Il cavaliere di Valsgärde di Old Fashioned (/viewuser.php?uid=934147)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31 ***
Capitolo 32: *** Capitolo 32 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
IL
CAVALIERE DI VALSGÄRDE
Si
diceva che il Cavaliere di Valsgärde fosse un algido
aristocratico
tedesco con il monocolo e la cicatrice della Mensur su una
guancia, che bevesse solo champagne e uscisse a cavalcare nelle notti
di luna piena in sella a un cavallo bianco.
Si
diceva che già tre ragazze francesi, tutte bellissime, si
fossero
uccise a causa sua, disperate perché lui le aveva rifiutate.
C’erano
piloti che giuravano di averlo visto con i loro occhi salutare
l’avversario e andarsene se si accorgeva di avere a che fare
con
qualcuno di livello troppo inferiore al suo.
Altri
raccontavano che una volta aveva fatto un basso passaggio su un campo
inglese e aveva lasciato cadere un mazzo di rose rosse in onore di un
nemico che si era rivelato particolarmente abile in combattimento.
Il
Cavaliere di Valsgärde era una leggenda.
Una
leggenda vivente, peraltro, dal momento che non era affatto difficile
incontrarlo. Compariva nei combattimenti con un Messerschmitt 109 dal
muso dipinto di rosso, si sceglieva l’avversario
più capace, lo
impegnava in un duello e invariabilmente lo abbatteva. Poi scompariva
così com’era apparso.
Nessun
servizio di Intelligence era ancora riuscito a capire a quale stormo
appartenesse o da quale campo decollasse. Gli osservatori inglesi
avevano scattato foto di tutte le coste della Francia nel tentativo
di scovarlo, ma sembrava che il Cavaliere apparisse dal nulla e vi si
dissolvesse di nuovo appena aveva abbattuto il suo avversario.
Non
c’era stormo da caccia britannico che non anelasse a
eliminare
finalmente il Cavaliere di Valsgärde, anche perché
la sua potenza
mitopoietica stava lentamente erodendo il morale dei piloti.
Correva
voce che fosse invincibile, che fosse un’arma segreta del
Reich,
addirittura che fosse il Diavolo in persona.
Tra
i
più determinati ad abbattere il famigerato tedesco
c’era il
maggiore George Stuart, del 19° Squadron.
Il
maggiore era un ufficiale piuttosto giovane e molto capace, e
soprattutto era un abile pilota, il che gli faceva sperare che presto
il Cavaliere si sarebbe degnato di impegnarlo in combattimento.
In
realtà non l’aveva ancora visto.
Aveva
intravisto ogni tanto nella foga delle battaglie aeree qualche guizzo
di rosso, ma invariabilmente a una seconda occhiata aveva incontrato
solo il verde quasi nero e l’azzurro chiaro delle
mimetizzazioni
standard tedesche.
Aveva
segnato su una mappa tutti gli avvistamenti del Cavaliere di
Valsgärde e aveva notato con soddisfazione che corrispondevano
più
o meno al territorio controllato dal suo Squadron, ma
l’elusivo
nemico gli era sempre sfuggito: o compariva quando lui era di riposo
oppure c’era un attimo prima che arrivasse o subito dopo che
era
atterrato con le armi scariche o il serbatoio vuoto.
Stava
giusto ponderando il nugolo di puntini rossi della sua mappa quando
suonarono le sirene dell’allarme antiaereo: si stava
avvicinando
uno stormo di caccia tedeschi.
Il
maggiore indossò in tutta fretta la combinazione di volo e
corse
verso la pista constatando che i meccanici stavano già
portando il
suo aereo in linea.
“È
rifornito e pronto, signore!” lo informò un
armiere.
Stuart
annuì, salì sull’ala e si
infilò nell’abitacolo.
Caratterialmente tendeva ad essere piuttosto flemmatico, ma il
pensiero che avrebbe potuto incontrare il Cavaliere gli dava
un’insolita eccitazione, un misto di aspettativa e frenesia
venatoria.
Si
costrinse all’abituale sangue freddo. Se mai
l’avesse incontrato
avrebbe dovuto abbatterlo, poche storie. Basta coi romanticismi, le
ragazze francesi suicide per amore, lo champagne e i duelli. Sapeva
che negli stormi britannici c’erano già piloti che
segretamente lo
ammiravano e non poche ragazze inglesi sospiravano cercando di
immaginare le sue fattezze.
Di
Baroni Rossi ce n’era già stato uno nella storia,
non era certo
necessario che ne comparisse un altro.
Si
librò in volo seguito da presso dai suoi due gregari e
puntò
decisamente a est. Il resto dello Squadron era dietro di lui in
formazione compatta.
Era
mattina, per cui avevano il sole in faccia. Stuart considerò
che i
tedeschi avrebbero avuto invece il vantaggio di averlo alle spalle.
L’aria era limpida, non c’erano nubi, quindi
avrebbero visto i
caccia della Luftwaffe da molto lontano. E i tedeschi avrebbero visto
loro, ovviamente.
Controllò
ancora una volta che le armi fossero tutte cariche e pronte.
Chi
spara per primo vive più a lungo, il motto
di uno stormo da
caccia tedesco che si sentiva di condividere in pieno.
E
poi
arrivò. All’improvviso, come apparso dal nulla.
Piombò
nel bel mezzo della formazione inglese, la attraversò come
un
fulmine dall’alto verso il basso, cabrò, fece un
Immelmann e
scomparve all’orizzonte lasciandosi dietro la scia di fumo di
due
aerei abbattuti.
Il
tutto era durato meno di cinque secondi.
Stuart
sbatté gli occhi attonito mentre nella frequenza radio si
sovrapponevano comunicazioni concitate e gli Hurricane del 19°
Squadron si agitavano come vespe inferocite.
Era
lui. Finalmente aveva visto coi suoi occhi il Cavaliere di
Valsgärde.
Lo
cercò nel cielo con lo sguardo, pronto a impegnarlo in
combattimento, ma era sparito.
Al
suo
posto c’era invece un Geschwader al
completo, che procedeva
nella caratteristica formazione a gruppi di quattro.
Si
obbligò a dimenticare il Cavaliere di Valsgärde e
strinse le
cinghie di sicurezza preparandosi al combattimento.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Valsgärde 1
Capitolo
2
“Eccolo
che torna, signore!”
Il
maggiore Graf si voltò verso il limitare del campo: l'aereo
dal muso
dipinto di rosso si stava avvicinando.
“Quanti
ne ha abbattuti stavolta?” chiese l'ufficiale.
“Due,
signor maggiore. E siamo solo alla prima missione,” rispose
il
meccanico, orgoglioso come se le due vittorie fossero state sue.
“Andiamo
ad accoglierlo come si conviene, allora,” disse Graf, e si
diresse
verso la pista.
Il
comandante e l'uomo nero – ovvero il meccanico, nel gergo
della
Luftwaffe – non erano gli unici ad avvicinarsi all'aereo che
stava
rullando verso gli hangar. Tutti quelli che non avevano mansioni
importanti da svolgere gli stavano correndo incontro. Altri
meccanici, piloti liberi dalle missioni di guerra, infermieri. C'era
addirittura un cuciniere con un barilotto di birra sotto il braccio e
un paio di boccali nella mano libera.
Il
caccia si fermò, il motore si spense. Ci fu un attimo di
immobilità
carica di aspettativa, poi il tettuccio si sollevò e ricadde
da una
parte spinto da una mano guantata.
La
figura che emerse dall'abitacolo era quanto di meno algido e
aristocratico si potesse immaginare: era un ragazzone dall'aria
florida e gioviale, con gli occhi celesti e le guance rosse.
“Ne
ha abbattuti altri due!” lo accolse il maggiore.
“Ne lasci
qualcuno anche per noi, capitano Müller, non sia
egoista.”
“Io
ci provo, signore,” rispose l'altro salutando militarmente,
“ma
quelli si ostinano a passare sempre davanti alle mie
mitragliatrici!”
Tutti
scoppiarono a ridere, qualcuno mise in mano a Müller un
boccale di
birra mentre gli uomini neri portavano via il suo aereo per
controllarlo e rifornirlo.
“Ci
sono i fotografi di Signal,” disse il maggiore Graf mentre
procedevano verso le baracche del comando.
