I bambini di Shi'ran

di Kimmy_90
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0. Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Nomen ***
Capitolo 3: *** 2. Globus ***
Capitolo 4: *** 3. Helios ***
Capitolo 5: *** 4. Ludus ***
Capitolo 6: *** 5. Bambini ***
Capitolo 7: *** 6. Gatto ***
Capitolo 8: *** 7. Inchino ***
Capitolo 9: *** 8. Faber est suae quisque fortunae ***
Capitolo 10: *** 9. Bocciato ***
Capitolo 11: *** 10. La Cinta ***
Capitolo 12: *** 11. Schiene ***
Capitolo 13: *** 12. Irrequieta ***
Capitolo 14: *** 13. Sotto ***
Capitolo 15: *** 14. Sparare ***



Capitolo 1
*** 0. Prologo ***










I bambini di Shi'ran













Prologo



“Matre – ” sussurrò “ – le Ombre!”

Nere. Scure. 

Più scure di lei, che aveva la pelle color biscotto. Più scure della sua Mater, che veniva dal confine con le terre dei Bianchi. Più scure degli Agricola, e dei mercanti del deserto. Le Ombre, oltre ad avere la carnagione bruna – la pelle come carbone –, vestivano divise nere e lucenti. 

Ed erano alte.

Statuarie e possenti.

Uomini e donne dal passo saldo, i movimenti precisi, il mento sempre alto. 

Le Ombre erano in tre.

Lamaki1, sveglia, lo aveva notato: per quanto fossero rare le volte in cui le incontrava, le Ombre erano sempre in tre. La bambina portò il pugno destro all'altezza del cuore, immobile mentre le guardava, cercandone gli occhi. Accanto a lei, la sua Mater fece lo stesso.

Quelle continuarono a camminare lungo il viottolo polveroso, ignorando le poche persone attorno a loro. Una volta sufficientemente lontane, madre e figlia sciolsero il saluto.

“Non chiamarli Ombre, Lamaki.” la ammonì dolcemente la donna, dandole un colpetto sulla cima della testa con l'indice. “E usa la Lingua.”

“Sì, Matre - sì, Mater.”


Con difficoltà Atro2 non aveva ceduto all'impulso di voltarsi, quando, con la coda dell'occhio, aveva notato le due. In mezzo agli abitanti di quel paese perso nel nulla, popolato solo da Agricolae e Parentes, non era difficile riconoscere Lama3 – e Lamaki, soprattutto. La bambina aveva la stessa, identica espressione del suo sciagurato Pater: neanche cinque anni, e già si poteva intuire la mole di pensieri intricati che le percorrevano la mente. 

Stanno tutti lì, i loro pensieri – si disse l’uomo. Li nascondono dentro i loro maledettissimi occhi.

La genetica non era stata loro amica. Cinque anni prima, Atro aveva osato sperare che quegli occhi non arrivassero a Lamaki, e tutto si risolvesse lì.

E invece no.

Gli stessi occhi, la stessa espressione.

Atro non aveva mai pensato di sapere cosa fosse esattamente l'Odio, né mai aveva pensato di poter odiare. Aveva provato fastidio, era stato scocciato, ben conosceva il disprezzo – ma non l'Odio. Non faceva parte del suo essere. Era un sentimento del tutto inutile e a dir poco controproducente – per quel che lo riguardava, l'Odio non era e mai avrebbe dovuto essere sentimento da Custos. 

Avrebbe.

Da quasi sei anni, ormai, Atro odiava. Odiava Lama con un'energia tale fargli paura – una paura profonda, che divampava quando lo sentiva, l'Odio, il suo Odio, scalciare e dimenarsi nel tentativo di spodestarlo dalla sua stessa coscienza, per agire al posto suo.

L’uomo socchiuse gli occhi, continuando a camminare accompagnato da Jhun4 e A'ni5, lungo il viottolo polveroso. 

Era stato un attimo: l'Odio era salito, pulsandogli nelle vene, poi ritirandosi. Atro lo aveva cacciato, impedendogli d’insinuarglisi nei muscoli e nei nervi, di avvolgergli il cranio e alterargli la vista. Impedendogli di fare quel che era già successo, una volta. Una soltanto. Già un numero eccessivo di eventi.

“L'edificio è quello.” disse A'ni, indicando un casolare a qualche decina di metri da loro.

In un posto del genere, Lama, dovevi venire a crescere Lamaki? 

Davvero in un posto del genere?

Perché?

Varcò la soglia, ricacciando l'ennesima ondata d'Odio nei meandri del suo essere.


L'edificio era in linea con il resto dei ruderi del paese: mattoni di fango tenuti insieme da legno e paglia, grezzo, il tetto piatto tipico di quelle latitudini. Seppur lontani dal confine con il deserto, pareva d'essere in mezzo ad un villaggio dei Bianchi; d'altronde il clima era simile. Atro si sfilò un guanto, tanto bianco da sfiorare l'azzurro, per poter toccare e tastare la consistenza delle pareti. Percorse l'intero perimetro dell'unica ed enorme stanza che componeva il casolare, facendo scivolare la mano lungo le mura – che, a tratti, gli si sgretolavano sotto i polpastrelli. 

Non era abituato a quel tipo di architettura. Era solito abitare luoghi ben diversi: la tenda da campo, durante i periodi sul confine, o le mura di cemento, la vernice, il metallo, i marmi e la plastica, tipici del Ludus e del Globus.

Dovette far mente locale per convincersi che quell'edificio, apparentemente fatiscente, era in realtà un posto molto sicuro: le assi di legno che reggevano il tetto erano elastiche, le pareti leggere, tali da rendere minimo il danno in caso di terremoti. Il fuoco avrebbe fatto fatica ad attecchire a causa del pastone ignifugo – frutto non di ricerche scientifiche, ma di una sana ed antichissima cultura popolare – che permeava la paglia, il fango, e tutto ciò che teneva in piedi quel casolare. Considerato il clima tipico, e la zona, non si sarebbe potuto chiedere di meglio.

“Tu e Souma dovrete stare qua fuori, quindi.” disse poi, volgendosi minimamente verso A'ni.

Il ragazzo, poco più che ventenne, fece un vago cenno d'assenso mentre seguiva i movimenti di Atro. Man mano che questi si spostava, A'ni – e Jhun con lui – muoveva piccoli passi, quasi inconsciamente, in modo da non dargli mai, del tutto, le spalle.

"La rappresentante della comunità non ha altri edifici liberi, al momento. A meno di non erigerne uno ex novo, non c'è alternativa."

Atro si fermò. Levò lo sguardo verso il soffitto, analizzando per l'ennesima volta le travi e dei mucchietti di sterpaglie che davano tutta l'idea d'essere nidi d'uccello. Si pulì il palmo contro la stoffa dei pantaloni – lasciando, inevitabilmente, una manata bianca sul tessuto scuro. Rimettendosi il guanto, si avvicinò ad A'ni: che Atro fosse alto, e grosso, era cosa risaputa – ma quando ti si avvicinava, questo dettaglio diventava predominante. Il ragazzo, poco avvezzo a frequentarlo, ancora faticava a non ritirarsi istintivamente davanti alla massa dell'uomo, di almeno due teste più alto di lui. All'ombra della sua figura, A'ni si ritrovò ad annuire mentre forzatamente si drizzava, stirando più di quanto non facesse abitualmente la colonna vertebrale.

"Tende?" chiese Atro, senza mai smettere del tutto di guardarsi attorno.

"Sì."

"Cosa dice la rappresentante?"

"Nessuna controindicazione."

"Jhun?" chiamò l'altra, intenta a sua volta a rilevare l'edificio con sguardi attenti e clinici.

"Tutto a posto." disse lei, avvicinandosi ai due. "A posto, Atro?"

"Direi di sì."

"E la bambina?"

"Adesso vediamo."


La bambina sussultò quando sentì le Ombre parlar di lei. Si era affacciata al portone rimasto aperto dell'edificio, e da lì aveva osservato i tre perlustrare quel che ai suoi occhi era sempre e solo stato un casolare abbandonato. Non avrebbe dovuto farlo, no. Non avrebbe proprio dovuto. Ma non ci aveva seriamente pensato finché non aveva sentito la donna dire quel ‘la bambina'. E gli altri due non mostrare alcuna sorpresa.

Sapevano benissimo che era lì. Lo avevano sempre saputo.

Erano Ombre.

I tre si voltarono a guardarla. Kumki6 sgranò lentamente gli occhi, mentre il cuore prendeva a pulsarle con una foga mai provata prima. Presa dal panico, strinse le mani sullo stipite da cui aveva fatto capolino, aggrappata.

Quello grosso – quello veramente grosso – serrò le braccia al petto mentre le rivolgeva uno sguardo annoiato. Come tutte le Ombre era nero, nerissimo, di pelle e di vestiti, eccezion fatta per i guanti candidi che indossava e per i capelli corti e brizzolati. Sul suo volto squadrato si potevano intravedere una serie di rughe contrite, una delle quali Kumki non sapeva dire se fosse bene una ruga o una lunga e profonda cicatrice. Qualcosa le suggerì di indietreggiare, ma il suo corpo non rispose.

La donna accanto al colosso era meno imponente, con gli occhi e i capelli scuri. Nonostante il volto rotondo, che forse poteva dirsi dolce, sembrava amichevole tanto quanto l'altro.

Mentre Atro e Jhun rimanevano immobili a guardare, distaccati, la piccola, A'ni le si avvicinò.

"Ascolta." le disse il ragazzo.

Kumki, per un istante, pensò di essere al riparo dalle due Ombre – protetta dalla terza.

"Quello che stai facendo non va bene."

La bambina indietreggiò.

A'ni, dall'alto, la fissava in un modo forse ancor peggiore di quello che poteva essere l'occhiata del colosso. Seppure da lontano poteva sembrare normale, paragonabile a qualsiasi Agricola del paese, una volta avvicinatolesi il ragazzo costrinse Kumki a cambiare rapidamente idea su di lui. Sotto la divisa nera dei Custodes la bambina poteva intravedere i suoi muscoli, tesissimi e compatti, che si muovevano vigorosi per il solo respirare. Aveva fatto un enorme errore di valutazione: quello sì che era il più pericoloso. Pareva normale, e invece – no, non lo era. 

Non sapeva proprio cosa fosse. 

Un'Ombra.

Oh, enorme errore.

Spiare le Ombre.

Avvicinarglisi di soppiatto.

Senza nemmeno aver fatto il saluto!

Kumki indietreggiò di un altro passo, bloccata dal fatto che le sue mani ancora s'aggrappavano allo stipite del portone.

Pensò che forse avrebbe potuto dir qualcosa – qualsiasi cosa, ma le parole non le venivano su. O meglio, le venivano nella lingua sbagliata.

E se non si fosse rivolta alle Ombre nella Lingua, non avrebbe fatto altro che peggiorare la sua situazione.

"Quanti anni hai?" le chiese l'Ombra. La bambina si sarebbe aspettata un tono spazientito, ma non fu così. Non fu nemmeno accondiscendente. 

Le Ombre vivevano in un altro mondo per davvero.

L'indecifrabilità dei loro atteggiamenti, che in fondo aveva attirato Kumki a seguirli, la stava inquietando più che mai.

O si faceva coraggio, o era finita.

"Sei!"

Per non pigolare, aveva finito con l'urlare.

Colta alla sprovvista dalla sua stessa voce, staccò con un sussulto le mani dallo stipite: improvvisamente libera dalla sua stessa catena, fece per scattare a correr via.

"Ferma."

Non poté ignorare l'ordine.

Si voltò, ancor più bianca di quanto già non fosse in volto, i pugni stretti lungo i fianchi e gli occhi ora puntati sull'Ombra. Poi, di colpo, portò il pugno destro al petto – con tanta rapidità da farsi male.

"Ascusaste!" disse, continuando a gridare per l'agitazione. Immediatamente si corresse: "Scusateme!" No, aveva sbagliato di nuovo: "Scusate! Mi!"

"Dimmi chi sei."

"Kumki sono." finalmente aveva regolato il tono di voce. "Filia di Kum7 e Lazari8, Tanki9 e Naa'ski10

"Tornatene a casa. Ci rivedremo."

Kumki guardò le Ombre, una per una, immobile.

"Kumki." la riprese A'ni. "Vai. E che non succeda mai più."

La bambina scappò.


A'ni e Atro si scambiarono una rapidissima occhiata, per poi tornare al proprio lavoro. Verificati i dati del catasto, i tre Custodes si recarono dalla rappresentante di comunità per gli ultimi accordi.

"Inizieremo tra tre giorni." disse A'ni alla donna, un'artigiana che s'era dimostrata ben più sagace dei Bellatores a cui loro erano abituati. C'era sempre da stupirsi, a parlare con la popolazione. A'ni amava farlo, lo considerava parte integrante dell'essere Custos. Studiare da pedagogo era quanto più si confaceva a lui: rimescolarsi alla sua terra, trovarne i semi migliori, farli crescere – questo era il Finis di A'ni. Non se lo era scelto direttamente – nessuno se lo sceglieva mai –, ma, come sempre avveniva, era esattamente quello che voleva fare.

Atro era altro genere di Custos. Stava al confine. Quella era la sua terra, non questa. Questa era la terra da proteggere, quella, quella linea sottile che ogni giorno si modificava leggermente, che un anno avanzava e un altro retrocedeva, che mieteva e faceva nascere guerrieri in continuazione: quella era la terra da abitare.

Era solo di passaggio, al paese.

E su, eccola: l'ennesima ondata d'Odio.

La prese, l'annodò, la strinse, facendola spirare di asfissia. Se ne andò.

Non poteva più permettersela, questa cosa. O gli sarebbe sfuggita di mano.

"Come vi abbiamo già detto, siamo lieti di offrirvi cibo delle nostre dispense e acqua dei nostri pozzi –" insistette, in modo puramente formale, la rappresentante "– ma se avete bisogno di altro, i carri arrivano e partono ad ogni ora. Lasciatemi i vostri comandi e provvederò io a farvi arrivare quanto vi serve."

A'ni annuì. "A te lascio il compito di informare i Parentes che soggiornano qui. Tutti i bambini senza Nomen di almeno quattro anni sono i benvenuti."

"In parte ho già provveduto. Vedrò di finire il lavoro."

"Ci congediamo."

"Arrivederci."


"Le Ombre!"

Kumki giunse alla piazza della fontana rotolando direttamente sopra Lamaki, che tentò di scansare l'altra senza risultato. Ruzzolarono a terra, ritirandosi su: Kumki pareva preda di una risatina isterica, mentre Lamaki la guardava con gli enormi occhi neri, inquieta e affamata di sapere. La risata di Kumki venne interrotta da una sberla.

La bambina si mise a piangere.

"Ahbhrava, cretinotta the, ch'altro non si!" Kum, Mater di Kumki, la prese per le orecchie. "Morire vuoi? Morire? Da le Ombre vai the? Non ci ascolti mai a noialtri? Eh?"

"Ma'so viva me!" grugnì la bambina. "Sana! Forte! Mollami, Matre!"

"Se parli la Lingua ti mollo! O hai parlato così anche a Loro, eh? Ti pare modo?"

"Lasciami!"

Kum la lasciò andare, levando in aria la mano per mimare una seconda sberla incombente: Kumki indietreggiò, senza nemmeno pararsi il volto – lo sapeva di essersela andata a cercare. Strinse forte gli occhi ed aspettò la seconda manata.

Non arrivò.

Kum sbraitò qualcosa di incomprensibile, e si sedette a terra. "Vedi di non traviare Lamaki, pure. Anzi, sai cosa? Poi ti dico."

La donna tacque. Kumki, sua fotocopia in piccolo, con lunghi capelli biondo cenere raccolti in un'alta coda, osservò a lungo la sua Mater per capire cosa stesse tramando. Le due rimasero in un imbronciato silenzio, mentre Lamaki, muta, le osservava.

Lentamente si avvicinò all'amichetta: "Ma le Ombre?" le chiese, sotto voce.

Kumki decise di non dir nulla, inquietata dalla strana minaccia di Kum.

"Tornastenethe dalla Mater tua the." grugnì Kumki.

Lamaki rimase lì impiantata, per nulla disposta a lasciar cadere il discorso in quel modo. Dopo un po', ritentò: "Ma le Ombre, Kumki?"

Kum si avvicinò alla figlia, prendendola in braccio e iniziando a pulirle i capelli e la veste – una larga tunica, come tutti i piccoli lì usavano, fatta d'un continuo susseguirsi di rattoppi e allungamenti dovuti alla crescita.

"Si chiamano Custodes." sillabò Kum, esasperata. Non c'era modo di evitarlo: i bambini le chiamavano Ombre.

Lo avevano sempre fatto, al paese. Sarebbe continuato per sempre.

Non avevano tutti i torti, d'altronde.

"I Custodes?" chiese allora Lamaki.

"Sono enormi." iniziò a proclamare Kumki, scattando in piedi: sfuggita alla madre, con i capelli sciolti prese a muovere le braccia per cercar di mimare quanto grandi fossero a parer suo i Custodes.

Lamaki la guardava senza mutare apparentemente espressione, interamente concentrata a seguire quanto aveva da dire. 

"Ce ne era uno che era alto come una casa –"

"Nun 'sta a dì palle, the!" la rimproverò Kum.

"Giuro! Grosso! Grossissimo era più tutti gli altri messi in impilati! Uno sopra l'altro! Così stavano! Se no non potevano guardare quello negli occhi, dico!"

"Piantala – Lamaki, non ascoltare 'sta cretinotta, the. Zitta, Kumki."

Kum riafferrò la figlia per i capelli, tirandosela addosso per finire di rifarle la coda.

In tutto questo, Lamaki aveva osservato la biondina muoversi e dimenarsi e scalciare mentre cercava di descrivere la grandiosità delle Ombre – dei Custodes, anzi.

Pendeva letteralmente dalle sue labbra: se pur il suo volto non sembrava essere capace di trapelare entusiasmo, sempre serio, Lamaki avrebbe fatto qualsiasi cosa fosse in suo potere per continuare ad ascoltare quanto Kumki aveva da dire.

"E m'han detto, sai, Lamaki, he? Sai che? Eh?"

"Che?"

"Che se da loro torno poi mangianomimi!"

"Mangianotiti?"

"Dico – mph!" Kum decise che l'unico modo per far smette smettere la figlia di dire fesserie era di tapparle direttamente la bocca.

"'n l'ascoltare allei. Prego. Dice solo il falso."

Lamaki soppesò a lungo l'affermazione di Kumki, senza prestar troppa attenzione a quanto Kum diceva: per quel che la riguardava, la donna aveva molta meno voce in capitolo della bambina. Questo non impedì alla piccola, dopo un faticoso rimestare di pensieri, di bollare come poco credibile l'affermazione di Kumki. I Custodes non mangiavano nessuno.

"Ma t'han presa?" chiese allora Lamaki, talmente sottovoce da emettere, più che un suono, un respiro.

"Non ti aspetta a casa, la tua Mater, Lamaki?" domandò Kum, deviando il discorso.


Tutti lo sapevano ma nessuno lo sapeva. Di sicuro, non c'era adulto che mai avesse detto alcunché al riguardo, e mai ci sarebbe stato.

Ma le Ombre – ognuno di loro ne aveva avuto in qualche modo nozione – le Ombre andavano a caccia di bambini.

Ogni tanto qualche fratello o sorella spariva. C'era allora un sussurrare generale: le Ombre – erano state le Ombre.

I più tornavano dopo qualche tempo, ma girava voce di alcuni che erano spariti del tutto. C'era chi, come Kumki, sosteneva venissero mangiati. Ma, se pur Lamaki pendesse sempre e costantemente dalle labbra di Kumki, c'era una persona al paese a cui sempre avrebbe prestato più attenzione che a chiunque altro: Lama, la sua Mater.

E Lama aveva detto, un giorno: "No, Lamaki. I Custodes non mangiano nessuno."

Nient'altro aveva mai detto Lama al riguardo. Quello. Solo quello.

A Lamaki bastava: le Ombre non avrebbero mai mangiato nessuno.









[1] Pronuncia: Lamàki

[2] Pronuncia: Àtro
[3] Pronuncia: Làma

[4] Pronuncia: Giùn

[5] Pronuncia: À-nì (breve stacco)

[6] Pronuncia: Kùmki

[7] Pronuncia: Kùm

[8] Pronuncia: Làzari ( z quasi s, come in spoSa)

[9] Pronuncia: Tànki

[10] Pronuncia: Naa-zki (breve stacco,  z quasi s, come in spoSa)


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Nota dell’autrice: 


Dopo aver riscritto tutto almeno cinque volte, dopo ottanta inizi, oltre settecento pagine di svarioni, cose, errori – un continuo non finito, un po' causato dall'ansia dell'impresa (mai prendersi troppo sul serio, questo ho imparato) e un po' dalla vita che intanto se ne va avanti per i fatti suoi, come se la persona e la autrice, se tal posso definirmi, fossero scisse, I frutti dell'oblio ritorna.

Ritorna come storia originale che rischia di far concorrenza alla Ruota del Tempo in termini di quantità (non di qualità, scherziamo), dopo che in questi anni (dieci ne sono passati, da quando iniziai a far danzare le idee nella mia testa solleticata da pensieri sul mondo di Naruto) un mondo intero è nato, morto, vissuto, resuscitato.


Questa è la “riscrittura” (se tal si può definire, perché di cambiamenti ne trovate a palate e non certo trascurabili) della mia amata (unica) fanfic finita, che oramai ha messo le sue gambine e si è distaccata dal fandom. Come in molti mi avevano giustamente scritto nelle recensioni della FanFic, molti pg sono diventati OC, indipendenti, e in questi anni ho lavorato in modo da poter del tutto definire il mio mondo, o meglio, quello dei ‘miei’ personaggi, come in fondo mi pare sia il modo più naturale di essere e quello che sentivo loro più proprio. Ho cercato di sviscerare ogni aspetto della vita dei neri e dei bianchi, la storia, l’organizzazione sociale, la loro cultura e le loro usanze.


La storia ha rating rosso perché non voglio risparmiami niente. Voglio insistere sul rating rosso e sul fatto che ci saranno tematiche delicate, che intendo trattare a fondo e spero senza mai abusarne, rendendomi conto che alcuni dei personaggi sono a volte bambini e la cosa potrebbe non essere molto simpatica. Cerco di essere delicata ma salda su alcune questioni, e ho preso questa decisione dopo aver a lungo letto romanzi di ogni genere per capire cosa si possa e non si possa scrivere, e per farlo con il maggior tatto possibile senza però snaturare quello che per me è un concetto che vale la pena di essere approfondito.

A chiunque, per qualsiasi motivo, sia rimasto con me sino ad ora, vi ringrazio e spero che possiate godervi i miei svarioni post-adolescenziali come avete fatto con i miei svarioni adolescenziali.






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Capitolo 2
*** 1. Nomen ***


1.   Nomen



Im’ahki Tsarji Hari Miran. 1

Chiuse forte gli occhi e se lo ripeté, ancora e ancora.

Im’ahki. Tsarji. Hari. Miran.

Continuavano a chiederlo. Da quando aveva messo piede in quella stanza, lo chiedevano a ognuno di loro.

Chi sei?

Im’ahki Tsarji Hari. Miran.

Qual è il tuo Nomen?

Non aveva mai usato il suo Nomen. 

Per un attimo aveva creduto di esserselo scordato. Poi una delle Ombre glielo aveva ricordato.

Miran. Il tuo Nomen è Miran.

E come aveva fatto con gli altri trenta bambini presenti nella stanza, aveva ripetuto con lui: Im’ahki Tsarji Hari Miran.

Chi è tua madre?

Im’ah.

Tuo padre?

Tsar.

A che gente afferisci?

Sono un Hari.

E qual è il tuo Nomen?

Miran.

Ricordatelo sempre molto bene, Miran.

Nessuno lo aveva chiamato Miran, sino ad allora.

Ma doveva metterselo bene in testa, perché la donna bionda chiamava per Nomen. Ogni volta che il rumore della maniglia che s’apriva giungeva alle orecchie dei bambini, i loro occhi si portavano sulla porta. Sulla donna. Neanche il tempo di metter piede fuori dalla stanza, e questa pronunciava un Nomen.

Era un sussultare generale - chi più quieto, chi più irrequieto. A chi toccava?

A chi toccava fare cosa, poi?

“Alir2!”

Alir sedeva esattamente di fronte a lui. Era una bambina dalla carnagione chiara e il volto rotondo, con i capelli scuri raccolti in una lunga treccia. Miran intercettò il suo sguardo, come già gli era capitato di fare da quando li avevano messi lì, a sedere.

Era terrorizzata.

Non sembrava nemmeno più respirare.

“Forza, Alir.” La chiamò nuovamente la donna bionda.

Non c’era intransigenza, né fretta, né calma, né accondiscendenza nella sua voce. Era il tono piatto e metodico a rendere ancor più tassativo quell’ultimatum: Alir scese rapidamente dalla sedia e s’incamminò verso la donna.

“Stai dritta, Alir.”

Alir si fermò. Cercò di raddrizzarsi, e proseguì.

“Brava.”

La porta si chiuse.


Im’ahki Tsarji Hari Miran non aveva la più pallida idea di quanto tempo fosse passato da quando lo avevano piazzato su quella sedia. Per quel che lo riguardava, il sole poteva benissimo essere tramontato e sorto una decina di volte: non ne poteva più.

Si sporgeva a destra e a sinistra, guardandosi attorno, scrutando, spiando, osservando. La stanza era candida, levigata, pulita. Emetteva luce. 

Era tutto bianco.

Beh, quasi. Le Ombre, per esempio. Le Ombre, come sempre, erano nere.

Ma il pavimento era bianco, le pareti erano bianche, il soffitto era bianco. E le porte. E le sedie.

E luce, ovunque luce. Liscio. Tutto era liscio, liscissimo, come il ghiaccio del lago d’inverno: però non faceva freddo, e quindi, concludeva Miran, non era ghiaccio. Il ghiaccio veniva solo col freddo. O forse no, forse quello era ghiaccio tiepido.

Anche lui e gli altri erano bianchi – almeno, vestiti di bianco. Gli avevano dato delle lunghe maglie, tutte uguali: ad alcuni arrivavano poco sopra le caviglie, ad altri nemmeno alle ginocchia. Scalzi, sedevano e aspettavano.

C’erano le Ombre. Tre Ombre, come sempre – sempre tre. Tre quando le vedeva al quartiere, tre quando gli avevano detto di seguirlo, tre durante il viaggio, tre in quella stanza.

Due uomini e una donna.

La donna stava in piedi e guardava, sulla porta. Non era la donna bionda, era un’altra donna: aveva occhi chiari e capelli corti e rossastri, sulla carnagione, ovviamente, scura. La sentiva parlare di rado. 

Gli altri due camminavano lentamente su e giù per la stanza, fermandosi ogni tanto a chiedere loro il Nomen.

Poi capitava che qualcuno si mettesse a piangere. Certo, era comprensibile.

Ma non puoi metterti a piangere davanti alle Ombre, si diceva Miran. Di tutti i problemi che lui aveva a star lì, fermo, seduto, ad attendere – l’ultimo era mettersi a piangere. Era troppo eccitato per mettersi a piangere. 

E poi non si era fatto male nessuno: che senso aveva?

Quando qualcuno degli altri cedeva, un’Ombra arrivava –si fletteva, accovacciandoglisi davanti, e spiegava: “Se piangi, dovrò riportarti indietro. Non piangere.”

Non tutti capivano. Ma i più si fermavano.

Già tre di loro erano stati portati via: l’Ombra li aveva presi in braccio, quando oramai singhiozzavano, e mentre quasi sembrava dondolare per calmarli oltrepassava assieme a loro una porta.

Non tornavano. 

Rientrava solo l’Ombra, chiudendosi l’uscio alle spalle, e ricominciando a muoversi lentamente lungo la stanza.

Miran aveva terrore di finire oltre la porta, oltre la porta sbagliata: lui voleva che la donna bionda lo chiamasse, per una buona volta. Non ne poteva più di aspettare.

Sempre più irrequieto, nel suo continuo fremere appoggiò un piede sul pavimento.

L’Ombra donna lo fulminò con lo sguardo. Miran non la stava direttamente guardando, mentre compiva quel gesto avventato: ma la coda dell’occhio gli era bastata per percepire il movimento, l’anomalia, il pericolo. Ora appoggiato a metà per terra e a metà alla sedia, portò lo sguardo verso di lei: lo fissava. Sembrava non essersi spostata – Miran era convinto che non si fosse spostata –, eppure era diventata improvvisamente una minaccia.

Si era solo piegata. Di un millimetro.

Aveva solo deflesso lo sguardo. Di un millimetro.

Bastava.

Miran ritornò a sedere, appoggiandosi con malagrazia, senza scostare gli occhi dall’Ombra. 

Ci volle un po’: lentamente la donna smise di fissarlo, ritornando a sorvegliare la stanza e tutti gli altri presenti.


Shi’ran3 si appoggiò alla maniglia, scorrendo i dati del candidato successivo. 

Come la maggior parte di loro, anche questo veniva da una Gens qualunque, gran produttrice di Bellatores e Agricolae. Erano geni duri, lavoratori ed energici. C’era stato qualche ammesso al Ludus, fra i precedenti – ma bastava un po’ di statistica per capire che il dato era irrilevante. 

Certo la Gens non era tutto. Un indicatore, al più: anche avere informazioni sulla seconda Gens, quella dell’altro genitore, non significava avere chiare le idee sul soggetto.

Nemmeno l’analisi del codice genetico poteva dirsi risolutiva.

No, erano tutte indicazioni. Suggerimenti. Possibilità.

Un gran marasma di potenziale da cui emergevano loro, i bambini – che poi sarebbero stati educati, temprati, istruiti, malleati. Se meritevoli. Se promettenti. O semplicemente interessanti.

Questo aveva imparato Shi’ran nell’ultima decina di anni, lavorando con i pedagoghi alle selezioni. Come spesso succedeva, le sue iniziali convinzioni erano state rapidamente demolite: in breve tempo aveva capito che c’erano più informazioni nascoste in un gesto, un passo o uno sguardo, di quelle che mai si sarebbero potute ottenere da un controllo medico completo.

Ciò non significava che l’uno escludesse l’altro: i controlli medici erano molto importanti, fondamentali – sia per gli individui che per la popolazione. Storicamente, si erano dimostrati vincenti.

Ma per lei, e per quello che era diventato il suo lavoro, erano solo un filtro a grana grossa da cui far passare tutti i candidati, per poi andare a scremare alla vecchia maniera: come il Ludus sempre aveva fatto e sempre faceva. Osservando. Studiando. E con una buona dose d’esercizio. Non era un caso che i pedagoghi fossero prevalentemente Custodes: erano mansioni dove contava più l’occhio che la teoria, più l’intuito e la sensazione che l’analisi quantitativa.

Nulla era quantitativo, nei bambini.

Dapprima aveva odiato questo aspetto delle selezioni. 

Poi, ci aveva fatto il callo.

Ora era pronta.

Sapeva esattamente cosa stava cercando.

Fece capolino dalla porta, chiamando l’ennesimo bambino: un’altra possibilità, un’altra storia, un altro mondo da esplorare, valutare e prendere in considerazione.

“Miran!”


Miran scattò. 

Corse più veloce di quanto mai avesse fatto, lanciato verso la donna bionda: solo a un metro dalla porta si rese conto che forse era il caso di fermarsi davanti a lei, invece di oltrepassare la soglia.

Si arrestò malamente, rischiando d’impattare contro le ginocchia dell’altra: quella lo squadrò dall’alto, aggrottando le sopracciglia.

“Dove pensi di andare?”

Miran tacque, la testa tutta reclinata all’indietro per poter almeno provare a guardarla negli occhi.

“Mi hai chiamato.” disse alla fine.

“Ma non ti ho detto di entrare.”

Miran tacque di nuovo, senza smettere di guardarla.

Silenzio.

Shi’ran fece passare uno, due, tre… molti secondi. Quando ebbe appurato che il bambino non avrebbe mai e poi mai abbassato lo sguardo, costasse quel che costasse, gli fece finalmente cenno di entrare. Mentre quello schizzava, come invasato, verso l’ambulatorio, lei levò gli occhi al soffitto: poi, trattenendo un sospiro, si richiuse la porta alle spalle.

Miran si arrestò in mezzo alla stanza, sorpreso nel vedere che c’erano altre quattro persone, lì dentro. Due di loro erano innegabilmente Ombre; gli altri due erano più simili alla donna bionda. A differenza delle Ombre, avevano carnagioni chiare e vestiti lunghi e bianchi.

“Siediti lì.”

Shi’ran indicò con il capo un ripiano alto almeno quanto il bambino. Osservò il piccolo scrutare l’oggetto, poi guardarsi attorno: dopo aver dato un’occhiata sommaria alla stanza, quello tornò a fissare il ripiano, meditabondo.

Erano molte le cose che i bambini potevano fare in quella situazione, creata non certo per caso: c’era chi chiedeva semplicemente aiuto, chi s’ingegnava, chi era abbastanza forte e agile per arrampicarsi da solo. Alcuni rimanevano immobili e muti davanti all’ostacolo. Altri si giravano e guardavano gli adulti, in cerca di un suggerimento di qualsiasi natura, o, più semplicemente, di una mano. Alcuni si mettevano sulle punte e cercavano di issarsi da soli, senza riuscirci. Certi senza nemmeno sforzarsi: si aspettavano palesemente di venire sollevati da un agente esterno.

I pedagoghi avevano ragione: era più importante il comportamento del bambino rispetto alle sue analisi del sangue. 

L’anemia si cura.

La psiche non sempre. 

È bene conoscerla a fondo prima di iniziare a martoriarla, impastarla, svilirla, modellarla e ricostruirla nella forma più solida ed efficiente che le sia possibile assumere.

Miran saltellò un paio di volte, provando ad aggrapparsi al ripiano: niente.

Si guardò nuovamente intorno, ben attento a non incrociare gli sguardi dei cinque adulti.

Appurato che non c’erano sedie, scale o affini con cui raggiungere la meta, riprovò a issarsi: niente.

Di colpo prese a correre: si allontanò, verso la porta della stanza, finché invertì bruscamente la sua direzione. Forte della sua rincorsa saltò, si aggrappò, appeso scivolò, scalciò l’aria, e con un colpo di reni, finalmente, riuscì a portare il suo baricentro abbastanza in alto da issarsi definitivamente sul ripiano. 

Seduto, con le guance arrossate per lo sforzo, cercò allora – e solo allora – lo sguardo dei cinque adulti, con un largo sorriso stampato sul volto.

Shi’ran si mise a trafficare fra le sue scartoffie prima che Miran potesse ottenere un qualsiasi segnale di approvazione da parte sua: similmente fecero gli altri.

“Iniziamo con il prelievo.”


Nei giorni che seguirono Miran fu sottoposto a una quantità di prove tale da fargli perdere buona parte del senso del tempo. Sebbene mangiasse e dormisse a orari ben scanditi, iniziava a non capire più quanti giorni avesse trascorso in quel posto – lontano dal mondo in cui era cresciuto. Andava pian piano abituandosi, portato a credere di essere destinato a rimanere lì in eterno.

Le persone attorno a lui cambiavano costantemente volto, non una che fosse rimasta per più di un giorno: anche i sorveglianti del dormitorio non erano mai gli stessi. 

Fra un’attività e l’altra – molte delle quali venivano facilmente confuse, dai bambini, per ore di libertà e gioco – si intervallavano analisi mediche. 

Quando entrava in un ambulatorio, per lo meno, gli capitava di rivedere la donna bionda. 

Miran osservava incuriosito ogni ago che gli mettevano in corpo: scrutava interessato il suo sangue fluire nei tubicini e poi nelle provette, oppure s’incantava a studiare le siringhe trasparenti, il pistone, la sensazione strana che provava ogni volta che qualcosa di nuovo gli veniva iniettato nelle vene.

Col passare del tempo la quantità di bambini intorno a lui diminuiva. 

La sua nuova vita stava lentamente iniziando, l’idea di tornare a casa sempre più offuscata nella sua mente: era naturale, ormai, che lui stesse lì.

Quello era il suo posto. In fondo, non poteva essere altrimenti. 

Non riusciva più ad immaginarlo, un “altrimenti”. Non ne sentiva il bisogno.



***



La nuova vita, per Miran, era oramai diventata routine.

Lo svegliavano all’alba. Li portavano in palestra, a gruppi, e facevano far loro quelle che un bambino altro non avrebbe potuto definire che come cose. Anche se ancora intontito dal sonno, Miran si divertiva. Si divertiva sempre.

Si era abituato all’idea che ci fossero sempre nuovi adulti, insieme a loro; e sempre meno bambini insieme a lui. A un certo punto la cosa si era stabilizzata, e, nella continua routine, non si era accorto di iniziare ad aver più facilità nel riconoscere gli insegnanti dei suoi compagni. Accorgersene, però, non significava farci caso.

Era troppo impegnato a fare cose per far caso alle cose.

Dopo la prima ginnastica, la colazione. Sempre abbondante. 

Dapprima aveva pensato di non dover mangiare tutto, visto che nel suo piatto c’era cibo per un giorno intero: magari era una prova anche quella – chissà.

E invece no. La prova stava proprio nel mangiare tutto. Assolutamente tutto.

Non gli veniva difficile, per fortuna.

Dopo la colazione, altre cose in palestra. Ogni tanto gli davano in mano delle matite, e lo facevano scrivere. Contare.

Pranzo, anche quello notevolmente abbondante, e poi altra palestra. Riposo. Palestra. Cena leggermente più leggera – ma sempre molto di più di quanto non avesse usato mangiare nella sua precedente fetta di vita.

Altra palestra. 

A letto.

E visite in ambulatorio, senza un orario preciso: col tempo, comunque, si era abituato anche a quel po’ di casualità. Sulla soglia della palestra, senza preavviso, in un momento qualsiasi, appariva un Custos. Miran lo guardava, e, se il Custos lo stava fissando, doveva mollare tutto e seguirlo. Lo portava in ambulatorio, dove ogni tanto compariva la donna bionda, e il bambino vi restava per un tempo indefinito. A volte dormiva lì. A volte si svegliava lì senza nemmeno ricordarsi d’essersi addormentato.

A volte c’era qualcosa che faceva Bip con dei cavetti attaccati a lui, altre volte no. A volte la donna bionda gli chiedeva di fare qualcosa – saltare, correre, risolvere un gioco.

Quel che Miran adorava dell’ambulatorio era il ripiano in alto. Tutti gli ambulatori avevano un ripiano in alto, uguale a quello su cui si era arrampicato alla sua prima visita.

E lui, ormai, era più che capace di salire da solo e senza alcuna rincorsa sul ripiano in alto. Ergo, appena entrava in ambulatorio, saliva sul ripiano in alto. Che poi venisse sistematicamente richiamato a terra, era un altro discorso. Ma intanto c’era salito, per l’ennesima volta, con la sola spinta delle braccia e delle gambe, facendo sempre meno fatica, controllando sempre meglio il suo corpo.

Scendi.”

Divenne: “NON SALIRE!

Sempre, sempre ignorato.

Alla quinta volta Shi’ran dovette chiamare Isia4.


Miran sostenne senza fare una piega lo sguardo dell’uomo, nonostante gli occhi dell’altro si trovassero a quasi due metri dal pavimento. La sua altezza era ancora più evidente a causa del fisico asciutto e le spalle, in proporzione, strette. Le iridi, nere, sembravano aver la facoltà di emanare ombra. 

Il Custos, che sopra la divisa portava una larga maglia color rosso fuoco, dal lungo collo a V e ampie maniche che raggiungevano i gomiti, inquadrò rapidamente il bambino: leggermente più basso della media, zazzera bionda oltremodo disordinata, il volto tondo come una mela che cercava invano di dimostrarsi serio. Era una furia. Ogni singolo movimento che faceva era esageratamente ampio, teatrale, maldestro solo in apparenza. Miran aveva una sconsiderata coscienza del proprio corpo, ed era palese che lo sentisse in ogni sua singola fibra: il suo ego strabordava in ogni sua azione. Isia non aveva neanche bisogno di leggerne la scheda – a cui comunque gettò, si sa mai, un’occhiata – per capire il soggetto che aveva di fronte.

Ignorare Shi’ran per cinque – non tre, ma cinque volte – significava sfrontatezza intrinseca.

Ma Miran, sino ad allora, era stato abbastanza furbo e accorto da non sforare il limite.

Era ovvia la domanda che si stava ponendo il piccolo, in quel momento – sebbene inconscia. Isia l’aveva molto più chiara di lui. E aveva la risposta pronta.

“Seguimi.”

Miran non aprì bocca, resosi conto di aver passato il limite. Shi’ran lo vide sbiancare leggermente, le labbra strette, e abbassare il capo mentre usciva dalla porta dell’ambulatorio, tenutagli aperta dal Custos. Quando questa si chiuse, il bambino sussultò.

In quel momento Miran focalizzò la sua più grande paura: essere mandato via.

Era passato tanto di quel tempo da quando aveva visto i bambini in lacrime uscire dalle porte per non farvi ritorno, che si era completamente dimenticato di questa possibilità. Per lui i giochi erano fatti, lì era e lì sarebbe rimasto, qualsiasi cosa avesse voluto significare. Qualunque posto fosse.

Qualsiasi motivo lo avesse portato lì.

Quella era casa sua.

Si fermò di colpo. Con la fronte aggrottata e i pugni serrati lungo i fianchi, tornò a sollevare il mento per fissare l’uomo dalla maglia rossa dritto in faccia.

Isia si fermò a sua volta, temendo già di doverlo trascinare a forza.

Rimasero in silenzio, immobili nel corridoio.

“Non voglio andare via di qua!” urlò di colpo il bambino.

Isia levò un sopracciglio, divertito. Incrociò le braccia al petto e drizzò ulteriormente la schiena – come se già un Custos non camminasse abbastanza dritto.

“Non voglio!” ripeté il bambino.

L’uomo attendeva di vedere se quello si sarebbe messo a piangere o meno. Lasciò passare il tempo, senza dir nulla, in attesa del culmine della reazione del bambino.

Ma quello il culmine lo aveva già raggiunto, ed ora, tremante, Miran attendeva una qualsiasi forma di risposta.

No, non avrebbe pianto.

Non era il tipo che si mette a piangere con tanta facilità. Non doveva nemmeno sforzarsi nel trattenere le lacrime.

Isia iniziò a scuotere lentamente il capo.

“Sappi che, d’ora in poi, nessuno potrà mandarti via da qui.”

Miran si rilassò immediatamente, lasciandosi scappare un sorriso.

“Ma sappi anche che niente e nessuno t’impedisce di andartene. Ora seguimi.”

Di quante volte, in quanti modi, per quanti altri motivi avrebbe sentito negli anni successivi quel mantra, quel concetto, quella sfacciata libertà che gli avevano appena accordato, Miran non ne aveva idea.

Niente e nessuno poteva più nulla contro di lui – questo si ficcò in testa, con quelle parole. Era libero.

Completamente libero.

E al sicuro, perché sarebbe rimasto esattamente dove sarebbe voluto stare, e avrebbe fatto esattamente quel che avrebbe voluto fare. Per sempre.

Eccola, la mentalità del Ludus.

Ecco l’allievo, pronto a iniziare.

Isia aprì una porta completamente anonima. Fece entrare Miran in uno stanzino buio, senza alcuna finestra. Accese una piccola luce giallastra: pareti e pavimento erano di cemento, liscio e disadorno. C’era solo un armadio di metallo.

Il Custos levò il braccio, abbassandolo con un clangore: in mano reggeva una catena, alla cui estremità c’era un moschettone. Lasciò la catena a penzolare, di poco sopra la testa di Miran, per avvicinarsi all’armadio. Ne estrasse un oggetto che agli occhi del bambino dava tutta l’impressione di essere una corda. Nera e rilucente.

