Three Lives

di musicislife17
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Cap. 1 ***
Capitolo 3: *** Cap. 2 ***
Capitolo 4: *** Cap. 3 ***
Capitolo 5: *** Cap. 4 ***
Capitolo 6: *** Cap. 5 ***
Capitolo 7: *** Cap.6 ***
Capitolo 8: *** Cap. 7 ***
Capitolo 9: *** Cap. 8 ***
Capitolo 10: *** Cap. 9 ***
Capitolo 11: *** Cap. 10 ***
Capitolo 12: *** Cap. 11 ***
Capitolo 13: *** Cap. 12 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


L’aeroporto di Bangkok respirava di vita e sudore. La gente si accalcava nei corridoi per raggiungere la propria destinazione. Si guardò intorno e si sentì elettrizzata. Ormai era diventata una abitué  degli aeroporti, si sentiva molto più a suo agio lì che in qualsiasi altro posto. Non amava la folla, ma amava il movimento e nessun luogo più di di un aeroporto o di una stazione o di una qualsiasi altra meta di passaggio per un viaggiatore racchiudeva in sé l’essenza stessa dell’esistenza dell’uomo: andare avanti, sempre, non fermarsi mai di fronte a nulla. 
E con qualche rara eccezione anche tornare indietro, all’origine di tutto. Proprio come in quel momento stava facendo lei, con trepidante attesa e quieta felicità. Trasportava con sé solo due oggetti: una valigia imponente, trascinata alle proprie spalle con non poco sforzo, e uno zaino sulle spalle, sgualcito, usurato. Vissuto.

Il tragitto che la portava al proprio gate  era pieno di altri viaggiatori, tutti orientati verso la stessa direzione. Avanti, avanti sempre. Eccetto lei che tornava indietro.

Raggiunti i tornelli dei controlli, infinito sembrava il tempo che richiedevano tutte le procedure del caso. Sempre più forte invece si agitava in sé la necessità di continuare il viaggio, di ritrovarsi subito sul suo sedile d’aereo, posto F34, lato finestrino in modo da osservare l’infinita distesa oceanica che di lì a poco avrebbero traversato. Un blu infinito che la rasserenava, la cullava nella tranquillità di un viaggio lungo per tornare indietro.

Si guardava intorno nel frattempo, cogliendo piccoli accenni di vite estranee, piccoli confronti con esistenze che avrebbe incontrato quei pochi secondi e poi mai più. E vide quei momenti di vita che la lasciavano sempre dolcemente colpita: due guardie aeroportuali che litigavano sottovoce di fronte a sé; una coppia di amici alla sua destra che ridevano ad alta voce, attirandosi le ire dei passeggeri intorno, e si scambiavano un cinque giocosi; una bambina asiatica alla sua sinistra, che piangeva aggrappandosi ai vestiti del padre spazientito, il viso deformato dal pianto e le codine ai lati della sua testa che oscillavano di qua e di là.

Sorrise fra sé, godendosi quel momento di trascendentale serenità, mentre alla sua mente affiorava un solo pensiero.
Torno a casa...

 

Superati i controlli di routine e raggiunta l’area di attesa prima dell’arrivo del volo, la ragazza si sedette sulla prima sedia libera che trovò. Tirò un sospiro di sollievo, avvicinando a sé la valigia che aveva dovuto trasportare per tutto l’aeroporto da sola. Diede un’occhiata allo schermo che segnalava i voli in partenza e quelli in arrivo. Fece un piccolo calcolo a mente. Altre due ore prima della partenza, perfetto.

Constatato che mancava ancora molto prima di alzarsi di lì, alzò le braccia su di sé e si stiracchiò pigramente, apprezzando i piccoli schiocchi che sentì provenire dalla sua schiena. Si lasciò andare rilassata sullo schienale della sedia ed emise un piccolo sospiro di sollievo. Chiuse gli occhi per un attimo. Intorno a sé avvertiva tutto quel brulichio di rumori e voci tipico degli aeroporti. Un misto di lingue si univano come in una biblica torre di Babele e la circondavano a trecentosessanta gradi. Solo in fondo ai pensieri avvertiva un lieve promemoria da parte del suo cervello che le sussurrava di mangiare, dato che a quanto pare aveva fame.

Più tardi, si disse tranquilla, c'è ancora tempo.

In quel momento sentì nella tasca dei jeans vibrare il cellulare. Lo estrasse e se lo portò all’orecchio.

-Pronto?- rispose senza neppure controllare chi fosse a chiamare.

-Alla buon’ora. Avresti dovuto chiamare un’ora fa. Sei ancora viva o dovremmo avviare delle indagini laggiù, ovunque ti trovi?-

Il suo volto si aprì in un sorriso al sentire quella voce familiare. Era diretta ed ironica, proprio come la ricordava lei. Sintomi di una persona che non si faceva facilmente mettere i piedi in testa.

-Viva e vegeta, per tua sfortuna. Ero invischiata nei soliti controlli- rispose divertita, aspettando una risposta a tono.

E infatti…

-Oh certo, tu ti dimentichi di chiamare e io qui devo quasi incatenare Annie al divano per impedirle di saltare sul primo taxi e venirti a cercare. Mi sembra perfetto, già. In fondo è solo un giorno intero che canta a squarciagola per tutta la casa facendoci accarezzare l’idea del suicidio in massa-

La ragazza ridacchiò divertita. Quanto le era mancata la sua famiglia…

-Ma non mi dire, un giorno intero? Per causa mia? Mi sento in dovere di chiederti scusa allora-

-E hai dannatamente ragione. Hai idea di cosa voglia dire sentirla rantolare come una campana scordata? I vicini sono venuti a lamentarsi già tre volte. Non escludo l’idea che possano chiamare la polizia. O magari la chiamo io stessa-

-Coraggio, di qui a dieci ore sarà tutto finito-

-Dieci ore! Scherziamo? Non garantisco di non finirla prima!-

La ragazza si mise a ridere allora, come non faceva da molto tempo. Solo quella persona dall’altra parte era in grado di divertirla così tanto. Sentirla lamentarsi di tutto e tutti era esilarante, e soprattutto succedeva su base quotidiana. Ma se c’era una cosa ancora più divertente di quella, non avrebbe dovuto fare altro che punzecchiarla con le stesse armi.

-Su di morale, Jacqueline, non sarà poi così male-

La ragazza all’altro capo del telefono sbuffò indignata.

-Soprassedendo sulla seconda parte, perché sul serio, Autumn, mi sto già preparando all’ergastolo che mi verrà dato dopo aver ucciso Annie, quante volte ti ho detto di non chiamarmi così? Lo sai che lo detesto!-

-Scusa, la prossima volta ti chiamerò Bob-

-Chiamami anche Miss Piggy, se ti piace di più, ma non con quell’obbrobrioso nome che ho la sfortuna di portare. Mi fa venire i brividi, per tutti i santi numi-

-Ti sento suscettibile, non sarà lo stress per caso?- la punzecchiò ancora Autumn.

Dall’altra parte sentì un sibilo come di vipera e riuscì quasi ad avvertire l’aura minacciosa che l’altra ragazza stava certamente emanando.

-Ti giuro, Autumn, gli omicidi potrebbero salire a due quando metterai di nuovo piede qui-

In quella Autumn scoppiò di nuovo a ridere, forse per il tono serio dell’altra, o forse solo perché sentiva il bisogno dopo così tanto tempo di lasciarsi andare un po’ ad una spensieratezza che le era congeniale solo di rado. Non le sfuggì tra l’altro la risatina che proveniva anche dall’altra parte del telefono.

-Sul serio adesso, come stai?- si sentì rivolgere la domanda quando entrambe le ragazze si furono calmate.

-Bene, direi-

-Ne sei sicura?-

-Certo… magari non ancora al cento per cento, ma va meglio adesso. Credimi, Jackie-

Autumn era sincera, ma dall’altra parte sentiva che Jackie non era del tutto convinta. Sospettava che le ci sarebbe voluto di più perché lei le credesse, dopotutto erano passati quasi quattro anni.

-Jackie, sto bene. Fidati di me. Ho solo bisogno di un po’ di tempo per tornare alla normalità, ma questa volta so che andrà tutto per il meglio-

-Se lo dici tu…- sospirò Jackie.

Autumn sorrise all’apprensione dell’altra, cosciente che non avrebbe mai sentito pronunciare la parola “preoccupazione” dalla sua bocca, ma sapendo anche che era proprio questo quello che provava. E gliene era grata.

-Piuttosto, sono curiosa di conoscere finalmente questo tuo fantomatico fidanzato. Non riuscivo a credere alle mie orecchie quando Annie mi ha raccontato che hai trovato un poveraccio che ti sopporti-

-Ma dai, ti ha spifferato tutto?- sbuffò Jackie, ma dalla sua voce traspariva un sorriso.

-Già, mi ha anche anticipato qualcosa su questo tipo. Milo, giusto?-

-Esatto. È in gamba, Autumn, te lo assicuro. So che andrete molto d’accordo. Non vedo l’ora di presentarvi-

Autumn sorrise all’eccitazione di Jackie. Già dalla voce capiva che il ragazzo in questione doveva essere davvero speciale per lei.

-Ci credo che è in gamba. Per essere riuscito a rimanere con te per sei mesi senza pensare di lasciarti è ammirevole-

-Molto divertente, Autumn. Guarda, muoio dal ridere-

Autumn ridacchiò alla risposta sarcastica e diede un'occhiata all’orario. Senza accorgersene era trascorsa quasi mezz’ora. Le persone del suo volo cominciavano ad avvicinarsi al gate prossime all’imbarco.

-Jackie, devo andare adesso. Manca poco all’imbarco-

-D’accordo. Verremo tutti e tre all’aeroporto. Anche Ray non vede l’ora di riabbracciarti-

-E tu? Tu sei contenta del mio ritorno?-

Jackie rimase un attimo in silenzio, quindi sbuffò divertita.

-In fondo, molto molto in fondo, diciamo di sì-

Autumn sorrise. Non sarebbe mai riuscita a far cadere Jackie in castagna.

-Anche io sono contenta di tornare. In fondo-

Ma poi forse neanche così tanto in fondo.

N.d.A.
Poche parole al termine di questo prologo. Innanzitutto ringrazio il gentile lettore che è arrivato sin qui, l'emozione di veder letti i propri scritti è indescrivibile. Grazie sia a chi proseguirà, forse un pochino incuriosito dall'inizio vero e proprio del racconto, sia a chi non vede il perché proseguire, ma che ha comunque speso un paio di minuti per leggere il prologo.

Vorrei solo commentare brevemente il grande passo che ho compiuto pubblicando qui la mia prima storia. È di un’importanza che non si può esprimere a parole, dato che di rado (mai) ho sottoposto all’attenzione di qualcuno i miei tentativi letterari. La trama di Three Lives è nata all’improvviso e si delinea giorno dopo giorno nella mia mente. È una trama semplice e tuttavia complessa, insidiosa. Sto ancora cercando di domarla e definirla sotto ogni aspetto, perciò, se potete, portate un po’ di pazienza per il mio primo vero approccio alla scrittura.

 

Questo capitolo era ovviamente di introduzione, dal prossimo si comincia.

 

Grazie ancora all’impavido lettore giunto anche in fondo alla lunga nota della logorroica autrice e a presto,

musicislife17

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Capitolo 2
*** Cap. 1 ***


Avvisiamo i signori passeggeri che il volo AC739 diretto a New York atterrerà in perfetto orario all'aeroporto JFK. La temperatura a terra è di...
Autumn riaprì gli occhi che aveva inconsciamente richiuso poco prima, avvertendo che l’aereo aveva cominciato a perdere quota.

Accanto a lei, un uomo anziano richiudeva il libro che aveva letto per tutto il viaggio e lo riponeva con cura nella propria borsa, prima di allacciare la cintura di sicurezza e sollevare il tavolino di fronte a lui proprio come la hostess stava spiegando a tutti i passeggeri.

Nel guardare quell’uomo, Autumn pensò a suo padre. Sentì una fitta al cuore, un senso di nostalgia mista ad uno strano senso di colpa. Negli ultimi giorni non faceva che ripensare a questo. L’aveva deluso, lo sentiva. Non si aspettava altro che di ricevere quello sguardo denso e pieno di significato una volta atterrato l’aereo. Gli sarebbe andata incontro, lo avrebbe visto sorridere e nei suoi occhi avrebbe letto le speranze che lei aveva infranto, il male che lei gli aveva fatto per quattro anni.

Ad Autumn non piaceva esternare i suoi pensieri, tanto meno i suoi sentimenti. Jackie aveva detto che tutti l’avrebbero accolta a braccia aperte. Era vero, lo sapeva, ma non poteva fare a meno di provare una angosciosa frustrazione mentre l’aereo continuava a scendere e i dettagli del paesaggio a terra si facevano più vividi. Temeva l’atterraggio. Lo temeva eppure lo aspettava con ansia. Aveva voglia di casa. Aveva voglia di essere circondata di nuovo da facce amiche, luoghi quotidiani. Aveva voglia di poter tornare alla normalità.

E soprattutto aveva voglia di riabbracciare la sua famiglia.

 

Aspettare che la sua valigia fosse recapitata a terra fu un’impresa snervante. Generalmente Autumn non era una persona impaziente, sapeva attendere il momento giusto per ogni cosa. Ma in quel momento, sapendo che al di là delle porte di quel luogo si trovavano le tre persone più importanti della sua vita, proprio non riusciva a controllare l’agitazione.

Batteva un piede nervosa, a braccia incrociate, tenendosi in disparte per non essere schiacciata dalla folla di passeggeri che si accalcava a ritirare i propri bagagli e occhieggiando con frequenza l’orario sui monitor dell’aeroporto.

Quando finalmente vide il suo valigione scendere lungo il nastro trasportatore, non perse occasione per prenderlo al volo e uscire finalmente di lì, oltre le porte scorrevoli, di nuovo a New York.

Fu accolta dal rombo della folla di gente che accoglieva i passeggeri di vari voli. Vide cartelli sventolati in ogni direzione, per indicare la presenza di quel qualcuno essenziale per un’altra persona.

Ma non per lei. Lei continuò a camminare oltre la folla, oltre i piccoli gruppi di persone che si salutavano dopo molto tempo e di scambiavano affetto in ogni forma.

Continuò a camminare fino ad arrivare quasi al limite dell’area di arrivi e finalmente li vide.

Sembrò che tutto quel tempo non fosse mai passato. Erano lì, ed erano esattamente come li ricordava.

Jackie, in piedi e dandole le spalle, rimaneva immobile a braccia incrociate, fra due dita rigirava con nervosismo una sigaretta non accesa. Ogni tanto spostava dietro l’orecchio una ciocca di capelli scuri che sfuggiva dalla sua lunga treccia, per poi ripetere il gesto pochi momenti dopo. Indossava la sua solita tenuta da giornata di riposo: giacca di pelle, t-shirt a righe bianche e nere, jeans nero attillato e anfibi. Al fianco degli altri sembrava del tutto fuori luogo, una piccola teppistella uscita da un telefilm anni settanta.

Le faceva da contraltare Annie. La piccola Annie, dall’aspetto sempre così giovane e dolce. Aveva vent'anni e ne dimostrava almeno dieci in meno. Stretta in un abitino rosa confetto e in un gilè bianco panna, fissava l’uscita di fronte a sé, tentando in ogni modo di scrutare in punta di piedi oltre la folla per individuare Autumn, senza notare che in realtà quest’ultima la stava già guardando con un sorriso affettuoso da molto più vicino. Le mani strette intorno alla tracolla della sua borsetta e il basco calato di sbieco sui capelli biondissimi ricordavano una studentessa alle prime armi. Aveva le guance rosse dall’emozione, mentre si torturava il carnoso labbro inferiore struggendosi nell’attesa.

E infine c’era lui, Ray, seduto con calma su una delle sedie, perfettamente composto e tranquillo. Le mani incrociate in grembo, lo sguardo calmo e brillante dietro i sottili occhiali rotondi posato sulle due ragazze di fronte a sé, il sorriso serafico con cui attendeva Autumn e osservava alternativamente il nervosismo controllato di Jackie e quello esuberante di Annie. Sempre in forma, nonostante i sessant’anni già compiuti, sempre imponente come una statua e immenso nella sua saggezza. Irradiava pace, proprio come ricordava Autumn. E proprio quella pace, quella serenità che tanto ricercava, spinse Autumn ad avvicinarsi ancora un po’ a quel terzetto, ancora più felice di prima.

Avvicinandosi, cominciò a sentire le loro voci.

-Ma dov’è? Perché non arriva? Non sarà successo qualcosa? Jackie, andiamo a controllare!- si agitava Annie con una vocina allarmata, saltellando sul posto per provare a guardare oltre la folla.

Jackie sbuffò irritata, facendo sbalzare quel suo ciuffo ribelle proprio di fronte agli occhi per l’ennesima volta.

-Piantala, Annie. Mi stai facendo venire un’emicrania. Sarà qui a momenti, perciò datti una calmata-

-Ma sono usciti tutti! Perché lei non è ancora…-

-Ho detto di calmarti, santo cielo!-

Mentre le due bisticciavano, Ray le guardò in silenzio, sempre con quel sorriso imperturbabile sul volto, nascosto di poco dalla folta barba brizzolata.

Lasciò le ragazze a discutere e fece vagare lo sguardo intorno a sé.

Autumn incontrò i suoi occhi e si fermò di colpo, come sempre ammaliata dalla forza d’animo che trasmettevano. Incrociò quello sguardo e fu come se quattro anni non fossero mai trascorsi.

Il sorriso di Ray si allargò in modo impercettibile. Inclinò di poco la testa, come a voler osservare per bene Autumn e decidere se fosse cambiata o meno in tutto quel tempo.

Alla fine emise un piccolo sospiro.

-State guardando nella direzione sbagliata- disse con calma, la voce profonda quasi nascosta da tutta la confusione intorno. Eppure quelle parole erano chiare persino dal punto in cui si trovava Autumn, che sentì un brivido di emozione correrle lungo la schiena.

Annie e Jackie smisero di colpo di litigare. Si voltarono verso di lui, ne seguirono lo sguardo e finalmente si accorsero di Autumn, lì di fronte a loro in silenzio e sorridente.

-Ehilà- si limitò a dire sollevando una mano.

Non fece in tempo ad abbassarla che si ritrovò quasi sbalzata indietro dalla forza con cui Annie le si era gettata contro, stritolandola in un abbraccio infinito, caldo, accogliente.

-Autumn! Sei… sei qui… sei tornata- singhiozzò la più piccola delle due, il viso nascosto sulla spalla dell’altra.

Autumn sentì le lacrime che la bagnavano e a sua volta strinse Annie nell’abbraccio, accarezzandole i capelli biondi, lasciando un bacio sulla sua tempia.

-Ciao piccola, scusa il ritardo- la salutò Autumn con una risata.

Sentì i singhiozzi di Annie aumentare, la presa intorno alle sue spalle stringersi di più.

-Non te ne andrai più, vero?- bisbigliò lei con paura.

Autumn chiuse gli occhi e tirò un profondo sospiro. Sapeva che aveva causato del male anche ad Annie, ma sperava davvero di poter rimediare questa volta. Non poteva deluderla di nuovo.

-No, Annie, rimarrò qui. Te lo prometto-

Annie annuì felice, senza allentare minimamente la presa.

Autumn riaprì gli occhi e si ritrovò di fronte ad uno sguardo impassibile, di un blu quasi innaturale. La bocca sottile serrata, il naso all’insù, la carnagione lattea, quel piccolo neo accanto all’angolo destro della bocca, le sopracciglia perennemente corrucciate, un ciuffo di capelli che le ricadeva proprio davanti agli occhi.

Jackie non era cambiata neanche di un millimetro.

-Ce l’hai fatta a tornare sana e salva, eh?- esordì con il suo solito fare sarcastico.

Autumn sghignazzò.

-Non mi dire che non ti sono mancata- ribatté a tono.

Jackie sbuffò e distolse lo sguardo. Dopodiché lo posò sulla figura di Annie, ancora scossa dagli ultimi singhiozzi.

-Annie, contieniti in pubblico. Stai dando spettacolo- impose autorevole.

La più piccola si staccò con riluttanza da Autumn. Si stropicciò gli occhi, asciugò le lacrime che rigavano le guance arrossate, si risistemò il basco sulla testa.

-Certo, certo- disse in fretta, i grandi occhi color cioccolato puntati a terra.

Autumn sorrise e per l'ennesima volta non riuscì a pensare ad Annie se non come ad una bambina.

Le accarezzò la guancia per tranquillizzarla e guadagnò un piccolo sorriso da parte dell’altra. Quindi spostò di nuovo gli occhi su Jackie.

Cadde un breve silenzio tra di loro, non di quelli pesanti, un silenzio leggero e complice, per vedere chi avrebbe ceduto per prima.

Jackie infine alzò gli occhi al cielo.

-Oh, dannazione- mugugnò soltanto, prima di abbracciare anche lei Autumn di slancio.

Quest’ultima si mise a ridere di cuore, ricambiando la stretta. In tutta onestà non pensava che Jackie avrebbe ceduto così velocemente. Ci voleva ben altro per rompere la dura corazza di Jackie, così pungente e indifferente.

-Ti sono mancata così tanto, Jacqueline?- ridacchiò Autumn stupita.

-Smettila. Lo faccio solo per il bene dei paparazzi, sappilo- scherzò l’altra, senza nascondere un sorriso divertito.

L’abbraccio durò di meno di quello con Annie, ma non per questo Autumn si sentì delusa. Tutt’altro, sentiva il suo cuore traboccare di gioia immensa nel rivedere quelle due ragazze così importanti per lei. Solo in quel momento si rese conto di quanto in realtà le fossero mancate, di quanto pesante era stata la sua assenza, di quanto tempo avrebbe potuto guadagnare se solo si fosse decisa a tornare prima.

Con quest’ultimo pensiero si voltò verso la terza persona, rimasta in disparte ad osservare serenamente i saluti delle altre.

La figura di Ray svettava su di loro con un’aura di serenità imperturbabile. Era un uomo alto e robusto e nonostante l’età  irradiava una forza fuori dal comune. Guardava Autumn col suo solito sorriso, sempre stampato sul suo volto cosparso di piccole rughe di espressione. Si accarezzò la barba e si sistemò gli occhiali sul naso, mentre Autumn lo guardava senza ancora sapere bene cosa fare, imprigionata sotto quello sguardo di infinita dolcezza.

-Non vieni a salutarmi?- sorrise Ray socchiudendo gli occhi benevolo.

Autumn corse a quelle parole, si gettò contro di lui come poco prima avevano fatto Annie e Jackie nei suoi confronti. Nascose il volto sul suo petto, stringendo le braccia intorno alla sua figura maestosa, immobile, familiare. Aspirò a pieni polmoni il profumo noto di Ray, che tante altre volte l’aveva confortata e sentì le lacrime di liberazione che pungevano i suoi occhi. Ma non voleva lasciarle andare, voleva dimostrare almeno per una volta che era abbastanza forte da riuscire a superare la sua debolezza.

Anche Ray la abbracciò, accarezzandole con delicatezza i capelli, trasmettendole la sua tranquillità.

-Perdonami, ti prego. Perdonami per tutto quanto- sussurrò Autumn contro il suo petto, senza far sentire alle altre le sue parole.

Una risata calda si agitò nel petto di Ray e fece sciogliere la tensione e la paura di Autumn.

-Perdonarti cosa? Non hai nulla da farti perdonare. Il passato è passato, ora sei qui ed è questo che conta-

Sebbene contro la sua volontà, alcune lacrime sgorgarono comunque dagli occhi di Autumn, che le lasciò scorrere indisturbate, in silenzio.

Ray lo capì e prese il viso di lei fra le sue grandi mani con delicatezza. La vide piangere e sorrise. Autumn aveva sbagliato, ne era convinta, ma lui non aveva motivo di ritenerla colpevole. Era troppo felice di riaverla a casa, di rivederla dopo tanto tempo per pensare di poterla colpevolizzare per qualcosa che non aveva fatto.

Asciugò le poche lacrime della ragazza e si chinò a baciarle la fronte, la barba che pizzicava leggermente la pelle di lei. Sussurrò poche parole, perfettamente chiare ad Autumn.

-Bentornata a casa, figlia mia-

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Capitolo 3
*** Cap. 2 ***


Mentre guardava Annie che saltellava festante apparecchiando la tavola, ostinata a canticchiare un motivo stonato, Jackie pensò per un attimo che fosse tornato tutto alla normalità. Ray, seduto in poltrona e nascosto dal quotidiano, leggeva come suo solito le notizie della giornata, nell’attesa che la cena fosse pronta. Annie sistemava con cura le posate sul tavolo del soggiorno, coperto dalla tovaglia delle grandi occasioni e abbellito dai fiori che la più piccola di loro aveva comprato per l’occasione. La cura con cui disponeva ogni singolo oggetto al proprio posto era ammirevole, segno di una grande attenzione ai dettagli, ma soprattutto di una immensa felicità da parte di Annie, che voleva rendere tutto perfetto per l’occasione. E per la prima volta da molto tempo, il rumore della doccia al piano di sopra rivelava la presenza del pezzo mancante della famiglia, Autumn, che si stava rinfrescando dopo tante ore di viaggio. Sembrava quasi strano che qualcun altro occupasse insieme a loro la casetta a tre piani con le pareti color crema, l’ultima della strada di quel quartiere di New York, la più riconoscibile con il grande gazebo di legno e il ciliegio all’angolo del giardino. Si sentiva quell’aria di entusiasmo nell’aria, di elettricità in un certo senso, di gioia del ritorno di Autumn, che finalmente era qui e non aveva intenzione di andarsene.
Almeno per ora,
 riflettè Jackie, mettendosi all’opera in cucina per terminare i preparativi della cena. Aveva pensato a qualcosa di semplice e tuttavia speciale per quella sera: bocconcini di pollo in salsa teriyaki, frittelle di zucchine e peperoncini jalapeno, patate dolci arrostite al forno e per finire una crostata di mele guarnita con caramello. Mentre ultimava di sistemare sul tavolo i piatti che aveva cucinato prima dell’arrivo di Autumn, quest’ultima apparì dalla porta.

Jackie la osservò, mentre si scompigliava i lunghi capelli castani, ancora umidi per la doccia appena fatta. Così affondata in una t-shirt extralarge e un vecchio paio di pantaloni di flanella, Autumn sembrava più minuta del solito, per quanto questo fosse possibile, dato che già di natura aveva una corporatura piuttosto esile. La pelle aveva perso quel sano colorito bronzeo che aveva di solito, che pareva quasi una permanente abbronzatura, e ora sembrava sbiadito, spento. Jackie ci avrebbe giurato che l’altra aveva trascurato la sua salute come al solito, magari perpetuando la sua screanzata abitudine di rimandare i pasti, per poi dimenticarsi del tutto di nutrirsi come una persona normale. La irritava oltre ogni limite sapere che una persona assennata come Autumn potesse ridursi a tali livelli di trascuratezza, ma dato che le cose che la irritavano erano più di una, Jackie aveva fatto l’abitudine a non lasciar trasparire più di tanto la sua disapprovazione. Unica eccezione era l’occhiata che lanciò ad Autumn mentre si sedeva a tavola insieme a Ray ed Annie.

Autumn capì senza che ci fu bisogno di dire una parola e si limitò a rivolgere un piccolo sorriso a Jackie, alzando le spalle a mo’ di scusa.

La più grande delle due sbuffò, scegliendo di non far pesare troppo all’altra quella grave mancanza, ma obbligandola a fare il bis di ogni portata, cosa che non dispiacque affatto ad Autumn, che apprezzò dopo molto tempo quel cibo sopraffino con gusto.