“Davvero?”
chiese il capitano abbassando il boccale vuoto. Il cuciniere fece per
riempirglielo di nuovo, ma l'altro rifiutò: “No,
no. Devo
decollare tra poco.” Poi, nuovamente rivolto al maggiore:
“Cosa
vogliono quelli di Signal?”
L'altro
fece una breve risata, come se non si capacitasse del candore del suo
subalterno. “Ma sono qui per lei, ovviamente. In Germania
è
famoso. È diventato un Asso, non lo sapeva?”
“Oh,
bella! E da quando in qua?”
“Da
quando ha preso l'abitudine di abbattere almeno cinque aerei nemici
al giorno, direi.”
In
quel
momento spuntò dall'ufficio del maggiore una bella ragazza
con un
tailleur all'ultima moda e un cappellino di traverso sui riccioli
biondi. “Sorrida, prego!” esclamò, e al
suo fianco un soldato
della PK armato di Leica scattava una foto dopo l'altra.
“Lei
è il capitano Heinz Müller?” chiese poi.
Un
po'
frastornato da quel fuoco di fila di fotografie, l'altro si
limitò
ad annuire.
“Molto
bene, mi chiamo Elsa Schmidt, sono una giornalista di Signal. Sono
qui per intervistarla.” Poi, rivolta al fotografo:
“Dal basso,
Walther, dal basso.”
“Sì,
signorina Schmidt,” rispose l'uomo, e si
accovacciò per fare le
foto in stile Trionfo della Volontà che piacevano tanto in
Patria.
“Torniamo
a noi, capitano Müller,” disse la ragazza con un
sorriso, “c'è
un posto dove possiamo parlare un po'?”
“Veramente
io dovrei tornare in volo, signorina,” rispose il capitano.
“Sono
sicura che il maggiore Graf le consentirà di restare per una
beve
intervista. Non è così, maggiore?”
L'altro
annuì galante. “Può usare il mio
ufficio, signorina Schmidt. Le
concedo mezz'ora di tempo, poi il capitano deve tornare ai suoi
doveri.”
La
ragazza era una giornalista di guerra, quindi era abituata a non
sprecare minuti preziosi. Ringraziò l'ufficiale,
richiamò il
fotografo, sfoderò un taccuino e si chiuse nell'ufficio
assieme a
Müller.
Graf
tornò all'aperto. Guardò il cielo ancora
perfettamente limpido e si
rivolse al suo aiutante: “Henschel, occorre trovare qualcuno
che
sostituisca il capitano fino a che non avrà finito con
quelli di
Signal.”
“Sì,
signore.”
A
quelle parole si fece avanti un tenente. Era un ragazzo che non
poteva avere più di vent'anni. Non tanto alto di statura,
con occhi
color ghiaccio e capelli di oro pallido. Portava il distintivo della
Hitlerjugend appuntato sul petto.
Salutò
militarmente e disse: “Mandi me, signore.”
“La
smetta, von Rohr,” rispose asciutto il maggiore,
“le ho già
detto che è ancora troppo inesperto per le missioni di
caccia.”
“Rohr
e basta, signore, prego. E poi sono pronto per compiere qualsiasi
tipo di missione. Sono uscito dalla scuola di volo col massimo dei
voti.”
“Deciderò
io quando sarà pronto, tenente.”
I
Messerschmitt ripartirono seguiti dallo sguardo di nostalgia di Hans
Hartwig von Rohr.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Capitolo
3
In
volo sulla Manica, il maggiore Stuart si apprestava ad intercettare
con il suo Squadron uno stormo di Junkers87.
Li
vedeva già all'orizzonte: grossi aerei scuri, con la caratteristica
ala a gabbiano invertito e i carrelli fissi. Una preda facile, se non
fosse stato per il nugolo di caccia che li accompagnava.
Visto
il numero di perdite, dopo le prime missioni i tedeschi avevano
cominciato a far intervenire i Messerschmitt e la pacchia era finita.
Adesso per abbattere uno Stuka bisognava sudare sangue.
“Diamoci
di fare, ragazzi,” disse alla radio. “Carter, mi stia vicino.”
“Sissignore.”
Carter
era un giovane tenente da poco arrivato al 19° Squadron. Usciva quel
giorno per la sua prima missione di caccia.
Stuart
vide che gli altri Hurricane stavano già impegnando in combattimento
i Messerschmitt. Virò per portarsi in posizione d'attacco,
raccomandando di nuovo al tenente di rimanere vicino a lui.
“Siss...
oh mio Dio!”
Poi
la comunicazione radio si interruppe.
Stuart
si voltò bruscamente, in tempo per vedere l'aereo di Carter che
cadeva in vite e un Messerschmitt dal muso dipinto di rosso che
guizzava via.
Il
Cavaliere di Valsgärde.
“Stavolta
non mi scappi, bastardo!” esclamò, senza curarsi del fatto che
stava parlando nella frequenza radio.
Diede
tutto motore e lo Hurricane balzò in avanti con un ruggito,
precipitandosi sulla scia del Messerschmitt.
I
due aerei si inseguirono per un po'. Stuart si trovava in una
posizione di vantaggio, dietro e più in alto rispetto al tedesco, ma
per quanto si desse da fare non riusciva ad inquadrarlo nel
collimatore, le sue manovre evasive erano troppo rapide.
Sembrava
una volpe che si facesse inseguire di proposito da un cane.
Poi
d'un tratto il Cavaliere decise che il gioco aveva perso di
interesse: si buttò di colpo in picchiata, una manovra che uno
Hurricane non avrebbe mai potuto compiere senza prima fare una
rovesciata, virò, risalì quasi in verticale e successivamente
piombò come un'aquila su un caccia britannico che temerariamente si
era spinto troppo avanti.
Anche
quello finì in vite lasciandosi dietro una scia di fumo nero.
Stuart
atterrò poco dopo esausto, triste e anche rabbioso. Un connubio
decisamente fuori dell’ordinario per un ufficiale che normalmente
veniva portato a esempio di pacatezza e sangue freddo.
Esausto
perché quel dannato Cavaliere si era rivelato un osso durissimo.
Normalmente non aveva problemi a scontrarsi con i piloti della
Luftwaffe. I tedeschi erano più o meno pari a lui, sia come
competenze che come aerei, e i duelli assumevano addirittura la
connotazione di un’attività sportiva stimolante anche se
pericolosa.
Il
Cavaliere di Valsgärde invece l’aveva surclassato a qualsiasi
livello, c’era poco da dire. Combattendo con lui si era quasi
sentito un novellino alle prime armi.
E
poi, a proposito di novellini, era triste. Aveva ancora davanti agli
occhi l’immagine di Carter che precipitava in vite.
Gli
si era affezionato, sarebbe potuto diventare un buon pilota.
Ma
quel bastardo se l’era portato via, come fa il predatore che nel
branco sceglie l’animale più giovane perché corre meno ed è
inesperto.
È
la guerra, si ripeteva, avresti la pretesa che il crauto venisse a
sfidare proprio te in singolar tenzone? Tu lo faresti?
E
la risposta era no, naturalmente, lui non l’aveva e non l’avrebbe
mai fatto. Non era esattamente un modo razionale di combattere una
guerra. Non se si aveva intenzione di vincerla, perlomeno.
Però
la rabbia rimaneva.
“Qualcosa
non va, George?”
Stuart
si voltò: al suo fianco c’era Poynter, uno dei piloti più vecchi
dello Squadron. Il che significava che aveva quasi trent’anni, a
fronte della media di ventiquattro o venticinque di tutti gli altri.
Era
solo un capitano, ma con Stuart si conoscevano dai tempi
dell’Accademia e si davano del tu.
“Non
lo so, John,” sospirò il maggiore, “forse la faccenda di Carter
mi ha colpito più di quanto pensassi.”
“Non
è stato l’unico a cadere.”
“Già.”
Tra
i due calò il silenzio.
Il
sole stava tramontando e sul campo ferveva l’attività dei
meccanici che portavano gli aerei negli hangar. Un po' più lontano
passavano le sentinelle col fucile in spalla. Più oltre si
estendevano i campi ondulati del Cambridgeshire, attraversati qua e
là da siepi scure.
All’orizzonte
c’era una macchia di alberi.
“Non
lo so,” ripeté il maggiore, quasi parlando fra sé e sé.