Isia si accovacciò di fronte a Miran: lo guardò fisso negli occhi grigiastri, dai quali ancora traspariva una mal celata arroganza mista a curiosità. Gli aveva appena dato in mano un enorme potere decisionale, e ora era del tutto intenzionato a metterlo alla prova.

Non era né il primo né l’ultimo. Uno fra molti. L’ennesimo.

A centinaia iniziavano il Ludus così.

“Visto il tuo comportamento, devi essere sottoposto a una punizione.” Scandì il Custos, continuando a fissare il bambino in volto. “Queste sono le regole del Ludus.”

Tacque, in attesa di una risposta da parte del piccolo. Miran annuì, mentre cercava nuovamente di assumere un’espressione seria e adulta.

“Come ti ho detto prima, sei libero di andare via quando preferisci. Ovviamente non puoi tornare.”

Miran annuì di nuovo.

“Quella che ho in mano è una frusta. Ne hai mai vista una?”

Il bambino abbassò lo sguardo: Isia aprì la frusta in tutta la sua lunghezza, lasciando che Miran la studiasse.

“Puoi toccarla, se vuoi.”

Non se lo fece ripetere due volte: la tastò in ogni modo a lui possibile, palpandola per capirne la consistenza.

Strana.

Non sempre erano così collaborativi, i bambini. Spesso bisognava usare la forza. Ma neanche un atteggiamento del genere era raro – garantiva, come minimo, che Miran sarebbe rimasto al Ludus per i primi tre anni. Solitamente, era così. Chi invece reagiva alla frusta urlando e tentando la fuga, aveva due opzioni: o implorava di tornare a casa, o avrebbe fatto di tutto per non dover essere mai più punito, mantenendo una condotta impeccabile.

La verità era che qualunque studente sarebbe passato per la frusta almeno tre o quattro volte nella sua vita, poiché molte regole del Ludus erano talmente implicite da sfuggire ai bambini più piccoli, poco avezzi a quel mondo. Essere puniti era parte integrante della loro formazione.

“Questa è molto morbida, Miran. E ti darò un solo colpo di frusta, alla schiena. Il minimo indispensabile. Ti farà comunque molto male.”

Il bambino annuì impercettibilmente.

“Più continui a disobbedire e comportarti in modo non consono, più forte diventa la frusta – più colpi, più code. Lo chiamano il gatto.”

Miran aveva capito. La sua faccia non cercava più di essere seria: era seria. Respirava più in fretta, ed iniziava a impallidire. Annuiva, quasi ritmico in quel movimento.

“Devi ricordati due cose, Miran.” In tutto questo, Isia continuava a guardare fisso il bambino, senza perdere una sola delle mille micro espressioni che avevano solcato il suo volto. “Prima cosa.”

Miran annuì.

“Si può morire di punizioni.”

Miran annuì.

“Seconda cosa.”

Miran annuì.

“Puoi andartene quando vuoi.”

Miran non si mosse.

Sarebbe andato via volentieri, in effetti.

Ma non con la prospettiva di non poter tornare mai più.

“Se lasci, lasci tutto. Questo deve entrarti immediatamente in testa.”

Miran annuì, per l’ennesima volta.

Alcuni cercavano di scappare, continuando a dire di voler restare. Molti mollavano lì.

Il difficile era braccare quelli che continuavano a dire di voler rimanere al Ludus. Fintanto che uno studente non diceva espressamente di voler andare via, non c’era verso che si risparmiasse una punizione.

E se anche avesse detto, nello stanzino, di voler mollare, gli avrebbero chiesto tre volte se era sicuro. Sicuro. Assolutamente sicuro.

Miran non era di quel genere. Miran aveva una sconsiderata curiosità che lo portava, prima di tutto, a voler sentire sulla sua stessa pelle cosa potesse fare di tanto malvagio quel misterioso gatto. Quella frusta. Quella striscia al tatto fra il molle e il solido, lunga e nera.

Isia si alzò. Dall’armadio estrasse due bracciali di metallo, della misura dei polsi di Miran: glieli mise, e poi li attaccò al moschettone della catena. Il bambino rimaneva immobile, lasciando fare al Custos. La paura gli montava in gola, ma sembrava non essere mai abbastanza da fargli dichiarare la resa.

Continuava a sbiancare, ogni secondo di più. Isia doveva stare attento: se fosse svenuto avrebbe rischiato di farsi male – slogarsi una spalla, cadere di testa. Cose che non erano previste e che, soprattutto per gli allievi dei primi anni, stava ai Custodes evitare che accadessero. Una frustata è una frustata. Una degenza comporta ben altro tipo di spese e problemi.

Con un lieve strattone alla catena sollevò Miran a qualche centimetro da terra, lasciandolo poi lì. Penzolante, il bambino attendeva.

Isia si curò che fosse ancora vigile: gli occhi chiusi, stretti, il volto completamente contratto, Miran faceva profondi e tremanti respiri.

Col tempo – si disse Isia, caricando il colpo – avrebbe imparato a contrarre i muscoli giusti, senza offrirgli una schiena completamente rilassata: c’era molto da imparare, sulle frustate. Specialmente da parte di quello che se ne stava appeso.


Camminò malamente per il resto del giorno.

Gli altri bambini, pur non vedendo il segno della frustata, riuscivano facilmente a intendere che c’era qualcosa che non andava: durante le sedute in palestra volgevano inevitabilmente gli occhi verso di lui, e verso i suoi movimenti strani. Fra tutti gli sguardi che raccoglieva, alcuni erano più intensi degli altri: erano quelli di bambini che sapevano perfettamente che cosa gli fosse successo.

C’erano già passati.

Non appena Miran intercettava il loro intenso fissare, quelli spostavano gli occhi, evitandolo, e dedicando un’anomala attenzione al Custos di turno.

Gli altri, senza quasi rendersene conto, continuavano a osservarlo.

Forse era successo anche a lui, prima, di fissare un bambino punito. Forse non aveva fatto attenzione. Forse.







[1] Pronuncia: Im-à-kì Tsarjï Harì Miràn ( dadadàn dadadàn dadadì dadàn , così dovrebbe suonare)

[2] Pronuncia: Alìr

[3] Pronuncia: Sci-ràn (breve stacco)

[4] Pronuncia: Isìa












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Nota dell’Autrice


Pubblico in rapidità il primo capitolo, per dare un po’ di struttura alla storia, ma vi avviso che non è questo il ritmo di pubblicazione previsto :) sarò più lenta.

Come avete notato già qui iniziamo con tematiche delicate, ma spero non siano di troppo turbamento, visto quel che può girare fra gli scaffali delle librerie. [Ok, in realtà non si vede niente, ma il concetto di base non è molto allegro e non è per nulla l'ultima volta che ne parlerò, anzi. Forse mi faccio troppi problemi, non lo so – però a qualcuno potrebbe dar fastidio. Si sappia che questa questione verrà largamente ampliata.]


Un ringraziamento a tutti quelli che sono passati e passeranno di qui


Pandi

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Capitolo 3
*** 2. Globus ***



2. Globus



Entrò in silenzio, avvolta dal chiacchiericcio della taverna, ora acuto, ora rauco – ma indubbiamente chiassoso. I presenti ci misero qualche secondo per riconoscere la sua figura, forse a causa della penombra che permeava la stanza, dotata di poche finestre. Lentamente, uno dopo l’altro, si zittirono.

Atro, seduto su di uno sgabello in fondo alla stanza e già orientato verso la porta, la vide subito: fu il primo ad alzarsi, sciogliendo le braccia che teneva conserte e portando il pugno al petto. Vedendo l’enorme massa dell’uomo muoversi, altri due Custodes, seduti a poca distanza da lui, lo emularono; e così, lentamente, il resto dei presenti.

Gli ultimi a fermarsi furono i bambini: una lunga tavolata dove una trentina di loro era intenta a mangiare, che per lungo tempo si mostrò più interessata al pasto che al silenzio che era calato nella stanza.

Alla fine, anche l’ultimo cucchiaio si pose.

Shi’ran chinò il capo, in un cenno di assenso che consentì agli altri di sciogliere il saluto. Solo allora si incamminò.

Mentre il resto della sala riprendeva i propri pasti e i propri discorsi, Atro, ancora in piedi, osservava la donna avanzare verso di lui. Erano anni che non la vedeva indossare la veste dei Philosophi, quella complicata tunica di drappi neri e scarlatti che strato su strato s’alternavano, e ricadevano morbidi su qualsiasi fosse la forma di chi la indossasse. Tutto quel rosso, sotto il sole, poteva essere quasi abbagliante; ma all’interno di un’umile taverna sembrava rendere l’effetto contrario: una scura pulizia. Precisione del colore del sangue, che è, al contrario, cosa sporca e da pulire in fretta.

La Gens era intimorita da queste contraddizioni, e in generale non era abituata ad esser così vicina ad una persona di tal levatura.

I Custodes – sì, ogni tanto si incontravano.

Ma i Philosophi? In una taverna, nel bel mezzo del Pagus, fra la Gens, fra mercanti, tecnici, manovali, Agricolae che non di rado preferivano un bicchiere di vino ad un tozzo di pane? Non impossibile, ma raro.

Le conversazioni ripresero tenui, a tratti impacciate.

Sul volto di Shi’ran si dipingeva un onesto fastidio.

Su quello di Atro, un vago sorriso. Che si curò in fretta di cancellare.

Fati Frates. *” la salutò. In quel preciso istante, giusto in tempo per non far morir del tutto l’ultima sillaba fra le sue labbra, si rese conto di essere andato troppo oltre.

A volte Shi’ran si domandava se l’essere circondata da Agricola non le fornisse il legittimo diritto d’esprimersi come loro. La Lingua forniva una serie di espressioni d’un colore notevole, per non parlare di quelle dei Dialecti.

No, lei non era un’Agricola.

Sorrise ad Atro, levandosi l’espressione di fastidio che s’era ritrovata addosso e decidendo di essere, per ora, la persona più diplomatica della Regio.

“Devo rientrare tra poco.” disse, guardandosi attorno. “Come sono?” chiese poi, osservando la tavolata di bambini.

Atro si sedette, avvicinando un altro sgabello per lei. Ma Shi’ran rimase in piedi, continuando a fissare i piccoli.

“Molto irrequieti.” commentò l’uomo, portando a sua volta lo sguardo verso la tavolata. “Ne abbiamo rimandato indietro un paio, ma io non sono convinto. Non intendo portarli all’Effluxum finché non ne scremo almeno altri quattro.”

La donna emise un sospiro, lungo, intenta a studiarli. “Da dove vengono?”

“Pagus Duodecim. E ce n’è uno di Pagus Moenia. Passavamo di là.”

“Quello alto, laggiù. Il più grande di tutti, direi, con i capelli scuri. E quello di fronte a lui. Potete riportarli indietro prima che si facciano il viaggio.”

Tacque, continuando a spostare gli occhi da un bambino all’altro. “Quello lì, mancino. Fammelo arrivare. E anche quella bambina bionda. Quella accanto a lei è una Bellator, invece. Portamela, voglio vedere se ho indovinato.”

Atro sfiatò dalle narici, quasi divertito. Era una novità vedere Shi’ran così attenta a dei semplici bambini.

“Tutti?” le chiese, sarcastico.

“Tutti cosa?”

Si voltò a guardarla, mentre quella ancora gli dava il profilo, gli occhi solo per quei minuscoli esseri umani.

“Li controlli tutti?

Shi’ran non rispose. Continuava a studiare, o forse si era persa nei suoi pensieri. Aveva una mente infinita, che Atro non avrebbe mai saputo gestire, fosse stato al suo posto. D’altronde, non lo era – e lei non era al suo, com’era giusto che fosse. Lui era un Custos, e la cosa gli stava più che bene.

Benissimo.

“Non dire idiozie.” rispose, dopo trenta buoni secondi, la donna “Controllo solo quelli che possono essere interessanti.”

Fra i due ricadde il silenzio. Atro attese qualche altra manciata di minuti, prima che la donna si voltasse, finalmente, verso di lui.

Ancora, silenzio.

Si fissarono.

“Dimmi.” fece infine la Philosophus.

“Dal Ludus vado direttamente sul confine. Per un centinaio di giorni.”

Shi’ran annuì. “Va bene.”

“Lamaki è pronta, non c’è motivo per cui non venga ammessa. Chiudiamo in fretta questo esperimento, prima che ci sfugga di mano come ha già fatto uno dei tuoi.”

Shi’ran si irrigidì, serrando la mascella.

“Mi stai dando ordini, Atro?”

“Consigli.”

“Su materie di cui non sai nulla?”

Atro si alzò.

Ripresi i suoi abbondanti due metri d’altezza, per un istante si permise di squadrare dall’alto in basso la Philosophus. Ma non durò molto: Shi’ran, immobile, non reagì a quella sciocca minaccia, qualsiasi cosa avesse in mente Atro. Lo ignorò, ritornando a fissare i bambini.

“Qualcosa so anch’io.” disse infine il Custos, facendo mezzo passo indietro.

“Anche gli Agricolae sanno qualcosa. Di alcune cose, sanno ben più di noi.”

Quello strinse le labbra. Eccolo.

Ancora.

L’Odio.

E ancora, lo cacciò.

“Se tanto ci tieni a far le cose come devono esser fatte, rispetta le tue competenze.” tagliente, il messaggio era chiaro. Sarebbe stato al Ludus più del previsto. Alla sua età, ci impiegava del tempo a riprendersi dal gatto.

Alla sua età, non era nemmeno normale passarci, dal gatto - ma avere a che fare con Shi’ran significava anche questo.

“Vedi di non morire.” Con queste parole, la donna si congedò.

Atro la osservò allontanarsi, lasciandosi scappare un cenno d’assenso.


Shi’ran si fermò ai margini della Major Platea, intenta a osservare l’enorme costruzione del Globus: dalle sue vetrate, curve, guizzavano i colori del tramonto, altrimenti impossibile da vedere nel resto della città.

Pagus – parola che in Lingua Antica significava villaggio – era ben lontano dall’essere tale. La capitale della Regio, che secondo la Gens essere stato il primo insediamento della loro civiltà, s’estendeva ormai per un centinaio di chilometri. Era un susseguirsi infinito di case e casupole, dalle architetture di ogni epoca ed ogni genere: dalle case che furono degli Agricola, quand’ancora c’era tutt’attorno terra da coltivare, agli uffici amministrativi e le Scholae di ogni tipo. In mezzo ad un intenso brulicare di persone, visi, odori, bambini e muli, era da secoli oramai ben piantata l’enorme mezza sfera vetrata del Globus, come una bolla di metallo in mezzo alla terra sporca, casa dei Phiosophi, sede del governo centrale della Regio. Come un enorme tappeto, o forse più come un distanziatore, uno scudo, ad allontanare il Globus dal fremere della Gens qualsiasi, enorme davanti ad esso s’estendeva la Major Platea.

Ogni tanto, Shi’ran pensava che se i Bianchi avessero avuto modo di distruggere il Globus, sarebbero riusciti a demolire in un colpo solo tutta la Regio.

Ma arrivare al Globus non era affatto semplice.

Prima, avrebbero dovuto passare i confini. Poi, passare la terra – le vaste, sconfinate terra della Regio, per giungere solo dopo un lungo viaggio al suo cuore pulsante, Pagus. E lì, una volta giunti al Globus – se mai poi i Bianchi avessero potuto essere tanto intelligenti da avere un’idea del genere – si sarebbero dovuti fermare. E chiedere: quali, poi, le conseguenze?

Non era la caduta della Regio, che volevano. Come la Regio non voleva la caduta dei Bianchi.

Il confine. Quello importava. Quel che c’era sotto, e quel che c’era sopra.

Il Globus, e Pagus con esso, erano i luoghi più sicuri dove portare avanti la propria esistenza. Laggiù, lontano, dove una linea immaginaria si tendeva nutrendosi dei guerrieri dell’una e dell’altra fazione, c’era invece il confine. La guerra, le battaglie, l’avanzare e il retrocedere che in una danza infinita allargavano ora la terra degli uni, ora la terra degli altri.

Laggiù c’erano i Custodes. Laggiù c’era il mondo di Atro – che a lei non competeva.

Loro li avrebbero protetti. Quello era il loro compito.

Il suo era di rendergli questo compito di giorno in giorno più semplice.

La vita di Shi’ran era troppo preziosa, troppo unica, e vasta, la mente troppo attenta e le possibilità di sviluppo troppo grandi per rischiare di perderla anzitempo.

Da cui, i Philosophi al Globus, i Custodes al fronte.

Com’era sempre stato, da almeno seicento anni a quella parte.


Al cominciare della quinta ora, il sole oramai oltre la linea dell’orizzonte e Pagus tinto dell’arancione tipico delle lampadine a incandescenza, Shi’ran iniziava la sua attesa per essere accolta al tavolo degli Undecim – i dieci Philosophi del Summus Globus accompagnati dalla massima carica della Regio, l’Helios.

Normalmente, essere chiamati ad una loro interrogazione significava perdere almeno mezza giornata, se non una intera. Quelle undici persone erano le uniche di tutta la Regio che potevano permettersi di far aspettare gli altri, di non rispettare gli orari, di non curarsi del tempo sottratto alle incombenze altrui: la cosa non era né mai sarebbe stata fatta per malizia, ma piuttosto per la mole di lavoro che spettava loro. Una convocazione alla quinta ora iniziava come minimo alla sesta, se non anche alla prima del giorno successivo. Quand’era ancora una ragazzina che cercava di non mostrarsi spaesata nel vestire la toga scarlatta dei Philosphi, a Shi’ran era capitato di rimanere sveglia tutta la notte per poi venire chiamata non all’alba, ma addirittura all’ora mezza, quando ormai il sole era ben alto nel cielo.

Ora, le cose stavano diversamente.

Lei era il Medicus più importante della Regio, e farle perdere tempo costava caro. Non la facevano attendere più di duecento, massimo trecento minuti, a costo di congedare prima del dovuto chi era stato chiamato prima di lei, o darle la diretta precedenza su di un’intera interrogazione.

Gli Undecim avevano enorme fiducia in lei e nel suo lavoro. Per questo, e solo per questo, le chiedevano sempre di più.

Shi’ran aveva imparato dapprima la scienza, poi la biologia, quindi la medicina – diventando Medicus –, e negli ultimi anni aveva studiato la psicologia e la pedagogia. Durante tutta la sua vita aveva assorbito nozioni d’ogni genere, mentre impostava e portava avanti una delle ricerche più promettenti dei suoi tempi.

Shi’ran era tutto, tutto faceva, tutto poteva. Shi’ran aveva aperto ogni libro di ogni biblioteca della Regio, discusso con ogni Medicus, Philosophus, Custos, persino con la Gens, con tecnici e Agricolae – con chiunque potesse fornirle informazioni utili.

Quindici anni prima aveva osato pensare che la sua ricerca fosse finita.

Invece, era solo iniziata.

Aveva ancora molti anni davanti a sé. Centinaia di cose da sperimentare, milioni di errori da evitare. Gli occhi socchiusi, a questi pensava, mentre ripassava mentalmente tutti gli ultimi progressi fatti, tutte le sue nuove idee, tutte le possibilità. Davanti al Summus Globus pretendeva d’essere sempre pronta e reattiva, senza un attimo d’esitazione, senza una pausa troppo lunga nelle sue parole.

A lei chiedevano saldezza, e a loro salda, sempre, si presentava. In ogni occasione, qualunque fosse il peso della questione, qualsiasi il problema.

Anche in caso d’errore.

Succedeva, di sbagliare.

Al Ludus le avevano insegnato anche a far quello, e a farlo nel modo più efficiente possibile.


La chiamarono ad una ventina di minuti dell’ora sesta. Un ragazzino di forse quattordici anni si presentò davanti a lei, la mano sinistra vagamente tremula, dei drappi rossi addosso ad indicare il suo stato di studente avviato verso la casta più alta della Regio.

La salutò con un minimo gesto del capo, le braccia immobili lungo i fianchi, se non per i minuscoli movimenti dovuti all’agitazione. Non fosse stato per quel sintomo minimale, lo studente poteva dirsi perfettamente inquadrato nel suo ruolo.

Chissà da quanto tempo era lì, si chiese distrattamente Shi’ran.

In tutte le sue interrogazioni, non aveva mai trovato la stessa persona, a condurla dentro la sala del Summus Globus. Non aveva idea di come funzionassero le cose, lì – né le premeva saperlo. Ma incontrare sempre ragazzini di quell’età, da quando lei stessa aveva avuto quattordici anni ad ora, in vista del mezzo secolo di vita, le aveva dato un senso dello scorrere del tempo inaspettato.

Loro – i ragazzini, al Globus, e i bambini, al Ludus – erano sempre uguali. Diversi, e uguali. Tutto si replicava pressoché identico, salvo rare, impercettibili evoluzioni, qualche eccezione – i volti cambiavano, ma la storia rimaneva sempre la stessa.

A volte aveva la sensazione che il tempo riguardasse solo lei, e pochi altri. Non Pagus, non il Ludus, non la Regio. Dal tempo, questi, erano immuni.

“Gli Undecim desiderano conferire con te, Shi’ran.” disse il ragazzino, con voce lineare e metodica.

“Qui sono.” rispose lei.

Quello si lasciò scappare del malcelato sconcerto, a sentire quella strana risposta. Solitamente, le persone rispondevano Li ringrazio per questo, o formule simili. Nulla di vicino a quanto aveva invece detto la donna, bionda, poco più bassa di lui, il volto latteo segnato da poche rughe ordinate. Era una Philosophus del più alto rango, lo s’intendeva da lontano: che fosse di rango così alto da permettersi una risposta del genere, non era dato sapere. In un istante il giovane cancellò quell’espressione vagamente inebetita che s’era per sbaglio ritrovato sul volto, facendo strada alla Philosophus.

Non era affar suo il modo in cui i Philosophi comunicavano fra loro. Non ancora, per lo meno.

Aprì le due ante della grande porta nera da cui si accedeva alla sala del Summus Globus: in mezzo alla stanza, nera a sua volta, v’era il tavolo delle interrogazioni – una semicirconferenza che sul lato esterno ospitava gli Undecim, e al centro l’interrogando.

Shi’ran sentì la porta chiudersi alle sue spalle, mentre si ritrovò a esitare nell’osservare lo schienale, vuoto, del posto centrale del Summus Globus. L’Helios non c’era.

“Vieni avanti, e seduti pure.” disse una donna, ben più in età di lei.

Shi’ran annuì, portandosi al centro. Le luci puntavano verso l’interrogando, sempre, e le pareti nere della sala impedivano che riflettessero tutt’attorno. Questo non impediva a Philosophi e Custodes, di norma dotati d’eccellente vista, di vedere i membri del Summus Globus in volto, ma chiariva bene quali fossero le posizioni e la situazione del caso. L’interrogando era al centro dell’attenzione – illuminato, nel punto in cui l’acustica meglio permetteva la propagazione della sua voce, era quello che avrebbe più parlato, quello di cui più ci si sarebbe curati. Gli Undecim, principalmente, ascoltavano. Quando uno di loro diceva qualcosa, mai lo diceva ai suoi pari, ma sempre all’interrogando. Quand’anche fossero stati in dodici in quella stanza, sempre e solo di un dialogo si trattava, sempre e solo due erano le parti in gioco: chi stava al centro, e il Summus Globus.

“L’Helios si trova al Ludus.” Precisò un uomo, dal tono prestante.

Shi’ran non si sorprese di aver avuto risposta ad una domanda che non aveva esplicitamente posto; si sedette, pulendo la mente.

Mentre prendeva un lungo fiato, osservò attentamente i dieci presenti. Erano sempre gli stessi, non vedeva facce nuove fra loro da almeno una decina d’anni. Ormai si aspettava da un momento all’altro che qualcuno venisse sostituito, o spirasse. Quel che le importava era che non venissero sostituiti troppi membri del Summus Globus in poco tempo, o sarebbe stato difficile parlare con loro del suo lavoro. C’era il rischio di ritrovarsi a riferire della sua ricerca con persone che non erano nemmeno nato, quand’era iniziata. Un rischio lieve, certo, ma pur sempre un rischio. Non riusciva a immaginarsi come sarebbe potuto essere.

Decise di non pensarci. Non era utile ipotizzare problemi così lontani, uno spreco di tempo provare a risolverli.

“Le cose stanno andando bene.” iniziò Shi’ran, senza aver bisogno di introdurre l’argomento: per ora, tutti sapevano esattamente di cosa si stava parlando. “Ho buone nuove, Signori.”

“Molto bene.” rispose uno di loro.

“C’è qualcosa di cui vuoi parlarci che non possa essere scritto in un buon rapporto, Shi’ran?” chiese un’altra.

“Sì, Signori.” Salda, era ben lieta di arrivare dritta al punto. “Ci sono tre questioni che credo sia utile discutere in questa sede.”

“Procedi, allora.”

“La prima è Lamaki, di cui ho avuto notizia stamani da Atro stesso. A breve verrà portata al Ludus per iniziare gli studi.”

“Come sai, desideriamo essere aggiornati costantemente al riguardo, anche –”

“– soprattutto –” s’inserì un altro.

“– quando sarà al Ludus.” concluse quello.

Shi’ran annuì profondamente.

Sotto le luci della sala, ogni suo minimo gesto era rilevante: non si comunicava solo con la voce, agli Undecim, ma anche e soprattutto col corpo.

Ma Shi’ran, al solito, era salda. Di questo non si doveva preoccupare.

“La seconda questione sono i nuovi candidati. Ne abbiamo individuati sei. Come sapete, intendo procedere con calma –”

“Sappiamo.”

La Medicus attese, le parole ferme nel ventre, per non parlare sopra a chiunque altro dei dieci avesse dei commenti da fare. Appurato che nessuno intendeva aggiungere altro, poté continuare: “– e ritengo che il terreno sia dei più fertili.”

“Molto bene.”

“La terza, si lega alla seconda, e riguarda sempre i nuovi candidati.”

Tacque, per osservare a sua volta le reazioni degli Undecim. Ormai combattevano ad armi pari. Anzi, forse poteva osar credere d’esser lei, fra i presenti, quella più abile a comprendere i segnali del corpo.

Intravide alcune sopracciglia levarsi di pochi millimetri. Uno di loro spostò il peso, cambiando la seduta. Alcuni si protrassero minimamente in avanti.

Aveva avuto la loro più totale attenzione.

“Ho buone ragioni per credere di aver trovato il soggetto ideale.”

Tacquero.

Il silenzio era lungo, e bastava a dire più di quel che si sarebbero potuti dire a voce. Era un misto di euforia e preoccupazione – cosa rara da sperimentare ai più alti livelli della Regio, che sempre si facevano guidare dalla logica, dalla razionalità, e chiudevano fuori da ogni porta tutte le macchie che le emozioni potevano portare, lordando i loro ragionamenti, ingannando le menti più acute.

Lasciarono che il silenzio dissipasse il fremere e il temere. Prima di pronunciare una singola sillaba, bisognava ripulire la mente, di nuovo, e riallontanare l’adrenalina, gli ormoni, i pensieri non consoni.

Era la seconda volta che Shi’ran pronunciava quella frase, in quella sala.

Certo, erano passati quindici anni; e sebbene Pagus, il Globus, la Regio e il Ludus fossero rimasti inalterati durante questi quindici anni, com’era successo nei secoli precedenti, lo stesso non si poteva dire di Shi’ran. Quindici anni erano tanti. Aveva imparato. Aveva corretto. Aveva fatto.

Lei non era persona che commette lo stesso errore due volte.

Vide i dieci presenti annuire, con un cenno profondo.

“Puoi iniziare, allora. Dicci quel che ci devi dire.”

Shi’ran iniziò.






* Fratelli di fato/destino


____________________________________________________________________________________________________________


Nota dell’Autrice


La grande sfida, per adesso, è di far capire come funzionano le cose senza scrivere un trattato sull’organizzazione sociale e culturale della Regio. Cerco di passare le informazioni un po’ alla volta, filtrandole come sempre mi piace fare dalle menti dei miei personaggi.

Spero si capisca qualcosa. Ho due quaderni pieni di appunti che dovrebbero permettermi di non contraddirmi, ma se trovate qualcosa di incongruente di prego di segnalarmelo, perché a volte mi scappa.


Idem dicasi per errori di battitura, che ora mi si nascondono dietro gli svarioni del correttore automatico – che sembra una gran figata, ma quando mi ha trasformato “metodici” in “bimbi” mi è un po’… ecco, parso completamente fuori di testa.


Vabé.


Un ringraziamento a tutti quelli che sono passati e passeranno di qui


Pandi

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Capitolo 4
*** 3. Helios ***



3. Helios1




L’anfiteatro era buio, immenso e silenzioso. 

Li avevano portati lì quella mattina, e per un tempo inenarrabile Miran aveva atteso, seduto, guardando file e file di suoi coetanei entrare dalle cinque immense porte. Un fiume di bambini, un numero che non pensava nemmeno di poter immaginare. E sì che lui sapeva contare, e già da un po’.

Poi le luci si erano spente, affievolendosi sempre più. Il silenzio era sceso, insieme alla penombra. Entro breve, gli occhi erano tutti stati catturati dalla luce che irradiava, in fondo, un grande tavolo nero. Non lo aveva notato, finché non era rimasto l’unico oggetto illuminato in tutta la stanza. Non c’era nessuno, ancora.

Sarebbe arrivato.


Da quel giorno le cose iniziavano a prendere un nome, in via definitiva: così avevano detto i tre Custodes che all’alba li avevano condotti, lui e un altro centinaio, alla Sphaera.

Era enorme, la Sphaera.

Com’era stato possibile non notarla, sino ad allora? Pareva una gigantesca palla di metallo e vetro, come una luna caduta dal cielo e impantanatasi per metà nella terra. Quando l’aveva vista, lì, comparire mastodontica dopo la lunga camminata che avevano fatto attraverso il bosco, non aveva realizzato quanto fosse grande. Non aveva dimensione, non aveva scala: più si avvicinavano, più si ingrandiva. Miran aveva creduto, a un certo punto, che non l’avrebbero mai raggiunta – facendosi solo fagocitare dalla sua ombra. Inizialmente, era convinto che fosse piena: monolitica, una roccia levigata e lucente. Anzi, una montagna levigata e lucente.

Poi li avevano fatti entrare, e si era dovuto ricredere: dentro c’era spazio per gli abitanti di decine di villaggi.

Era una struttura molto diversa dalle casupole squadrate dove era cresciuto e dove era stato sino ad allora, tutta curva, tutta liscia, quasi senz’angoli. A momenti gli pareva storta, nella sua perfetta geometria. 

Chissà se c’erano degli ambulatori, lì dentro. Chissà se c’era uno stanzino per il gatto.

Ma non ebbe né tempo né modo di esplorare, perché sempre in fila li portarono nell’anfiteatro.

La loro aula, disse un Custos. 

L’aula del primo anno di studi del Ludus.

Quelli, seduti come lui, erano i suoi compagni: mille bambini selezionati da tutta la Regio. Mille.

Non uno di più, non uno di meno.

Aveva aggiunto, poi, il Custos: “Ben presto sarete molti di meno”. Ma come sempre accadeva, non compresero quel dettaglio.


Un’ombra invase la macchia di luce che sola illuminava l’enorme stanza: ci misero un po’ per poter mettere a fuoco e distinguere bordi e colori della figura. Era un uomo, anziano.

Molto anziano.

I capelli bianchissimi abbagliavano sopra la veste scarlatta, fatta da un continuo alternarsi di stoffe rosse e nere. Una corta e curata barba perlacea gli ricopriva il volto, senza però bastare a nascondere le pieghe della pelle del viso. Compiva movimenti lenti e misurati, mai inutili. 

Inizialmente non disse nulla, immerso nella luce, limitandosi a guardare verso la platea. Verso di loro.

Loro. Troppo piccoli per capire che, da quella posizione, non li poteva vedere. 

Quasi trattennero il respiro, sentendosi ispezionati: quello, con savia sicurezza, pareva capace di guardar contemporaneamente negli occhi tutti loro.

Miran era catturato da quello sguardo, ma non riusciva a ignorare i suoi compagni: dopo qualche istante perse il presunto contatto visivo con l’uomo, iniziando a guardarsi attorno, incuriosito dalle reazioni altrui.

Isia, in cima alla platea, non poté non notarlo.

Iniziò a tenerlo d’occhio, non essendo poi l’unico in procinto di crear problemi. Tra le ultime file, ad esempio, una bambina sembrava molto più interessata ai lunghi capelli del vicino che a qualsiasi altra cosa stesse succedendo nell’aula: da un po’ aveva iniziato a tirarglieli, con ritmici strattoni, mentre l’altro manteneva le braccia conserte nel tentativo di rimanere concentrato e impassibile. Sarebbe finita a manate.

Dall’altro lato della sala, poi, c’era un altro bambino, ben più esagitato di Miran, che da parecchio tempo aveva preso a dondolarsi, quasi saltellando, sul sedile pieghevole. Ma quello non era affar d’Isia: quel lato dell’anfiteatro non gli competeva, e anche alla punizione ci avrebbe pensato qualcun altro.

Certo i bambini del primo anno non erano mai stati campioni di compostezza e sobrietà: ci sarebbe voluto ancora qualche mese per dar loro una regolata. Lì, in quell’aula, in quell’occasione, se ne vedevano di ogni sorta: c’era chi aveva già imparato che alzare le mani non era poi una faccenda così grave, e quindi cercava di imporsi fra gli altri senza disdegnar la violenza, e chi invece ancora non aveva capito che il silenzio era assai più importante del pacifismo. Alcuni si distraevano ancora troppo: era quello il caso di Miran, che sembrava del tutto disinteressato alla solenne figura che stava per prender parola, dopo il suo lungo rimestar silenzio. Isia continuava a sorvegliare i piccoli, prendendo mentalmente nota dei loro comportamenti e ben conscio del fatto che non sarebbe dovuto intervenire se non in caso di un sostanzioso disturbo. L’importante era che non alzassero la voce: al resto ci avrebbe pensato dopo.

Intercettò lo sguardo di due di loro, intenti evidentemente a guardare la parte sbagliata della sala: bastò la sua occhiataccia per farli raddrizzare nella sedia e per riportare la loro attenzione in basso, verso la luce, il tavolo, e, soprattutto, l’anziano.

Che non era un anziano qualsiasi.

Quello era l’Helios. Philosophus, capo in carica del Summus Globus. Massima autorità della Regio.

A lui onere e onore di iniziare, ogni anno, i nuovi allievi al mondo del Ludus.

“Voi siete liberi.”

Il punto, alla fine, era sempre quello.

“Liberi di andare, di fermarvi, di lasciar perdere. Siete liberi di servire la Regio nel modo che più vi è consono – e, se non è questo, allora andate. Non c’è scempio nell’arare i campi. Non c’è vergogna nel servire i Custodes. Il vostro unico dovere è di dare alla Regio vostra madre tutto ciò che siete in grado di darle. Se non siete in grado, darete altro.”

Nessuno di loro, fra mille, nessuno, avrebbe mai pensato di essere lui quello che si arrende, di essere lei quella che non ce la fa. No: il vecchio, inondato di luce, nei suoi drappi rossi e con il suo sguardo penetrante, stava parlando di qualcun altro. 

Del vicino. 

Di quella due posti più in là. 

Del bambino irritante che correva in continuazione su e giù per la palestra, o di quella bimba piccola e timida che sembrava pronta a piangere in ogni istante della sua esistenza – il capo perennemente basso, il passo inevitabilmente insicuro.

Non era di loro che stava parlando.

L’Helios disegnava un concetto che riguardava gli altri. 

“Voi siete l’elite.”

Alcuni annuivano.

“Voi siete quanto di meglio ci sia sulle terre della Regio.”

Miran continuava a guardarsi attorno, senza mai fissare direttamente il vecchio. A un certo punto si ritrovò a scrutare la bambina che tirava i capelli al vicino.

“E quindi a voi viene chiesto di fare molto, molto di pi degli altri.”

Isia ne aveva già cinque da punire. Miran era pronto a diventare il sesto.

“Perché voi potete. E chi può, deve.”

Allora il bambino con i capelli lunghi si stufò: storse le labbra e tirò all’altra una gomitata. Quella emise un gemito non indifferente.

L’Helios tacque.

Poi continuò: “E se non può, allora che vada.”

Isia additò la bambina, facendo cenno ad altri due Custodes più vicini a lei di andare ad ammonirla. 

Faber est –” scandì l’Helios.

I due si avvicinarono alla piccola.

“– Suae.” Continuò l’anziano, concedendosi lunghe pause nel lento pronunciare della frase. 

Quisqae.” Sottolineò. 

Per poi terminare, tonante: “Fortunae.”

Anche chi non sembrava capace di fare silenzio assoluto, in quegli istanti, si ammutolì. Non sapevano cosa volesse dire quella frase, quale fosse il significato di quelle parole, ma bastava il tono con cui erano state pronunciate dall’Helios per caricarle di significato.

Quando vide i due Custodes allontanarsi dalla compagna, Miran poté vedere una radicale differenza nel suo comportamento: immobile, ora quella sedeva con le mani in grembo, lo sguardo basso, la spalla lontana da quella del vicino che aveva molestato fino a un attimo prima. Forse piangeva.

“Ora.”

Continuando a guardarsi attorno, insaziabile, Miran intercettò lo sguardo di Isia, che sostava come appollaiato in cima all’anfiteatro: lo stava fissando. Lui lo fissò a sua volta.

Con un secco cenno del capo il Custos indicò a Miran l’Helios: il bambino si rigirò, di scatto, verso la luce. Forse sarebbe riuscito a restare fermo qualche minuto.

Forse anche di più. Aveva capito.

“In piedi.”

Mille bambini si alzarono all’unisono, lasciando che il proprio sedile si richiudesse con violenza dietro di loro. L’Helios si portò la mano destra, chiusa a pugno, al petto – battendo contro la cassa toracica. Rimase lì, in attesa che i bambini lo emulassero: seppur lontani, sentì il rumore del loro battere. Alcuni suoni erano più intensi, altri lievi. Qualcuno aveva battuto con talmente tanta forza che si era ritrovato a tossire.

Patriae Fratres.2

Patriae Fratres.”

L’Helios aprì il palmo, e batté di nuovo.

Ancora colpi di tosse.

Fati Fratres.3

Fati Fratres.

“Seduti.”

Sederono.

“Da oggi –”

Miran non si sedette: piuttosto si appallottolò, le ginocchia strette al petto e le braccia che gli avvolgevano i fianchi. Isia, arresosi all’evidenza, iniziò a muoversi verso di lui.

“– dovete dimenticare definitivamente la vostra Gens.”

Miran stringeva, stringeva e stringeva.

“Le vostre Gens.”

Respirava a fatica.

Isia sorpassò gli altri bambini, diretto verso il biondino che, oramai, aveva iniziato a gemere.

“Voi siete figli della Regio. Coloro che siedono accanto a voi i vostri fratelli, coloro che siedono ai piani superiori, più anziani di voi, anche. Quando diventerete Custodes, gli altri Custodes saranno la vostra famiglia, e la salute della Regio la vostra unica preoccupazione.”

Miran vide Isia avvicinarsi: cercò di rimettersi composto, ma la cosa gli sembrava impossibile. Faceva troppo male. Era stato a lungo convinto di potercela fare, ma alla fine aveva ceduto.

“Mi fa male la pancia.” Sussurrò al Custos.

“Sht.” Fu l’unica risposta di Isia.

“Ma mi fa male!” – quasi strillò.

A quel punto, Isia non poteva fare altrimenti. La parte più rilevante del discorso dell’Helios, fortunatamente, era andata – poteva già prelevarlo. Con una mano gli prese l’orecchio, iniziando a strattonarlo via con sé; con l’altra estrasse da una tasca della divisa una sorta di spillo, composto da un ago sottile e una testa grigiastra: glielo conficc nel braccio, oltrepassando i vestiti.

“Ahi!”

Fai silenzio – ” grugn l’uomo, a denti stretti. Miran conosceva l’affare che Isia gli aveva appuntato – lo aveva già avuto addosso altre volte: la pallina alla sua estremità cambiava colore non appena veniva a contatto col sangue, e, se era verde, significava che stava bene. Così gli avevano spiegato.

Ovviamente divenne verde.

Miran non ci vide più – aveva già resistito un’eternità a quel mal di pancia, aveva ampiamente superato il suo limite di sopportazione. Era iniziato come un’eco, sorda, lontana – un misero fastidio. E poi era cresciuto. E cresciuto. E cresciuto. Era riuscito a ignorarlo finché non si era alzato in piedi e, una volta eseguita la formula del saluto, era esploso.

Che lo spillo gli desse del bugiardo, non gli andava giù. Ferito nel profondo dell’animo, insistette:

“Giuro che mi fa male!”

L’Helios taceva, mentre il resto dell’aula osservava la scena.

“Non dico bugie!”

“So io come farti passare il mal di pancia, Agricola. Impara a tacere!”

E così, sotto gli occhi dei compagni, Miran si fece portare via quasi a forza dal Custos.


Isia aveva ragione: sapeva benissimo come far passare un mal di pancia. Bastava concentrare tutta l’attenzione sul feroce dolore alla schiena.



***




“Shi’ran.”

Sentì le sopracciglia contrarsi da sole: conosceva quella voce, intenta a chiamarla da dietro la porta. La riconosceva soprattutto perché non sembrava proprio capace di non tenere così a lungo la i del suo nome, come se invece di chiamarsi Shi’ran si chiamasse Shïran.

Che fastidio.

“Tre minuti –” urlò in risposta all’altro, gli occhi fissi sullo schermo davanti ai suoi occhi. Scorreva rapida lungo la sequela di numeri e lettere che le stava davanti, da pochi altri interpretabile, mentre una lunga coda di pensieri pendenti andava via via smaltendosi. 

“Scusa, ma…” ritentò quello.

Tre minuti, aveva detto. Tre. Minuti. 

Anzi.

“Due minuti e mezzo.”

Silenzio.

Saan4 aveva capito. Di solito, alla seconda volta capiva.

“Shi’ran, è importante.”

No.

Due minuti.” Ringhiò.

Saan era uno dei più mansueti e pavidi Medicus con cui aveva mai lavorato – la sua stima nei suoi confronti, già bassa a causa di quel che per lei era uno scarso talento, rasentava il ridicolo –, e proprio per questo motivo, già allo scadere del primo minuto, Shi’ran rinunciò a quel che stava facendo e si alzò dalla sedia, avviandosi verso la porta.

Se Saan aveva il coraggio di insistere oltre, sostenendo addirittura che la questione fosse importante, era altamente probabile che lo fosse davvero.

Anzi, che fosse molto importante.

Senza troppo stupore, quindi, una volta aperta la porta Shi’ran si ritrovò davanti la figura dell’Helios.

“Buon giorno.” 

“Buon giorno, Signore.”

La donna si scostò dall’uscio, lasciando spazio al vecchio per entrare. Saan, immobile, attendeva. Il primo impulso di Shi’ran fu di richiudere rapidamente la porta, ma evitò il gesto: l’Helios doveva congedarlo, prima.

“Entra, Saan.”

Congedarlo, non farlo entrare.

Saan, cercando di non esser troppo titubante, obbedì – mentre Shi’ran gli scoccava una violenta occhiata astiosa.

“Come stai, Shi’ran?” le chiese l’Helios, muovendosi verso una sedia abbandonata in mezzo alla stanza.

Al solito, l’ambulatorio era nel caos. Non che fosse un dettaglio rilevante, ma questo significava che non era esattamente nelle condizioni di accogliere due persone a colloquio, una delle quali, poi, di tal calibro.