La cena trascorse piacevolmente. L’atmosfera era distesa, come se non fosse successo nulla e tutto fosse sempre stato così come doveva essere. Jackie non partecipò quasi per nulla alla conversazione, limitandosi a far vagare lo sguardo da destra a sinistra, cioè da Annie ad Autumn che si raccontavano gli avvenimenti degli ultimi quattro anni. In particolare Annie era interessata a scoprire quali luoghi avesse visitato Autumn, quali esperienze avesse vissuto, ascoltando eccitata tutti gli aneddoti che l’altra raccontava con dovizia di dettagli, tutti accompagnati da un sorriso sereno dipinto sulle labbra carnose.

Anche Ray preferì ascoltare più che unirsi alla conversazione, ma Jackie evitò volutamente il suo sguardo in questo caso, benché talvolta lo sentisse su di sé. Ray aveva qualcosa di misterioso in sé, in grado di sondare a fondo l’animo di una persona e scoprire ogni piccolo segreto che essa celava. Dietro i suoi occhi di ghiaccio si nascondeva una intelligenza ben superiore alla media e una capacità di intuizione che francamente Jackie non aveva voglia di affrontare in quel momento.

Attese solo che terminasse la cena, mentre si rigirava in tasca un pacchetto di sigarette, e quando l’ultima briciola di torta fu scomparsa dai piatti dei suoi commensali si alzò dal tavolo e cominciò a sparecchiare.

Autumn la fermò prendendola per un braccio.

-Non ti preoccupare, faccio io- si offrì ed Annie le fece eco.

Jackie non se lo fece ripetere due volte e con un breve cenno di assenso si allontanò dalla stanza. All’ingresso della casa afferrò il suo cellulare e infilò la giacca di pelle, quindi uscì fuori e si appoggiò alla ringhiera della piccola terrazza. Il display del telefono la avvertiva di due chiamate perse. Inserì la password per sbloccarlo e richiamò quel numero. Mentre il telefono squillava diede un’occhiata al cielo libero dalle nuvole e splendente di quelle poche stelle che riuscivano a scampare alle luci della città.

Al quinto squillo il bip bip si interruppe.

-Ti ho cercata prima- esordì una voce maschile, profonda e un po’ graffiante.

Nel sentirla Jackie si rilassò all’istante come sempre. Era incredibile l’effetto che essa aveva su di lei, un effetto tranquillizzante di cui ora aveva proprio bisogno.

-Scusami, stavamo cenando. Autumn è appena tornata- sospirò stanca.

-Oh… la famosa Autumn è qui… e quando avrò il piacere di conoscerla? Dopo tanto sentir parlare di lei…-

-Nei prossimi giorni, immagino. Probabilmente non subito, però. Dopo tanto viaggiare credo che abbia voglia di riposare per un po’-

-D’accordo- acconsentì l’altro e Jackie sentì un accenno di sorriso nel suo tono.

-A proposito, Milo, stasera penso di dormire qui. Non aspettarmi alzato-

-Come vuoi. Sono sicuro che tu ed Autumn avrete molto da raccontarvi dopo tutto questo tempo-

-Non è solo per questo. Annie è così sovraeccitata che potrebbe bagnare il letto stanotte dall’emozione. Devo tenerla sotto controllo-

Milo scoppiò in una forte risata, dal suono profondo anch’essa, e Jackie sorrise nel sentirla.

-Non essere troppo dura con lei, aspettava questo momento da tanto- disse lui indulgente, una volta ricompostosi.

-Ci proverò. A domani allora-

-Certo, buonanotte- concluse dolcemente lui e riattaccò.

Jackie rimise in tasca il cellulare. Sistemò meglio la sigaretta tra le labbra e tirò fuori un accendino. Non fece in tempo ad accenderlo che comparve un’altra fiammella di fronte al suo viso e accese la sigaretta al posto suo.

Jackie spostò lo sguardo. Alla sua sinistra c'era Autumn, che le sorrise e spense il proprio accendino con uno scatto.

-Le vecchie abitudini sono dure a morire, eh?- esordì Jackie aspirando la prima boccata.

Autumn sorrise senza dire nulla. Calò il silenzio tra di loro, mentre ognuna delle due era impegnata a riflettere.

Fu Jackie a romperlo, per la prima volta da quando Autumn era tornata.

-Perché sei tornata?-

La domanda era innocente, non nascondeva alcuna malizia. Anche Jackie era tranquilla nel porgergliela, quasi distaccata. Avrebbe potuto parlare del tempo a sentire il tono di voce così indifferente. Eppure a dispetto di tutto ciò vi era l’improvvisa pesante atmosfera che l’interrogativo aveva portato con sé.

Autumn sospirò e cercò lo sguardo di Jackie. Non lo trovò, perché esso era puntato dritto di fronte a loro, verso la strada poco trafficata oltre il cancello di ingresso.

-È passato troppo tempo, Jackie. Non riuscivo più a reggere quella vita. È stato bello, non lo nego, ma ora ho bisogno di normalità...-

-E te ne rendi conto dopo quattro fottuti anni-

Il commento glaciale fermò le parole di Autumn.

Jackie strinse le mani intorno alla ringhiera a tal punto che le nocche sbiancarono per la pressione.

-Pensi che possa tornare tutto come era prima così facilmente? Torni qui e puf!, ecco che tutti quanti fanno finta che niente sia successo in questi anni? Beh, fattelo dire, Autumn, mi sembra insensato ed egoista. Molto più di partire senza dire nulla se ci pensi-

Jackie trasse un profondo respiro e finalmente si voltò ad affrontare a viso aperto Autumn.

-Io sono molto contenta del tuo ritorno, Autumn, lo sono davvero. Ma non riesco proprio a dimenticare tanto facilmente quanto gli altri. In questi anni sono successe cose che avresti potuto benissimo risparmiare. Ho visto Annie piangere per giorni interi, da quando te ne sei andata. Ho visto Ray chiudersi nella sua solitudine e tagliare fuori tutto il resto, da quando te ne sei andata. Ho dovuto prendere sulle mie spalle il peso di un’intera famiglia a pezzi da quando te ne sei andata e non credere che sia stato facile ritrovare un equilibrio. Non voglio incolparti di tutto questo, ma penso che sia giusto dirti che il tuo ritorno non chiude un capitolo, ma ne apre uno nuovo, e sinceramente non so dirti se migliore o peggiore. Quello che so è che noi abbiamo sofferto abbastanza e non sarebbe giusto soffrire ancora di più-

Autumn non riuscì a reggere il peso di quelle parole e abbassò lo sguardo.

Jackie aveva ragione come sempre. Era stato egoista tornare? Era stato egoista lasciarsi alle spalle la propria famiglia e andarsene per quattro anni?

Sì, lo era. Solo ascoltando le parole di Jackie Autumn si rese conto di quanto male aveva fatto alle persone che più amava. Tutto quel dolore inutile, tutta quella insensata voglia di fuggire dalle proprie responsabilità, dalla propria vita… Come aveva fatto a non capire prima che non aveva senso?

Non biasimava di certo Jackie per la sincerità delle sue parole, tutt’altro. Faceva male sentirsi dire quelle cose, ma era la pura verità. E solo con quattro anni di ritardo Autumn se ne era resa conto.

-Mi dispiace, Jackie- bisbigliò Autumn, la voce spezzata -Mi dispiace immensamente. Io… io non so cosa fare… non lo sapevo neanche allora, per questo sono scappata. Non ho pensato a nulla in quel momento e solo ora mi accorgo di quanto ho sbagliato a non pensarci due volte. Stavo così male… e credevo che andandomene avrei fatto la cosa migliore per tutti. Quanto avevo torto… e non l’ho capito fino a pochi giorni fa. E ora sono tornata proprio come dici tu, con l’illusione che possa tornare tutto alla normalità. Ma hai ragione tu, Jackie, non si può. Dio, quanto hai ragione…-

Le guance di Autumn si bagnarono delle poche lacrime che non riuscì a trattenere. Per quanto le fosse odioso mostrare la sua debolezza, alzò gli occhi e li fissò in quelli di Jackie, implorandola con uno sguardo.

-Ti prego, non odiarmi per essere stata tanto stupida… ti prego-

Jackie la fissò immobile, senza neanche respirare quasi. Quindi chiuse gli occhi e si passò una mano sulla faccia stanca.

-E chi ha mai detto che ti odio?- sospirò, un piccolo ghigno rivolto allo stupore di Autumn -Non è con l’odio che si va avanti. Certo, non posso negare di averti spesso scagliato più di una maledizione in questi anni, quando non c’era nessun altro che portasse l’immondizia fuori, ma di qui ad odiarti non credo proprio-

Autumn si riscosse di fronte al sarcasmo ritrovato di Jackie. La fissò per un attimo sbigottita, ma infine capì che questo era il modo per l’altra di perdonarla. Sorrise grata e si asciugò le lacrime con la manica della maglia.

-Stupida- borbottò con una risatina.

Jackie sorrise a sua volta. Spense la sigaretta quasi terminata sulla ringhiera e gettò il mozzicone nella pattumiera. Diede un ultimo sguardo al cielo stellato.

Mentre tornava dentro casa, passò accanto ad Autumn e le strinse lievemente una spalla.

-Non te ne andare più, Autumn. C’è bisogno di te qui- le sussurrò e rientrò.

Autumn rimase fuori a riflettere per qualche momento in più. Decise che era proprio quello il posto in cui avrebbe voluto essere in quel momento. Le ci erano voluti solo quattro anni per capirlo.

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Capitolo 4
*** Cap. 3 ***


La mattina successiva Autumn si risvegliò molto presto, era da poco passata l’alba. Guardandosi intorno ebbe una piacevole sensazione di tranquillità che le trasmetteva la vista della sua vecchia camera, la stessa della sua adolescenza. Accanto a lei, anzi quasi avvinghiata a lei, dormiva anche Annie, che la sera prima le si era stesa accanto per ascoltare i racconti di tante esperienze e avventure trascorse. Si era poi addormentata lì e aveva trascorso la notte abbracciata ad Autumn come una bambina si aggrappa al proprio peluche. Ad Autumn non diede fastidio ritrovarla lì, perciò sorrise nel vederla ancora in pieno sonno e si divincolò con delicatezza dalla sua stretta per poter scendere dal letto.

Si stiracchiò pigramente, ancora non del tutto riposata dopo il lungo viaggio aereo del giorno precedente, e si avviò con calma al piano di sotto della casa. Al suo naso arrivò il profumo di caffè appena fatto e squisiti pancakes.

Jackie deve essere ancora qui, pensò Autumn felice.

E infatti, appena messo piede nella piccola cucina, vide subito Jackie indaffarata ai fornelli e Ray seduto al tavolo, nascosto dalla sua copia quotidiana del New York Times.

-Qualche buona notizia?- esordì Autumn con un sorriso, troppo estasiata dal rivivere quegli attimi di normalità.

Entrambi alzarono lo sguardo nel vederla arrivare. Ray le sorrise di rimando.

-A parte il matrimonio dell’ultima attrice presa di mira dai paparazzi, credo proprio di no- ribatté lui ironico.

Autumn ridacchiò e si sedette accanto a lui, chinandosi a baciargli la guancia ispida. Quindi si volse verso l’altra ragazza, di nuovo di spalle e armata di spatola, mentre impilava uno dopo l’altro i perfetti pancakes di cui si sentiva l'odore.

-Sto per uscire, devo fare presto oggi. La colazione è quasi pronta- annunciò Jackie. Prese il piatto pieno di prelibatezze e lo pose di fronte ad Autumn.

-Grazie mille- le disse lei grata, alzando gli occhi per incontrare quelli di Jackie. Ma quest’ultima le permise di incrociarli solo per un attimo prima di distogliere le sue iridi blu dal volto della più piccola. Fece solo un cenno con la testa e posò nel lavello gli utensili sporchi.

Fece per uscire dalla cucina e si fermò sulla soglia.

-Lasciatene un po’ ad Annie, altrimenti si mette a piagnucolare. Ci vediamo più tardi- salutò entrambi con un cenno della mano, sempre dando loro le spalle.

Quindi uscì e la sentirono richiudersi la porta alle spalle.

Autumn abbassò lo sguardo sul piatto fumante di fronte a sé. Guardò i pancakes ricoperti di dolce sciroppo e sospirò affranta. Le era quasi passata la fame.

-Non ti fare troppi problemi, Jackie non ce l’ha con te- la consolò Ray indovinando i suoi pensieri.

-Ma se non riesce neanche a guardarmi in faccia…-

-Sai com’è fatta, ha bisogno di tempo per metabolizzare il tuo ritorno. Lasciala riflettere, vedrai che tornerà la stessa di prima-

Autumn lo guardò e Ray la accolse con un sorriso fiducioso ed incoraggiante.

-Tu dici?-

-Ne sono convinto- affermò lui con sicurezza. Ripiegò il giornale e lo posò sul tavolo.

-D’altra parte sappi che Jackie ha diversi pensieri per la testa al momento, perciò non credere di essere tu l’unica causa del suo nervosismo-

Autumn si stupì di quelle parole e attese che Ray andasse avanti.

-Penso che ci sia qualcosa che riguardi il lavoro che la turba particolarmente nell’ultimo periodo. Non so perché, ma ho l’impressione che la pazienza di Jackie sia stata messa a dura prova per qualche motivo. Beh, immagino che non scopriremo di cosa si tratta finché non sarà lei a decidersi a parlarne, vero?- concluse Ray gaio, impugnando la forchetta, pronto a mangiare.

Autumn meditò per un attimo sulle sue parole e decise che in effetti quando si aveva a che fare con Jackie era difficile capire cosa le passasse per la testa, almeno finché lei non avesse deciso di essere chiara.

Con l'appetito ritrovato ed un po’ meno di tristezza addosso avendo capito che era solo questione di tempo prima che Jackie la trattasse come prima, Autumn seguì l’esempio di Ray e afferrò le posate.

-Hai perfettamente ragione. Meglio mangiare, allora, prima che si raffreddi-

 

All’arrivo in redazione, Jackie era già irritata. La sua auto era in riparazione, perciò aveva dovuto servirsi dei mezzi pubblici, ma la metropolitana era tanto affollata a quell’ora del mattino che aveva dovuto aspettare per ben due volte il suo turno per salire in treno, pur facendosi largo a gomitate. Riaffiorò sulla superficie confusionaria della Eighth Avenue con già venti minuti di ritardo, arrivò alla sede della rivista quasi mezz’ora più tardi del previsto e la prima cosa che voleva fare dopo aver varcato le soglie dell’ufficio era strangolare la prima persona che le capitasse a tiro.

-Jackie, eccoti finalmente!-

Si voltò di scatto per aggredire il malcapitato di turno. Era Bill, il praticante assunto un paio di mesi prima, un ragazzino poco più che ventenne tremante e fuori posto in redazione. Per qualche strano motivo l’aveva scelta come suo mentore, diventando de facto il suo assistente personale.

-Hai dieci secondi per darmi un motivo buono per non staccarti la testa e giocarci a squash- sibilò a denti stretti.

Il povero Bill rabbrividì, sapendo bene quanto fosse suscettibile il suo capo i giorni in cui arrivava in ritardo. Beh, in realtà anche tutti i restanti altri…

-Ecco… il fatto è che…- esitò lui spaventato.

-Sto contando. Sette, sei…-

-Wilson ha convocato una riunione urgente per tutti i redattori delle varie sezioni!- urlò allora Bill, nascondendosi dietro alla cartella di documenti che trasportava.

Jackie sbatté velocemente le palpebre, incredula. Il tempo di elaborare la notizia e stava già correndo come il vento verso la sala riunioni, un sorriso stampato in volto e un praticante alle calcagna.

-Perché non me lo hai detto subito? È fantastico!- esclamò lei con una risata.

-Non… capisco…- rispose affannato Bill, facendo a slalom per evitare di investire le persone che gli si presentavano davanti nei corridoi affollati.

Jackie invece non si pose problemi ad urtare qualcuno, troppo esaltata per fermarsi a ricevere le occhiate irritate dei vari impiegati.

-Hanno nominato il nuovo caporedattore! La riunione è per questo!- lo informò Jackie. Frenò di scatto di fronte alla porta a vetri della sala e Bill quasi le andò a sbattere contro.

-Questo vuol dire… che tu…- chiese lui affannato, gli occhi spalancati.

Jackie alzò le spalle, la mano pronta sulla maniglia, un sorriso malcelato sulle labbra.

-Lo spero proprio- disse solo ed entrò nella stanza, lasciando fuori il suo stupito assistente, che non poteva accedere alla riunione.

Erano già tutti seduti intorno al lungo tavolo scuro, una quindicina di persone che si voltò a guardare il suo arrivo irruento nella stanza.

-Ma bene, Miss Carter, aspettavamo proprio lei. Dopotutto le dive si fanno sempre attendere, no?- la accolse freddamente alla fine del tavolo una donna arcigna, in piedi, rigida nel suo tubino nero, gli occhi color pece a fulminare Jackie con un’unica occhiata scoccata oltre gli occhiali sottili. Donna Anderson era sicuramente la persona più maligna a cui Jackie potesse pensare, avida di potere e disposta a tutto pur di ottenere i propri obiettivi. La sua posizione di assistente personale del direttore non contribuiva certo a renderla più simpatica agli occhi dei dipendenti della rivista. Come molti altri lì dentro Jackie non la sopportava, ma era piuttosto sicura che il suo odio fosse ricambiato in pieno.

-Grazie per l’attesa, Anderson. Per fare prima la prossima volta prenderò un elicottero. Non ti dispiacere se ti farò pervenire il conto a casa-

Risatine sparse percorsero il tavolo mentre Jackie prendeva posto, tra Robert, il capo della sezione “Arte e Spettacolo” e Stella, responsabile della sezione “Moda”.

-Ben detto, ragazza- le sussurrò Robert, un sorriso soddisfatto nascosto dai folti baffi grigi.

Jackie gli strizzò l'occhio e si rivolse a Donna, in attesa di parlare mentre ingoiava la battuta di Jackie con un’espressione omicida in volto.

-Ora che siamo tutti riuniti, per grazia concessa dalla cara Miss Carter- esordì sarcastica -passiamo all’argomento del giorno. Immagino che molti di voi sappiano già o sospettino il motivo per cui è stata convocata questa riunione di urgenza e non posso che confermare le vostre ipotesi. Il Direttore mi ha richiesto di comunicarvi in sua vece il nominativo della persona scelta per ricoprire il nuovo incarico di caporedattore-

Alla notizia ufficiale diversi bisbigli si sparsero fra i giornalisti e più di un’occhiata si posò su di Jackie, che tentava di nascondere la forte speranza con un’espressione neutra e lo sguardo fisso davanti a sé.

-Sapete che la carica è vacante da quando qualche settimana fa James Cutter è stato promosso a Vicedirettore. Le proposte avanzate dal neo vicedirettore su un possibile successore sono state tutte vagliate dal direttore in persona, che ha tenuto conto del curriculum, dell’operato e della reputazione di ognuno dei candidati. La decisione che ha preso, pienamente approvata dalla Direzione e da Cutter stesso, è quella che vi riferirò adesso. La persona scelta per ricoprire il ruolo di nuovo Caporedattore è…-

Jackie si spostò quasi sino alla punta della sedia tanta l’emozione di sentire quella notizia. Stella si girò verso di lei e le sorrise in anticipo, Robert le diede una pacca sulla spalla per complimentarsi.

-...il capo della sezione “Esteri”, Mister Daniel Hilbert. Congratulazioni, Daniel- applaudì con eleganza Donna, seguita da tutti gli altri presenti.

Jackie per poco non cadde dalla sedia per la delusione. Spalancò gli occhi, immobilizzandosi all’istante, le mani a stringere i bordi del tavolo come se li volesse sbriciolare. Molti degli altri redattori non nascosero il proprio stupore, voltandosi a guardare Jackie con sconcerto. Stella borbottava indignata, da sempre sostenitrice della candidatura di Jackie, e si rigirava fra le dita una delle sue ciocche fucsia nervosamente; Robert le strinse una spalla per riscuoterla.

-Questo è inaccettabile- bisbigliò, ricevendo l’assenso di qualcun altro.

Ma tutta l’attenzione di Jackie era ora rivolta solo ad un un’unica persona, quell’uomo che ora si stava alzando dal suo posto per ricevere gli applausi e gli auguri dei colleghi.

Daniel Hilbert era piuttosto giovane, poco oltre la soglia dei trent’anni, alto ed fisicamente in forma, splendente nel suo completo firmato, impeccabile in ogni fibra del suo essere. Nascosti nei tratti del suo viso si notavano però dettagli che gli conferivano un’aria di eterna fanciullezza. A partire dalle lentiggini sparse che lo ricoprivano, per poi passare ai grandi occhi scuri e al piccolo sorriso sulle labbra sottili che rivolgeva agli altri sommesso. La linea decisa del naso e della mascella insieme ai capelli biondo scuro tagliati in modo corto e mascolino non contribuivano più di tanto a rendere l’immaginario di quel viso più maturo, dato che il rossore sulle guance e la timidezza malcelata negli occhi attenuavano l’aura di sicurezza che altrimenti sarebbe sprizzata da ogni suo poro.

Ma quella riservatezza con cui accoglieva gli applausi, quel senso di umiltà che traspariva negli occhi e la finta modestia che Jackie gli attribuiva con disprezzo annebbiarono l’immagine che tutti gli altri avevano di Daniel, per lasciare impressa nella sua mente solo due parole: nemico e bastardo.

Lui attese che gli applausi sparsi si spegnessero, prima di rivolgere un breve discorso ai colleghi.

-Non… non so davvero cosa dire. Questa notizia mi coglie di sorpresa, credetemi. Sono molto onorato di essere stato scelto per questa posizione e ringrazio tutti quelli che hanno proposto il mio nome. So che altri erano i nominativi più attendibili per la promozione- e detto questo il suo sguardo e quello di tutti gli altri si diresse su Jackie, ancora congelata nella sua cocente delusione -e so che erano tutti candidati altamente qualificati a ricoprire questo incarico, perciò sono davvero lusingato di aver potuto essere stato scelto, nonostante la mia breve permanenza in questa redazione. Vi assicuro che farò del mio meglio per poter compiere il mio incarico in modo adeguato e competente, in linea con l’operato del mio predecessore. Mi auguro la collaborazione da parte di tutti, per il bene della rivista e dei nostri fedeli lettori. Vi ringrazio ancora della fiducia riposta in me-

Daniel sorrise timidamente ancora una volta, rivolgendo uno sguardo grato a tutti i presenti, che rinnovarono gli applausi. Molti di loro si alzarono per stringere la mano al nuovo caporedattore, sommerso dalle parole di congratulazioni dei più zelanti e ruffiani redattori, già in cerca di nuovi appoggi ai piani alti della direzione.

Jackie rimase seduta al proprio posto, ignorando le occhiate dispiaciute di Robert, Stella e gli altri che la supportavano, mentre anche loro andavano a scambiare una parola col nuovo capo. Non vista dagli altri, impegnati in noiose cerimonie formali, nascosta al sorriso trionfante che Donna le aveva spesso indirizzato nel corso del discorso di Daniel, si alzò silenziosamente ed uscì dalla sala, senza fare alcun rumore.

Fuori trovò Bill ad attenderla trepidante. Appena la vide sorrise ampiamente porgendole un grosso bicchiere di caffè celebrativo.

-Congratulazioni per la nomina!- esclamò lui, beatamente all’oscuro delle ultime novità.

Jackie lo fulminò con lo sguardo, e il sorriso dell’altro si sciolse come neve ad agosto. Afferrò il bicchiere e prese un sorso.

-È amaro- fu l’unico commento, mentre voltava le spalle al ragazzo e si dirigeva a passo svelto nel proprio ufficio, il restante caffè finito fra le cartacce del cestino più vicino.

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Capitolo 5
*** Cap. 4 ***


Autumn si richiuse la porta alle spalle e prese un profondo respiro nell’aria fresca del mattino. Sorrise soddisfatta, le mani nelle tasche della giacca leggera. Aveva voglia di fare un giro nel suo vecchio quartiere, per vedere cosa fosse cambiato durante la sua assenza. Perciò si incamminò di buon passo e oltrepassò il cancello del viale di fronte casa, avviandosi per la strada che tante volte aveva percorso anni prima. Nonostante fosse ancora abbastanza presto, erano da poco passate le otto del mattino, un brulicare di persone era già attivo e pronto ad affrontare la nuova giornata. Autumn vide genitori di fretta alle prese con i propri figli muniti di cartelle scolastiche, pronti ad andare a scuola; i primi negozi stavano già aprendo le porte ai clienti, mentre i caffè e le pasticcerie erano già aperti da un pezzo, affollati da avventori in cerca di un’ottima colazione; lungo la strada si imbatté in diversi appassionati di jogging, tutti muniti di auricolari nelle orecchie e occhiali da sole, e tutti più o meno diretti verso Central Park, il luogo perfetto dove correre.

Autumn decise di seguire il loro esempio e si diresse con calma verso il parco, visibile in fondo alla strada, oltre la selva di edifici che erano il marchio di New York da sempre. Raggiunse quell’oasi di verde e pace e non esitò a recarsi nei pressi del laghetto più vicino, di cui si ricordava precisamente la posizione, dato che tante volte era venuta a fare pic-nic proprio lì insieme alla sua famiglia. Si sedette all’ombra di un’alta quercia rossa, che svettava sulle altre piante con le sue foglie accese. Si prese un momento per osservare il paesaggio intorno a sé e per pensare in tutta tranquillità, distratta solo dalla risata di qualche bambino più in là o dallo sferragliare delle biciclette che sfrecciavano nei lunghi viali del parco. Un venticello si agitò ad un tratto fra le foglie e scompigliò i capelli di Autumn, che aveva posato il capo sul tronco della quercia e meditava ad occhi chiusi sul suo futuro.

Per i quattro anni passati non si era quasi mai posta domande su cosa fare una volta tornata a casa. Aveva solo pensato a viaggiare, a partire ogni volta che voleva, a cambiare aria e vita attraverso i continenti, lasciandosi alle spalle bellissimi ricordi e persone importanti per quell’attimo di esistenza che aveva trascorso lì. Ma adesso che tutto era finito e che doveva necessariamente tornare alla realtà come ogni altro, non sapeva più come muoversi. A New York non aveva nessuna idea su cosa fare, su dove andare, e questo era assurdo, considerando che aveva visitato posti infinitamente più piccoli e vuoti di quella giungla di città e le erano tuttavia parsi pieni di opportunità da sfruttare, di cose da fare. Invece lì si sentiva disarmata, come presa da una paralisi che le impediva di ragionare e decidere.

Avrebbe dovuto trovare un posto dove vivere innanzitutto. Certo, c’era pur sempre la casa di famiglia e Ray non ci avrebbe pensato due volte ad ospitare la figlia, ma in qualche modo Autumn sentiva che in quel caso non avrebbe dovuto chiedergli aiuto. In linea generale Autumn amava la sua indipendenza e libertà, che non a caso l'avevano spinta a viaggiare per il mondo, ma in particolar modo adesso non si sentiva a suo agio a dover pensare di appoggiarsi a Ray. Sentiva che avrebbe dovuto fare tutto da sola, per dimostrare a lui, ma anche ad Annie e soprattutto a Jackie, che se la poteva cavare da sola, che era finalmente cresciuta e diventata matura. Era una questione fondamentale per lei in quel momento, riuscire a compiere quei gesti comuni che avrebbero sancito una volta per tutte il suo ritorno alla normalità. Doveva farcela ad ogni costo e sapeva di poterci riuscire.