E
in effetti non sapeva cosa fosse quello strano malessere che lo
faceva sentire triste e rabbioso. Il cosiddetto Cavaliere non era
certo il primo tedesco che sfuggiva alle raffiche delle sue
mitragliatrici e Carter non era purtroppo il primo pilota del 19°
Squadron che cadeva in combattimento.
“Andiamo
a bere qualcosa,” lo distrasse la voce di Poynter.
“Solo
un goccio, domani devo volare.”
“Come
se tu fossi l’unico qui dentro.”
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Capitolo
4
Se
prima il Cavaliere era stato una leggenda senza volto, nei giorni
successivi divenne per Stuart una specie di ossessione.
Compariva
ogni volta che lui andava in volo. Sembrava quasi che lo aspettasse,
dalla puntualità con cui regolarmente piombava addosso al suo
Squadron.
Arrivava
all'improvviso, colpiva e se ne andava.
Qualche
volta Stuart aveva provato ad inseguirlo, ma il Messerschmitt era più
veloce del suo Hurricane, inoltre sembrava che un destino beffardo
volesse impedirgli a tutti i costi di misurarsi con lui: le poche
volte che si era trovato tatticamente in vantaggio si era accorto di
avere le armi scariche, aveva avuto un'avaria al motore o aveva
dovuto interrompere l'inseguimento per correre in soccorso di un
pilota del suo Squadron in difficoltà.
E il
Cavaliere era sempre lassù, come se volesse sfidarlo.
Per
togliergli un po' della sua aura mitologica lo chiamava Muso
Rosso, e
pretendeva che anche i suoi piloti lo facessero.
Se
qualcuno si riferiva a lui chiamandolo nel modo solito, cinicamente
faceva notare che nessuna nazione intenzionata a vincere una guerra
può permettersi di ospitare cavalieri tra le proprie fila.
Col
passare del tempo la questione finì però per scivolare sul piano
personale. Tutti sapevano che quando andava in volo cercava il
Cavaliere di Valsgärde, e anche la faccenda della mappa con i
puntini rossi chissà come era trapelata.
Stuart
si era persino accorto con disappunto che qualcuno l'aveva
soprannominato Capitano Brown, come il pilota
canadese cui era
attribuito l’abbattimento del Barone Rosso. Era perlopiù gente di
altri Squadron, i suoi ragazzi sapevano che lui non amava scherzare
sull’argomento, eppure il nomignolo si stava diffondendo.
Così
come si stava diffondendo una sorta di nascosta ma accanita
competizione fra tutti coloro che erano intenzionati a conquistare
come trofeo il celebre muso rosso dell'inafferrabile aereo tedesco.
Ad ogni
missione si scatenavano le telefonate e le comunicazioni radio fra i
vari Squadron:
“Chapman
del 12° ci è andato vicino.”
“Vaughan
del 15° l'ha inseguito per un po' ma gli è scappato.”
“Murphy,
quello del 3°, non quello del 12°, gli è andato troppo sotto e ci
è rimasto secco.”
“Sembra
che stavolta uno del 7° gli abbia bucato un'ala.”
E cose
del genere. Ad ogni uscita dei vari stormi c'era sempre qualcuno che
aveva da riferire un aneddoto sul Cavaliere di Valsgärde.
Di pari
passo spuntavano qua e là personalizzazioni degli aerei che
ricordavano, più in piccolo ovviamente, quelle degli Assi della
Grande Guerra: c'era chi si faceva dipingere di un determinato colore
l'ogiva, chi le estremità delle ali, chi ancora si faceva fare delle
fasce sulla fusoliera. Alcuni disegnavano sul muso simboli o stemmi.
Uno
particolarmente aggressivo aveva fatto dipingere una mano colorata
come l'Union Jack che stritolava un Messerschmitt dal muso rosso.
“Venga
a vedere, signor maggiore!”
“Cosa
c'è?”
Stuart
seguiva un po' perplesso gli avieri che lo stavano conducendo
nell'hangar principale.
“Vedrà,
signore! È una sorpresa.”
“Non
è che avete combinato qualcosa al mio aereo, vero?”
Gli
uomini si guardarono l'un l'altro, fecero qualche risatina soffocata
ma non risposero nulla di intelligibile.
Alla
fine fu proprio dal suo aereo che lo condussero. Lo Hurricane era
stato coperto con un telo mimetico dal quale spuntavano solo l'elica
e le estremità alari. Tutt'intorno c'erano i meccanici dello
Squadron, alcuni armati di macchina fotografica. Nell'aria aleggiava
un odore sospetto di pittura ad olio.
“Abbiamo
pensato di farle un regalo, signore,” disse il caporale Hall, “non
ci piace l'idea che vada lassù da quel crauto senza neanche due
pennellate di colore.”
“Così
almeno il bastardo saprà chi è stato a spedirlo all'inferno,
signore,” intervenne un aviere.
“Ma
chi vi ha dato il permesso?” chiese Stuart, già immaginando una
specie di congiura dei suoi piloti.
Il
caporale si strinse nelle spalle. “Veramente nessuno, signore.
Gliel'ho detto, sarebbe una specie di sorpresa per lei da parte dei
ragazzi.”
Detto
questo afferrò un lembo del telo mimetico e lo tirò giù: sul muso
dello Hurricane era stato mirabilmente dipinto, da una mano che non
poteva essere quella di un dilettante, un leone incoronato che
azzannava un'aquila dalla testa rossa.
“Quello
sarebbe lei, signore,” spiegò Hall di fronte all'imbarazzato
silenzio dell'ufficiale, “dovrebbe essere una specie di allegoria o
qualcosa del genere. Abbiamo fatto venire Richards del Terzo
Squadron, quello che ha fatto la scuola d'arte. Ha lavorato tutta la
notte. Non è una meraviglia?”
Il
maggiore Stuart fece girare lo sguardo sui meccanici che lo fissavano
ansiosi. Nel frattempo era comparso anche qualche pilota, segno che
nonostante quello che aveva detto Hall gli ufficiali non dovevano
essere del tutto estranei alla faccenda.
“È
molto bello,” si risolse a dire infine, “è una vera opera
d'arte, ma voi sapete come la penso su certe cose.”
Il
generale clima di entusiasmo fu brutalmente sostituito da qualcosa di
molto simile alla costernazione. Tutti sapevano come la pensava il
maggiore Stuart su certe cose: il 19° Squadron era l'unico in tutta
la zona che non aveva nessun aereo personalizzato.
Niente
ogive, estremità alari o fusoliere colorate.
Nemmeno
un misero stemma sulla capottatura del motore.
“Non
vorrà mica che lo cancelliamo, vero, signore?” domandò un aviere
di nome O'Malley, facendosi portavoce dell'inespresso timore che
serpeggiava fra i meccanici.
“Non
ce n'è bisogno,” rispose il maggiore, “basterà sostituire il
pezzo. Questo lo metteremo nella mensa del circolo ufficiali, sono
certo che farà una magnifica figura.”
Tutti
lo guardarono avviliti.
“È
bellissimo, davvero,” ripeté il maggiore, “è un magnifico
regalo, vi sono molto grato.”
Ma più
insisteva, più i meccanici apparivano demoralizzati.
“Quello
si vanta perché ha il muso tutto rosso, signore,” disse un altro
aviere. “Si farà l'idea che gli inglesi sono un branco di
cacasotto, con rispetto parlando, che non hanno il coraggio di
pitturare i loro aerei come fanno i tedeschi.”
A
Stuart sfuggiva la logica di quel ragionamento, che tuttavia
nell'officina sembrava ampiamente condiviso.
“Basta,
non stiamo andando a fare il carnevale,” tagliò corto alla fine,
anche solo per togliersi di dosso quegli sguardi a metà tra lo
scoramento e il muto rimprovero. “Quel dipinto va nel circolo
ufficiali e il mio aereo lo voglio pulito come se fosse appena uscito
dalla fabbrica.”
Entrando
nel circolo ufficiali alla ricerca di un posto dove collocare il
dipinto, Stuart trovò John Poynter nella sua solita poltrona.
Il
capitano vi sedeva con l’aria di un gatto davanti al focolare e
sorseggiava distrattamente la sua bevanda preferita, ovvero un Old
Fashioned
con molta angostura e pochissimo zucchero.