“Bene, Signore.” rispose lei, tranquilla, mentre continuava a guardare Saan e i suoi movimenti all’interno della stanza. Quello, certamente a disagio ma non tanto fesso da darlo troppo a vedere, andava cercando un angolo dove piazzarsi. Alla fine decise di restare in piedi, osservando gli altri due, attento. 

Né lui né Shi’ran avevano idea del motivo per cui si trovasse in quella stanza, anziché all’esterno.

La donna scostò finalmente lo sguardo verso l’Helios, tuffando le mani nelle tasche del camice bianco. Così, in piedi, attese.

Il vecchio sapeva ben pesare il tempo, e, come poco prima aveva fatto coi bambini del primo anno, lasciò che il silenzio aprisse gli spazi in cui inserire le parole del discorrere.

“Ho una domanda, Shi’ran.” Esordì infine.

Lei sapeva stare al gioco. Non rispose immediatamente, concedendosi un intero respiro prima di dire, solo, “Sì.”

E sebbene il gioco lo conoscesse, a condurre era sempre lui. 

L’Helios tacque, e tacque, tanto assorto quanto presente, gli occhi fissi sul muro bianco.

“Cosa intendi fare, se non dovesse funzionare?” Chiese allora, portando lo sguardo su di lei.

La donna a forza s’impedì di ribattere al volo: milleuno, milledue, milletre. Milllequattro. Mille e cinque.

“Questa possibilità è remota, Signore. Molto remota.” Si fermò, raccogliendo a sua volta tempo e silenzio. “Ad ogni modo –” riprese “– se ci fossero problemi, abbiamo una serie di protocolli da attuare, a seconda del caso. Dalla sterilizzazione, alla detenzione, all’esecuzione. Abbiamo anche vagliato la possibilità di utilizzare il Laniatus, se necessario.”

Ma funzionerà, si ripeteva. Certo non poteva dirlo così, all’Helios. Battere i piedi strizzando gli occhi, nel disperato tentativo di ignorare la realtà dei fatti, non era un comportamento consono. Questo non le impediva, forte della statistica e della ragionevolezza, di dire a se stessa che avrebbe funzionato. Tutto.

Senza ombra di dubbio alcuna – salvo un ignobile delta.

“Quanti sono?” chiese quello.

“Sette, Signore.”

Lui soppesò quel dato, ch’era in realtà impossibile non conoscesse già da tempo. No, voleva solo sentirlo pronunciare dalle sue labbra, per armonizzare il discorso. Per dar la parvenza che quello fosse un dialogo, anziché il monologo ch’era destinato a diventare.

“La mia domanda è, Shi’ran: sette termineranno il Ludus?”

Domanda legittima. Molto legittima.

Una domanda a cui non si poteva dar precisa risposta.

“Uno si può controllare, ma sette – sette sono tanti, Shi’ran.” Ecco, ora l’Helios aveva iniziato a parlare, a riempire li vuoto che aveva creato prima. Niente più silenzi, pause, lunghi respiri: quando s’entrava nel vivo della questione, l’Helios non lasciava spazio per pensar troppo, e, di colpo, diventava pressante. Lasciando giusto un punto per riprender fiato in fondo alla frase, riprese: “Il Summus Globus ha dato il via libera, e non intendo contraddirlo in alcun modo; ma voglio esser sicuro di quel che accadrà qui nei prossimi, minimo, sei anni. Perché, se oggi sono sette, quando ritornerò m’immagino saranno come minimo quattordici. E io so che sai, Shi’ran. Che vedi e capisci, e so che in molti qui sono in grado di predire il futuro di questi bambini, e so che saggiamente a queste persone tu ti appoggi, e da loro hai imparato, bene, a valutare, a osservare, a interpretare. Ma l’errore è dietro l’angolo, e io ho bisogno di sapere cosa farai, esattamente, al bambino che tra qualche anno, primo, t’ingannerà, entrando fiero, sano e saldo al Ludus, per poi voltar le spalle dopo poco tempo, per ritornare fra la Gens, da dov’è venuto.”

Aveva ragione. Lei fece per rispondere, ma non ne ebbe occasione: quello continuò, imperterrito. “Il Ludus può molto, e la Regio moltissimo, nel controllare questi svasi – questo è indubbio. Da cui, come chi non termina gli studi e rientrato a casa non fa uso scellerato delle tecniche marziali apprese qui, e in fretta le cancella, così è legittimo aspettarsi che anche i tuoi, se abbandoneranno il Ludus, non faranno nulla di sciocco con quel che hai dato loro. Ma quel che hai dato loro, Shi’ran, va oltre alla conoscenza e all’educazione che in queste sedi siamo soliti amministrare. Per questo, e per questo solo, io ho dubbi.”

Lei taceva, non certo perché priva di cose da dire. Aspettava il suo turno. Quieta.

“Senza dubbi non faremmo niente, noi.” continuò l’Helios, le cui parole meditabonde erano pronunciate solo e unicamente per Shi’ran, su cui manteneva fisso lo sguardo. “Senza situazioni che li generino non potremmo progredire. Essere in questa situazione è un segno di salute, per la Regio. Detto questo, i dubbi vanno risolti non appena si presentano – o allora sopraggiunge l’ignoto, che viene governato dal caso, più che da noialtri.”

Si fermò.

Non aggiunse altro, troncando il discorso in un punto apparentemente inadatto. Mancava qualcosa.

Sopraggiunge l’ignoto, che viene governato dal caso, più che da noialtri.

E questo, a noi, non piace.

Ma queste erano parole che non serviva pronunciare. L’Helios non sprecò fiato a rimarcare concetti così ovvi.

Shi’ran poté finalmente iniziare a rispondere.

“Non lascerò uscire dal Ludus esemplari fertili, fintanto che non abbiamo chiaro cosa accade nella fase della riproduzione. Non nego che ritengo questo problema possa rivelarsi un’enorme risorsa, per cui non trovo logico agire a monte. Se qualcuno dovesse abbandonare, verrà sterilizzato. Gli altri, verranno sottoposti a terapie ormonali continue, come tutti. Si tratta di un problema che abbiamo risolto da molto, ormai.”

Sei anni, almeno.

“Se torneranno tra la Gens, inoltre –” continuò la donna “– saranno sottoposti a terapia gene soppressiva. I danni dovrebbero essere contenuti. I costi per la Regio, a fronte della selezione fatta, sono minimi. Il bilancio è positivo, in qualsiasi caso. Nella peggiore delle ipotesi –”

“– avremo verificato che non si può fare, con la minima spesa.” chiuse l’Helios per lei.

Certo, una conclusione più che scontata. Quella che voleva sentirsi dire.

Perché prima di esser pedagoga, prima d’esser psicologa, prima d’essere Medicus, Shi’ran era una Phiolophus. Una dei più puri. Prima di tutto, lei era donna di scienza. I suoi studi potevano aver preso nel tempo una direzione piuttosto che un’altra, per questioni sia contingenti che, senza negarlo, di pura preferenza personale – ma, alla fine, come tutti i Philosophi lei andava in cerca della verità.

E la verità era semplicemente la verità, funzionale o meno che fosse, che desse ragione alle sue ipotesi o meno: quand’anche i progetti fossero falliti – cosa possibile, a volte probabile – si sarebbe potuto in ogni caso mettere un punto fermo ad una linea di ricerca, così da liberare risorse per procedere con un’altra. E lasciare, per il futuro, le indicazioni necessarie a valutare a fondo l’ipotesi di ritentare.

“Vedo che la situazione ti è chiara.” disse il vecchio, alzandosi. “Ho bisogno che tu stia sempre molto attenta a non perdere questa chiarezza. A tutti noi capita.”

Shi’ran fece un vago cenno d’assenso, assorta. No, non assorta: impegnata. Andava interiorizzando quanto aveva appena sentito – non perché fosse la prima volta, ma perché ogni volta, lo sapeva, era importante prestare attenzione. A tutti noi capita.

Una vita all’erta, a difendersi dal mostro della distrazione.

“Il settimo, Shi’ran.” fece poi l’Helios, avvicinandosi a Saan. “Quello su cui il Summus Globus sta mostrando troppo interesse, è il più pericoloso. Per questo voglio che non te ne curi tu, ma lui.”

Shi’ran gelò. Immobile, a fatica non fece fuoriuscire lo sgomento che l’aveva invasa. 

Cosa?

Fu l’unica parola che le rimbalzò in testa per una lunga manciata di secondi.

Cosa?

Inspirò allargando le narici, del tutto intenzionata a contestare le assurdità che aveva appena sentito.

Ma la pausa che aveva fatto, il tempo che s’era lasciata sfuggire nell’accusare il colpo, erano eccessivi: l’Helios l’anticipò.

“C’è troppa attenzione su questo bambino. Ti serve un filtro, Saan sarà tale. In questo modo non ti farai distrarre.”

Milleuno, milledue. Milletre. Mille e quattro.

“A bagnar troppo la pianta, le radici marciscono.” disse la donna.

“Vedo che hai compreso.”

A quel punto, Shi’ran non aveva altro da aggiungere. Per quanto la cosa le suonasse sbagliata sotto ogni aspetto, il ragionamento dell’Helios era corretto.

Aveva ragione. Come sempre.

Lei poteva sentirsi adirata, umiliata, offesa – ma era un problema suo, personale, che avrebbe dovuto risolvere da sola. Nulla a che vedere con la realtà dei fatti.

Ci avrebbe messo un po’, a calmarsi. Questo lo sapeva.

Doveva solo darsi del tempo, e poi avrebbe potuto ricominciare a lavorare con la massima efficienza.

L’indomani.

Decise che avrebbe ricominciato a lavorare l’indomani.

“Saan avrà giudizio nell’interrogarti e nel farti intervenire quando necessario: sei sempre e comunque la maggior esperta in materia. Sappiti tenere alla debita distanza, e non ci saranno problemi. Non c’è altro che io possa fare per te.”

Con queste parole, l’Helios si avvicinò alla porta, aprendola. “Mi congedo.”

“Grazie della vostra presenza, Signore.”

“Saan, riaccompagnami.”

“Sì, Signore.” rispose pronto quello “Arrivederci, Shi’ran.”

Lei sentì le sopracciglia contrarsi da sole, mentre osservava il Medicus lasciare l’ambulatorio.







[1] Pronuncia: Hèlios

[2] Fratelli di Patria

[3] Fratelli di Fato/destino
[4] Pronuncia: Sàan









____________________________________________________________________________________________________________


Nota dell’Autrice - angolo svarioni et al, per diletto e in parte noia.


Prima cosa che mi è venuta in mente: PRONUNCIA dei nomi. Mi sono accorta che è abbastanza importante, alcune frasi, se no, suonano cacofoniche…

Ok, adesso metterò un po’ di note in giro, o forse dopo. Vediamo se riesco a farmi capire, intanto: (no, non so usare l’alfabeto fonetico, e se anche lo sapessi usare non penso che in moti lo saprebbero leggere):


Prima cosa:

Shi’ran: Sci’ràn (l’apostrofo è un brevissimo stacco)

Atro: Àtro (normale piana)

Isia: Isìa (questa penso che sia anche lei piana, ma mi hanno detto che viene da leggerlo ìsia, che non mi piace)

Miran: Miràn (anche se il nome, che sarebbe sloveno, andrebbe pronunciato Mìran - ma a me piace più così)

Alir: Alìr

Lama: Làma (normale piana)

Lamaki: Lamàki (anche qui normale all’italiana, piana)

Kumki: Kùmki

Helios: Hèlios

Saan: Sàan


e poi 


Im’ahki Tsarji Hari Miran sarebbe Im’à-ki Tsarjï Harì Miràn ( dadadàn dadadàn dadadì dadàn , così dovrebbe suonare XD)


Bene, finiti questi svarioni fonetici (unpo’allacazzodicane), chiacchiericcio.


Scusate le aggiorno in fretta. La verità è che sono una scioperata (fino al primo marzo) e quindi mi annoio talmente tanto che per adesso mi sembra sia passata un’eternità tra un capitolo e l’altro, quindi mi vien voglia di aggiornare. Anche perché è un inizio un po’ lento, quindi vorrei arrivare a un dunque, a dare qualcosa di sostanzioso a chi non ha mai letto i FdO e a farne invece vedere la differenze a chi l’ha letta.




Se da qui passa qualcuno che non ha letto la fanfiction – no, non leggetela, anzi, non serve, anzi! un feedback da voi sarebbe una gran bella cosa, io ce la metto tutta ma a volte non so se sono chiara o se sto raccontando storie a chi ne sa già, piuttosto che a un pubblico “nuovo”. 




Saan: tipico esempio di personaggio che nasce come spalla inutile e si ritrova in mezzo a tutta la storia.

Svilupparlo è stato magico. Era lì, e aut certo punto l’Helios l’ha chiamato dentro.

Da solo.

Ha fatto tutto da solo.

Me ne stavo lì a farlo andare via, e gli si è avvicinato – giusto per dare un senso alla sua presenza nella stanza. 

E poi ha sganciato la bomba, il vecchiaccio. Manco io l’ho vista arrivare.

Giuro.

E’ stato tanto inaspettato quanto bello, lo sviluppo che ne è uscito.


Mi succede spesso, di generare personaggi del genere.

Finisce che son quelli che amo di più (il che spiega la mia tendenza ai corali).


No, Miran non l’abbiamo abbandonato, né rimane in disparte; ma come detto, tendo al corale, dato che me lo posso permettere. (credo? oh, beh, ormai ho deciso così, e amen.)

A breve arriveranno un bel po' di altri personaggi, che cerco sempre di introdurre con calma (ma senza i ritmi di, tipo, King, che ti fa mezzo romanzo sulla storia di ognuno di loro).



Poi, altri svarioni.

Cerco di giochicchiare con il registro, per variare il più possibile e dare anche un significato alle parole che uso. Mi sono resa conto di quanto le diverse situazioni richiedano diversi stili (per esempio, il pippone che fa l’Helios a Shi’ran ribatte la struttura dei testi latini che mi trovavo a tradurre a scuola); all’inizio pensavo di poterne usare uno solo e rimanerci attaccata, ma poi mi sono resa conto che non ci riuscivo.

Così, forse, ho pensato che fosse interessante essere elastichi e adattarsi alla situazione, al personaggio, un po’ a quello che viene definito il “POV” (ma che davvero mi sta sulle balle andare a specificare sempre, preferisco sia il testo a parlar da sé – oltre che, forse si è notato, ho la tendenza a cambiar “pov” talmente spesso che se lo specificassi ogni volte ne uscirebbe un copione teatrale in diciassettemila atti).


Non so, io ci provo, senza prendermi troppo sul serio in questi svarioni che non è che mi studi a tavolino, ma nascono dalle parole che mi escono mentre scrivo, e che poi dopo cerco di interpretare per dare un’omogeneità e struttura al tutto.


Paranoie, ecco.


Grazie a tutti quelli che passano di qua. 


Pandi




PS: se ve lo state domandando, “I suoi studi potevano aver preso nel tempo una direzione piuttosto che un’altra” significa “i suoi studi poter aver preso nel tempo una direzione INVECE che un’altra”. [grammar nazismo *ON*]

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Capitolo 5
*** 4. Ludus ***



4. Ludus




A una decina di giorni dall’inizio delle lezioni, Miran poteva già notare alcune sedie vuote.

C’erano, con lui, talmente tanti compagni che non gli riusciva di ritrovarne quasi mai uno che avesse incontrato il giorno precedente. Senza contare che non sedeva mai nello stesso posto, in aula, e che dall’inizio delle lezioni portavano tutti lo stesso taglio di capelli: corti. Cortissimi.

Cos erano più facili da lavare, ma rendeva molto difficile riconoscere chi fosse chi.

Non si trovava male. Senza fatica ascoltava quel che gli dicevano i Magistri, Custodes che portavano sopra la divisa una casacca rosso fuoco e che si occupavano della loro educazione, in ogni singolo istante della giornata. Non vide più un Custos normale, ma solo e unicamente Magistri.

Qualche Medicus, ogni tanto. Qualche camice bianco.

Non la donna bionda, non Isia, che aveva inconsciamente eletto a punitore. Miran non era più stato punito dal giorno del discorso dell’Helios, e sembrava che la sua voglia di far danni fosse sparita. Fagocitata dal continuo fare, correre, pensare, giocare: le lezioni non erano molto diverse dalle attività che aveva fatto sino ad allora – forse erano più intense. Le ore in palestra più faticose. I pasti sempre più abbondanti.

Ogni tanto gli insegnavano cose che forse nessuno di loro pensava sarebbe mai venuto a sapere. Dettagli di cui certo nessun loro Parens, o chi li aveva allevati fino ai sei anni, aveva mai fatto parola. Cose che, finché non fu detto loro il contrario, non pensavano li riguardasse.

Prima fra tutte c’era il funzionamento della Regio: il Summus Globus, l’Helios – i Philosophi, i Custodes e la Gens. Gli avevano raccontato degli Undecim, eletti da e fra tutti i Philosophi della Regio per assumere il pesantissimo compito di guidarla, e di come erano i Philosophi a occuparsi delle questioni più elevate – politica, scienza, medicina, alta ingegneria, economia e strategia militare. Fra gli studenti del primo anno, sosteneva il Magister, c’erano circa cinquanta futuri Philosophi. E fra i Philosophi, che vestivano solitamente con i drappi rossi e neri che avevano visto indosso all’Helios, si annoveravano i Medici, con i loro camici bianchi. Subito sotto i Philosophi c’erano i Custodes: le guide dei Bellatores, il collegamento fra il mondo astratto dei Philosophi e la rude concretezza del campo di battaglia. Formati principalmente alla guerra, condottieri sotto ogni aspetto, i Custodes erano guerrieri elitari. Vi erano abilità proprie dei Custodes che un Philosophus, a vent’anni, aveva completamente perso – perso, sì, perché nei prossimi sei anni tutti loro, fossero divenuti Custodes o Philosophi, avrebbero dovuto coltivarle: reattività, enorme resistenza fisica, pazienza, solerzia, e un’intelligenza pragmatica, quasi animale, che mescolata alla formazione del Ludus permetteva, sul campo, di minimizzare le perdite con la massima efficienza. Fra i Custodes si selezionavano sia i Magistri che altre figure fondamentali che forse, in quell’aula, nessuno avrebbe mai avuto l’onore o la disgrazia di incrociare.

I Bellatores. Su quest’argomento il Magister era stato rapido, senza soffermarvisi troppo: erano fanteria, punto.

Al Ludus si formavano Philosophi e Custodes, non Bellatores. Li avrebbero incontrati solo sul campo di battaglia, per comandarli.

C’erano intere leggende che aleggiavano per il Ludus riguardo i Bellatores. Alcune di queste sostenevano che fossero uomini e donne enormi, dai muscoli sproporzionati, i quali avevano passato tanto di quel tempo a curare la forma fisica da aver completamente perso la facolt di parlare, scrivere, leggere e contare: erano enormi tori da sacrificare all’altare della guerra, null’altro. Se scattava una lite fra i ranghi della fanteria, non era raro vedere orecchie volare e labbra colare il sangue dei morsi che, bestiali, si scambiavano fra loro. I Bellatores non si lavavano – mentre al Ludus era obbligatorio fare almeno una doccia al giorno –, non si curavano – al Ludus era fondamentale essere puliti, i capelli corti, i vestiti in ordine, i denti lucidi – e non conoscevano altro che la loro Gens di provenienza – bandita, al Ludus. Perché al Ludus ci si chiamava per Nomen, e per Nomen soltanto.

Poi c’erano i Mercanti, parte della popolazione abbastanza intelligente da essere attiva nell’economia della Regio – seppur fortemente guidata dai Philosophi; esistevano anche gli Operai Specializzati, gli Amministratori e i Tecnici. Di questi, non potendo dir nulla sull’abilit mentale, le dicerie al riguardo si focalizzavano nello sminuirne la prestanza fisica: obesi o mingherlini, dai muscoli lassi e inesistenti, tanto pavidi da circondarsi di scorte e vilmente attaccati al denaro, cos preoccupati a difendere i propri averi da sprecarli in guardie del corpo.

Al Ludus il denaro non circolava. Gli studenti sapevano cos’era solo come concetto: non avrebbero mai avuto a che fare con i soldi, se non da Philosophus – anche in quel caso, mantenendone sempre un’idea matematica, numerica. Poteva interessar loro come calmierare il prezzo del latte, ma non avrebbero mai avuto in mano una sola moneta.

Cos, le nozioni sul che giungevano a uno studente del Ludus riguardo la Gens erano un amalgama delle vaghe, mnemoniche lezioni dei Magistri e della tradizione orale e leggendaria che perveniva direttamente dai refettori, solitamente fomentate dagli allievi più grandi.

Inutile dire che nessuno si opponeva a questa versione dei fatti: al Ludus funzionava cos. Tutti i Magistri erano cresciuti con queste improbabili leggende – nemmeno gli Undecim avevano dubitato della loro veridicit, quando avevano avuto fra i sei e i dodici anni: spettava lo stesso trattamento, di dovere e di diritto, anche alle nuove generazioni.

L’ultima classe della Regio era formata dagli Agricolae – termine che valeva indistintamente per agricoltori, pescatori, allevatori, pastori, minatori, spazzini e manovali. I Magistri, solo nei primi giorni, avevano ripetuto una decina di volte quanto rispettabile e fondamentale fosse il loro lavoro: senza Agricolae niente cibo, acqua, niente materie prime, niente di niente. La Regio sarebbe morta di stenti.

Ma non era questa l’idea che passava all’interno degli studenti del Ludus.

Gli Agricolae erano gente senza abbastanza testa da essere mercante o tecnico, senza abbastanza stazza da diventare fanteria.

Solo gente.

E qualcuno, da qualche secolo, aveva messo in giro l’idea che fosse per questo motivo che al Ludus non bisognava mai e poi mai chiamare in causa la propria Gens.

Loro non erano Gens.

Loro non erano Agricolae. Né Bellatores, né mercanti.

Loro erano al Ludus.


Il primo anno, per Miran, fu relativamente tranquillo. Gli piaceva imparare, muoversi, sfogarsi nei giochi che proponevano i Magistri. Un po’ meno gli piacevano il coprifuoco e la sveglia.

Man mano che il tempo passava, le cose diventavano sempre pi difficili – e sempre più sedie, vuote.

Lui non poteva non sentirsi esageratamente entusiasta ogni volta che superava un nuovo ostacolo, ogni volta che una cosa apparentemente impossibile, come lo era stato ‘il ripiano in alto’, diventava possibile e, dopo qualche giorno, addirittura facile.

Ma nulla era mai facile per troppo tempo: i Magistri facevano sempre in modo che, una volta acquisita un’abilità, i bambini fossero immediatamente messi di fronte ad un’altra impresa, molto più complicata. La vita degli studenti era una sfida continua, guai a fermarsi un attimo, anche solo per prendere fiato. Insistere, continuare, spronare – sempre a correre più forte, più a lungo, sempre a saltare più in alto, sempre a compiere movimenti più elaborati, calcoli più difficili, a memorizzare testi più lunghi. Quello era solo l’inizio.

Non facevano che ripeterglielo.

Ritornò un paio di volte alla saletta delle punizioni, scoprendo che non c’era un unico addetto a tale compito, non solo il Magister alto e con gli occhi fatti d’ombra.

E non di rado, poi, c’era la fila.

Isia si era rapidamente dimenticato di lui, fino all’inizio del secondo anno.




***


C’era silenzio, quella mattina. Lamaki stava ancora dormendo.

Non appena la bambina aprì gli occhi si mise rapidamente a sedere: rimase immobile qualche secondo, lì, nel suo piccolo letto, addossato alla parete della stanza dove lei e la sua Mater dormivano.

Era sveglia.

Appoggiò i piedi scalzi sulla pelle di vacca che usavano come scendiletto, e metodica iniziò a sfilarsi la tunica che utilizzava durante la notte. Si sfilò le mutande di carta, e ne prese un nuovo paio dallo scatolone che poggiava sulla grande cassa dove sua matre teneva i vestiti. Si vestì, infilandosi la tunica da giorno, poi i sandali, e andò al lavabo a bruciare la biancheria sporca.

Con vivo interesse, come faceva ogni mattina, osservò le fiamme mangiarsi la carta.

Poi, ferma, rimase a guardare la cenere.

Lama era fuori. Lamaki aveva fame, ma non era sicura di voler ancora mangiare.

Sciacquò via la cenere, si asciugò le mani, e andò verso l’uscio. Lì davanti, in piedi, attese, osservando ogni tanto le venature nelle assi di legno di cui era fatta la porta.

Finché non la aprì.


Saeb1 sentì Lena2 e Pa’i3 bloccare un sussulto: non era così che andava, solitamente.

Per questo lui si era messo davanti, fra i tre – in modo che Lamaki non potesse prestare troppa attenzione all’irrequietudine che le sue azioni avrebbero inevitabilmente provocato.

La bimba, ferma sulla porta, lì guardò per qualche istante, soffermandosi poi proprio su di lui. Dopo un po’, portò finalmente il pugno all’altezza del cuore, flettendosi nel saluto della Gens.

Saab sapeva bene cosa pensavano Lens e Pa’i: avrebbero dovuto aprire loro, non lei.

Avrebbero dovuto entrare, non farsi accogliere.

Lamaki sapeva ch’erano là fuori. Era molto difficile coglierla di sorpresa.

Nonostante tutto, i tre Custodes riuscirono a stupirla: portarono il pugno al petto a loro volta, battendo sullo sterno. “Patriae Frates.” Aprirono il palmo, e batterono di nuovo: “Fati Frates.”

Saab vide il volto di Lamaki contrarsi, seppur di poco. La bambina iniziò a tendersi, nei muscoli e nell’animo.

Prese a dondolarsi da un piede all’altro, indecisa sul da farsi: quando s’accorse che il tempo continuava a scorrere e che le tre Ombre continuavano a fissarla, fece mezzo passo indietro.

“Devi venire con noi, Lamaki.” disse tranquillamente Saeb.

Lei sembrò vederlo per la prima volta solo allora: gli incollò gli occhi addosso, e lui riconobbe il tipico sguardo che bambini e ragazzini che non lo avevano mai incontrato prima erano soliti dedicargli.

Saab vestiva come tutti i Custodes, e come tutti i Custodes aveva la carnagione scura, nonostante i lineamenti non fossero quelli tipici di chi, con quella carnagione, ci nasceva. Aveva un naso dritto e sottile, gli zigomi deboli e il mento affilato; i capelli, corti, erano lisci e chiari.

Ma gli occhi, soprattutto.

Quell’Ombra aveva degli occhi strani. Una pupilla era bianca, candida e opaca. L’altra era chiazzata, come latte versato su un pavimento di pietra. Le iridi, grigie, contribuivano a far sembrare l’occhio destro un’unica palla bianca, ed il sinistro, dove ancora c’erano delle macchie scure, sporco.

Lamaki fece un altro passo indietro, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi.

Non era la prima volta che aveva a che fare con delle Ombre. Con dei Custodes. Ormai li conosceva.

Ma quei tre non li aveva mai visti.

E quello, davanti a lei, era strano.

Le faceva quasi paura.

“Lamaki.” disse Lena, poco dietro a Saeb. Quella sì che era un’Ombra normale. A fatica Lamaki tolse gli occhi da quelli di Saeb, che avrebbe potuto fissare in eterno, e si concentrò sull’altra.

“Il lavoro della tua Mater è concluso.” continuò la donna. “Se sarai brava, non la rivedrai mai più. Ora, seguici.”

Pa’i le si avvicinò, prendendole la mano. Lamaki si sentì tirare.

Quello era il momento critico. La prima prova da superare.

Seguire le Ombre.

Fidarsi dei Custodes.

Non guardarsi indietro.

Non erano molti i bambini di sei anni capaci di fare una cosa del genere. Non quando veniva detto loro che non avrebbero mai più visto i propri Parentes.

Ma c’era quella frase, a invitare i più arditi, i più pronti, e i più fiduciosi. Coloro che sarebbero stati buona pasta per l’educazione del Ludus.

Se sarai bravo.

Sei brava, Lamaki? Perché era solo questa, la questione. Non le Ombre, non sua Mater, non quel che lei voleva.

Ma essere bravi o meno.

La bimba lasciò dapprima che avanzasse la mano, il braccio, stendendolo tutto mentre rimaneva incollata al terreno. Poi, quando iniziò a sentire la spalla tirare e non poté più rimandare la decisione, seguì: si lasciò spostare, sbilanciandosi così da poter compiere il primo passo. E, fatto quello, camminò.

Saab richiuse la porta della casa di Lama, mentre Lena e Pa’i si allontanavano con la bambina.




***

Solo nel giorno in cui gli fecero cambiare aula Miran sembrò ricordarsi dell’esistenza delle altre annate. Era legittimo: durante tutto il primo anno di studi, i bambini venivano tenuti il più possibile alla larga dai ragazzini più grandi, cercando di limitare i contatti con loro al minimo indispensabile. L’unico luogo d’incontro era il refettorio, ed anche in tal caso non c’era alcuna possibilit che scambiassero parola se non con i loro coetanei, data la rigida divisione delle tavolate. Le altre annate erano una presenza vaga, quasi un arredamento negli enormi spazi del Ludus. Che ci fossero era innegabile – ma chi mai gli prestava attenzione?

Quel giorno, una volta dentro la Sphaera, invece di andare dritti all’anfiteatro del piano terra i Magistri fecero salire loro le scale: Miran si guardava attorno spaesato, cercando di orientarsi nei nuovi ambienti – che a lui erano del tutto ignoti. L’aula aveva una forma diversa, le porte erano diverse – tutto era dannatamente diverso. Per un po’ entrò in ansia: seduto al posto che gli era stato indicato, guardava fisso l’enorme lavagna bianca e il Magister in piedi dietro alla cattedra, anch’essa nera come quella cui era abituato, ma oblunga e curva come una falce.

I sedili erano più grandi, e i tavoli più larghi, più spessi; il pianale non era opaco come s’aspettava, ma illuminato: sopra c’erano delle figure.

Il Magister iniziò a chiamarli, uno alla volta.

Fu una cosa lunga. Nella noia, il bambino continuava a guardarsi attorno, osservando via via chi scendeva e risaliva le gradinate dell’anfiteatro.

Ci volle un bel po’, prima che venisse fatto il suo nome. Quando toccò a lui, Miran si precipitò giù per gli scalini, incapace di attendere oltre: si mise in fila e, una volta di fronte al Magister, s’immobilizzò a guardarlo dalla sua misera statura. Quello gli diede in mano una pallina di metallo, cava. A muoverla, emetteva rumore.

Era un campanello.

“Devi metterlo nella conca, sulla destra del tuo banco. Poi aspetta.”

E via, un altro.

Miran tornò rapidamente al suo posto, posizionando il campanello nel buco, come gli era stato detto di fare. Portò le mani sulle ginocchia, cercando di attendere senza scalpitare troppo. Ma ormai era agitato.

Agitatissimo.

Per cercare di distrarsi, si mise a contare i presenti: erano rimasti in poco più di seicento. Riempivano quasi tutta l’aula – non serviva esser geniali per rendersi conto che era più piccola dell’altra, nonostante i posti fossero più ampi. Doveva essere per quello che avevano cambiato stanza, ed anche piano.

Forse mezza giornata era passata: quando finalmente tutti ebbero messo il loro campanello nella conca del banco, il Magister si schiarì la voce.

“State per iniziare il secondo anno.”

Miran schiuse le labbra, quasi sorpreso. Di già? “Prima di iniziare, dovete fare quanto vi viene

detto. Sullo schermo, davanti a voi.”

Il Magister diede loro qualche istante per raccapezzarsi in merito, e comprendere che lo schermo di cui stava parlando altro non era altro che la superficie illuminata del loro banco.

“Seguite le indicazioni. Se non sapete fare qualcosa, passate avanti.”

Fine delle spiegazioni.

Il Magister andò alla sua postazione, in procinto di sedersi.

“Tenete bene a mente una cosa.”

I bambini riportarono l’attenzione sull’uomo.

“Meglio fare poco e bene, che molto e molto male.” Li guardò, lasciando che quelle parole sedimentassero in loro.

“Faber est suae quisquae fortunae.”

Si sedette.

Iniziarono.


Era già buio da parecchio tempo quando il campanello di Miran spar nella conca, come risucchiato.

Fu quasi sorpreso nel sentire quel rumore, strano e insolito – plop. Lo schermo, spento da un bel po’, s’illuminò per dargli nuovi ordini.

Così il bambino si alzò, spostandosi il più silenziosamente possibile lungo il corridoio dietro alla sua fila di sedie: scese poi le scalinate, e andò dal Magister.

Quello gli disse di andare nella sua stanza, raccogliere i suoi vestiti e presentarsi all’entrata del dormitorio dei due stelle. Il bambino non se lo fece ripetere due volte, defilandosi con un’eccessiva rapidit.

Non aveva la più pallida idea di cosa fosse il dormitorio dei due stelle.


Ci arrivò ben prima del previsto, guidato da istinto e logica.

Accanto ai dormitori dove aveva passato le notti dell’anno passato, c’erano altre cinque palazzine, alte, larghe, bianche e squadrate – ben diverse dalla Sphaera. Aveva già notato da tempo le piccole stelle dorate che si potevano intravedere sugli stipiti delle porte e delle finestre, e senza difficoltà si era recato verso la palazzina dove di queste stelle ne apparivano sempre e solo due alla volta.

Miran restò immobile sulla soglia da parecchio tempo.

Faceva freddo.

Ai suoi piedi aveva posato la sacca, grigia, dove aveva buttato tutto quanto ci fosse nel suo armadietto: cinque camice, tre maglioni invernali, tre estivi, cinque tenute da allenamento, stivali, biancheria. La sacca era di poco pi piccola di lui, e, man mano che attendeva, iniziava a rendersi conto che forse ficcarvi dentro il vestiario a casaccio non era stata una trovata geniale. Stava armeggiando con la cinghia, con l’idea di tirare tutto fuori e ripiegarlo decentemente, quando fu chiamato: lasciò perdere, e, trascinandosi dietro la sacca, entrò.

Lo fermarono nell’atrio, dov’era radunata un’altra ventina di bambini: fa di loro, una era Alir. Se ne rese conto di colpo, sorprendendosi a riconoscerla dopo tanto tempo: era sempre stata l? Miran era convinto non fosse stata ammessa al Ludus.

Invece no. Lì era.

E in un anno intero, non l’aveva mai incrociata. O forse sì?

Confuso, si ritrovò a fissarla. Quella nascose dapprima il volto, guardando altrove, e poi si mise a fissarlo a sua volta.

“Mettete qui le sacche.”

Miran sussultò. Ma come gli era saltato in mente di non piegare le sue cose?

Se lo meritava.

Tempo qualche minuto e toccò a lui. “Miran?”

“Sì!” quasi urlò quello.

Un Magister – una donna, come se mai il sesso di un Magister avesse fatto una qualche differenza – stava controllando le sue cose, alternando lo sguardo fra quelle e gli occhi di Miran. Il bambino serrò le labbra, drizzando la schiena, pronto ad accettare la pena per l’errore commesso.

“Quanti richiami hai già avuto per il disordine, Miran?”

“Tre.” Mentire, con i Magistri, non aveva senso. Sapevano già tutto, dir loro il falso significava solo abbonarsi alla frusta.

“Adesso sei grande. Il limite è due. In tutto. Sei al quarto.”

Miran fece un enorme respiro: annu e basta. In fondo se lo sarebbe dovuto aspettare, che le cose non

fossero più tanto lisce. Gli venne quasi da pensare che quattro richiami prima dello scattare di una punizione fossero un’abominevole enormità: in che lusso aveva vissuto, al primo anno? Una punizione ogni due richiami aveva molto più senso.

Sì, ora era grande. Si sarebbe comportato come tale.

La Magister chiuse la sacca, lanciandogli un’occhiata perforante.

“La conta si azzera, per tua fortuna. La prossima volta il gatto ti aspetta.”

Di colpo, Miran si sgonfiò. Salvo.

La donna passò in rassegna le sacche restanti – tutte in ordine – mentre gli altri bambini scrutavano il biondino con espressioni che andavano dal disappunto allo sconcerto. Alir mal celava un’aria basita, quasi incredula di fronte all’atteggiamento che aveva avuto Miran: fosse stata al suo posto, come minimo avrebbe tremato e forse sarebbe andata in iperventilazione. Lei era di quelli che si sarebbero dissanguati, pur di non farsi punire. Aveva avuto a che fare con il gatto una sola volta: quella volta era bastata. Non c’era gesto che Alir non facesse senza chiedersi, consciamente o inconsciamente, se rischiasse d’essere richiamata.

Miran, invece, ci pensava una volta sì e dodici no. Per sua fortuna, durante quell’anno, era stato tenuto sufficientemente impegnato da non aver quasi modo di fare grandi danni. Il suo unico problema era l’ordine e, a volte, l’incapacit di tacere.

“Toglietevi i vestiti, tutto tranne le mutande, e dateceli. Ve ne diamo di nuovi.”

I bambini eseguirono.

Era già capitato che cambiassero i vestiti a causa della crescita – o per averli rotti, più spesso distrutti durante giochi o allenamenti. Si ritrovarono in mano un sacco di plastica contenente un intero corredo, tutto d’un colpo. Separatamente, diedero loro anche la sopravveste – un pesante e largo cappotto nero, opaco, con un ampio collo alto.

“Questa è la divisa. Lì ci sono le vostre stelle.”

Le stelle? Miran si illuminò.

Eccole, le stelle! Le aveva viste di sfuggita addosso ai più grandi: le avevano sui cappotti, alla manica destra. Un altro Magister diede loro delle toppe, d’un grigio argentato, a forma, per l’appunto, di stella. Insieme a queste, una striscia di tessuto colorato: blu per alcuni, verde per altri. Finita la consegna, l’uomo mostrò loro una sopravveste d’esempio, di qualche taglia più grande:

“A destra – ” indicò la manica “ – dovrete cucire le stelle. Alla manica sinistra, tutta intorno, cucirete la vostra striscia colorata. Il colore indica quanti anni avete: verde per sei, poi blu, viola, rosa, rosso, arancione, giallo, grigio dai tredici in su. Stesso colore ha il collo delle camicie nel vostro pacco: quando compite gli anni vi vengono consegnate camice nuove e una striscia nuova – che dovete sostituire. Le stelle, invece, le aggiungete di volta in volta: superato ogni esame ve ne sarà consegnata una. Se la divisa è sbagliata, sarete puniti. Immediatamente.”

Alcuni fremettero. Quelli spavaldi, come Miran, finirono con l’impettirsi.

“Siete grandi. Ricordatevelo. E non farete altro che crescere, il che significa che le cose continueranno a diventare sempre più difficili.”

Quelli annuirono, stretti al loro pacco di plastica. “Da oggi questa è la vostra casa. Al piano terra c’è la stanza del responsabile: se i vestiti vi sono stretti dovete andare da lui. Se vi si rompe un vestito lo dovete riparare da soli, d’ora in poi. Non si cambia nulla, se vi va ancora bene. La Regio non spreca, e così non farete voi.”

Avevano imparato a cucire al primo anno – chi meglio, chi peggio. Sapersi riparare le vesti era spesso cruciale, soprattutto nel deserto – dove un buco in una tuta termica poteva significare un’ustione.

“Niente più dormitorio comune. Ognuno ha la propria stanza, con il proprio bagno. Tutto deve essere sempre pulito: pavimento, letto, vestiti. Avete anche la vostra lavatrice, ed è uguale a quella che avete già usato. Vedete di non far danni. Coprifuoco e sveglia sono annunciati dai campanelli: se siete ancora fuori dalla vostra stanza dopo dieci minuti dal coprifuoco o se siete ancora dentro la stanza dopo quindici minuti dalla sveglia, scatta il richiamo. Il massimo di richiami, d’ora in poi, è due. Indistintamente dalla ragione per cui siete stati richiamati. Poi sapete cosa succede. Vi ricordo che più volte passate dallo stanzino delle punizioni, peggiore diventa la punizione. Badate bene.”

Annuirono.

Miran, fra un cenno d’assenso e l’altro, non riusciva a non guardarsi attorno: l’aver riconosciuto Alir dopo tanto tempo diede una nuova spinta alla sua mania di studiare i suoi compagni. Evidentemente si era distratto da loro talmente tanto che dopo un anno di lezioni continuava a far fatica a riconoscerli.

La cosa non gli piacque. Focalizzato com’era a ficcarsi in testa i volti dei presenti, fin col non ascoltare più.

“Miran.”

La sua disattenzione non piacque alla Magister. “Miran!”

Il bambino si voltò di scatto verso la donna. “Così sono due.”

Ecco.

E il vago sospetto di essersela cercata.




[1] Pronuncia Saèb

[2] Pronuncia Lèna

[3] Pronuncia Pa-ì









____________________________________________________________________________________________________________


Nota dell’Autrice - angolo svarioni et al, per diletto e in parte noia.


Continuo con in ritmo leggermente serrato causa noia, e domanda ancora scusa.

Spero che il gippone introduttivo non sia troppo noioso, ma da qualche parte, certe cose, le devo dire. Cerco di far filtrare solo le informazioni che arrivano agli allievi, così da immergersi un po’ di più nella loro proverbiale ignoranza sul mondo.


Ho dato una sistemata aggiungendo noticine per le pronuncia dei nomi, giusto per essere pignoli :)


Al solito, se beccate incongruenze che mi sono sfuggite alle revisioni o che mi si siano generate in sistemazioni varie, fate un fischio!


Siamo ancora un po’ a rilento, ma vorrei prima creare una buona atmosfera di base per poi muovere tutto con più coscienza.


Saluti a tutti :)


Pandi


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Capitolo 6
*** 5. Bambini ***



5. Bambini




Miran non fu nemmeno accompagnato alla saletta delle punizioni: gli dissero di portare le sue cose in camera e di andarci da solo, immediatamente – maggiore il ritardo, peggiore la pena. Corse.

Arriv senza fiato davanti alla porta, anonima ma ormai pi che nota, dove lo avevano portato ancora prima dell’inizio delle lezioni.

Buss.

Fu Isia ad aprire la porta: il bambino lo guardò con vago stupore, riconoscendolo. Poi gli venne in mente la donna bionda con la tunica bianca – che ora sapeva essere un Medicus – e… Isia. Quel Nomen gli si fece strada in testa come un’eco: era sicuro di non averlo mai pronunciato, e che nessun Magister avesse mai esplicitato il proprio Nomen.

Doveva essere stata la donna bionda a dirlo.

Sì.

Ora ricordava.

Senti, vai a chiamare Isia – aveva detto la Medicus a un Custos, allora.

Poco dopo quell’uomo era comparso in ambulatorio, e lo aveva portato nello stanzino delle punizioni. Gli aveva fatto conoscere il gatto.

E anche se dal gatto ci era ritornato un paio di volte, non lo aveva più incontrato.

Miran sorrise, beota, compiaciuto della sua memoria. Era come se l’aver riconosciuto Alir avesse risvegliato in lui tutta una serie di ricordi e di eventi che, non avendo evidentemente dimenticato, doveva aver considerato poco rilevanti. Sino ad allora.

Gli fece cenno di entrare, e prima che potesse dirgli qualcosa Miran si stava già togliendo di dosso maglione e camicia.

“Ti do un consiglio –” disse il Magister, andando a recuperare i bracciali.

Miran s’immobilizzò a guardarlo, senza nascondere la sua curiosità.

“– dato che sei al secondo anno... Miran?”

Il bambino annuì.

“Non metterti la camicia, dopo. Solo la canottiera e la sopravveste. Non sono facili da lavare, le camicie.” Gli mise i bracciali ai polsi.

