudia,
dal canto suo, non era minimamente turbata dal trasloco, al contrario,
si
muoveva in quella casa con la stessa disinvoltura di chi non ha mai
conosciuto
realtà diversa. Prevedibile: i suoi genitori navigavano
nell'oro grazie
all'eccellente intuito nel campo dell'imprenditoria, e i genitori dei
suoi
genitori, e i genitori dei genitori dei suoi genitori... Una famiglia
ricca da
diverse generazioni, insomma.
Aveva
addirittura il coraggio di definire "casetta" la villa in cui eravamo
capitati.
No,
giusto, in effetti non si trattava di una villa.
Ma
di un castello.
Balconate
lunghe quanto interi corridoi allineavano le stanze del primo e del
secondo
piano, delimitate da ringhiere di metallo e protette da tettoie in
legno
chiaro, mentre quelle che sembravano due piccole torri, rivestite
all'esterno
da cemento misto a pagliuzze d'ardesia, dominavano i due lati della
struttura,
di un color bianco acceso che le conferiva un tocco di
modernità. Il piano
terra, dove si trovavano la cucina, la sala da pranzo, il soggiorno e
il bagno
più grande, era quasi interamente invaso dalla luce solare
grazie alle ampie
vetrate, semplici o in mattoni, da cui si aveva una visione parziale
della strada
sterrata, diramazione della principale, e delle colline poco distanti.
E
percorrendo le rampe di scale, fino a raggiungere la soffitta tramite
una scala
retrattile, era possibile accedere ad una spaziosa terrazza che
consentiva di
assistere al meraviglioso spettacolo di luci dell'alba e del tramonto.
Per non
parlare della bellezza surreale del giardino, un vasto prato costellato
da
aiuole in cui si ergevano alberi dalle foglie rossastre, gialle e verde
smeraldo, o anche piccoli arbusti e fiori di campagna che lo rendevano
a tutti
gli effetti un paradiso terreno, uno di quelli descritti dai libri e
dalle
storie popolari. Lo percorreva un sentiero ciottoloso che zigzagava
dolcemente
da un angolo all'altro, sbucando da un elegante patio di legno sul
quale dava la
porta-finestra della cucina.
E
lì, proprio lì, era sistemata la sola cosa che
fosse valsa la pena di
trasportare dal nostro vecchio giardino: un dondolo arrugginito, dai
cuscini
logori e sporchi, che una persona normale avrebbe gettato via senza
pensarci
due volte, ma non io, perché quella ferraglia, che
minacciava di cadere sotto
il peso di un uccellino e cigolava in maniera fastidiosa, era forse
l'unico
punto di riferimento di cui disponessi. Parecchio stupido legarsi ad un
oggetto
che in poco tempo si ridurrà ad un mucchio di sbarre di
metallo e bulloni,
giusto? Ne ero consapevole, ma non mi importava. Non mi importava e
basta.
Se
quello era il prezzo da pagare per preservare un po' di me stessa che
ormai non
riuscivo più a riconoscere... Be', lo avrei pagato.
Nonostante
Claudia, come al solito, avesse da ridire e si lamentasse con i suoi
continui:
"Ne compreremo un altro sicuramente migliore, non c'è
bisogno di rovinare
l'estetica del giardino con questo... coso". Sul serio, qualche volta
avrei voluto davvero aprirle gli occhi sulla realtà e farle
capire che i suoi
sudatissimi e amatissimi soldi non possono comprare qualsiasi cosa e
che prima
o poi avrebbe dovuto rassegnarsi all'idea che, sì, la nostra
vecchia vita non
era delle migliori, ma non aveva il diritto di mostrare il suo disgusto
in ogni
occasione, visto che la nuova non sembrava presentarsi meglio. Almeno
dal punto
di vista umano.
Eppure,
in maniera quasi paradossale, mi ritrovavo a giustificarla. In fondo,
al posto
suo, chi avrebbe visto qualcosa di diverso al posto di un aggeggio
ormai
inutile che minacciava l'incolumità delle persone che lo
usavano?
Nessuno
avrebbe mai capito, e non potevo di certo aspettarmi che lei
rappresentasse
un'eccezione.
O
fargliene una colpa, perché ne aveva molte altre, prima tra
tutte la
grandissima crisi di nervi che ormai la convivenza con lei mi stava
provocando.
Peggio
di come la immaginassi già, cazzo.
Cos'aveva
quella donna che non andava?
Avrei
dovuto trascorrere davvero l'ultimo anno della mia adolescenza in
quelle
condizioni?
Finché
un ragazzo allampanato e capellone, con un borsone pieno di vestiti e
una
custodia per violino ben fissati alle spalle, come un principe azzurro
giunto a
salvarmi, non bussò un pomeriggio al portone d'ingresso dopo
aver parcheggiato
in gran fretta la sua Porsche metallizzata davanti al maestoso
cancello,
urlando con un fischio di approvazione:
-Gran
bell'acquisto, mamma!-
Al
suono della sua voce, Claudia si bloccò sul divano accanto a
me, la tazza di tè
che aveva preparato poco prima accostata appena alle labbra, e
rivelò uno dei
suoi rari (e inquietanti) sorrisi. Ebbi più o meno la stessa
reazione, a parte
il tè e il sorriso inquietante.
-Ne
sapevi qualcosa?- mi chiese, avviandosi verso la porta.-Assolutamente
no-. E
nel momento stesso in cui pronunciai quelle parole, avvertii un fremito
d'eccitazione alla consapevolezza che ogni cosa sarebbe cominciata ad
andare
per il verso giusto una volta per tutte.
-Alessandro-.
Mio padre lo accolse confuso in casa con una pacca sulla spalla.
–Sbaglio, o
dovevi tornare a casa tra due settimane?-
Intanto,
Claudia si era già avvicinata al figlio per controllare che
il suo corpo non
avesse perso peso in quei sei mesi.
-È
successo qualcosa, Alessandro?- La preoccupazione e l'apprensione che
riempivano le sue parole e deformavano il suo volto mi davano uno
strano
effetto, come se non le appartenessero davvero ma le avesse prese in
prestito
da qualcun altro. Questa rimaneva comunque un'ipotesi plausibile,
certo, ma era
molto più probabile che in presenza del figlio la
modalità "Imprenditrice
spietata" andasse in stand-by per lasciare il posto a quella "Mamma
normale" che la rendeva finalmente una persona reale, accantonando il
robot che era in lei almeno per un po'.
-Perché
dovete per forza essere così pessimisti?- rispose lui
ridendo, alla ricerca di
un posto in cui sistemare il violino e il borsone. Alla fine
optò per la
poltroncina vicino all'ingresso. –Il professore che avrebbe
dovuto tenere
l'ultimo corso si è dato malato e l'ha spostato a settembre,
così ho deciso di
tornare prima e farvi una sorpresa-. Inarcò le sopracciglia,
fingendosi
vagamente offeso.
-Non
siete felici?-
Mi
sfuggì una risatina, la prima dopo... be', sei mesi, a
partire dall'esatto
momento in cui era entrato in auto e aveva gridato dal finestrino
aperto,
impegnato a compiere una manovra in retromarcia: -Tornerò.
Più morto che vivo,
ma tornerò-.
Alessandro
sembrò accorgersi di me soltanto adesso, e sul suo volto si
fece largo un gran
sorriso.
–Musona!-
-Quante
volte ti ho detto di non chiamarmi così?- protestai
scocciata, nonostante
avessi sentito in realtà la mancanza di quel soprannome che
mi mandava sempre
in escandescenze.