“Salve,
George,” lo accolse, levando il bicchiere verso di lui in un gesto
di saluto. “Che fai di bello da queste parti, sei venuto a bere un
goccetto?”
“No,
magari ne avessi il tempo,” rispose l’altro, “devo solo cercare
un posto per appendere una cosa.”
“Che
cosa?”
“I
ragazzi hanno fatto un dipinto per me.”
“Ma
non te l’avevano fatto sull’aereo? Guarda che la parete non è
abbastanza grande per metterci uno Hurricane.”
“Come
fai a…” cominciò Stuart, poi si interruppe di fronte al
sorrisetto del collega.
“I
ragazzi ci tenevano,” disse Poynter per tutta risposta, lo sguardo
apparentemente perso nella contemplazione dell'Old Fashioned.
Il
maggiore sospirò. “Lo so che ci tenevano, ma voglio che in questo
Squadron si mantenga un certo decoro.”
“A me
non sembrava poi così pacchiano quel disegno.”
“Non
ho detto che lo sia,” replicò asciutto Stuart, “però è una
carnevalata inutile.”
“Sai
quante cose inutili facciamo ogni giorno qui al Diciannovesimo?”
“Con
questo che intendi dire?”
“Oh,
niente. Niente.” rispose Poynter senza alzare gli occhi dal suo
drink. “Penso solo che potresti anche farli contenti, i ragazzi. In
fin dei conti non ti sei mai dovuto lamentare di loro.”
“Certo,
sono tutti buoni elementi,” concesse il maggiore, “ma se comincio
a cedere così sulla disciplina dove andremo a finire?”
“Quante
tragedie per una pittura. Mi sembri un quacchero.”
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Capitolo
5
Il
Messerschmitt dal muso rosso passò come una freccia in sottovento,
virò in base, tirò fuori il carrello e si preparò all’atterraggio.
Prese
contatto con la terra con un sobbalzo morbido, e mentre ancora
rullava sulla pista gli uomini neri uscirono dagli hangar
preparandosi a rifornirlo di carburante e munizioni. Come sempre, chi
non aveva mansioni da portare a termine nell’immediato si era unito
ai meccanici per accogliere degnamente il fortunato pilota.
“Io
dico che gli inglesi sono diventati tutti matti,” esclamò il
capitano Müller balzando agilmente fuori dall’abitacolo. “Si
sono messi a fare i quadri sugli aerei!”
“Vogliono
facilitarle il lavoro, signor capitano,” esclamò un aviere, “così
li può mirare meglio!”
“Come
se ne avesse bisogno!” disse un altro.
Tutti
risero allegramente.
“Probabilmente
temono che a forza di abbattere aerei tutti uguali finisca per
annoiarsi,” osservò il maggiore Graf sopraggiunto nel frattempo.
“Vogliono offrirle qualche distrazione.”
“Beh,
comunque sembra di volare in una specie di pinacoteca,” rispose
Müller. “Oggi ce n'era uno con un leone che azzannava un'aquila
dalla testa rossa.”
“Perbacco,
si direbbe che ce l'abbiano con lei, capitano,” disse Graf, “chissà
poi perché!”
Di
nuovo tutti risero.
Il
gruppetto di piloti e meccanici si spostò verso le baracche del
comando.
“Bevo
un sorso d’acqua e riparto,” stava dicendo il capitano Müller.
“Che c’è per pranzo oggi?”
“Pollo,
direi,” rispose il maggiore Graf.
“Oh,
no. Ancora pollo? Ormai mi metto a chiocciare e a razzolare anch’io.”
“Sembra
che l’intendenza abbia scovato un allevamento di galline qui nei
dintorni.”
“Ma
senta, maggiore…” Müller si scambiò un’occhiata d’intesa
con un altro pilota.
“Sì?”
“Ecco,
pare che al terzo Stormo abbiano gli stessi problemi con
un’eccezionale fornitura di carne di maiale. Non è che si potrebbe
fare uno scambio?”
“Un
baratto, come nel medioevo!” intervenne il pilota dell’occhiata
d’intesa.
Müller
colse la palla al balzo: “Sarebbe una cosa da antichi germani, no?
Quanti polli per un mezzo maiale?”
“Secondo
me si va a peso, signor capitano,” propose uno dei meccanici.
“Un
chilo di pollo per un chilo di porco?”
“Di
solito è così.”
“No,
è impossibile,” protestò il pilota di prima, un tenente di nome
Faber. “Il pollo non vale mica quanto il maiale. Sarebbe come dire
che un rammollito francese vale quanto un tedesco.”
“Attenzione,
così viene fuori che noi saremmo dei maiali!”
“Preferiresti
essere un pollo? Co-co-co…” E si mise a saltellare in giro
facendo l’imitazione della gallina.
Müller
lo inseguì e in breve si scatenò una scherzosa gazzarra di piloti e
meccanici che si rincorrevano sullo spiazzo antistante la baracca del
comando.
Dopo
una telefonata con il comandante del terzo Stormo, Graf si accordò
per venticinque polli già spennati e puliti in cambio di un mezzo
maiale. La contrattazione fu breve, dal momento che i piloti del
Terzo erano stanchi di maiale quanto quelli del Primo lo erano di
pollo.
Poiché
simili scambi non erano contemplati dal regolamento, per mascherare
la faccenda il maggiore preparò una cartella di documenti
contrassegnata con la scritta urgente da unire al trasporto.
Mandò
a chiamare il tenente von Rohr.
Il
giovane si presentò in combinazione di volo, era chiaro che si
aspettava di essere finalmente mandato in missione con gli altri.
Salutò
militarmente e rimase sull’attenti in attesa di ordini.
“Riposo,
von Rohr,” disse il maggiore. “Ci sono ordini urgenti da portare
al comando del Terzo.”
A
quelle parole, il giovane lo squadrò freddamente e rispose: “Con
il dovuto rispetto, signore, io non sono il garzone del macellaio.”
Sbalordito
da quell’inconcepibile atto di insubordinazione, l’altro lo fissò
dritto negli occhi. “Prego?”
“Io
sono un pilota da caccia, i polli per il Terzo li può portare anche
un meccanico con la Kübelwagen,” rispose il giovane senza
abbassare lo sguardo.
Il
maggiore rimase impassibile. Dopo qualche secondo di gelido silenzio,
con durezza replicò: “Lei è un soldato, prima di tutto, e suo
dovere è obbedire agli ordini. O esegue solo quelli che le paiono
adeguati al suo blasone?”
Il
tenente sussultò come se l’altro gli avesse dato uno schiaffo,
tuttavia imperterrito ripeté: “Io sono un pilota da caccia, non è
giusto che lei mi usi per queste cose.”
“Tenente
von Rohr…”
“Rohr
e basta, signore,” lo interruppe il giovane.
“La
chiamo anche tenente Schultz, se le fa piacere, ma non è questo il
punto. Il punto è che adesso lei prende lo Storch, va al terzo
Stormo e fa quello che io le ordino di fare. È chiaro?”
“Sì,
signor maggiore,” ringhiò il tenente rivolgendogli uno sguardo
torvo.
“Ora
può andare.”
“Sì,
signore.”
Graf lo
seguì con lo sguardo mentre si allontanava con passo nervoso. Von
Rohr era un buon pilota, coraggioso e abile, ma era troppo impulsivo.
Doveva imparare a dominarsi o non sarebbe durato a lungo nei
combattimenti contro la RAF.
Nello
stesso momento, furibondo, bruciante d’umiliazione, Hans von Rohr
si dirigeva a grandi falcate verso un aereo già pronto davanti agli
hangar.
Si
trattava di un Fieseler 156, appropriatamente soprannominato Storch,
ovvero “cicogna”, per la somiglianza con il grazioso trampoliere.
Era il classico aereo leggero da collegamento o ricognizione a bassa
quota: un gioiellino comodo e maneggevole, ma quanto di più svilente
si potesse immaginare per un pilota addestrato a sfrecciare
attraverso il cielo ai comandi di un potente aereo da caccia.
Hans
von Rohr salì a bordo e subito fu colto dalla nausea all’odore
delle carcasse crude stivate nella fusoliera. Si guardò intorno
cercando qualcosa per coprirle, ma non trovò nulla. C’era solo la
cartella con i cosiddetti documenti urgenti appoggiata sul sedile di
fianco.