“Va bene, Isia.”

L’uomo s’irrigidì, quasi colto alla sprovvista nel sentire il suo nome pronunciato da uno studente. Era parecchio che non gli succedeva. Sfrontatezza era un termine eufemistico, per un atteggiamento del genere.

Attaccò il moschettone e lo issò.

“Te ne prendi una in più, per questo – agricola. Porta rispetto.”


Tornato dolorante in camera, Miran si sistemò e prese a cucire le sue cose. Trovò sul materasso un foglietto con le istruzioni per il resto della giornata: doveva scendere nuovamente al pian terreno a ritirare la biancheria e altre cose per la stanza, cenare e andare a dormire. Il tutto entro il coprifuoco – e non aveva la pi pallida idea di quando fosse. Era il caso di sbrigarsi, dato che il sole minacciava di tramontare da un momento all’altro. Prima, però, ricontrollò tre volte di stare cucendo le stelle e la striscia colorata alle maniche giuste – ci mancava solo un’altra punizione nello stesso giorno.

Il Magister che trovò come responsabile del dormitorio era piuttosto in età. Sulle prime, Miran pensò si trattasse di qualcuno della Gens – un amministratore, ad esempio – ma il vestiario non mentiva: nonostante il mento cadente, il capo canuto e un giro vita ai suoi occhi anormale, quello doveva essere un Magister. L’uomo lo guardò sottecchi, senza fare alcunché.

“Vorrei tanto sapere come ti salta in mente di andare in giro in canottiera.” grugnì, continuando a squadrarlo.

Miran cercò di mettere insieme una risposta che non suonasse troppo spaesata – si era completamente dimenticato di non avere addosso la camicia.

“Domando scusa.” era un ottimo modo per iniziare, si disse. Tacque un istante, cercando di sondare la reazione dell’altro. Nulla.

“Ero in punizione. Mi è stato consiglia...” – no. Non azzardarti a dare la colpa a un Magister, Miran.

Pessima mossa. Autocensuratosi, non concluse la frase.

L’uomo annuì un paio di volte, senza controbattere, muovendosi poi lentamente dietro al banco che lo divideva dal bambino.

“Questo.” Disse il vecchio, poggiando l’oggetto sul ripiano “È il bracciale. Mettilo. Poi.”

Scampato pericolo: Miran ne dedusse che dopo una punizione si poteva evitare di vestirsi. Almeno la camicia.

Buono a sapersi.

Sollevato, ora il bambino non sapeva se essere pi incuriosito dal responsabile o dal bracciale: entrambi esercitavano su di lui un insolito fascino. Optò per rimanere fisso con lo sguardo sull’uomo, mentre cercava di inventarsi un’età che gli fosse consona.

Quaranta?

Non era bravo con le età.

Centoventi?

Decisamente no.

Non aveva nemmeno un grande campione da cui attingere: i Magistri, da cui era stato circondato sino ad allora, avevano fa i venti e trent’anni. Qualcuno arrivava a quaranta. E lui, comunque, non sapeva quanti anni effettivamente avessero – ma erano diventati il suo prototipo per il concetto di ‘adulto’. Helios non contava.

Quell’altro, intanto, aveva iniziato a fissarlo con la stessa intensità. Per un istante divenne una gara a chi sbatte per prima le palpebre: poi, di colpo, Miran rinsav, scostando bruscamente lo sguardo.

“Hai finito?” chiese il Magister, roco e retorico. Miran non si mosse.

“Biancheria.” Continuò l’uomo, impilando gli oggetti “E asciugamani. Pacco di detersivi. Quando li finisci passa di qua. Quello che fanno c’è scritto sopra. Sapone. Spazzolino e dentifricio. Sacca. Vattene, stanno arrivando degli altri.”

Il bambino mise rapidamente le cose nella nuova sacca, defilandosi quanto prima. Nell’atrio scorse con la coda dell’occhio un’altra ventina di suoi compagni, intenti a osservare un Magister che spiegava loro come si dovevano cucire le varie cose alla sopravveste.

Scappò in camera, lasciando cadere tutto per terra e cambiandosi in fretta: perse un po’ di tempo a controllare se la canottiera si era sporcata di sangue –

ma no, era bianca come doveva essere. Andò in bagno per lavarsi la faccia prima di andare a cena, e lì, con enorme sorpresa, trovò un’ombra a muoversi assieme a lui.

Sussultò, scomposto, e si schiacciò istintivamente al muro. Poi lo vide.

Era esattamente di fronte a lui, poco sopra il lavabo. Sì, ricordava. Vagamente.

Era passato molto tempo da quando lo aveva visto, per la prima ed unica volta, sino ad allora – nella casa del Frate del suo Pater. Era stato poco prima che le Ombre arrivassero a casa sua, e gli dicessero di seguirlo. Era un oggetto meraviglioso, aveva passato l’intera giornata lì davanti, allora. Uno specchio.

Si avvicinò lentamente, osservando la figura che quella superficie gli restituiva. Non c’era nulla di così lucido, al Ludus – a parte la Sphaera. Ma la Sphaera rifletteva il cielo, e non aveva mai avuto occasione di specchiarvisi dentro, dato che la parte più bassa, il primo piano, era opaco. A ben pensarci, tutto ciò con cui aveva avuto a che fare era sempre stato opaco: dalle posate ai pavimenti, ai banchi, i soffitti.

E lui, a dirla tutta, non aveva mai cercato il riflesso del suo volto, nemmeno dove forse avrebbe potuto scorgerlo, seppur vago – nelle finestre, o nelle intelaiature metalliche delle brande ambulatoriali.

Non aveva idea dell’immagine che l’oggetto gli avrebbe restituito: ricordava solo, sì, che ti ci potevi vedere dentro.

Conservava un’immagine di sé del tutto sbagliata – no, in realtà non aveva la più pallida idea di come fosse fatta la sua faccia. Non era mai stata cosa importante. Non gli era mai, perlomeno, parsa importante.

Si scopr con un volto meno tozzo del previsto, i capelli biondi non più cortissimi, in ricrescita: era un po’ che non glieli tagliavano.

A ben pensarci, i bambini pi grandi li avevano più lunghi di loro. Non lunghissimi, ma più lunghi.

Mostrò la lingua a se stesso un paio di volte, studiandola. Si issò sul lavabo, di pietra solida, per vedere più da vicino.

Poi si ricordò che doveva esserci un interruttore, da qualche parte, per illuminare il bagno. Di solito funzionava così, nei bagni dei dormitori.

Una volta accesa la luce, il mondo cambiò. Il suo volto cambiò.

Spalancò gli occhi, arricciò le labbra – si ispezionò capelli, orecchie e colore degli occhi. In un attacco di narcisismo prese a guardarsi da ogni angolazione, studiandosi poi le spalle e il petto nudi.

A ogni suo movimento vedeva il muscolo contrarsi sotto la pelle. Non ci aveva mai fatto caso.

Il suo corpo di bambino era ben diverso da quello che s’immaginava, da quel poco che si ricordava. Sembrava piuttosto il corpo di un uomo – in miniatura, forse: ma adulto. Di infantile gli erano rimaste solo le gote, ancora un po’ tonde. Anche le mani s’erano indurite: non erano grosse e salde come quelle dei Magistri – quelle, pi che mani, sembravan tenaglie – , ma nulla avevano a che vedere con le manine che aveva una volta.

Gli si erano lentamente irrobustite, sotto il naso – così, come tutto il resto. Lento e costante, tutto era cambiato: si palpò gli avambracci, scoprendoli duri.

E sì che erano sempre stati lì.

Perse tempo a farsi boccacce – quasi stupito di divertirsi con così poco, ma non per quello trattenendosi. Poi, come di sfuggita, notò un’irregolarità sul suo volto: c’era qualcosa che non gli tornava, un dettaglio che non comprendeva, forse perché non lo aveva mai visto addosso a nessuno dei suoi compagni.

Lo avevano notato anche loro?

Si avvicinò allo specchio, tanto da impattarvi con il naso.

C’era una strisciolina di pelle più scura sotto lo zigomo destro.

Arricciò le sopracciglia, nel tentativo di vedere meglio: come contrasse il volto, la strisciolina sparì.

Era un’ombra.

Sono un’ombra.

Ricominciò a farsi le boccacce, instancabile, perso – finché non suonò il coprifuoco.


La mattina seguente Miran ingurgitò la colazione come se non mangiasse da una settimana: era talmente affamato che per poco non sbagliò tavolo, sedendosi con alcuni tre stelle. Bastarono le loro occhiatacce per fargli capire che stava per commettere un enorme errore. Fuggì, trovando finalmente una serie di tavoli e panche su cui erano impresse, ai margini, due stelle metalliche: posò il vassoio con la colazione e prese a buttarsi il cibo in bocca.

Passandogli accanto, una Magister si fermò a guardarlo, attendendo che quello lo degnasse d’attenzione. Finito d’ingurgitare il bicchiere di latte, il bambino si voltò verso di lei: la riconobbe, era la stessa che aveva fatto l’ispezione il giorno precedente.

“Primo richiamo. Non si salta la cena.”

Miran incassò la testa nelle spalle, continuando a guardarla.

“Non mangiare in fretta, soprattutto quando hai molta fame. Ti può venire una congestione.”

Miran annuì debolmente – non aveva la pi pallida idea di cosa fosse una congestione.

“Ti si blocca lo stomaco.” spiegò la donna, intuendo la sua ignoranza in merito.

Quello annuì con più decisione.

“Stamattina lezione sui bracciali.” Aggiunse poi la Magister, rivolgendosi a tutta la tavolata. “Muovetevi a venire in aula, siete gli ultimi. Non fagocitate il cibo.”

E se ne andò.


La lezione iniziò con il saluto: pugno, battito, mano aperta, battito. Sederono.

L’aula non era pi ghermita come il giorno prima, le sedie vuote abbondavano. Miran non era sicuro di sapere cosa fosse successo.

Ma un’idea ce l’aveva, seppur vaga.

Tre Magistri, in piedi accanto alla cattedra, presero parola. Stranamente si presentarono.

La donna era Lena, poi c’erano due uomini: Mhanus e Pa’i.

“Noi siamo i Magistri del vostro anno.” Spiegarono. “Svolgeremo la maggior parte delle lezioni, e siamo i vostri unici riferimenti per i prossimi trecento sessantacinque giorni. Non sarete più seguiti come l’anno scorso: sarete responsabili di quel che farete, e non ci sarà più nessuno a suggerirvi che state per fare qualcosa di stupido. Siete soli, ora. Perché siete grandi. Poiché ci avete mostrato di saperlo fare, è ora che vi arrangiate.”

I bambini fremevano, fra lo sconcerto e l’entusiasmo.

I tre Magistri tacquero, nel silenzio. Gli allievi non emettevano un suono, irrequieti solo nel volto e nei gesti, al più nei respiri.

“Ora la Magister Lena vi spiegherà come funziona il bracciale che vi stato dato ieri, e come vi organizzerete le giornate da oggi in avanti.”

Miran era combattuto fra l’ascoltare e il contare i presenti. Cerc di fare entrambe le cose, arrivando a circa quattrocento bambini.

Pi della met, dall’inizio del Ludus, era andata via.

“Tomoe1!”

Quella scattò in piedi al richiamo della Magister: Miran sussultò, sorprendendosi che non fosse stato lui a essere richiamato. Tutta l’aula port l’attenzione a Tomoe – una bambina dalla carnagione scura e lo sguardo concentrato.

“Dicci quante sono le ore del giorno.”

Le labbra della piccola si mossero, ma si sentì ben poco.

“Pi forte, da qui non riusciamo a leggere il labiale!” la spronò Lena.

“Sei!”

“Potresti anche dircele, non credi?”

“La prima, l’ora del mattino, all’alba del solstizio d’estate. La seconda, l’ora mezza, al mezzogiorno del solstizio d’estate. La terza, l’ora tenue, a duecentoquaranta minuti dalla seconda. La quarta, l’ora della sera, al tramonto del solstizio d’estate. La quinta, l’ora del pasto, a centoventi minuti dalla quarta. La sesta, l’ora notturna, a duecentoquaranta minuti dalla quinta. O Mezzanotte.”

“Seduta. Kipa’h2!”

Kipa’h si alzò, Tomoe si abbassò – pressoché in contemporanea.

“Sì!”

“Altro da aggiungere?”

Il bambino – capelli nerissimi su un volto magro e pallido – deglut, nel tentativo di prendere tempo. “Sì.”

“Aggiungi.”

Non fu reattivo come Tomoe: abbassò lo sguardo qualche istante, prima di parlare.

“La prima ora è divisa in sei sezioni di sessanta minuti. Si chiamano fasce. La seconda ora ha quattro fasce, la terza e la quarta ne hanno due. La sesta ne ha

di nuovo sei. La quinta ne ha quattro come la seconda. Tutte le fasce hanno sessanta minuti.”

“Sei ridondante, Kipa’h. E anche poco chiaro. Siediti.”

Quello si sedette, gettando un’occhiata a Tomoe: la bambina sorrideva, entusiasta.

“Tomoe!”

Neanche il tempo di compiacersi per non essere stata ammonita, come lo era stato Kipa’h, che scattò nuovamente in piedi. A chiamarla, questa volta, non era stata la Magister Lena, ma Pa’i.

“Perché sorridi?”

Tomoe raddrizzò immediatamente le labbra.

“Non si sorride se un compagno sbaglia. Spero non ti rallegrerai ogni qual volta un Custos perderà più Bellatores di te: stai ridendo delle disgrazie della Regio, in tal modo.”

Fece una pausa, continuando a squadrarla.

“Ti sei guadagnata un richiamo. Ora, Tomoe – le ore sono astronomicamente corrette?”

“No.” mugugnò quella, alzando poi la voce: “Sono un residuo storico.”

“Ti stato insegnato come si calcola l’ora astronomica?”

Silenzio.

Tomoe inspirò, richiamando a se tutta la sua conoscenza.

No, niente.

“No.”

Quello attese qualche istante – tutta l’aula in tensione: no, non ricordavano che nessuno gli avesse insegnato niente del genere. O forse erano loro ad avere poca memoria? E se Tomoe stesse dichiarando il falso? Non erano mai stati interrogati prima. Non erano sicuri che le cose stessero andando come dovevano.

Alla fine il Magister annu: “Siediti.”

Tomoe si sedette, amareggiata per il richiamo, mentre il resto dei compagni distendeva i nervi.

La lezione prosegu frontalmente guidata da Lena, mentre Pa’i e Mhanus controllavano, attenti, la platea. Giunti all’ora di pranzo, quasi un terzo della classe si era guadagnata un richiamo – per molti, il secondo.

Il bracciale che era stato dato loro avvolgeva circa met dell’avambraccio, ed era un oggetto di alta tecnologia. Prima regola era non romperlo.

I Magistri si ben guardarono dallo specificare che quei bracciali erano pressoch infrangibili, dato che lo stesso modello veniva usato in battaglia dai Custodes – era sempre meglio dare agli allievi una preoccupazione in pi che una in meno.

Parte del bracciale fungeva da schermo: c’erano una serie di comandi, alcuni dei quali vocali, per interagirci. Oltre a fornire l’ora e a ricevere comunicazioni, prendeva il battito, la pressione e poteva fare in rapidit analisi del sangue e iniezioni di medicinali. Queste ultime funzioni richiedevano dei permessi particolari per essere attivate, e solo i Magistri e i Medicus del Ludus potevano accederci – per ora. Pi in l gli studenti avrebbero potuto usarlo anche per altre cose, come la comunicazione a distanza da un bracciale all’altro o l’invio di segnali d’emergenza. Ogni cosa a suo tempo.

“Ogni dieci giorni vi arriver, sullo schermo del bracciale, l’orario delle attivit dei dieci giorni successivi. Salvo comunicazioni differenti, l’orario è legge. Rimane in memoria un giorno, non un minuto di più; quindi dovete memorizzarlo. Se vi dimenticate di presentarvi a una lezione o sbagliate orario, è affar vostro. Non ci servono Custodes senza memoria.”

La batteria si ricaricava in svariati modi – movimento, luce solare, calore umano, o una semplice presa di corrente – il che dava al bracciale un’autonomia pressochè eterna. L’unica cosa a cui bisognava prestare veramente attenzione era lo stato della batteria, che andava cambiata ogni cinque o sei anni.

“Se avete del tempo libero – e d’ora in poi vi capiterà di averlo –, ci sono tre posti dove potete stare: in camera, in aula, o nel refettorio alle ore dei pasti. Ora, voialtri che siete stati tanti furbi da accumulare richiami, mettetevi in fila per la saletta delle punizioni. Gli altri si attengano al loro orario.”

La fila era lunga. Oh, quanto era lunga – Miran tentò di non sorridere, gaudente all’idea di non essere fra loro. Anche perché aveva il resto della giornata libero, l’ora di pranzo si avvicinava e lui era in procinto di mangiarsi una manica della sopravveste, tanta era la fame.

Aveva i crampi.

Mosse qualche passo verso l’uscita, cercando di non sgomitare troppo fra la calca.

Qualche metro lungo il corridoio e – ploff.

Le gambe gli cedettero.

Senza preavviso alcuno.

Riapr gli occhi, perplesso dall’improvviso cambio di direzione che aveva avuto la forza di gravit. Sentiva rimbombargli nelle orecchie il rumore sordo di miriadi di passi: steso sul pavimento, il resto dei suoi compagni lo stava sorpassando di gran carriera – evitando accuratamente di prestargli troppa attenzione.

“Eccone uno che va giù –” sent, ovattata, la voce di un uomo: il Magister Mhanus si accovacciò accanto a lui, prendendogli l’avambraccio su cui portava il bracciale. Miran sent un pizzicore.

“Avevi fretta di provarlo?” domandò l’uomo, retorico, chino sul bracciale del bambino.

Quello fece per alzarsi – ah, certo, le scene di studenti che svenivano in mezzo al corridoio non erano rare. Questo non le rendeva meno imbarazzanti.

“Alt, finchè non te lo dico io. Hai fatto colazione?”

“Questo è quello che ieri ha saltato la cena.” specificò la Magister Lena. “ – hai idea del tempo che ci stai facendo perdere?”

Miran annuì.

“Qui mi dà valori piuttosto anomali.” Notò il Magister, leggendo i dati dal bracciale del bambino. “Sembra malnutrito. Puoi metterti a sedere, Miran. Mangi sempre tutto?”

“Sì.”

Lena lo squadrò severa, le mani ai fianchi.

“Tranne ieri.” Si corresse. “Ma è successo solo ieri!” Mhanus non rispose, continuando ad armeggiare con il bracciale del bambino.

“Mhanus –” lo chiam Lena.

“Quasi fatto.”

“Ne abbiamo un altro. Pa’i!” chiam il collega “Vai un po’ a vedere cos’hanno questi due stelle, oggi, per cortesia?”

Miran vide l’ombra di Pa’i muoversi alle estremit del suo campo visivo. “Forse c’era poco ossigeno in aula.” Continu la donna, rivolta a Mhanus.

“Farò controllare. Intanto tu vai a pranzare, Miran, e presta attenzione al bracciale. Se la schermata diventa rossa, siediti. Poi vai in infermeria. Se no, vacci domani – appena puoi.”

Una volta in piedi, Miran perse poco più di un secondo a sondare la sua stabilit, prima di mettersi in cammino: nel frattempo, i due Magistri avevano gi

raggiunto il loro collega, che stava tirando su l’altra malcapitata.

“Sono inciampata.”

Miran non sentì altro – non era il caso di fermarsi a origliare, se non voleva andare a mettersi in fila insieme agli altri sprovveduti di giornata: s’incamminò rapido verso le scale, diretto al refettorio.


Rimase seduto al tavolo più a lungo del solito: dopo aver svuotato il vassoio si era messo a fissare lo schermo del suo bracciale. Provò un paio di comandi vocali, premette due pulsanti, controllò l’ora e poi rimase in attesa.

Sarebbe diventato rosso? O no?

E quando?

Durò una decina di minuti: la noia montava. In fondo, stava bene: si reggeva in piedi senza problemi, aveva mangiato tutto il suo pasto – era tutto a posto. Si alzò, deciso ad andare in camera per trascorrere il resto della giornata.

A fare che?

Il suo orario parlava chiaro: non aveva alcun tipo di… impegno. Niente. Il vuoto.

Il tempo.

L’idea di avere un intero pomeriggio senza alcuna attività programmata, di colpo, lo fece andare in ansia: tutto quel tempo da riempire... non doveva lavare la stanza né i vestiti, era tutto nuovo e impeccabile; non aveva testi da leggere, o esercizi da presentare al giorno successivo.

Cos tanti minuti da far passare, nel nulla.

Ebbe l’impressione che quella giornata non sarebbe mai finita.

Tutto quel che gli rimaneva da fare era di sedersi sul letto e guardare il bracciale, in attesa della schermata rossa.

Assalito da questi pensieri, si ritrovò quasi senza accorgersene all’esterno, oltre il piazzale – intento a camminare lungo i viali. Diretto verso il dormitorio, scorse con la coda dell’occhio una massa grigiastra – una folla – poco lontano, vicino alla Sphaera.

Miran si ferm bruscamente.

Una ragazzina più grande, una striscia arancione, camminava di poco dietro di lui: riuscì per poco a evitare di andargli addosso – e, come gli passò vicino, gli diede un colpo secco alla spalla con il gomito. “Bada a dove vai, agricola!” fece, stizzita, sorpassandolo.

C’era un notevole traffico umano, lungo le strade che collegavano le varie costruzioni del Ludus: non pochi, poi, si muovevano correndo – il che richiedeva ancor maggiore attenzione. Ad andarsene in giro da soli si rischiava d’esser d’intralcio, specie se ci si fermava di colpo in mezzo alla via.

Miran si spostò, cercando di levarsi dalla zona di maggior flusso: vista l’ora, era pieno di allievi che andavano e venivano dal refettorio. Attravers una serie di prati, tagliando, verso il cumulo di persone che avevano attirato la sua attenzione: non gli servì avvicinarsi troppo per capire che erano quelli del primo anno.

“Ehi, striscia blu.”

Ops. Un Magister l’aveva visto.

“Ehi, dove stai andando? Non puoi startene lì a far nulla, due stelle.”

“Sto andando in aula.” Cercò di giustificarsi.

“E dov’eri, prima? In giro a cogliere fiori?”

“Al refettorio.”

“Dal refettorio all’aula del tuo anno c’è una rampa di scale.”

“Stavo andando in camera, ma ho cambiato idea.” “E cos hai scelto la strada pi breve?” domandò quello, sarcastico. Aveva ampiamente deviato dal percorso pi naturale, in effetti.

Miran non rispose, abbassando il capo.

“Vattene in aula, agricola.”

Non se lo fece ripetere due volte: corse verso il viale più vicino e da lì prese a camminare, tornando da dove era venuto.

Non salì le scale. Rimase al pian terreno, diretto verso l’anfiteatro del primo anno.

Per un attimo pensò di essere un vero genio: i Magistri sarebbero stati talmente occupati a controllare i bambini più piccoli – i mille bambini più piccoli – che a lui non avrebbe fatto caso nessuno. Certo, questo non significava che non doveva fare piano. E fare attenzione.

La sola idea lo elettrizzava, caricato dalla curiosità: com’erano questi nuovi studenti? Uguali a loro o diversi?

Che facce avrebbe visto, lì dentro?

Muovendosi di soppiatto lungo i corridoi, sentì il vociare dei Magistri che smaltivano il flusso dei bambini. Si nascose in un angolino, ancora lontano dall’entrata dell’anfiteatro – in attesa che le acque si calmassero.

Dopo un po’, tutto tacque. Si sporse, cercando di capire se c’era qualche Magister in giro: via libera.

Camminando quasi rasente al muro, si avvicinò alle porte, chiuse, dell’auditorium. Un’altra occhiata lungo il corridoio, e poi poggiò l’orecchio alla porta: qualcuno parlava.

Fece pi attenzione.

Helios!

Quella era la cerimonia d’inizio lezioni – e lui era lì, ad ascoltarla, con le sue due stelle addosso.

No, non doveva essere l.

Ma via, in fondo non aveva niente di meglio da fare. Che problemi potevano esserci? Qualcuno, forse – ma non troppi. In fondo stava assistendo a una cosa cui aveva già preso parte. Non stava mica spiando quelli più grandi. Quello sì, che sarebbe stato un problema.

Provò a vedere se la maniglia fosse stata bloccata: poggiò la mano, cauto e sempre all’erta, facendovi lentamente pressione.

Sent l’ingranaggio muoversi. Continuò a spingere, pian piano, finché non arrivò in fondo: poteva aprire la porta.

Poco. Solo un poco. Pochissimo. Una sbirciatina.

Erano tanti.

Tantissimi.

Erano davvero così tanti?

Per non parlare dei Magistri: maglie rosse ovunque. In gruppi di tre, a coppie o da soli, in ogni angolo dell’anfiteatro, seduti sui gradini o in cima alle gradinate. Mille bambini da sorvegliare – dovevano richiedere un certo impegno.

Helios parlava e parlava.

Miran vide un Magister muoversi nella penombra, avvicinandosi a uno dei piccoli: ecco, agricola, il tuo primo richiamo – pens Miran.

O forse no, ché lui, dal gatto, c’era già stato ben prima di iniziare ufficialmente gli studi.

Rimase in buona parte deluso: non aveva preso in considerazione che, vista l’enormità dell’anfiteatro e la pochissima luce che c’era, non riusciva a vedere in faccia nessuno.

Allora si sporse ulteriormente, fece scivolare le spalle oltre la soglia e, quasi senza accorgersene, fu dentro.

Si richiuse la porta alle spalle.

Ecco, ora – potendo abituare bene gli occhi alla penombra, iniziava a vederci bene.

I nuovi studenti avevano ancora i capelli lunghi, tagliati dai loro stessi Parentes nei modi più disparati: questo li rendeva pi facili da distinguere. La cosa in realtà non lo aiutava molto: dalla posizione in cui si trovava, in cima alla platea, poteva solo scorgere i profili di alcuni, i più vicini.

Stava impegnandosi a strizzare gli occhi per vedere meglio, quando sentì un tocco sulla sua spalla: sussultò, alzando immediatamente lo sguardo. Gli si asciugò la bocca a vedere lo sguardo perentorio di un Magister; era appena entrato nell’ordine di idee di aver commesso l’errore più magistrale della sua vita, quando finì con il fare molto, molto peggio.

Sarebbe potuto uscire semplicemente dall’aula senza un fiato, e la cosa, per lo meno, non sarebbe stata pubblicizzata.

Ma, lo avrebbe giurato per il resto dei suoi giorni, non fu colpa sua.

Silenzioso come un gatto – macché, come un Custos – un altro Magister gli si avvicinò di soppiatto, afferrandolo alle spalle e sollevandolo in aria: colto del tutto alla sprovvista, Miran lanciò un urletto.

I mille si voltarono verso di lui.

Helios interruppe il suo discorso – ah, che ci fosse qualche problema durante la cerimonia, era normale amministrazione. Quel che il vecchio non vedeva, da laggiù, era che il problema non lo stava causando uno dei mille, ma uno studente del secondo anno.

Fuori da ogni logica.

Sorpreso a sua volta dalla reazione del bambino, il Magister che lo aveva accalappiato indebolì momentaneamente la presa: quel tanto bastò a Miran per liberarsi e, in bala dell’adrenalina, scappare. Sgusciò fra le gambe dei due, abbattendosi poi sulla porta da cui era entrato: riuscì in qualche modo a far scattare la maniglia e si buttò fuori, nel corridoio.

Il danno era fatto.

Un danno enorme.

I due Magistri lo rincorsero, senza dargli modo di riflettere seriamente sulle sue azioni – braccato, staccò il cervello, guidato solo da un istinto viscerale che urlava ad ogni suo muscolo: fuggi. A rotta di collo lungo il corridoio, e poi fuori: all’esterno procedette dritto, evitando le vie asfaltate e mirando agli alberi tutt’intorno, lungo i prati, poi, dentro il bosco.

Non aveva la più pallida idea di dove stesse andando.

E poiché non aveva abbastanza problemi, sentì la pancia contrarsi. E contrarsi. Sempre più.

Ma al momento, l’unica sua vera preoccupazione era correre.

Correre, evitando suon di scarti, salti e cadute coloro che gli si avventavano addosso.

Diede tanto di quel filo da torcere ai Magistri che, quando finalmente riuscirono a bloccarlo, aveva percorso quasi tre chilometri: perso in zone del Ludus di cui ignorava persino l’esistenza, fra boscaglia e palazzine, strade mai viste, viali completamente ignoti, si era cacciato in un vicolo cieco.

Con le spalle letteralmente al muro, si trovò di fronte una decina di Magistri oltremodo stizziti.

La paura.

La paura.

La paura.

Davano tutta l’impressione di volerlo fare a brani seduta stante.

Soffiò.

Come un gatto.

Davvero.

Non seppe nemmeno perché gli venne in mente di farlo, ma soffiò.

Serrò i denti, e ringhiò.

Non era credibile.

Non gli rimase che urlare, come un qualsiasi essere umano preso dal panico.

Serr le braccia davanti alla testa, per pararsi il volto, flettendosi e chiudendosi tutto – neanche fosse l’apocalisse quella che gli arrivò addosso.

Forse aveva dilatato il suo senso del tempo, perché i Magistri lo afferrarono solo qualche istante dopo quel che aveva preventivato.

Fatto sta che, finalmente, lo presero.







[1] Pronuncia Tòmoe

[2] Pronuncia Kipàh






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Capitolo 7
*** 6. Gatto ***



6. Gatto




Quando arrivò Isia, il bambino era una palla.

Completamente raggomitolato su se stesso, legato con le casacche dei Magistri, sembrava non compiere un solo movimento se non un lento, impercettibile respiro.

Dapprima, lo osservò perplesso.

“C’è da andarci giù pesante, qui.” gli disse uno dei Magistri, un ragazzotto di forse diciott’anni che parlava sputando tutto l’astio che rincorrere il bambino per mezzo Ludus doveva avergli provocato.

“Valuterò io, Camir1.” precisò Isia, avvicinandosi a Miran. “Cos’è che avrebbe?”

Mal di pancia, è stata l’ultima cosa che ha detto – prima di far bozzolo.”

Camir era altamente scocciato. E altamente giovane. Avrebbe dovuto aver a che fare con bambini di nove o dieci anni, non con una striscia blu.

Ma suddetta striscia blu aveva avuto la brillante idea di raggiungere le zone che solo dalle quattro stelle in su sarebbero state a lui permesse, e così s’era inevitabilmente imbattuto in Camir. E similmente in Phaes2 e in Toti3. Qualche dio Bianco doveva averlo graziato, dato che nella sua rocambolesca fuga aveva di poco sfiorato le zone di Saeb.

Già così, sarebbe stata dura.

Isia vide Camir indietreggiare, senza togliersi dal volto quell’espressione di fastidio che aveva indosso dal momento in cui aveva messo piede nella stanza.

Il bambino, sulla branda, continuava a non muoversi. Teneva gli occhi chiusi, serrati, strizzati in una morsa che da sola sarebbe bastata a procurargli un enorme mal di testa.
“Questo le proverà tutte, per non passar dal gatto.” fece Phaes, scuotendo il capo. “Non farti ingannare.”

Isia non rispose, ispezionando il bambino. Dopo qualche istante di silenzio, e non un fiato da parte dell’altro, Phaes iniziò a volersi mangiar la lingua – per quanto inappropriato era stato il suo commento.

“E il registro medico che dice?”

“Stamattina è andato giù, svenuto –” intervenne Toti “– assieme a un’altra. Ma stava bene – e non ci sono stati altri problemi. Il suo bracciale lo dice sano. Abbiamo fatto un paio di controlli con lo spillo, mai che il sensore fosse rotto – ma no, è a posto. Anzi, ha valori perfetti.”

“E i responsabili del secondo anno?”

“Ci han raccontato appunto di stamane, ma ora sono impegnati. Come gli altri che l’han rincorso – eravamo in dieci, alla fine. Era un bel po’ che non vedevo qualcosa del genere.”

“Miran.” lo chiamò Isia.

Il bambino non rispose.

“Sei già arrivato alle due code, con quel che hai fatto. Te ne rendi conto, vero?”

Lo vide tentare un movimento, non capendo bene di che genere. Ma fu solo un fremito, perché, di nuovo, s’immobilizzò.

“Se pensi d’esser più furbo di noialtri, hai sbagliato clamorosamente.” rimarcò il Magister.

Sentì Camir tossicchiare, soddisfatto.

“Quindi bada bene, striscia blu –” continuò Isia “ – ogni singolo secondo che ci fai perdere, lo pagherai. In toto, a fondo, e in modo che tu non te ne possa mai più dimenticare. Hai capito?”

Ottenne nuovamente un fremito, e nulla più.

“O forse vuoi lasciare il Ludus e basta, per salvarti da quel che ti attende?”

Questa volta ottenne un chiaro cenno della testa: no.

No, certo. Lo aveva visto, il giorno prima – non era il tipo.

Dunque non mentiva.

“Phaes, vai a chiamare un Medicus. Se ne ha uno di riferimento, chiama quello e quello soltanto.”


Saan non si fece attendere, giungendo all’ambulatorio in pochi minuti con una scatola metallica in mano.

Quando Isia lo vide, ebbe inizialmente un senso di stortura. In qualche modo, si aspettava di vedere Shi’ran.

Non che lui fosse al corrente del lavoro della Medicus, né dei protocolli che riguardavano i Philosophi – ma nel parlare al bambino gli era tornata in mente la prima volta in cui lo aveva incontrato, un anno prima, non ancora ufficialmente allievo del Ludus. Stava dando del filo da torcere a Shi’ran, per l’appunto – e proprio perché aveva avuto modo di infastidirla così a lungo, significava che interessava alla donna.

Come e perché, non era affar suo.

Ad ogni modo, Saan entrò salutando tutti loro, e poi avvicinandosi al piccolo. Non certo quel che avrebbe fatto Shi’ran in una situazione simile.

“Riesci a parlare?” chiese il Medicus a Miran, mentre con inaudita delicatezza gli infilava un ago sottocutaneo sulla nuca. I quattro Magistri lo osservarono mentre collegava il cavetto dell’ago alla scatola che portava con sé.

Il bambino continuava a non far nulla.

“Lo prendo per un no.” concluse Saan.

Miran ricordava la voce di quel Medicus. Come molti suoi coetanei, stava diventando bravo a riconoscere le persone in tutto quel marasma di sconosciuti in cui lo avevano piazzato. Certo non sapeva quale fosse il suo Nomen, ma poteva facilmente richiamare alla mente i suo volto, un po’ passato, i capelli biondicci e radi, una statura non eccezionale ma le spalle, quelle sì, vaste.

Aveva una voce morbida, ed era insolitamente gentile.

Stava diventando naturale, per Miran, diffidare della gentilezza. I Magistri più gentili potevano rivelarsi i più saldi punitori – meglio non farsi abbindolare.

Avvolto nel dolore, cercò a fatica di emettere un qualche suono, senza riuscirci.

“Adesso vediamo.” disse il Medicus. “Controlliamo ogni singolo valore.” Era di quelli a cui piaceva parlare. Manteneva un tono calmo, quieto, a tratti rassicurante. “Vediamo quanto sei bravo a mentire, Miran.” Qualunque fosse il punto della frase.

“Camir, Phaes, potete andare.” Li congedò Isia. “Toti, se non hai da fare mi serviresti qua.”

I due, ch’erano i più giovani, lasciarono volentieri l’ambulatorio. Toti si affiancò invece a Isia, ed entrambi rimasero a guardare il lento e metodico trafficare di Saan. In due, lì, sarebbero bastati a braccare la striscia blu, se mai avesse avuto la forza e la genialità di ritentar la fuga.

Da cosa, poi?

Erano sempre illogici, i bambini. Isia lo ben sapeva, con tutto quel che gli capitava di vedere nella saletta delle punizioni. Certo Miran era leggermente… oltre.

“Forse ho capito, sai?” disse Saan, rivolgendosi al bambino. “Adesso proviamo questo, e vediamo se riesco a srotolarti.”

Con la stessa delicatezza che aveva usato prima, l’uomo infilò un secondo ago, questa volta sul collo, di Miran. La zona, riconobbe Isia, era particolarmente delicata. L’ago scese a fondo, forse addirittura nella carotide.

Il bambino ancora non accennava a muoversi.

“Dovrebbe farti bene, Miran.” spiegò il Medicus. “Ma se fai dei movimenti inconsulti con quest’ago addosso, rischi di strapparlo – e muori qui, seduta stante. Quindi non fare nulla di stupido. Non sarebbe una bella morte, io preferirei comunque il gatto, fossi in te.”

Isia e Toti si avvicinarono, pronti a tener fermo il bambino – ma Saan, come li vide spostarsi, fece un cenno di diniego col capo. “Non c’è bisogno.”

Quel che arrivò in corpo a Miran era freddo, gelido.

Ma non reagì.

Si sforzò di accettare quell’ennesima cosa che gli veniva iniettata in corpo, come decine di altre volte aveva fatto.

E scomparve.

Quel crampo, quel dolore lancinante, quella contrazione che gli impediva qualsiasi altro movimento – sparito. Tutto.

Di colpo.

Era di nuovo vivo.

Videro il bambino rilassare lentamente tutti i muscoli del corpo, lasciando la presa dal ventre, afflosciandosi. Riaprì gli occhi, osservando la parete di fronte a lui come fosse un oggetto dai profondi significati. Iniziò a fare lenti e larghi respiri, ed anche le lacrime, finalmente libere, presero a fluirgli sulle guance – che andavano arrossandosi.

“Allora, Miran? Come stai?”

“Bene.” rispose.

Saan annuì. “Ora non ti muovere.”

“Sì.”

Lentamente l’uomo sfilò gli aghi – prima il più profondo, poi il sottocutaneo. Tamponò, curandosi di bloccare bene il flusso di sangue.

Miran, muto, cercava di fermar le lacrime.

“Per favore, se lo riuscite a slegare…” chiese ai due Magistri. “Mi sembra piuttosto collaborativo.”

Eseguirono.

Da lì, Saan si spostò più volte fra la branda e gli armadietti, mandando ogni tanto Toti a recuperare siringhe e medicine altrove. Ci misero quasi tutto il pomeriggio, in quel che agli occhi di Isia era un intervento insolitamente lungo – per non essere chirurgico.

Miran non mentiva. Stava davvero male.

I Medici di riferimento servivano a questo, d’altronde. Ma da quant’era che non perdevano così tanto tempo dietro a una striscia blu? Se si ammalavano, se si facevano male, se avevano problemi gravi che necessitassero di una tale attenzione, venivano spediti alla palazzina dei Medici e messi in degenza insieme a gli altri – ce n’erano sempre una ventina, di studenti, lì. Far perdere tutto quel tempo a un Medicus e due Magistri era insolito. Ma Saan non faceva una piega, mentre continuava a lavorare sul bambino, iniettando sieri ed estraendo sangue da analizzare, in un flusso continuo.

Quando Miran si addormentò, lasciò libero anche Toti. Verso sera, finalmente, lo portarono in degenza.

“Domani passerò a ricontrollarlo, ma penso che in un paio di giorni sarà abbastanza in forma per riprendere le attività.” spiegò Saan.

“Lo attende una punizione pesante. Devo sapere esattamente quando potrà affrontare il gatto senza avere ricadute dovute a questo… mal di pancia.”

“Quattro giorni, direi. Ma ti aggiornerò. Ora mi congedo.”

Isia lo salutò con un cenno del capo, portando poi il pugno al petto.


Miran passò il primo giorno di degenza rintontito, mentre cercava di capire dove si trovava e che cosa facevano tutti quei bambini stesi, assieme a lui, su dei grandi letti.

Gli sfiorò la mente l’idea di esser morto, ma quando iniziò a sentire i crampi della fame dovette rapidamente ricredersi. I morti non mangiano. Si sollevò a sedere, cercando poi di scendere dal letto – del tutto intenzionato ad andare al refettorio.

Non era molto in sé.

“Fermo, tu.” lo ammonì una voce: il bambino si voltò, cercando di comprenderne la fonte. Un ragazzo, in veste da Medicus, gli si avvicinò in fretta: lo prese per i fianchi e lo ripiazzò sul letto. “Devi far qualcosa?” chiese.

In effetti, aveva anche bisogno di espellere. Si guardò attorno, muto, domandandosi se ci fosse una latrina, da quelle parti. O addirittura il lusso di un bagno intero.

“Allora?”

Miran annuì.

“Allora seguimi.”

Lo accompagnò al bagno, facendolo poi lavare a fondo, e lo riportò indietro. Miran non era mai stato in degenza, non aveva la più pallida idea del trattamento che si poteva aspettare. Seguiva mogio le indicazioni del Medicus – che, peraltro, era davvero giovane. Non aveva mai visto qualcuno di così giovane. C’erano gli studenti, e poi i Magistri – che potevan sì esser giovani, ma non così tanto.

Di quel che succedeva in mezzo, non ne aveva idea.

“Siediti, e resta sveglio, così mangi.”

Miran annuì, issandosi senza gran fatica nel letto alto quasi quanto lui.

Gli portarono un pasto ancor più abbondante del solito, metà del quale era costituito da creme e puree che non aveva mai visto in precedenza.

Appena finito di mangiare lo fecero muovere – camminare dapprima, poi correre lungo i corridoi dell’edificio. Su e giù per le scale.

Lo rimisero a letto, lo rifecero mangiare, si addormentò.

Rimase in quello strano limbo in un tempo indefinito, finché, riaprendo gli occhi, non trovò sul comò al suo fianco la divisa e la sopravveste.

Si vestì, e attese.

“Scendi, Miran.” gli disse il giovane Medicus, entrando nella sala. “Tieni questo.”

Gli mise in mano una borraccia nera, da forse mezzo litro.

“Tre sorsi all’inizio della prima, seconda, terza e quarta ora. Sei prima dell’ora quinta, a meno che tu non debba star sveglio oltre l’ora sesta. In tal caso, tre alla quinta e tre alla sesta. Se stai in piedi tutta la notte, altri tre a metà della sesta.”

Miran annuì.

“Ripeti.” gli disse il Medicus.

Miran, preciso, ripeté le indicazioni.

“Troverai nella tua camera una scatola e altre dieci borracce. Vedi di averne sempre pronte, e non sognarti di saltare una sola dose. Se pensi di non tornare in camera per più di cinque giorni, prendi una borraccia grande, oppure prendi le bustine che trovi nella scatola. C’è scritto come utilizzarle, leggi bene. Quando stai per finirle, vai dal responsabile del dormitorio.”

Il bambino osservò la borraccia a lungo, mentre quello continuava a parlare.

Ripeti.” gli disse il Magister.

Quello, ancora, ripeté. Tutto, dall’inizio.

“Bene. Vai.”


Miran scoprì d’aver perso ben tre giorni di lezione: a stento seguiva le parole del Magister Pa’i, nella prima mattina in cui rimise piede in aula.

Quand’era che si era ritrovato in una situazione del genere?

Anzi, era mai successo?

No. Non era mai stato male.

Ma altri, sì. Le assenze per influenza non erano affatto rare. Cosa succedeva, dopo?

Era così che si svuotavano le sedie?

No, non avrebbe mai accettato una cosa del genere. Non sopportava di non star dietro a quel che dicevano i Magistri.

Si mise in testa un’idea ardita, ma l’unica per lui attuabile.

Doveva farsi avanti.

Costasse quel che costasse.

E poi…

Poi c’era quello spettro che aleggiava, tra le testa il corpo: l’inquietudine, il tormento. L’attesa.

Non era stupido.

Sarebbe dovuto andar dal gatto, per quel che aveva fatto.