Rincuorata, Autumn riaprì gli occhi all’improvviso, pronta ad agire finalmente. Si rialzò dal prato e diede un’ultima occhiata intorno, prima di ripercorrere il viale al contrario e uscire da Central Park. Imboccò una nuova strada e si diresse quasi senza pensare, come se i propri piedi camminassero da soli, verso un luogo che desiderava molto rivedere.

Perché dopotutto una delle poche certezze che Autumn aveva era che non si può pensare di sostenere i ritmi di New York e della vita in generale senza quell’unica necessità, antecedente anche all’urgenza di trovare casa, che erano i soldi.

 

Arrivata al luogo giusto Autumn sollevò lo sguardo sull’insegna del locale e sorrise nostalgica. L'angle des artistes recitava una scritta nera in corsivo, tutta curve e riccioli. Questo era il posto in cui ricordava di aver trascorso il numero maggiore di pomeriggi durante la sua vita da studentessa. Il caffè era riconoscibile per il color azzurro acceso del muro esterno che lo segnalava all’attenzione di tutti i passanti, spesso attirati dal luogo proprio per quel motivo, e dai vivaci tavolini esterni, ognuno di una sgargiante sfumatura diversa. Le grandi finestre davano una perfetta visione dell’interno, che ad Autumn sembrava esattamente uguale a come lo ricordava. Per accertarsene comunque, non aspettò oltre ad entrare all’interno, e trattenne il respiro per l’emozione e la nostalgia.

Fu come fare un tuffo nel passato, come quando per la prima volta entrò lì dentro e ne rimase del tutto affascinata. Il locale rispecchiava in pieno il rifugio della Autumn adolescente. I mobili di legno scuro, i tavolini e le sedie sparsi qua e là, le poltrone e i divanetti negli angoli più lontani, il piccolo palco posto in fondo alla stanza, dove spesso si esibivano musicisti e poeti in erba… e poi l’arte. Arte dappertutto: appesa alle pareti, con quadri e riproduzioni degli artisti più celebri, da Van Gogh a Warhol, passando per Picasso senza distinzione; sugli scaffali dietro il bancone, dove tra una bottiglia e l’altra si nascondevano piccole sculture di artisti indipendenti; nell’aria, agitata dalle note diffuse dagli speaker nascosti, che non disdegnavano nessun genere, abbracciando la musica classica tanto quanto l’alternative rock.

Era semplicemente il paradiso in versione ridotta, un paradiso fatto di piccoli dettagli che Autumn aveva sempre adorato.

Si guardò intorno e notò che il posto era ancora quasi vuoto, dato che generalmente era frequentato dall’ora di pranzo in poi dagli studenti delle varie e prestigiose accademie artistiche che impreziosivano il paesaggio dell’Upper West Side. Unico avventore per il momento era un omino seminascosto nell’oscurità, seduto nella poltrona più lontana dall’ingresso. Autumn lo riconobbe e gli si voleva avvicinare per salutarlo, ma una voce la interruppe.

-Buongiorno a te, señorita. Posso aiutarti in qualche modo?-

La voce suadente ma dal tono leggero bloccò Autumn nel punto in cui si trovava e la fece voltare con un enorme sorriso all’indirizzo dell’uomo.

Gabriél aveva i tratti tipicamente ispanici che il suo nome e il suo accento tradivano da subito. Abbastanza alto, dal fisico visibilmente allenato, come si intravedeva dalla t-shirt nera e da quel poco che il grembiule scuro legato in vita mostrava, aveva la carnagione olivastra, lunghi capelli mossi e neri legati in una coda sulle spalle e una barbetta curata che malcelava il perenne sorriso rilassato sulle labbra pronunciate con cui accoglieva i propri clienti. Gli occhi scuri e quieti, contornati di piccole rughe, scrutavano il mondo da sotto palpebre pesanti, donandogli quell’aria di placidità che lo contraddistingueva in modo inevitabile.

-No, grazie. Sto solo facendo un tuffo nel passato- rispose Autumn avvicinandosi al bancone, dietro il quale Gabriél puliva un bicchiere distratto senza guardarla.

Al sentire la voce di lei però alzò subito gli occhi e la bocca si spalancò per la sorpresa di rivedere Autumn.

-Che mi venga un colpo! Autumn, sei proprio tu?!- quasi urlò per lo stupore.

Lei annuì ridendo e subito Gabriél fece il giro del bancone per salutarla, stringendola in un abbraccio fraterno.

-Non ci posso credere! Sei tornata!- non smetteva di ripetere, stritolandola nella sua presa non proprio delicata.

La lasciò andare solo quando Autumn minacciò di morire per asfissia e prese la ragazza per le spalle, gli occhi che brillavano di gioia e la bocca aperta in un enorme sorriso. La scrutò da capo a piedi, incredulo di rivederla dopo tutto quel tempo.

-Mio Dio, sei proprio tu?- chiese ancora conferma. Autumn rise di gusto e annuì.

-Era da un po’ che non venivo qui, eh?-

-Sul serio! Qualche anno di sicuro… ma dove eri finita?-

Autumn si sedette al bancone su uno degli alti sgabelli e Gabriél la imitò.

-Ho avuto varie cose da fare… ho viaggiato molto, sono appena tornata negli States- confessò lei vaga.

-Buon per te, querida! Ma così all’improvviso?-

Autumn esitò a rispondere ed evitò lo sguardo di Gabriél. Si rigirò fra le mani il lembo della maglia che indossava. Lui capì al volo la situazione, notando quel gesto consueto per Autumn, e sorrise.

-Non me ne vuoi parlare, ho capito. Va bene così. Sono abituato ai tuoi segreti dopotutto- la tranquillizzò lui dandole un buffetto scherzoso sulla guancia.

La ragazza lo ringraziò con gli occhi della comprensione e stava per farlo anche a voce, quando una mano posata sulla sua spalla la fermò.

-Posso avere l’opportunità di salutarti dopo tutto questo tempo?- esordì con una vocina stanca l’ometto che era precedentemente seduto in fondo al locale. Era di bassa statura e abbastanza gracile per l’età, che si aggirava intorno ai cinquant’anni. Aveva un volto triste, malinconico di natura, con occhi infossati dietro gli occhiali spessi e un filo di barba incolta ed ispida. Erano diverse le ipotesi fatte nel corso degli anni per spiegare la perenne uggia che aleggiava intorno alla figura di Garrett, cliente tra i più affezionati del caffè, e andavano dal divorzio risalente ad almeno vent’anni prima con la moglie, donna libertina stando a sentire i commenti che ne faceva, al desiderio di ottenere notorietà per almeno uno dei suoi tanti scritti, che comprendevano poesie e romanzi di varia estensione, composti per lo più nelle ore che trascorreva solitario al suo solito posto nel caffè e puntualmente ignorati dalla critica.

-Garrett, è un piacere rivederti- lo salutò Autumn sincera, con un breve abbraccio.

-Anche per me, mia giovane amica. Non ho potuto fare a meno di ascoltare la vostra conversazione. Ti accolgo con un bentornata, viste le circostanze.  Dopotutto “gli uomini sognano più il ritorno che la partenza”-

Autumn non si stupì del modo di parlare di Garrett, formale in ogni occasione e sempre colmo di aforismi.

-Sbaglio o mi accogli con Coelho?- rispose lei indovinando la citazione.

-Corretto. Non tutti sono bravi a cogliere questi miei prestiti ad uomini di certo più illustri di me, mi è molto mancata la tua perspicacia-

-Garrett, sei venuta a convincerla a partire di nuovo per caso?- ironizzò Gabriél, da sempre carnefice dell’umore dello scrittore desolato.

-Vedo di non essere gradito. Torno al mio posto, allora, con la speranza di ricevere un nuovo the nero- concluse l’altro mesto, lo sguardo basso, mentre si trascinava di nuovo sulla poltrona e tornava a scrivere i suoi vari carteggi.

-The nero in arrivo, Mr Simpatia- rispose Gabriél alzando gli occhi al cielo e dirigendosi di nuovo dietro al bancone.

Autumn rise col cuore di fronte al siparietto, tanto simile a quelli che altre volte aveva visto lì dentro. Si sentì per un attimo come tornata nel passato, quando dopo scuola veniva sempre in quel posto che la accoglieva come una seconda casa e dove aveva conosciuto persone meravigliose.

E a proposito di persone meravigliose, Autumn diede un’occhiata all’orario sul cellulare. Erano quasi le undici e sapeva che di lì a breve sarebbero arrivati altri degli amici con cui aveva legato in quel locale, che ospitava le persone più stravaganti di tutta New York di sicuro, se Gabriél e Garrett erano i parametri con cui misurarsi.

E infatti, non oltre due minuti in cui Autumn meditava su questo, la porta del locale si aprì di nuovo ed entrarono tre nuovi clienti in modo rumoroso.

-Ma non puoi negare che l’arte di Kandinsky vada incontro a fraintendimenti!-

-Tesoro, non credo alle mie orecchie! I fraintendimenti di cui parli sono parole al vento. Kandinsky era un maestro, e non tollero che si parli male del mio adorato Vassilj!-

-Oh, andiamo, Izzy! Sei davvero insopportabile. Ti stavo solo facendo notare che l’uso cromatico che fa in quadri come…-

-Oggi è una così bella giornata… ho voglia di torta di mele…-

Autumn rise al vedere la scena, quasi all’ordine del giorno. Da una parte c’era Sybil, insegnante di arte e spettacolo in una vicina scuola di recitazione, una donna piccola e paffuta, stralunata e distratta, dall’ingenuità infantile. Si aggirava nel locale come colta in uno stato di trance, un sorriso vacuo che aleggiava sul viso, la lunga chioma di capelli rossi e ricci a contorno dell’ovale pallido del viso, gli occhietti di un verde liquido che percorrevano la stanza. Si sedette ad un tavolino aspettando la torta di mele come sempre, dando un’occhiata ai quadri alle pareti.

Dall’altra parte i due personaggi di certo più comici de L'angle des artistes, Izzy e Kim. Israel, conosciuto e chiamato da tutti con il nome d’arte della sua famosa firma di moda, “Izzy”, era un uomo esuberante prossimo alla quarantina. Istrionico da capo a piedi, non aveva paura di farsi notare per il suo stile stravagante e raffinato al tempo stesso, caratterizzato quel giorno da una camicia di raso violetta, un lungo gilè nero, attillatissimi pantaloni di pelle nera e stivaletti coordinati. A dirla tutta Izzy non si faceva problemi neanche a nascondere la propria omosessualità, anzi era il primo a fare autoironia sull’argomento e a prendere alla leggera i commenti non sempre carini rivolti al suo indirizzo. La costituzione magra e snella conferivano infatti ai suoi gesti e al suo aspetto anche qualcosa di femminile, che ad esempio si notava nei tratti gentili del viso, glabro e roseo, nei taglienti occhi scuri, generalmente nascosti da occhiali da sole più o meno eccentrici, e nei capelli castani di media lunghezza, raccolti sempre in una crocchia sulla nuca.

Izzy era quasi sempre accompagnato da Kim, una giovane promessa dell’arte moderna, quasi coetanea di Autumn, studentessa dell’Accademia di Belle Arti di New York. Era piccola di statura ed energica in modo indescrivibile, sempre pronta a buttarsi in qualche nuovo e assurdo progetto. Aveva corti capelli a caschetto e la frangetta quasi nascondeva i grandi occhi verdi con cui scrutava il mondo. Accompagnava ogni sua azione con un sorriso divertito, ma l’aspetto innocente nascondeva un orgoglio smisurato e talvolta di intralcio. Il suo carattere collideva spesso con quello di Izzy, che di fondo si comportava da primadonna tanto quanto Kim, e non era raro, anzi era molto frequente, vederli discutere per questo o quel motivo, senza mai giungere ad una opinione condivisa.

Autumn amava vederli discutere perché era esilarante, e anche perché in generale i loro accesi dibattiti non nascondevano malizia o cattive intenzioni.

Kim ed Izzy, presi dalle loro elucubrazioni, si erano intanto seduti al bancone senza far caso a nessun altro nel locale, proprio come se fossero a casa propria. Autumn si divertì ad osservarli senza fare loro presente il suo ritorno, per contare quanto tempo ci avrebbero messo a rendersene conto da soli. Ebbe modo di salutare e abbracciare Sybil senza che nessuno dei due realizzasse la sua presenza in quel luogo.

Gabriél sospirò sconfitto di fronte alla scena, simile a troppe altre volte, e nel tempo in cui aveva già servito la torta di mele a Sybil i suoi due litigiosi clienti non lo avevano per niente considerato.

Alla fine, stanco della faccenda, sbatté una mano non proprio con calma sul bancone, facendo sussultare gli altri due.

-Buongiorno anche a voi, è un piacere sentirvi discutere così presto la mattina. Lo sarebbe ancora di più se ci faceste prima la cortesia di salutarci- esordì ironico.

Izzy sbuffò e con un gesto casuale della mano fece capire a Gabriél di lasciar perdere.

-Ma ti prego, non essere così fiscale con i convenevoli. Siamo i clienti più affezionati, nostro malgrado. Il saluto è implicito ormai- commentò mellifluo. Gabriél sollevò un sopracciglio.

-Non mi riferivo a me, figurati. Se invece di battibeccare vi foste dati un’occhiata intorno avresti capito a chi mi riferisco quando vi dico di salutare- ribatté indicando con il pollice la direzione di Autumn.

Izzy e Kim allora si voltarono entrambi nella stessa direzione all’unisono, in un effetto piuttosto comico. Ancor più divertenti furono le facce che fecero al vedere il sorriso di Autumn, che tratteneva a stento le risate. Lanciarono contemporaneamente un urletto di sorpresa e gioia, scaraventandosi ad abbracciare Autumn allo stesso tempo.

-Santo cielo, sei tornata! Non ci posso credere, sei proprio tu!- esclamò Izzy estasiato, le braccia strette intorno alle sue spalle.

-Come stai? Quando sei tornata? Dove sei stata per tutto questo tempo?- chiedeva intanto a raffica Kim, gli occhi sgranati da sotto la frangetta.

Autumn ridacchiò e allontanò con delicatezza Izzy, che le stava mozzando il respiro.

-Sono tornata ieri, ho avuto molte cose da fare in questi anni- rispose lei sorridente.

Izzy alzò un sopracciglio scettico.

-E ti sembra una buona scusa? “Hai avuto molte cose da fare”? Ma lo sai che ci siamo preoccupati a morte! Scomparire così, dall’oggi al domani…-

Autumn si limitò ad alzare le spalle, con un piccolo sorriso di scusa. Non sapeva come rispondere ad Izzy, forse non voleva neanche farlo. Non pensava che anche le persone de L'angle des artistes si sarebbero preoccupate così tanto per lei e le dispiaceva sapere di aver causato quei problemi.

Fortunatamente Gabriél le venne in soccorso.

-Basta così, Izzy. Autumn è appena tornata, non metterle pressione. Se ti ha detto che aveva da fare, è così e basta- intervenne quieto, mentre serviva un espresso e un frappe ad Izzy e Kim.

Lo stilista lo guardò infastidito.

-Il solito guastafeste…- bisbigliò con uno sbuffo.

-Ti ho sentito- ribatté il barista, di spalle ma ben attento ai commenti degli altri.

Autumn rise ancora una volta di cuore, contenta di essere di nuovo fra quelle persone così care. Solo in quel momento le tornò in mente il reale motivo per cui era lì, al di là della volontà di rivedere i suoi amici.

-Gabriél, posso parlarti un attimo?- chiese all’uomo, che la guardò perplesso ma annuì comunque.

-Ho bisogno di chiederti una cosa. So che sono appena tornata e che probabilmente non sono in diritto di dirti questo, ma… ecco, io ho bisogno di soldi. Sono appena tornata a New York e non so dove andare, avevo pensato di affittare una stanza da qualche parte, ma per mantenermi devo trovare un lavoro. Perciò mi chiedevo… non è che potrei lavorare qui per un po’? È solo per il tempo necessario a trovare un altro impiego- spiegò in fretta Autumn, a testa bassa e in evidente difficoltà.

Gabriél la guardò stupito, grattandosi la testa confuso.

-Lavorare qui? Ma ne sei sicura? Con il tuo talento potresti essere assunta anche…-

-Ho smesso, Gabriél- tagliò corto Autumn, volendo evitare l’argomento -Ho chiuso con quello. E poi in questi anni ho lavorato anche in altri locali, è un lavoro che mi piace- insistette lei fissandolo decisa.

Gabriél sospirò e rifletté un minuto.

-Beh, se proprio sei convinta, non può che farmi piacere se lavori per me- disse infine con un sorriso.

Autumn ricambiò felice e si sentì sollevata di un grande peso. Sapere di essere indipendente almeno dal punto di vista economico la confortava, la liberava della sensazione di non essere capace di fare niente, sensazione che detestava e combatteva spesso.

-E per quanto riguarda l’appartamento… forse posso aiutarti anche in quello- commentò Gabriél, pensando a qualche nuovo piano.

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Capitolo 6
*** Cap. 5 ***


N.d.A.

Salve a tutti, grazie per essere arrivati a questo capitolo della storia. Mi piacerebbe molto sapere cosa ne pensate di Three Lives finora. Sono ancora alle prime armi, ho molto bisogno di critiche, consigli e giudizi su cosa migliorare. Ogni recensione è molto gradita! Detto questo, penso che sia giusto lasciare un po’ di spazio ad Annie finalmente.

Buona lettura!

musicislife17



 

Quando Annie si svegliò, stiracchiandosi come un grosso gatto pigro e soddisfatto, notò per prima cosa l’assenza di Autumn, e questo la fece subito balzare in piedi allarmata. L’ultima volta era successo proprio così, Autumn se n’era andata senza dire niente. Temeva che avesse deciso di farlo di nuovo, lo temeva a tal punto che si mise febbrile a guardarsi intorno, ma un’occhiata alle valigie ancora non disfatte dell’altra, accatastate in un angolo della stanza, la tranquillizzarono subito. Annie prese un lungo sospiro di sollievo e decise allora di cercare Autumn nella stanza di Jackie. Era sicuramente lì, vero? Deve esserlo per forza, si disse Annie, mentre con piccoli passi raggiungeva la stanza in fondo al corridoio.

-Jackie, Autumn è qui con te?- chiese subito, aprendo la porta.

Ma la stanza di Jackie, piccola e ordinata, era vuota, il letto già rifatto dalla notte precedente.

Annie aggrottò la fronte, senza capire, e corse di sotto per cercarle ancora entrambe. Con un balzo saltò gli ultimi gradini delle scale, andò subito in cucina e trovò solo del cibo sul tavolo, ma nessuno seduto a mangiare.

-C’è nessuno qui dentro?- chiese allora, le mani sui fianchi e i capelli raccolti in due code ai lati della testa a sferzare il volto, mentre si voltava in tutte le direzioni per trovare qualcuno.

Per tutta risposta, dal salotto dietro di lei fece capolino Ray.

-Buongiorno a te, Annie- la salutò con il suo solito sorriso enigmatico.

Lei si voltò di tutta fretta e rispose con un sorriso altrettanto ampio, correndo ad abbracciare l’uomo, che benevolo le baciò la fronte.

-Papà, perché non c’è nessuno?- chiese con un piccolo broncio Annie, alzando lo sguardo scuro a confrontare gli occhi cristallini dell’uomo.

-Jackie è andata molto presto a lavoro. E Autumn è uscita poco fa, ha detto che aveva qualcosa da fare-

Annie si imbronciò ancora di più e incrociò le braccia, in un modo che fece ridacchiare Ray.

-Avrebbero potuto salutarmi almeno- sbuffò lei.

Ray le scompigliò giocoso i capelli e scoppiò in una delle sue profonde risate.

-Potrai rivederle a cena. E poi Jackie ti ha lasciato pronti dei pancakes, non ti è andata poi così male-

Alla parola pancakes il volto di Annie si illuminò tutto.

-I pancakes di Jackie? Potevi dirmelo subito!- esclamò e corse subito in cucina, dove ad aspettarla trovò effettivamente i dolci promessi. Si sedette subito al tavolo e afferrò le posate per mangiare, la delusione di non aver potuto salutare le altre già scomparsa.

-Vedo che ci hai messo poco a ritrovare il buonumore- commentò ironico Ray.

Annie mandò giù un primo grande e squisito boccone e annuì, il ciuffo di capelli che rimbalzava sulla fronte.

-A questo prezzo, certo che sì-

 

Le mattine di Annie cominciavano raramente col piede sbagliato. Merito del sempre vivo entusiasmo della ragazza, che con gioia cominciava ogni nuova giornata col sorriso. E anche quella mattina, dopo una colazione così sopraffina, non poté che uscire di casa allegra, lo zaino in spalla e un motivetto in testa canticchiato con poca intonazione, ma molta buona volontà. Da sotto alla sua frangetta bionda scrutava il mondo curiosa, dispensando saluti e Buongiorno! a tutti coloro che incontrava nel quartiere. Ci voleva poco ad amare una ragazza come lei, così dolce e gentile, e infatti tutti le rispondevano con altrettanta cortesia. Ad Annie bastava illuminare la giornata di qualcun altro con un sorriso per sentirsi di ottimo umore.

Si diresse di buon passo verso la New York University, dove frequentava con passione la facoltà di psicologia. Amava quella disciplina e quel giorno era ancora più impaziente di recarsi a lezione, perché avrebbe dovuto seguire un nuovo e interessante corso. Arrivata all’edificio giusto si guardò intorno e individuò alcuni amici, che la salutarono e le fecero segno di raggiungerli.

E mentre Annie si accingeva a farlo, dietro di lei sentì un grido improvviso.

-Fate largo, fate largo!-

Annie non fece in tempo a voltarsi per verificare cosa stesse succedendo che qualcuno, un ragazzo, correndo all’impazzata la colpì inavvertitamente. Cadde a terra e si ferì le mani nel momento in cui provò a frenare la caduta sul marciapiede.

-Ehi!- urlò indignata all’indirizzo del ragazzo, che già stava correndo via.

Lui si voltò per un attimo, senza fermarsi, ed Annie riuscì a distinguere solo una massa confusa di capelli scuri e le mani alzate. Notò che portava sulle spalle la custodia di una chitarra.

-Scusa tanto, sono di fretta!- esclamò e continuò a correre via, finché non divenne solo una macchia all’orizzonte in mezzo a tante altre persone.

-Ma tu guarda…!- borbottò indignata Annie.

Si rimise in piedi, spazzando via lo sporco sulle ginocchia, dovuto alla caduta.

-Tutto bene, Annie?-

Si erano intanto avvicinati Trisha e Malcolm, i due gemelli afroamericani, da sempre suoi amici e ora anche colleghi di corso. Trisha le diede una mano a recuperare i suoi libri da terra.

-Non ci posso credere! Che maleducato!- esclamò Annie, ancora intenta a scrutare l’orizzonte nel punto in cui il ragazzo era scomparso.

-Lascia perdere, ne trovi di tutti i tipi in giro- commentò Malcolm con una stretta di spalle.

Annie fece un cenno di assenso e seguì gli amici all’interno dell’edificio, dove la folla di studenti si agitava in direzione delle proprie aule di studio. E mentre anche loro si muovevano verso l’aula di Psicologia dello Sviluppo, dove avrebbero frequentato per la prima volta il nuovo corso di studi, Annie riviveva in mente l’episodio di poco prima. La mano le doleva e notò che in effetti da qualche piccolo graffio scorreva del sangue sul palmo. Maledì fra sé e sé quello stupido che le si era buttato praticamente addosso e tamponò con un fazzoletto le poche gocce che sgorgavano dalle ferite.

-Annie, ci sei?- la richiamò intanto Trisha. Erano intanto arrivati nell’aula e avevano preso posto nelle file centrali, in attesa del professore.

Annie si riscosse dai propri pensieri e si voltò verso l’amica.

-Cosa?- chiese distratta. Trisha roteò gli occhi.

-Ho detto che sabato prossimo c’è una mega festa da Drew MacKinnon, il ragazzo di Jess. Ci sarà quasi tutto il dipartimento di psicologia. Tu sei dei nostri, vero?-

Annie fece mente locale e si assicurò di non avere nessun impegno.

-Certo- annuì infine con un sorriso.

Proprio in quel momento fece il proprio ingresso il professore, perciò Annie rimandò le chiacchiere con gli amici a più tardi, già pronta alla nuova lezione.

 

Al termine di due ore intensive del corso, Annie uscì con Trisha e Malcolm a prendere una boccata d’aria e un caffè allo Starbucks di fronte alla facoltà.

-È stato bellissimo!- commentò subito Annie, rimasta entusiasta della lezione.

-È vero! Non pensavo potesse essere così interessante, dall’aspetto il prof sembrava un vecchio noioso e invece… cavolo se ci sa fare!- concordò Malcolm stupito.

I tre amici attraversarono la strada e raggiunsero il locale sul marciapiede di fronte. Presero in fretta i loro caffè e uscirono ancora fuori, sempre commentando la lezione appena ascoltata.

-E poi avete sentito quando ha parlato della teoria di…- stava dicendo Annie entusiasta, quando senza preavviso sentì un impatto improvviso con qualcuno alle sue spalle.

Il colpo fu piuttosto forte e infatti lei cadde a terra per la seconda volta della giornata. Non solo il bicchiere che aveva in mano si rovesciò sul marciapiede, ma i tagli che si era fatta sul palmo poche ore prima si riaprirono e il sangue cominciò a fluire di nuovo.

-Ma questa è una maledizione!- commentò a voce alta, mentre si rialzava a fatica.

-O mio dio, scusami! Mi dispiace moltissimo!-

Annie si voltò e vide chi era stato a colpirla e a parlare. Di certo non si aspettava di trovarsi di fronte ad un ragazzo della sua età ad occhio e croce, non molto alto ma davvero minuto, pallido e mortificato. Aveva grandi occhi neri e spaventati, nascosti da occhiali dalla montatura dello stesso colore, e il viso cosparso di lentiggini chiare. Le sopracciglia folte e perfette piegate in modo dubbioso, il carnoso labbro inferiore tra i denti e le guance arrossite non aiutarono di certo Annie a riprendersi dalla sorpresa di trovarsi di fronte a quel ragazzo bellissimo.

-Scusami davvero! Stavo leggendo e non ho fatto caso a dove mettevo i piedi… non intendevo farti cadere- si stava ancora giustificando lui e alzò il romanzo tascabile che aveva in mano per buona misura.

Annie sbatté le palpebre in fretta e si riscosse all’improvviso dalla vista dell’altro. Abbassò gli occhi e anche lei arrossì imbarazzata.

-Figurati… non devi preoccuparti…- mormorò quasi a se stessa.

Voleva riportare un ciuffo di capelli sfuggitole davanti al viso dietro l’orecchio, ma facendolo il taglio che aveva sulla mano le punse in modo fastidioso e lasciò andare un Ahi! involontario che fece avvicinare preoccupato il ragazzo.

-Cavolo, ti sei anche ferita!- commentò mortificato.

-È solo un taglietto…-

-Aspetta un attimo- la fermò nel suo tentativo di sdrammatizzare.

Aprì la borsa che portava a tracolla, su cui Annie colse di sfuggita il logo della New York University, e cercò brevemente. Infine tirò fuori un fazzoletto di stoffa bianca a quadretti, di quelli vecchio stile che non si vedevano più in giro e che infatti lasciò interdetta Annie.

-Prendilo tu- glielo porse il ragazzo.

Annie alternò lo sguardo dalla mano che le protendeva il fazzoletto all’espressione costernata di lui.

-Non posso accettare- protestò Annie. Dopotutto, non si conoscevano neanche e lui le stava regalando un oggetto personale. Ma lui scosse la testa.

-Prendilo, ti prego. È un modo per chiederti scusa-

E come se non bastasse tirò fuori dalla tasca anche una banconota da cinque dollari che le porse insieme al fazzoletto.

-Questi sono per il caffè- aggiunse infine.