-Non
abbastanza, a quanto pare-. E si allontanò dalla mamma per
circondare e
sollevare il mio corpo minuto con le sue possenti braccia.
-Mettimi
giù!- Continuavo a ridere e, anche se non l'avrei ammesso ad
anima viva, quel
tipo di contatto fisico non mi infastidiva come gli tutti gli altri.
Anzi.
Un
cambiamento drastico, quasi incredibile, rispetto all'estate di due
anni prima,
quando non eravamo che una sedicenne e un diciottenne costretti dai
rispettivi
genitori ad incontrarsi e comportarsi come veri fratelli, e lui, alla
fine di
quella noiosa cena, aveva detto: -Bene, sorellina, è stato
proprio un vero
piacere conoscerti!- e mi aveva abbracciata nonostante i miei continui:
"Smettila di stritolarmi!"
Da
quella sera non ci eravamo più separati.
E
aveva deciso di chiamarmi "Musona".
Se
qualcuno mi avesse detto che il figlio di Claudia sarebbe diventato il
mio
migliore amico, gli avrei riso in faccia. Chi avrebbe mai immaginato
che
fossero l'esatto opposto sia nell'aspetto che nel carattere? O, molto
probabilmente, c'era stato uno scambio di culle nell'ospedale in cui
era nato e
adesso suo figlio naturale stava facendo impazzire una famiglia
innocente.
Poveri genitori.
Non
avrei voluto trovarmi nei loro panni per nulla al mondo.
Dopo
essere stato costretto a riportarmi a terra con un piccolo calcio sulla
pancia,
in segno di avvertimento, si sedette sul divano accanto a me mentre sua
mamma
poggiava un vassoio con biscotti e succo di frutta sul tavolino al
centro. Non
proprio il massimo per un ventenne, ma lui non lo diede a vedere.
-Com'è
andato il viaggio?- gli chiese lei, sistemandosi sull'altro divano
insieme a
mio padre. -Hai avuto difficoltà a trovare la casa?-
-No,
è praticamente l'unica a raggi di chilometri!-
Solo
per dare un'idea di quanto fossimo lontani dalla civiltà.
-E...-
Iniziò a lisciarsi pieghe inesistenti della gonna, segno che
stava per dare
inizio ad una discussione molto seria. –Sei stato
già contattato da qualche
orchestra?-
Alessandro
studiava Violino in un prestigioso conservatorio di Milano da quasi due
anni,
ormai, ed era bravo. Davvero. Non mi sarei stupita se qualche musicista
di alto
livello si fosse messo in contatto con lui, anche se continuava a
ripetere che,
semmai avesse ricevuto un'email o una telefonata, si sarebbe rifiutato
di
presentarsi perché preferiva proseguire gli studi con
serenità, senza stress o
pressioni.
Ma
Claudia sembrava pensarla in maniera diversa.
Come
al solito.
-Non
ancora, mamma-. Il tono di voce tradiva il fastidio.
-Hai
controllato?-
-No,
mamma-.
-E
allora fallo, no? Cosa stai aspettando?-
-Un
po' di pace, mamma-. Le rivolse un sorriso sarcastico che mi costrinse
a
coprire la bocca con una mano per soffocare una risata maleducata.
Claudia
assunse un'espressione offesa che sostituì a breve con la
sua solita freddezza.
–Se non pensi più seriamente al tuo futuro, ti
ritroverai a suonare il violino
per elemosina in mezzo alla strada-.
-Di
sicuro sarà più eccitante che controllare di
continuo i risultati della Borsa
sul cellulare-.
-Come
ti...- si trattenne a stento lei. Mio padre le poggiò una
mano sulla sua
schiena che scrollò di dosso con un movimento eloquente
delle spalle. –Dovresti
soltanto ringraziarmi per aver assecondato la tua scelta, invece che
costringerti ad entrare nell'attività di famiglia come i
tuoi nonni hanno fatto
con me-. Si alzò furibonda, la maschera di
impassibilità che tremava insieme al
labbro inferiore, e riprese:
-Come
farai quando non ci sarò più? Chi ti
darà i soldi per vivere?-
Se
non la conoscessi, avrei detto che fosse sul punto di piangere.
Perché lei era
Claudia, e le sue non potevano essere lacrime.
Forse
gocce di veleno.
O
anche olio di motore.
Papà
aveva un'aria preoccupata e continuava a lanciare occhiate
significative ad
Alessandro, anche lui consapevole di aver esagerato. Quanto a me,
l'istinto mi
intimava di agire ed intervenire come sempre, con la stessa prudenza e
accortezza
di un elefante in una cristalleria, ma il buon senso mi suggeriva di
evitare
discussioni non strettamente legate a me o alla mia famiglia e, per una
volta,
decisi di ascoltare l'ultimo.
-Ne
abbiamo già parlato- sospirò lui. –Non
andrà a finire così. In futuro troverò
qualcosa,
te lo prometto-.
-Non
mi interessano le tue promesse. Voglio delle certezze. E se non sarai
capace di
darmele, chiamerò tuo padre e ti farò iscrivere
all'università di Economia più
vicina. L'hai sempre saputo, no?-
-Non
pensi che...- fece per protestare mio padre.
-Non
ti immischiare, Pietro-.
Okay,
se adesso non reagisce lui,
ci penso io al posto suo.
-D'accordo,
come vuoi- alzò le mani lui.
Come
non detto.
Stavo
riscaldando le corde vocali, pronta alla battaglia che di lì
a poco si sarebbe
consumata nel soggiorno, quando Claudia si voltò di scatto e
iniziò a procedere
impettita verso la rampa di scale senza spiegarne il motivo,
probabilmente
diretta allo studio che si trovava al primo piano. E mio padre non
esitò a
correrle dietro con uno sconsolato: -Non dirmi che ora ce l'hai anche
con me!-
Rimanemmo
così soltanto noi due, Alessandro ed io, a dover sopportare
quel silenzio
consapevole in cui continuavano ad aleggiare le parole crude, spietate,
dannatamente razionali di Claudia che, per la prima volta, non avvertii
il bisogno
di celare con altre parole.
Poi,
quasi in un sussurro: -Bello schifo, eh?-
Puoi
ben dirlo.
–Purtroppo
sì-. Lo guardai con sincero dispiacere.
-Non
è la prima volta che me lo dice, ma mi ripeto sempre: "Ehi,
sei in gamba,
le dimostrerai di valere almeno in questo"- Sorridendo amaramente,
prese
un respiro profondo. –Sono passati due anni e non ci sono
ancora riuscito-.
-Stai
dicendo una grandissima stronzata-.
-E
allora perché continuiamo a parlare
dell'università di Economia?-
-Perché
tua madre vuole il meglio per te-. Gli poggiai istintivamente una mano
sulla
spalla e quasi non mi accorsi del sussulto che la sua schiena ebbe al
mio
tocco. –Ma non riesce a capire che quello che stai facendo
è il meglio per te,
perché hai talento e farai strada, credimi. E anche lei se
ne accorgerà presto
-.
E
dal sorriso che mi rivolse, capii che mi stava ringraziando in
silenzio; io non
potei fare a meno di aggiungere con una smorfia: -Anche se a volte
quella donna
mi spaventa un po'-.
-Spaventa
anche me. E sono suo figlio!-
La
sua risata gutturale si perse nell'aria mentre calava di nuovo il
silenzio tra
di noi, ed io mi ritrovai a pensare a come ci fossimo trovati senza
qualcosa da
dire per portare avanti la conversazione. In genere era così
semplice divagare,
scherzare, ridere, ma in quel momento no, sembrava quasi inappropriato.