Quando sarebbe successo? Quando lo avrebbero chiamato nello stanzino?

Al gatto non si scappava. Mai si sarebbe sognato di salvarsi da una punizione.

Restava l’attesa.

Due code, aveva detto il Magister Isia. Per questo poteva azzardarsi a fare una sciocchezza in più che una in meno – in confronto alla corsa lungo il Ludus, allo spiare i bambini nuovi, all’urlare in presenza dell’Helios, sarebbe comunque stata un’inezia.

Così non si fece scrupoli ad andar a chiedere aiuto al Magister. Tant’era, provò.

Quando vennero lasciati liberi per andare al refettorio, Miran corse giù, nel punto più basso dell’anfiteatro – verso Pa’i. Raggiunto il Magister, si trovò davanti una bambina con i corti capelli biondicci, più alta di lui – parecchio più alta di lui. Teneva in mano la sopravveste, le braccia tese: gliela stava porgendo, ecco che faceva.

Miran vide l’uomo prendere l’oggetto, e come questo passò da una mano all’altra sentì un rumore anomalo – un tintinnio sommesso. Poi Pa’i appoggiò la sopravveste sulla cattedra, ed allora il bambino lo vide: un campanello.

Lo stesso campanello che aveva avuto in mano qualche giorno prima – quello da poggiare nella conca. Quello che lui non aveva, ma lei sì.

Il bambino collegò in fretta tutti i puntini: l’altra era più grande di lui – l’altra aveva il campanello.

Chiaro: avrebbe dovuto essere coi tre stelle, lei – non con loro.

Se ne stava andando.

“Aspetta un istante, Hosi.4” le disse il Magister Pa’i, portando poi lo sguardo su di lui. “Che vuoi?”

Miran sentì il sangue rigettarglisi violentemente nelle guance, bollendo. Rimase muto qualche istante, colto alla sprovvista – s’era fatto prendere dai ragionamenti, che ora non era affatto pronto a rispondere. Che dire – da dove iniziare?

Avanti.

“Magister, sono stato mal –”

“Lo so. Vuoi appunti?”

Era la prima volta in vita sua che sentiva quella parola. Appunti. Suonava bene.

Annuì.

“Bene. Te li farò avere in camera. Muoviti ad andare a mangiare.”

Non era sicuro di cosa fosse appena successo, ma preferì defilarsi. Gettò un’ultima occhiata alla bambina bionda, mentre correva su per le scale a recuperare la sua sopravveste. Ah, giusto. Anche la borraccia.

La borraccia.

Non c’era più.


Nei giorni che seguirono Miran scoprì quanto la sua borraccia potesse essere interessante agli occhi degli altri. Non cercò di capire chi gli aveva rubato la prima, ma corse in camera a prenderne un’altra, che – come saggiamente gli aveva detto di fare il giovane Medicus – aveva già preparato il giorno prima.

Tempo che il sole tramontasse, e gli avevano rubato anche la seconda.

Iniziò a montargli una rabbia ignota, e l’idea di fare a botte lo stuzzicava sempre più. Sarebbe stato disposto a darle anche a uno a caso, pur di sfogarsi – anzi, ai suoi occhi erano tutti colpevoli.

La terza la tenne sempre stretta, finché non fu costretto ad abbandonarla per l’allenamento: cercò dapprima di correre tenendosela in mano, ma quando iniziò ad aver bisogno di tutti gli arti liberi non seppe più come fare, e l’appoggiò vicino a un albero.

Così anche la terza sparì.

L’idea di dover già chiederne di nuove lo scocciava. Era sicuro che sarebbe stato un richiamo coi fiocchi: pura negligenza.

Ma a dirla tutta il problema non era tanto la punizione, quanto l’umiliazione e la rabbia che gli montavano in corpo.

Passò la notte seguente sveglio, a pensare sul da farsi.

Qualche idea gli venne. Sarebbe stato più furbo degli altri – di chiunque si trattasse.

Fare a botte era soddisfacente, sì, ma fargliela sotto il naso a quegli sciagurati avrebbe provocato in loro la stessa rabbia che loro avevano provocato in lui – e quest’idea in particolare, a Miran, piaceva assai.

Non appena suonò la prima sveglia, schizzò fuori dalla camera per andare a fare colazione, pronto a mettere in atto le trovate della notte – la borraccia ben salda in mano. Ingurgitò in fretta il cibo, senza più prestare attenzione alle dosi o a quel che gli mettevano nel vassoio: sul punto di avviarsi verso l’aula, però, venne bloccato.

Davanti a lui, Isia.

“È ora.”

Gli avevano dato giusto il tempo di lasciarsi passar di mente tutte le efferatezze che aveva fatto, così da potergliele ricordare.

Precisi.

La precisione era qualcosa di perenne ed immanente, al Ludus. Miran evitò di stupirsi: dopo una minuscola perplessità, annuì grevemente col capo e seguì il Magister senza fare un fiato.


“Dunque tu vuoi restare al Ludus.” Disse Isia, aprendo le ante dell’armadio di metallo che adornava lo stanzino delle punizioni.

Miran, in mutande, annuì.

“Togliti il bracciale.”

Mentre il bambino eseguiva il Magister gli si avvicinò, porgendogli il gatto a due code.

“Tieni.”

Miran lasciò che l’uomo gli appoggiasse l’oggetto sui palmi delle mani, e, come aveva fatto più di un anno prima, lo tastò.

La frusta era pesante, spessa e liscia. Ebbe esattamente la stessa sensazione che aveva avuto allora – con la differenza che lui, nel frattempo, era cresciuto: il che significava che anche il gatto era cresciuto, insieme a lui. Altrimenti, in mano, avrebbe dovuto sembrargli molto più leggero.

Aveva già sperimentato, una decina di giorni prima, la consistenza dell’oggetto – direttamente sulla schiena. Vederlo in mano dava un senso di coerenza al tutto.

“Vuoi sapere quante frustate sono?” Domandò, affatto sarcastico, l’uomo.

Miran non rispose.

“Vuoi che le conti?” continuò a chiedere Isia, mentre preparava i bracciali e il moschettone per appenderlo.

“No.” rispose, con un filo di voce.

“Allora – prima che ti tiri su: vuoi restare al Ludus?”

Miran annuì.

“Quando sarai su, se vorrai lasciare, dovrò chiederti conferma per tre volte.” gli spiegò. “Quindi pensaci bene, perché sarà una cosa lunga.”

Miran scosse la testa, ritmicamente, in un diniego continuo.

“Che significa quel gesto?” chiese l’uomo.

“Non voglio andare via.” spiegò quello, stringendo con forza il gatto.

“Perfetto. Assumersi le proprie responsabilità è una buona cosa, per un Custos.”

Quello gli bastò a diradare ogni dubbio.

Avrebbe resistito, costasse quel costasse. Perché sì, aveva fatto una cosa sciocca. Si era comportato da Agricola, e, se non voleva diventare tale, avrebbe dovuto vedersela col gatto.

Lui era uno studente del Ludus, non un Agricola.

Una volta su, appeso per i polsi, fece un profondo respiro e strinse forte la schiena.

Sì, quello aveva imparato a farlo. Chiuse gli occhi. Attese.

La prima fu un singulto.

Fece per urlare, ma con forza ricacciò l’aria dentro i polmoni: aprì gli occhi, fissando il muro. Il respiro gli si era già fatto pesante.

La seconda l’accolse.

Fece un profondo respiro, sentendo il fischio nell’aria.

Iniziarono a sfuggirgli le lacrime dagli occhi.

La terza aprì la pelle.

Da allora, fu un peggiorando continuo. All’inizio, Miran ebbe l’infelice idea di contare: quando però il numero iniziò a toccare cifre che iniziavano a fargli dubitare della sua capacità di sopportazione, gettandolo nello sconforto, smise.

Venne prima il caldo – quello, subito. Poi il sangue.

Il bruciore violento.

Ma lui era uno studente del Ludus, avrebbe resistito. Costasse quel che costasse.

Isia controllò ben due volte che fosse vigile: entrambe le volte si ritrovò davanti uno sguardo serio, concentrato, il volto scarlatto e sudato che lasciava intendere bene quanto dolore provasse.

Ma Miran non mollava, non diceva una sillaba, non fiatava se non per respirare e tossire ogni tanto. Il Magister poteva sentire le urla morirgli in gola, non per stanchezza, ma per testarda ostinazione.

Quando lo tirò giù quello barcollò, riappropriandosi con qualche fatica dell’equilibrio. Faceva lenti e profondi respiri, gli occhi rossi, lacrime e sudore sulle guance.

Isia lo raddrizzò tenendolo per le spalle, per poi sfilargli i bracciali di metallo: gli avevano provocato una striscia di vesciche sui polsi, alcune delle quali aperte e sanguinanti. Gli posò una mano sulla fronte, bollente, ed una sul cuore. Rimase così, flesso, ad aspettare che si calmasse e raffreddasse. I minuti scorsero lenti, abitati solo dal respiro affannato di Miran.

“Bene.”

Ce l’aveva fatta.

“Rimettiti il bracciale. Stai attento ai movimenti che fai.”

Controllò il battito dalla carotide, i dati del bracciale, gli guardò gli occhi e gli fece seguire l’indice con lo sguardo, mentre lo spostava davanti al suo volto.

“Bene.”

Non era stato semplice. No.

Era stato atroce.

Ma era finito.

E soprattutto, quand’era stato issato, sapeva che sarebbe finito – forse dopo poco tempo, forse dopo molto, ma le frustate che s’era meritato, fossero anche state tante, erano limitate.

A differenza di quell’atroce mal di pancia.

Nulla lo poteva battere, pensò Miran.

Nemmeno le frustate.

Miran aveva vinto.

Sorrise, rendendosi conto che sarebbe stato capace di affrontare qualsiasi punizione.

“Vai in camera. Il responsabile di dormitorio ti aiuterà a medicarti.”

Isia guardò il bambino allontanarsi con i vestiti in mano, la schiena sanguinante. Lo vide camminare dritto, dopo quel sorriso assurdo che gli si era lento e inesorabile allargato sul volto.

Avrebbe voluto dirgli bravo, ma non poteva. Sarebbe stato fuori luogo, e didatticamente sbagliato.

Rimaneva innegabile che fosse uno dei pochissimi a gestire così bene una punizione così grossa, a quell’età.

Il Magister ne era a tratti ammirato.









[1] Pronuncia: Càmir

[2] Pronuncia: Fæs

[3] Pronuncia: Tòti

[4] Pronuncia: Hòsï



____________________________________________________________________________________________________________


Nota dell’Autrice - angolo svarioni et al, per diletto e in parte noia.


Grazie a chi ha messo la storia fra seguite e preferite, siete un supporto notevole :)

e ovviamente vi ringrazio per le recensioni, cui comunque cerco di rispondere sempre, visto che uno fa la fatica di recensire… =)

.

Spero di aver iniziato a dare qualche scopetta qua e là, anche se la faccenda è lunga. Risalgo lentamente la china, i momenti epici verranno molto più avanti, purtroppo. Spero non troppo in là.
Spero anche che non ci sia nulla che urti troppo.


Grazie a tutti e al prossimo capitolo :D



Pandi


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Capitolo 8
*** 7. Inchino ***



7. Inchino




Bruciava ogni volta in cui si buttava addosso – da solo o con l’aiuto di un Magister – disinfettanti e medicinali. Bruciava, tirava, a volte ricominciava a sanguinare durante gli allenamenti.

Rimase impedito nei movimenti per giorni: anche dormire era un’impresa, con la schiena in quelle condizioni. A fatica rimase al passo con gli altri, salvato in larga parte dagli appunti – un plico di fogli che spiegavano cosa era stato fatto mentre era in degenza. La notte li leggeva e li rileggeva, non riuscendo a prendere sonno: ma non bastava. Anche se sulla parte teorica aveva recuperato, su tutte le attività pratiche si trovava in seria difficoltà.

La rabbia ricominciò a montare: frustrato, si sfogò divertendosi con la borraccia. Iniziò a nasconderla nei posti più impensabili, sotterrandola di nascosto, o infilandola in una fessura d’un tronco d’albero. A volte vedeva qualche compagno cercare, invano, di trovarla per sottrargliela. Una se la mise nelle mutande – ottenendo grande ilarità e un richiamo.

Così, non ne perse più una.

Tempo dieci giorni e Miran era tornato abbastanza in forma da non restare più fra gli ultimi, nella corsa e negli allenamenti: divenne più reattivo che mai. Talmente reattivo che iniziò ad eccedere nelle sue azioni più spesso del solito. Spingendosi oltre più di quel che aveva precedentemente osato fare.

Isia lo guardò a lungo, quando si ripresentò alla saletta a meno di venti giorni di distanza dall’ultima, lunga, punizione. Miran sorrideva beota. Come poteva sorridere un bambino la cui schiena era stata ridotta in condizioni infami solo una ventina di giorni prima, dovendo rincontrare il gatto?
“Vuoi restare al Ludus?”

“Certo.”

“Fai come vuoi. Sono sempre due, le code, per te.”

Miran fece spallucce. “E quante?” chiese.

“Cosa?” fece l’uomo, perplesso.

“Le frustate.“

“Tre. Ma con questa fanno quattro, Agricola. Non fare domande inopportune.”

Miran gli porse i polsi, guardandolo con vaga sfida.

La schiena del bambino era ancora malconcia. Gli avrebbe fatto molto più male di quel che pensava.

Saccente.

Certo, ammise il Magister tra sé e sé, s’aspettava fosse in condizioni ben peggiori.

Poco importava.

Caricò.



***



Atro non tollerava metter piede dentro il Globus. Seppur fosse esternamente identico, sia nei materiali che nelle dimensioni, alla Sphaera, l’interno celava un mondo completamente diverso.

Drappi rossi e neri ovunque. Troppi. Tutti insieme, tutti lì.

Un Custos non avrebbe dovuto accedervi, di norma – nei rari casi in cui accadeva, serviva un invito formale sigillato da un Philsophus. Lui, però, non era un Custos qualsiasi.

Lui era un Custos che addestrava i Philosophi stessi – gli Strategi, nello specifico.

Non lo faceva a Pagus, no: li portava al Ludus, o al fronte. Studenti suoi, territorio suo. Così funzionava. E sebbene l’altezza del suo rango e la sua bravura lo avessero portato ad aver l’accesso libero al Globus, Atro evitava di entrarci se non obbligato.

Shi’ran gli venne incontro lungo il corridoio, intercettandolo non appena ebbe messo piede all’interno dell’enorme struttura: quando fu abbastanza vicina all’uomo si lasciò scappare un sorriso affilato e storto: “Fati Frates.” lo salutò, sarcastica.

“Dimmi, Shi’ran.” la incalzò il Custos, che non si curava di celare il suo disagio. Portò il pugno al petto, serrando le labbra.

“Seguimi.”

I corridoi dentro il Globus si snodavano asimmetrici, tanto da infierire sul senso d’orientamento del Custos, che faceva fatica a orizzontarsi. Seguì la donna, riconoscendo il percorso che portava al refettorio. Se era ancora abbastanza ferrato, entro breve avrebbero incontrato una rampa di scale.

Infatti.

“Cos’hai intenzione di fare, negli anni prossimi?” chiese a un tratto la donna, dopo il lungo silenzio che aveva accompagnato il loro camminare.

“Io non ho intenzioni. Quel che mi danno da fare, lo faccio. Lo sai.”

La Philosopus si fermò a due passi dall’entrata del refettorio, scrutandolo sottecchi. “Vuoi forse farmi ridere?”

“No.” si limitò a dire Atro, il volto impassibile.

“Vuoi mangiare?” chiese allora Shi’ran.

“Non ne ho impellente bisogno.”

“Allora andiamo nel mio ufficio.” Neanche finita la frase che quella riprese a camminare: un’altra rampa di scale, sempre più in basso, finché di colpo non si fermarono davanti ad una porta bianca e anonima. La Philosophus entrò, accendendo la luce e portandosi dietro alla larga scrivania che troneggiava nel mezzo della stanza; su ogni parete s’alzavano librerie traboccanti di tomi, cartelle e dispense: nonostante l’ordine assoluto, era chiaro che l’ufficio fosse saturo. Atro ci entrò mentre il suo senso di disagio si amplificava sempre più: le si mise di fronte, mentre lei faceva spazio sulla superficie del tavolo per attivare lo schermo integrato.

“Chiudi la porta.”

L’uomo rimase qualche istante a guardarla, e, con lo sguardo sempre ancorato sulla donna, indietreggiò quel tanto che bastava ad afferrare la maniglia e chiudere, silenziosamente, l’uscio. Rimase lì, in piedi, in attesa.

Shi’ran si sedette. “Allora.” fece poi, riportando gli occhi sul Custos “Ti ripeto la domanda: cosa hai intenzione di fare, negli anni prossimi?”

Atro stese le labbra, lasciandosi scappare uno sbuffo divertito.

“La mia risposta non cambia, Shi’ran.”

“Allora continuerò a ripetere la stessa domanda finché non deciderai di piantarla con le idiozie da Agricola, e mi dirai quel che ti passa per la testa.”

Il Custos non rispose.

“Sto sentendo voci che non mi piacciono, Atro.”

“Non decido io.” rimarcò l’uomo. “Non sta a me decidere.”

Shi’ran non rispose, limitandosi a fissarlo. A lungo. Insistente.

Passarono cinque minuti così, nel silenzio, a guardarsi e basta.

“Va bene.” cedette alla fine la donna, vedendosi costretta a cambiare strategia. “Ne deduco che ti sta bene.”

“Ho cinquant’anni, Shi’ran. Prima o poi doveva succedere.”

Non a te!” saltò su quella. “Dimmi ora seriamente che sei contento di non poter morire sul confine, e io interromperò questa sottospecie di interrogatorio cui mi costringi a sottoporti!”

Il Custos si strinse nelle spalle, incrociando le braccia al petto. “Non decido io.”

Gli sguardi d’odio di Shi’ran erano sempre qualcosa di affascinante e temibile. Ma lui aveva il sistema dalla sua, e su questo poteva fare un profondo affidamento: non era nel torto. Affatto. Al più, era Shi’ran che stava andando oltre.

Ecco perché erano in quell’ufficio, e non altrove. Si fossero anche fermati a mangiare, la questione sarebbe comunque stata affrontata in quello stanzino, fra loro due, senza che qualcun altro potesse carpire qualsiasi minima parte del discorso.

Lo aveva fatto per proteggere se stessa, vist’anche la dimensione delle reazioni che poteva avere – e che, di fronte ad altri, si sarebbero potute rivelare deleterie.

La Philosophus s’era infatti alzata in piedi, poggiandosi con forza sui pugni, stretti, premuti sulla scrivania illuminata.

“Non raccontarmi storie che tu per primo sai esser false, Atro. Avresti dovuto essere ritirato dal fronte cinque, anzi, dieci anni fa. Se sei rimasto, è solo e unicamente per volere tuo. Io, questo, lo so.”

Il Custos optò per il silenzio, aspettando che Shi’ran scoprisse del tutto le sue armi.

“Con tutti gli Strategi che hai addestrato, con guanti di quel bianco – se esistesse un Helios per i Custodes, saresti tu. Nessuno ti è direttamente sopra, se non per la direzione della guerra ad altissimo livello. Ed anche in quel caso – non ho idea di come sia possibile – ma so che è capitato che chiedessero consiglio a te. Solo gli Undecim possono sollevarti dagli incarichi, e nessuno ha alcuna intenzione di farlo. Mai avuta, visto quanto rendi e quanto scalpiti per star là.”

“E quindi?” domandò, greve, quello.

“Quindi se tu stai lasciando il fronte, Atro, lo stai facendo di tua volontà. In qualche modo – non chiedermi come – glielo hai chiesto tu, di mandarti via. Nega l’evidenza, avanti: nega. Non aspetto altro che sentirti mentire come un Agricola.”

Lui non si spostò. Ascoltò con calma e con calma si prese il tempo necessario per riflettere.

Mentire. Che parola.

Saranno stati quarant’anni che non mentiva.

Mentre ancora la donna si puntellava sui pugni e serrava le labbra per l’astio che provava, Atro si sfilò lentamente un guanto, mostrandole la mano nuda. Questa, seppur scura come il suo volto, presentava delle chiazze più chiare – una, larga, dello stesso colore della carnagione di Shi’ran.

“Io posso aver delle preferenze, Shi’ran. Ma un Custos con problemi di melanina come i miei non può esser lasciato troppo a lungo nel deserto dei Bianchi.”

La Medicus afferrò la mano con uno strattone per farlo avvicinare, esaminandola poi a fondo.

“Hai sempre avuto problemi con la melanina, tu.” rimarcò lei, continuando a studiare la pelle dell’uomo. “Non ti ha mai fermato.”

“Sta peggiorando sempre più, e i Medici –”

Io sono una Medicus”

“– tu non curi i Custodes, Shi’ran. I Medici hanno iniziato a far pressioni affinché mi si allontanasse dal deserto. ”

“E quindi hai ceduto.” concluse lei, sprezzante.

Atro si rimise il guanto, inspirando a fondo. “Non ho insistito oltre, quando il Medicus mi ha comunicato che ne avrebbe parlato a chi di dovere. In questo modo addestrerò meglio gli Strategi e potranno impegnarmi in altre mansioni, in cui sono altrettanto efficiente e spicco su molti altri.”

Shi’ran sfiatò, un vago divertimento che traspariva in tutto il fastidio che si portava addosso. “Questo ti rende vecchio, ufficialmente. Non attendo altro che il giorno in cui inizierai ad esibir la pancia.”

“Cosa vuoi, Shi’ran?”

“Volevo che tu rimanessi – ma se qualche macchia sulla mano ti preoccupa, allora forse sbaglio a volermi sempre rivolgere a te.”

“Ammetto che è stata una buona scusa, Shi’ran. Ma hai ragione. Sono vecchio. E sapendo quel che mi aspetta nei prossimi anni, preferisco ritirarmi prima di dovermici scontrare.”

La Philosophus attese, sapendo bene dove sarebbe finito quel discorso. Finalmente, dopo tutte quelle parole inutili, erano giunti al punto.

“Non voglio addestrare i tuoi, Shi’ran.”

“Le intenzioni le hai, allora. Spiegami.”

“Preferirei non parlare di un argomento che non mi riguarda. Come mi hai fatto più volte notare, è fuori luogo.”

“Solo quando ti torna comodo, Atro.” lo riprese la donna.

“Tempo tre anni e i sei stelle saranno ingestibili, con tutto quel che hai messo in corpo a quei bambini.”

Le labbra di Shi’ran si arricciarono minimamente, mentre l’uomo poteva vedere i muscoli delle fauci contrarlesi – i denti stretti.

“Io mi fermo qui.” concluse il Custos.

“Tu mi servi.” rincarò Shi’ran. “Ci vorranno almeno dieci anni prima di trovarne uno valido quanto te, ad addestrare i sei stelle. Uno con la tua perspicacia e con l’animo intriso della Regio quanto il tuo. Tu sei il prototipo del Custos, ne incarni ed esalti praticamente ogni aspetto – quel che io non posso dar loro, ai miei, glielo devi dare tu – ora più che mai.”

“Glielo dà il Ludus, Shi’ran. Non sono io.”

“Non importa, il tuo intervento è una garanzia. I principï della Regio e del fronte voglio che li assorbano da te, perché è lavorando con te che i sei stelle li intendono meglio, tutti. In questi anni i risultati si sono visti, lampanti, sui nuovi Custodes che tu hai addestrato. Il tuo intervento è fondamentale e irrinunciabile, Atro.”

“Un solo uomo a tenere in piedi tutta la formazione dei Custodes? Questo sarei io?” domandò quello, sarcastico. “Spero tu non sia seria: non sia mai che la Regio dipenda da un solo uomo – specie se quest’uomo sono io.

“Se non altro, per ora, dipende da una sola donna.”

Il Custos tacque, gli occhi, duri, fissi sull’altra. Non mosse un singolo muscolo. La fissò e basta.

Né voleva né poteva parlare. Sì, forse poteva – al più sarebbe tornato dal gatto, dopo averle sbattuto sotto gli occhi la gravità di ciò che lei stessa aveva appena detto.

No, basta.

Non sarebbe andato oltre.

Forse poteva essere vero: lui non era un Custos, lui era il Custos. L’archetipo, il prototipo, l’incarnazione del concetto di Custos stesso. Certo ciò valeva per molti aspetti, ma non per tutti. Un Custos non avrebbe dovuto dar contro a un Philosophus – non tutte le volte in cui lo aveva fatto lui.

Anche se il pensiero di suddetto Philosophus spesso usciva dai binari dell’impostazione della Regio. Ci fossero dietro gli Undecim o Helios stesso, Atro non poteva ignorare il modo in cui l’operato di Shi’ran si discostava da quel che invece era il suo modo di operare – ovvero, il modo del Ludus, il modo degli ultimi numerosi secoli. Il modo della Regio.

O forse stava sbagliando, poteva essere il contrario. Non era più capace di distinguere e da tempo aveva rinunciato a comprendere: ciò che faceva Shi’ran era direttamente commissionato dagli Undecim, quindi non poteva esser fuori dai binari. Non così tanto come percepiva lui.

Basta, si disse Atro. Non erano questioni in cui entrare. Lui era un pezzo della montagna, non la montagna stessa: si macchiava di saccenza ogni volta in cui pensava di poter davvero incarnare lo spirito della Regio e dei Custodes.

A dar contro a Shi’ran aveva solo ottenuto frustate, e null’altro: la donna aveva ragione a non ascoltarlo.

Doveva essere il Custos per definizione? Bene.

Avrebbe lasciato che facessero di lui quel che preferivano. Non avrebbe più insistito per stare al fronte.

E soprattutto, non avrebbe addestrato i bambini di Shi’ran.

Uno era già stato abbastanza.

Uno e mezzo.

“Io mi chiamo fuori.” concluse, lapidario.

Shi’ran si faceva sempre più rossa in volto: iniziò a respirar lentamente, per bloccare quel fastidioso e inadeguato flusso sanguigno.

“Non hai alcuna intenzione di aiutarmi, vedo.”

“No, Shi’ran.”

“E sì che mi sembravi persona di fiducia.”

Se la lasciò scappare, perché da troppo tempo gli covava in ventre: “È del Ludus che devi fidarti, non di un misero Custos come me.” Saccenza. “Se per i tuoi il Ludus non è abbastanza, allora c’è un problema.”

Shi’ran deglutì, abbassando il capo. “Vedi di non tornare, Atro.”

Il Custos indietreggiò, voltandole le spalle a fatica.

Uscì.



***



“Vuoi restare al Ludus?”

“Sì.”

“Vedremo.”

Il Magister lo issò.

Non era Isia: questo era giovane e divertito. Era più forte di quel che si aspettava, sì.

Ma mai abbastanza da farlo cedere.

Vinse.

Ancora e ancora.



***



Shi’ran sigillò il foglio con la cera, premendoci sopra il timbro con forza. Soffiò leggermente ed osservò il materiale raffreddarsi, mentre si solidificava del tutto.

Aveva pensato, sì, alle alternative. Ma nessuna di queste era valida.

E nel farlo aveva perso troppo tempo. Il suo tempo era prezioso: si era stufata.

Non avrebbe speso più un singolo minuto dietro i capricci di un Custos incapace di starsene al suo posto.

Se Atro pensava di averla incastrata rimettendosi al giudizio degli alti esponenti della Regio, bene: lei era fra quelli.

Non c’era nulla che Atro potesse fare contro una lettera scritta dal pugno di un Philosophus e recapitata direttamente agli Undecim.

Sarebbe rimasto al fronte. Avrebbe continuato ad addestrare i sei stelle per anni e anni.

E per una buona volta aveva ragione: non spettava a lui decidere.



***



“Miran.”

Immerso nel flusso di due stelle che si avviavano verso il dormitorio, il bambino venne colto alla sprovvista: si voltò di scatto, domandandosi cos’avesse fatto di sbagliato – aveva la coda di paglia, ultimamente, e per ottime ragioni. Eppure stava capendo molto bene i limiti di quel che si poteva e non si poteva fare, e, fra questi, non trovava nessun valido motivo per un richiamo.

Il Magister gli fece cenno col capo di seguirlo, costringendolo a camminare controcorrente. Dove lo portava?

Nel fissarne la schiena mentre lo rincorreva cercò di capire chi fosse: no, non lo aveva mai visto prima.

“Che ho fatto?” chiese, sapendo che porre quella domanda avrebbe potuto rivelarsi una pessima idea.

Bisognava stare molto attenti con le domande: il più delle volte non erano ben viste.

“Niente, a parte non star zitto.” rispose infatti il Magister. “Vieni con me.”

Era da poco iniziata la quinta ora, e a dirla tutta lui avrebbe preferito andare a dormire – ma non erano questioni su cui valeva la pena di pontificare. Seguì l’uomo, quasi correndo mentre questo avanzava a lunghe falcate e chiamava, ogni tanto, qualche altro suo compagno. Quando furono circa una ventina, li portò fuori dai larghi viali principali che si diramavano dalla Sphaera, iniziando a battere sentieri terrosi.

Tempo una ventina di minuti, ed erano in una delle tante a lui sconosciute palazzine, bianche e squadrate. Si ritrovarono seduti su delle sedie, ordinate, in una stanza bianca, luminosa e disadorna.

Aveva già visto quella scena. Era già stato in un posto del genere.

Che succedeva?

Il bambino era sul punto di chiedere nuovamente spiegazioni, indispettito dalla situazione, quando si rese conto che non poteva succedergli davvero nulla di male: la sua pancia stava bene, il gatto lo aveva domato, e nessuno – assolutamente nessuno – poteva portarlo via dal Ludus senza che fosse lui a chiederlo esplicitamente.

Di colpo si rilassò, deciso ad aspettare pazientemente lo sviluppo degli eventi. L’attesa non lo avrebbe piegato. Sapeva ben farlo, si disse – attendere.

Ma non ci volle molto: il Magister lo chiamò subito, facendogli cenno di seguirlo.

Superarono una porta che si richiuse in fretta dietro di loro: lì, immobile, rimase il Magister.


Non appena mise piede nella stanza, Miran venne invaso da un amalgama di odori che gli mozzarono il fiato. S’immobilizzò, e prima ancora di vedere con gli occhi, sentì.

C’era odore di terra, di grasso rancido e di sudore. C’era odore di fiori e di lievito. Odore di sporco. Povere, ferro battuto, muffa. E odore di casa.

“Vhe, Tsitsi1. Se non sei diventato grande, the.”

Miran non si mosse.

La voce morbida e dolce della sua Mater gli fece scappare quello che mai, nell’anno e mezzo passato, aveva permesso fuoriuscire: lacrime. Lacrime vere, di pianto – non di dolore. Sentimento puro.

Guardò con gli occhi sbarrati le tre persone che, in piedi, si paravano di fronte a lui: rimase immobile, incapace di fare un gesto, mentre veniva assalito da emozioni di cui s’era dimenticato, forti come mai le aveva provate prima.

“Tsarji.” Squillò l’altra donna, flettendosi leggermente. “Come stai?”

Il terzo, in mezzo alle due, era la persona che più gli stava bloccando il fiato in gola. “Im’ahki!” si lasciò scappare Miran, in un fiato, stridulo.

Dentro di lui due enormi moti si scontrarono, bloccandogli i muscoli. Il primo lo voleva lanciato verso di loro, addosso, a riappropriarsi della carne morbida di sua matre, di suoi capelli, del suo calore; voleva risentire ancora e ancora la voce stridula della sua nonè, la matre di sua matre; ma soprattutto voleva lui, Im’ahki, Im’ahki Ledeji2 Hari, suo frate.

Suo vero frate.

L’altro moto lo voleva far allontanare, repentinamente, da loro.

Im’ahki!” lo chiamò Ledeji, raggiante. “Se’nnorme!”

Miran avrebbe voluto scollarsi, ma non ci riusciva.

Quegli odori così familiari, così antichi, eterni, avevano iniziato ad assumere nuovi significati: l’idea di sporco, ad esempio. Non aveva mai notato quanto puzzassero, i suoi, ma l’odore era aspro e forte. Era un aroma vivo, animale e selvatico. Bosco e campi. Nulla a che vedere con l’ordine e la pulizia del Ludus: lavato, pulito, ordinato.

Erano odori di Agricola.

Odori che aveva imparato a riconoscere e a eliminare ogni volta in cui la sua maglietta da ginnastica iniziava ad emanarli, cambiando vestiti, lavandoli. Una volta gli era capitato di entrare in aula senza essersi fatto la doccia: era stato richiamato e deriso. Si imparava in fretta.

Agricola. Il regno della terra sporca.

Un mondo che solo ora che se lo vedeva messo lì davanti iniziava a mancargli seriamente.

Era questa la loro strategia? Erano lì per farlo tornare indietro? Per farlo supplicare?

“Non voglio abbandonare il Ludus!” quasi ringhiò, girandosi di scatto verso il Magister.

L’uomo non fece una piega. Di tutte quelle che aveva visto, questa non era una scena né meno né più comune. “Stai tranquillo, striscia blu. Nessuno ti manda da nessuna parte.” Il Magister si tolse dall’uscio, portandosi in mezzo a Miran e i suoi familiari. “Sii contento di essere arrivato a questo punto.”

“Non voglio andarmene!” insistette Miran, piangendo. Frignando.

Era dalla lunga punizione con le due code che non sentiva le lacrime colargli dal naso.

Il Magister continuò a non spostarsi, mentre, alle sue spalle, la sua Mater iniziava a sciogliersi a sua volta nel pianto.

“Loro sono qui per salutarti. Dato che sei stato qui così a lungo, non è da escludere che tu riesca a concludere gli studi. Vai da loro, parla con loro. Hai tutto il tempo che vuoi. Poi starà a te decidere – come sempre. Hai capito, Miran?”

Il bambino tirò violentemente su con il naso, annuendo poi con forza.

“Bene. Io esco. Esci da solo, se resti; se preferisci tornare a casa, uscite tutti insieme.”


La porta si chiuse: un ultimo istante di immobilità, e poi partì.

“Matre! Nonè!” Corse, inciampando e singhiozzando, verso le due donne e il ragazzino.

Rapidissimo si arrampicò su sua matre, che a fatica ne riuscì a sopportare il peso: la donna si flesse, poggiandosi a terra, poi sedendosi con il bambino addosso. Lo cullò, facendolo calmare: quanto male c’era stato nel figlio a rifiutare volto a volto la sua mater, lei, poteva solo immaginarselo. Il suo dolore, invece, lo conosceva bene: era stato atroce. Un rifiuto così immenso e saldo, dal suo piccolo Tsitsi, era stato difficile da sopportare. E infatti, le lacrime avevano preso a scorrere ben prima di quel che s’era ripromessa.

Ma il Custos era stato chiaro: quell’anno e mezzo, quei quasi due anni, avevano plasmato il bambino da cima a fondo. Che fosse fermo nell’idea di continuare il Ludus nonostante la loro presenza altro non era che un buon segno per il suo futuro.

Miran era bravo, era un ottimo studente. Fosse riuscito a concludere il Ludus, sarebbe diventato un perfetto Custos.

A Ima’h questo bastò. Lo usò per tamponare il dolore che vedere quel figlio così combattuto e in lacrime, così strano, così lontano, le provocava.

Era stata chiara, con Ledeji: erano lì per dargli forza, non per riportarselo indietro.

L’altro Im’ahki aveva sofferto molto quando Tsarji se n’era andato coi Custodes, ma i loro sentimenti non potevano intaccare il bene della Regio, per quanto male facesse: il bambino sarebbe stato utile lì, e lì sarebbe rimasto.

A meno che lui, e lui soltanto, non decidesse il contrario.

“Tsarji.” iniziò Ledeji, cercando di darsi un tono: era di soli due anni più grande di Miran, la voce ancora infantile. “Io’ no’ vojo chèttorni sé nonvòi tornà. Vojo chettè stai quà. Anzi, nòvvojonniente, io. Vojo chettefai quello chettevoj. Chevvojfà?”

“Essai –” intervenne sua nonè “ – seppoi cambiddea – no’cché vojo checcambi’ddea – ma pui tonnare sinza’n problema. ”

“Cor mio.” concluse sua matre “Calsiase cosa che’ttiffai, noi siamo sempre contenti di te. Tu’o’ssai chesto, seh?”

Miran piangeva, piangeva e annuiva. Passava dalla matre al frate alla nonè, stringendo, frignando, strofinando il muso contro quei vestiti lerci e ricolmi di fragranze dimenticate. Il legno, la ruggine, la minestra della nonè. Il fieno – quanto fieno nei capelli della sua matre. E le zolle di terra sulle mani di Im’ahki, che oramai già lavorava insieme agli Hari.

Un mondo lontano che mandava ai suoi sensi l’ultimo abbagliante lampo, prima che lo lasciasse del tutto.

Perché nonostante tutto, Miran non cambiava idea.

Non poteva cambiare idea. Non voleva cambiare idea.

Sarebbe rimasto.

Tutti rimanevano.

Sempre.


Uscì da solo, dopo un tempo indefinito. Era notte fonda, e con i suoi si erano salutati per quella che, ne era convinto, sarebbe stata l’ultima volta.

Era calmo: esausto dal pianto, aveva uno sguardo serio. Riempito dell’orgoglio della sua Gens, degli Hari, del suo amato frate, del suo vecchio mondo. Che era lontano. Che ancora c’era. Che si ricordava di lui. Che lo avrebbe accolto, ma da cui non avrebbe mai più voluto farsi accogliere.

Solo adesso si sentiva definitivamente libero da quel che aveva abbandonato, due anni prima, seguendo i Custodes.

Con l’animo riequilibrato, chiarito il rapporto tra presente e futuro, tra Ludus e Gens, Miran poteva proseguire per la sua strada. Poteva essere solo Miran, sapendo di non stare tradendo nessuno. Era giusto. Tutto era giusto.

Non potevano esserci storture, non più.

Il Magister lo portò ad una sala vicina adibita a dormitorio comune, dove su un numero imprecisato di brande altri suoi compagni erano già sprofondati nel sonno.

“Per questa notte, dormirai qui.”

La mente vuota, si addormentò subito.






[1] Pronuncia: TsìTsì

[2] Pronuncia: Ledèji




____________________________________________________________________________________________________________


Nota dell’Autrice



Ecco, per me questo è un capitolo molto importante, spero di essere riuscita a far passare qualcosa.



Per chi conosce i frutti dell’oblio, vedete che l’ “alter ego” del fu Naruto, Miran, non è orfano.

Ho deciso che non serviva affatto, nella mia storia, questa caratteristica – ed anzi ho preferito avesse il percorso più standard possibile; in questo modo volevo anche dare un assaggio dell’idea di “normalità” al di fuori del Ludus, oltre che giocare con il linguaggio (la Lingua contro i dialetti) e dare un minimo suggerimento su come può essere organizzata la società degli agricola.


grazie a tutti e un gran saluto :)


Pandi


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Capitolo 9
*** 8. Faber est suae quisque fortunae ***



8. Faber est suae quisque fortunae




Aveva imparato a dirlo nelle occasioni più disparate.

Principalmente, perché prima lo avevano detto a lui.

“Faber est suae quisque fortunae!”

E gli stivali che finivano sopra il tetto dei due stelle. Mai lasciare incustoditi gli stivali, mai: le strisce gialle non facevano altro che aspettare di trovarne un paio per poi farli sparire.

Se al secondo anno bisognava vedersela con i propri coetanei, dal terzo in su arrivavano anche i più grandi – con le loro lezioni. Miran aveva imparato a custodire bene la borraccia, troppo orgoglioso per andare dai Magistri a svelare la sua negligenza – ma quando s’era ritrovato a piedi nudi in mezzo al fango ci aveva pensato seriamente, di chiedere aiuto.

Per fortuna era troppo gonfio di se stesso per compiere un’ingenuità simile.

“Faber est suae quisque fortunae.” aveva detto il vecchio responsabile del dormitorio, andando a recuperare gli stivali nuovi. “Ciò che ti è affidato è sotto la tua responsabilità, tre stelle. Questo è un richiamo.”

Non serviva essere geniali per capire che chiedere aiuto ai Magistri altro non avrebbe che generato un ulteriore richiamo – il che significava una visita assicurata dal gatto.

Non poco tempo dopo – “Faber est suae quisque fortunae, Agricola” – aveva detto un Magister a un suo compagno, cui era stata sottratta la sopravveste e s’era azzardato a chiedere aiuto all’insegnnte. “Vai e fattene dare un’altra, e poi presentati allo stanzino delle punizioni.”

Il gioco continuo del gatto e del topo valeva per tutti, al Ludus: i più grandi contro i più piccoli, i Magistri contro tutti.

Era un nonnismo articolato, strutturato per consolidare la gerarchia da un lato, il carattere dall’altro. Sempre insisteva quella frase, che prima aveva detta l’Helios, poi veniva ripetuta agli esami, e infine Miran stesso aveva imparato a dire, ai più piccoli, quando si ritrovava a rubar loro, a sua volta, gli oggetti personali incustoditi.

Faber est suae quisque fortunae. Impara a tenere conto delle tue cose, Agricola.”

Taluni trasudavano sprezzo, altri, come Miran, erano semplicemente entrati nel ruolo di educatori.

E non v’era modo di sottrarsi a quello schema, come Alir fece vedere a Miran.

Alir.

Com’era che ancora stava al Ludus, Alir?

“Ehi, tu! Quattro stelle!”

La bambina s’era immobilizzata, girandosi poi verso il Magister che l’aveva richiamata: la serietà che come molti s’era imposta sul volto era svanita di colpo, lasciando spazio a quell’insicurezza che Miran ricordava ancora d’aver visto, anni prima, all’inizio di tutto – nella stanza bianca dove tutti ancora altro non erano che bimbi con delle grandi tuniche addosso, seduti, ad aspettare.

“Sei cieca o cosa? Vieni qua – ehi, tu! Striscia viola! Fermati!”

La striscia viola, che camminava di qualche metro davanti ad Alir, si arrestò con un sussulto. Miran, a una decina di metri da loro, rallentò il passo per capire la scena.

“Il Nomen?” chiese il Magister.

“Alir.”

“Mhana1

“Un richiamo a testa, e vediamo se arrivate subito a due.”

Alir si irrigidì, mentre Mhana stringeva, colpevole, le labbra.

“Quante stelle vedi sulla veste di questa striscia viola che ti camminava a pochi centimetri dal naso, eh, Alir?”

“Due.” rispose la bambina.

“E quanti anni ha costui?” chiese ancora il Magister, retorico.

“Otto.”

“E quindi, Agricola?”

La striscia viola, intanto, si ingobbiva sempre più mentre cercava di nascondere le maniche della sopravveste.

“Quindi –” Alir però non tentennava, per quanto il fiato le venisse meno. “– o gli manca un campanello, o gli manca una stella. Delle due l’una.”

Miran ormai sfilava lento di fianco a loro. Si lasciò scappare parole che avrebbe imparato a tener per sé: “Io quello non l’ho mai visto col campanello, è un tre stelle – se n’é sicuramente persa una per strada.”

Vide un sorriso compiaciuto allargarsi sul volto del Magister. “Bene.”

Bene?

“Vedo che a te le frustate non bastan mai – ormai ti conosciamo, noialtri, Miran. Vedi di non intrometterti negli affari altrui.” sibilò. “Vattene e fatti trovare alla quinta ora alle punizioni, Agricola!”

Faber est suae quisque fortunae.

“Alir, tu devi richiamare uno più piccolo che si comporta da Agricola, vedi di mettertelo bene in testa. Non può camminarti davanti al naso una striscia viola con due stelle e nessun campanello senza che tu faccia alcunché. E tu –” si voltò verso Mhana “– agricola, al terzo anno ancora non sai gestirti la sopravveste?”