Annie prese entrambi gli oggetti come se fosse in trance, assolutamente spiazzata dalla gentilezza dell’altro. Li osservò per un attimo fra le sue mani e poi alzò di nuovo gli occhi.

-Sei davvero molto gentile- disse solo con un piccolo sorriso.

L’altro alzò le spalle e le concesse allo stesso modo un sorriso ampio e grato, che illuminò il suo viso e lasciò Annie spiazzata, come di fronte ad una rivelazione.

-È il minimo che posso fare per farmi perdonare- spiegò ancora.

E rinnovando ancora le scuse ad Annie, le diede infine le spalle e si avviò di nuovo verso la propria direzione, questa volta riponendo saggiamente il libro nella sacca.

Annie aspettò che anche lui sparisse all’orizzonte, proprio come quella mattina aveva fatto il maleducato che l’aveva spintonata, senza realizzare che per tutto quel tempo non aveva smesso un attimo di sorridere.

-Wow-

Fu il commento di Trisha a riscuoterla e spingerla a voltarsi. Si era del tutto dimenticata dei suoi amici, che avevano assistito alla scena in disparte.

-Non sono cose che si vedono tutti i giorni- disse Trisha, un sopracciglio sollevato, ancora intenta a fissare la direzione verso cui se n’era andato.

-Come ti ho detto questa mattina, ne trovi di tutti i tipi in giro- affermò allora Malcolm, con aria esperta.

-Già…- non poté che concordare Annie.

E chissà se avrebbe mai ritrovato un tipo del genere.

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Capitolo 7
*** Cap.6 ***


Quella sera a cena si capì più o meno da subito che Jackie era di pessimo umore. E non solo perché in casa si respirava aria di guerra, ma anche perché da molto tempo Ray, Autumn ed Annie avevano capito che la rabbia di Jackie era proporzionale alla piccantezza dei piatti che cucinava. Infatti in quel momento Jackie stava servendo loro un ottimo, quanto infuocato, chili di carne messicano.

Ray scambiò un’occhiata con le altre due ragazze, interrogandole con lo sguardo per sapere cosa fosse preso a Jackie, mentre questa posava con poca delicatezza le pentole sporche nel lavello.

Autumn alzò le spalle e Annie scosse la testa, entrambe ignare.

Tutti e tre finsero indifferenza mentre Jackie prendeva posto a tavola, gli occhi sbarrati per l’irritazione.

-Bene, ragazze. Buon appetito!- ruppe il ghiaccio Ray, elargendo un grosso sorriso alle altre.

Cominciarono a mangiare e a gustare il piatto, davvero piccante ma squisito comunque.

-Com’è andata la vostra giornata?- chiese Ray gioviale.

-Oh, molto bene. Le lezioni di oggi sono state interessantissime! Il nuovo corso sembra piuttosto difficile, ma anche molto affascinante- spiegò Annie vivace, ancora brillante di gioia per l’incontro-scontro casuale con quel misterioso ragazzo.

-Anche per me è stata una bella giornata. Ho incontrato dei vecchi amici e ho anche trovato un lavoretto. Comincio domani stesso- annunciò Autumn soddisfatta.

Ray le guardò compiaciuto e sorrise.

-Davvero? Mi fa molto piacere! E tu, Jackie, cosa ci racconti?- domandò casuale Ray, soffiando su un cucchiaio di chili con indifferenza.

Jackie, che non aveva toccato cibo, alzò lo sguardo su di lui di scatto. Assottigliò gli occhi con irritazione.

-Oh, niente di speciale. Ho solo assistito alla squallida elezione di un inetto al posto di caporedattore, da parte di un manipolo di incompetenti e frivoli giornalisti incapaci. Per il resto niente di nuovo sul fronte occidentale, grazie per l’interessamento- sbraitò lei.

Si alzò dal tavolo e prese il suo piatto integro. Lo ripose nel forno, sotto gli occhi attoniti degli altri, colti un po’ alla sprovvista dalla sfuriata. Si voltò a guardarli e incrociò le braccia.

-Non ho fame. Stasera non dormo qui. Ci vediamo domani- disse solo, prima di uscire dalla stanza e di casa in un batter d’occhio.

Rimasti soli, i tre si scambiarono un’occhiata eloquente.

-Pensavo che il suo carattere fosse migliorato in questo tempo- commentò per prima Autumn.

Ray sospirò e si passò una mano sul viso.

-Lo credevo anch’io, era da tempo che non la vedevo così. Deve essere successo qualcosa di davvero grave per farla arrabbiare tanto-

Annie intanto si era alzata per prendere del ghiaccio in congelatore e aggiungerlo al suo bicchiere d’acqua.

-Lo sappiamo com’è fatta, ha solo bisogno di sfogarsi un po’. E comunque credo che questo chili mi stia sciogliendo la lingua per quanto è piccante- commentò Annie, mentre masticava un cubetto di ghiaccio per attenuare il dolore alla lingua.

Ray ed Autumn risero, non troppo preoccupati per Jackie. Era come aveva detto Annie, aveva solo bisogno di calmarsi e sarebbe tornata la stessa di sempre.

 


Jackie intanto camminava nervosamente per le strade del quartiere, senza badare a niente se non a comporre il numero di Milo al telefono.

Lo chiamò e attese impaziente che rispondesse. Quando infine egli si degnò di accettare la chiamata, non gli diede il tempo di parlare.

-Dove sei? Devo vederti- disse subito Jackie.

-Ehi, aspetta un attimo. È tutto il giorno che provo a chiamarti, si può sapere cosa è successo?- chiese lui allarmato.

-È proprio per questo che devo vederti. Mi vuoi dire dove sei?- ribatté lei insistente.

-Sono a teatro, adesso non posso. Ci sono le prove, ricordi?-

Jackie si immobilizzò all’istante nel punto in cui si trovava.

-Non… puoi?- ripeté delusa.

-Mi dispiace… Abbiamo bisogno almeno di un altro paio d’ore- confermò lui triste allo stesso modo.

Jackie si morse il labbro inferiore, sovrappensiero.

-Allora vado a casa. Ti aspetto lì- decise infine, anche se non le piaceva l’idea di rimanere da sola in quel caso. Aveva seriamente bisogno di sfogarsi e per farlo necessitava della presenza fisica dell’altro, nel senso più letterale del termine.

-Va bene, arrivo appena posso-

-E Milo?- lo fermò lei prima che lui chiudesse la chiamata -Non fare troppo tardi- aggiunse in un sussurro.

Sentì uno sbuffo divertito da parte dell’altro.

-Sarò subito da te- concluse lui con dolcezza.

 

Per tutta la settimana successiva Jackie giunse a lavoro con una nuova serenità. Con l’aiuto di Milo, era riuscita a sfogare la tensione che la opprimeva e a calmare almeno per un po’ i nervi. Gli avvenimenti di qualche giorno prima bruciavano ancora in lei, ma la presenza rilassante di Milo la distendeva e calmava.

Senza pensare troppo alla situazione, preferì dedicarsi esclusivamente al lavoro, concentrandosi solo sulle proprie mansioni. E il suo impegno la premiò con una settimana densa ma priva di irritazioni dovute al neo caporedattore. Almeno finché Bill non si presentò dopo qualche giorno, poco prima della pausa pranzo, per informarla che il suddetto caporedattore l’aveva convocata nel suo ufficio.

-Vuole vedere me?- chiese perplessa a Bill, appena glielo aveva riferito.

-Pare di sì. Mi ha chiesto di informarti di persona- spiegò l’altro tremante, già pronto alla sfuriata del suo capo.

Jackie invece prese solo un profondo respiro e richiuse il laptop su cui stava lavorando, alzandosi con calma dalla sedia.

Senza dire un'altra parola si recò nell’ufficio, pensando durante il tragitto a cosa avrebbe voluto dirgli Daniel Hilbert di così urgente da convocarla lì. Forse riguardava il fatto che non si era più congratulata con lui della nomina? Beh, se era per questo Jackie non si pentiva minimamente delle sue azioni. Le piaceva essere diretta con le persone e far capire cosa pensava di loro. Perciò se Daniel aveva colto ostilità da parte sua e voleva avere spiegazioni, Jackie non aveva intenzione di mentire.

Raggiunse la porta a vetri dell’ufficio, nascosta da una tendina di plastica interna. Bussò lievemente sul vetro e ricevette il permesso di entrare.

Si trovò in un’ampia stanza, arredata proprio come l’aveva lasciata il precedente caporedattore, ma piena anche di nuovi scatoloni che contenevano gli averi di Daniel.

-Oh, buongiorno. Perdona la confusione, mi sono appena trasferito-

Jackie si voltò all’indirizzo della voce. Daniel era inchinato davanti alla scrivania e frugava in una scatola piena di giornali. Aveva un aspetto più trasandato del giorno dell’elezione, la giacca abbandonata sullo schienale di una sedia insieme alla cravatta e le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti. Stava rivolgendo a Jackie un cordiale sorriso, simile a quello con cui aveva accolto la notizia della sua elezione.

Jackie ignorò la cortesia, secondo lei finta, di Daniel e incrociò le braccia al petto.

-Sì, d’accordo. Hai bisogno di qualcosa?- chiese subito lei, che non vedeva l’ora di uscire da quello che avrebbe potuto essere il suo ufficio.

-Oh, certo. Ecco, puoi sederti qui se non ti dispiace- ripose lui alzandosi e lisciando le pieghe della camicia. Si sedette dietro alla scrivania, al suo posto ufficiale.

Jackie lo squadrò con disprezzo, quindi si sedette anche lei di fronte a lui, con uno sbuffo irritato.

-Immagino che ti stia chiedendo perché ti ho convocata- esordì lui con un tono gentile. Jackie si limitò ad alzare un sopracciglio.

-Beh, innanzitutto volevo dirti che sei stata certamente un ottimo candidato per questo posto. Io per primo mi aspettavo che saresti stata eletta tu come caporedattore, perciò sappi che apprezzo molto le tue qualità di giornalista. So che sei uno dei più giovani talenti che abbiamo in redazione- esordì Daniel con un ampio sorriso.

Jackie si morse l’interno della guancia per non rispondere a tono a quell’insensata sviolinata. Daniel aveva intenzione di fare il perbenista e fingere di apprezzarla?  Beh, lei non ci sarebbe cascata. Poteva prendere in giro altre persone, la redazione intera della rivista, ma non sarebbe riuscito a piegare anche Jackie.

-Non capisco il punto- si limitò a dire lei, seriamente confusa sul perché della sua presenza in quel posto.

Daniel fece un piccolo sospiro. Portò i gomiti sulla scrivania, incrociando le mani davanti al viso. Appoggiò il mento sulle mani e fissò Jackie con serietà, per la prima volta senza quel sorriso gentile sempre stampato in faccia.

-Ciò che sto per dirti è qualcosa di strettamente confidenziale, perciò ti prego di non divulgare la notizia. Ti ho convocata per un motivo molto semplice e ti prego innanzitutto di dare un’occhiata a questi dati-

A quel punto le porse un fascicolo di fogli impilati con cura e tornò a scrutarla nella stessa posizione di prima.

Jackie lo prese, lanciando un’occhiata diffidente al caporedattore, che non batté ciglio. Diede uno sguardo a ciò che c’era scritto sopra e corrugò la fronte.

Erano dati economici sul rendiconto finanziario della rivista. Numeri e statistiche complicate, prive di senso per Jackie.

-La matematica non è il mio forte- disse infatti lei, gettando con poco garbo il documento di fronte a Daniel.

Lui sorrise per un attimo, prima di ritornare serio come prima. Si mise a sfogliare le pagine che conosceva già a memoria mentre dava spiegazioni a Jackie.

-Questo è il bilancio delle vendite dell’ultimo trimestre. Sono i dati raccolti in base alla distribuzione, vendita e acquisto della rivista in tutta l’area della East Coast. E il profilo che ne deriva non è dei migliori-

Jackie elaborò quelle parole, lo sguardo arcigno rivolto ora a Daniel ora a quei fogli per lei privi di qualsiasi utilità.

-Temo di continuare a non capire-

A quelle parole Daniel tirò un profondo respiro e incrociò le braccia.

-Per farla breve, la rivista non vende. Gli acquisti da parte dei consumatori sono in calo, la vendita in alcune zone si è quasi arrestata. È un processo che va avanti da almeno un anno, inarrestabile. A parte uno zoccolo duro di lettori, che rappresenta comunque una percentuale minima, la nostra rivista sta perdendo poco a poco ogni acquirente-

Daniel tacque per un momento, dando modo a Jackie di elaborare la notizia.

Cosa voleva dire che la rivista non vendeva? Jackie non faceva che ripetersi queste parole, mentre fissava l’uomo di fronte a sé con incredulità. Nessuno aveva mai dato spazio per intendere che la redazione fosse in crisi. Daniel diceva che la storia andava avanti da almeno un anno, ma Jackie non riusciva a ricordare un solo caso in cui qualcuno avesse avvertito lei o gli altri redattori della situazione reale. Era davvero possibile una cosa del genere?

-È uno scherzo, vero?- chiese infine scettica.

Daniel aggrottò le sopracciglia.

-Certo che no. È tutto scritto qui- e con questo posò la mano sulla pila di fascicoli alla sua destra, da cui aveva tratto quello appena fatto vedere a Jackie.

-Ma nessuno ha mai detto niente di questo- insistette lei.

-Lo so benissimo. Anche se sono arrivato da poco in questa redazione, so bene che nessuno ha mai fatto accenno alle vendite della rivista. Ma proprio per questo mi ha sempre insospettito il fatto che fosse tenuto tutto all’oscuro. Ecco perché la prima cosa che ho fatto è stata quella di prendere i rendiconti dell’ultimo anno, da quando sono arrivato sino all’ultimo trimestre. Sono rimasto stupito quanto te della notizia-

Jackie non disse nulla, ancora sconvolta dalla rivelazione. Le sembrava tutto così assurdo, lavorava in quel posto da abbastanza tempo per poter pensare di conoscerne ogni dettaglio. Evidentemente non era così e questo la infastidiva non poco. Per qualche ragione, però, vedeva proprio in Daniel la causa di quel fastidio.

-Mettiamo anche che tutto ciò sia vero- esordì Jackie dopo un momento -e che la rivista sia davvero in crisi. Ma allora perché mi trovo qui adesso? Perché non è stata convocata una riunione per annunciare i fatti a tutti? E soprattutto perché non dovrei divulgare la notizia?-

In quella, Daniel si alzò lentamente dalla poltrona. Prese a camminare avanti e indietro davanti agli occhi scrutinatori di Jackie.

-La risposta a tutte e tre le domande è una- annunciò infine, fermo sul posto e con gli occhi puntati in quelli di Jackie.

-Ho bisogno del tuo aiuto per risollevare le sorti della rivista-

La reazione di Jackie fu immediata. Sgranò gli occhi a quella notizia, sollevò le sopracciglia stupita e solo per imporsi sulla propria volontà non spalancò anche la bocca come un pesce.

-Prego?- disse solo, dopo un primo momento di assestamento.
-
Proprio così- confermò Daniel, di nuovo seduto al suo posto -Ci ho pensato molto, ho eliminato ogni altra possibile soluzione. Rimane solo questa che sto per dirti. L’unico modo per provare a cambiare le cose è rinnovare la rivista. Un rinnovo radicale, completo, dalla grafica ai contenuti. Dobbiamo seguire le muove tendenze di mercato, dobbiamo creare una nuova rivista di qualità. Solo così possiamo pensare di tornare a vendere come una volta-

Daniel si rese conto che Jackie, nella sua totale immobilità e incredulità, non riusciva ancora a capire fino in fondo. Allora posò le mani sul tavolo e si sporse verso di lei.

-Ovviamente ciò che ti ho appena detto è solo un progetto. Va analizzato sotto ogni profilo e non è cosa facile. Soprattutto non è qualcosa che posso fare da solo. Ho bisogno della collaborazione dei migliori redattori della rivista. Inutile dire che tu sei la prima fra quelli a cui ho pensato-

Il momento di silenzio che seguì era quasi surreale. Tutto era immobile, tutto era in sospeso, persino i respiri dei due sembravano essere prodotti quasi con il timore di rompere quella strana quiete.

Ma a dispetto della tranquillità esteriore, il cervello di Jackie intanto funzionava a mille, sembrava quasi esplodere per tutte le rivelazioni fatte da Daniel, per l’ultima richiesta che le aveva fatto. Collaborare con lui, era questo quello che aveva chiesto. Collaborare con il “nemico”, alle spalle di persone con cui lavorava da anni, persone di cui si fidava e che apprezzava molto di più, come Stella e Rob. Ma allo stesso tempo questo voleva dire anche aiutare la rivista a risollevare le proprie sorti infauste, a quanto Daniel aveva affermato. Era possibile fare una cosa del genere? Lei, Daniel e pochi altri avrebbero potuto mai addossarsi il pesante compito di creare una nuova rivista dalle ceneri di quella precedente? E poi, anche ammesso che questo fosse possibile, perché Daniel si era rivolto proprio a lei?

-Non ti chiedo una risposta immediata, ovviamente- intervenne in quel momento Daniel nelle sue riflessioni -Puoi prendere tutto il tempo che ti serve per decidere con calma-

Come se fosse stata fulminata da quelle parole, Jackie si riscosse dal suo torpore meditativo e mise a fuoco la faccia di Daniel, come se gli apparisse per la prima volta. Sembrava preoccupato della possibile risposta della collega, ma allo stesso tempo discretamente determinato nella sua scelta.

-Non ho bisogno di tempo- disse allora Jackie, alzandosi dalla sedia, seguita dallo sguardo confuso di Daniel.

-Non so che intenzioni hai qui dentro, Hilbert, ma questa storia non mi convince. Se davvero la rivista è in crisi, avresti dovuto avvertire subito tutti i redattori. Questo colloquio privato è insensato e inconcludente. Cosa credi di riuscire a fare, se sei stato promosso da neanche una decina di giorni? Tieni i piedi a terra, Hilbert, e se proprio hai qualcosa da dire per rivoluzionare la tua rivista, allora vai chiedere aiuto a qualcun altro-

Jackie non diede tempo a Daniel di controbattere e subito uscì fuori da quell’ufficio, tornando nervosamente alla propria postazione. Quella storia non la riguardava, si convinse, e meno aveva a che fare con quell’uomo meglio era. Non poteva essere come diceva lui, non doveva essere così, rifletteva Jackie mentre il suo lavoro procedeva a rilento, i propri pensieri troppo confusi. Perché ora la ragazza se ne rendeva conto: Daniel Hilbert non era solo un nemico, era una vera e propria minaccia per il futuro della rivista. E lei non gli avrebbe permesso di trasformare quel posto a proprio piacimento, decise infine. Fosse l’ultima cosa che avrebbe fatto.

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Capitolo 8
*** Cap. 7 ***


N.d.A.
Ecco il nuovo capitolo, questa volta lasciamo Jackie per seguire un po’ Autumn (e non solo…).

Noto con gioia che diversi utenti stanno leggendo/seguendo la storia e questo mi rende piena di orgoglio. Come sempre, se avete commenti, giudizi e consigli da darmi aspetto ansiosamente le vostre recensioni. Ogni critica costruttiva è ben accetta.
Grazie mille a chi recensisce, segue, mette tra le storie preferite o ricordate Three Lives 
e anche ai timidi lettori silenziosi,
musicislife17




Come promesso da Gabriél, Autumn cominciò subito a lavorare come cameriera a L'angle des artistes. Aveva già avuto esperienze simili nei vari viaggi che aveva compiuto, perciò non le fu difficile adattarsi alla routine giornaliera del posto. Inoltre Gabriél era stato disponibile ad aiutarla per ogni evenienza, perciò non aveva nulla da temere.

Ad Autumn piaceva lavorare lì. Non solo era circondata da un’atmosfera stimolante, dato che il locale era frequentato davvero da artisti di ogni sorta, ma aveva anche modo di abituarsi nuovamente alla realtà comune, alla vita normale. Cominciò ad imparare le facce dei clienti abituali, oltre ai suoi amici di vecchia data, e le abitudini di ognuno di loro. Garrett era sempre il primo ad arrivare all’apertura, alle otto e mezza del mattino. Si sedeva nell’angolo a lui riservato e meditava pensieroso sui suoi numerosi carteggi. Non era di grande compagnia, chiuso com’era nel suo mondo, ma ogni tanto Autumn scambiava quattro chiacchiere con lui su argomenti vari, letteratura in particolare. Senza bisogno di domandare, Garrett riceveva ad intervalli regolari una tazza di the nero che Autumn imparò a servirgli non appena era terminata quella precedente.

Durante la mattinata si alternavano clienti occasionali a volti conosciuti, più che altro studenti del vicino Lincoln Center. Soprattutto all’ora di pranzo e in prima serata, quando i corsi mattutini e pomeridiani concludevano. E Autumn si divertiva ad ascoltare i loro discorsi, le scaramucce che avevano avuto con i professori o i colleghi, le ambizioni e i sogni che li animavano. Andavano a L'angle des artistes come se per loro fosse una seconda casa e questo riscaldava il cuore della ragazza, che rivedeva se stessa in loro.

Alle undici del mattino poi si presentavano i suoi amici e Autumn rideva sempre in loro compagnia, nel vedere come Izzy e Kim discutessero costantemente o riprendessero Sybil per essere così distratta e stralunata. Per non parlare di come Gabriél rimproverasse i suoi clienti più rumorosi e assomigliasse più ad un padre alle prese con i figli capricciosi. Era uno spasso continuo stare a sentire quei quattro, sembravano usciti da una sitcom televisiva.

Perciò i giorni della nuova vita di Autumn trascorrevano in pace e normalità, tra un caffè servito qui e una fetta di torte di mele là.

Un pomeriggio il locale era più tranquillo del solito, colpa della pioggia fitta che bagnava New York da diverse ore e del fatto che il weekend non c’erano lezioni alle varie accademie artistiche lì vicino. Perciò Gabriél e Autumn si godevano un raro attimo di pausa, in compagnia, per modo di dire, di Garrett. Seduti entrambi agli alti sgabelli del bancone, stavano scambiando quattro chiacchiere quando il cellulare del proprietario squillò. A vedere la faccia perplessa di Gabriél durante la telefonata, Autumn si chiese cosa fosse successo. Gabriél termimò la chiamata con uno sbuffo.

-C’è un problema con dei fornitori- disse lui senza aspettare la domanda della cameriera -Un casino, anzi. Dovrei andare subito a controllare- aggiunse, grattandosi nervoso la barba.

-Vai pure, qui ci penso io- si offrì Autumn subito.

-Sicura?-

Autumn fece un ampio gesto con la mano per indicare il fatto che il posto era a tutti gli effetti vuoto. Gabriél scoppiò a ridere e le strinse la spalla.

-Hai ragione, te la puoi cavare benissimo, querida- affermò convinto.

Perciò infilò la giacca, afferrò l’ombrello e con un saluto uscì nella pioggia fitta.

Autumn si guardò intorno annoiata. Non c’era nulla da fare, il locale era in ordine e Garrett era immerso nei suoi scritti, quindi non le parve il caso di disturbarlo. Decise allora di concedersi un po’ di relax. Cercò nella sua borsa e tirò fuori il libro che stava leggendo negli ultimi tempi e che per abitudine portava sempre con sé. Era interessante, forse triste, ma le piaceva. A tal punto che fu presa dalla lettura e distolse l’attenzione solo quando i campanelli sulla porta d’ingresso tintinnarono, annunciando l’arrivo di qualcuno.

Alzò lo sguardo pensando di trovarsi di fronte Gabriél, ma non era lui. Era un cliente, un giovane uomo in una pesante giacca marrone. Era  mediamente alto, ma aveva un fisico molto prestante e ben disegnato, come si intravedeva dalla maglia a righe bianche e nere. I jeans neri erano bagnati, colpa della pioggia ancora battente, così come gli scarponcini di pelle. E anche il bel fedora color crema non aveva potuto far molto per proteggere il viso dall’acqua.

Sul volto del ragazzo Autumn soffermò lo sguardo. Era inevitabile, era davvero affascinante. Mentre si avvicinava ad uno dei tavoli, proprio di fronte al bancone, sedendosi e sfilandosi la giacca bagnata con un fluido gesto delle braccia, Autumn osservò di nascosto come i riccioli castani e umidi che sfuggivano dal fedora contornassero il viso dalle fattezze eleganti, nobili si sarebbe potuto dire. Il naso affilato, la bocca carnosa e rossa come il sangue, piegata in un accenno di velato sorriso e circondata da baffi e pizzetto ben curati intorno alle labbra. Era da molto tempo che Autumn non rimaneva colpita così tanto dalla bellezza di un uomo.

Il ragazzo si guardò intorno e Autumn si riprese dalle sue riflessioni, posò il libro e si diresse verso il tavolo.

-Benvenuto, come posso servirti?- gli chiese gentile.

L’uomo stava cercando qualcosa nella sua borsa, quando sollevò gli occhi su di Autumn. Lei rimase immobile, senza respiro, stregata da due iridi più grige del cielo in quel momento. Occhi limpidi, trasparenti quasi, magnetici e innaturali. Bellissimi.

-Oh, ciao. Vorrei un caffè forte, nero, se non ti dispiace. E una fetta di meringa al limone, so che qui è ottima- rispose l’uomo altrettanto cortese, la voce baritonale resa leggera dal sorriso sulle labbra. Aveva atteso un attimo prima di parlare, come se volesse raccogliere prima i suoi pensieri. E in quell’attimo aveva fissato i suoi occhi in quelli di Autumn senza battere ciglio.

-Arrivano subito- annuì Autumn e velocemente tornò dietro al bancone per preparare la richiesta.

Mentre era di spalle all’uomo, prese un profondo respiro. Era molto più affascinante di quanto pensasse, visto così da vicino. E poi quello sguardo intenso l’aveva fatta sentire in modo strano. Come quando un brivido lungo la schiena suscita la pelle d’oca sul resto del corpo. Una scarica elettrica che colpisce e si ritrae, lasciando distruzione al suo posto.

Scosse la testa, allontanando pensieri pericolosi. Doveva calmarsi e concentrarsi. Prese la tazza di caffè e il piatto con la torta e ritornò al tavolo.

L’uomo era assorto nella lettura di un volume spesso e inconsueto per l’aspetto. Solo una volta avvicinatasi, Autumn riconobbe l’argomento del libro dalle pagine ingiallite e zeppe di appunti e segni di matita. Era una partitura e, a giudicare dai numerosi pentagrammi, una partitura per orchestra. Sparse sul tavolo, l’uomo aveva disposto penne, matite e un quadernino. Si era anche tolto il cappello, lasciando liberi i lunghi riccioli che ora ricadevano sulla fronte in modo disordinato.

Autumn lasciò il cibo nel poco spazio libero lasciato sul tavolo ed ebbe modo solo di scambiare un sorriso di ringraziamento con l’uomo, prima di tornare dietro il bancone.

Ancora una volta, non aveva nulla da fare. Prese di nuovo il libro che stava leggendo prima dell’arrivo dell’uomo e riprese il punto in cui aveva lasciato il protagonista. Capì ben presto che l’attenzione per il libro era troppo scarsa adesso che di fronte a lei quell’uomo misterioso sorseggiava il suo caffè nero.

Si ritrovò molto più spesso di quanto non richiesto a guardare di sottecchi che cosa stesse facendo l’altro e a chiedersi con interesse chi fosse. Lui era assorto nelle note di quel volume, concentrato a tal punto che non sembrava neanche più rendersi conto di dove fosse. A volte borbottava delle parole fra sé e sé, come se stesse meditando ad alta voce, e allora prendeva appunti sulle pagine o sul quadernino, salvo scuotere la testa poco dopo, un’espressione corrucciata in viso, e cancellare quello che aveva scritto poco prima.