Perché
quel tipo di silenzio non aveva lo stampo dell'indifferenza reciproca,
nelle
situazioni in cui non si ha nulla a che vedere con un determinato
interlocutore
e l'unica cosa che esiste è l'enorme vuoto da riempire con
qualche domanda a
caso.
No,
anzi, era fin troppo intimo, forse anche imbarazzato, come di due
persone che
non hanno bisogno di parole per parlarsi. Quasi... fuori luogo.
E
quelle persone erano di solito unite da un legame molto più
forte
dell'amicizia.
Sto
davvero pensando ad Alessandro, Alessandro, in quel modo?
Stavo
per scoppiare a ridere: ed eccomi qui in compagnia dei miei film
mentali, una
coppia che difficilmente qualcuno sarebbe riuscito a sciogliere.
Eppure
c'era qualcosa di sbagliato in quella situazione, me lo sentivo.
Come
sentivo che i suoi occhi color verde slavato continuavano a scrutarmi
il viso,
nonostante il mio sguardo fosse rivolto altrove e i capelli formassero
un lungo
sipario rosso, e il cuore prese a battere all'impazzata senza motivo.
Non
mi era mai capitato.
Ed
era... strano. Forse anche piacevole.
-E
tu?- sussurrò improvvisamente lui con voce flebile.
-Io
cosa?- Iniziavo ad essere consapevole di ogni suo gesto (le dita che si
muovevano sinuose mentre gesticolava, la bocca che si arricciava
leggermente
quando parlava, le piccole rughe intorno alle palpebre che si formavano
insieme
ai suoi sorrisi) e questa cosa non mi piaceva affatto
perché...
Al
diavolo, non lo sapevo nemmeno io il perché.
-Tu
come stai?-
Quella
domanda non me la sarei proprio aspettata da lui, che era l'unico ad
essere a
conoscenza di quanto detestassi parlarne; probabilmente quel giorno
doveva
essersi sentito fortunato e aveva deciso di sfidare il destino e il mio
umore
oscillante dal picco della felicità a quello della rabbia.
Qual
era il mio problema con il "Come stai?"?
Non
di certo le parole in sé, visto che erano soltanto
un'accozzaglia di suoni che
le persone rivolgevano ad altre per pura cortesia.
Era
la risposta.
Perché
dovresti dire come ti senti a qualcuno cui magari non interessa affatto?
E
se anche fosse interessato, tu saresti in grado di rivelare la
verità?
No,
ovviamente.
Nessuno
ha il coraggio di affrontare se stesso.
E
forse il problema, nel mio caso, era che nemmeno io conoscevo quella
verità.
Esiste
qualcosa di peggio?
Successe
così, senza che me ne accorgessi o potessi fermarlo in tempo.
In
un attimo rimossi dalla mente qualsiasi pensiero fuori luogo, tornando
a considerare
Alessandro semplicemente "Alessandro", il ragazzo dalla
personalità
stravagante e imprevedibile che mi faceva ridere, zittii la vocina che
mi
ricordava del fastidio che le dimostrazioni d'affetto mi provocavano e
poggiai
la testa sulla sua spalla, gli occhi chiusi e le spalle rilassate,
insolitamente confortata dalla familiarità del suo corpo.
Il
torpore del sonno mi avvolse all'improvviso e notai a malapena che mi
stava
accarezzando dolcemente i capelli.
Salve
a tutti!
Non
sono riuscita a scrivere
l'Angolo Autrice nell'altro capitolo per mancanza di tempo, ma
cercherò di
rimediare a partire dall'ultimo aggiornamento.
Che
ne dite? Vi sta incuriosendo la
storia?
C'è
ancora molto da scoprire, anche
se, personalmente, già inizio a shippare i miei personaggi
come se non ci fosse
un domani (le fangirls capiranno).
Al
prossimo capitolo (che spero di
pubblicare il prima possibile),
the_scream_of_silence
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Capitolo 4 *** Capitolo 3 ***
-Cosa
significa “arriveranno i miei amici domani”?!-
urlò Claudia, senza preoccuparsi
questa volta di tenere a bada l’ira. Non aveva ancora
dimenticato la
discussione di qualche giorno prima e quella notizia, snocciolata da
Alessandro
a cena come se fosse qualcosa di assolutamente normale, non migliorava
la
situazione. Mio padre le strinse la mano che aveva poggiata sul tavolo,
ma lei,
come al solito, si ritrasse di scatto.
-Lo
sai che tra meno di due mesi dobbiamo sposarci? Lo sai, Alessandro?-
Alessandro
spezzò tranquillamente un pezzo di pane e se lo
infilò in bocca. –Appunto, tra
meno di due mesi. Domani siete liberi-.
Colpita
e affondata.
Prima
che potessi accennare un sorriso o qualcos’altro, Claudia mi
fulminò con lo
sguardo. –E per quanto tempo dovrebbero rimanere questi tuoi
“amici”?- scandì
con cautela, prendendo dei respiri profondi per calmarsi.
-Non
lo so. Quanto vogliono-.
Mi
fece l’occhiolino con un sorrisetto furbo dipinto sul viso ed
io capii che
stava tramando qualcosa.
-Stai
scherzando, vero? Questa casa non è un albergo, Alessandro!-
-Ma
è così grande che potrebbe esserlo-.
-Tu...-
Gli rivolse un’occhiata di fuoco e sembrò quasi
sul punto di scoppiare, ma poi,
visibilmente esausta, scrollò la testa e poggiò
una mano sulla fronte. –Sei
proprio uguale a tuo padre-.
-Sto
solo dicendo che potrebbero volerci diverse settimane. Sai, per i
provini...-
gettò l’amo con indifferenza, anche se era
abbastanza evidente che l’avesse
programmato già dall’inizio. Una delle sue solite
furbate, in pratica. Io
l’avevo sempre detto: era un dannato genio del male.
Lo
guardai con aria interrogativa. Lui, per tutta risposta,
scrollò le spalle e
nascose un ghigno colpevole con una mano sulla bocca.
Continuò a sbocconcellare
il suo pane.
-Provini?-
abboccò subito Claudia, rianimatasi
all’improvviso. Stavo per scoppiare a
ridere: quella situazione era assurdamente comica.
-Be’,
sì, mamma. Il ragazzo studia Pianoforte nel mio
conservatorio e ha deciso di
venire a Firenze con la fidanzata per trovare una buona occasione
lavorativa-.
Alzò lo sguardo, fingendo innocenza.
-Incontrerà
parecchi maestri d’orchestra e, chissà, magari
qualche volta potrei
accompagnarlo anche io, al posto della ragazza...-
-Uhm,
ecco, mi sembra giusto- fece lei con un’espressione
orgogliosa e trionfante sul
viso. Pensava di averla avuta vinta senza sospettare neanche
lontanamente di
essere appena caduta nella trappola di Alessandro. –Quel
ragazzo ha bisogno di
un amico come te, che condivida i suoi stessi interessi. Quindi
perché no?- Si
raddrizzò contro lo schienale della sedia. –Tu sei
d’accordo, Pietro?-
-Per
me non c’è problema- confermò mio padre.
-Bene,
allora è deciso. Però mi raccomando, Alessandro:
serietà da parte tua e dei
tuoi amici. Non voglio essere costretta a pensare anche ai vostri guai
mentre
sono impegnata con gli ultimi preparativi. Anzi, preferirei che se ne
andassero
almeno un paio di settimane prima del matrimonio, per sicurezza-.
–Mamma,
hanno ventidue anni. Non sono bambini-.
-A
proposito di preparativi...- finse di non averlo sentito.