Come finì, Miran non ebbe modo di sentirlo – colto il messaggio, si defilò prima di aggravare ulteriormente la situazione.

Riuscì solo, in lontananza, a sentire la solita frase: “Faber est suae quisque fortunae.

Richiamare i più piccoli era diventata parte integrante dell’esser studente: significasse questo far sparire dei vestiti o, non più raramente, alzare le mani su chi esagerava troppo nell’uscir dagli schemi.

Chi magari aveva il coraggio di mettersi contro uno più grande.

Chi, come lui, si avventurava non di rado in luoghi che non gli erano permessi.

Miran le aveva prese come le aveva date: faber est suae quisque fortunae aveva iniziato a dirlo anche lui, chiudendo il circolo.

Era una frase che gli piaceva. Sul senso, reale, di quelle parole in Lingua Antica – non ne sapeva granché. Non fino al quinto anno: solo allora conosceva abbastanza parole e abbastanza grammatica per mettere tutto insieme.

Faber. Faber era il fabbro, colui che fa, che crea, che agisce. Era una bella parola, a Miran piaceva molto. E adorava sentirla all’inizio della frase, come richiedeva la Lingua Antica – e non in mezzo, come si usava nella Lingua. Faber, prima di tutto. Azione, prima di tutto. Non chi, non come. Faber e basta. Gli sarebbe bastato sentir quella sola parola, per riempirla del significato che poteva avere.

Quisque, poi, significava ognuno. Nessuno escluso. Lui, i più piccoli, i più grandi, i Magistri, inclusi gli Undecim.

Fortunae.

Non si poteva tradurre, fortunae. Futuro, forse. Fortuna? No, la fortuna era una cosa da agricolae, non li riguardava. La fortuna della Lingua Antica non aveva nulla a che vedere con la fortuna della Gens: la seconda era data dal caso, dall’esterno, immeritata. La prima era solo e unicamente il prodotto delle loro azioni.

Faber est suae quisque fortunae, ognuno è artefice di se stesso. Di ciò che diventerà, che farà, di cui sarà o non sarà capace.

L’esame dipendeva da loro e da loro soltanto, nessuna scusa.

Faber est suae quisque fortunae era anche ciò che Miran si ripeteva dopo ogni esame, ogni anno, sgattaiolando verso l’anfiteatro del pian terreno, dove l’Helios parlava ai nuovi bambini, tutti in potenza e in divenire nello stesso momento.

Faber est suae quisque fortunae era la risposta che aveva preso a dare sistematicamente a Isia o chi per lui, quando iniziarono a notare la sua strana affezione per il gatto. Ancora qui?

Faber est suae quisque fortunae.

Era la cantilena con cui intratteneva la mente, ogni anno, fissando il campanello ed attendendo che scomparisse nella conca.

Cinque stelle di qua, una striscia rossa di là, lui ripeteva e ripeteva quella frase. Il tempo che poteva impiegarci quel maledetto campanello a scomparire poteva sembrare infinito, a volte.

Ma come per le frustate, aveva la certezza che ci sarebbe stato un termine. Non sarebbe rimasto lì per sempre – di questo era sicuro.

Aveva atteso.

Atteso.

Atteso.

Alla fine della quinta ora erano in cinquanta: quieti e pazienti, i primi brividi d’insicurezza nascosti dietro respiri profondi e qualche abbozzo di sbadiglio, gli occhi arrossati dalla stanchezza che iniziava a farsi spazio, aiutata dalla debilitazione che si lasciava dietro l’adrenalina.

Alla seconda fascia della mezzanotte, Miran ne contava trentasette.

Avrebbe aspettato sino all’alba – era successo. Poteva farlo.

Sarebbe finito.

Faber est suae quisque fortunae.

Il Magister si alzò in piedi.

Questo era inaspettato.

“Bene. Basta. Voi siete stati bocciati.”



***


Cosa farai, esattamente, al bambino che tra qualche anno, primo, t’ingannerà, entrando fiero, sano e saldo al Ludus, per poi voltar le spalle dopo poco tempo, per ritornare fra la Gens, da dov’è venuto?

Guardò a lungo Saan, senza un fiato. Di tutti i pensieri che le occupavano la mente, non uno poteva esser detto ad alta voce. Non lì.

Non davanti a Saan.

“Serve una perizia psicologica.” asserì infine, salda.

Saan annuì.

“Ti manderò dai pedagoghi con cui lavoro, di modo che possano interpretarla e confrontarla con la situazione iniziale.”

“Mi stai facendo fare il lavoro di un tutore, così, Shi’ran.”

“Nulla a che vedere con un tutore.” Spiegò, metodica. “No, Saan, ti sto suggerendo di fare il lavoro che avrei fatto io. Ma Miran è sotto la tua cura: così ha detto l’Helios, e ciò non si discute. Nondimeno, comunicherò con lui riguardo questo sviluppo.”

Saan annuì nuovamente.

Il volto inflessibile della donna poneva un inamovibile muro fra l’esterno e il trambusto del suo frenetico elaborare.

Miran. Ad Atro sarebbe piaciuto: ogni sua azione lo diceva Custos. Ogni sua fibra.

Quel bambino era nato per il Ludus.

Era perfetto.

Cos’era successo, allora?

Tutto quel lavoro, tutto quello studio e la ricerca – tutte quelle menti, avevano predetto il falso?

Rischiava di perderlo?

Ferma, Shi’ran. Ferma.

Non ha ancora abbandonato. Non è detta l’ultima parola.

Ma se Miran lasciava il Ludus, avrebbe dovuto rivedere tutto il suo protocollo di selezione.

Bambini.

Aveva appena ricominciato a detestarli.


***


Miran si accorse di aver espirato troppo a lungo. Riprese rapidamente fiato, mentre cercava di elaborare cosa significasse quanto aveva appena sentito.

Bocciato.

“Aenithé2!” chiamò il Magister.

“Sì!”

“Vuoi proseguire gli studi al Ludus?”

Silenzio.

“No.” disse Aenithé.

La mente di Miran era bloccata.

Cosa significava la bocciatura? Non ci aveva mai pensato.

“Amdha3!”

Nessuno di loro ci aveva mai seriamente pensato.

“Sì!”

Finché non succedeva, non era cosa che li potesse riguardare.

“Vuoi proseguire gli studi al Ludus?”

No, non loro.

Forse il vicino di banco. O quel ragazzino dall’aria incredibilmente tonta – sì, forse quello finalmente si sarebbe levato dai piedi. Forse sarebbero stati in venti, i bocciati, o in duecento.

Ma non loro.

“No.” disse Amdha.

Loro erano studenti del Ludus. Non potevano essere bocciati.

“Crjina4!”

Loro non erano gli altri.

“Esel5!”

Per quanto ogni esame potesse esser sostenuto con l’adrenalina alle stelle, tesi come la pelle di un tamburo nell’attesa del risultato, questo non significava che l’idea di poter fallire fosse mai stata presa in considerazione da alcuno di loro.

“Goaga6!”

Non poteva essere.

“L’hur7!”

Non loro.

“Malani8!”

Non io.

“Miran!”

L’appello dei bocciati scorreva in fretta, mentre la testa di Miran galleggiava nel nulla. No. No. No. Aveva sentito una miriade di no.

Si arrendevano, dunque?

Era questo quello che si aspettavano da loro, giunti al fallimento?

“Sì!” rispose al Magister, leggermente in ritardo.

“Vuoi proseguire gli studi al Ludus?”

Quante volte gli avevano posto quella domanda? Quanti gatti, negli anni scorsi, quante punizioni – e quel maledetto mal di pancia, sì, ancora lo ricordava: macchiato dell’accusa di essere un bugiardo – così? Per nulla?

Per fermarsi davanti a uno stupido campanello?

Urlò.

“SÍ!”

E sentì tutta la rabbia uscire in un colpo solo, il sangue al volto, viola. Il fiato grosso.

Si accorse di aver stretto i pugni, e quasi sputato nella foga.

Il Magister non si spostò.


Fu l’unico, in quella notte, a restare.


“Coloro che hanno deciso di rimanere, quest’anno, manterranno la propria camera.” Spiegò il Magister all’aula, ignorando deliberatamente il fatto che stesse parlando per una sola persona. “Devono cucire il campanello all’esterno del collo della loro sopravveste, sul lato sinistro: deve essere visibile e mobile. Deve fare rumore. Troveranno in camera un pacco con delle nuove camice. Per il resto, tutto come prima. Chi abbandona gli studi, invece, mi segua.”

Miran scese lentamente i gradini, il campanello in mano: ogni tanto lo scuoteva, ascoltandone il suono.

Fra il secondo e il terzo anno, di bambini con il campanello, ne aveva incontrati. Sapevano tutti che erano bocciati. Il campanello serviva proprio per far sapere.

Quei bambini, dopo qualche mese, erano spariti. A eccezione di una, che però si guadagnò anche il secondo campanello. A quel punto, anche lei scomparve.

La verità era che non ci aveva mai fatto particolarmente attenzione, ai bocciati. Erano pochi, rari: sembrava che non fosse possibile proseguire gli studi con un campanello addosso. Li aveva evitati e basta, come facevano tutti. Come spesso succedeva, aveva agito senza rendersi ben conto delle situazioni: non si era mai posto il problema di cosa portava i bocciati a lasciare e tornare dalla propria Gens.

Forse il venir bocciati era sintomo di debolezza. L’aveva liquidata così, all’epoca.

Era stato un nesso logico convincente, finché non era successo a lui. Lui non era debole.

Lui usciva sempre vincente dalla saletta delle punizioni.

Avrebbe dovuto solo ripetere gli studi dei cinque stelle, in fondo. Non sembrava una cosa impossibile.

A ben pensarci, però, nessuno ci era riuscito.

Miran non comprese quello che stava provando. Confuso, a fatica interpretava i suoi stessi pensieri – figurarsi le emozioni.

Qualsiasi cosa fosse quella cosa che gli stava alitando sul petto, la mise a tacere sprofondando nel sonno.


Si svegliò di soprassalto, dopo forse venti minuti di riposo, trafitto da un orribile pensiero: aveva dimenticato la sua borraccia in aula – l’aula dei sei stelle, dove aveva sostenuto l’esame e dove non sarebbe tornato per un anno.

Agricola.

In mutande e canottiera si buttò addosso la sopravveste, e s’infilò gli stivali alla meno peggio: nel trambusto, il campanello gli rotolò sotto il letto, tintinnando. Lo raccolse, ficcandolo in tasca, e così vestito usc dalla sua stanza. Chiudendo tutto il cappotto nessuno poteva intuire che fosse senza pantaloni – e comunque era ancora notte fonda. Non contava di incrociare molte persone. A dieci anni era ormai libero di andarsene a zonzo quando voleva: stava a lui gestirsi le ore di sonno. Se credeva che non dormire fosse una cosa furba, buon per lui – dicevano i Magistri.

Miran conosceva i dintorni del Ludus a menadito, e la luce della luna calante gli era più che sufficiente per trovare la via verso la Sphaera. Anzi, avrebbe potuto farlo a occhi chiusi: la raggiunse in una decina di minuti.

Tutte le entrate, a quell’ora, erano chiuse. C’era però un trucco, di cui ormai era a conoscenza da qualche anno: una piccola leva, ben nascosta alla vista, consentiva di sbloccare una delle porte secondarie – quella rivolta a sud.

Non era il solo a sapere di quel meccanismo, anzi: lo aveva appreso origliando da una tavolata del quarto anno quand’era ancora un tre stelle: nel tempo, lui e altri avevano imparato che fintanto che non si facevano cogliere in flagrante, non c’era nulla di male nell’entrare di soppiatto nella Sphaera.

Anche perché, gli avevano spiegato quand’era una fascia rosa, tutta la zona era videosorvegliata: sapevano, i Magistri. Ovvio che sapevano.

Ma non era quello, il punto. Il punto era non farsi beccare.

Lì stava tutto il gioco.

Tastò a lungo, prima di trovare la leva in questione – ma finalmente il meccanismo scattò: poteva entrare.

Si sfil gli stivali – la cui suola, sui pavimenti marmorei della Sphaera, avrebbe fatto troppo rumore. Li prese per due fibbie, di modo da impegnare solo una mano, e procedette a piedi nudi lungo il corridoio, su per le scale – verso l’aula.

Affacciatosi furtivamente alla porta, si ritrovò, nel buio, a incrociare lo sguardo con un altro studente.

Miran levò le sopracciglia, sorpreso: non era un suo coetaneo. Non lo aveva mai visto, a lezione. Sentì subito montare l’affronto: una striscia rosa nell’aula dei sei stelle – anche se erano nel bel mezzo della sesta ora, questo non rendeva la cosa legittima. Indipendentemente dal fatto che lui fosse stato appena bocciato – e quindi, a sua volta, si trovasse nell’aula sbagliata.

“Cosa stai facendo?” sibilà all’altro bambino, avvicinandoglisi. “Vattene. Non avete il coprifuoco, voialtri?”

Quello, seduto sulla cattedra con la sopravveste addosso e i piedi scalzi a ciondoloni, fece spallucce: “Non più.”

“Sei comunque nell’aula sbagliata, striscia rosa.”

L’altro tacque: guardò Miran per qualche istante, e poi mise la mano in tasca. Sulle prime, Miran non aveva notato il rigonfiamento. Il bambino estrasse la sua borraccia, mostrandogliela: “Questa è tua?”

Miran annuì.

“Perché hai una borraccia personale?”

“Non è affar tuo. Dammela, così posso tornare a dormire.”

L’altro non sembrava voler collaborare. Non si mosse, continuando a guardare Miran. Sapeva perfettamente di aver appena accumulato un enorme vantaggio: qualunque cosa volesse fare, ne avrebbe largamente approfittato.

“Qual è il tuo Nomen?” domandò.

“Miran.”

“Jukka9. Eri qui, oggi?”

Miran lo scrutò torvo. Nell’ombra, poteva intuire che avesse i capelli castani. Come la maggior parte di loro, portava un taglio medio corto, su di un volto insolitamente scavato. Ogni tanto gli vedeva tirare le labbra verso destra o verso sinistra.

Decise di non rispondergli, aspettando che quello ci arrivasse da solo; appoggiò gli stivali per terra, accanto a sé, libero così di incrociare le braccia.

Dopo un po’, Jukka continuò: “Sei un sei stelle, quindi?”

Miran persever nel non rispondere.

“Allora?”

“Dammi la borraccia.”

“Perché?”

Miran sfiatò, irritato come poche altre volte.

“Non sei un sei stelle.” sentenziò quello, beffardo. “Hai un campanello in tasca.”

Miran portò istintivamente la mano alla tasca, dove giaceva il campanello. Come...

“Non vedo l’ora di dirlo agli altri, che c’è un bocciato. Giocheremo a chi indovina quando te ne vai.”

Come accidenti aveva fatto a saperlo? Miran scrutò la cattedra, chiedendosi se non fosse rimasto un elenco dei bocciati da qualche parte. Ma no – i Magistri non lasciavano documenti sensibili alla mercé degli studenti.

Sbuffò.

Jukka non era il primo che cercava di rubargli la borraccia – solo che di norma erano i più grandi, a farlo, mentre i suoi coetanei avevano da tempo imparato che non c’era verso di sottrargliela. Non più.

Lo squadrò, chiedendosi con quale sfacciataggine si fosse messo a provocare uno più grande di lui. L’unica risposta che gli sovveniva era che fosse in cerca di gloria – che si sarebbe potuto guadagnare solo venendo alle mani. Ordinaria amministrazione, ma non da farsi nel cuore della sesta ora.

“Ho sonno.” cercò di tagliare Miran. “Piantala, e dammi la borraccia.”

“Vieni a prenderla.”

“Cosa vuoi, striscia rosa?” sbottò, alzando la voce. Un po’ troppo.

I due si irrigidirono, domandandosi se qualcuno li avesse sentiti. No, non c’era nessuno.

Passato l’istante di tensione, in cui smisero di guardarsi per focalizzarsi sugli eventuali rumori circostanti, Jukka fece spallucce.

“Dimmi cosa vuoi in cambio della borraccia.” Provò allora Miran.

Jukka fece di nuovo spallucce. Non c’era molto che l’altro potesse dargli.

Non erano pratici, a barattare.

“Facciamo a botte.” Disse Jukka, alla fine.

Quel che voleva evitare.

“Qui? Adesso?” chiese lui, sempre più scocciato. Voleva risparmiarlo, e quello chiedeva esplicitamente di mettersi a lottare.

“Sì.”

Contento lui.

“... come vuoi.”

Jukka scese dalla cattedra: in piedi, di fronte a Miran, si svelò essere leggermente più alto di lui. Sapeva di non essere un colosso, ma non si aspettava che uno di un anno più piccolo potesse superarlo.

Ecco perché Jukka voleva fare a botte – di sicuro era il pi grosso della sua annata: sorrise, spavaldo.

Miran iniziò a togliersi la sopravveste, ripiegandola accuratamente – facendo molta attenzione a tenere la tasca con il campanello all’interno, o avrebbe rischiato di perderlo. Non appena aprì il cappotto, Jukka prese a sghignazzare.

“Bhe?” chiese Miran, irritato “Non vi siete mai visti in mutande, voialtri?”

“Certo, certo!” esclamò l’altro, svestendosi a sua volta “Rido perché sono in mutande e canottiera anch’io!”

Miran finì col sorridere, divertito. Posò con cura la sopravveste sugli stivali, allontanandosi poi dalla cattedra: fra quella e la prima bancata c’erano circa cinque metri, in cui avrebbero potuto pestarsi liberamente. La borraccia era rimasta sul tavolo: accanto a essa, Jukka appoggiò i suoi vestiti senza piegarli. Rimasero entrambi con la sola biancheria addosso – scalzi, praticamente mezzi nudi. Un velo di pelle d’oca si spalm sulle loro braccia.

Miran osservava attento i movimenti dell’avversario, flettendosi e portando la gamba sinistra in avanti – assieme al busto. Appoggiò le mani sulle ginocchia: l’altro, a due metri da lui, assunse una posizione simile. Si studiarono, i muscoli tesi.

Jukka poteva avere un fisico pi grosso e forse anche più maturo del suo, si disse Miran, ma lui aveva comunque frequentato un anno in più al Ludus. Una bocciatura non poteva annullare quanto aveva imparato nei mesi precedenti.

“Contiamo insieme fino a tre.” Propose quello.

“Vedi di non contare come un agricola.” Lo provoc Miran, caricandosi.

“Uno.”

“Due.”

“TRE!”

Jukka gli si avvent addosso, più che convinto che Miran avrebbe fatto lo stesso e del tutto intenzionato a sopraffarlo con la sua massa. Ma Miran aveva altre priorità: non sarebbe stato al gioco di uno più piccolo. Fece finta di avanzare – per poi scansarsi all’ultimo, cercando di afferrare Jukka per la canottiera: lo fece sbilanciare, lanciandolo a terra. Facile, dato che quello aveva caricato come un toro.

Jukka era più piccolo, ma non così sprovveduto: appena si rese conto che stava perdendo l’equilibrio afferrò l’altro per il polso e cerc di tirarlo gi con lui. Miran lo segu senza opporre resistenza, atterrandogli addosso – con una ginocchiata ben piantata in mezzo allo sterno: Jukka mollò la presa, sfiatando, e il ragazzino fu libero. Con uno scatto raccolse al volo stivali e sopravveste, si lanciò sulla cattedra di pancia, recuperò la borraccia, scivolò, rotolando, giù dall’altro lato del tavolo e si mise a correre fuori dall’aula. In tutto questo Jukka cercò almeno di afferrarlo per la caviglia – ma mancò la presa.

Non lo rincorse nemmeno.

In fondo se l’era andata a cercare.


Miran aveva beneficato di ben trenta minuti di sonno: allo scattare della sveglia, che squillava acuta per tutto il dormitorio, dovette prendere una decisione difficile: svegliarsi o non svegliarsi?

In fondo poteva saltare le lezioni. E poi le aveva gi seguite tutte.

Nei giorni a venire si sarebbe annoiato come non mai, temette.

A fatica si mise a sedere nel letto, gli occhi ridotti a due fessure: no, sarebbe andato. Anche perché saltare gli allenamenti significava rischiare di perdere la forma fisica.

Non sarebbe stato così agricola da starsene in panciolle – tanto valeva abbandonare gli studi.

Si buttò a fatica dentro la doccia, facendo scendere un getto volutamente gelido.

E poi quel giorno arrivavano quelli del primo anno. Oh.

S.

C’era Helios. Avrebbe perso le lezioni del pomeriggio per quel suo vizio di andare a sentire tutte le cerimonie d’inizio Ludus – senza mancare una visita a Isia, o chi per lui, subito dopo; non si sarebbe potuto permettere di perdere anche le attività del mattino.

Una volta ben lavato e asciugato si vestì, dandosi una rapida spazzolata ai denti. Le nuove camice non erano molto diverse da quelle normali – bianche e con il collo dello stesso colore della sua striscia – se non per i polsini, grigi. I polsini si portavano piegati sopra il maglione, nero, e quindi rimanevano visibili. Così, quand’anche si fosse tolto la sopravveste, si sarebbe capito che era stato bocciato. Fortuna che almeno le tenute da allenamento non subivano modificazioni… a meno che d’ora in avanti non avesse dovuto sempre allenarsi con la sopravveste addosso – ma gli sembrava un’assurdità. Gi portarla d’estate era una tortura – la temperatura arrivava a venticinque gradi centigradi – figurarsi farci dell’attività fisica.

No, non ricordava che gli altri bocciati che aveva incontrato facessero ginnastica con la sopravveste. Meno male.

Prese la borraccia, bevve i suoi tre sorsi della prima ora e uscì dalla camera.

Il campanello, che aveva cucito quella stessa notte, tintinnava ad ogni passo.

Capì ben presto la portata della sua situazione.

Lungo i viali, man mano che avanzava, gli altri studenti si voltavano immediatamente verso di lui, per poi cercare di allontanarsi. Quel dannato tintinnio gli stava logorando il timpano sinistro – un certo punto si coprì l’orecchio con la mano.

Non che potesse andare sempre in giro così. Avrebbe dovuto abituarsi.

Al refettorio ottenne una serie di sguardi perplessi da tutta la tavolata: Jukka doveva aver già sparso la voce. C’era della superiorit, sui volti dei cinque stelle, che non aveva nulla a che vedere con quella dei ragazzini più grandi: i secondi si appellavano all’età, una questione anagrafica incontrovertibile, e di cui in fondo nessuno aveva colpa. Quelle strisce rosa, invece, ritenevano palesemente di essere migliori di lui. Questo dicevano le loro espressioni.

Lui era stato bocciato, loro no.

A loro non sarebbe mai successo – questo pensavano. Cosa faceva ancora lì quell’agricola? Se aveva fallito un esame, era chiaro che il Ludus non fosse il suo posto.

Gli avevano appuntato un campanello al collo, neanche fosse una vacca col campanaccio, proprio per ricordarglielo. Possibile che non avesse recepito il messaggio?

Che scempio.

Miran era un reietto.

Il Ludus non lo avrebbe mai cacciato, ma di sicuro non lo avrebbe fatto sentire a suo agio né lo avrebbe incoraggiato a proseguire.








[1] Pronuncia: Màana

[2] Pronuncia: Æniθé (θ è il suono th della parola inglese thistle, a metà fra un f e una t)

[3] Pronuncia: Amdà

[4] Pronuncia: Criinà

[5] Pronuncia: Esèl

[6] Pronuncia: Gòaga

[7] Pronuncia: L’ùr

[8] Pronuncia: Màlani

[9] Pronuncia: Iùkka



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Nota dell’Autrice



Ciao a tutti e grazie per esser ancora qui.

Un ringraziamento a Metabarone che ha metodicamente letto e recensito ogni capitolo, a cui devo parte della riscrittura di questo capitolo qua, avendomi permesso di capire che c’erano delle cose di cui non avevo parlato abbastanza a fondo. Il taglio che ha acquistato, alla fine, mi piace – spero di non esser caduta nell’enciclopedico, ho cercato di stare più leggera possibile.


Con l’entrata in gioco di Jukka passa la prima fase della vita di Miran e inserirò un bel po’ di interazione in più fra i bambini, di cui ho dato solo degli accenni. Mi scuso per la sfilza di nomi, principalmente inutili, che ho messo – ma penso ci andasse. Jukka invece è importante :) Dal prossimo capitolo sarà un altro tipo di gioco, spero di riuscire a gestirmelo bene e di non rompere la continuità.


Ciao a tutti e grazie ancora, siete un gran supporto, anche solo con un “+1” fra seguite o ricordate ^_^


Pandi


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Capitolo 10
*** 9. Bocciato ***



9. Bocciato



Entrò in aula, rumoroso, con la mano ancora a coprire l’orecchio.

Non fece in tempo a guardarsi attorno che una voce, ormai nota, urlò: “Eccolo!

Jukka saltava letteralmente di tre gradini in tre gradini, scendendo verso di lui – e additandolo compiaciuto. “Ve l’avevo detto, io! Il Bocciato!”

Miran indietreggiò di qualche millimetro, vedendosi il bambino come rotolargli addosso: ma Jukka si fermò di scatto, a qualche metro da lui. “Levati, Agricola – stai intasando il passaggio!”

Sentì una gomitata sulla schiena, a confermare quel che aveva appena detto l’altro: confuso, Miran si spostò, tintinnando.

“Ah, il bocciato.” farfugliò una bambina, la proprietaria del gomito che lo aveva colpito. Lo guardò torva e si sfilò dalla porta, andando a sedersi fra i primi banchi.

Levatosi dall’entrata, Miran rimaneva in piedi in mezzo alla scalinata – mentre altre strisce rosa gli passavano di fianco. Qualche secondo, e aveva già ricevuto due spallate.

“Allora, chi scommette?” continuò Jukka, tonante.

“Non si scommette, Agricolae!” protestò qualcun altro.

“Due giorni!”

“Che?”

“Due minuti!”

“Ma dai –”

“Vediamo di mandarlo via subito, eh?”

“No, non vale così!”

Miran, muto, rimaneva addossato al muro della scalinata. Si sentiva a disagio.

Certo che si sentiva a disagio.

Era stato bocciato.

Strinse i denti, e fece per rispondere alla quinta spallata che ricevette: s’ingrossò tutto, alzando furente le spalle per caricare un colpo che non arrivò mai a destinazione.

Fermo, Miran.

Fermo.

Sfiatò, rendendosi conto che non era una buona idea: sentì Jukka ridere, sguaiato.

“Allora, te ne vai o no?”

“Piantatela di scommettere, Agricolae!”

“Fatti i cazzi tuo – IH!” Questo era il verso tipico di chi aveva ricevuto un colpo allo stomaco.

“Non usare parole da Agricola, Agricola!”

“Fanculo!”

Botte. Miran intravide due di loro avventarsi su una figurina dalla pelle perlacea e la testa arancione. Qualche urla.

Tipico. Chi era il genio che s’era messo a sproloquiare? Non ricordava di aver sentito parole del genere dai tempi delle due stelle – se non prima.

L’attenzione della platea si era spostata verso la zuffa, e lui pensò fosse un buon momento per trovare un posto a sedere e tenerselo stretto.

Ma ogni suo movimento lo faceva tintinnare: ricevette un altro paio di spallate, e nel tempo che ci impiegò ad attraversare il corridoio verso il posto più vicino – ecco: di nuovo erano tutti su di lui.

“Perché ti siedi, Agricola?”

Miran cercò di restare impassibile, sedendosi. Strinse la borraccia fra le ginocchia, mentre apriva la sopravveste per toglierla.

Così finalmente avrebbe finito di far rumore, quel maledetto campanello.

“Non credo che tu possa togliertela, quella.” Nel marasma, Jukka gli si era ulteriormente avvicinato.

Il bambino si muoveva sicuro fra gli altri compagni, dominante in mezzo ai più che si spostavano non appena finivano sulla sua strada. A Miran sembrava quasi impossibile, ma Jukka non era solo il più grosso: era il più, e basta. Spiccava su gli altri e, a parte qualche lamento dalle prime file, tutti parevano pendere dalle sue labbra.

Si ritrovò il suo muso scavato a una spanna scarsa dal naso – si sporgeva su di lui dalla fila superiore, completamente poggiato sulle braccia. Gli sorrise, quasi mostrandogli i denti.

Miran sostenne lo sguardo, nascondendo la sua interdizione.

Era pur sempre uno studente del Ludus, bocciato o non bocciato che fosse.

Aveva diritto a sedersi, come di togliersi la sopravveste.

Loro lo sapevano bene. Dicevano idiozie.

Ma essere soli contro quel che pareva un branco intero – cambiava la prospettiva delle cose.

Faceva sembrare stupide le ovvietà, e ovvie le stupidità. Si era reso subito conto che non sarebbe potuto venire alle mani, o lo avrebbero sopraffatto: trecento contro uno. Non poteva ovviamente andare a frignare dai Magistri – no. Per quanto quel che andavano blaterando le strisce rosa fossero assurdità, ai Magistri ciò non interessava. E, se li interessava, li avrebbero ripresi da soli.

Inoltre, lui e le strisce rosa erano nello stesso anno di studi – anche se più piccoli, non poteva più trattarli come tali. E loro, com’era chiaro, non avevano alcuna intenzione di considerarsi inferiori a lui. Semmai il contrario.

Non erano così ben articolati i pensieri che gli rimbalzavano in testa: c’era più sensazione che idea, in ciò che faceva.

Sentì l’impulso di sostenere lo sguardo di Jukka, e così fece.

Sentì il bisogno di tacere, e tacque.

E anche se il suo primo istinto, spallata dopo spallata, era stato quello di restituire le botte subite, un secondo istinto – indifferente alla rabbia, e ben più lucido del primo – lo aveva fermato.

Mentre fissava gli occhi scuri di Jukka, in un gioco lungo minuti, Miran sentiva lo stomaco sempre più contratto – e una paura lontana farsi strada nei suoi muscoli.

Scappa – gli diceva. Vai via.

Torna a casa.

Non puoi sostenere questo per il resto della tua vita. Questo non è il Ludus che conosci. Questo non è quel che sei venuto a fare qui.

Hai fallito.

“Vattene.” sillabò Jukka.

“Vattene.” rispose Miran.

“Non ti vogliamo, bocciato.”

Vide Jukka sorridere. Tacque.

“Allora?”

Continuò a tacere.

Non aveva idea di come rispondere.

“Perché non te ne vai?” insistette Jukka.

“E tu? Perché non te ne vai?”

Dapprima perplesso, Jukka poi sfiatò ridacchiando: “Perché io non ho un campanello, Agricola.”

“Che importa – non serve mica un campanello, per abbandonare il Ludus.”

Questa, Jukka, sembrava non aspettarsela. Rimase in silenzio, mentre cercava di far rientrare quell’affermazione pellegrina nel suo schema di idee.

Miran si accorse subito d’averlo colto alla sprovvista – non aveva neanche ben capito come, ma era successo. Approfittò della situazione senza attendere oltre: “Chi è l’Agricola che sproloquia?”

“Quella?” Intervenne una voce alla sua destra: “Il suo Nomen è Radi1

Ehi!” parve ruggire Jukka, scostando finalmente gli occhi da Miran. “Razza di Agricola, fatti gli affacci tuoi – non vedi che ci sto parlando io, col bocciato?”

Miran seguì lo sguardo di Jukka: a parlare era stato un bambino con gli occhi sottili e i lineamenti infantili, dal fisico asciutto – quasi ossuto. Non appena Jukka prese a urlargli contro quello sussultò e scostò il volto, come a nascondersi.

Ehi! Asha2!” continuò Jukka, inviperito. “Guardami quando ti parlo, Agricola!”

Asha non rispose, apparentemente impegnato a far cose sullo schermo del suo banco.

Miran fece allora per sporgersi dal suo posto, in cerca della testa arancione che evidentemente rispondeva al Nomen di Radi. La vide con la coda dell’occhio, ma non fece in tempo a metterla a fuoco che ricevette uno scappellotto: “Sono quassù, Agricola.“ grugnì Jukka. “Stavamo parlando, noi due – ”

“E perché Radi sproloquia?” chiese allora Miran, voltandosi verso Jukka.

“E cosa ne so io? Qua si parlava di campanelli, lo ricordi o no?”

Si era palesemente alterato. Miran non mollò: “Io non ho mai sentito nessuno sproloquiare così, al mio anno.”

“È solo Radi che è tanto Agricola da usar quelle parole.” gli rispose quello, sbuffando poi dalle narici. “Ora però ci sei anche tu, voglio vedere – chi dei due è peggio.”

“Io non sproloquio.” fece Miran, fermo. “Sono un bocciato, ma non sproloquio.”

“Hah! – ” Jukka sembrava non voler rinunciare alle molestie “– vedremo!”. A costo di dire cose insensate.

Ma aveva il coltello dalla parte del manico, quindi poteva permetterselo.

Miran lo vide sedersi, senza preavviso, lì dove s’era piazzato – non aggiungendo altro. Non comprendendo bene il motivo di quel comportamento, lo scrutò perplesso.

Pochi secondi dopo, il Magister entrò in aula.


La lezione del mattino non fu drammaticamente noiosa come Miran aveva temuto: rimase ben sveglio per il resto della prima ora, durante la quale ebbe dei momenti in cui s’era completamente dimenticato del campanello e della bocciatura.

Ma cadendo con lo sguardo sui polsini della sua camicia finiva immancabilmente con il risvegliarsi da quell'istante di serena obnubilazione. Vicino a lui c’era il vuoto, a parte Jukka – ch’era rimasto seduto nel posto sopra il suo – e Asha, a qualche posto alla sua destra: il secondo, solitario, sembrava aver scelto intenzionalmente di tenersi alla larga dal resto della classe.

Quando fu ora di andare al refettorio, Miran dovette ritornare a fare i conti con la realtà dei fatti: la borraccia stretta in una mano e la sopravveste sottobraccio, non appena si avviò si ritrovò nuovamente a ricevere una serie di spintoni e gomitate – e sì che il campanello era zittito dalla stoffa, altrimenti, s’immaginava, la razione sarebbe stata doppia.

Era riuscito a recuperare in fretta il suo vassoio, cercando di evitare i fastidi dei nuovi compagni, e s’era seduto all’angolo di una tavolata cercando di mangiare in fretta e silenzio. Sebbene, al refettorio, la maggior parte delle strisce rosa lo ignorasse, la quiete non durò a lungo.

“Ma quanto mangi?”

Jukka non sembrava intenzionato a mollarlo: gli si sedette di fronte, allungandosi incuriosito sul suo vassoio.

“Quel che mi danno – come tutti.”s’era lasciato sfuggire Miran.

Sciocca idea quella di rispondere.

“Ti mettono all’ingrasso per farti bocciare ancora, non vedi?”

Tacque.

“Sei finito.” insistette Jukka.

Miran continuò a mangiare, boccone dopo boccone: gli altri compagni si tenevano alla larga, sedendosi al più sull’estremità opposta della lunga tavolata.

“Ehi, guarda che ti sto parlando, bocciato.” insistette Jukka.

L’altro accelerò il ritmo con cui buttava il cibo in bocca, sforzandosi di non trangugiar tutto troppo in fretta – o digerire sarebbe stato un bel problema. Capito che quello non sembrava più intenzionato a far parola, Jukka grugnì e si mise a sua volta a mangiare: rimasero in silenzio, Miran con gli occhi fissi al piatto, Jukka con gli occhi fissi su Miran.

Quando quest’ultimo ebbe finito di mangiare, si alzò di scatto afferrando il vassoio: “Beh – io mi congedo. Ciao, Jukka.”

Voltò le spalle alla striscia rosa e si dileguò, recuperando al volo la propria sopravveste.

Jukka lo guardò allontanarsi, colto alla sprovvista: incapace di rispondere a tono, si limitò a osservarne la schiena che spariva fra la folla del refettorio.



***


Isia gli si avvicin dopo una ventina di minuti: Miran, accovacciato nell’ombra in cima alle gradinate, sentì un colpetto sulla spalla. Si voltò verso l’uomo, sorridendogli: con un cenno del capo il Magister lo invitò all’esterno dell’auditorium.

“Forza, muoviti.” gli disse Isia, mentre andava a riaccendere la luce del corridoio – che Miran aveva spento quand’era entrato. “Che poi tocca ai piccoli.”

Il bambino, che per entrare senza far rumore aveva appallottolato la sopravveste, la srotolò indossandola. Isia si fermò di colpo, non appena sent il suono del campanello di Miran.

“Hai fallito l’esame?” chiese.

Quello annuì.


Jukka si sorprese a cercare Miran durante gli allenamenti del pomeriggio.

Nessun tintinnio – ma questo se l’aspettava: la divisa da ginnastica non prevedeva il campanello.

Miran, però, non c’era. Di questo ne fu rapidamente certo.

La cosa non gli tornava: perplesso, annusava l’aria più spesso di quanto non avesse mai fatto.


Isia sembrava interdetto. “Perch sei ancora qui?”

Miran s’immobilizzò. Lo vide stingere i pugni lungo i fianchi, lo sguardo perso nel vuoto.

“Dovrei andarmene?” chiese il bambino, fissandolo.

Isia si morse la lingua, rendendosi conto che gli stava dando un’anomala confidenza. Tanto da porgli una domanda stupida e retorica: fuori dal ruolo di Magister. Quello era un grosso errore: non avrebbe dovuto più commetterne uno simile.

Perch era ancora l, Miran? Beh, di sicuro nessuno lo aveva mandato via.

Stava a lui decidere.

E vista la perseveranza con cui si presentava, ogni anno, alla cerimonia dei nuovi studenti, sarebbe stato stupido pensare che non avrebbe fatto altrettanto con gli studi.

O, come minimo, ci avrebbe provato.

“Se non vuoi andartene, nessuno può obbligarti a farlo –” ripeté, meccanico, il Magister.

Doveva rientrare nei binari. Riprese a camminare, Miran al seguito.


“Ehi.”

Jukka non rispose.

“Ehi! Sto parlando con te, scemo!”

Il bambino rifilò una gomitata a Radi, che gli sedeva di fianco. Quella per poco non sputò il boccone sul piatto: lo ricambiò con una spallata, e un altro insulto.

“Che vuoi? Hai la terra in bocca, Agricola? Vai un po’ a zappare!”

“Io? Vacci tu, piuttosto, che è tutto il giorno che vai cercando il bocciato. Cos’è, ti brucia di aver perso la scommessa? Avevo detto io che non sarebbe durato un giorno, o sbaglio?”

“Potrebbe anche aver deciso di non seguire le lezioni, sapete?” puntualizzò Asha, seduto di fronte a Radi.

“Taci, Asha!” ringhiò Jukka. “Non cerco nessuno, io!”

Qualcuno fece schioccare la lingua.

“Ehi!” saltò nuovamente su il bambino. “Se hai qualcosa da dire veni a dirmelo in faccia, Kisanee3!”

“Non ho nulla da dire.” bofonchiò la bambina, esile e bionda. “Solo vorrei del silenzio.”

“E sai che me ne importa!” le diede contro Jukka, che s’infervorava con non poca facilità. Tanto che s’era quasi alzato in piedi, per poter gridare tutto il suo disprezzo in faccia a Kisanee.

“Tanta agitazione per un bocciato.” Zara, seduta fra Asha e Kisanee, schiuse le labbra per la prima volta in tutta la giornata.

Chi stava intorno a lei si zittì, come sorpresi a sentirne la voce. La bambina, scura sia di carnagione che di capelli ed occhi, allungò minimamente il capo per indicare, con un cenno, un punto indistinto in fondo al refettorio. “È lì, se tanto vi preme.”

Indispettito, Jukka si paralizzò. Corrugò la fronte, serrando i denti. Poi, di scatto, si voltò: lo vide a stento all’entrata del refettorio, con il vassoio in mano. Miran indossava maglietta e pantaloncini da allenamento, e camminava un po’ malamente.

“Ecco dov’era.” commentò Asha. “Dal gatto.”

“Se le è pure prese forte.” aggiunse Jukka, continuando a fissarlo.

Miran, dopo un po’, s’accorse d’essere osservato. Si voltò verso di loro, ancora in fila per il pasto, e con un gesto rapido e del tutto inaspettato levò la mano a salutarli.

“Merda, ci ha visti.”

“Ma la pianti?!” questa volta fu Kisanee a prendersela, tirando a Radi un calcio sotto il tavolo. “Agricola!”

“Muoviti a finire, o viene a rompere – piuttosto!”

Kisanee grugnì qualcosa, storcendo le labbra con puro sprezzo.

“Dev’essere Agricola dentro, quello, per averne prese così tante.”

“Vedrai quando toccherà a te, Asha.” lo sfotté Radi. “Sarà che li frustano per il semplice esser bocciati. E tu non duri, te lo garantisco.”

“Ah – e tu, invece?” il bambino s’impettì, sibilante. “Con quel tuo linguaggio, pensi forse ti consentiranno di diventar Custos?”

“Vorrà dire che sarò Philosophus, allora –”

“– sì, sògnatelo!”

“Ehi!” – nel tempo del battibecco, Miran li aveva raggiunti.

Quelli lo guardarono sconcertati, a causa dell’atteggiamento del ragazzino: che stava facendo? Tutta la mattina era rimasto quieto o quasi.

Non sentendo risposta, Miran si sedette accanto a Radi – approfittando di un metro di panca libera.

“Ma che vuoi?”

“Salutare.”

“Vattene.”

“Devo anche mangiare.”

“Ci sono altri tavoli, fila!”

Miran fece spallucce: “Qui, lì - non è che importi. Tanto a qualcuno darò fastidio in ogni caso, tanto vale sia qualcuno di cui conosco il Nomen.”

Digrignò i denti, in un sorriso grande e fasullo; poi si mise a mangiare. Al che, Radi non perse tempo: iniziò a spingerlo, per allontanarlo, puntandogli il gomito sulla spalla. Lo spostò di qualche centimetro, fissandolo astiosa.

Ma non si poteva disturbare chi mangiava, né ostacolarlo durante il pasto: quella era una regola ben salda nelle loro menti. Radi si era già spinta oltre, non insistette. Non fisicamente, per lo meno: mentre gli altri lo ignoravano, più interessati al proprio vassoio che al bocciato, lei perse lungo tempo a scrutarlo con pieno disappunto.

“Allora, Agricola?” chiese d’un tratto la bambina.

“Allora che?” fece lui, mandato giù il boccone.

“Com’è che sei ancora qui? T’han pure punito, sarebbe il caso ti levassi dai piedi, stupido.”

Calcio di Kisanee a Radi.

“Ma che c’entra? Mi puniscono sempre.”

“Che?”

“Mica pensi che me la sia vista col gatto per la bocciatura?” domandò Miran, perplesso.

Kisanee, di fronte, si lasciò scappare uno sbuffo divertito.

“E allora?”

“Ma quante code hai, tu?” li interruppe Jukka, sporgendosi verso di lui. “Ancora sanguini.” Sembrava turbato, addirittura.

Zara levò lentamente lo sguardo dal vassoio, osservando i tre: Jukka, Radi, poi Miran.

Il terzo se ne accorse: lasciò pendente la domanda di Jukka, più interessato a studiare la bambina.

“Qual è il tuo Nomen?” le chiese.

“È Zara.” rispose Jukka per lei. “Ehi, bocciato, rispondimi. Quante code?”

Nel frattempo, Zara aveva abbassato nuovamente gli occhi. Muta, mangiava – incurante di ciò che le succedeva attorno.

“Quante?” Miran si sporse a sua volta, verso Jukka. “Sette.”

Radi scoppiò a ridere, sguaiata: “Sette!” ripeté, quasi gridando. “Perculi o che?”