Autumn lo osservava con attenzione. In generale le piaceva analizzare le azioni delle persone intorno a sé, ma in quel caso particolare la affascinava la concentrazione dell’uomo sullo spartito. Era una relazione indipendente fra lui, le note e la musica che aveva in testa.

Presa dalla curiosità di sapere quale pezzo stesse studiando il cliente, Autumn lanciò un’occhiata alla partitura mentre andava a riempire ancora la tazza di caffè e a prelevare il piatto vuoto. Sapeva leggere bene la musica, perciò riconobbe con relativa facilità un’opera famosa e a lei nota. Non ne era certa al cento per cento, ma decise comunque di tentare un piccolo colpo di fortuna. Con un pizzico di audacia andò a scorrere la raccolta di CD di Gabriél, che risuonavano sempre in sottofondo nel locale. Fra quelli di musica classica ne cercò speranzosa uno in particolare e con grande gioia lo trovò. Lo prese e tornò dietro al bancone, dove si nascondeva lo stereo principale del locale. Tolse il CD precedente, chiedendo mentalmente scusa a Louis Armstrong, e inserì il nuovo. Premette play e attese che gli applausi della registrazione svanissero prima dell’esecuzione della sinfonia. E mentre il brano stava per cominciare, si risedette con calma e riprese ancora il libro, aprendolo alla pagina giusta.

La musica cominciò e si diffuse quieta in tutto il posto, invadendolo di note antiche ma sempre nuove ed emozionanti. Autumn sbirciò da dietro il libro la reazione dell’uomo.

Lui non sembrò far subito caso alla musica, ma quando finalmente il suono si fece strada nella sua mente, alzò la testa dalla partitura. Aggrottando la fronte, come se non sapesse bene cosa stesse succedendo, si guardò intorno, alle spalle, e infine individuò la cassa da cui proveniva la musica. Rimase un attimo a fissarla, come preso da una visione. Infine si voltò in direzione del bancone, un largo sorriso sul suo volto, piccole rughe di espressione intorno agli occhi socchiusi nel divertimento. Incrociò brevemente lo sguardo di Autumn, che sorrise divertita a sua volta e ritornò al suo libro come se niente fosse. Ma in realtà il suo cuore batteva un po’ più veloce e una felicità quieta le sbocciò in petto.

Trascorsero svariati minuti così, Autumn con il suo libro, l’uomo al tavolo con la partitura, entrambi legati dalla sinfonia che risuonava eterea. Nessuno dei due fece più molto caso all’altro, ma un sorriso inconscio danzava sulle loro labbra.

Prima del termine della sinfonia, l’uomo richiuse il volume e cominciò a raccogliere le proprie cose. Si rivestì, sistemò con cura il fedora sui riccioli ed estrasse il portafogli.

Autumn si alzò per saldare il conto e l’uomo la raggiunse, sempre con un piccolo ghigno nascosto dalla barbetta.

-Quattro dollari e quarantacinque centesimi- disse Autumn.

L’uomo le porse una banconota da cinque.

-Come hai fatto a riconoscere il brano che stavo studiando?- le chiese all’improvviso, senza più saper controllare la curiosità.

Autumn, che cercava intanto le monete per il resto, si complimentò interiormente con se stessa, compiaciuta.

-So leggere un po’ di musica. Non è stato difficile- rispose sincera.

L’uomo sembrò stupito, stando alle sopracciglia sollevate.

-Ti prego, conosco persone che lo fanno di mestiere e non avrebbero mai saputo riconoscere la Sinfonia numero 9 di Beethoven da una parte qualsiasi della partitura, nemmeno se ci fosse stato scritto in fondo alla pagina- sbuffò con una smorfia.

Autumn fece una piccola risata.

-Sarà stato un colpo di fortuna allora- alzò le spalle. L’uomo le sorrise.

-Complimenti lo stesso, sei molto brava. In più hai scelto l’esecuzione della Wiener Philarmoniker, se non erro. È una delle migliori- la gratificò cordiale.

Autumn portò dietro l’orecchio un ciuffo ribelle e seppe che in quel momento era arrossita. Ma insomma, pensò, non la si poteva proprio biasimare. Ricevere un elogio da una persona che aveva addirittura distinto l’esecuzione di una in particolare fra le migliaia di orchestre che avevano eseguito la sinfonia era davvero speciale. Che l’uomo a farle i complimenti fosse poi uno dei più belli che avesse visto da tempo era solo un bonus. Più o meno.

Porse il resto al cliente, con grande cura nel non sfiorargli la pelle nel processo, ma non poté fare a meno di notare le lunghe dita affusolate e i palmi curati delle mani dell’altro. Le punte delle dita sembravano invece consumate e callose.

Mani di un musicista, ebbe un'ulteriore conferma Autumn.

Lui prese le monete e le ripose in tasca, occhieggiando nel frattempo il libro che Autumn aveva lasciato lì vicino.

-Władysław Szpilman… fu un pianista notevole. Ed ebbe una vita tormentata- commentò indicando la copertina.

Autumn lo fissò meravigliata. Non solo aveva riconosciuto il libro e sapeva di cosa parlasse, anche se il titolo Il pianista dava un grande aiuto, ma aveva anche pronunciato il nome in modo corretto. Autumn non parlava di certo polacco, però coglieva all’ascolto una sfumatura diversa e più autentica di quel nome.

-Lo conosci?- chiese conferma.

-Certo. Ho letto anche il libro. Un po’ troppo triste per i miei gusti, ma emozionante- commentò assorto.

Quindi alzò di nuovo gli occhi su di Autumn e sorrise ancora.

-È stato un grande piacere. Ora devo andare, ma tornerò. Alla prossima- la salutò portandosi la mano alla visiera del cappello e con un cenno della testa.

-A presto- sussurrò solo Autumn, prima di vederlo uscire via, di nuovo sotto la pioggia di fine settembre.

Proprio in quel momento vide dalla vetrina anche arrivare Izzy, che si fermò a scambiare due parole veloci con l’uomo prima di entrare.

-Guarda un po’, è tornato il Maestro...- borbottò mentre richiudeva l’ombrello. Si fece largo fra i tavoli, per raggiungere il suo solito posto al bancone.

-Izzy, tu conosci quell’uomo?- chiese stupita Autumn.

Izzy annuì distrattamente, svolgendo dal suo collo la sciarpa di seta rossa.

-Certo, è un cliente abituale. A volte non si fa vedere per molto tempo, ma non è raro trovarlo qui. Forse è la prima volta che vi incontrate, vero?-

Autumn annuì veloce, in attesa che Izzy le dicesse finalmente chi fosse.

-Ebbene, tesoro, lui è l’ultimo enfant prodige della Juilliard, lo studente di direzione orchestrale più promettente dell’accademia, forse di tutta l’America. Molti lo chiamano il nuovo Bernstein, alcuni l’erede di Barenboim, altri lo accostano addirittura a Mozart per la sua genialità. Personalmente ritengo che siano giuste tutte queste opinioni-

Izzy sfilò teatralmente i guanti che indossava e li gettò sul bancone. Autumn trattenne il respiro.

-Si chiama Miłosz Romanski. Ma se chiedi in giro, lo conoscono tutti come Milo-

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Capitolo 9
*** Cap. 8 ***


Ecco il nuovo capitolo, anche se con un po' di ritardo. Una piccola pausa nella storia per lasciare posto ad una scenetta nata così, all'improvviso. Queste tre pesti stanno prendendo il sopravvento sulla loro autrice, ve lo assicuro. Ma attenzione a qualche spunto per i prossimi capitoli, chi è ben attento saprà cogliere...
Come sempre, grazie a tutti coloro che dedicano qualche minuto del loro tempo a leggere questa storia.
musicislife17



 

Doveva essere una coincidenza. Doveva per forza. Autumn non faceva che ripeterselo. Da quando Izzy le aveva detto che il nome di quel particolare cliente era Milo, Autumn era rimasta agghiacciata dall’idea che potesse essere lui il fidanzato di Jackie di cui aveva tanto sentito parlare. Era una possibilità, ma quante probabilità c’erano che in tutta New York lei fosse andata ad incontrare giusto quel Milo? Fra milioni di persone era stata così sfortunata da rimanere affascinata proprio dal ragazzo di sua sorella?

No, doveva essere solo un caso. Autumn continuava a rimuginarci sopra dal momento in cui pochi giorni prima era tornata a casa dopo l’incontro con lui. Erano sicuramente due persone diverse e lei non aveva nulla da temere.

Va tutto bene, si disse mentre usciva da L'angle des artistes dopo l’ultimo turno di lavoro della settimana. Era un sabato sera caldo, l’ultimo avamposto dell’estate alle soglie dell’autunno. Nelle strade la gente camminava in fretta, chi diretto a casa come lei, chi già pronto a immergersi nei numerosi divertimenti della notte. Persone di tutte le età erano animate dall’entusiasmo di fine settimana. Autumn le guardò felice per loro.

Onestamente non era una ragazza che amava uscire troppo. Infatti al momento era diretta alla casa di famiglia, dove desiderava trascorrere un po’ di tempo in compagnia dei suoi cari. Niente la allettava di più della prospettiva di leggere un libro con Ray, o scambiarsi le ultime novità con Annie e Jackie. Le bastava questo, davvero.

Ma arrivando a casa capì già una volta imboccato il viale di ingresso che la pace a cui ambiva non era contemplata fra le quattro mura domestiche. Dalla finestra che dava sulla strada, quella della camera sua e di Annie, vedeva che lei e Jackie litigavano come al solito, gesticolando animatamente.

E a riprova di questo si aggiunsero le urla attutite che la accolsero quando Ray aprì la porta di casa.

-Si può sapere che succede?- chiese Autumn entrando.

Ray alzò le spalle impotente, un’espressione rassegnata in volto.

-Litigano da un po’. Ho provato a fermarle, ma mi hanno liquidato con un Problemi di donne. Alzo le mani di fronte alle loro questioni femminili, ma in tutta onestà l’aspirina per il mal di testa tarda il suo effetto e i timpani non sono in migliori condizioni- commentò con una smorfia dolorante.

Autumn scosse la testa e si accigliò. Si sporse a baciare brevemente la guancia di Ray e subito si diresse verso le scale.

-Ci penso io- borbottò irritata.

-Che Dio ti benedica, figlia mia- esclamò sollevato lui, guardandola sparire oltre le scale.

Autumn raggiunse la sua stanza, dove le urla erano di molto amplificate. Spalancò la porta senza bussare e si ritrovò davanti ad una scena fin troppo conosciuta.

-Ti ho detto di no, Annie! Quante altre volte te lo devo ripetere?- sbraitò Jackie, le mani sui fianchi, svettando su di Annie forte dei pochi centimetri in più di altezza.

-Ma cosa ti costa! Tu non lo indossi mai! Per una sola sera, dai!- ribatté Annie, il volto rosso acceso deformato dalla rabbia.

-Non insistere!-

-Sei una vipera!-

-E tu una mocciosa viziata!-

-Strega!-

-Alt, alt, alt! Okay, basta così!- si intromise Autumn a quel punto, le mani alzate a dividere le due, seriamente sul punto di ingaggiare una lotta.

-Allora, mi spiegate cosa succede?- chiese poi, lo sguardo che andava da una all’altra, in attesa di risposte.

-Chiedilo a quella stupida! Per una volta che le chiedo un favore non è capace neanche di aiutarmi!- urlò ancora Annie. Jackie sbuffò e incrociò le braccia, un sorrisetto incredulo sul viso, mentre scuoteva la testa.

-E in cosa consiste questo favore?- domandò Autumn paziente.

Annie camminò a grandi passi verso la camera di Jackie, tornando poco dopo con in mano un abito bordeaux.

-Le ho chiesto di prestarmi questo vestito per la festa di stasera, ma no! Sua maestà è troppo altezzosa per pensare di prestarmelo per un paio d’ore!- urlò sprezzante Annie, sempre rivolta a Jackie. Quest’ultima scoppiò in una risata di scherno.

-Fottiti, Annie. Ho perso fin troppo tempo con le tue idiozie- fece segno di lasciar perdere con la mano e tornò nella sua stanza, non prima di aver ripreso (o meglio, strappato) il suo vestito dalle mani della più piccola.

-Ti odio!- urlò Annie di rimando, ricevendo solo una porta sbattuta in faccia come risposta.

Autumn si portò le mani alle tempie. Un abito. Stavano litigando per un abito. Se da un lato non riusciva a crederci, dall’altro si aspettava in effetti che il motivo della lite potesse essere così frivolo. Annie e Jackie tendevano a discutere su tutto. Erano troppo diverse tra loro e spesso la differenza di età pesava ulteriormente. L’unico problema è che se Jackie poneva fine alle discussioni con una semplice alzata di spalle, Annie, di natura più fragile, tendeva a interiorizzare e ingigantire i litigi più del dovuto. E il crollo emotivo era sempre dietro l’angolo.

Infatti, mentre Autumn rifletteva sul da farsi, Annie si era rannicchiata sul suo letto, le ginocchia strette al petto, e singhiozzava in silenzio.

Autumn le si sedette vicino e le circondò le spalle con il braccio.

-Andiamo, Annie, non è successo nulla… non fare così…- la confortò Autumn.

Annie alzò gli occhi arrossati e li fissò in quelli dell’altra.

-Ma… ma Jackie m-mi tratta sempre male! Non… non la sopporto! E da quando te ne sei a… andata è stato sempre p-peggio!- singhiozzò Annie, buttandosi nell’abbraccio di Autumn.

Lei la strinse a sé e la cullò piano, chiudendo gli occhi. Ed ecco che ancora una volta il peso delle sue azioni e del suo passato tornava prepotente ad interferire con il presente. Quando pensava di aver trovato un attimo di tregua, tutto si complicava di nuovo. Avrebbe voluto tanto resettare la sua vita in quei momenti.

Ma il problema attuale era un altro, si riscosse Autumn, cioè pensare ad Annie. Sapeva che Jackie non aveva cattive intenzioni nei confronti dell’altra, ma conoscendo la ragazza più grande sapeva anche che a volte poteva risultare… brusca, ecco. La delicatezza non era uno dei pregi di Jackie.

-Ascolta, Jackie non ce l’ha con te. È solo un po’ stanca per il lavoro, ecco tutto. Non la prendere sul personale- disse leggera Autumn, accarezzando i biondi capelli dell’altra. Annie alzò la testa, le labbra tremanti nel tentativo di fermare il pianto.

-Ma io come faccio adesso? Avevo bisogno di quel vestito! Era così adatto per la festa…- disse triste, imbronciata.

Autumn ci pensò su un attimo e le venne un’idea.

-A questo si può rimediare. Ho il vestito che fa al caso tuo- sorrise di fronte agli occhi illuminati di gioia di Annie.

Si alzò dal letto e cercò nell’armadio fra i pochi abiti che erano rimasti, di quelli che ancora non aveva portato nel suo nuovo appartamento durante il trasloco. Pregò che fosse tra quelli e non tra gli altri che aveva già trasferito. La sua richiesta venne esaudita.

Tirò fuori un abito di cotone bianco, ad altezza ginocchio, con piccole strisce ricamate di rosso lungo le maniche, il corpetto e la gonna. Lo mostrò ad Annie.

-Ti piace?-

Annie rimase a bocca aperta e subito saltò in piedi per vederlo da vicino.

-L’ho preso quando mi trovavo in Ucraina. I ricami ricordano quelli degli abiti tradizionali, ma il taglio è più moderno. Mi piacque sin da subito- spiegò Autumn con un sorriso nostalgico, mentre Annie accarezzava il tessuto morbido.

-È stupendo…- commentò assorta.

-Allora cosa aspetti? Corri a lavarti e provalo-

Annie annuì e in un batter d’occhio fece quanto detto e tornò in camera indossandolo. Le cadeva a pennello, sembrava pensato apposta per lei. Autumn la aiutò anche ad acconciarsi i capelli in due lunghe trecce francesi, che donavano ad Annie quell’aria di innocenza e purezza a lei così congeniale. Si occupò di truccarla e diede gli ultimi tocchi all’aspetto generale, prestandole anche degli accessori in più. Alla fine Annie era perfetta, pronta per la serata e con il buonumore ritrovato.

-Autumn, sei un angelo!- esclamò saltandole al collo. L’altra ridacchiò, ricambiando la stretta.

-Tu pesa solo a divertirti stasera e a fare la pace con Jackie domani, intesi?- si assicurò Autumn prendendola per le spalle.

Annie annuì solenne e le scoccò un sonoro bacio sulla guancia, prima di correre via verso la sua serata.

Autumn sospirò, sentendosi improvvisamente stanchissima. Si sedette sul letto per recuperare le forze necessarie ad un ultimo sforzo. Quindi si recò alla porta di Jackie e bussò piano.

Un Avanti a mezza voce le diede il permesso di entrare. Jackie era seduta alle sua scrivania, di spalle al letto e alla porta. Non si voltò all’arrivo di Autumn, né quando questa si sedette sul letto dietro di lei.

Trascorsero un paio di minuti di silenzio, rotti solo dal veloce movimento delle mani di Jackie sulla tastiera del suo laptop.

-Pensavo che avessimo superato la soglia dei traumi adolescenziali del “O mio dio, cosa mi metto stasera?”. Lo davo per scontato da qualche mese a questa parte- commentò infine Jackie, rompendo la quiete.

-Certo, anche tu non sei di aiuto… com’è che ti ha chiamato? Ah, sì, vipera- rispose Autumn divertita.

-Ma sì, perché io ormai sono diventata la peggior sciagura di questa casa, la causa di tutti i mali, l’angelo della Apocalisse!- esclamò Jackie con un vocione esageratamente grosso che fece scoppiare a ridere Autumn fino alle lacrime.

-Sul serio, dai, che ti è preso prima? Avresti potuto prestarle quell’abito in fondo- disse poi, asciugando le guance bagnate.

Jackie sbatté le mani sulla scrivania e si voltò sulla sedia girevole con teatrale lentezza. Fulminò Autumn e con la bocca serrata si alzò per estrarre ancora dall’armadio il capo di abbigliamento della discordia. Lo gettò addosso all’altra perché lo studiasse. Autumn lo fece, ma non ci trovò nulla di strano. Alzò un sopracciglio all’indirizzo della più grande, interrogativa. Jackie si spazientì.

-Ti sembra il caso di far andare Annie in un covo di ventenni ubriachi, festanti e probabilmente pure fatti con addosso un vestito che le avrebbe coperto a stento metà delle cosce? Ti prego, non voglio neanche pensare a cosa sarebbe potuto succedere- rabbrividì Jackie.

E allora Autumn capì. Quella di Jackie era solo preoccupazione nei confronti della più piccola di loro. Forse con modi non convenzionali e con poco tatto, ma quello che Jackie intendeva fare era salvaguardare Annie. Doveva immaginarlo, dopotutto Jackie aveva praticamente cresciuto Annie, era molto protettiva nei suoi confronti, anche se non lo voleva dare a vedere.

-Ipocrita. Tu puoi mostrare le tue bellezze al mondo e lei no?- la stuzzicò Autumn tanto per prenderla un po’ in giro.

Ottenne l’effetto sperato, perché Jackie spalancò la bocca esterrefatta.

-Come, scusa? Ti ricordo che ho praticato judo per tre anni, in più da bambina ho steso così tanti maschi a scuola che neanche John Cena a dieci anni avrebbe potuto reggere il confronto! Un uomo dovrebbe solo provarci ad aggredirmi, dopodiché se ne tornerebbe con la coda fra le gambe tra le gonnelle di mamma e con un testicolo in meno di cui vantarsi- puntualizzò Jackie, un dito sollevato e l’altra mano sui fianchi.

-La strategia di Annie sarebbe più simile all’urlare come una pazza finché qualcuno non viene a salvarla, non credo che riuscirebbe soltanto a pensare di far male a qualcuno. E ne sento fin troppe di storie di questo genere finite nel peggiore dei modi. Perciò non tirare fuori la storia dell’ipocrisia, Autumn, perché sul serio, hai torto su tutti i fronti- concluse Jackie.

-Sei più simpatica quando ti preoccupi- sorrise Autumn allora.

Jackie fece uno sbuffo e si rimise a sedere pesantemente. Nascose il viso fra le mani.

-Sono troppo vecchia per fare da babysitter. Ne ho abbastanza delle sue scenate da tredicenne con gli ormoni a mille- borbottò stanca.

-Questo è perché non sai prenderla per il verso giusto. Sei troppo severa con lei, ricordati che non è più una bambina, per quanto tu la consideri tale e la ritieni incapace di capire i tuoi timori-

In quella Jackie alzò la testa di scatto e le scoccò una occhiataccia.

-Non è una bambina legalmente forse, ma ti assicuro che a livello cerebrale è rimasta proprio come l’hai lasciata. E la mia pazienza si riduce in modo esponenziale a ogni nuovo capriccio. Credimi, è una tortura- disse tetra.

-Tremo al pensiero di quando avrai dei figli, Jackie. Ho già compassione di loro- commentò la più piccola. Jackie sbuffò, il solito ciuffo davanti al viso sbalzato via.

-Figli? Io? Penso che sia più probabile che ghiacci l’inferno. Io e i marmocchi non andiamo d’accordo-

Autumn ridacchiò e si rialzò.

-Sei una causa persa. E Ray è un santo a tenerti ancora in casa- concluse, diretta verso la porta.

-E dove staresti andando adesso?- la richiamò Jackie. Autumn si voltò di nuovo.

-A casa. Qui non c’è più niente da fare. Papà mi aveva chiesto di riappacificarvi-

Jackie fece segno di no con la testa, schioccando la lingua e accavallando le gambe.

-Questa sera non mi sfuggi. Milo ci ha invitate entrambe a uscire e tu verrai ad ogni costo. È ora che tu lo conosca- annunciò solenne.

Appena lo disse Autumn ricordò di nuovo tutti i drammi psicologici che l’avevano afflitta in quei giorni. La paura che il Milo conosciuto al locale potesse essere lo stesso che l’aveva invitata ad uscire la paralizzò. Questo avrebbe voluto dire incontrarlo di nuovo. E non in un’occasione qualunque, ma proprio insieme a Jackie.

No, non andava bene per niente.

-Scusami, Jackie, ma stasera sono davvero troppo…-

-Stanca, lo so. Oggi sei troppo stanca, domani hai un altro impegno e dopodomani devi lavorare. E arrivederci alla nostra uscita. Ti prego, risparmiami questa deprimente cantilena- la pregò Jackie, stufa di sentire sempre le solite scuse da parte dell’altra per non uscire insieme.

Autumn si mordicchiò il labbro inferiore, nervosa per la risposta da dare a Jackie. Avrebbe dovuto andare? E se poi fosse rimasta pentita? Ma non poteva essere così, giusto? Milo doveva essere un’altra persona. La legge dei grandi numeri servirà pure a qualcosa, no?

-Solo per questa volta non puoi fare un’eccezione nella tua rigida agenda finesettimanale? Giuro che ne vale la pena- insistette Jackie, le sopracciglia aggrottate.

Autumn capì che ci teneva davvero quella volta e che le stava chiedendo un piccolo sforzo in più per un favore che di rado domandava. Non poteva deluderla ancora.

-Va bene, andiamo- cedette infine.

E mentre Jackie alzava le mani al cielo ringraziando tutte le divinità che le venivano in mente, Autumn si sciolse in una risata. Sarebbe andato tutto bene, ne era certa. O quantomeno lo sperava con tutto il cuore.

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Capitolo 10
*** Cap. 9 ***


Dopo un saluto veloce a Ray, Annie corse fuori di casa, in attesa che Malcolm e Trisha venissero a prenderla per andare insieme alla festa. Era contenta di andare lì quella sera, visto che avrebbe incontrato molti altri amici. Sapeva che sarebbe stata una bella serata e non stava più nella pelle. Certo, tutto sarebbe andato ancora meglio se Jackie non avesse fatto quella scenata. Al pensiero della sorella, Annie provò ancora rabbia. A volte non riusciva proprio a capire il perché Jackie agisse in quel modo. Dopotutto le aveva chiesto un semplice favore, nulla di importante o gravoso, perché allora reagire così? Annie scosse la testa, non riusciva proprio a sopportare alcuni atteggiamenti. Era una persona pacifica e positiva, ma alcune cose la urtavano in maniera indicibile.

Quasi inconsciamente, Annie cercò nella borsetta un oggetto. Lo tirò fuori e lo rigirò nelle mani pensierosa. Era il fazzoletto che qualche giorno prima le aveva regalato quel passante e che lei aveva preso l’abitudine di portare con sé. Aveva ripensato molto all’incontro con quel ragazzo, che aveva lasciato un impercettibile ma profondo segno in lei. Annie tendeva a credere nel destino, come appartenente alla categoria inestinguibile dei sognatori. In cuor suo sapeva che ritrovare una persona a caso in una città come New York era impossibile, ma questo non la dissuase dalla scelta di trasportare il fazzoletto ovunque andasse, con la speranza di essere baciata dalla fortuna e poterlo restituire al bel proprietario.

Annie sentì un clacson suonare e notò che erano arrivati gli amici. Rimise il fazzoletto in borsa, ripiegato con cura, e sorrise fiduciosa. Bastava crederci, e tutto sarebbe andato per il meglio. Quindi saltò in macchina rincuorata e partì per la festa.

 

La prima cosa che Trisha fece una volta scesa dall’auto fu squadrare da capo a piedi Annie.

-Ma non dovevi mettere quel vestito di Jackie?- chiese subito con fare critico. Annie alzò gli occhi al cielo.

-Ti prego, non ne parliamo, è una storia lunga. In compenso Autumn me ne ha prestato un altro!- disse allegra, facendo una piroetta su se stessa.

Malcolm fece un fischio di approvazione.

-Non so come sia l’altro abito, ma questo ti sta più che bene-

Annie dissimulò l’imbarazzo con una risata. Anche Trisha annuì sovrappensiero, con un verso di assenso.

-Decisamente sì. Stasera li stendi tutti. E ti prego, mettiti di impegno- si raccomandò.

Annie arrossì fino alla punta dei capelli. Era frequente che Malcolm e Trisha si interessassero dei suoi rapporti sentimentali. Per farla breve, Annie era tipicamente sfortunata in amore. Cosa strana per gli amici, dato che era una ragazza più che adorabile, sempre pronta a prestare il proprio aiuto e a sostenere fino in fondo la propria dolce metà, forse con il piccolo difetto di credere troppo nell’amore. Aveva comunque conosciuto dei ragazzi che la avevano mostrato delle attenzioni durante il liceo ed Annie aveva ceduto all’idea che di fronte a sé avesse l’uomo della sua vita. Ogni volta. Questo la portava a dedicarsi anima e corpo alla relazione con questo o quel ragazzo, dando troppo e ricevendo poco in cambio. Dopotutto non si sarebbe potuto chiedere al suo fidanzatino dei quindici anni di giurarle eterna fedeltà. O a quello dei diciassette di cominciare a progettare il loro futuro insieme. Inevitabilmente scappavano tutti, spaventati dalla serietà con cui Annie prendeva ogni relazione o troppo immaturi per pensare di gettare le basi per un rapporto serio.

Dopo una lunga serie di disastri e delusioni, Annie aveva sbarrato il capitolo “uomini” con una grande croce, per rimanere in guardia nel futuro, e da molto tempo aveva rinunciato a trovare il suo principe azzurro. Sperava in un colpo del destino, appunto, confidando passivamente nella possibilità che l’uomo della sua vita le si presentasse di fronte all’improvviso, cavallo bianco e armatura splendente inclusi nel prezzo.