–Pietro, dovremmo
scegliere tra la villa e la spiaggia per la cerimonia civile. Che ne
dici della
spiaggia? Conosco delle persone che potrebbero farci risparmiare sulla
prenotazione e sul catering...-
Mentre
discutevano di costi e prezzi e altre cose noiose che avrei preferito
non
sentire, continuavo a prendere cucchiaiate dalla
“zuppa” che Claudia aveva
preparato orgogliosamente per cena, cercando di controllare
l’istinto di
sputarla tutta sul tavolo. Il sapore mi ricordava tanto quello del
latte
rancido o del pesce andato a male.
Bleah.
Purtroppo
la cucina non era il suo forte e lei non aveva mai avuto intenzione che
lo
diventasse, visto che pagava una cameriera per stare ai fornelli e
sbrigare
tutte le fastidiose e necessarie faccende di casa, ma siccome quella
donna
aveva deciso di prendere un aereo diretto in Albania
all’ultimo minuto per
andare a trovare i figli e trascorrere l’intera estate
insieme a loro... be’,
adesso Claudia indossava un grembiule e ci avvelenava senza saperlo.
Avrei
volentieri cucinato io al posto suo, visto che me la cavavo abbastanza
in
cucina e ne andava della nostra salute, ma lei non ne voleva sapere,
testarda
come un mulo nel dimostrare di essere capace anche in quello.
Prima
o poi avremmo dovuto fare una lavanda gastrica di famiglia, ne ero
sicura.
Ad
un certo punto avvertii delle dita che mi scostavano i capelli dal viso
e si
facevano strada sulle guance, in una carezza così dolce e
spontanea che mi fece
pensare a quella di mia madre. Mi voltai perplessa: Alessandro
sorrideva con
tenerezza, come se si stesse occupando di una bambina.
Prima
che potessi chiedere spiegazioni con un’occhiata eloquente e
infastidita,
avvicinò le labbra al mio orecchio e sussurrò con
voce profonda, quasi ridendo:
-I tuoi capelli stavano per finire nella zuppa-.
Rabbrividii,
quasi dimenticando cos’avesse detto e, nel momento stesso in
cui avvertii uno
spasmo in zone del corpo che non pensavo neanche esistessero, capii che
c’era davvero
qualcosa che non andava. Insomma, fino a quel giorno ci eravamo
comportati alla
solita maniera, come se non fosse successo nulla e nessuno dei due
avesse
sperimentato quelle sensazioni inappropriate.
O forse riguardavano solo me e stavo fraintendendo tutto. E lui non
provava
niente. E la colpa era soltanto mia e dei miei maledetti ormoni
impazziti.
Attratta
da Alessandro? Sul serio?
Sarei
scoppiata a ridere se i suoi brevi e concitati respiri non avessero
continuato
a solleticarmi la pelle del collo. Okay, lo sapevo bene, non ci sarebbe
stato
nulla di strano a provare qualcosa per lui, visto che era un bel
ragazzo e a
Milano aveva il suo bel da fare per evitare di incontrare spasimanti
indiscrete, ma... ecco, per me le cose erano diverse, faceva ormai
parte della
mia famiglia ed essere attratta da lui sarebbe stato come perdere la
testa per
un fratello.
Appunto,
fratello. Solo un fratello.
Perché
eravamo solo questo: fratelli. E i
fratelli si vogliono bene, si sostengono a vicenda, si aiutano
l’un l’altro...
Per il nervosismo i miei pensieri iniziarono a divagare fino ad
arrivare chissà
come al prezzo del tappeto della mia stanza, mentre provavo a tenere a
bada la
piacevole morsa al ventre che mi solleticava lo stomaco.
O
mio Dio.
Mi
sforzai di ironizzare per impedire alla situazione di prendere una
piega
pericolosa: -Fidati, il sapore sarebbe migliorato-.
-Ne
sono sicuro. Meglio i tuoi capelli che il dado che usa mia madre!-
Io
risi. Lui rise. Bene. La tensione si stava allentando e il mio corpo
poteva
testimoniarlo.
-Mi
chiedevo se...- Iniziò a giocherellare con qualche ciocca di
capelli e,
dannazione, fui come attraversata da una scarica elettrica di mille
volt che mi
mandò il cervello completamente in pappa. Il mio corpo ed io
avevamo parlato
troppo presto. -...magari, una di queste sere, ti andasse di venire a
sentire
qualcosa con me in un locale che conosco. I proprietari sono gente in
gamba, ti
piacerebbero-.
“Appuntamento”,
mi sussurrò una vocina fastidiosa nella testa che zittii
all’istante. Ed io
compresi con un moto di frustrazione che, sì, il problema
riguardava solo me,
perché non era la prima volta che Alessandro mi invitava ad
uscire.
Presi
un respiro profondo. Dio, mi sentivo così stupida.
-Ehm...-
Lanciai un’occhiata a Claudia e mio padre, troppo impegnati a
discutere sul
colore delle bomboniere per accorgersi di me e delle mie crisi nervose.
–Sì,
certo. Mi farebbe piacere conoscerli-.
-Perfetto-
sussurrò soltanto, accostando per un attimo le labbra al mio
lobo.
E
in meno di qualche secondo terminai il piatto di zuppa.
Il
giorno successivo mi svegliai grazie al suono
dell’aspirapolvere passato sulla
moquette del soggiorno. Dopo aver salutato Alessandro che si era
avviato verso
l’aeroporto di Firenze intorno alle undici per accompagnare
gli amici a visitare
la città, mi ritrovai costretta a sistemare la mia stanza su
ordine di una Claudia
che era già passata in modalità “Donna
di casa”, strillando di continuo a mio
padre di darle una mano a spostare i mobili nuovi di zecca che non
aveva
disposto con attenzione in cucina, nel soggiorno e nelle stanze
destinate agli
ospiti. Solo che, con i guanti di gomma che continuava a pulirsi sul
grembiule
non appena sfiorava uno strato di polvere, non rappresentava il massimo
dell’efficienza casalinga.
-Riuscite
a capire sì o no che quei ragazzi arriveranno nel tardo
pomeriggio e in casa
c’è ancora molto da fare?- ci rimproverava senza
sosta, spostandosi da una
stanza all’altra con uno spolverino tra le mani.
-E
cosa c’entra l’ordine della mia stanza con il loro
arrivo?- replicai ad un
certo punto, stizzita.
–Non
penso che la useranno anche loro, no?-
-Non
la useranno, ma potrebbero vederla di sfuggita passando per il
corridoio. E non
sarebbe carino se trovassero le tue cose... intime
dappertutto-.
Un
attimo. Aveva sul serio detto “cose intime”?
Non riuscivo a crederci. Pensava che fossi una specie
d’animale che marchia il
proprio territorio?
Ma
per favore.
Mi
rinchiusi nella mia stanza senza neanche degnarla di una risposta
decente e
decisi che, prima di tutto, avrei iniziato a
“sistemare” proprio le pareti,
ancora immacolate e perfettamente bianche come le mie cose
intime che secondo Claudia formavano un tappeto sul
pavimento.
Assurdo.
Ed era ancora più assurdo che mi venisse quasi da ridere per
il nervosismo.
Due
colpi alla porta che io riconobbi subito. Il suo tono di voce
preoccupato,
forse addirittura colpevole, era ovattato dal pannello di legno
massiccio della
porta mentre cercava di rimediare con l’unica parola in grado
di peggiorare la
situazione più del dovuto: -Tesoro...-
-Non
ora, papà- risposi secca, con frustrazione, lasciandomi
ricadere sul materasso
e tendendo le orecchie per assicurarmi che i suoi passi pesanti si
allontanassero nel corridoio e lui mi lasciasse finalmente in pace.