Kisanee non sapeva nemmeno se il verbo perculare esistesse in un qualsiasi dialetto della Regio; di sicuro, non nella Lingua: un ulteriore calcio a Radi era di dovere.

“Se sei tanto Agricola da essere arrivato a sette code, ben ti sta il campanello” Commentò Jukka. “Anzi, direi che è tardi. Non dovresti esse più al Ludus da tempo.”

“Ma che importa, il gatto? Tanto ci si passa tutti.”

“Non raccontare storie, sette code sono un numero assurdo!”

“E voi che v’interessa? Io ho risposto perché me lo hai chiesto, se no me lo tenevo per me. Sai che m’importa.”

“Importa a me! Non solo bocciato, ma pure bugiardo.”

“Pensa come credi.” Tagliò lì, mangiando in fretta e non rialzando più gli occhi dal piatto.

“Indubbiamente!” Jukka doveva avere l’ultima parola, quello era un dato assodato.

Finirono in silenzio il pasto: Miran se la sbrigò addirittura prima degli altri. Senza dire altro si alzò e se ne andò via.

Rimasti al tavolo senza il bocciato, Jukka e Radi si lasciarono andare in un lungo sbuffo, guardandosi complici. “Che rottura.” fece la bambina.

“Quello è fuori.” aggiunse l’altro.

“Sette code – ma ti pare che ce la beviamo, poi, noialtri?”

Io ne ho tre.”

“Hah!” lo additò Radi. “Io quattro.”

“Vantatene, eh.” la apostrofò Asha.

“Taci, Asha!”
“Che si faccia a gara sul numero di code del gatto, poi – siete tanto Agricolae da aver la terra fin nelle mutande.”

Jukka s’issò di scatto sul tavolo, allungandosi per tirare una manata in faccia ad Asha: quello schivò per un soffio, ritrovandosi un graffio sulla punta del naso. “Ehi! Sto mangiando!”

“E allora non dar noia a me!”

“Se parli da Agricola, ti tratto da Agricola!”

“Vediamo allora se insisti quando inizierò a dartele sul serio!”

“Sembri un Bellator, ma ti senti?”

“Sempre meglio di uno che nemmeno riuscirà a menar l’aratro, magro come sei!”

Asha dilatò furibondo le narici, serrando di denti: fece un respiro profondo e, le labbra serrate, decise di tacere. Da tempo ormai aveva imparato che per evitare guai con Jukka, di qualsiasi natura, bastava non rispondere. Per l’appunto, l’importante era lasciargli l’ultima parola: poi se ne sarebbe stato buono.

Tacquero, e la cosa finì lì.

“Voi non avete ancora capito chi è quello?” chiese distrattamente Kisanee.

Zara parve spostare lo sguardo verso la bambina, per quanto sempre rimanesse fissa sul proprio piatto. A fare attenzione, si sarebbe detto che annuisse.

“Che?” chiese Radi, che non seguiva. “Ma chi?”

“Miran, Agricola.”

“E quindi?”

“Miran è quello del secondo anno.” spiegò Zara, senza alzare gli occhi.

Radi rimase immobile in un’espressione ebete, mentre ad Asha e Jukka s’illuminava il volto.

“Tu dici?” domandò il primo.

“Ma sì, è vero.” Jukka s’era come svegliato da un sonno agitato: “Ecco! Adesso ho capito!”
“Ma dite quello del discorso dell’Helios?” Radi si faceva incredula sempre più. “Scherzate? Come fa uno così ad arrivare al quinto anno?”

“E ci torna pure!” aggiunse Jukka.

“Di che parli?”

“Quello è fuori.” commentò Asha.

“Ehi!” protestò Radi. “Torna dove?”

“Se sei lenta, Radi.” l’apostrofò Asha, borioso: cosa rara, esser nella posizione di poter fare il saccente. Ne approfittò senza remore.

“Siete voi che siete scemi! Vi pare possa esser vivo uno che fa una cosa simile ogni anno?! Idioti!”

Quella era talmente all’angolo che tutti gli altri si astennero dal punirne il linguaggio.

“Sette code, ha detto.” continuò Jukka “Ma è pazzo davvero, allora. Ora capisco.”

“Come fa a esser vivo?” insisteva l’altra, rifiutandosi di credere a quel delirio. “Che, mi perculate anche voialtri, adesso? Eh? Sette code? Sette?!

“Arriva a nove, il gatto – dicono.” spiegò Asha. “C’è senza dubbio un motivo.”

“Certo, per ammazzare!”

“Via, mica crederai che si muoia davvero. Sono storie.”

“Lo han pur detto i Magistri!”

“Sì, ma sarà successo una volta, forse due! Sei proprio tonta, Radi.”

A quel punto Asha si rese conto di aver sbagliato strategia: stava parlando con Radi, non con Jukka. Del secondo conosceva bene le reazioni, ma su di lei non aveva grandi conoscenze: se Jukka poteva blandirlo dandogli ragione e lasciandogli l’ultima parola, lei… no. Vide gli occhi della bambina farsi sempre più violenti, finché, di scatto, quella non saltò sul tavolo e gli si lanciò addosso. Zara, accanto a lui, si scostò quel tanto da evitare qualsiasi contatto con i due prima che Radi lo buttasse a terra: Asha aveva provato a schivarla, ma quella lo aveva afferrato per il lembo della maglia e, al pavimento, se l’era trascinato giù con lei.

“Agricola!” riuscì ad urlare Asha, ricevendo poi il primo pugno: Radi nemmeno si dava allo sproloquio, muta e concentrata sulla zuffa.

Gli altri si alzarono, allontanandosi dai due e andandosene.



***


Egli ha, indubbiamente, il profilo psicologico migliore con cui abbia lavorato negli ultimi sei anni.

Così aveva scritto, senza quasi staccar la penna dal foglio per la rapidità dei suoi gesti.

Per quanto Saan abbia iniziato a consultarsi con i pedagoghi e i selezionatori anziani, vista la particolarità della situazione e l’evolvere del tutto inaspettato degli eventi, vi chiedo umilmente di rimettere Miran sotto la mia responsabilità e il mio controllo, di modo che possa gestire al meglio il seguito, qualunque esso sia.

Si fermò un attimo, la mente tanto avvinghiata nei pensieri da suonarle muta.

Decise di firmare, e basta.


La risposta dell’Helios giunse tramite una rapida missiva, alla sesta ora: meno di un giorno era passato. Significava che aveva a cuore la questione, e ciò era un bene.

No.

Sapeva indubbiamente essere sintetico.

Il discorso continuava a metà pagina, di modo che quelle due lettere fossero ben chiare, sole, nel bianco della prima parte del foglio.

A voler correggere in itinere si rischia di rovinar tutto il sistema. Abbi fede nelle premesse, ed agisci solo in caso estremo. Non è tempo.






[1] Pronuncia: Ràdi

[2] Pronuncia: Àʃa (ʃ è il suono “sc” di pesce)

[3] Pronuncia: Kìsanë



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Nota dell’Autrice


Domando scusa per il “ritardo” (chi mi conosce sa che pubblico a ritmi non costanti, per quanto cerchi di evitarlo).

Questo capitolo mi è stato molto difficile XD ma anche molto divertente. Non volevo sfociare nel “povero piccolo bimbo emarginato odiato da tutti” né nel “super bimbo che va contro tutto il sistema perché SÌ, LUI È UN GANZO, PUNTO.

Spero di aver reso abbastanza l’idea, donando qualche pennellata dei personaggi che poi saranno fra il nocciolo duro della vicenda.


Grazie come sempre di passar da queste parti.


Pandi


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Capitolo 11
*** 10. La Cinta ***


10. La cinta

 

 

Tre giorni erano passati dall’inizio della sessione di sopravvivenza: Radi sentiva di star iniziando a puzzare, e la cosa non le piaceva per niente. Ma in quella situazione avrebbe dovuto dar priorità a un’igiene di tipo diverso da quella cui era abituata, sacrificandosi; e poi, altri due giorni e non se ne sarebbe più accorta, dell’odore che emanava. Per intanto cercava di non prestarci troppa attenzione.

Si sistemò il cappuccio della spessa felpa che indossavano per quelle occasioni, la cui parte interna era foderata di pelliccia: faceva freddo, e nella sacca che portava sulla spalla c’erano altre due maglie  da usare la notte – assieme a una manciata di coperte isotermiche.

“Quanto ti manca?”

Nessuna risposta. Aggrappato a un ramo proprio sopra la sua testa, Jukka era intento a staccarne metodicamente le foglie – non prima di averle accuratamente ispezionate: in questo genere di cose era meticoloso, mentre Radi preferiva fare in fretta, per levarsi il prima possibile dalla zona. La primavera era alle porte e l’ultima cosa con cui la bambina voleva avere a che fare era un animale uscito dal letargo, soprattutto un orso. Le era bastato l’incontro ravvicinato avuto al primo anno: tratta in salvo da un Magister, da allora si era convinta che la Morte avesse quattro enormi zanne gialle e i margini della bocca penduli. Ovviamente il solo spavento, al Ludus, non bastava: dopo l’orso venne il gatto. Fu un’esperienza altamente educativa.

Jukka la stava ignorando, concentrato. Dopo qualche altro minuto di oculata selezione, chiuse finalmente la sua sacca e si lasciò scivolare giù dal ramo: per attutire la caduta si flesse tanto da ritrovarsi pressoché carponi, davanti all’altra.

“Poi?” chiese, rialzandosi in piedi.

“Dovremmo cercare del cibo – ho fame.”


“Dai, abbiamo quasi fatto!”


“Hai finito tutte le tue razioni, io le mie non te le do.”


“Io mi arrangio. Dopo, però. Adesso dimmi cosa manca.”


Radi grugnì, incamminandosi. “Urtica dioica.”


“Quella la prendi tu.”

 

Il sodalizio fra Radi e Jukka era di lunga data, iniziato durante una sessione di sopravvivenza. Tre o quattro volte l’anno i bambini venivano portati nei boschi che circondavano il Ludus, e lì – dopo qualche lezione – lasciati ad arrangiarsi. All’inizio i Magistri si limitavano a osservare come si comportassero, per poter impostare le sessioni successive e riuscire a dar loro rapidamente tutti gli strumenti per evitare di lasciarci la pelle: fra questi, imparare a star lontani da piante e funghi velenosi, dagli animali pericolosi, prendere confidenza con il terreno del bosco, imparare a nutrirsi, accendere un fuoco, bollire l’acqua e dormire in luoghi riparati. Da lì in poi, mentre affinavano l’arte della sopravvivenza – ad esempio imparando a scuoiare conigli – ai bambini veniva assegnato un compito: poteva essere trovare un luogo, un oggetto, raccogliere piante o procurarsi selvaggina. Dovevano svolgerlo entro un certo tempo, pena la saletta e il gatto. Imparavano in fretta.

Jukka e Radi non erano stati certo i primi a scoprire i vantaggi della cooperazione – nessuno specificava come gli obbiettivi dovessero essere raggiunti –, anche se, fra i due, Radi sapeva benissimo di essere quella a beneficarne di più.

Dopo il suo incontro con l’orso, la bambina aveva adottato la strategia di seguire sempre qualcun altro durante una sessione. Anche qui, non era né la prima né l’ultima a farlo, e niente glielo impediva – a meno che gli altri s’accorgessero d’esser spiati, e se la prendessero a male.

Ma lei era brava.


Veramente brava.


Per tutto il primo anno e metà del secondo non fu mai scoperta da nessuno, e pedinò deliberatamente una vasta manciata di suoi compagni.
Poi, un giorno, dal bosco emerse una voce:
“Ti sento!”

Peccato che, sino a quel momento, lei non avesse sentito lui.
Era vero che stava cercando qualcuno a cui accodarsi, ma non aveva ancora visto, o sentito, Jukka.

“Smettila!” continuò quello.


Evidentemente erano vicini da un po’.
Jukka le si palesò spuntando dal nulla, enorme come era sempre stato – erano entrambi strisce blu, ma a vedere il bambino da lontano chiunque avrebbe pensato ad un quattro stelle.

Litigarono per due minuti buoni, finché, di colpo, Jukka non si zittì.

Rimase muto e all’erta. Radi con lui.

La bambina non seppe mai cosa, esattamente, avesse provocato nell’altro quella reazione: ma fu alquanto persuasiva. Da allora non lo mollò per un istante, restandogli addosso come una zecca. Entro breve, da parassita divenne simbionte, facendo così iniziare la loro cooperazione. Oramai non c’era una sessione di sopravvivenza in cui non lavorassero insieme.

 

Le ortiche si trovavano piuttosto facilmente, infestanti i muri di cinta. Prenderle era un altro discorso: non impossibile, ma comunque impegnativo.

Non appena la recinzione fu loro visibile, Radi si tirò la manica della felpa sulla mano, iniziando a cecare con lo sguardo le piante che le parevano più adatte. Non che fosse il periodo migliore per l’ortica, ma forse, con un po’ di fortuna...

“Aspetta.” La bloccò Jukka.


Radi obbedì.
Al solito, doveva esserci qualcosa che lui aveva notato, mentre a lei era sfuggito.

“Miran!”

Miran?
Ma dove?


Radi si guardò attorno, finché un fruscio non fece palesare il bocciato: quasi con orrore, la bambina scoprì che si trovava oltre la cinta.

Miran li salutava con ampi movimenti del braccio, mezzo appeso a un albero – in alto, molto in alto: in piedi su un grosso un ramo, si reggeva al tronco per non cadere. Doveva trovarsi ad almeno sei metri dal suolo, considerato che il muro di cinta ne misurava tre e che sopra ad esso c’erano altri due metri di rete, e lui, comunque, era più in alto.

Ma è un Agricola.” borbottò Radi.

“Che fai?” gli chiese, urlando, Jukka. “Non si può andare di là! Ma come fai a essere ancora vivo, tu?”

“Guarda che non è vietato –” gridò Miran, per poi voltar loro le spalle e muoversi lungo l’albero.

Jukka e Radi si avvicinarono alla cinta, mentre il bocciato si aggrappava alla rete, scendendo fino al muro. Gli altri due i misero un po’ per trovare una zona abbastanza libera da potersi arrampicare senza rischiare l’orticaria: ora erano tutti e tre in cima al muro, divisi solo dalla rete.

“Come fai a dire che non è vietato?” pontificò la bambina: “C’è un muro!”

“Nessun Magister ha mai detto di non oltrepassarlo. Guarda che mica finisce il mondo, dietro la cinta.

“Ma così esci dal Ludus –” Jukka era ancor meno convinto di Radi, al riguardo.

“No.”


I due lo guardarono allibiti.
“Come no?”


“No no. La cinta delimita la zona dove facciamo la sopravvivenza, mica il Ludus.”


“E tu, questo, lo sai perché hai già fatto il quinto anno una volta?” ribatté Jukka, acido.


“No –” se a Miran mancava una cosa, quella era la voglia di litigare. “ – ci ero andato già due anni fa.” Spiegò, facendo spallucce.

Radi e Jukka lo squadrarono, poco convinti. Se pensava di poterla passare liscia, a raccontare panzane di tal portata, aveva sbagliato pubblico.

“Bugiardo.” fece, lapidario, Jukka: “Bocciato e bugiardo.” rimarcò, sull’adirato andante. Se non ci aveva messo piede lui, oltre la cinta, figurarsi il bocciato basso e stupido, ecco cos’era. Oltre che bugiardo.

Miran, in tutta risposta, si voltò: scansando la sacca che portava sulla schiena, si prese la cintola dei

pantaloni e li abbassò, mutande incluse, a far vedere la natica sinistra. I due, dall’altra parte della rete, rimirarono fra l’inorridito e l’estasiato tre lunghe cicatrici che gliela percorrevano quasi tutta, oblique.

“Era un orso?” chiese Radi, sconvolta. “E allora?” Si fece svanire lo stupore in un lampo: “Anche io ho incontrato un orso, di qua.” Incrociò le braccia al petto, sprezzante.

“È di un felino –” la corresse Jukka, attonito.
Come faceva a essere ancora vivo, quell’agricola? Radi rimase a sua volta a bocca aperta.


“Esatto, era un puma – stanno sugli alberi, per quello mi ha preso. Raccontò Miran “Non lo sapevo. Adesso lo so.”


“E poi?” chiese Radi “Sono arrivati i Magistri?”

“I Magistri non intervengono, se stai oltre la cinta –” grugnì Jukka.

“Già. Però ero vicino: ho scavalcato.

“E poi?” chiese nuovamente Radi.


“E poi c’è il gatto.” Sibilò Jukka.


“Sì.”


Rimasero in silenzio. Jukka sembrava molto arrabbiato: Miran, che non voleva certo farlo adirare, gli sorrideva. Al che propose: “Andiamo a fare un giro insieme. Così vi mostro.”

“Cosa? I puma? Che se poi ne usciamo vivi ci ammazzano di frustate?

“Dai, quella che di frustate si muore è una farsa – ” disse Radi.

Miran li guardò perplesso. “No, è vero. Isia mi ha detto che tre anni fa una striscia rossa –

“Isia il Magister?” più la conversazione andava avanti, più ai due dentro la cinta sembrava assurda.

“Sì, uno di quelli delle punizioni.” Rispose Miran, come se stesse dicendo una banalità.

Chiamare un Magister per nome non era una banalità.

Rimasero in silenzio, per non continuare a pontificare l’ovvio: andare oltre le mura di cinta, parlare di un Magister al pari di uno studente qualsiasi – per non parlare delle punizioni, che affrontava come se nulla fosse.

“Ma tu quante volte vieni punito?” domandò Radi, senza più ben sapere se essere sarcastica o sinceramente curiosa in merito.

“Due o tre al mese.”


“Cosa?”


“Ma di grosse ne faccio un paio all’anno.”


“Secondo me tu sei un pallone gonfiato e basta.”


Miran li scrutava, inebetito dall’accusa, per lui assurda: era stato Jukka quello che aveva cercato gloria

facendo a botte con uno più grande, mica lui. Se proprio bisognava esser precisi, il pallone gonfiato era l’altro. Lui si limitava a... farsi punire un po’ più spesso del solito. Ma era affar suo. Loro che centravano, a volergli dare così tanto contro?

“Beh. Peccato. Di qua è bello.”

Stufo d’esser trattato come un qualsiasi due stelle che pensa d’esser chissà chi, Miran scese dal muro, scomparendo dalla loro vista e addentrandosi dentro la boscaglia al di fuori della cinta.

Radi lo guardò allontanarsi, tanto concentrata da non notare che anche Jukka era sceso. Dopo un po’ la chiamò: “Ehi! L’ortica?”

La bambina lo raggiunse.

“Potremmo andare a dare un’occhiata, quando abbiamo finito – dobbiamo stare qui ancora tre giorni...

Jukka grugnì. “Io di là non ci vado. Vacci da sola.”

Radi, da sola, non si sarebbe mossa. Non era il suo stile.

“Perché?” chiese, mettendosi a cercare fra le ortiche quelle che le parevano più adatte alla raccolta.

“È pericoloso.”


“Ma non è vietato, non ti puniscono se ci vai.”


“È pericoloso” rimarcò Jukka “Non sono un Agricola come il bocciato, io. Giuro che non metterò mai piede lì dentro.

Il discorso finì lì.

 

Jukka controllava il fuoco, nella notte, mentre Radi dormiva. Irrequieto, continuava a rigirare le braci, gli occhi puntati sulla fiamma: ma non c’era motivo di stare in allarme – il bosco dormiva, e i pericoli erano ben lontani da loro. Eppure, ogni scricchiolio lontano lo faceva sussultare.

Come aveva fatto Miran a cavarsela oltre la cinta? Era possibile? O era lui ad essere un pavido?
No.
Conosceva il bosco come i palmi delle sue mani, se non meglio – certo, anche il bocciato avrà avuto le sue conoscenze e abilità – ma Jukka era ben conscio di essere particolarmente portato per la sopravvivenza.

Jukka sentiva.


Con le orecchie e le narici.


Jukka percepiva. Sapeva. Ascoltava e interpretava.

I suoni, gli ululati lontani, il canto degli uccelli diurni e quelli notturni.

Stava per nevicare.

Lui lo sapeva. Gli altri no.

E sapeva anche che oltre la cinta c’era molto di peggio di quel che si poteva trovare all’interno: un puma ne era solo un esempio.

Ricordava odori acri e pungenti. Fremiti grevi.

Maledetto bocciato.
Come osava cavarsela in un luogo che a lui, Jukka, urlava pericolo da ogni angolo?
C’era un motivo se avevano costruito un muro!

Pungolò con il bastoncino che aveva in mano una brace, oramai incenerita: questa si aprì in due, e poi si dissolse in cenere.

Di scatto si alzò: prese le loro due sacche, e iniziò ad armeggiare con il contenuto.

 

Radi aprì gli occhi in un sussulro: Jukka, torvo, la stava scuotendo vigorosamente.

“E dai! Svegliati!”


Quella mugugnò, alzandosi intontita.
L’altro, in piedi davanti a lei, le porgeva la sua sacca – la propria in spalla. Lo scrutò interrogativa.

“Voglio stare solo. Ho già diviso le erbe per i Magistri. Controlla pure.”


Radi non aveva motivo di dubitare di lui. Prese semplicemente la sacca, mettendosela in spalla e continuando a guardarlo.

“Perché?” chiese poi, prima che quello le voltasse le spalle senza dare spiegazione alcuna.

“Perché sì.”


“Mica vai di là?”


“Fatti gli affari tuoi.”
Si allontanò.
Bene. Ora Radi doveva trovare qualcun altro a cui

accodarsi – o come minimo da pedinare. Meglio così,

si sarebbe allenata – diventare una spia, una volta Custos, non sarebbe stato male.

Scavalcò in rapidità, anche se ogni fibra del suo corpo gli diceva che si stava comportando da agricola. Una volta oltre inspirò profondamente, cercando di farsi un’idea di quel che c’era intorno a lui. Decise di avanzare sul terreno, e camminò a lungo: cercava di orizzontarsi in continuazione, senza mai perdere di vista la zona da cui era entrato.

Trascorse quasi mezza giornata. Il sole calava oltre il mezzogiorno, e Jukka iniziava a pensare di aver fatto una cosa stupida.

Tornò indietro.

Nel solo trascorrere della prima ora Jukka aveva accuratamente evitato tre predatori, di cui probabilmente uno era un orso. Non uno di quelli dentro. Uno di quelli fuori:
tre volte più grosso.
Miran mentiva. Se ne convinse, convincendosi anche che quell’Agricola fosse già tornato dentro la zona sicura.

Si trovava a metà strada quando la sua attenzione fu catturata da una presenza conosciuta. Immobilizzatosi, prese a muoversi lentamente e il più silenziosamente possibile: si arrampicò con cautela su di un albero, così da poter guardare in lontananza senza essere scoperto.

La macchiolina scura, seminascosta, non sembrava affatto essere Miran.

Jukka si avvicinò, spostandosi di ramo in ramo, sempre prediligendo il silenzio alla velocità.

Zara.

Impossibile non riconoscerla, piccola com’era, e con quella carnagione color biscotto. Si muoveva cauta nel sottobosco, concentrata, e sola. Jukka trattenne il respiro, sorpreso oltre ogni dire. Tergiversò per qualche minuto, finché la bambina non puntò gli occhi nerissimi addosso a lui: e non li spostò più.

Visto.

A quel punto scese dall’albero, avvicinandosi liberamente.

“Di solito è Radi che gioca a fare la spia.” fu il commento di Zara, una volta che gli fu vicino. Perse rapidamente interesse, ricominciando a muoversi.

“Che ci fai oltre le mura?” chiese alla compagna.

“Vado in giro.” rispose, la voce tenue ma salda. “Vai via.” Guardava ovunque, tranne che lui. “Sto sola.”

“Hai visto anche tu che da queste parti gira il bocciato?”

“Sei qui per lui? È oltre il fiume, l’ho visto stamattina.”

Jukka si arrestò. Il fiume era piuttosto lontano – almeno altre tre fasce, prima di arrivarci, e senza essere tornato indietro come invece aveva fatto. Zara era veloce.

Si riprese, ricominciando a camminarle appresso: “Guarda che qui è pericoloso.”

“Lo so. Puoi andare, adesso?”

“Perché venite in zone pericolose!?” sbottò il bambino.

Zara si fermò, guardandolo: era raro incrociare il suo sguardo, non sembrava amare il contatto visivo. Infatti scostò rapidamente gli occhi. “È più interessante, qui. Ormai il bosco interno lo conosco a memoria. Mi annoia.”

Jukka non poteva darle torto – anche se, più che di noia, avrebbe parlato di sicurezza.

“Voi siete fuori di testa.”

“Io e Miran, intendi?” domandò, riprendendo a camminare. Si fermò, guardando fisso in alto, verso gli alberi. Poi riprese, con passi cauti. A Jukka sembrava di vedere un animale selvatico. “Non ho mai parlato con quello. Io sono io e lui è lui. E tu sei tu. Anche tu sei fuori dalle mura. Se ti fa tanto paura, torna dentro.”

“La paura non è un disonore!” Saltò su Jukka. “Morire in modo stupido lo è! La paura serve!”

“Lo so.”

Jukka non si aspettava una risposta del genere. Si ammutolì.

“Per favore, voglio stare sola. Ciao, Jukka. Buona fortuna.”

“Come vuoi. Buona fortuna.”

Jukka e Radi procedettero soli sino al rientro dalla sessione: tutti i cinque stelle raggiunsero la postazione di ritrovo in orario, solo in tre senza tutte le erbe che erano state loro commissionate. Uno aveva confuso l’urtica dioica con l’urtica urens: male. Meglio non avere nulla che avere la cosa sbagliata – o un giorno avrebbero potuto rischiare di avvelenare un loro compagno, in quel modo.

“Allora, sei stato fuori?” chiese Radi al bambino. Quello annuì. Non era persona da menzogna. “Meno male che...”
“Taci.”

Miran li aveva già raggiunti: “Sei stato fuori?” chiese, avendo sentito quanto dicevano prima. “Hai visto che non è niente di che?”

“È pericoloso.” “Ma se sei sano –” “Non centra.”

“Voglio andarci anche io, allora.” Disse Radi, sentendosi esclusa. “Avevi detto di non volerci andare – cos’è, ti rallento?”

“La prossima volta vieni con me.” propose Miran.

In un primo momento l’idea la fece illuminare: non durò granché. Non era sicura di voler abbandonare la protezione di Jukka per quella di Miran. Jukka lo conosceva. Erano collaborativi.

Di Miran non si poteva fidare altrettanto ciecamente.

“No.” disse la bambina. “Non vado in giro con i bocciati.”

Miran fece spallucce. “Come vuoi.”

 

 

 

 

 

 

 

Mi prostro chiedendo scusa per il lungo silenzio.
Come ho scritto sto facendo esperimenti su wattpad, mentre vado avanti con la stesura (sono a poco meno di un terzo di quel che ho già preparato, eh) e con il resto della mia vita – se mai v’interessasse, sono riuscita a recuperare la mia laurea magistrale, lavoro come borsista e giusto due settimane fa sono riuscita a farmi ammettere a un dottorato – che spero non mi uccida tanto quanto promette di fare… ad ogni modo, se per caso vi trovate in quel luogo oscuro che è wattpad, dove mi sto muovendo come fossi sulle uova, il mio profilo è questo: https://www.wattpad.com/user/ElenaTea90
non so quanto durerà la mia esperienza su quella piattaforma, potrei scocciarmi dopodomani – non sono sicura che mi piaccia. Efp rimane il mio punto di riferimento, non c’è nulla da fare: non sarà famoso o strutturato o dio sa cosa, ma per me è sempre una garanzia.

Saluti

Pandi

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Capitolo 12
*** 11. Schiene ***


11. Schiene



Si era abituato al campanello – e il resto dei cinque stelle con lui.

Non che questo avesse risolto il suo status: la maggior parte dei suoi compagni cercava di non stargli troppo vicino, alcuni temendo che dar troppa confidenza a un bocciato potesse, non si sa bene come, portare a delle conseguenze. Anche il gruppo cui si era accodato – Jukka, Radi, Asha e Zara – intervallava momenti di normalità ad atteggiamenti scostanti.

Anzi, a ben pensarci questo valeva per i primi tre: Zara manteneva una neutralità disarmante. E se diceva tre parole al giorno, era tanto.

Kisanee se ne stava per le sue, come molti altri usavano fare. Ogni tanto li intercettava per scambiare due parole, ma sembrava che il livello della conversazione non la soddisfacesse mai: perennemente annoiata, la bambina mal celava una boria cui non lasciava prendere il totale sopravvento per la sola noia di venire richiamata. Non ci teneva, a passare dal gatto. E pensava fosse molto stupido continuare a passarci, alla veneranda età di dieci anni.

Il continuo pungolare Asha, dovuto al suo perpetuo e anomalo studiare, s’interrompeva bruscamente durante gli allenamenti.

Non era un bambino particolarmente alto come Jukka, né grosso, e non aveva nemmeno maturato il tono muscolare, compatto e marmoreo, che aveva Miran: a vederli uno accanto all’altro, anche Zara sembrava più forte di lui.

Ma Asha correva. Correva come un dannato.

Non gli si riusciva a stare dietro. Non rimaneva mai senza fiato.
Miran se n’era fatto una ragione.

Scatto, dieci metri, flessione, indietro, flessione, indietro, venti metri, flessione, indietro – di dieci metri in dieci metri, aumentando il tratto percorso fra una flessione e l’altra fino a coprire tutta la palestra, lunga cento. E poi di nuovo, a scalare: cento, novanta, ottanta... Asha finiva sempre per primo, e ci volevano almeno altri venti secondi prima che qualcun altro lo raggiungesse. Quel qualcuno, se si trovavano nella stessa batteria, era Zara: considerata la differenza di altezza, anche lei era una scheggia nata – gli altri ci mettevano anche un minuto in più.

Finita la corsa Asha rimaneva immobile, in piedi, imponendosi il respiro profondo e lento per decelerare il cuore.

Miran, che aveva ormai notato questo comportamento, finito il suo turno di corsa gli si avvicinò: “Ehi –” iniziò, mentre si accovacciava accanto a lui e, ancora col fiatone, iniziava a spiccare alti balzi nell’attesa di istruzioni dal Magister. “– lo sai... che... se rallenti subito il cuore... poi... non ti crescono... i muscoli... vero?”

In risposta Asha divaricò le gambe, scendendo in spaccata – e lì rimase, concentrato.

“Ci sono molti modi per far crescere i muscoli –” sentenziò, vedendo che Miran né si fermava né accennava a volersene andare “– e io non voglio farlo.”

Effettivamente pareva molto più interessato allo stirarli, i muscoli, piuttosto che all’ingrossarli. Tutti loro avevano una buona mobilità, ma bisognava riconoscere che lui eccelleva. Non tanto quanto nella corsa, certo – però era come un pezzo di gomma.

“Perché... studi... sempre?” chiese Miran, lasciando perdere la sua attività ed emulando l’altro.

“Mi piace leggere.”

“Hai paura di essere bocciato?”

No.” Sibilò quello. “Tu?”

Miran corrugò la fronte.
Pensò.

Concluse: “Adesso sì.
“Perché non te ne vai?” domandò Asha, infastidito.

Miran si alzò in piedi: “Va bene, scusa.

“No – non in quel senso –” lo richiamò Asha.

Anche se forse avrebbe preferito che lo lasciasse in pace: era un po’ combattuto tra il continuare a parlarci e il liberarsene. Non gli piaceva interagire troppo a lungo con il bocciato.

“Perché non me ne vado dal Ludus?”


“I bocciati se ne vanno, a un certo punto.”


“Che importa quello che fanno gli altri? Se è per quello, gli altri non passano tutto il tempo che passi tu a leggere e studiare.

Asha storse le labbra, accusando il colpo.

“Se resti, Kisanee vincerà la scommessa.” Borbottò poi.

“Buon per lei. Cosa avete scommesso?”


“Niente. Non si può scommettere, lo sai.

Il Magister li chiamò, facendoli scattare sull’attenti: si ricominciava. “Non perdete tempo” Ammonì i due “Se non fate fare qualcosa al vostro corpo fra una corsa e l’altra, vi cederà a venticinque anni! Avanti!”.

Le attività fisiche del Ludus non includevano solo la corsa: l’atletica era accompagnata da allenamenti di ogni genere, a cui non sempre gli studenti sapevano dare un nome. Una delle loro poche certezze erano le arti marziali – pane per i denti di Jukka, che s’era prefisso l’obiettivo di battere Miran: le occasioni non mancavano, ma il bocciato non gli rendeva certo la vita facile.

Dopo la storia della cinta muraria Jukka aveva rincarato la dose, gonfiato d’astio: appena poteva era addosso al bocciato. In qualche mese aveva capito come si muoveva l’altro, e cercava di portarlo continuamente a terra – dove la massa contava molto di più che in altre situazioni. Effettivamente, una volta persa la presa sulle gambe, Miran era spacciato: ci vollero svariati tentativi e non poco sangue da parte di entrambi – naso e labbra erano delicati –, ma alla fine Jukka ci riuscì. Fece perdere definitivamente l’equilibrio all’altro, lanciandolo a terra: lo sovrastò rapidamente, bloccandolo in una presa saldissima – e ignorò per tre volte la voce del Magister, che gli ordinava di fermarsi. Miran continuava a battere per terra per dichiarare la resa, ma Jukka non ne voleva sapere: così messi, non lo poteva certo uccidere. Mantenne la sua posizione di dominanza finché il Magister non lo afferrò per la maglia, trascinandolo via.

Il resto del gruppo aveva interrotto quanto stava facendo per guardare la scena.

 

***

 

Videro, in lontananza, un ragazzino procedere a torso nudo.

Era quasi primavera, ma questo non significava che facesse caldo: solo da poco la temperatura era salita sopra lo zero – quattro o cinque gradi. Durante la notte ancora si formava del ghiaccio.

Neanche a dirlo, era Miran: camminava verso il dormitorio, la sopravveste sotto spalla, assieme al resto dei vestiti che non aveva addosso – e in mano, eterna, la sua borraccia.

Radi lo scrutò perplessa avvicinarsi a loro, ricordando quanto aveva detto sulle sue punizioni. Come faceva? Perché era ovvio che stesse arrivando dallo stanzino delle punizioni – o, visto l’abbigliamento, qualsiasi Magister lo avrebbe immediatamente bloccato, per poi portarcelo.

“Ciao!” li salutò, ancora lontano, con un tono solare. Solare.

Tornava da un incontro col gatto, e rimaneva perennemente allegro.

Radi non tollerava la cosa. Doveva essere fuori.

Zara concordava con lei – era raro che si sbilanciasse, ma su quello, non si poteva non farlo.

Ansiosa di capire quali assurdità potevano essere costate così tanto a Miran – la sua schiena era un susseguirsi di cicatrici, ora interrotte dalle nuova ferite sanguinanti – Radi domandò: “Che hai fatto?”

“Dodici anni.” Fu la risposta del bocciato.
Zara gli lanciò un’occhiata, proseguendo poi per la sua strada.

“E quindi?” chiese Asha, seccato.
Isia ha cambiato frusta. Mi devo ancora abituare.”
Piantala di chiamarlo per nome.” Grugnì Radi.

“Per cosa ti hanno punito?”

“Non è affar vostro –” iniziò l’altro, non troppo serio. A dirla tutta era vero, non ci si doveva interessare delle punizioni altrui.

Attese, Radi e Asha che lo squadravano scettici.

“Avete presente la zona dietro le palazzine mediche?”

“No.”

Miran si strinse nelle spalle. “Forse non ci siete mai stati. Sono a Nord, a un paio di chilometri dalla Sphaera.

“No.”

Ma perché quello faceva sempre cose che non era normale fare? Nessuno dei due aveva messo piede nelle palazzine mediche. Sapevano a stento che esistevano, ma si erano sempre ben guardati dall’infortunarsi abbastanza da metterci mai piede.

“Comunque, c’è una cosa strana, come una casetta, – un cubo di cemento, ecco, largo come una porta. E con una porta. Penso che scenda.”

“E...?

“Stavo solo guardando – non sono tanto agricola da entrare in un posto che va giù!”

I Magistri erano sempre stati molto chiari sull’andar giù. Anche nella Sphaera c’erano molte scale che andavano giù. Gli studenti erano più che liberi di andare giù: solo che non avrebbero più avuto modo di tornare su: questo avevano detto i Magistri.

“Te le vai proprio a cercare.”

“Il Magister che mi ha beccato era nuovo, secondo me. Non mi meritavo tutti quei colpi.”

E si metteva anche a discutere l’operato di un Custos.

Complimenti.

“Te lo meriti solo per questo –” mormorò Asha.

Bha.” Fece Radi. Serrò le braccia al petto e se ne andò.

Asha rimase un attimo lì, fermo, davanti a Miran.

Chi camminava attorno a loro si scansava – questa volta, non tanto per il campanello, ammutolito nella stoffa, ma per lo stato in cui era ridotto Miran.

“Non dovresti fare così l’esibizionista. Sembra che ti vanti del tuo farti punire, a mostrar la schiena in quel modo con queste temperature.”

“I vestiti sulle ferite bruciano.” spiegò lui, facendo spallucce per l’ennesima volta. “E poi bisogna lavarli.”

Asha non rispose. Sapeva che era il primo a non doversi curare di cosa facevano gli altri, ma i comportamenti del bocciato non potevano non indisporlo. Quelli come lui, nella sua mente, avrebbero dovuto lasciare il Ludus anni prima.

Senza aggiungere altro si allontanò, verso la Sphaera, irritato.

Come al solito.

Non faceva altro che far irritare gli altri, si rese conto Miran. Non sempre, in realtà. No. Ma a un certo punto quasi tutti se ne andavano via infastiditi, o gli abbaiavano contro.

A parte Zara. E Kisanee. La prima si faceva gli affari suoi, la seconda si faceva irritare da chiunque.

Riprese a camminare, organizzandosi mentalmente il resto della giornata: doveva andare in camera, disinfettarsi, bendarsi, muoversi per andare a pranzare e non perdere l’inizio delle lezioni pomeridiane. Accelerò il passo – le ferite doloranti a ogni sobbalzo.

Passarono tre giorni. 
Al quarto, Radi non si fece vedere. 
Al quinto, nemmeno.
Al sesto, finalmente, ricomparve: si muoveva male, mordendosi spesso le labbra. Nessuno disse nulla. Sorvolarono.

Ma Miran non ce la fece:
la affiancò sulla strada verso il dormitorio, chiamandola: “Ehi!”
“Vai via.
”

“Che hai fatto?”

“Affari miei, vattene – mi assordi, con quel campanello.”


“Si vede lontano un miglio che ne hai prese a iosa –
“E allora?” sbottò la ragazzina, fermandosi di colpo. “Che ti interessa?” Aveva un tono di voce decisamente troppo elevato: Miran si guardò attorno, sperando che nessun Magister li avesse sentiti. No. Salvi.

Riprese a camminare, sperando che l’altra lo emulasse. Rimase ferma.

A cinque metri da lei, notato che non si moveva, si arrestò nuovamente.
“Prima regola – non passare dallo stanzino due giorni di fila, o due volte nello stesso giorno. O prima di essere guarita del tutto.”

“Non mi interessa!”

“Abbassa la voce –” sibilò Miran. Di solito erano gli altri che ammonivano lui, non viceversa.

“Che hai fatto?” domandò nuovamente.
“Non te lo dirò mai. Ecco. Lasciami in pace.”
Miran desistette. La guardò un ultimo istante e poi riprese a camminare, allontanandosi.

Non era da Radi farsi punire. Figurarsi poi così tanto.

Fecero fatica a rivolgerle la parola per giorni, dato anche il suo pessimo umore. Giunta la seconda sessione dell’anno di sopravvivenza, se ne andò via da sola. Jukka la seguì tutto il tempo: quella passò almeno venti volte vicino alla cinta, scalando il muro e mettendosi a guardare oltre la rete.

Non la superò mai.
E non fece più coppia con Jukka per il resto dell’anno.

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 13
*** 12. Irrequieta ***


12. Irrequieta



I mesi passarono mentre Radi consolidava la sua nuova attitudine: se inizialmente era Miran quello che troppo spesso compariva in aula con la schiena dolorante, ora ci si era messa anche lei. Fra quelli del quinto anno prese a girare la voce che ci fosse una specie di gara in corso.

Come non pensarlo?
Quasi alternandosi, non passavano dieci giorni senza che almeno uno dei due non mostrasse i sintomi di una punizione.

Radi fuggiva ogni vago tentativo di domanda in merito.

Fu presto palese che Miran si riprendeva molto più in fretta di lei: se a lui bastavano due giorni per ritornare in perfetta salute – sei, nei casi peggiori –, alla bambina ne servivano almeno cinque.

Certo, lui era molto più pratico, in merito. 
Avvezzo era il termine adatto.
 Che Radi puntasse a quello? 
A un certo punto i cinque stelle smisero di interessarsi alla cosa: la presero come un dato di fatto, e basta.
Solo Kisanee, un giorno, osò dire qualcosa a Radi: le si sedette vicino all’inizio di una lezione, e, conclusasi, prima che l’altra potesse alzarsi dalla sedia, la fermò – letteralmente, afferrandola per un polso.

“Agricola.” Le disse, mantenendo la presa salda e il tono basso. “La storia degli studenti morti durante le punizioni è vera.”

“Lo so.” Fece Radi, secca, strattonando il braccio cui Kisanee si era praticamente aggrappata.

“Cos’è, tenti il suicidio?”

No.
“E allora?”

“Guarda che non mi fanno male. Non è nulla di tragico. Posso fare molte più cose se mi abituo al gatto.

Ma che ha quell’Agricola che vi piace tanto, eh? Jukka, tu – a momenti persino Asha inizia a dargli retta.

“Non gli stiamo dando retta –”

“Fai l’Agricola tanto quanto lui.”

“E a te che importa?”

Kisanee lasciò la presa, muovendo la mano in aria con un gesto seccato: “Niente, infatti.”

“Ecco. Lasciami in pace.
“Guarda che il bocciato è fuori.” – si ritrovò a insistere Kisanee  “Ve l’avevo detto, io, che non sarebbe andato via. Stacci lontana.”

“E tu da me!” gridò Radi. La sentirono tutti.

Anche il Magister.

“Magari ha... come si chiamano...? Quelle cose che vengono a voi femmine quando crescete.

Zara e Kisanee guardarono Jukka sottecchi.

“Quelle cose –” ci tenne a precisare Kisanee – “Si chiamano mestruazioni.”

“Il premestruo dura solo qualche giorno.” spiegò Zara, annoiata, gli occhi rivolti come al solito al piatto. “E a undici anni in poche raggiungono la maturità sessuale.”

“E comunque, appena hai il menarca, i Medici ti danno gli ormoni, così si fermano.”

“Si riducono.” la corresse Zara.

“Però potrebbe essere colpa della maturazione –” mormorò Asha. “Le mestruazioni sono solo una possibilità. Di sbalzi ormonali, d’ora in poi, ne avremo tutti parecchi.

Stranamente lo stavano ascoltando, e anche con una certa attenzione. Doveva ammetterlo: senza Radi che caricava Jukka – e viceversa – lo trattavano molto meglio. Non che gli fosse mai interessato degli sfottò riguardo il suo continuo studiare – ma era bello poter far conversazione senza venire zittiti ogni seconda volta. “Potrebbero essere quelli. Lasciamola stare.”

Tacquero, continuando a mangiare.

Fu l’ultima conversazione che ebbero in merito a Radi, per lungo tempo.

In fondo, si ripetevano tutti, non era affar loro. Ognuno si poteva comportare come credeva.

 

***


Arrivò l’esame. Per lui, ritornò.