Insensibile
al suo malessere, da terra un aviere gli raccomandò: “Torni
presto, signor tenente. Per arrostire un mezzo maiale ci vuole
tempo!”
Senza
nemmeno rispondere, il giovane ufficiale mise in moto, rullò e
decollò alla volta del terzo Stormo.
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
Capitolo
6
Il
piantone si affacciò nell’ufficio del maggiore Stuart e
compuntamente annunciò: “Il caporale Grice chiede di vederla,
signore.”
L’ufficiale
alzò gli occhi dal foglio d’ordini che stava compilando. “Fa
passare,” rispose.
L’uomo
entrò con aria decisamente compiaciuta e si mise sull’attenti.
“Riposo,
caporale Grice. Voleva vedermi?” lo incoraggiò il maggiore.
“Ho
qualcosa per lei, signore.” Gli tese una rivista.
Stuart
la prese: era Signal, un periodico
tedesco. In copertina c’era
l’immagine di un Messerschmitt 109 dal muso dipinto di rosso. Il
nostro più abile pilota! recitava il titolo.
“Sarebbe
un giornale che parla di quello.” disse Grice. “O
almeno
così mi ha detto Fraser, che ha studiato il tedesco a scuola.”
“Da
dove viene?”
“Era
a bordo di un bombardiere crucco che hanno abbattuto vicino alla
costa. Se lo voleva prendere uno del 12° Squadron, ma io gli ho
fatto capire che spettava a lei, signor maggiore.”
Stuart
sorrise. Conoscendo Grice, poteva immaginare quali sottili strumenti
di persuasione avesse utilizzato. Probabilmente aveva detto a quello
del dodicesimo che se non gli avesse dato la rivista gli avrebbe
spaccato il muso.
“Grazie,
caporale. Mi sarà molto utile,” gli disse solennemente.
L’altro
sorrise orgoglioso. “Lo sapevo!” rispose. “Magari se scopre le
abitudini di quel bastardo, con rispetto parlando, le sarà più
facile abbatterlo, vero?”
“Immagino
di sì.”
“Beh,
io ho scommesso una sterlina con quello del dodicesimo che sarà lei
ad abbatterlo, signore.”
“Allora
immagino che dovrò darmi da fare, caporale. Non posso certo farle
perdere una sterlina.”
“Grazie,
signore!”
Il
sottufficiale se ne andò tutto soddisfatto.
Ostentando
una sorta di signorile distacco, Stuart dapprima posò la rivista da
una parte e riprese a compilare il suo foglio d’ordini. Sorrise con
indulgenza della sollecitudine del sottufficiale, che si era
accaparrato il periodico confidando in chissà quali misteriose
capacità propiziatorie dello stesso, poi cominciò a rivolgergli
occhiate sempre più frequenti e alla fine lo prese e si mise a
sfogliarlo.
Scorse
distrattamente inaugurazioni di scuole, riunioni della Hitlerjugend,
consigli di economia domestica per le massaie tedesche e parate
militari e alla fine trovò quel che cercava: un lungo e
circostanziato articolo, ricco di illustrazioni, sul Cavaliere di
Valsgärde.
Fu
un’atroce delusione.
Di
tutto s’era aspettato, tranne quel ragazzone biondo che dalla foto
lo occhieggiava allegro brandendo un boccale di birra pieno a metà.
Si era
aspettato un von Qualcosa con il monocolo e
la sigaretta
infilata nel bocchino di ebanite, altezzoso e severo, o magari uno di
quei nazisti fanatici, segaligni e dallo sguardo di rapace.
Heinz
Müller invece sembrava un contadino bavarese che avesse scambiato i
Lederhosen con la combinazione
di volo.
Müller,
poi. Altro che aristocratico. Era come dire Smith o Brown.
Il muso
rosso del suo aereo non aveva niente a che fare col Barone Rosso: era
stato il risultato di una bravata compiuta dopo una notte di
libagioni, ed era poi rimasto per motivi puramente propagandistici.
Il nome Cavaliere di Valsgärde, che tanto accendeva le fantasie
delle fanciulle inglesi e non solo, era stato quasi casuale.
Il
primo aereo che mi hanno assegnato ce l’aveva dipinto sulla
capottatura del motore, spiegava Müller
nell’intervista, e
così il nome è rimasto.
Ma
chi è il Cavaliere di Valsgärde? chiedeva la
giornalista.
Risposta:
Non lo so.
Un tizio del medioevo?
Stuart
chiuse la rivista con la sensazione di essere stato vittima di uno
scherzo di pessimo gusto. Aveva quasi il sospetto che di lì a poco
la porta si sarebbe spalancata e qualcuno sarebbe entrato prendendolo
in giro per come si era immaginato quel dannato crucco con l’aereo
mezzo rosso.
Il
novello von Richthofen, lo studioso di mitologia norrena,
l’aristocratico di antico lignaggio… tutte fandonie.
La
macchina da guerra che ogni giorno tirava giù almeno due o tre aerei
inglesi era un giovanottone grande e grosso con la profondità di
pensiero di un Labrador.
All'inizio
aveva pensato di far vedere quella copia di Signal agli altri piloti
dello Squadron, ma dopo aver letto l'articolo ci aveva rinunciato.
Era rimasto troppo deluso.
Relegò
la rivista nel più basso dei cassetti della scrivania, infilandola
sotto un mucchio di carte. Provava quasi una vaga sensazione di
imbarazzo, come se avesse appena fatto una scoperta vergognosa o
sconveniente.
Andò
al circolo ufficiali.
Trovò
ad accoglierlo l'immancabile John Poynter, seduto nella sua solita
poltrona.
“Ciao,
George,” lo salutò il capitano.
Stuart
si accomodò accanto a lui sprofondando a sua volta in una poltrona.
“Giornataccia?”
s'informò discretamente Poynter.
“Ogni
giorno di guerra è una giornataccia, direi,” replicò asciutto il
maggiore.
“E
abbiamo proferito la massima della sera,” rispose l'altro. “Adesso
mi vuoi dire cosa c'è?”
“Quel
dannato tedesco.”
“Il
tuo amichetto dal muso rosso?”
“Non
è il mio amichetto!” ribatté il maggiore alzando leggermente la
voce, “Io lo odio quel dannato bastardo.”
Poynter
si strinse nelle spalle. “Dicono che l'odio sia l'altra faccia
dell'amore,” osservò distrattamente.
Stuart
sbuffò indispettito: detestava i momenti di filosofia da pub
dell'amico. “Non credo proprio che sia il mio caso,” brontolò.
“Eppure
sei sempre a parlare di lui, ogni volta che ti alzi in volo speri di
incontrarlo, se qualche pilota di un altro Squadron lo impegna in
combattimento sei geloso... Non eri così preso nemmeno quando
corteggiavi la tua fidanzata.”
“Non
dire idiozie.”
Il
capitano non replicò, ma fece il sorriso di Monna Lisa.
L’altro
rimase a sua volta in silenzio. Era andato al circolo con
l’intenzione di parlare a John della faccenda dell’articolo, ma
vista la piega che la conversazione aveva preso non se l’era
sentita, era sicuro che l’amico avrebbe fatto le più sconce
illazioni sulla sua delusione di fronte alla vera identità del
Cavaliere di Valsgärde.
Lui
stesso, del resto, era rimasto piuttosto stupito dalla propria
reazione. Si era sentito esattamente come quando da piccolo si era
appostato in salotto per vedere Babbo Natale e invece era arrivata
sua madre in camicia da notte e bigodini.
“Credo
che mi berrò qualcosa,” disse semplicemente.
“Alla
buon’ora,” rispose Poynter, sempre col suo sorriso da Monna Lisa.
“Penso
di averne anche il diritto, no? È tutto il giorno che sgobbo.”
“Io
non ho detto niente.”
Stuart
lasciò passare qualche secondo, poi sbottò: “Cosa vorresti
insinuare, che sarei una specie di invertito?”
Poynter
lo guardò stupito. “Cosa?”
“Tutti
quei discorsi sull'odio che sarebbe l'altra faccia dell'amore. Io non
amo quel nazista bastardo, chiaro? Io lo odio e voglio vederlo
morto!”
“Va
bene, George, ora non ti scaldare,” rispose l'altro pacato, “la
mia era solo una battuta.”