Dopo un
lungo, quasi interminabile, sospiro di sconforto che riuscii a cogliere
benissimo anche attraverso le pareti. Un brivido sinistro mi percorse
la spina
dorsale.
Non
c’era motivo per cui mio padre dovesse
lamentarsi. Insomma, era stato lui a scegliersi una donna del genere
come
compagna per il resto della vita, con la speranza che io mi adattassi
alla sua
“nuova realtà” senza problemi. Insomma,
era stato lui a comportarsi da padre
superficiale e distratto e ad evitare di parlarne con me. Insomma...
Era lui il colpevole di ogni cosa.
E
allora perché mi sentivo così male, come se
avessi appena preso a calci un
innocente cucciolo di cane o di cerbiatto o di qualsiasi altro animale
adorabile?
Non era affatto giusto. Quel dannato senso di colpa non era giusto.
Poggiai
una mano sul petto per alleviare le fitte di rimorso che mi
comprimevano il
petto e lo stomaco e continuavano a risalire sotto forma di colazione,
e il mio
sguardo cadde accidentalmente sulla foto che avevo sistemato sul
comodino
accanto al letto diverso tempo prima, forse addirittura lo stesso
giorno del
trasloco. Il cuore ebbe un fremito. Una donna dai capelli rossi,
così lunghi da
sfiorare il fondoschiena, sorrideva raggiante all’obbiettivo
con un fiore tra
le mani che si era appena chinata a cogliere in mezzo ad un prato,
visibilmente
sorpresa come se non si aspettasse di essere fotografata proprio in
quel
momento. Gli occhi grigi riflettevano la luce del sole, le fossette
sulle
guance la rendevano ancora più bella di quanto non fosse
già e il cappello di
paglia che schermiva il volto le stava d’incanto, nonostante
fosse decisamente
troppo grande per la sua testa. Passai un dito sulla cornice color
argento e
sussurrai così, senza riuscire a farne a meno: -Mamma-.
L’unica
donna perfetta per mio padre era lei. Era sempre stata lei. Con un
sorriso
gentile, lo sguardo cordiale, un’innocenza dipinta sul volto
che la ringiovaniva
di diversi anni, la mamma costituiva da sempre il punto di riferimento
principale della nostra famiglia. Non esisteva dolore che lei non
potesse
allontanare con una bella fetta di torta al cioccolato, credeva nel
potere del
destino e del riscatto e ripeteva di continuo che, se le bollette da
pagare
erano l’inevitabile ostacolo ad un futuro
all’insegna della felicità... be’,
allora ci saremmo rimboccati le maniche e avremmo sofferto un
po’. Almeno
all’inizio. L’ottimismo e la voglia di vivere di
cui non era mai a corto
illuminavano la casa e il piccolo negozietto di fiori dove lavorava
come
commessa, quasi da risultare contagiosi: non era un caso che molti
parenti
venissero a trovarci più spesso del dovuto o le persone di
altri quartieri
andassero a fare acquisti proprio lì.
Mio
padre la amava più di se stesso. Era la sua ancora di
salvataggio e non sarebbe
mai riuscito a vivere senza i suoi abbracci, le sue carezze, i suoi
baci che avevano
sempre “un gusto dolce ed esotico”.
Eppure
lo stava facendo.
Accarezzai
la superficie di vetro della cornice, ricalcando i contorni del suo
volto con
un dito.
Successe
diversi anni prima, quando non ero che una bambina di cinque anni
incapace di
contare i numeri da uno a dieci sulle mani e di pronunciare
perfettamente la
“r”, figuriamoci di sopportare una cosa del genere.
Quel giorno afoso d’agosto,
nel tardo pomeriggio, aspettavo che la mamma tornasse dal negozio per
farmi un
“bagnetto tutto schiuma e paperelle” e mi aggiravo
per la casa con addosso
soltanto una leggera maglietta intima e un paio di mutandine colorate,
quasi
pronta a tuffarmi nella vasca da bagno, quando sentii bussare alla
porta e mio
padre andò ad aprire. Io mi precipitai nel soggiorno
perché credevo che la
mamma fosse finalmente arrivata. Ma no, non era lei. Eppure il negozio
aveva
ormai chiuso. Mi chiesi per quale motivo ci fosse un uomo corpulento
dalla
divisa blu e il cappello ben calato sulla testa al suo posto. Ma
soprattutto
perché stesse parlando con tanta compassione nello sguardo e
nella voce: -Sua
moglie ha avuto un incidente. La chiedo di seguirmi per...-
Non
ebbe neanche il tempo di terminare la frase che subito mio padre si
precipitò
fuori dalla porta, lasciandomi da sola a cercare di capire cosa fosse
successo
alla mamma. Che significava “incidente”?
Perché papà era così preoccupato? Si
trattava di qualcosa di brutto?
Dopo
circa un quarto d’ora, arrivò la mia nonna paterna
con i suoi inseparabili
occhiali da sole e il foulard a motivi floreali che le avevamo regalato
lo
scorso Natale. Pensavo che mi avrebbe sorriso come al solito, che mi
avrebbe
rassicurata con uno di quei pizzicotti che indolenzivano le guance, e
invece
evitava anche solo di guardarmi. Piangeva. Non riusciva a trattenere i
singhiozzi mentre mi accarezzava i lunghi capelli lisci con fare
materno. Continuavo
a non capire.
-Nonna,
dov’è finita la mamma?-
Scossa
da singhiozzi ancora più forti, mi cullò
dolcemente dopo avermi presa tra le
sue braccia e mi portò nella mia camera, sul lettino con le
sbarre che nessuno
si era ancora deciso a rimuovere. Mi agitai anch’io: iniziavo
ad avere un
brutto presentimento. –Dormi, tesoro- mi aveva detto lei dopo
essersi
accomodata sulla sedia lì vicino. –Adesso la mamma
non c’è. Ci sono io con te e
ci sarò per sempre, te lo prometto-.
-Ma
io non ho ancora sonno, a quest’ora la mamma mi fa sempre il
bagnetto. Quando
torna a casa?-
A
quelle parole innocenti e ingenue, la nonna affondò il viso
tra le mani e il
suo corpo tremò in maniera impercettibile, le lacrime che
scorrevano libere
sulle guance. –Non lo so, tesoro- sussurrò con una
nota di disperazione nella
voce. –Non lo so-.
Mia
madre avrebbe voluto che papà fosse felice. Che tornasse ad
amare qualcuno
proprio come aveva fatto con lei. Mi avrebbe rimproverata per
l’astio che
serbavo nei confronti suoi e soprattutto di Claudia, non si sarebbe
lasciata sfuggire
il mio silenzio e i miei sguardi spenti, e qualcosa mi diceva che non
avrebbe
approvato nemmeno il comportamento che avevo assunto negli ultimi anni.
Non era
affatto orgogliosa di me. L’avevo delusa per aver deciso di
chiudermi in me
stessa e nel mio dolore, senza provare a condividerlo con la mia
famiglia, e
continuavo a deluderla adesso, perfino da adulta.
Il
pensiero mi faceva stare malissimo e avrei voluto rimediare in qualche
modo, ma
io non ero come lei. Non sarei mai riuscita a fingere per la
felicità di mio
padre, perché l’altruismo non rientrava tra le mie
doti. Non avrei avuto il
coraggio di andare a cercare la mia, di felicità, legata
com’ero ad un passato
che mi aveva ferita profondamente. Sarei rimasta sempre la stessa
ragazza dai
lineamenti dolci e delicati, ereditati dalla mamma, che confondeva la
gente
sino a spingerla a credere che fossi una sorta di sua reincarnazione; e
non era
certo piacevole scoprire che quell’aspetto ingannevole
nascondeva in realtà una
persona tanto scontrosa e impulsiva quanto lei era affabile e
razionale. Né per
gli altri, né tantomeno per me.