Trisha e Malcolm la pensavano diversamente. Il fatto che Annie fosse convinta del suo lieto fine da favola non era sano, perché la fermava dal cercare attivamente qualcuno. E dato che amavano interessarsi alla vita sentimentale dell’amica e a volte ficcare il naso in affari che non li riguardavano, ogni volta che si presentava l’occasione giusta erano lì a spingere Annie a fare il primo passo. Quella sera non era da meno.

-Promettetemi di non lasciarmi sola come sempre. Ogni volta la stessa storia, mi abbandonate da qualche parte e vi perdo. Stasera non ci sto- intimò però Annie.

Trisha e Malcolm si mostrarono offesi.

-Hai così poca fiducia in noi?- chiese allibito Malcolm.

-Assolutamente sì- confermò Annie.

E infatti, neanche il tempo di entrare nell’enorme villa di Drew MacKinnon e salutare il padrone di casa, che i due gemelli erano già scomparsi nella folla di gente che ballava, cantava a squarciagola e in generale dava di matto.

Annie alzò gli occhi al cielo, sapeva che sarebbe andata in quel modo. Decise di fare un giro per la festa, vedere se incontrava qualcuno di sua conoscenza. Ma c’erano davvero troppe persone lì dentro e le poche che riconosceva erano già troppo ubriache per pensare di instaurare una conversazione normale. Prese allora una birra dalla cucina, piena di ragazze seminude nei loro vestiti attillatissimi, che vedendola entrare si misero a ridacchiare sguaiate.

A disagio di fronte a quello scempio di umanità, tornò nella sala principale, i muri vibranti di musica tecno di bassa categoria. Poiché anche il tentativo di sedersi sul divano più vicino andò in fumo quando una coppietta le si gettò praticamente addosso nell’atto di un intenso pomiciamento, Annie decise che quella festa non era proprio per i suoi gusti.

Abbandonò la birra da qualche parte e si avviò verso l’uscita più vicina. Dal soggiorno si accedeva nel grande giardino della villa, nella cui piscina alcune matricole si erano tuffate con tutti i vestiti addosso. Dalla finestra della cucina, invece, aveva notato la presenza di un cortile più piccolo e quasi di certo vuoto. Fu lì che decise di nascondersi, almeno finché Trisha e Malcolm non avessero deciso di farsi vivi a controllare che lei si stesse divertendo. Traditori.

Annie scosse la testa al pensiero e subito aprì la porta della cucina per uscire fuori. Era un cortile chiuso, circondato da un muro, in cui si apriva una porta che presumibilmente conduceva alla piscina. Accanto al muro una piccola casetta degli attrezzi, un cassonetto di rifiuti e una panchina. Sulla panchina una persona.

Annie pensò di ritornare dentro, senza trovare la voglia di rivolgere la parola a quel ragazzo seduto, gli occhi sul cellulare, i gomiti puntati sulle ginocchia. Solo quando l’altro alzò lo sguardo, al sentire l’arrivo di qualcun altro, Annie decise che c’era più di un motivo valido per parlare con quel tipo. Certo, se il suo cuore non si fosse fermato con il rischio di farle venire un infarto.

Perché proprio lì di fronte a lei, nel viso nascosto da un paio di grandi occhiali neri e da un ciuffo di capelli scuri, riconobbe il viso del passante che pochi giorni prima l’aveva investita prima e soccorsa poi. Era lì, era davvero lì, santo cielo.

-Scusami, non volevo disturbarti- disse in fretta, tanto per dire qualcosa.

Il ragazzo scosse la testa e scattò in piedi.

-No, no! Non… disturbi. Se vuoi rimanere da sola posso andare via io- subito ribatté l’altro. Annie arrossì, facendosi avanti.

-Volevo solo una boccata d’aria, non mi fermerò molto. Puoi restare. Se vuoi, eh- si affrettò ad aggiungere.

Il ragazzo accennò un sorriso e si risedette. Annie lo imitò, a distanza di sicurezza. Scese un silenzio pesante. Annie cominciò ad agitarsi.

Cosa faccio? Cosa faccio?, si ripeteva in testa allarmata. Era la situazione più strana in cui trovarsi. Per un attimo pensò di essersi davvero sbagliata. Poteva trattarsi di qualcuno di molto simile al bel passante, un ragazzo totalmente diverso. Eppure osservandolo di sottecchi seppe che non si sbagliava. Era impossibile per lei confonderlo, con quelle lentiggini sul viso, la bocca carnosa, anche allora tormentata in un gesto di nervosismo, e i grandi occhi neri. Senza accorgersene si mise a fissarlo, come a voler confrontare ogni ricordo di lui con la copia in carne ed ossa che si trovava davanti. Scoprì senza stupore che preferiva la seconda versione.

Prorompente nacque in lei la voglia di rivolgergli la parola, di attaccare un discorso, uno qualsiasi. Desiderava scoprire qualcosa di più del ragazzo, ostinatamente voltato dall’altra parte. Ma proprio a causa di quel gesto una pericolosa idea si fece strada nella sua testa. E se l’altro non si ricordasse di lei? Se non si fosse accorto che si erano già incontrati? Dopotutto si erano incrociati per pochi secondi in una strada piena di gente. Quello di Annie era un volto come un altro nella folla. E soprattutto, perché avrebbe dovuto ricordarsi di aver donato il fazzoletto a lei?

Annie credeva nel destino, ma non era detto che il destino fosse dalla sua parte in quel caso.

-Bella festa, vero?-

All’improvviso, lo sconosciuto aveva parlato. Niente più che tre parole sussurrate nella notte limpida, la voce stridula, indecisa.

-Già… non proprio il mio tipo di festa preferito…- confessò Annie. Non si aspettava che fosse l’altro a rivolgerle la parola. Fu una piacevole sorpresa.

-Neanche per me. Però alcuni amici mi hanno spinto a venire e allora…- lasciò la frase in sospeso lui.

-Ti capisco. Lo hanno fatto anche i miei amici. E poi mi hanno abbandonata da sola, ahimè-

Lui sbuffò una risata accennata, che fece stringere in una morsa deliziata la pancia di Annie.

-Sarebbe meglio dire bella sfortuna, allora- sorrise di sbieco.

-Altroché. Il bello è che succede sempre così-

A quella risposta il ragazzo si sciolse in una risata più convinta, trascinando con sé anche Annie. Risero per un po’, vicini comunque nella loro distanza sulla panchina. Alla fine il ragazzo si voltò e stese la mano.

-A proposito, io sono Brian. Piacere di conoscerti-

-Annie, piacere mio-

Si strinsero brevemente la mano ed Annie sentì il calore di quella morbida dell’altro risalirle per il braccio e diffondersi in tutto il corpo.

Brian intanto continuava a fissarla assorto, mettendola in soggezione.

-Posso farti una domanda indiscreta?- chiese poi. Annie annuì curiosa.

-Per caso ci siamo già incontrati? Ho l’impressione di averti già vista, forse in facoltà alla New York University?-

Annie sgranò gli occhi. Allora si ricordava! Si ricordava di lei!

-In realtà sì, credo proprio di sì. Ma non all’università- confermò Annie al settimo cielo.

Si accorse che Brian non capiva cosa intendesse dire e si affrettò a rimediare. Prese la borsetta e dopo una breve ricerca tirò fuori il famoso fazzoletto. Lo porse a Brian aspettando la sua reazione.

Lui lo prese e se lo rigirò fra le mani con un’espressione confusa. Solo dopo pochi secondi comprese. E spalancò la bocca esterrefatto.

-Non ci posso credere! Sei la ragazza che ho fatto cadere per strada!- esclamò ad alta voce.

Annie scoppiò a ridere e annuì veloce. Brian era incredulo.

-È incredibile…- mormorò ancora intento a scrutare il fazzoletto.

-Lo so, l’ho pensato anche io quando sono arrivata qui. Pensavo di sbagliarmi quando credevo di averti già visto, ma a quanto pare è proprio così. Ne posso approfittare per restituirti il fazzoletto almeno-

Brian la guardò furtivo da dietro gli occhiali e arrossì.

-Figurati, mi sarebbe piaciuto lo stesso se lo avessi tenuto tu- confessò a bassa voce.

Annie sentì il viso in fiamme per l’imbarazzo e le labbra piegarsi contro la sua volontà per mostrare apertamente la gioia a quelle parole.

Senza sapere come, a poco a poco la soggezione verso Brian sparì e mentre lui offriva piccoli spunti di conversazione, magari con qualche domanda casuale, Annie sentì che si stava lasciando andare. Era una bella sensazione dopo tanto tempo in cui aveva evitato ogni contatto di quel tipo con gli uomini, eppure sentiva che parlare con Brian le risultava naturale e facile, come se si conoscessero già da anni. E la conversazione fece loro perdere il senso del tempo, che intanto segnava lo scorrere di più di due ore nelle quali i due avevano discusso senza fermarsi.

Annie scoprì che i suoi sospetti erano fondati, anche lui era uno studente della New York University, proprio come il logo sulla sua borsa le aveva suggerito. Studiava legge ed era all’ultimo anno di corso, poi avrebbe desiderato diventare un avvocato.

-Mi piacerebbe essere un avvocato per i minori. Ho sempre avuto il desiderio di aiutare i bambini e ragazzi che non hanno abbastanza forza per proteggersi da soli. È ingiusto che alcuni bambini crescano in modo sereno e altri siano costretti a vivere in famiglie che non danno loro il giusto amore- commentò Brian, fissando a fondo la lattina di birra che poco prima era andato a prendere in cucina per entrambi. Annie lo guardò con occhi brillanti di emozione.

-Hai perfettamente ragione. Sai, anche io…- aveva cominciato a raccontare, sicura che dire a Brian alcune cose personali non sarebbe stato un errore.

Proprio in quel momento però la porta della cucina si aprì di scatto.

-Annie, eccoti dannazione!- quasi gridò Trisha -È un’ora che ti cerco!-

-Perché? Cosa succede?-

-Quel gigantesco idiota di Malcolm ha pensato di scolarsi la metà della tequila di questa casa in una gara di bevute! E ora il coglione non si regge in piedi, dobbiamo riportarlo a casa!- si infervorò Trisha, neanche lei proprio sobria.

Annie si voltò subito verso Brian, che aveva seguito la scena in silenzio. Questo voleva dire che avrebbe dovuto lasciarlo? Andarsene con il rischio di non incontrarlo mai più?

No, non può finire così, si disse disperata.

Brian le fece un sorriso forzato.

-Devi andare allora-

-Così pare…-

Scese un breve silenzio, mentre Annie si alzava il più lentamente possibile, come a voler allontanare da sé il momento dell’addio, e Brian la imitava.

-Beh… è stata comunque una bella serata… mi ha fatto piacere stare con te- esordì Brian poco dopo, la mano tesa di nuovo verso Annie. Lei la strinse, a disagio.

-Sì, è stato bello…-

Poiché Trisha cominciava a dare i primi segni di impazienza per andarsene il prima possibile, Annie fu costretta a lasciar andare Brian e salutarlo con la mano e un piccolo sorriso afflitto.

Si voltò, seguendo Trisha verso l’uscita, e proprio quando con un piede aveva già varcato la soglia Brian intervenne.

-Aspetta un attimo, Annie!- la richiamò ad alta voce e la raggiunse.

-Ecco… so che ci conosciamo da poco, praticamente da qualche ora soltanto, ma mi piacerebbe… sempre se tu vuoi… poterci scambiare i numeri di telefono se non ti pesa. Sai, per parlare un’altra volta magari- Annie notò che arrossiva dicendo quelle cose e si torturava le mani nel tentativo, peraltro inutile, di nascondere il suo nervosismo nel fare quella proposta. E forse per la gioia di sapere che non lo avrebbe perso un’altra volta, forse per il sollievo di scoprire che anche lui ci teneva a non perderla, Annie pensò che in quell’istante Brian era più bello che mai.

-Certo! Piacerebbe anche a me!- rispose Annie, con evidente enfasi e fretta. Brian non si aspettava la risposta positiva e a sentirla si aprì in un grande sorriso sollevato.

Ognuno dei due prese il cellulare dell’altro e digitò il proprio numero, salvandolo. Quindi si salutarono ancora una volta, con più calore di prima.

Annie non riusciva a contenere la propria gioia. E anche se adesso era costretta a camminare verso l’auto con un braccio di Malcolm intorno alle spalle e il suo peso morto da trasportare, non riusciva a smettere di sorridere.

Forse era proprio quello il colpo del destino che aspettava.

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Capitolo 11
*** Cap. 10 ***


N.d.A.
Con un po' di anticipo rispetto al mio piano, eccovi servito il nuovo capitolo. È stato piacevole scriverlo, spero che lo sia anche per voi leggerlo. E a questo proposito colgo l'occasione per ringraziare tutti coloro che leggono, inseriscono la storia tra le seguite e recensiscono (lithium, ecco il capitolo che aspettavi!). 
Se trovate il tempo per lasciare qualche commento/critica/consiglio accolgo con gioia le vostre recensioni. Giuro di rispondere e di non mordere...
Grazie ancora e buona lettura!
musicislife17


 

L’appuntamento con Milo era per le otto e mezza ad un ristorante cinese a Tribeca. Autumn non lo conosceva, Jackie assicurava che era fantastico e se lo diceva lei c’era da starne certi. Le due ragazze si sarebbero recate lì con l’auto di Jackie, Milo le avrebbe raggiunte da solo. Presentazione, cena, saluti e Arrivederci, è stato un piacere conoscerti.

Il piano era semplice, si disse Autumn, già in auto con Jackie. Nulla di particolare contraddistingueva quella serata da una qualunque con altri amici. Gli unici aspetti critici erano due: innanzitutto il fatto che la persona che stava per conoscere non era uno qualunque, ma il primo fidanzato serio che Jackie avesse da anni, forse l’unico di cui sembrasse davvero convinta; in secundis, il fatto che per una possibilità infinitesimale il suddetto ragazzo potesse conoscerlo già. Soprattutto l’ultima prospettiva era quella che più la preoccupava.

Era solo un’idea, una paura infondata, se ne rendeva conto. La possibilità che l’uomo del locale, il Maestro, come lo aveva chiamato Izzy, fosse per un’enorme coincidenza anche il ragazzo di Jackie era così remota che non ci sarebbe stato neppure bisogno della matematica per dimostrarlo. Però era impossibile non domandarsi se fosse stato davvero così, se la sua buona stella non si fosse presa una vacanza senza avvertirla per cacciarla in un mare di guai. Perché il problema di fondo era uno: a lei era piaciuto Milo. Quel Milo, era bene specificare, perché no, non poteva essere lo stesso che stava per conoscere quella sera. L’attrazione che aveva sentito verso l’altro non era indifferente, non era un semplice apprezzamento del pur evidente fascino che lo caratterizzava. Per pochi attimi si era instaurata con lui una complicità che Autumn sapeva di non essere in grado di creare con tutti. E ritrovarlo di fronte sapendo che quella complicità non poteva esistere, perché doveva essere riservata di diritto a Jackie, non sarebbe stato facile.

-Okay, dimmi cosa succede-

Jackie interruppe di colpo i suoi tumultuosi pensieri. Si voltò verso di lei interrogativa e la trovò a scrutarla con attenzione. Erano ferme ad un semaforo rosso e Jackie attendeva una risposta.

-Non capisco cosa intendi- disse Autumn, fingendo nonchalance. Sapeva che con Jackie non avrebbe attecchito, ma ci provò comunque.

-Cazzata numero uno. 15-0. Te lo ripeto, dimmi che succede. Cosa ti prende adesso?- ribatté noncurante Jackie.

Autumn si morse l’interno della guancia. Anche se era inutile, non voleva cedere.

-Niente, Jackie. Sono tranquillissima. Sei tu a farti troppi problemi-

-Cazzata numero due. 30-0. Aspetto che tu mi dica cos’hai prima di raggiungere il ristorante, altrimenti mi vedrò costretta a chiuderti in macchina finché non vuoti il sacco-

Il semaforo intanto si era illuminato di verde e Jackie aveva riportato gli occhi sulla strada.

Adesso che non la guardava, Autumn si lasciò andare contro il poggiatesta, stanca della situazione.

-Ti detesto quando mi fai il terzo grado e credi di sapere tutto. Mi ricordi papà, ma sei più inquietante- borbottò al suo indirizzo. Jackie non fece una piega.

-Cazzata numero 3. Io so tutto, non lo credo. 40-0 e stai rischiando la partita, mi concedi tre match point così. E per la cronaca, siamo arrivate, quindi deciditi a dirmi in poche e concise parole cos’hai. È sabato sera, il mio cervello assorbirà solo informazioni essenziali- concluse, una mano dietro al poggiatesta di Autumn, voltata verso il finestrino posteriore, mentre con una manovra degna di un tassista consumato parcheggiava nello spazio ristretto che aveva trovato.

Autumn esitò ancora un po’ prima di rispondere, considerato che non c’erano alternative. Scelse le parole con cura, cercando di dissimulare al meglio la sua reale preoccupazione.

-Sono solo un po’ nervosa per stasera. Sai, è raro che tu ci presenti qualcuno. Non vorrei fare brutte figure, dato che per te è una persona così importante- spiegò Autumn, mentre si rigirava fra le mani un lembo della maglia che indossava.

Jackie non parlò subito, rimase solo ad osservarla con intensità.

-Non so se il mio rilevatore di cazzate si è rotto, ma questa non mi sembra tutta la verità. Perciò le possibilità sono due: o accuso i colpi del fine settimana tanto da non distinguere bene la verità di quello che dici, o continui a nascondermi qualcosa-

Autumn scosse la testa e la fissò a fondo.

-Ti giuro che è così. Ho sinceramente paura di quello che potrebbe pensare Milo di me- confessò ed era abbastanza sincera da eludere il cosiddetto rilevatore di cazzate di Jackie, sempre in funzione e sempre ben calibrato.

Infatti, quella mezza verità sembrò convincere finalmente Jackie. Si sistemò meglio sul sedile, voltandosi il più possibile per fronteggiare la più piccola.

-Ascoltami, Autumn. Sai che ti direi subito se la persona che stai per incontrare è o non è del tuo genere. Capisco che possa sentirti in soggezione, ma fidati di me quando ti dico che Milo ti adorerà. Non sto esagerando, è un tipo amichevole, alla mano. Ha aspettato tanto per conoscerti e tutte le volte che gli parlavo di te diventava sempre più curioso. Sono sicura che andrà tutto bene- la consolò, con modi più pacati del solito, inusuali per lei.

Autumn si lasciò convincere da quelle parole e meditò in silenzio per un istante. Sarebbe andato tutto bene.

-Me lo assicuri?- chiese comunque conferma.

-Assolutamente- affermò con forza Jackie.

Fece per scendere dall’auto quando si ricordò di un’ultima cosa.

-E poi tu e Milo avete molto in comune. Forse non te l’ho detto, ma anche lui è un musicista-

 

Milo correva a perdifiato verso il ristorante che Jackie gli aveva indicato per messaggio. La Juilliard aveva appena chiuso e come al solito gli inservienti avevano dovuto praticamente buttarlo fuori di lì, ci tenevano anche loro al proprio sabato sera dopotutto. E il ragazzo aveva l’abitudine di aggirarsi per l’accademia dalla mattina presto fino all’ultimo minuto di sera, sabato incluso. Cosa ci poteva fare se riteneva che il luogo fosse così stimolante per studiare e lavorare?

D’altra parte, il fatto di essere sempre rintanato lì dentro lo portava a fare tardi per qualsiasi altro appuntamento. Milo era senza dubbio un ritardatario cronico di quelli gravi, che sono in grado di presentarsi anche dopo ore di attesa. Era del tutto incapace di impostare un orologio interiore per capire quando era il caso di staccarsi dai libri e andarsene.

Quella sera non era da meno. La borsa che sbatacchiava alle sue spalle, una mano a reggere al suo posto il solito fedora, sfrecciava tra la gente diretto all’appuntamento. In via del tutto eccezionale, poiché finalmente avrebbe conosciuto la famosa Autumn e anche perché Jackie l’aveva minacciato di orribili torture se si fosse presentato più tardi di venti minuti, quella volta era in relativo anticipo. Per i suoi standard, si intende, il che traslato in orari umani intendeva dire che si aggirava comunque intorno al quarto d'ora di ritardo.

All’angolo della strada su cui avrebbe dovuto svoltare trovò un venditore ambulante di fiori e colpito da un’idea improvvisa comprò due rose, una bianca e una rossa. Quindi proseguì fino al ristorante e quasi travolgendo alcuni ospiti che uscivano entrò in fretta e rumorosamente. Fece un piccolo inchino di scuse alla cameriera che lo fulminò per la confusione che aveva fatto e si guardò intorno.

Jackie era seduta ad un tavolo in fondo alla stanza. Di fronte a lei c’era una ragazza di spalle alla porta, di cui Milo distingueva solo i lunghi capelli castani. Si affrettò a raggiungere il tavolo con un sorriso innocente.

Jackie lo squadrò per bene e alzò un sopracciglio.

-Eravamo chiari sul limite di venti minuti, mon amour- lo accolse ironica.

-Infatti ne sono passati solo diciannove in più del previsto, ma chère. Sono perfettamente in orario- sorrise altrettanto sarcastico lui. Si chiamavano con quegli appellativi zuccherosi solo quando erano in vena di scherzare, per fortuna.

-In più, ti omaggio anche di questa splendida rosa, mio bellissimo fiore- aggiunse melenso con un inchino profondo, togliendosi addirittura il cappello.

Jackie prese la rosa rossa che le porgeva e non seppe trattenersi di fronte alla scena. Ridacchiò sconfitta.

-Basta così, ti prego, altrimenti mi verrà il diabete- commentò divertita.

Milo sorrise trionfante, conscio di aver vinto la piccola battaglia con cui si punzecchiavano di continuo. Si sporse a baciarla lievemente sulle labbra, niente più che un breve saluto per non averla vista per tutto il giorno.

-Ti perdono solo per l’inchino, stupido- borbottò Jackie a fior di labbra. Milo le strizzò l’occhio.

-Mi va più che bene-

Rialzandosi si rese conto di aver totalmente ignorato la presenza di Autumn, dato che si era subito diretto da Jackie. Si voltò costernato e subito stava per scusarsi della maleducazione e per presentarsi alla potenziale cognata, ma le parole gli morirono in gola.

A primo impatto, ciò che catalizzò immediatamente la sua attenzione furono gli occhi di Autumn. Rimase sconcertato a fissarli, tentando di elaborare ciò che aveva davanti in modo razionale. Vedeva del blu, ma vedeva anche del verde. E non sapeva se guardare l’uno o l’altro occhio perché spostando l’attenzione si coglievano sfumature diverse, e non riusciva a spiegarselo. Capì solo dopo svariati secondi che vedeva entrambi i colori perché gli occhi di Autumn avevano davvero sfumature diverse. Il destro era di un indaco tenue, timido quasi, nulla a che fare con il blu intenso delle iridi di Jackie a cui era abituato; il sinistro era color oliva, anche questo pallido e ovattato. Più Milo si convinceva che non era uno scherzo della luce che li rendeva così, più il suo cervello insisteva a dirgli che era impossibile una cosa del genere, o quantomeno così rara che forse l’aveva vista solo un’altra volta in vita sua. Anzi, c’era stata sicuramente un’altra volta.

Allora a poco a poco il viso di Autumn diventò familiare, oltre ai formidabili occhi anche il resto risvegliò un ricordo in lui, il mento sottile e appuntito, il naso piccolo e arrotondato alla punta, le lunghe ciglia scure come le sopracciglia sottili, la carnagione bronzea, i capelli mossi e castani.

-Sei tu!- esclamò allora Milo, le mani incrociate davanti alla bocca, incredulo.

Jackie rimase interdetta, lo sguardo che andava da Milo ad Autumn.

-È lei?- chiese confusa.

-Sono io- confermò Autumn con un sorriso incerto.

Milo scoppiò a ridere e scosse la testa, senza riuscire a credere all’improbabile situazione in cui si era trovato. Autumn era senza dubbio la cameriera che aveva conosciuto a L'angle des artistes l’ultima volta che ci era stato. Come dimenticare qualcuno che riusciva a riconoscere da uno stralcio di spartito che stava studiando la Sinfonia numero 9 di Beethoven?

-Che mi venga un colpo, sei davvero tu!- continuava a ridere di cuore, attirandosi l’attenzione di molti avventori.

Jackie detestava avere l’attenzione su di sé, perciò lo tirò per un braccio facendolo sedere prepotentemente accanto a lei.

-Ti dispiacerebbe smetterla di ridere come un ebete e spiegarmi come fai a conoscerla e perché non ne sapevo niente?- sibilò minacciosa.

Milo trattenne a stento altre risate, ancora fissando Autumn, che sorrideva imbarazzata, il volto abbassato.

-L’ho conosciuta pochi giorni fa ad un caffè dove vado spesso e dove lei lavora- spiegò Milo allegro. Jackie sembrò colpita.

-Dici sul serio?- domandò a Milo -Dice sul serio?- si corresse poi, rivolta ad Autumn.

La più piccola fece un sospiro e annuì con un breve cenno della testa.

-Questo sì che è strano. Beh, io devo comunque rispettare le solite convenzioni borghesi. Perciò Autumn, ti presento Milo, il mio fidanzato; Milo, ti presento Autumn, mia sorella- annunciò Jackie, indicando a turno l’uno e l’altra.

Milo tese la mano sorridente e strinse quella dell’altra.

-È un grande piacere conoscerti finalmente di persona, Autumn-

-Piacere mio- sorrise di rimando lei, gli occhi fissi sulle loro mani più che sul volto di Milo.

Solo allora lui si ricordò di un dettaglio.

-A proposito, questa è per te. Chiedo scusa anche a te per il ritardo, sono un caso disperato- disse con una stretta di spalle e le porse la rosa bianca.

Autumn la prese con un lieve tremito nella mano e ne aspirò il profumo intenso ad occhi chiusi.

-È molto bella- lo ringraziò a bassa voce.

Milo inclinò la testa incuriosito. Autumn le pareva più timida di quanto ricordasse. Era solo un’impressione?

-Per la cronaca, Maestro, ho già provveduto ad ordinare anche per te. Ad aspettare che arrivassi tu avremmo fatto prima ad andare in Cina- interruppe i suoi pensieri Jackie.

Milo si voltò e le sorrise luminoso.

-Hai fatto benissimo, chèrie, mi fido del tuo palato sopraffino- la prese in giro lui e si meritò uno schiaffo sulla coscia di rimando.

Proprio come aveva previsto lui, Jackie aveva scelto una quantità vasta e variegata di piatti, tutti deliziosi, dai ravioli ai noodles, da spiedini di maiale a tofu, tutti con nomi impronunciabili tra cui solo lei si destreggiava con abilità. Lui ed Autumn si limitarono ad annuire alle sue dettagliate descrizioni di ogni piatto, di cui conosceva a memoria ogni ingrediente, e a mandar giù quello che avevano di fronte.

Durante la cena il compito di Jackie fu anche quello di fare da intermediaria tra Milo e Autumn, tentando di presentare aspetti dell’uno e dell’altra per farli conoscere meglio. Ma se Milo accoglieva quei tentativi di conversazione con prontezza, deciso a far amicizia con Autumn e a rompere il ghiaccio della estraneità fra di loro, Autumn sembrava restia ad aprirsi allo stesso modo. Milo notava verso l’altra una inequivocabile distanza, come se Autumn avesse alzato un muro affinché Milo non accedesse ai suoi veri pensieri. Certo, rispondeva alle sue domande e gliene faceva a sua volta e per quanto possibile provava ad offrire anche lei spunti di conversazione, ma Milo sentì che in ognuno di queste azioni lei si tenesse quasi a freno, come a non volersi lasciar andare.