Miran sedeva al suo posto, con largo anticipo. Aveva dormito solo perché il suo corpo aveva ceduto sotto il continuo martellare della mente: non poteva dire di sapere cosa fosse l’ansia, fino a quel giorno.

Man mano che arrivavano, tutti gli altri gli lanciavano lunghe occhiate, per poi muoversi verso la propria postazione.

Poco e bene, si ripeteva Miran. Poco e benissimo. 
Non troppo poco.

Aveva paura.

Come aveva detto ad Asha, questa volta aveva veramente paura.

Non si era mai chiesto che cosa avrebbe fatto una volta bocciato – non ci aveva mai pensato. Ora, invece, continuava a domandarsi che cosa avrebbe fatto se fosse stato bocciato un’altra volta.

Che senso avrebbe avuto continuare? Con due campanelli?

Di nuovo?

Due anni più anziano, e quindi in ritardo per definizione. Gli avevano insegnato che certi processi di apprendimento erano più efficienti quando erano piccoli. Se non imparava ora, non avrebbe imparato mai.

Se non ce la faceva ora, non avrebbe mai più potuto farcela.

Avrebbe rubato pasti alla Regio, per insistere in qualcosa che non era capace di fare: come osava, quando il resto della popolazione lavorava, per meritarseli? Chi era lui per pensare di essere più importante degli altri, a fronte di due bocciature, e per restarsene negli agi del Ludus?

Miran decise: non avrebbe accettato un secondo campanello.

“Bene.”

Non avrebbe mai e poi mai accettato un secondo, maledetto campanello.

“Iniziate.”

Rimase lì a lungo. Molto a lungo.

Pochi bocciati, in quella classe.
Non se lo aspettava.

Attese.

Attesero in tre. Mezzanotte.

Attesero in due.
Bisogna avere pazienza.
Prima fascia.

Attese da solo.
Molta pazienza.
Seconda fascia.

Terza fascia.

Ploc.

 

***

 

Nessun bocciato al quinto anno: non un evento unico, ma quasi.

Veramente interessante.

Saeb sfogliava fascicoli dalla prima ora del giorno precedente, concedendosi solo il tempo dei pasti e per un rapido riposo. In un giorno avrebbe dovuto iniziare. Faceva sempre così, si prendeva per tempo: uno o due giorni prima della comunicazione dei risultati. Studiava le schede dei cinque stelle, indovinando spesso chi sarebbe stato bocciato – il che gli risparmiava del tempo. Effettivamente per quell’anno aveva lasciato da parte solo due fascicoli, pensando che quegli studenti non sarebbero stati ammessi al sesto anno: tali Lagatos[1] e Radi.

Fa niente.

Avrebbe studiato anche quelli.

***


Non esultò. Non disse nulla.

Si limitò ad alzarsi per andare via, inciampando sui suoi stessi piedi.

Era stato un po’ come vedere la morte in faccia. L’effetto, per lo meno, fu quello.

Si addormentò nella camera del nuovo dormitorio senza nemmeno pensare a quel che sarebbe successo il giorno seguente – senza pensare e basta. Non ritirò detersivi, saponi, biancheria e altre: si buttò sul materasso, vestito com’era, e chiuse gli occhi.

Non aveva nemmeno preso la sua sesta stella.

Si risvegliò poco prima della prima ora con questo pensiero in testa, rendendosi conto che se non aggiornava immediatamente la sopravveste sarebbe stato un vero idiota: non aveva nessuna intenzione di perdere la prima giornata del sesto anni a farsi punire per una cosa così stupida.

Riuscì a fare tutto – inclusa la colazione, che ingurgitò – presentandosi in aula esattamente all’arrivo del Magister.

Salutarono, in forma breve, e sederono.

Miran non aveva idea di quanto largo fosse il suo sorriso.

Beota, pensava Asha.
 Un enorme sorriso beota.

Gli orari che seguirono furono serrati come non mai: lasciarono loro solo trenta minuti per sfamarsi al refettorio e condussero una giornata intera di lezioni teoriche, frontali e dense di matematica, fisica e balistica. In un giorno rispolverarono vecchi concetti e, sopra, ci costruirono mondi nuovi.

A fine giornata sapevano calcolare traiettorie, alzi efficaci ed effetti di attriti viscosi.

Passarono tutta la quinta ora a raffinare quelle poche nozioni di probabilità che avevano.

Miran era ricettivo. Non importava che avesse dormito solo per due fasce – assorbiva, come una spugna, tutto ciò che sentiva: troppo tempo era passato dall’ultima volta in cui si era trovato di fronte a spiegazioni di cose veramente nuove. Aveva perso la sensazione che si provava – ora era lì, serpeggiante in ogni sua vena, poderosa: il potere della conoscenza.

Che meraviglia.

Persino Kisanee uscì esausta da quella giornata.
Cenarono in silenzio, ognuno interessato solo a finire in fretta per potersi buttare a letto: 
non avevano nemmeno avuto modo di notare che, dall’ora mezza, Radi non era in aula.
 L’idea balzò in mente a Miran come una goccia che, rimasta immobile per un giorno intero sul limitare del rubinetto, si decide finalmente a scendere: “Radi.” disse, d’un tratto.

Jukka lo guardò perplesso. Radi non stava con loro da mesi, ormai: si era completamente isolata.

“Non c’era.” spiegò Miran, vedendo che aveva raccolto una serie di sguardi interrogativi.

“No.” Confermò Zara.

“Ma stamattina c’era.”

“Sì.
“Il primo anno!” s’illuminò Miran “Mi sono dimenticato!”

 “Meglio per te.”

“Mi ha rubato il primo anno!”

Ma che dici?” A Jukka quel discorso sembrava non avere né capo né coda. “E anche se fosse, che ti interessa?”

Giusto.
 Che gli interessava? 
Lui era al sesto anno, adesso. Praticamente un Custos.
 Se si era dimenticato di andare a vedere di straforo la cerimonia del primo anno, era perché aveva molto di meglio da fare. Non doveva curarsi di Radi, o di furti ipotetici.

Furto di che? Riprese a mangiare.


La trovò appostata davanti alla porta della sua camera, le braccia incrociate e l’espressione spavalda.

“Ciao –” la salutò, sorpreso.

“Non mi hanno scoperta.” Esordì lei, gongolante. “Sono stata lì dall’inizio alla fine, e non mi hanno vista. Non so proprio come facevi a farti beccare, lì dentro – al buio.

Al solito, Miran non raccolse la provocazione. Non era mai stata una gara.

“Sei brava.”

“Più di te.”

Era quello, il punto?
 Invidia? 
No, non solo.
 Miran la scrutò, cercando di capire perché si stesse comportando in quel modo. Poi decise che la via migliore era chiederlo direttamente a lei: “Perché ti comporti così?”
“Tu perché lo fai?” gli rimbalzò la domanda.

Miran abbassò gli occhi, pensandoci un po’. Alla fine si strinse nelle spalle.

“Non lo so.
“Non ci credo. La fama?”

“Che fama? Non esiste la fama – non puoi diventare un Custos pensando alla fama. È roba da Bellator, pensare alla fama – o da due stelle. Siamo grandi, noi.”

“Per mostrare che sei migliore di noi?”
“Smettila –”

“Sei un bocciato.”

“Radi, ma che hai?”

Voglio andare oltre la cinta.” 
Miran non ci capiva più nulla.

Voleva dormire. 
No, voleva capire. 

No. Dormire.

Strizzò gli occhi, la testa in una morsa.

“Va bene, ma io ti avevo già proposto...”

“No. Da sola.
E io che centro?”

“Sei tu che me l’hai chiesto.”

“Chiesto cosa? Ti ho chiesto che hai e perché ti comporti così, che c’entra la cinta?”
“C’entra!” La chiuse lì. Si voltò, andandosene.

Per quella sera, Miran decise di lasciar perdere.

Dormire. 
Dormire era più importante.

 

 

 

 

 

 

_____________
[1] pronuncia: Làgatosh ( “sh” come in “Macintosh”)

 

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Capitolo 14
*** 13. Sotto ***


13. Sotto



Kisanee soffriva spesso della sua intelligenza: sentiva in continuazione discorsi che rasentavano il ridicolo, vedeva i suoi compagni stupirsi delle più sciocche banalità e commettere errori su questioni ovvie e scontate.

Il continuo dover interagire con i suoi coetanei la stremava.

Zara e Asha costituivano una leggera eccezione: non li aveva mai sentiti pronunciare le assurdità di cui molti altri si riempivano la bocca. Inizialmente pensava fosse perché non parlavano affatto.

Poi iniziò a pensare che un minimo di affinità, forse, c’era: non era sola, a questo mondo. Con il quinto anno se ne convinse sempre più.

All’inizio del sesto Kisanee cercava di tenersi quei due il più vicino possibile, neanche fossero degli scudi con cui ripararsi dal resto dei sei stelle; Jukka e Miran erano un effetto collaterale, ma poteva cercare di ignorarli.

Difficile.

Ma comunque meglio quei due dei restanti centosettanta.

Seduti a terra nella palestra, erano intenti ad allacciarsi ai polsi e alle caviglie i pesi per la corsa – cilindri di metallo gommato che emettevano un terribile odore di sudore rancido. Sarebbe sopravvissuta anche questa volta.

Miran, piazzato davanti a lei, esibiva una faccia insolitamente meditabonda.

Aveva sentito lui e Radi parlare, la sera prima. Cosa si fossero detti non lo sapeva – ma era abbastanza convinta di aver capito cosa stava succedendo, e ben meglio di loro.

Radi era entrata in competizione con lui.

Miran le aveva rubato Jukka.

No, così era banalizzante:
Miran l’aveva messa di fronte all’anomalia, quale
lui era. E Radi, di colpo, aveva scoperto che il Ludus non era fatto di normalità, ma di anomalie – prima fra tutte il suo caro Jukka.
Ma anche Asha, che tanto aveva molestato.
O Zara. Chi era Zara, sino ad allora? Una bambina che parlava poco. Serissima. Sulle sue.

Scoprire che anche Zara era stata capace di andare oltre la cinta – e chissà cos’altro faceva, che non sapevano – aveva chiaramente turbato Radi: lei era rimasta l’unica che non... che non. Le mancava qualcosa.

Il suo ego, immenso, aveva ceduto. Radi si era sentita lasciata indietro e ora cercava di riprendere il passo.

Era ovvio.

Solo che lo stava facendo in un modo veramente stupido.

Non avrebbe mai avuto la resistenza di Miran: poteva provarci per tutta la vita – non ci sarebbe comunque riuscita.

Perché non ci arrivava?

“In piedi!”

 

Una lunga fila si snodava fra la boscaglia, a Nord, sotto una fastidiosa pioggerellina gelata. I sei stelle procedevano di corsa, uno dietro l’altro, senza avere idea di chi fosse in testa al gruppo. L’importante era seguire chi stava immediatamente davanti.

In breve tempo Miran si accorse che stavano raggiungendo una zona a lui ben nota: senza mai rompere la fila iniziò a scendere le scale.

Sorrideva, spudorato: finalmente.

Erano entrati nella casupola di cemento – il cubo grigio che pareva servire unicamente a ospitare una porta. Una singola porta.

E le scale, che andavano giù.

Non fu l’unico a lasciarsi scappare un sorriso, per quanto il suo fosse il più eccessivo.

Scendevano.

Finalmente scendevano.

Immersi nella penombra, prestarono attenzione a non inciampare fra i gradini. Il ritmico rumore dei loro passi iniziò a riecheggiare, spandendosi all’interno di corridoi larghi e sempre più oscuri. Non avevano neanche il tempo di abituare gli occhi alla pochissima luce che, flebile, irradiava dal soffitto: già diminuiva.

Continuarono a correre, nel silenzio e nel buio che via via si faceva più fitto; d’un tratto l’eco scomparve: la fila rallentò, e si fermarono. Miran riusciva a vedere solo la sagoma di chi gli stava davanti. Doveva avere pazienza per riuscire a percepire dettagli maggiori di quel che lo circondava. Sopra di lui, notò, c’erano una serie di piccole luci: sembrava un cielo stellato – se non fosse stato per l’ordine, preciso e artificiale, con cui erano disposti i piccoli faretti che lo componevano.

Chiamarono. Uno per volta – era una voce maschile, calma e vigorosa, persa da qualche parte nel buio. Si spostava – li stavano disponendo in righe, realizzò dopo un po’ Miran: ora quasi riusciva a vederle.

Miran!”


Scattò verso la voce.


“Fermo qui. Mitrae[1]!”


Attesero, su di un attenti che oramai veniva loro naturale, mentre l’uomo terminava l’appello. Zack[2]. Zara. Zeisha[3]. Zuu’mam[4].

Silenzio.

Rimasero immobili dov’erano, respirando lenti: dei passi. C’era più di una persona. Ombre che si muovevano intorno a loro: si fermavano, forse osservavano, e andavano avanti.

Miran iniziò a sentirsi agitato.


No, non doveva.
Doveva avere pazienza.

Ogni tanto sentiva qualcuno vicino a lui compiere un’inspirazione profonda, o accelerare il ritmo del respiro.

Pazienza.

Lui era il re della pazienza. Aveva aspettato per dodici fasce il risultato del suo ultimo esame.

Avrebbe aspettato anche qui. Fosse dovuto rimanere in piedi per altre dodici fasce, lo avrebbe fatto.

Lo avrebbero fatto tutti.

Il tempo scorreva, lui vedeva sempre meglio: c’era una Custos con dei capelli insolitamente lunghi e gonfi. Gli si avvicinò, studiandolo. E poi proseguì oltre.

C’erano altri due uomini. Forse erano in tre. Si muovevano con la tranquillità di chi cammina in pieno giorno, accompagnati dal frusciare di fogli e, ogni tanto, il grattare della grafite sulla carta. Uno scriveva con rapidità, un altro tracciava linee lente, dolci e continue.

Miran.”

Sussultò. A fatica resistette all’impulso di voltarsi per vedere in volto il proprietario di quella voce, dal tono lieve e leggero – non un sussurro, ma quasi.

“Chi è tua madre?” gli chiese.

“Io non ho madre.” rispose meccanicamente Miran, gli occhi inchiodati sulla nuca del compagno davanti a lui.

L’uomo passò oltre.

Il ragazzino sentì che suo respiro e il suo battito avevano accelerato, fuori dal suo controllo: cercò di calmarli, a fatica. Asha sapeva regolarli come niente fosse – lui no. Avrebbe dovuto seguire il suo esempio, ed esercitarsi di più: si sentiva impotente sul suo stesso corpo. Non doveva succedere, si disse. Mai più.

“Zara.”


La bambina non mosse un muscolo.

Saeb attese qualche altro secondo, prima di continuare.

Divenne un minuto.

“Chi è tuo padre?”
“Io non ho padre.”

“Chi sono i tuoi fratelli?” chiese la Custos a Radi.
“Loro.”


La donna procedette.

“Cosa ti attende?”

“Non lo so.” rispose Asha.

“Dove stai andando?”

“Guidami tu.” C’era del retorico, nel tono di Kisanee.
Saeb non poté non trovarlo divertente. Sorrise.

La ragazzina lo scrutò di sfuggita, tradendo un lontano fastidio.

“Cos’hai in più di loro, Kisanee?” chiese Saeb, placido.

“Nulla.”

L’uomo rimase lì. Non si mosse.

Poi domandò nuovamente, senza mutare in alcun modo il suo tono: “Cos’hai in più di loro, Kisanee?”
“Nulla.”

Quello non si mosse per un altro po’. Poi si allontanò da lei.

“Chi sei?”
Jukka.”
Chi sei.”
“Nessuno.”

Nel tempo in cui venivano interrogati, avevano del tutto abituato gli occhi all’ombra che li circondava: riuscivano a vedere i quattro Custodes aggirarsi tra di loro, privi della casacca rossa dei Magistri.
Due uomini e due donne.

Durò a lungo: camminavano, calmi, si fermavano; scrivevano, domandavano; andavano avanti.

E loro, i bambini, rimanevano immobili.

In riga.
 A oltranza.

Finché i quattro non iniziarono a convergere, allineandosi di fronte a loro.
Da lì, continuarono a osservarli per altri lunghi minuti.

Uno dei due uomini, longilineo e con un vello di barba scura, fece un passo avanti: il mento alto e le mani unite dietro la schiena, dritta, lasciò passare un’altra manciata di minuti.

Il tempo era importante.

I tempi.

Gli occhi dei sei stelle erano tutti su di lui.

Avrebbe detto qualcosa? O no?


Sì, avrebbe detto qualcosa.


Ma quando?


All’improvviso: “Il mio Nomen è Saeb.”


Parlava lentamente, scandendo. Limpido. La voce dell’appello:
“Del mio Cognomen e della mia Gens non vi dirò.” continuò il Custos, allungando la pausa del punto. “Poiché essi –” riprese “– in questa sede, non contano. Quel che importa è ciò che siamo.”

Silenzio.

“Noi siamo Rectores Magistri.” Dichiarò allora. Diede ai ragazzini abbondanti secondi per assimilare il nuovo termine, vigile sulle loro reazioni. “Significa che se mai dovrete scegliere fra un mio ordine e quello di un Magister qualsiasi, seguirete quanto vi dico io.”

Tacque, lasciando il tempo a definire le parole appena dette.

Il tempo, i tempi.

“Il luogo in cui vi trovate si chiama SubSphaera. Non tornerete qui fino al prossimo anno, in cui inizierete il secondo ciclo d’istruzione. Ma sappiate che è qui che si formano i Custodes.”

E ancora, silenzio.

“Ci sono molte cose che non sapete.”

Soppesato silenzio.

“E di queste, ne apprenderete una minima parte.”

Infinito silenzio.

“Ma anzi tutto, imparerete a mantenere i segreti.”

Miran temeva di non farcela: ogni suo muscolo fremeva.


“Lasciate perdere il gatto.”

Il buio mangiava le loro menti.

Saeb giocava col tempo, pesando il silenzio, distribuendo la voce con meditata e precisa parsimonia. Doveva dar modo ai sei stelle di chiedersi: cosa? Cosa c’era, dopo il gatto?

“Siete praticamente adulti.”

Che cosa significava essere praticamente adulti, al Ludus?

Buio.


Ecco cosa significava.


“Disobbedire a un Rector Magister comporta la morte.”


Buio totale sul futuro.


D’altronde erano cresciuti così, senza sapere. Imparando ad aspettare.

E funzionava: avevano aspettato; alla fine, avevano saputo.


La pazienza vinceva.

“Possedere informazioni significa essere caricati di enormi responsabilità. Con una parola di troppo potreste distruggere l’intera Regio. Un solo, stupido, sbaglio – e comprometterete anni di lavoro sugli studenti più piccoli. Dite qualcosa che non deve esser detto ai vostri compagni più giovani, e ci priverete di intere annate di Custodes. Danni immensi, che s’ingigantiscono in breve tempo, sino alla catastrofe.”

Come anche solo pensare di compere un delitto del genere?

“Fatelo, e siete morti. Non di una morte onorevole come quella che consacra il Custos sul fronte. Semmai, una fine da Agricola.”

Non era nei loro piani.


Non lo avrebbero fatto, si dissero. Non erano quel genere di allievi.

“E quindi, due cose imparerete quest’anno. La prima è
tacere.”

Si prese un altro, lungo minuto. Doveva assicurarsi che il messaggio fosse passato.


“La seconda è sparare.”


Ora.


Ora le espressioni erano più interessanti.


Non c’era verso che alcuno di loro avesse sentito o pronunciato quel verbo negli ultimi sei anni – e le memorie della prima infanzia tendevano a sfumare rapidamente, al Ludus.

Conoscevano i principi di conservazione del momento e dell’energia. La teoria degli urti. Il concetto di rinculo. Sapevano cosa fosse l’angolo d’alzo e sapevano calcolare traiettorie di proiettili. Che esistessero oggetti come pistole, però, capaci di sparare – questo non glielo avevano detto. Tutti i Magistri si ben guardavano dal pronunciare queste parole in presenza degli studenti. Bisognava sempre procedere poco per volta.

Pochissimo, per volta.

Miran sentì lo stomaco stringersi, gli addominali contratti in una morsa di ferro.

Non aveva la più pallida idea di cosa significasse, sparare.

Ma doveva essere qualcosa di importante. Di potente.

Serio, come la minaccia che avevano appena ricevuto.

I giochi erano aperti.

I sei stelle erano avidi. Avidi di acquisire quel poco che era loro concesso sapere – ma di più di quel che sapevano il giorno prima. Magistralmente dosato.

Ancora. Datecene ancora.


Vedrete cose ne sapremo fare.


Avrebbero mostrato ai Rectores che erano pronti. Avrebbero dimostrato di essere adulti.


“Vedrete.” Disse il Rector, con un sorriso gentile. “Verrete su bene.”


Portò lentamente il pugno destro al petto:
poteva quasi sentire il fremere dei ragazzini. Ora che li aveva caricati, doveva farli sfogare. Far buttar fuori loro tutta la tensione, l’ansia, l’energia che gli aveva sapientemente fatto accumulare.

A Jukka quasi tremava la mano, il pugno premuto sulla cassa toracica.

Nel mantenere ritta la schiena Kisanee si era ritrovata con ogni singolo muscolo del corpo contratto: mille elastici tesi, dalla pianta del piede alla nuca, dalle scapole alle spalle, alle dita.

Radi serrava le labbra tanto da farle scomparire, strette fra i denti.

“Chi siete.” Iniziò il Rector.


“Nessuno.” Risposero in coro.


“Da dove venite.” Continuò, alzando la voce.


“Non ha importanza.” Loro lo seguirono, parlando più forte.


“Cosa avete in più degli altri.” Aumentò ancora il volume.


E loro con lui: “Nulla.”


“Chi è vostra madre.” Tuonò.


“Non abbiamo madre!”

Sempre più in alto.


“Chi è vostro padre.”


“Non abbiamo padre!” Urlarono.


“Cosa vi attende.”


“Non lo sappiamo!”


“Dove state andando.”


“Guidateci voi!”

Rossi in volto. Non certo perché mancasse loro l’aria nei polmoni: buttavano fuori.


Tutto, fuori.


Era raro poter alzare così tanto la voce.
Più andavano avanti, più si elevavano: la schiena ancor più dritta di quanto non fosse mai stata. Le spalle più larghe di quanto non le avessero mai tenute.

Ogni respiro serviva a inglobare quanta più aria possibile, per poter far risuonare quelle parole nell’immensa sala.

Zara si accorse che le lacrimavano gli occhi: sbarrati, non aveva sbattuto le palpebre da quando la forma lunga del saluto era iniziata. Non aveva mai provato nulla del genere.

Come furie.


C’erano loro. C’erano i Rectores. E basta.

Il buio. La sala. Scomparsi.

C’era la voce degli altri. Il coro.
Insieme.

Siamo qui.
Ci siamo.

Siamo pronti.

Guardateci.


Guidateci.


Fateci mostrare quanto siamo potenti.


“Per chi combatterete?”


“Per la Regio!” scandirono, il ritmo unisono.


“Per chi combatterete?”


“Per i nostri fratelli!”


“Chi sono i vostri fratelli?”


“Loro!” un boato. “Sono i nostri fratelli!”


“Pro Regione!”


Patriae fratres!” ruggirono, il pugno battuto con energia contro il petto. “Fati fratres!” E di nuovo, a palmo aperto – forte. Fortissimo. Il colpo rimbombò sul loro scheletro, assorbito dalla cassa toracica, togliendogli il fiato.

Così rimasero, immobili.
Tremanti.
Ansimanti.
“Andate.” Ordinò il Rector, tornando al suo tono saldo, ma quieto: In confronto a un attimo prima, sembrava tenue. “E che nessuno con meno di sei stelle cucite alla manica sappia.”

Non poteva succedere.

 

Il saluto.

La formula lunga.
Ci credi. Ogni giorni di più. Ogni giorno di più.

Finché non la urli nel buio, con gli altri.
Un’unica voce.
Non puoi non credere fermamente in ogni singola sillaba del saluto, dopo quell’esperienza.

Tu sei il saluto.

Quella è la tua esistenza, condensata in poche, precise parole. Da urlare. Da sfiatare.

Tremi. Tremano muscoli che non conoscevi.


Sei dentro.


Nessun sei stelle disobbedisce a un Rector.
In un primo momento, al sentire la minaccia di morte, sussulti: poi capisci.
Non è una minaccia. È un riconoscimento. Un premio.
Sei grande abbastanza, capace abbastanza, da poter gestire la tua vita. Ricordando però che essa non appartiene a te, ma alla Regio, che ci ha investito: ti ha sfamato, educato, nutrito, e dato la possibilità di essere ciò che sei. Considerato quanto grande è il valore della ‘tua’ vita, questo significa che ti viene riconosciuta la capacità di proteggere, da solo, qualcosa di tanto prezioso.

Faber est suae quisque fortunae.

Hai tu il coraggio di distruggere gli investimenti della regio? Sei tanto agricola da buttare via quel che è stato costruito?

Vuoi davvero dimostrare a Magistri e Rectores che si sono sbagliati sul tuo conto, sovrastimandoti?

Chi mai oserebbe?

Arrivi alla SubSphaera già persuaso: ne esci sicuro.

Tu sei lì perché devi essere lì. Vuoi essere lì. E resterai lì.

Sei al tuo posto.
Tu sei già un Custos.

 

 

 

 

 

_____________
[1] pronuncia: Mìtræ

[2] pronuncia: Sak

[3] pronuncia: Zèiscia

[4] pronuncia: Sù-màm

 

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Capitolo 15
*** 14. Sparare ***



14. Sparare



Gli allenamenti che seguivano il primo assaggio di SubSphaera sfioravano sempre il prodigioso.

I sei stelle infrangevano ogni limite che pensavano di aver avuto sino al giorno precedente: correvano più in fretta, saltavano più in alto, mantenevano le isometrie più a lungo. Tutto era portato all’eccesso: avevano tanta di quell’energia, in corpo, che l’impossibile si faceva possibile.

Se mai si concedevano d’esser distratti per un solo attimo, quella distrazione era la stessa per tutti: sparare.
Che significava, sparare?
Quando mai lo avrebbero visto, lo sparare?
I bambini del Ludus stavano lontani dalle armi da fuoco. Dal fronte. Da tutto ciò che era la guerra. La violenza a cui forse avevano assistito in passato, nei villaggi o a Pagus, era fatta di pugni, schiaffi, calci; al più lame e bastoni. A stento potevano collegare quella nuova parola a un contesto del genere.

Sparare.
Assomigliava a separare. Cosa?
Come?
Pazienza.
Bisognava avere pazienza.

Pazientarono per cinquanta giorni.
Le lezioni si susseguivano sempre più intense, le notti in parte spese a ripassare, rivedere, o cercare di capire quanto era sfuggito loro durante il giorno per non giungere alla lezione successiva impreparati, col rischio di non comprenderne una sola parola.
Sarebbe stata la fine.
Ma bisognava anche dormire, o il danno si sarebbe equivalso. Questo lo ben sapevano.
I pasti erano diventati l’occasione per chiarirsi le idee fra loro. Sapevano benissimo che tutto quel che veniva loro insegnato avrebbe avuto enorme importanza nel momento in cui avrebbero iniziato a sparare.
Qualsiasi cosa volesse dire.
Ma i collegamenti non erano immediati: da decine di giorni quel che facevano era pura matematica a non finire. Concetti sempre più astratti. Conti sempre più rapidi.
Mal di testa atroci, da smaltire nelle ore di allenamento.
Avrebbero continuato ad apprendere, a dare tutto quel che potevano, per aver libera la strada e poter sparare.

“Due ics.”
“Due.”
“Due ics quadrato.”
“Quattro ics.”
“Numero perfetto alla ics.”
“Numero perfetto alla ics.”
“Trigonometria.”
“No, dai!”
“Seno!”
“Coseno!”
“Coseno!”
“Meno Seno!”
“Tangente!”
“Cotangente!”

Jukka tirò uno scappellotto sulla nuca di Miran: “Ma sei stupido?”
“Coseno alla meno due.” Corresse Asha: ormai veniva usato come enciclopedia ambulante. C’erano voluti anni, ma il suo continuo leggere e studiare stava dando i suoi frutti. Abbondanti frutti: a pranzo e a cena, li dirigeva lui.
“Oppure?” chiese, continuando la sua mansione di interrogatore onnisciente.

“Uno più tangente alla seconda.” Rispose Zara. Quando faceva questi conti, la bambina aveva lo sguardo puntato in mezzo al tavolo, concentrato. Sembrava anche lei far fatica a starci dietro.
Tutte le tavolate dei sei stelle erano così: gruppetti organizzati a continuare la lezione insieme, o singoli intenti a studiare per conto loro. L’una non escludeva l’altra: Kisanee, ormai allegata al gruppo di Jukka, tendeva sempre ad isolarsi un pochino per studiare da sola. Mentre in sottofondo sentiva gli altri derivare o integrare – a seconda del giorno – le formule proposte da Asha, lei si esercitava sulla statistica: viaggiava da mesi con appresso pacchi e pacchi di fogli bianchi, che riempiva di conti.
“Cotangente di ics quadro!”
Silenzio.
“No.” Si arrese Jukka.
“Non ce la faccio.” Miran con lui.
Zara tacque: desistere non era da lei. Si prese qualche altro istante.
“Meno due ics cotangente quadro di ics quadro.” Asha annuì, insieme a Kisanee – la quale nemmeno si rendeva conto di stare compiere quel gesto.

“Andiamo a metterci i pesi –” mormorò Jukka, alzandosi in piedi con il vassoio in mano. “O Asha deriverà anche me.”
“Agricola.” Fu la risposta del ragazzino.
Miran raccolse la sopravveste: il tintinnio del campanello era diventato un’abitudine tale da far sì che, ormai, molti di loro non ci prestassero più attenzione.

Ogni tanto, Miran cercava la testa rossa di Radi con lo sguardo: la trovava sempre appostata fra i primi banchi. Sola. Non sembrava che la cosa la affliggesse in alcun modo – anzi, aveva la stessa espressione di tutti gli altri, fra l’esausto e il concentrato. A volte persino entusiasta.
Dall’inizio del sesto anno, Miran era stato talmente impegnato a tenere il passo con tutte le nozioni e gli allenamenti che gli venivano propinati, da non avere il tempo materiale di far qualcosa che lo portasse da Isia. Radi, evidentemente, sì: già tre volte l’aveva scorta con la schiena bendata.
Aveva ancora in mente quell’assurda conversazione cui l’aveva costretto la ragazzina: in parte sperava nell’arrivo di una sessione di sopravvivenza, così da pedinarla e, una volta che fosse stata oltre la cinta, capire cosa diavolo ci fosse di tanto importante nello scavalcare. In fondo lo avevano fatto quasi tutti. Perché per lei era diventata una cosa tanto eclatante?
Questi pensieri erano però solo echi, nella testa di Miran – sempre tutta protesa verso lo scoprire cosa significasse sparare. Non aveva tempo di preoccuparsi anche di Radi, e non doveva farlo, si diceva ogni qual volta si scopriva a cercarla. Non è affar tuo, si ripeteva, quando notava le sue bende. Hai cose più importanti.
Hai cose molto più importanti. Non te ne curare.
E alla fine, smise.

Non se ne curava più.
Flesso per legare i pesi ai polpacci – un gancio in meno del solito, doveva essergli ancora cresciuta la gamba – l’unica sua preoccupazione era assicurarsi di non dimenticarsi, durante la notte, quanto imparato durante il giorno.
Silenzio.
Levò il capo, insospettito dallo scemare dei rumori, sino al sentire solo i respiri dei compagni: scostò lo sguardo, finché non vide che sulla soglia era apparso un Custos.
Come gli altri, s’immobilizzò.
Saeb, fermo, silente, le braccia conserte, attese senza dir nulla d’avere l’attenzione di ognuno di loro. Non ci volle molto.
Entro meno di un minuto ogni paio d’occhi era per lui.
Alla luce del giorno, il suo volto era notevolmente irregolare. Un susseguirsi d’ombre, più dense e meno dense, e – gli occhi. Gli occhi erano strani. Nel buio della SubSphaera, non si potevano notare. Adesso sì. Almeno in parte.
Opachi.
“Seguitemi.”

Corsero per fasce intere. Due, forse tre.
Tramontò il sole.
Erano anni che non correvano per così tanto tempo: rigorosamente in fila, seguivano lungo sentieri mai battuti chi li precedeva. Nel crepuscolo, circondati da alberi e arbusti, scorsero una radura in lontananza. Il tempo di arrivarci e posizionarsi, in righe, ed era scesa la notte.

Mai buia quanto lo era stata l’oscurità della SubSphaera.
Sembrava però che ai Rectores le tenebre fossero care. I quattro, sempre loro, si allinearono nuovamente di fronte agli allievi: i ragazzini già preventivavano lunghi silenzi d’attesa. Preparati al logorante scorrere del tempo, Saeb li colse invece alla sprovvista: “Vi trovate al poligono di tiro.”
Senza neanche salutare.
“Ora.” Fece un cenno agli altri tre. “Per arrivare fino a qua, con il passo che abbiamo tenuto, ci vogliono circa cento cinquanta minuti. Prendetene nota, perché quando sarete chiamati al poligono non avrete un preavviso maggiore di questo. Verrete a turni: i primi si svolgono all’inizio della prima ora e gli ultimi alla mezzanotte. Dovete essere sempre pronti. Così funziona nella vita reale.”
Gli altri tre Rectores distribuivano loro dei pacchi, piccoli e pesanti, avvolti in buste di plastica scura.
Come Miran ebbe l’oggetto fra le mani, non poté non notare la massa con cui gravava. Doveva essere denso, compatto. Pesava poco meno dei pesi agli avambracci.
Lo guardò.
No.
Tornò a guardare il Rector.
Attendi, agricola.
Hai atteso due mesi, aspetterai un altro minuto. Finì la consegna. Altro tempo.
Tempo.
Tempo.
Maledetto tempo.
“Potete aprire.”
Sfilò il cofanetto dalla busta.
Aprì.
Rimasero impalati a guardare quell’oggetto. Una volta aperta la custodia, appoggiato su della spugna bugnata, un pezzo di ferro; a lato, tre scatole più piccole, perfettamente allineate.

Guardando, Miran attese.
Attese.
A ben pensarci, si disse – non aveva detto nulla, il Rector.
Aveva detto di aprire.
Non di non toccare.
Gli altri sembravano non azzardarsi a muovere un muscolo, se non per quelli che dirigevano il loro sguardo.

Ma non lo aveva detto, si ripeté Miran. Poligono di tiro. Tirare. Lanciare. Balistica.
Proiettili.

Urti.
Momento. Energia.
Urti.
Elastici.
Anaelastici.
Unire.
Separare.
Sparare.
E mentre legava questa catena di concetti, dimentico dell’universo intorno a lui, fece scivolare l'indice sul rilievo del mirino, quasi tagliente, e continuò poi sul carrello, freddo. Osservò con minuzia le sfaccettature del metallo argenteo, che in taluni punti riluceva, nonostante la notte. Scavalcò la traccia di mira, scendendo sull'impugnatura. Seguì la curva del fusto, che rientrava bruscamente e risaliva con dolcezza. Ne annusò l'odore, avvicinandosi un poco: pungente. Cadde fino al buco del caricatore, vuoto, risalendo poi l'impugnatura dall'altro lato. Tastò l'anello del grilletto, osservando la strana levetta, e risalì fino alla canna.

Prese il pezzo di ferro in mano.
L'impugnatura gli risultò naturale: l'indice destro finì diritto sul grilletto.
Pesava.
Lo avvicinò al volto – di poco. Lo allontanò, intuendo che non era saggio portarlo così vicino alla testa.
“Ti ho detto forse di prenderla in mano?”
Saeb era di fronte a lui.
Miran risollevò di scatto gli occhi, drizzandosi e guardando il Rector.
“No.” Fu la sua risposta.
L’uomo aveva veramente degli occhi strani.

Asimmetrici. Il destro era opaco, perlaceo – quasi bianco. Sul sinistro si allungava una macchia dello stesso colore.
Pareva latte versato.
Saeb continuò a guardarlo, senza un fiato. Attendeva che Miran finisse la frase. Glielo leggeva negli occhi che voleva finire la frase.
Finisci la frase.
Dillo.
Avanti.
“Non hai detto di non farlo.” Saeb sorrise.

Stava lavorando.
Un poco alla volta, uno per volta. Con Miran era stato facile: si era già innamorato di quell’oggetto. Non gli sarebbe mai servito nient’altro.
Custos e finis. Serviti su di un piatto d’argento.
Quello era il suo mestiere: capire cosa più si addiceva a loro. Guidaci tu, diceva il saluto: non erano parole da prendere alla leggera. Da anni Saeb conduceva per mano i sei stelle alla loro futura mansione – la principale, per lo meno. Ognuno era diverso. Ognuno aveva il suo modo di combattere, studiare, affrontare l’esistenza. Se i Rectores lo individuavano per tempo, il sistema aumentava di efficienza.
E Saeb era particolarmente portato, per la mansione.
L’uomo indicò il limitare della canna: “Da lì esce la pallottola.” Spiegò. “Premi.”
Miran premette la piccola leva metallica: oppose una resistenza inaspettata. Poi, a un certo punto, superò la soglia. Sentì: clic.
Il Rector gli prese la custodia di mano, estraendone una delle tre scatole.
“Adesso è scarica. Metti i proiettili.” Disse, porgendogli il caricatore.
Miran si illuminò.
Proiettili.
Aveva capito. Aveva già capito.
Infilò il caricatore nel calcio, finché non lo sentì bloccarsi.
“La sicura.” Mostrò Saeb. “Adesso è inserita.”

Controllò attorno a lui la disposizione dei ragazzini: erano abbastanza larghi da poter avere un canale sicuro.
Abbastanza sicuro.
“Spostati di un passo a sinistra.”
Miran obbedì.
“Stendi il braccio.”
Chiuse un occhio.
“Il mirino.” Indicò. “Allinealo.”
Sei anni e mezzo al Ludus servono a questo.

L’intuizione arriva da sola. Pensare rallenta. Ascoltare i superiori evita gli effetti collaterali.
Saeb vide Miran portare la mano sinistra, libera, a coprire il resto del calcio: affiancata all’altra, i due pollici erano pressoché uniti. Il carrello era libero. Bene.
Il ragazzino non si mosse, in attesa.
Dopo qualche secondo, iniziò a far scivolare la gamba sinistra in avanti. Più comodo.
“Così si toglie la sicura.”
Gliela disinserì lui. Miran faceva lenti e profondi respiri.
“Un proiettile uccide, Miran. Bada che davanti sia libero. Presa salda. Attento al rinculo.”
Sentì i muscoli tendersi nel torace, come intenti a organizzarsi da soli ad attutire il colpo. Non aveva idea di quanto sarebbe stato potente.
La posizione non era perfetta, ma per essere istintiva era delle migliori.
Il Rector serrò le braccia al petto, decretando mentalmente che nessuno si sarebbe infortunato.
Saeb stava lavorando. “Quando vuoi.”

Un sussulto come non ne compivano da molto tempo.
Quasi terrore. Un colpo. Un’esplosione. Un lampo.
Il tuono a due metri di distanza.
Per alcuni un sibilo all’orecchio.
Si voltarono verso Miran, il cuore che pompava all’impazzata: quello tremava, le sopracciglia alte sulla fronte sorpresa, gli occhi sbarrati – le labbra, dapprima dischiuse per lo stupore, s’incurvavano sempre più.

Gioia pura, che montava sull’inquietudine.
Qualsiasi fosse il nome dell’oggetto che aveva in mano, quell’oggetto era mostruosamente potente. S’era scosso nelle sue mani, vibrando, come volesse lanciarlo all’indietro.
Il rinculo.
Ecco cosa significava davvero.
La spalla che sussulta. La presa che sembra sfuggire.
L’impulso.
Odore di bruciato, e di metallo rovente.
Saeb lasciò che lo guardassero, mentre si calmavano. Un rumore del genere non lo avevano mai sentito, se non durante un temporale. Ma quella era la natura.

Miran, invece, fra le mani serrava un oggetto puramente umano. Preciso e geometrico come solo l’ingegneria della Regio sapeva fare.
“Questo.” disse poi il Rector, facendosi sentire da ognuno di loro “Era uno sparo.”
Saeb stava lavorando.


***


Al poligono di tiro avrebbero quindi imparato a sparare. A prendere la mira, a discernere i bersagli, a muoversi con le pistole in mano e a essere reattivi nello scaricare e ricaricare.
Miran lo adorava.
Ogni pallottola era un sussulto, una scarica di adrenalina che gli inondava le vene. Per quanto si fosse abituato al rumore, all’odore, alla sensazione dell’esplosione nella mano, continuava a esaltarsi. Ogni volta.
Entro breve la calibro 45 divenne un’estensione naturale delle sue braccia.
“Andate, e che nessuno con meno di sei stelle alla manica sappia.”
Questo era il congedo tipico dei Rectores. Così Saeb li aveva fatti rientrare alla Sphaera la prima volta, e così gli veniva detto ogni volta in cui abbandonavano il poligono.
Dopo un po’ ebbero una fondina da mettere alla cintola.
Al poligono non si limitavano ad esercitarsi con l’arma: la smontavano, pulivano, lubrificavano – ne analizzavano a fondo il funzionamento. Potevi voler modificare un po’ il calcio, per aver più salda la presa. O preferire un tipo di pallottole ad altri.
Le lezioni teoriche calavano di tenore, e l’attenzione ritornava sul corpo: l’equilibrio era divenuto l’argomento principe. Fisico e mentale.
“State entrando in una fase delicata della vostra vita. È il momento in cui siete più fragili e più potenti. Il modo in cui gestirete questa transizione determinerà non poco il tipo di Custos o Philosophus che sarete una volta del tutto adulti. Non sottovalutate l’adolescenza.”
Esercizi di cognizione motoria, uniti a tecniche di rilassamento e meditazione, avrebbero fornito loro la strumentazione con cui affrontare quest’ultima fase dello sviluppo. Per alcuni era già iniziata: Asha aveva superato Jukka in altezza. Miran mostrava qualche manciata di brufoli sul volto, oltre ad assumere pasti ancora più traboccanti del suo solito.
C’era chi si assentava per i primi incontri con gli accompagnatori.
“Ho mal di stomaco.”
“Dovrebbe interessarmi?”
Da qualche mese Kisanee leggeva con lo stesso tenore di Asha. Se non di più. Non scostava gli occhi dai fogli senza un motivo estremamente valido.

“Non ho mai visto quelle formule –” continuò ad importunarla Miran.
“E non le vedrai mai.”
“Te li ha dati un Rector, quegli appunti?”
“Sì. Lasciami in pace.”
Miran fece spallucce, spostandosi verso gli altri. “Vai da un Medicus!” sbottò Kisanee, sentendolo allontanarsi. “Perché aspettate tutti che vi ci mandi un Magister?!”

L’altro non sapeva proprio come rispondere. Sembrava un’osservazione piuttosto valida.
Anzi. Ormai doveva essere in grado di decretare se un suo problema valeva o non valeva il tempo di un Medicus. Per ora, decise, la situazione non era affatto grave.

No, non ci sarebbe andato. Non poteva disturbare un Medicus per una cosa di poco conto. Avrebbe aspettato.
Passerà, si disse.




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NDA

Salve ragazzi; grazie a tutti quelli che passano di qui! Spero che ci sia un po’ di senso fin qua, e che i personaggi riescano a difendersi bene. Sto cercando di dare un’idea di normalità nella routine assurda di ‘sto pischelli, giusto per non far pensare che siano macchine. Mi piace molto farli interagire fra di loro, ma devo stare attenta a non deviare. :|

Segnalatemi, nel caso, errori e incongruenze – ve ne prego. Ciaociao!

Pandi

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