Con
una lacrima che mi bagnava le guance e ricadeva lenta sul cuscino,
sistemai
meglio la foto sul comodino e passai in rassegna tutti i modi che
conoscevo per
“decorare” le pareti della stanza.
-Ha
appena chiamato Alessandro. Stanno per arrivare-. Erano soltanto le
sette del
pomeriggio e Claudia aveva già cominciato a preparare una
tavolata degna del
banchetto di una regina: il colore deciso del legno massello spiccava
attraverso i ricami floreali della tovaglia in lino che aveva comprato
in
chissà quale negozio per snob, mentre al centro regnava una
composizione di
rose e rami d’abete destinata a circondare una candela rossa
che creava
un’insolita atmosfera natalizia. In fin dei conti, con le
posate d’argento e le
coppe di cristallo che lei aveva deciso di usare come bicchieri,
l’occasione
non poteva che sembrare tra le più solenni.
Uno
dei tanti motivi per cui non mi andava così a genio la mia
nuova posizione
sociale era l’incapacità di apprezzare le cose
più semplici. Insomma, cosa c’è
di male nell’usare economici pezzi di stoffa colorati
piuttosto che tovaglioli
di alta fattura che non dovrebbero neanche avvicinarsi alle mani di una
persona, figuriamoci alla bocca? Di sicuro non mi sarei sentita come
una donna
della foresta alle prese con un collier di perle da un miliardo di
euro. Immaginavo
che la cosa valesse anche per gli amici di Alessandro, chiunque fossero.
-Pietro,
hai già preso il vino? Se il ragazzo suona il pianoforte in quel conservatorio, la sua famiglia
dovrà essere molto importante e ricca-.
Già,
molto importante e ricca.
-E
che mi dici della ragazza? Anche lei fa parte del circolo oppure
è una comune
plebea come tutti noi?- la stuzzicai.
-Talia!-
mi rimproverò mio padre dalla cima della scala di ferro,
impegnato a sistemare
una delle tante luci del lampadario gigantesco che sovrastava il
soggiorno.
Claudia liquidò le mie parole con un gesto della mano e mi
rivolse uno sguardo
a malapena infastidito: era proprio decisa a non lasciarsi rovinare la
serata,
a quanto sembrava. –Non ne so niente e non mi interessa.
L’importante è che il
suo fidanzato abbia una buona influenza su Alessandro-.
Certo,
come no.
Per poco non mi misi a ridere.
-Ho
parlato con suo padre ed è d’accordo con me. Se
non mette la testa a posto, non
avrà una vita facile-.
-Forse
è quello che vuole lui, non trovi?-
-Adesso
basta, Talia...-
-No,
Pietro, ha ragione Talia- lo interruppe tranquilla lei. Mi ci volle un
po’ per
elaborare il senso di quella frase. –È vero: i
giovani vogliono l’esatto opposto
di ciò di cui hanno bisogno. Un lavoro? No, meglio la bella
vita. Una
promozione? Inutile, perché sgobbare di più se si
sta così bene? Mi chiedo
spesso quando capirete che il mondo non gira in questa maniera-.
-Certo,
perché la cosa più importante è il
denaro, giusto?-
-No-.
Claudia zittì mio padre con un dito e riprese a parlare,
più decisa di prima:
-È l’ambizione. Se non ce l’hai, non
riusciresti mai a vivere al passo degli
altri. Ti accontenteresti della mediocrità e non lo
noteresti nemmeno-.
-Almeno
non saresti un eterno insoddisfatto-.
-Dipende
dai punti di vista, cara-.
Prima
che potessi ribattere con un’altra frecciatina, il campanello
suonò. –Eccoli-
annunciò lei con un sorriso soddisfatto, felice di aver
avuto l’ultima parola
in quella discussione. Non ero abituata ad un risultato simile e non mi
piaceva
affatto, ma se avessi anche solo provato ad accennare qualcosa in
presenza
degli ospiti, Alessandro non mi avrebbe rivolto la parola per
più di un mese e
a ragione. Dovevo tenere a bada l’orgoglio e incassare il
colpo. Almeno per
questa volta. Almeno per lui.
Anche
se lo sguardo di vittoria di Claudia continuava a bruciarmi dentro.
Mi
sedetti sul divano, i nervi tesi e lo stomaco in subbuglio, e mi
convinsi che
alzarsi per le presentazioni era un inutile gesto di pura
formalità. Mentre
Claudia si apprestava ad aprire la porta ad Alessandro che le chiedeva
di
uscire in giardino e conoscere subito i due ragazzi, alle prese con le
valigie
da scaricare dall’auto, mio padre si accomodò
accanto a me e mi circondò le
spalle con un braccio. Notando che non opponevo resistenza come al
solito, si
azzardò a dire: -Sai, Talia, sei una delle poche persone in
grado di tenerle
testa. Be’, non mi sorprende più di tanto...-
Raddrizzò orgoglioso la schiena.
–Sei mia figlia-.
Era
una battuta, vero?
-Il
punto è che, sì, qualche volta il confronto va
bene, a tutte le famiglie capita
di litigare, ma tu lo fai di continuo. E questo
non va bene. Sembra quasi che tu la veda come una rivale-.
Presi
un respiro profondo, massaggiandomi lentamente le tempie. Non riuscivo
davvero
a credere che ne stessimo parlando proprio in quel momento.
-Io
vorrei soltanto che tu iniziassi a considerare anche Claudia un membro
effettivo della nostra famiglia, proprio come Alessandro. Insomma, non
mi
sembra che tu abbia avuto problemi con lui all’inizio, no?
Perché non dare
anche a sua madre una possibilità?-.
Questo
era troppo.
-Papà,
senti...- iniziai, ma fui interrotta all’improvviso dalla
voce di Alessandro sulla
soglia della porta, rivolto a qualcuno dietro di lui: -E questo
è il soggiorno.
Se ti sembra grande, aspetta di vedere il salone al primo piano che mia
madre
ha finito di arredare proprio ieri...-
Appena
mi vide si bloccò con un grande sorriso dipinto sul volto, e
il mio cuore
cominciò a battere più forte.
-Jacopo,
ho l’onore di presentarti la mia meravigliosa Musona, Talia-.
E si inchinò in
maniera teatrale con un braccio proteso davanti a sé,
allontanandosi
dall’ingresso per permettere al ragazzo che lo seguiva di
entrare.
Ed
io rimasi a bocca aperta.
Caspita.
Con
il fisico slanciato e statuario, le spalle ben piantate ma non
esageratamente
massicce e le braccia dai muscoli scolpiti che sbucavano dal suo
maglione di
cashmere blu, che gli fasciava il busto in maniera perfetta, non
sembrava il
classico stereotipo del pianista che avevo immaginato al suo posto. Per
niente.
Succede sempre così: quando pensi di incontrare un dio
greco, ti ritrovi alle
prese con un bambino troppo cresciuto e pieno di brufoli; quando dai
per
scontato che il tipo in questione non rispecchierà la tua
idea di “ragazzo dei
sogni”, ecco che si materializza come per magia e compare in
casa tua. Non che
la cosa mi dispiacesse, certo, ma adesso cominciavo a pensare che la
convivenza
sarebbe stata più difficile del previsto. Soprattutto se
aveva una fidanzata.