Era strano, rifletteva Milo, perché Autumn era apparsa così tranquilla e spensierata quel pomeriggio in cui si erano incontrati al caffè. Forse accusava la tensione di trovarsi lì con uno sconosciuto? Se fosse stato per quello, Milo voleva davvero che Autumn si rilassasse, che fosse a proprio agio in sua presenza.

Lanciò un’occhiata a Jackie, per chiederle silenziosamente se Autumn avesse qualche problema con lui, dato che ad una sua ennesima domanda aveva risposto ancora a fatica, come se non avesse voluto farlo. La sua compagna fece un impercettibile cenno di diniego con la testa e mimò uno Ti spiego dopo con le labbra.

-Allora, Milo, come stanno andando i preparativi per il concerto di Natale?- cambiò discorso Jackie, prendendo con le bacchette un involtino primavera.

Alla domanda tutto il viso di Milo si illuminò di gioia.

-Oh, non male. È ancora presto per cominciare a provare, ma i membri dell’orchestra sono in gamba, perciò penso che intorno a metà ottobre saremo già in grado di cominciare. Non vedo l’ora- rispose lui eccitato.

-Studia alla Juilliard, è un direttore d’orchestra e un compositore- aggiunse Jackie per beneficio di Autumn. Quest’ultima si limitò ad un cenno per accogliere la notizia.

-Ancora non ufficialmente. Mi laureo quest’anno- chiarì Milo. Autumn annuì pensierosa.

-Suoni anche uno strumento allora- constatò con calma lei.

-Sì, sono violinista. So suonare anche altri strumenti però, principalmente archi- sorrise Milo.

Anche Jackie si aprì in un sorriso di orgoglio e ammirazione per il suo ragazzo.

-Dovresti sentirlo suonare, Autumn, è eccezionale- commentò sincera e Milo le baciò una guancia grato.

Vide Autumn irrigidirsi e distogliere lo sguardo in fretta. Forse era quello il problema? Si sentiva a disagio a vederli scambiare affettuosità?

-Sai, Milo, anche Autumn è una musicista- disse con calma Jackie.

Milo strabuzzò gli occhi meravigliato. Allo stesso tempo Autumn rischiò di strozzarsi dopo che un boccone le era andato di traverso.

-Davvero?- chiese conferma Milo.

Autumn aprì e richiuse la bocca per diverse volte e nessun suono uscì da lì. Alla fine rinunciò e sospirò, annuendo con la testa.

-Proprio così. Sa suonare il pianoforte e canta da dio- aggiunse al posto suo Jackie, con estrema naturalezza.

-Beh, allora ci tengo a sentirti cantare al più presto- le sorrise gentile Milo, ma Autumn scosse la testa.

-Non canto più, né suono. È una cosa che ho lasciato perdere. È acqua passata ormai- disse seccamente.

Jackie allora le puntò contro le bacchette e la fissò con severità.

-Sbagli. Un talento come il tuo è raro, è da pazzi lasciarlo marcire come stai facendo tu- la ammonì.

Autumn si prese la fronte fra le mani.

-Ti prego, Jackie, non ricominciare ancora con questo discorso…- disse stanca.

-Invece ricomincio finché non ti entra in quella testolina bacata. Stai gettando all’aria un’enorme possibilità-

-È la mia vita-

-Ed è mio dovere farti notare quando e in che misura la stai rovinando-

-Se posso dire la mia- intervenne in quel momento Milo, per fermare il litigio fra le sorelle -penso che ognuno abbia la grande facoltà di disporre della propria vita come vuole, nel bene e nel male. È il vantaggio di essere umani, di essere dotati di libero arbitrio, di volontà personale. Forse l’unica eccezione a questo sacrosanto principio si presenta quando non siamo noi a scegliere come disporre del nostro futuro, ma siamo scelti a nostra volta da qualcosa di più grande di noi. E mi piace ripetere a me stesso e a tutti quelli che me lo chiedono che non siamo noi a scegliere di dedicare la nostra vita alla musica, ma è la musica a sceglierci e a chiamarci a sé. Bisogna solo saperla ascoltare-

Milo sorrideva leggermente nel ripetere quelle parole imparate tanti anni prima.

-Autumn, sei pienamente libera di decidere della tua vita, proprio come dici tu. Ma se la musica ti ha scelto ed è entrata in te, mi dispiace dirti che in nessun modo le puoi sfuggire. Ne va della tua felicità- le disse poi serio.

Per la prima volta in quella sera Autumn puntò i suoi occhi direttamente in quelli di Milo e resse il suo sguardo per diversi secondi. In loro Milo non riusciva a scorgere nulla. Non la forza d’animo e la determinazione di Jackie, non la purezza infantile e la dolcezza di Annie, non la saggezza di Ray. Erano occhi vuoti, volutamente separati dal mondo da un velo invisibile a protezione di tutto ciò che c’era dietro. Solo un’eco, un sussurro di esistenza giunse a Milo, che più tentava di cercare in quell’abisso, più si trovava ad annegare in qualcosa di pericolosamente simile alla paura. Un’immensa, sconfinata paura.

Era questo che provava Autumn? Perché quello era l’unica cosa che Milo coglieva in lei, nel suo modo di fare, nel suo modo di parlare. Paura di qualcosa di indefinito e indefinibile.

-Mi piacerebbe pensarla come te, Milo. Purtroppo non è sempre così semplice- rispose a bassa voce Autumn.

Le sue parole risuonarono come una profezia, enigmatiche e potenti.

E Milo venne percorso da un brivido di paura. Una paura sconfinata, immensa, indefinita e indefinibile.

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Capitolo 12
*** Cap. 11 ***


N.d.A.
Ritorno sulle scene dopo un prolungato periodo di latitanza. Non avrei mai pensato che fosse difficile a tal punto scrivere e portare avanti tutti gli impegni sospesi durante l'estate. Questa storia mi sta insegnando parecchie cose, vedo.
A tutti coloro che seguono la storia, scusate per il ritardo ed eccovi servito il nuovo capitolo. Lasciare una recensione è sempre cosa gradita dalla sottoscritta, ma mi basta anche sapere che leggerete soltanto.
Un'informazione: questo capitolo tratterà delgli argomenti delicati e alcune scene sono abbastanza visive (ve ne accorgerete al punto giusto), perciò mi scuso in anticipo se questo possa aver turbato qualcuno. Purtroppo questo capitolo, molto difficile da scrivere (causa anche computer che decide di cancellarlo interamente all'improvviso, argh), è essenziale per il resto della storia.
Grazie a tutti coloro che leggeranno,

musicislife17


 

La serata era proseguita senza altri alterchi fra Jackie e Autumn. Al momento dei saluti Milo aveva brevemente abbracciato Autumn ed aveva avuto la sensazione che lei si fosse irrigidita al suo tocco. Autumn poi si era separata da lui e aveva annunciato che avrebbe preso la metropolitana per tornare a casa e che loro potevano tranquillamente far ritorno al loro appartamento. Li salutò con un sorriso tirato e voltò loro le spalle, andandosene.

Il tragitto verso casa per i due fu breve, dato che abitavano non molto lontano da lì. Ognuno perso nei propri pensieri, non parlarono per niente. Si erano scambiati una fugace occhiata di intesa e quella bastò ad entrambi per capire. Si sarebbero chiariti una volta tornati a casa, era quella la promessa nei loro sguardi.

Raggiunsero il palazzo, salirono al quinto piano ed entrarono nel loro appartamento. Non era molto grande ma era arredato in uno stile moderno e sofisticato, come piaceva a Jackie. Oltre l’ingresso si accedeva ad un open space che fungeva da salotto e cucina. Un corridoio sulla destra conduceva alla camera da letto, al bagno e ad una stanza adibita a contenere tutti gli strumenti di Milo. Appena arrivati a casa Jackie abbandonò borsa, scarpe e giacca all’ingresso con poca cura e si diresse senza indugio sul terrazzo su cui affacciava il salotto. Milo capì che doveva essere tesa e prima di raggiungerla fece una sosta in cucina. Prese dalla cantinetta di Jackie una bottiglia di Chardonnay. La stappò abilmente e versò il vino in due calici. Quindi si tolse anche lui le scarpe e uscì nel terrazzo. Era un piccolo angolo di verde che lui e Jackie si erano ritagliati nella selva di grattacieli che li circondava. C’erano delle piante in vaso, un alberello nell’angolo e soprattutto due lettini da sole separati da un tavolino. Stesa su uno di questi, Jackie fumava. Un braccio stretto intorno alla vita, l’altro sollevato a reggere la sigaretta abbandonata fra l’indice e il medio si bruciava quasi senza che Jackie avesse preso una boccata. Era nervosa in modo evidente, dato che si mordicchiava una fastidiosa pellicina sul pollice. La fronte corrugata era un altro chiaro segno. Guardava il cielo, ma non si vedeva nessuna stella, tutte oscurate dalle luci della città.

Milo allora le si stese accanto e senza dire nulla le passò uno dei bicchieri, che Jackie accettò in silenzio. Poi prese una sigaretta dal pacchetto abbandonato da Jackie sul tavolino. La trattenne con le labbra e accese la fiammella.

-Se non vuoi parlarne non fa niente- le disse, le parole distorte per via della sigaretta appena accesa.

Jackie scosse la testa con un unico movimento secco. Anche lei aspirò una boccata, trattenendo il fumo per qualche istante.

-Non è quello il problema. Stavo pensando ad Autumn- confessò, espirando il fumo verso il cielo notturno.

-È una ragazza simpatica. Molto timida, riservata- disse cauto.

Jackie sbuffò una risata senza allegria e lo guardò in tralice. Si sporse a spegnere la sigaretta nel posacenere, era inutile tenerla in mano visto che le era passata la voglia di fumarla.

-Timida e riservata?- ripeté Jackie ironica. Milo rispose con un ghigno divertito.

-Non saprei come altro definirla-

Jackie allora sospirò profondamente e lasciò ricadere la testa sul lettino.

-Ti chiedo scusa da parte sua. Ti giuro che di solito non è così snervante, ma stasera aveva proprio qualcosa che non andava- meditò Jackie.

Milo alzò le spalle, poi si rese conto che Jackie non avrebbe potuto vederlo. Fece un verso di assenso.

-Sta tranquilla, è tutto a posto. Tutto sommato Autumn mi piace. Ci sarà solo bisogno di più tempo per conoscerci. Poteva andare peggio, potevo non piacere io a lei-

-La conosco da abbastanza tempo per dirti che anche a lei piaci, fidati. È sempre quel dannato motivo che la rende così… apatica, indifferente-

Milo sapeva che c’era qualcosa nel passato della loro famiglia che aveva segnato in modo profondo Jackie e gli altri. In genere aveva preferito non indagare su cosa fosse successo, aspettando che fosse Jackie a fare il primo passo. Quella volta, però, capì che doveva essere lui a chiederle con chiarezza a cosa si riferisse.

-Jackie, c’entra qualcosa il fatto che Autumn non voglia più dedicarsi alla musica con questo “motivo” di cui parli?- chiese conferma lui.

Jackie accolse la domanda in silenzio. Prese un sorso dal calice, per poi abbassarlo e pensare. Milo sapeva che in quei momenti la concentrazione di Jackie era sulla ricerca dei sapori che avvertiva al palato, diceva che le veniva spontaneo farlo.

-Milo, ti sei mai chiesto perché non ti ho mai parlato di mia madre?- chiese infine.

Milo trattenne il respiro, il fumo appena aspirato fermo nei polmoni. Effettivamente se l’era chiesto più di una volta. Sapeva la storia travagliata di Jackie, che l’aveva condotta per un caso fortuito da Ray Carter e sua moglie, Emma se non ricordava male. Ma da quando lui aveva conosciuto Jackie, pochissime volte aveva sentito pronunciare il nome di Emma da Ray o da Annie, mai da Jackie. Aveva pensato che fosse scomparsa, più che divorziata, perché quando il padre di Jackie ne parlava lo faceva con grande dolcezza.

-Sì, l’ho fatto. Però ho aspettato che me lo volessi dire tu per prima- espirò il fumo Milo, rispondendo alla domanda. Jackie attese ancora un attimo.

-Io, Autumn ed Annie non siamo sorelle di sangue, questo lo sai già ed è piuttosto evidente. Siamo state adottate dai Carter nell’arco di una decina d’anni, più o meno. Hanno adottato me, poi arrivò Autumn e infine Annie. Siamo cresciute insieme, per questo le considero a tutti gli effetti mie sorelle, così come considero i Carter i miei veri genitori. E per loro è lo stesso. Abbiamo avuto alti e bassi, è vero, ma siamo sempre rimasti una famiglia unita. Per la prima volta nelle nostre miserabili esistenze, noi tre ragazzine eravamo felici. Per circostanze e situazioni tutte diverse le une dalle altre, ognuna di noi è stata presa in affidamento da delle persone di buon cuore e ha avuto modo di ricominciare. Autumn viene dal Brasile, Annie dal Canada. Io sono stata salvata da una casa famiglia del Bronx. Tutte noi dobbiamo la nostra vita ai Carter, in un modo o nell’altro. Forse non saremmo neanche sopravvissute se le cose non fossero andate così- cominciò Jackie, la voce bassa e incolore.

Milo sapeva già quelle cose. In modo vago, Jackie gli aveva già raccontato alcuni stralci del suo passato doloroso. Era una storia che lo aveva lasciato amaramente triste per lei. Alcuni episodi dell’infanzia di Jackie avevano dell’assurdo in loro. Perciò comprendeva quanto Jackie fosse riconoscente verso i genitori adottivi.

-I Carter sono sempre stati fantastici con noi. Ray è un uomo buono, dal cuore enorme. È generoso e paziente, ha saputo sopportare tre mocciose disadattate senza mai lamentarsi. Penso di averlo sempre visto con il sorriso sulle labbra, in ogni situazione. Anche quando le cose non andavano bene, si sforzava di essere positivo per noi, di convincerci che la vita presentava delle difficoltà a volte, ma con la fiducia nel futuro si sarebbero potute affrontare tutte le avversità. Ci ha cresciute preparandoci al domani e, per quanto possibile, cancellando i brutti ricordi delle nostre vite precedenti. Gli dobbiamo tutto- proseguì Jackie e sorrideva nel parlare del padre. Anche Milo sorrise, personalmente ammirava già Ray, ma sentirne il ritratto della figlia aumentò la stima verso di lui.

-Ray ha lasciato un grande segno in ognuna di noi, ma forse ancora più di lui fu mia madre che ci sconvolse davvero la vita. Era una donna vulcanica, piena di gioia di vivere. Bella come nessun’altra, elegante, raffinata. Ma anche divertente, scherzosa, intelligente. Piena di talenti, sapeva fare tutto e ce lo insegnava con impegno e passione. Era tutto ciò che si può chiedere ad una donna e ad una madre. Era il vero centro della nostra famiglia, il sole intorno a cui ruotavamo noialtri, incluso Ray-

Jackie si fermò un attimo per riordinare i pensieri. Il vento si alzò e fece scrosciare le foglie delle piante intorno a loro. Dalla strada provenivano i rumori delle auto. Milo ascoltava.

-Mi hai chiesto quale fosse il motivo per cui Autumn non suona più. Bene, come ogni cosa nella nostra vita, anche questo ha a che fare con nostra madre. Sai che i bambini tendono a nutrire una predilezione per l’uno o l’altro genitore? Beh, anche per Annie e Autumn fu così. Mentre io sono stata sempre piuttosto equilibrata negli affetti in famiglia, Annie è stata da subito la cocca di Ray, invece Autumn era legata profondamente a nostra madre. E con profondamente intendo davvero molto. Era pazza di lei, l’adorava più di ogni altro. Tra loro c’era un legame speciale, indistruttibile. E uno dei più grandi regali che mia madre fece ad Autumn fu l’amore per la musica-

Jackie parlava con un tono più intenso adesso, più preso dal contenuto delle sue parole. Mentre con due dita accarezzava il collo sottile del calice che aveva in mano, si mise a sedere a gambe incrociate, fissando gli occhi davanti a sé.

-Mia madre cantava benissimo e quando Autumn venne a vivere da noi rimase da subito colpita della sua voce. Autumn cantava come un angelo, non ho mai sentito nessuno al suo livello. È un talento naturale, ma poiché nessuno se n’era mai curato aveva imparato solo poche cose da autodidatta. Fu nostra madre a spingerla a coltivare il suo talento, la iscrisse a corsi di canto e di pianoforte, e anche qui si distinse per la bravura. Era destinata a dedicarsi alla musica, non ci potevano essere altre strade per lei. Mi ricordo ancora quando si sedevano insieme al piano, suonando e cantando in perfetta sintonia. Avresti dovuto sentirle, Milo. Era qualcosa... di indescrivibile, era… era magia…-

Jackie sospirò, chiudendo gli occhi.

-E poi successe il disastro-

Milo la osservò mentre lasciava il calice sul tavolino e ritornava nella posizione di prima, questa volta incrociando le mani di fronte a sé.

-Devi sapere che Autumn ha un’abitudine bizzarra. Ogni volta che qualcosa la turba in modo particolare, Autumn scompare. Prendimi alla lettera, Milo, Autumn scompare nel vero senso della parola. Scappa via, si nasconde in qualche posto sconosciuto e non ritorna prima di aver del tutto superato la sua crisi. Cerca la più completa solitudine per qualche ora, si stacca completamente dal mondo e solo quando è lei a deciderlo torna indietro. Non ti dico neanche come reagirono i nostri genitori le prime volte che successe questo fatto. Erano bianchi dalla paura. Immagina due adulti sguinzagliati alla ricerca di una bambina di undici anni in giro per New York. Crescendo le sue fughe si fecero più rare, probabilmente perché stava imparando a vivere la sua nuova situazione con serenità. Perciò con il tempo la preoccupazione dei miei genitori diminuì quando succedeva altre volte. Ma ci fu un episodio in particolare qualche anno fa che sancì l’inizio della fine-

Una folata di vento più forte delle altre si alzò e li investì in pieno. Jackie non fece una piega. Milo rabbrividì in previsione di quello che avrebbe detto.

-Autumn frequentava un ragazzo, un poco di buono secondo mia madre, che voleva fare di tutto per convincere Autumn a lasciarlo. Quando finalmente si lasciarono, lei ed Autumn ebbero una discussione violenta, forse la più aspra che avessero mai avuto fino a quel momento. Autumn la riteneva colpevole di aver fomentato la loro separazione, mia madre la accusava di non essersi resa conto che quel ragazzo la stava solo usando. Io ero lì quando successe tutto questo. Litigarono come mai le avevo viste prima. Alla fine, Autumn se ne andò sbattendosi la porta di casa alle spalle. Credo che quella fu la prima e unica volta in cui vidi mia madre piangere. Fu terribile. Come previsto, inoltre, Autumn scomparve ancora. Ma questa volta fu diverso. Non si fece sentire per una settimana. La cercammo ovunque, in tutta New York prima e poi addirittura in New Jersey-

Si fermò per riprendere fiato e per scegliere le parole con cura.

-La settimana più lunga della mia vita- sussurrò poco dopo -Sembrava di vivere in un incubo nero, senza fine, senza la famosa luce alla fine del tunnel. Solo buio totale per una fottuta settimana intera. La cercammo ovunque, in tutta New York. Chiedemmo aiuto a chiunque potesse aiutarci. Anche io ed Annie abbandonammo lavoro e scuola per cercarla. Fu tutto inutile, non si riusciva in nessun modo. Per la prima volta contattammo la polizia per trovarla. Mi ricordo le notti insonni passate a consolare Annie, che non faceva che piangere. Mi ricordo mia madre, seduta tutta la notte accanto al telefono, in attesa di una telefonata che non arrivava mai. Mi ricordo Ray, continuamente alla ricerca di Autumn, si fermava solo per mangiare e poi partiva di nuovo nella sua caccia disperata. Fin quando un giorno, alle due e mezza di notte, finalmente arrivò la chiamata che aspettavamo. La polizia aveva ritrovato Autumn. Si trovava poco fuori New York, in un piccolo paese sul mare. Stava bene, era solo scossa, ma non aveva segni di violenza o altro addosso. Avrebbero potuto portarla subito a casa, ci sarebbe voluto un paio d’ore. Due misere ore per riaverla con noi, sana e salva, e per chiudere la questione. Ma no, due ore erano ancora troppe per mia madre. Appena arrivata la telefonata saltò in macchina senza neanche darci il tempo di fermarla. Partì da sola, diretta lei stessa verso Autumn. In quei giorni era stata così divorata dal senso di colpa, dalla paura, dall’ansia che non era riuscita ad aspettare oltre. Mia madre non poteva sapere che quella stessa notte, intorno alle tre del mattino, un gruppo di amici tra i diciannove e i ventiquattro anni, di ritorno da una festa, era salito in macchina, incurante dello stato di ebbrezza del guidatore, e si era avventurato a velocità preoccupante sull’autostrada che anche lei stava percorrendo in quel momento-

Milo sapeva dove voleva arrivare Jackie, lo sapeva così bene che una morsa di dolore lo prese alla bocca dello stomaco. La sigaretta che aveva in mano era ormai ridotta a un mozzicone la cui fiamma lambiva già le sue dita, ma lui non ci fece caso. Jackie si era voltata nella sua direzione, gli occhi vitrei, il viso senza la minima espressione.

-L’impatto fu tremendo. Le auto furono sbalzate via a metri di distanza. Non rimase altro se non degli ammassi di ferraglia informi, accartocciati come fogli di carta. Secondo le indagini fatte dalla polizia in seguito, il ragazzo alla guida era sotto effetto di alcol e droghe. Probabilmente aveva perso il controllo della macchina. Fu il primo a morire. Lo seguì poco dopo il ragazzo seduto al suo fianco. Altri due non fecero in tempo ad essere trasportati in ospedale. L’ultima, una ragazza di diciannove anni, la più giovane, morì dopo tre giorni di coma. Mostrarono le sue foto in televisione. Era bionda, aveva occhi neri e guance rosse. Mi sembrava di vedere Annie. Ho pianto per lei come se fosse stata mia sorella-

Jackie si fermò un attimo. Cercò le parole giuste, quindi riprese.

-Mia madre, Emma Sullivan, ricordata da tutti come Emma Carter, anni cinquantatré, a causa del terribile impatto rimase intrappolata fra i resti dell’auto rivoltata, senza riuscire a muoversi. La ferita più profonda era alla testa, il sangue scorreva copioso sull’asfalto caldo. Rimase cosciente per tutti i dodici minuti che l’ambulanza impiegò per raggiungere il luogo. Quando arrivarono i soccorsi, ci volle altro tempo per distruggere la prigione di metallo in cui era rinchiusa prima di poterla salvare. Non so se quegli altri minuti preziosi avrebbero potuto salvarla o se la sua vita era già troppo compromessa. Fatto sta che quando la tirarono fuori, ventisette minuti dopo l’impatto, l’unica cosa che riuscì a fare una volta caricata sulla barella fu sussurrare poche parole. “Dite a mio marito e alle mie figlie che li amo”-

Jackie puntò gli occhi in quelli di Milo, dritti nelle pupille dell’altro.

-Mia madre, Emma Sullivan, ricordata da tutti come Emma Carter, anni cinquantatré, morì alle tre e venticinque del mattino, tre anni, undici mesi e dieci giorni fa. L’ultima volta che aveva visto Autumn avevano litigato. L’ultima cosa che fece prima di morire fu perdonarla-

La voce di Jackie si incrinò impercettibilmente, ma abbastanza perché Milo lo notasse. La raggiunse sulla sdraio, sedendosi dietro di lei, e la strinse forte a sé. Jackie si lasciò confortare dalla presenza familiare dell’altro, seguendo il suo respiro calmo e ritmato, tentando di trovare la voce per proseguire.

-Quando ci giunse la notizia ne fummo devastati. Ci era stata sottratta in un momento la persona più importante per tutti noi, così, all’improvviso. Non abbiamo potuto fare nulla, solo ascoltare mentre ci veniva comunicato che c’era stato un incidente e non ce l’aveva fatta. Per la prima volta abbiamo davvero corso il rischio che la famiglia si sgretolasse. Non ti so dire cosa ci mantenne uniti, sinceramente, dato che il cardine della nostra famiglia era ormai scomparso. Inutile dire che fu Autumn a reagire nel modo peggiore. Appena tornò a casa, la polizia ci avvertì della tragedia. Per noi fu come veder morire anche lei. Smise di mangiare, di dormire, di parlare. Si rinchiuse in camera e non ci fu verso di farla uscire dalla stanza, fatta eccezione per il funerale. Autumn non reagiva più. Non so se fosse semplicemente il dolore a farla comportare così o anche il senso di colpa. So solo che per più di un mese non ci fu segno di cambiamento in lei. Alla fine fu Ray a prendere in mano la situazione. Per il nostro bene voleva che riprendessimo la solita vita, in modo da ricominciare. Annie frequentava il liceo, io avevo cominciato a lavorare da poco, Autumn era stata appena ammessa alla Juilliard. Ray non sapeva ancora se ritornare all’insegnamento o no, date le circostanze. Ne discutemmo una sera e decidemmo tutti di provare a ricominciare come al solito. Ma quella notte, in silenzio mentre tutti dormivamo, Autumn prese le sue cose e i suoi risparmi e se ne andò, lasciandosi alle spalle una breve lettera in cui ci spiegava che non riusciva a rimanere lì e in cui prometteva di farsi sentire. Partì senza una meta e mantenne la sua promessa, circa una volta al mese ci faceva avere sue notizie o ci mandava delle foto dai vari luoghi in cui viaggiava. Una sola volta le ho chiesto se stesse continuando a cantare. Mi rispose che per lei non aveva più senso cantare, ora che l’unica ragione per farlo era morta. Continuò a viaggiare fino a quando il mese scorso ci annunciò che sarebbe tornata. Il resto è storia-

Jackie si voltò nella stretta di Milo, guardandolo negli occhi.

-Non credo che fosse sicura di tornare a casa. Lei dice di essere convinta della sua scelta, di aver ritrovato la pace con se stessa. Io non le credo. Mi basta guardare come si comporta, lo hai visto anche tu stasera. C’è qualcosa che la turba, che la divora da dentro. Lo sa il cielo se riuscirà mai a sconfiggere il suo demone. Per ora tutto ciò che vedo è una ragazza a pezzi, sul punto di cedere da un momento all’altro. Ma non so cosa fare, non so neanche se ci sia qualcosa che si possa fare-

Milo sospirò a lungo. Posò le labbra sulla fronte di Jackie, rimanendo in quella posizione per alcuni istanti. Le accarezzò i capelli, mentre lei si abbandonava all’abbraccio, posando la testa sulla spalla dell’altro. Era da molto tempo che non raccontava tutta la storia e ora si sentiva sfinita.

Milo, dal canto suo, rifletteva profondamente sul senso di ciò che aveva appena sentito. Una storia drammatica, senz’altro, ma ciò che più lo addolorava era proprio la reazione di Autumn. Adesso cominciava a capire il perché nei suoi occhi ci fosse così tanta paura, perché fossero così spenti. Provò sincera compassione per lei. E poi Jackie aveva ragione, era possibile fare qualcosa per salvarla da quel baratro? Probabilmente il trauma che aveva subito era stato così grande da rendere impossibile ogni tipo di soluzione per farla tornare come prima.

Eppure, Milo pensò, se c’era anche una minima possibilità di farlo, lui avrebbe voluto tentare. Sentiva una strana forza che lo legava ad Autumn, un senso di necessario sostegno verso quella ragazza distrutta. Lo voleva fare anche per Jackie, certo, che così tanto ci teneva a lei e alla sua famiglia. Ma lo voleva fare anche per se stesso, per riuscire ad aprirsi un varco nel freddo muro di difesa di Autumn. Forse aiutandola, o almeno tentando di aiutarla a superare il suo passato, quel muro sarebbe crollato e loro avrebbero potuto stringere un buon rapporto.