Il
maggiore tacque. Si rendeva conto di aver alzato la voce più del
necessario, alcuni dei presenti si erano addirittura voltati
incuriositi da quel tono duro. Sperò solo che non avessero colto
l'argomento della conversazione.
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
Capitolo
7
Il
capitano Müller si appoggiò all'indietro sulla sedia e si stirò
con aria soddisfatta. Davanti a lui c'era un piatto sul quale erano
ammonticchiate le ossa di svariate costolette di maiale.
“Ci
voleva proprio!” esclamò. “Non ne potevo più di mangiare
pollo.”
Faber
abbandonò un osso spolpato e rispose: “E a noi è andata bene
rispetto a quelli delle Trasmissioni. Loro sono settimane che
mangiano foie gras.”
“Foie
Gras? Che meraviglia!” intervenne un altro pilota.
“Prova
a mangiarlo per dieci giorni di fila e poi vedi se è una meraviglia.
Ormai vomitano anche solo a sentirne l'odore. E non ti dico il mal di
pancia.”
“Allora
dev'essere per quello che la radio non funziona mai, sono sempre alla
latrina!”
Ancora
risate, giro di birra, qualche stralcio di canzoni di guerra, Gli
aviatori sono vincitori e Scintillano le ali
d'acciaio.
Tutti
erano estremamente allegri. La preparazione del mezzo maiale aveva
creato un clima vagamente festoso e i piloti del primo
Jagdgeschwader, il più vecchio dei
quali arrivava a stento ai
venticinque anni, si stavano divertendo come matti.
L'unico
che rimaneva estraneo al clima di generale ilarità era il tenente
von Rohr.
Si era
trovato un posto ad un'estremità della tavolata e lì sedeva in
silenzio, mangiando educatamente con forchetta e coltello un pezzo di
maiale arrosto. Il suo bicchiere di birra era ancora praticamente
pieno.
La sua
non era spocchia aristocratica. Tutt'altro, anzi: in mezzo a quel
gruppo di valorosi piloti da caccia si sentiva l'ultimo dei paria. I
suoi camerati parlavano con entusiasmo delle vittorie che avevano
ottenuto contro gli inglesi e dei furiosi combattimenti sulla Manica,
e lui che argomenti aveva per partecipare alla conversazione? Un volo
a bordo di uno Storch carico di derrate alimentari.
Aveva
voglia di scomparire sottoterra.
In quel
momento la voce di Müller interruppe bruscamente il corso dei suoi
pensieri: “Tre urrà per il nostro Hans, che con la sua
provvidenziale missione di trasporto ha salvato lo Stormo dalla morte
per inedia! Il Führer la ringrazia, tenente von Rohr!”
Tutti
levarono i bicchieri nella sua direzione gridando urrà,
qualcuno gli batté pacche sulle spalle, qualcun altro si preoccupò
di mettergli in mano un boccale di birra fresca.
Von
Rohr si guardò intorno frastornato. Di certo lo stavano prendendo in
giro. E se non lo stavano facendo, se quella era solo una spontanea
manifestazione di cameratesco affetto, ebbene era la cosa più
umiliante che gli fosse mai capitata.
Si alzò
in piedi repentinamente, facendo cadere la sedia nel movimento, fece
girare sugli astanti uno sguardo da bestia braccata e scomparve di
corsa verso gli hangar.
“E
adesso che gli prende?” volle sapere qualcuno.
La
domanda cadde nel vuoto. Tutti ricominciarono a far festa e
l'incidente fu subito dimenticato.
Il
cigolio della porta metallica turbò il silenzio dell'hangar. Seduto
su una scaletta da meccanico, i gomiti puntati sulle cosce e il viso
fra le mani, Hans non alzò nemmeno la testa. Era avvilito. Era così
avvilito che avrebbe voluto diventare invisibile. Rimase immobile
augurandosi che chiunque fosse entrato non lo vedesse e se ne andasse
senza disturbarlo.
“Tenente
von Rohr?” udì chiamare. “Tenente, è qui?”
Alzò
la testa con uno scatto: era la voce del capitano Müller.
Ebbe un
momento di panico: che fare? Dare segno di sé, passare sotto le
Forche Caudine della predica che sicuramente il suo superiore era
venuto a fargli? Immaginava già cosa gli avrebbe detto il capitano:
lei se n'è andato come una specie di adolescente inquieta da romanzo
dell'ottocento, questa non è la condotta consona ad un ufficiale.
Allora
era meglio non farsi trovare? Era un atteggiamento da vile. Nessun
tedesco degno di questo nome si sarebbe comportato così.
“Oh,
ecco dove si è nascosto!” esclamò il capitano, sollevandolo in
quel modo dal peso della decisione. “L'ho cercata dappertutto, von
Rohr.”
“Rohr
e basta, prego,” rispose meccanicamente il giovane.
“Perché?
Non le piace il suo cognome?”
“È
un cognome aristocratico.”
L'altro
lo guardò senza capire. “E allora?”
“Voglio
che la gente mi consideri per quello che valgo io, non per la
famiglia da cui provengo.”
“Io
non mi farei tanti problemi, se fossi in lei,” rispose disinvolto
il capitano. “In aria non contano né gradi né famiglie
altolocate. Lassù c'è il vero socialismo, in un certo senso.”
Detto
questo si sedette accanto a lui sulla scala di ferro e gli diede una
pacca sulla spalla.
“Magari
potessi arrivarci, in aria,” sospirò il tenente continuando a
guardare fisso dinnanzi a sé. “Ma se il maggiore continua a farmi
fare qualsiasi cosa tranne i voli di guerra, come farò?”
“Oh,
ci arriverà. Ci arriverà. Lo sa com'è fatto il vecchio: vuole
essere sicuro che lei sia in grado di uscire vivo da un combattimento
coi Tommies.”
“Ma
io sono in grado!” protestò il giovane. “Sono stato il primo del
mio corso, ero già istruttore di volo a vela a sedici anni!”
“Sì,
beh, indubbiamente si vede da come pilota, ma i duelli aerei sono
un'altra cosa.”
“Davvero
si vede?” chiese il tenente, di colpo emozionato da quell'elogio,
ignorando la seconda parte della risposta di Müller.
“Ha
una buona mano,” rispose l’altro, “l’ho notato subito.”
Per
quanto si fosse ripromesso di rimanere impassibile, von Rohr non poté
evitare di sorridere.
“Per
questo sarebbe un peccato che lei ci lasciasse le penne alla prima
missione,” concluse allora il capitano. “I buoni piloti non sono
così frequenti, quando se ne trova uno è meglio cercare di
conservarlo.”
Scese
dalla scaletta, si sistemò brevemente l’uniforme. “Ora torno dai
ragazzi,” disse. “Si unisca a noi, se ne ha voglia. Le garantisco
che non mordiamo.”
Se ne
andò senza attendere risposta.
Il
giovane tenente rimase immobile. Era soddisfatto delle parole del
capitano Müller, ma non del tutto. Cosa significavano quei discorsi?
Avevano tanto l’aria di disfattismo mascherato da senso pratico.
Lui si
era arruolato nella Luftwaffe proprio per combattere e possibilmente
per eliminare i nemici del Reich, e se il suo destino fosse stato
quello di cadere alla prima missione l’avrebbe accettato
serenamente. Dulce et decorum est
pro patria mori, pensò, poi
gli venne in mente che il latino era retaggio di una classe
reazionaria e conservatrice. Nulla di ciò doveva esistere nel Terzo
Reich.
Dolce
e onorevole è morire per la Patria, tradusse in buon
tedesco.
Ma
prima di morire avrebbe dimostrato quanto valeva, pensò. Avrebbe
fatto vedere al maggiore Graf, e sì, anche al capitano Müller che
lui non era un bamboccio stupido, e che era perfettamente in grado di
compiere missioni di guerra esattamente come tutti gli altri piloti
del Geschwader.
E che i
polli li facessero portare a un sottufficiale con la Kübelwagen, se
avevano tutte quelle esigenze culinarie. Lui nella Hitlerjugend non
si era mai lamentato per il rancio. Questo voleva ben dire qualcosa,
no?
Significava
che lui non faceva storie, che era un soldato né più né meno degli
altri, e quindi aveva il diritto di combattere come
gli altri.
Sorrise
fra sé e sé. Gli avrebbe fatto vedere lui, al maggiore Graf. Oh, se
gli avrebbe fatto vedere.