Continuai
a fissarlo mentre sorrideva quasi imbarazzato, con la bava alla bocca
come in
uno degli episodi cliché delle sitcom americane, e doveva
essere parecchio
evidente perché ad un certo punto sentii qualcuno tossire
per richiamare la mia
attenzione. Sobbalzai dalla sorpresa. Qualcun altro rise, e non avrei
saputo
dire chi.
-Piacere
di conoscerti-. Il ragazzo si avvicinò e tese una mano verso
di me, abbandonando
per qualche secondo la presa sulle due valigie-trolley che trascinava.
Soltanto
allora mi accorsi che il suo viso non era perfetto come il suo corpo:
il naso,
leggermente più grande del normale, tendeva verso un lato
senza però dare
nell’occhio, proporzionato alla bocca di un colore rosso
quasi innaturale che
presentava una spaccatura al centro, sul labbro inferiore. E il sorriso
aveva
un che di magnetico, sì, come se trasudasse tutto il suo
fascino e il suo sex
appeal, ma l’effetto era bruscamente interrotto da uno degli
incisivi,
inclinato di qualche millimetro verso un altro dente, e dai canini di
dimensioni diverse. E gli occhi... be’, gli occhi erano di un
comune castano
scuro che si abbinava ai suoi capelli lisci e pettinati in modo da
formare un
ciuffo.
Insomma,
niente di speciale nel dettaglio: era il complesso a provocare una
crisi
respiratoria. E rimaneva comunque uno dei ragazzi più belli
che avessi mai
visto.
-Piacere
mio- riuscii a non balbettare. Adesso era il suo turno di guardarmi
assorto,
forse anche incuriosito, con la fronte corrugata in
un’espressione che non
riuscivo a decifrare. Speravo solo che fosse un fatto positivo.
Dopo
aver presentato Jacopo a mio padre, Alessandro si sedette sul bracciolo
in
pelle del divano e mi strinse a sé con un braccio.
–Sono sicuro che tu e la sua
fidanzata andrete molto d’accordo. Ha conquistato anche mia
madre!-
-Se
è così, allora sarà molto semplice
legare-. Mi costrinsi smettere di fissare
quel ragazzo come in trance, prima di farmi beccare dalla fidanzata e
giocarmi
tutta la dignità di cui disponevo ancora, ma era quasi
impossibile: attirava lo
sguardo alla stessa maniera di una calamita. Okay, avevo bisogno di
altro
tempo.
-Entra
pure. Puoi sistemare il borsone sulla poltrona-.
Come
non detto.
Claudia
fu la prima ad entrare, voltandosi all’istante verso una
ragazza alta e snella
poco distante da lei che continuava a camminare senza guardare dinanzi
a sé.
Non
appena la riconobbi, mi mancò il respiro.
Mio
padre strabuzzò gli occhi.
Non
è possibile.
Lei
non si era ancora accorta della nostra presenza, continuava a
ringraziare la
mia matrigna con il solito sorriso di gratitudine che prima adoravo e
che invece
adesso consideravo così falso e scontato. Che detestavo con
tutta me stessa.
Non
può essere.
Strinsi
i pugni lungo i fianchi.
Quando
si voltò verso di noi, fu come se il tempo rallentasse e poi
si fermasse
all’improvviso, per inquadrare il volto
dall’espressione sconvolta e dalle
labbra rosee appena dischiuse, con alcune ciocche di capelli castani
sfuggite
alla sua coda che lo incorniciavano perfettamente.
I
suoi occhi si riempirono di lacrime.
Sorrise
di nuovo.
Mi
ricordò tanto la mamma.
E
in quel momento mio padre, ancora scioccato e con il fiato sospeso come
in
attesa del prossimo colpo di scena, pronunciò in un filo di
voce l’unico nome
che pensavo non avrei mai più sentito in vita mia:
-Giulia-.
Buonasera,
popolo di EFP!
Mi
scuso per aver pubblicato il
capitolo con una settimana di ritardo: sono stata abbastanza impegnata
con i
compiti estivi e ho avuto a malapena il tempo di scrivere questo terzo
capitolo.
Un po’ troppo lungo, vero? Consideratelo un semplice modo per
farmi perdonare.
Allora,
che ne pensate? La storia
ha iniziato ad “ingranare la marcia” e ad attirare
la vostra attenzione? Siete
curiosi di scoprire cosa succederà in seguito tra Talia e
Giulia?
E
con Jacopo?
Lasciate
un vostro giudizio nei
commenti ed io vi risponderò immediatamente.
P.S.:
ho modificato i primi due
capitoli per scrupolo, senza però apportare cambiamenti
drastici: si tratta
perlopiù di affinamenti lessicali e scelte stilistiche
diverse. Avrei potuto
lasciar correre, ma sono sempre stata una grande precisina e non mi
piace
affatto presentare lavori di cui non sono pienamente soddisfatta. Se vi
va,
passate a dare un’occhiata.
Al
prossimo aggiornamento (spero di
riuscire a farcela entro la prossima settimana, anche se non ne sono
sicura: la
scuola ricomincerà a breve e avrò meno tempo a
disposizione per scrivere e
pubblicare regolarmente. Chiedo venia),
the_scream_of_silence
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Capitolo 5 *** Capitolo 4 ***
Agosto
2003
Giulia
se ne stava lì, sul dondolo in giardino, con le gambe
penzoloni che non
riuscivano a raggiungere il prato sottostante e le lacrime che
scendevano
copiose sulle sue guance senza che lei se ne accorgesse. Piangeva e
basta.
Piangeva in silenzio perché non conosceva parola in grado di
esprimere quello
che provava. Piangeva con la consapevolezza che da quel giorno in poi
la sua
vita non sarebbe più stata la stessa, e non aveva idea di
come affrontare il
domani che si era sgretolato davanti ai suoi occhi così,
all’improvviso.
Non
si aspettava di trovare la nonna in casa al suo ritorno dagli
allenamenti di
nuoto. Sonnecchiava sul divano, infagottata in una coperta di lino
siccome, a
suo dire, era particolarmente sensibile al freddo anche in piena
estate. Non
era stata avvisata del suo arrivo, né ricordava di aver
sentito dire che
sarebbe venuta a trovarli.
Era
decisamente strano.
Dopo
aver poggiato il borsone sulla poltrona del soggiorno e controllato
l’orologio
in cucina per assicurarsi di non essere tornata a casa troppo tardi, si
avvicinò a lei e decise di svegliarla con un colpetto di
dita alla spalla. Lo
strano verso animale che uscì dalla sua bocca fece
indietreggiare la bambina,
poi, come se fosse stata appena interrotta durante uno dei suoi sonni
più
profondi, la nonna aprì gli occhi confusa e si
tirò a sedere. –Giulia-
biascicò, non ancora perfettamente lucida. –Dove
sei stata? Non ti ho vista-.
-In
piscina, nonna. E tu cosa ci fai qui?- Si guardò intorno,
notando che la casa
era più silenziosa del solito. –E dove sono la
mamma e il papà? E Talia?-
A
quelle parole, sembrò quasi colpita da una fitta che la
costrinse a poggiare
una mano sul petto e a camuffare una smorfia di dolore sul viso. E poi
le
lacrime che uscivano prepotenti dai suoi occhi serrati, insieme ai
singhiozzi
che le scuotevano il corpo.
-Nonna,
cos’hai?- chiese allarmata lei, con il timore che stesse
avendo un attacco
cardiaco. –Devo chiamare qualcuno? Ma dove sono finiti tutti?-
-No,
tesoro. Io sto bene- cercò di rassicurarla con la voce rotta
dal pianto, scostandole
una ciocca di capelli dal viso e abbracciandola in maniera impetuosa,
così
forte che pareva non volesse più lasciarla andare. Le sue
mani tremavano mentre
le accarezzava ripetutamente la testa. –Io sto bene-.