-Per la cronaca, ti odio-

Le parole di Jackie giunsero inattese alle orecchie di Milo. Abbassò lo sguardo su di lei interrogativo.

-Come mai?-

-Perché mi hai fatto raccontare storie strappalacrime fino a notte inoltrata e domani devo svegliarmi presto- disse lei, fintamente arrabbiata.

Milo capì e sorrise. Jackie voleva cambiare discorso, non voleva più pensare a quei brutti ricordi. Doveva essere difficile anche per lei ricostruire quella vicenda. Decise di darle corda, per alleggerire la pressione.

-E perché devi? Domani è domenica- le chiese.

-Devo lavorare. Ho alcuni conti in sospeso-

Milo strabuzzò gli occhi e spalancò la bocca.

-Lavorare? Ma domani è domenica!- ripeté meravigliato.

Jackie sbuffò una risata e alzò la testa dalla sua spalla per fronteggiarlo.

-E questo lo avevamo già assodato. Te l’ho detto, ho alcune importanti cose da fare-

Vedendo che Milo metteva su un piccolo e ridicolo broncio, Jackie ridacchiò.

-Ti prometto che ci vorrà poco. Vado e torno entro la mattinata. Il resto del giorno lo dedico a te, d’accordo?- propose conciliante.

Milo ghignò, escogitando un piano. Si alzò in fretta e prima che Jackie avesse il tempo anche solo di elaborare cosa stesse facendo si ritrovò tra le sue braccia e dovette aggrapparsi alle spalle di lui per non cadere.

-Il resto del giorno? No, non mi basta. Dammi anche il resto di questa notte- mormorò sensuale, le labbra ad un soffio dall’orecchio di Jackie.

Lei capì e sorrise complice, abbandonandosi alle attenzioni di Milo, lasciandosi i brutti ricordi alle spalle.

Almeno per una notte poteva farlo.

 

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Capitolo 13
*** Cap. 12 ***


N.d.A.
Spinta da non so quale irrefrenabile impulso (ma chiamiamolo anche senso di colpa), posto un nuovo capitolo della storia, che ogni volta che accendo il computer mi guarda con aria critica dalla sua cartella apposita. Si stanno formando le ragnatele quasi, lo so e mi scuso con i miei poveri personaggi, ma ogni tanto è bene dare una ripulita. Conscia dell'imperdonabile ritardo, causa esami che proprio non ne vogliono sapere di finire, mi scuso anche con le anime pie che leggono e seguono Three Lives. Ogni sforzo e ogni capitolo è fatto per voi, credetemi.

musicislife17



Nella lunga lista di cose che Jackie detestava, fare tardi agli appuntamenti occupava di certo uno dei primi posti. Colpa di una pignoleria a volte troppo esagerata, ma era fatta così e non ci poteva fare niente. Perciò la mattina successiva al suono della terza sveglia (perché impostarne solo una era da sprovveduti, ovvio) e constatato che a quell’ora avrebbe già dovuto essere al luogo dell’appuntamento, Jackie saltò fuori dal letto maledicendo Milo che continuava a dormire beatamente sotto le lenzuola. Era sempre lui il motivo dei suoi ritardi, dannazione.

Si preparò al volo e senza neppure fare colazione corse fuori dal palazzo. Le chiavi della macchina erano rimaste al loro posto sul tavolo all’ingresso, notò con orrore Jackie, quindi fu costretta a prendere la metropolitana fino all’estremità di Broadway, prima di scendere e correre al locale giusto. Lì trovò il suo collega Robert, nascosto dietro un giornale, seduto ad uno dei tavoli di fronte alle finestre.

-Giuro che sono state cause di forza maggiore a farmi tardare- esordì senza fiato, sedendosi di peso sulla sedia di fronte a lui.

Robert abbassò il giornale quanto bastava a scrutarla oltre l’orlo.

-Fammi indovinare. Nottata lunga e faticosa?- domandò malizioso.

-Soprattutto faticosa. Lunga non abbastanza, semmai- ribatté sulle stesse righe Jackie.

Robert scoppiò a ridere e mise da parte il giornale. Alzò la mano per indicare al cameriere di portare un caffè anche all’ospite.

-Mi dispiace di doverti rovinare la domenica, ma questa conversazione doveva essere fatta il prima possibile- cominciò Robert, non appena anche Jackie ebbe la sua tazza fumante davanti.

Jackie prese un sorso e contemporaneamente fece un verso di assenso.

-So bene di cosa mi vuoi parlare- disse poi, abbassando la tazza. Robert sembrò stupito.

-Ah sì? E cosa sarebbe secondo te?- chiese curioso, dato che non le aveva accennato nulla sul motivo per cui le aveva chiesto di incontrarsi quel giorno.

-Mi pare ovvio. Daniel Hilbert ha convocato anche te per questa storia del rinnovo della rivista. E tu vuoi sapere da me se è il caso di accettare la proposta di lavorare alle spalle di tutti o no- dedusse Jackie con calma.

Robert ridacchiò, accarezzandosi i folti baffi.

-Sei infallibile, Jackie. È quasi impossibile tenerti all’oscuro di qualcosa-

-Quasi?- ripeté Jackie.

Robert annuì compiaciuto e divertito dalla confusione della ragazza.

-Non è del tutto vero quello che dici. Non sono qui per sapere la tua opinione. Sono qui per convincerti ad accettare la proposta-

Jackie spalancò la bocca, suo malgrado. Credeva di non aver capito bene. Robert, uno dei più anziani ed esperti redattori della rivista, stava davvero sostenendo di aver accettato di collaborare con il nemico?

-Stai con Hilbert?- chiese incredula.

-Non dirlo con tanto disprezzo, penso solo che ciò che dice sia sensato. Il suo piano per migliorare la rivista mi pare necessario, date le circostanze-

-Ma questo vuol dire tramare alle spalle di tutti coloro che lavorano con noi da anni!- esclamò irritata Jackie.

Robert mantenne la sua pacatezza, invece, girando il cucchiaino nella tazza di caffè.

-Tutti chi, Jackie? I redattori che contano per me e te, quelli che hanno di meglio a cui pensare rispetto a fare da tirapiedi al direttore, sono già dalla parte di Hilbert. Il suo piano non è lavorare alle spalle di chi merita, ma nascondere ai redattori pericolosi la volontà di noialtri di rinnovare in meglio la rivista, per evitare che ci mettano i bastoni fra le ruote- spiegò con calma Robert.

Jackie non credeva alle sue orecchie. Si era arrivati al punto di creare due fazioni fantasma, implicate in una guerra bianca la cui esistenza non era neppure ufficiale.

-Come fate a fidarvi di quell’uomo, Robert? È arrivato in redazione da solo un anno e mezzo, spedito qui da chissà quale giornale di Los Angeles, si è preso il posto di caporedattore senza alcun merito, adesso millanta oscure macchinazioni da parte della direzione per nasconderci il fatto che la rivista sia in forte crisi e voi ci credete senza neanche farvi alcuna domanda? Andate dietro ad un tronfio e falso giornalista da quattro soldi senza neppure domandarvi se sia o no la cosa giusta?- si innervosì Jackie, che aveva preso a gesticolare animatamente.

Robert la osservò con interesse, quindi fece un piccolo ghigno divertito.

-Tu lo odi perché ti ha preso il posto di caporedattore- concluse dopo la sua personale analisi approfondita.

Colse così in pieno da lasciare ammutolita Jackie, impresa non da poco. Lo capiva dal fatto che lei avesse serrato la bocca, di aver centrato il bersaglio.

-Non… non è rilevante quello che dici...- si difese debolmente lei, distogliendo gli occhi da lui.

-Invece è proprio questo il problema, mi pare. È evidente che tu non abbia accettato la sua elezione. Ti posso capire, deve essere stato un brutto colpo per te, vederti sottratto un posto per cui avevi tutte le carte in regola, ma adesso sei ferma davanti ad un muro creato da te stessa che ti impedisce di guardare oltre- spiegò Robert, sorseggiando poi il caffè.

-Senti Rob, ammetto di essere rimasta delusa per la faccenda della nomina, ma non è per questo che “odio”, come dici tu, Daniel Hilbert. È solo che… mi sembra così falso, così ostentatamente costruito, così perfettino e innocente… ne ho viste di persone che si comportano così e non esitano ad accoltellarti appena ne hanno l’occasione. Mi puzza di imbroglio- confessò Jackie disgustata al pensiero della sua personale nemesi.

Robert scoppiò a ridere, la pancia ben tornita che si alzava e abbassava al ritmo delle sue risa.

-Oh, Jackie, a volte sei troppo paranoica! Se gli avessi dato un’occasione per conoscervi meglio, avresti capito da subito che Daniel è davvero così, non è un’immagine artificiale ad uso e consumo di chi ha davanti. Sbagli nel pensare che sia finto-

-O magari sbagli tu a pensare che non lo sia-

Robert capì che Jackie era ferma nelle sue convinzioni e quella contro la sua testardaggine era sempre una battaglia persa. Allora allungò la mano sul tavolo e prese quella della ragazza nella sua.

-Jackie, non sono qui per obbligarti a fare qualcosa che vada contro i tuoi principi. Lascia che ti dica solo una cosa: dai un’opportunità a Daniel Hilbert. Non lasciar prevalere la voglia di vendetta alla possibilità di salvare la rivista. Sei giovane e in gamba, uno dei migliori talenti che abbia mai avuto il privilegio di incontrare. Tu saresti la carta vincente per il piano di Daniel. E di questo ne è consapevole lui, lo sono io e lo siamo tutti noi che abbiamo scelto di sostenerlo. Se saprai fidarti di Daniel, ti posso assicurare che sarete una coppia imbattibile. Potreste salvare la rivista, se solo riusciste a lavorare insieme-

Dopo il breve discorso, Robert si alzò e infilò la giacca, pronto ad andar via. Jackie intanto fissava il fondo della tazza vuota come se lì ci leggesse il proprio destino.

-Dimmi un’ultima cosa- sospirò infine -È stato lui a chiederti di convincermi?-

Robert sorrise, sistemandosi il cappello.

-Non direttamente, ma mi ha fatto capire che ha davvero bisogno del tuo aiuto. Se non ci credi al fatto che ti stimi così tanto, puoi chiederglielo di persona. Anzi, credo che anche oggi sia in redazione. Sta lavorando davvero sodo per la rivista-

Detto questo, Robert le fece un cenno con la testa e si allontanò.

Jackie rimase seduta ancora per qualche minuto, pensando a cosa fare, ma la confusione del locale la distraeva. Quindi decise di uscire di lì e meditare con calma. Doveva decidere cosa fare.

 

Nell’assolata domenica di ottobre Jackie incontrò molte persone che si divertivano, pronte a trascorrere la giornata di relax in compagnia. Solo a veder tutte quelle famigliole felici che affollavano i marciapiedi e le impedivano di camminare in linea retta il suo nervosismo crebbe in maniera esponenziale. Aveva bisogno di concentrarsi, dannazione, non riuscivano a capirlo tutti quelli che la circondavano?

Che poi, si disse dopo il primo attacco di rabbia, come avrebbero potuto saperlo quelli che la sua povera psiche aveva bisogno di pace per riflettere? Forse tramite telepatia, o forse tramite le pesanti vibrazioni di negatività che stava certamente emanando. Cavolo, quando i suoi pensieri raggiungevano la pericolosa soglia delle squinternate filosofie orientali, voleva dire che il cervello le stava andando in sovraccarico. Perciò Jackie si decise a darci un taglio al suo delirio interiore.

Pace, pace, pace, si ripeteva in modo estenuante, guardandosi intorno. Alla fine optò per entrare nella libreria più vicina, per cercare quel minimo di silenzio di cui necessitava. E il silenzio la accolse nelle sue braccia, la circondò come un balsamo benefico e bene accetto.

Si rifugiò dietro lo scaffale più vicino, nascosta agli occhi persino del proprietario, e si sedette a terra, senza troppe cerimonie. Prese la testa fra le mani e cominciò finalmente a dar libero spazio ai suoi pensieri frenetici, per trarne un piano definito.

Problema numero uno, la rivista era in crisi. Daniel Hilbert glielo aveva detto, lei non ci aveva voluto credere. Oggi Robert le aveva dato la temibile conferma. La rivista per cui lavorava strenuamente da quasi cinque anni, per cui nutriva un amore materno, navigava in acque tanto brutte che una piccola onda poteva spazzarla via. E tanti saluti ai suoi sogni e ai suoi sforzi.

Problema numero due, c’era bisogno di un rinnovo radicale per riuscire a salvare il debole guscio di noce in cui tutti, volenti o nolenti, si trovavano a navigare. Un rinnovo a quanto pare clandestino, stando al modo in cui Hilbert stava agendo. Il fatto di tenere nascosta a buona parte della redazione la decisione di stravolgere la rivista doveva essere necessariamente a causa di un colpo di testa del caporedattore stesso. E poi, perché proprio suo? Perché nessuno aveva mai azzardato prima una proposta del genere? Qui si celavano ancora degli interrogativi che andavano analizzati con maggiore delicatezza. C’era qualcosa che scottava sotto questa coltre di mistero, ci si poteva bruciare facilmente. Ma adesso non era il momento di pensarci.

Problema numero tre, molti dei redattori avevano accettato di prendere parte al piano di Hilbert. Era una follia in piena regola, senza troppi giri di parole. Poteva essere considerato come un atto di sabotaggio verso la redazione. Si rischiava il licenziamento, questo era implicito ma chiaro, e venire licenziati da una rivista in modo tanto disonorevole poteva costare la carriera a tutti. Quello del giornalismo era un mondo ristretto, non dissimile da una casta di eletti. Se un consistente numero di giornalisti esperti aveva scelto di aiutare Hilbert doveva esserci un motivo valido tanto da decidere di mettere in gioco la propria carriera. Perciò o erano tutti impazziti a voler gettare al vento il proprio lavoro, o le stava sfuggendo qualche cosa di importante, di fondamentale. Qualcosa di strettamente connesso al punto successivo.

Cioè, problema numero quattro, lei non si fidava di Daniel Hilbert. La sua presenza le trasmetteva un senso di sospetto. Hilbert irradiava una serenità che in lei sortiva l’effetto opposto. Era impossibile che un uomo potesse essere così ostentatamente tranquillo, gentile, disponibile e accondiscendente. O meglio, era di certo possibile, ma non in un ambiente di lavoro spietato come quello giornalistico. Proprio per questo sentiva che tutto quello nascondesse una falsità necessaria a sopravvivere nella giungla della redazione. Robert sosteneva che l'illusione che le dava Hilbert corrispondesse invece alla realtà. Forse era così, ma lei non riusciva a fidarsi. Però…

Però non era spiegabile come tanti altri, Robert stesso, potessero seguirlo senza problemi. Possibile che non si fossero accorti che Hilbert rappresentava una minaccia per il futuro della rivista? Possibile che fossero collettivamente impazzite le persone che lei più stimava in redazione? No, ci doveva essere un’altra spiegazione. E quella spiegazione poteva solo essere nelle parole di Robert. Lei disprezzava Hilbert per la storia dell’elezione. Lo...  invidiava, sì, lo invidiava per averla superata, per averla calpestata di fronte agli altri. Era stato non intenzionale? Forse, ma lei lo detestava lo stesso. E nel farlo, improvvisamente, si scoprì infantile. Infantile per non aver accettato la decisione di persone più importanti di lei. Hilbert era diventato il capro espiatorio che celava le proprie delusioni interiori e i rimpianti di aver ceduto ai suoi più oscuri timori. Ammetterlo, scoprì anche, la deluse ancor più che veder sconfitte le proprie ambizioni.

-Signorina, si sente bene?-

Come se un incantesimo si fosse spezzato, come se un sassolino avesse turbato la quiete in uno stagno, Jackie venne interrotta con violenza dalle sue meditazioni. Alzò lo sguardo di scatto, verso il proprietario della libreria che trovandola seduta lì, il viso nascosto fra le mani, aveva temuto un malore della cliente.

-Sì, mi sento bene. Mi sento bene- ripeté Jackie, alzandosi lentamente.

Seguita dallo sguardo perplesso del proprietario, gli passò vicino e lo prese per una spalla.

-È un bel negozio, il suo. Tranquillo, ottimo per leggere e pensare. Ci tornerò senz’altro-

E detto questo uscì, lasciandosi dietro l’eco delle proprie meditazioni, la convinzione di quell’uomo che lei fosse pazza e la scia della decisione che aveva preso e che ora la stava conducendo in un posto preciso.

 

La redazione era vuota. Ovvio, era domenica, Jackie non si aspettava di certo di trovare la familiare e confortante confusione ad attenderla. Le fece comunque uno strano effetto vedere i cubicoli vuoti, i computer spenti, gli uffici chiusi.

D’istinto si recò nel proprio ufficio, per la curiosità di osservarlo sotto quella luce diversa. Lo trovò esattamente come ogni mattina, cioè ordinato nella “confusione organizzata” che lei stessa aveva ideato e straripante di carte di ogni tipo. Prese al volo il primo foglio che le capitò sottomano. La bozza di un reportage, un’idea che aveva avuto qualche giorno prima. L’aveva proposta per il numero successivo della rivista. Hilbert l’aveva accettata con entusiasmo.

Nel pensare al caporedattore Jackie si ricordò il reale motivo della sua visita fuori orario. Uscì dall’ufficio, percorse il lungo corridoio e arrivata in fondo si fermò davanti alla porta a vetri dell’ultima stanza. Lì le luci erano accese.

Tra le tendine di plastica, intravide Daniel Hilbert. Era seduto alla scrivania, niente giacca e cravatta questa volta, solo una camicia azzurra e stropicciata. Anche la sua perfetta armatura aveva delle incrinature, pensò Jackie con ironica malizia, almeno la domenica. Dal volto giovane e disteso, ornato di svariate lentiggini, impercettibilmente piegato in rughe di espressione sulla fronte, Jackie colse la concentrazione con cui osservava qualcosa che aveva in mano. Non qualcosa, osservò meglio, ma una cornice, forse una foto, una di quelle che molti dipendenti della rivista si portavano in ufficio per ricordarsi che avevano una vita anche al di fuori della quattro mura grige in cui si consumava la loro esperienza lavorativa.

Trattenendo un sorrisetto di scherno, Jackie bussò con due piccoli colpi sulla porta ed entrò prima di ricevere risposta.

Daniel Hilbert era balzato sulla sedia, preso alla sprovvista da Jackie, che intanto si era andata a sedere subito davanti a lui, nello stesso punto dell’ultimo colloquio.

-Paura?- chiese lei, accavallando le gambe elegantemente.

Daniel, una mano sul petto che batteva furioso per l’improvvisata, la osservò con stupore, aspettandosi tutti meno che Jackie seduto davanti a sé.

-Non pensavo che ci fosse qualcun altro qui oggi. E sì, mi hai un po’ spaventato- disse poco dopo, un piccolo sorriso di benvenuto offerto all’ospite.

Jackie lo scrutava intensamente dal lato opposto del tavolo. Si sentì a disagio, sotto quello sguardo indagatore, e si alzò per eliminare la sensazione di inadeguatezza.

-Ti posso offrire qualcosa?- indicò alcune bevande che teneva conservate in un piccolo frigobar.

Jackie fece segno di lasciar perdere.

-Sono qui per altri motivi, non per farmi un drink-

Daniel colse la nota di serietà nella sua voce e si risedette al proprio posto, dando una veloce occhiata alla fotografia che aveva prima in mano. Solo il vederla lo confortò, perciò prese un lungo respiro ad occhi chiusi.

-Ti ascolto- invitò poi Jackie.

-Stamattina ho parlato con Robert Smith. Mi ha detto delle cose molto interessanti. Ad esempio che sei riuscito a convincere buona parte dei redattori ad aiutarti in questo tuo piano che mi avevi illustrato poco tempo fa. E che avete già cominciato a lavorare, di nascosto a buona parte del resto della redazione- esordì con calma Jackie.

Daniel serrò la mascella. Sapeva che sarebbe arrivato il momento di confrontarsi di nuovo con Jackie. Questo lo metteva stranamente in agitazione. La giornalista di fronte a sé era più astuta e attenta di quanto non fosse necessario per il loro lavoro. Ciò la rendeva un alleato potente o un nemico pericoloso, a seconda della situazione. Purtroppo, ora come ora, non avrebbe ancora saputo dire a quale categoria appartenesse Jackie.

-È vero. Sapevi che lo avrei fatto, non deve essere risultato nuovo alle tue orecchie- rispose con cautela. Meglio andarci piano con lei.

-Hai ragione. Una cosa che mi ha lasciato colpita, invece, è stata la grande adesione che ha suscitato la tua proposta. Non mi aspettavo un tale successo-

-Ci tengono in molti al bene della rivista-

Jackie assottigliò lo sguardo, al sentire le ultime parole di Daniel. Stava forse insinuando che a lei non importasse se la rivista fosse sull’orlo del fallimento? Non glielo avrebbe permesso. Si sporse verso la scrivania, scrutando minacciosa Daniel, che pur non facendo una piega era visibilmente teso nell’attendere la risposta di Jackie.

-Ascoltami bene, Hilbert. Il bene della rivista mi sta a cuore tanto quanto ad ogni altra persona che sgobba qui dentro, con la convinzione che il proprio lavoro possa essere utile a qualcuno. Non ti azzardare a pensare anche solo per un istante che io non ci tenga più di tutti a mandare avanti questa baracca. Tu non mi conosci, Hilbert, perciò non provocarmi. E se sono qui oggi non è perché Robert mi ha convinta a tornare strisciando ai tuoi piedi, chiedendoti di farmi prendere parte ad un progetto folle. Sono qui perché voglio la verità da te, la verità che gli altri non riescono a vedere-

Daniel la fissò in silenzio per molto tempo, il viso poggiato sulle mani incrociate, proprio come l’ultima volta. Molte volte le sue parole vennero ripetute istintivamente nel proprio cervello, come un disco rotto che non fa che produrre gli stessi suoni. Jackie aveva ragione, lui non la conosceva. Forse era questa la cosa che lo preoccupava di più in tutta la faccenda, il fatto che il suo potenziale miglior alleato fosse una donna imprevedibile, impossibile da anticipare. Lo testimoniava la presenza stessa di Jackie lì, quella domenica. Di certo non avrebbe potuto prevedere il suo arrivo.

Daniel allora decise di giocarsi il tutto per tutto, di rinunciare al velo di segretezza che aveva posto sulla faccenda. Le doveva confessare i suoi timori e i suoi sospetti.

Sospirò, chiudendo gli occhi. Si abbandonò sullo schienale della poltrona.

-Va bene, ecco come stanno le cose- esordì con fare pratico -Nutro dei forti sospetti riguardo al fatto che la rivista possa essere stata volutamente compromessa dalla direzione-

Jackie accolse la notizia con inaspettata tranquillità. D’altronde arrivati a quel punto ci si poteva aspettare di tutto, vista la situazione.

-Spiegati meglio- lo invitò.

-Ti ripeto, è solo un sospetto, un dubbio. Ma credo che il motivo per cui nessuno di noi sapesse dei problemi della rivista fino a prima che mi eleggessero sia dovuto ad una sorta di combutta dei dirigenti della casa editrice. Non posso offrirti prove, né dati certi, ma da alcuni dettagli che sto osservando sono ragionevolmente certo che sia così. Il problema è, appunto, che non posso dimostrarlo. Perciò l’unico modo che ho per far luce sulla faccenda è tentare di rivoluzionare la rivista in meglio, facendo leva sul lavoro di chi procede in modo onesto per la propria strada. Ho bisogno di spiegarti?-

Jackie fece segno di no con la testa. Ciò che Daniel stava elegantemente dicendo era che non voleva che i tirapiedi del direttore ficcassero il naso nel suo piano e ne venissero a conoscenza. Comprensibile, stando a quanto le stava rivelando.

-Ho capito. Continua-

-Ciò che sto tentando di fare è dare una seconda possibilità alla rivista, perché con un rinnovo in meglio nessuno potrà fare in modo di distruggerla, dall’interno o dall’esterno. Per farlo, però, ho bisogno dell’aiuto dei migliori. Te l’ho già detto, sei tu la prima a cui avevo pensato. Forse ho fatto male a non confessarti subito queste cose, ma adesso che le sai spero che tu possa riconsiderare la tua scelta. Ho bisogno del tuo aiuto. Ne abbiamo tutti bisogno-

Daniel tacque, dopo aver giocato la sua ultima carta. Ora non poteva fare altro se non aspettare il verdetto di Jackie.

E il verdetto arrivò, dopo un paio di minuti di silenzio, durante i quali Jackie aveva solo guardato negli occhi Daniel, quasi senza battere ciglio. Voleva vedere se avrebbe ceduto, se stesse nascondendo qualcos’altro, perché ormai aveva capito che del sospetto di Daniel era lei l’unica a esserne a conoscenza. Gli altri agivano solo con la convinzione che stessero facendo un atto necessario per la rivista, ma solo loro due adesso sapevano come stavano le cose. Il loro era un atto anarchico.

-Va bene- disse solo Jackie.

Si alzò dalla sedia, lisciandosi le pieghe dei vestiti, infilando la giacca, seguita da un perplesso Daniel.

-Va bene cosa?- chiese confuso.

-Voglio vedere quali sono le tue intenzioni. Voglio vedere come agisci. Perciò ve bene, prenderò parte a questo suicidio di massa. Ma sappi che se riterrò il tuo modo di lavorare inefficace o se le intenzioni di voialtri non dovessero corrispondere alle mie, mi tirerò indietro. Il vostro segreto rimarrà al sicuro, potrete continuare a progettare la vostra nuova rivista, ma io non vi aiuterò e non ne farò parola con nessuno. Fatti bastare questo per adesso- disse Jackie velocemente.

Forse stava sbagliando, forse stava commettendo la più enorme cazzata della propria esistenza, ma lì per lì era quella l’unica via di uscita. Voleva almeno provarci a fare questa follia, voleva dare a Daniel quel briciolo di fiducia che Robert l’aveva spinta ad offrirgli. Perciò, anche se a malincuore, avrebbe collaborato con il nemico, sotterrando l’ascia di guerra almeno per un po’. In una buca poco profonda, però, sia ben chiaro.

Daniel sorrise estasiato alla notizia. Le concesse per la prima volta un sorriso al di fuori di quelli cortesi che rivolgeva a tutti, un sorriso più sincero in un certo senso. Il suo viso si illuminò di una gioia fanciullesca, di una speranza grande e confortante.

-Non sai quanto questo mi renda felice! Ti assicuro che il tuo aiuto sarà prezioso e non verrà sprecato- la ringraziò, alzandosi addirittura dalla poltrona per la contentezza.

Jackie lo guardò con un sopracciglio sollevato e dovette trattenere a stento un sorrisetto a metà fra il divertimento e l’esasperazione.

Si diresse verso la porta senza aggiungere altro, sul punto di uscire.

-Mi dispiace molto per quello che ho detto prima, comunque. Hai ragione, io non ti conosco, Jacqueline, ma ci proverò, se me lo permetterai-

Le ultime parole di Daniel la fermarono mentre già stava abbassando la maniglia della porta.

Si voltò lentamente, scrutò torva l’uomo che la guardava speranzoso dall’altra parte della stanza. Forse Robert aveva ragione e lui era davvero di una natura così tanto gentile. Ma Jackie non avrebbe ceduto con facilità. Era una questione di orgoglio, dopotutto.

-Nobile intento. Molto rischioso. Ma se proprio ci tieni ad imparare, comincia col non chiamarmi con quel nome. Sono Jackie e basta, per te come per tutti gli altri-

E detto questo se ne andò, senza rimpianti, come piaceva a lei.

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