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
Capitolo
8
In volo
a bordo del suo Hurricane, il maggiore Stuart perlustrava il cielo
alla ricerca di qualcosa di rosso.
Stavolta
gli aveva preparato proprio una bella trappola, al Crauto, e tutti i
suoi giochetti da Asso della Grande Guerra gli sarebbero serviti a
ben poco.
Per un
attimo fu attraversato da una fitta di rimorso. Per quanto fosse un
nemico, quel tedesco aveva sempre combattuto secondo le regole. Non
aveva mai commesso scorrettezze. L’idea di attirarlo in un tranello
gli dava un certo fastidio.
Avrebbe
preferito affrontarlo in un combattimento onorevole.
Questa
è la guerra, George, non è una partita di golf con le regole e gli
arbitri.
Gli sembrava ancora di sentire le parole di John
Poynter, l’ideatore del piano. Lui farebbe
esattamente la stessa
cosa con te se tu fossi, poniamo, il Cavaliere di Westminster e tutti
i giorni abbattessi da solo due o tre aerei della Luftwaffe.
Il
ragionamento filava, ma non lo convinceva del tutto.
Si
chiese con raccapriccio se fosse vero quello che Poynter aveva
insinuato per scherzo alcuni giorni prima, ovvero che in realtà lui
si fosse in un certo senso invaghito del Cavaliere.
Iddio
non voglia,
pensò inorridito.
“Signor
maggiore, eccolo!” gridò qualcuno distogliendolo bruscamente dalle
sue meditazioni. “A ore tre, contro il sole!”
Stuart
si voltò: come nelle migliori tradizioni degli Assi tedeschi, il
Cavaliere di Valsgärde attaccava col sole alle spalle. Come aveva
fatto ad arrivare fin lì senza che nessuno se ne accorgesse?
Mistero.
Alle
volte i trucchi di quel mangiacrauti avevano del paranormale.
“Alzate
il sipario,” disse semplicemente nella frequenza radio. Quello era
il segnale convenuto: da tutte le basi della zona decollarono i
caccia pronti ad intercettare il Messerschmitt.
Stuart
era rimasto piuttosto stupito quando il comando gli aveva autorizzato
quell’operazione. Pensava gli avrebbero detto di no, troppo
dispendioso far alzare cinquanta caccia per abbatterne uno solo. E
invece gli avevano detto subito di sì. Gli avevano chiesto se aveva
bisogno di rinforzi, anzi, e avevano mandato due uomini
dell’Intelligence nel caso il crucco fosse stato catturato vivo.
Li
aveva lasciati nel suo ufficio. Due tizi grigi e torvi, dall’aria
di burocrati più che di militari. Si chiese cos’avrebbero fatto
una volta avuto il tedesco fra le grinfie. Probabilmente l’avrebbero
portato via e interrogato. Per chiedergli cosa, poi? Non era certo un
mistero quello che il Cavaliere di Valsgärde faceva tutti i giorni.
E se
l’avessero torturato?
Non nel
suo Squadron, stabilì categorico. Non finché era lui il comandante.
E poi
si costrinse a lasciar perdere quei pensieri per concentrarsi sulla
situazione contingente: il pesciolino stava arrivando ed era ora di
chiudere la rete.
Ed era
un pescecane, più che un pesciolino, per cui non era il caso di
sottovalutarlo.
Il
Messerschmitt arrivò come un fulmine. Invece di evitare lo stormo di
aerei inglesi ci si buttò in mezzo, lo attraversò da una parte
all’altra e quando cabrò per sganciarsi, con una virata così
stretta che le ali si lasciarono dietro due grosse scie di condensa,
uno Spitfire stava cadendo in vite.
Che
classe, non
poté far a meno di pensare il maggiore.
Il
tedesco intanto si stava lasciando dietro gli inglesi con la classica
manovra evasiva dei Messerschmitt, ovvero una picchiata quasi
verticale non preceduta dalla rovesciata d’ala, seguita da una
brusca richiamata alcune centinaia di metri più in basso.
Quella
manovra era così tipica – e così impossibile da eseguire per un
aereo inglese – che si erano basati proprio su di essa per
elaborare il piano di cattura: la picchiata avrebbe portato il
Cavaliere dritto in mezzo agli Squadron decollati per intercettarlo.
Sulle
prime Stuart era stato scettico, figurarsi se una vecchia volpe come
quel mangiacrauti si fa fregare da un trucco del genere, eppure vide
che il tedesco stava andando a finire proprio dove avevano previsto.
La
soddisfazione fu però di breve durata, perché un attimo dopo il
Messerschmitt 109 si rese conto del pericolo, diede tutto motore e
guizzò via con straordinaria agilità.
Si
scatenò l’inseguimento. Come tante volte era accaduto, il tedesco
filava come una volpe con dietro una muta di cani, schivando con
abilità i traccianti degli inglesi. Il cielo però era pieno di
Spitfire e Hurricane, il Messerschmitt non poteva né picchiare né
cabrare senza finire di nuovo in mezzo ai nemici, per cui era solo
questione di tempo e poi una raffica l’avrebbe colpito.
Stavolta
qualcuno si sarebbe portato a casa le spoglie del Cavaliere di
Valsgärde.
A quel
pensiero il maggiore si sentì stranamente oppresso da un vago senso
di tristezza.
E poi
lo vide arrivare: Muso Rosso, dritto verso di lui. Gli stava
sparando, raffiche di traccianti così precise che nonostante la sua
brusca manovra evasiva pezzi di rivestimento alare schizzarono via
luccicando al sole.
Una
sferzata di adrenalina lo attraversò come una scossa elettrica. “È
mio!” gridò in frequenza e si mise all’inseguimento del
Messerschmitt.
Duellarono
furiosamente. Il tedesco probabilmente aveva capito di essere in
trappola, ma vendeva cara la pelle. Stuart si trovò a sudare ai
comandi del proprio aereo con i traccianti che gli passavano a pochi
centimetri dalla capottina di plexiglas o dalla fusoliera.
Muso
Rosso era un diavolo di pilota, c’era poco da dire.
Alla
fine il maggiore riuscì a piazzare una raffica fortunata in pieno
nel motore del Messerschmitt. L’aereo sembrò inchiodarsi a
mezz’aria, poi si rovesciò e cominciò a precipitare in vite
lasciandosi dietro una scia di fumo nero.
Stuart
rimase a guardarlo ansante, mentre la radio impazziva di
congratulazioni e manifestazioni di entusiasmo e tutti i piloti dei
vari Squadron si davano a sfrenate acrobazie per festeggiare
l’incredibile avvenimento.
Mentre
il maggiore continuava a seguire la sua caduta, il Messerschmitt
precipitò per almeno duemila metri, poi inaspettatamente si riprese.
Stuart si trovò a trattenere il respiro mentre il tedesco rimetteva
in assetto il suo caccia e pur con il motore fermo riusciva a
compiere un atterraggio di fortuna.
Scese
di quota e sorvolò un paio di volte il relitto adagiato in mezzo a
un campo, ma non gli parve di vedere movimenti né dentro l'aereo né
intorno. Forse Müller era rimasto ferito, o magari aveva fatto come
von Richthofen, che aveva portato a terra l’aereo ma era morto
subito dopo.
Se ne
andò con una strana sensazione di disagio.
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
Capitolo
9
Al suo
rientro alla base, Stuart fu accolto come un trionfatore. I meccanici
erano riusciti a scovare delle foglie di alloro e avevano fabbricato
una corona che vollero a tutti i costi mettergli sulla testa. Non gli
permisero di camminare, ma lo portarono a spalla fino alla baracca
del comando tra sventolii di bandiere e giri di bottiglie
generosamente messe a disposizione dalla mensa ufficiali.
Tutti
sembravano impazziti, persino gli avieri semplici si avvicinavano per
dargli pacche sulle spalle o stringergli la mano.
“Signore,
lo hanno preso!” lo accolse l’operatore radio. “Lo stanno
portando qui!”
“È
ferito?”
“Un
po’ acciaccato, signore, ma niente di grave. Ha cercato di
aggredire i soldati che l’hanno tirato fuori dall’aereo e loro
gli hanno fatto assaggiare il calcio del fucile.”
“Ben
gli sta!” intervenne qualcuno, “maledetto mangiacrauti!”