Giulia
non riusciva a capire, c’era qualcosa che continuava a
sfuggirle e iniziava ad
avere un brutto presentimento. –Cos’è
successo?-
La
nonna non rispose. Si limitò a stringerla a sé
con più vigore e a sussurrarle
all’orecchio che sarebbe andato tutto bene.
-Cos’è
successo, nonna?- Anzi no, non voleva saperlo. Per
l’agitazione crescente, il
suo cuore assomigliava ad un martello che batteva incessantemente
contro la
gabbia toracica per uscirne fuori. L’attesa, il respiro
profondo che la nonna
prese prima di cominciare a parlare, il ticchettio della lancetta dei
minuti in
cucina erano laceranti più di ogni altra cosa al mondo: -Ti
piacciono le
stelle?-
Quella
domanda la disorientò. –Cosa?-
-Ti
piacciono, sì o no?-
-Sì
ma...- Perché?
-Ora,
quando le guarderai, ne troverai una tutta per te e per Talia. Una
bellissima,
meravigliosa, luminosa stella che vi proteggerà sempre anche
se tanto lontana
da voi. Ed io- Deglutì. –Farò tutto il
possibile per aiutarla anche da qui-.
-Nonna...-
sussurrò lei implorante, quasi scongiurandola di non
rivelarle la verità.
Ma
arrivò comunque. E con essa altre lacrime, altri singhiozzi,
le grida e le
invocazioni di una bambina di nove anni che non accettava di aver
perduto per
sempre la persona più importante della sua vita. Che non era
pronta a quel
dolore. Che non poteva esserlo.
E
così adesso scrutava il cielo, colorato dalle mille
sfumature e luci del
tramonto ormai prossimo, alla ricerca di quella
stella tra le tante che iniziavano a comparire sullo sfondo bluastro
del cielo
come minuscoli puntini luminosi. Non ci credeva, eppure ci sperava.
Contro le
leggi razionali che conosceva sin dalla più tenera
età e contro la sua stessa
razionalità, sperava di vederla all’improvviso e
di riconoscere nel suo bagliore
una qualche minima traccia di ciò che sua madre era stata,
perché in questo
modo avrebbe avuto un appiglio, la certezza che fosse davvero esistita.
E forse
il dolore non sarebbe stato così difficile da sopportare.
Ma
poi si convinse che le stelle erano tutte malvagie, senza eccezioni, e
che la
sua mamma non avrebbe mai avuto nulla a che fare con loro.
-Giulia-.
Una vocina intimorita la richiamò all’improvviso,
proveniente da una figura
minuta che se ne stava avvolta dalle ombre sul patio. Stringeva a
sé l’orsacchiotto
di peluche che il papà le aveva regalato per il suo
compleanno e continuava a
tremare come una foglia.
-Talia-
disse sorpresa, asciugandosi le guance con le mani. Pensava che stesse
dormendo, e la nonna le aveva raccomandato più volte di non
svegliarla perché
le avrebbe soltanto reso ogni cosa più difficile da
sopportare. –Cosa ci fai
qui?-
-Non
riuscivo a dormire-.
Provò
un improvviso moto di tenerezza nei confronti della sorellina.
–Vuoi sederti
qui, accanto a me?-
Dopo
un cenno di assenso con la testa, Talia scese in fretta le scale,
incerta sui
suoi passi come qualsiasi altra bambina della sua età, e si
accoccolò sul
cuscino logoro del dondolo con il pupazzo ben saldo tra le piccole
gambe.
Rivolse uno sguardo al cielo. –È vero che la mamma
se n’è andata?-
-Sì-.
-E
tu sai quando tornerà?-
La
disperazione che c’era in lei, desiderosa di contagiare altre
persone, la
supplicava di rispondere che mai e poi mai sarebbe tornata
perché era morta.
Persa. Irraggiungibile, e nessuno poteva farci niente. Ma nel momento
stesso in
cui incontrò i suoi occhi grigi, tanto simili a quelli della
mamma, che la
guardavano in attesa di una rassicurazione, della conferma che almeno lei potesse continuare a sperare, il
dolore fu sostituito da qualcos’altro. Un istinto quasi
irrefrenabile,
primordiale, che la spinse ad abbracciare la sorellina e a coccolarla
proprio
come una madre con una figlia.
E
poi capì. Oh, sì, finalmente capì.
Tutt’ad
un tratto i contorni di quel domani così lontano si fecero
più chiari, più distinti,
più veri, perché aveva appena trovato lo scopo
principale della sua vita:
proteggere Talia ad ogni costo. Evitare che soffrisse di nuovo in
futuro. Comportarsi
come la madre che avevano sì perso entrambe, ma di cui aveva
bisogno
soprattutto lei.
E
così, con un sorriso materno che tentava di celare la
sofferenza, le disse: -C’è
una stella in più nel cielo. Riesci a vederla?-
-No-.
-Sforzati,
dài- la incitò. –Non la vedi?
È proprio lì...-
E
per poco non ricominciò a piangere. In una delle pieghe del
cielo che iniziava
pian piano ad incupirsi era comparsa una piccola, ma splendente stella
davanti
ai suoi occhi. Così, all’improvviso. Prima non
c’era, e invece adesso... eccola
lì.
Non
poteva avere la certezza che fosse proprio quella, la stella di cui le
aveva
parlato sua nonna, né che vi fosse mai stato del vero nelle
sue parole, ma di
una cosa era sicura: la luce che emetteva, candida come un fiordaliso,
pura
come la più limpida delle sorgenti, le era tanto familiare,
anche se così
lontana. L’avvolgeva in un caloroso abbraccio che aveva
qualcosa di dolce e,
soprattutto, materno. E questo le
bastava per credere che esistesse ancora una possibilità.
Fissò
Talia. Il suo sguardo vagava ancora nell’immensità
verso cui l’aveva rivolto,
le labbra dischiuse che lasciavano intravedere i due dentoni da
scoiattolo e le
mani che torturavano frenetiche una delle zampe
dell’orsacchiotto di peluche.
Adesso
sapeva esattamente cosa fare.
La
strinse ancora più forte a sé e fissò
il puntino luminoso senza battere le
ciglia, decisa a non perderlo di vista, mentre giurava solennemente a
bassa
voce: -Avrò cura di lei, mamma. Puoi starne certa-. E per un
attimo ebbe l’impressione
che la stella avesse avuto un guizzo improvviso.
I
fari di una macchina illuminarono il dondolo. Il rombo di un motore
riempì il
silenzio. E nel momento stesso in cui ne uscì la figura
affranta del padre,
Giulia comprese che la battaglia del giorno non era ancora terminata.
Buonasera,
popolo di EFP!
Siete
sorpresi che abbia aggiornato
prima del solito? Be’, questo capitolo mi ha coinvolta in
maniera particolare e
mi sono ritrovata con ben quattro pagine battute dopo nemmeno un paio
d’ore!
Ecco
il primo dei numerosi
flashback che scriverò sulla vita precedente delle due
sorelle narrati dal
punto di vista di Giulia: penso che la sfera emotiva di questo
personaggio, probabilmente
detestato da molti ma al quale io sono tanto affezionata, debba essere
approfondita. Come le sue motivazioni, le sue idee, l’affetto
che nutre da
sempre nei confronti della “piccola” Talia...
Al
prossimo aggiornamento (entro il prossimo lunedì con il 50%
delle possibilità),
roses_are_frozen
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