“Silenzio!”
esclamò il maggiore a quelle parole. “Silenzio, che diamine! Siamo
soldati, non comari al mercato!”
Tutti
si zittirono immediatamente e rimasero a guardarsi l’un l’altro
come bambini redarguiti dal maestro.
“Silenzio,”
ripeté il maggiore a voce più bassa, liberandosi di allori e
nastri. “La guerra continua, e ci sono altri tedeschi da
abbattere.”
“Comunque
lo stanno portando qui,” ripeté l'operatore radio.
Poco
dopo arrivò un furgone.
Tutti
erano ansiosi di vedere finalmente in faccia il famoso Cavaliere di
Valsgärde, per cui c'era un'insolita folla. Praticamente il
personale della base al completo, compresi i piloti, stava
gironzolando con aria da nulla in attesa del tedesco.
“Non
hanno niente da fare?” ringhiò Stuart, che man mano passava il
tempo diventava sempre più nervoso.
“Sono
solo curiosi, George,” rispose pacato Poynter al suo fianco. “E
lo sei anche tu, ammettilo.”
“Un
po'.”
“In
fin dei conti l'hai abbattuto tu. Adesso diventerai famoso.”
“Ma
figurati.”
“Scommetto
che ti beccherai anche una medaglia.”
“Bah.”
Il
maggiore girò le spalle all'amico come a fargli capire che non
intendeva insistere sull'argomento.
In quel
momento il furgone si fermò al centro dello spiazzo in un silenzio
carico di aspettativa. Ne scesero due soldati che un po'
trascinarono, un po' spinsero con malagrazia un pilota della
Luftwaffe biondissimo, con il viso pallido e rigato di sangue.
Me
lo immaginavo più alto, fu la prima cosa
che pensò il maggiore
Stuart. Rimase a guardarlo da lontano con aria irresoluta.
“Forza,
va da lui,” gli disse Poynter distogliendolo bruscamente dai suoi
pensieri. “Va ad incontrare la tua preda.” Lo sospinse in avanti.
Stuart
si avvicinò con vaga titubanza, elaborando frattanto una frase da
rivolgere al pilota tedesco. Aveva pensato di fargli i complimenti
per la sua abilità e poi di invitarlo cavallerescamente a bere.
La
folla fece ala al suo arrivo ed egli si trovò finalmente faccia a
faccia con il famoso nemico.
Rimase
costernato, la frase che aveva con tanta cura composto gli morì in
gola.
“Non
è lui,” mormorò.
Ci
furono alcuni secondi di silenzio, poi il capitano Poynter disse:
“Come sarebbe a dire che non è lui? E allora chi è?”
“Questo
non lo so.”
“Come
fai a dire che non è lui? Lo conosci, per caso?”
“Sì.
Cioè, no. Ho letto un articolo su Signal che parlava di lui e ti
garantisco che questo non gli assomiglia nemmeno.”
“Eppure
sembra piuttosto cattivello,” constatò il capitano scrutando il
giovane pilota tedesco.
Tenuto
per le braccia da due soldati, il prigioniero lo gratificò di uno
sguardo omicida.
In quel
momento sopraggiunsero i due uomini dell'Intelligence, un tenente e
un capitano con l'aria torva da inquisitori domenicani. “Lo
prendiamo in consegna noi,” disse il capitano, facendo cenno ai due
soldati che tenevano fermo il tedesco.
“Un
momento,” intervenne Stuart, indispettito dall'evidente disprezzo
dei due nuovi arrivati per la sua autorità di comandante dello
Squadron. “Questo non è l'uomo che state cercando.”
L'altro
lo fissò con l'aria di considerare la faccenda qualcosa a metà fra
lo scherzo di cattivo gusto e l'atteggiamento disfattista. “Come
sarebbe a dire che non è lui?” chiese diffidente.
“Ho
letto un articolo di Signal che parlava del Cavaliere di Valsgärde,”
ripeté pazientemente Stuart, “e questo non gli assomiglia
nemmeno.”
“Chi
sarebbe allora?”
“È
quello che stavo spiegando prima del vostro arrivo: non lo so.”
Il
capitano scrutò il tedesco con un misto di disprezzo e schifo,
quindi ripeté: “Ha letto un articolo che parlava di lui su
Signal?”
“È
così.”
“Letture
interessanti, le sue.”
“Oh,
non cominciamo,” sbuffò Stuart spazientito. “Se la mette su
questo piano, il tenente è un prigioniero di guerra e fino a nuovo
ordine non si muove di qui. Peraltro noto che è ferito, quindi non
abbandonerà la base fino a che il medico non dichiarerà che è in
grado di farlo.”
“Avrà
sì e no due graffi!”
“Questo
non è lei a stabilirlo. Oppure è anche un medico, per caso?”
Intervenne
a questo punto l'altro uomo dell'Intelligence, che con tono velenoso
lo ammonì: “Stia attento, maggiore, questo scherzo le costa caro.”
“No,
costa caro a lei,” replicò duramente Stuart. “Lei sta
interferendo con lo svolgimento delle operazioni belliche. Le
consiglio di tornare immediatamente da dove è venuto, prima che io
la faccia mettere agli arresti.”
Momentaneamente
padrone del campo, Stuart seguiva con lo sguardo la macchina dei due
ufficiali che spariva all'orizzonte in una nuvola di polvere.
Poynter, al suo fianco, pacatamente osservò: “Torneranno.”
“Lo
so che torneranno.”
“E
stavolta avranno con loro le carte giuste.”
“Ci
penseremo quando sarà il momento,” tagliò corto Stuart, quindi si
rivolse finalmente al prigioniero. “Come si chiama, tenente?” gli
chiese in buon tedesco.
“Hans
Rohr.”
“Cosa
ci faceva su quell'aereo?”
Il
prigioniero non rispose.
“Le
ho chiesto cosa faceva su quell'aereo. So che non è lei il Cavaliere
di Valsgärde.”
“Nome,
grado e numero di matricola. Queste sono le uniche informazioni che
ha il diritto di pretendere da me sulla base della Convenzione di
Ginevra.”
Detto
questo, il tedesco rimase a fissarlo con aria di sfida.
“Perché
vuole rendere le cose più difficili di quanto non lo siano già,
tenente?” sospirò il maggiore Stuart.
“Voi
siete nemici. È mio dovere rendervi le cose difficili.”
“Intendevo
difficili per
lei,
tenente Rohr,” rispose pazientemente il
maggiore, “noi siamo in casa nostra, non ci va poi così male.”
Il
giovane ufficiale arrossì e si chiuse in un silenzio risentito.
“Se è
furbo se ne sta buono e aspetta la fine della guerra,” disse
Stuart.
Lui e
Poynter passeggiavano fianco a fianco diretti verso gli edifici dello
Squadron.
“Non
mi sembra furbo,” osservò pacatamente il capitano. “Anzi, mi
sembra tutto il contrario: un ragazzino molto ideologizzato e molto
poco furbo, se vuoi la mia opinione, che di sicuro farà del suo
meglio per cacciarsi in qualche guaio.”
“Del
tipo?”
“Dieci
a uno che prova a scappare appena ne ha l'occasione.”
A
quella frase il maggiore alzò involontariamente lo sguardo verso
l'infermeria, dove aveva fatto portare il tedesco affinché fosse
medicato.
“Si
farà ammazzare,” sospirò Poynter con l'aria di chi si arrende
all'ineluttabile, e poiché Stuart non rispondeva, proseguì: “Il
giovane idiota si farà ammazzare, in maniera eroica se ci riesce, e
quelli dell'Intelligence se la prenderanno con te perché non
gliel'hai consegnato subito.”
“Quelli
dell'Intelligence non possono andarsene in giro a fare il bello e il
cattivo tempo,” brontolò il maggiore.
“Se
non loro, chi? Lo sai che danno ordini al Re in persona?”
“Beh,
qui nella mia base non vengono a dare ordini di sicuro,” replicò
il maggiore baldanzoso.
In quel
momento si avvicinò un sottufficiale, che con gran sfoggio di
marziale vigore annunciò: “Ho qui gli effetti personali del
mangiacrauti, signore!”
“Dell'ufficiale
prigioniero,” lo corresse Stuart.
“Beh,
di quello, signore. La sua roba, insomma.” Porse al maggiore un
piccolo involto.
L'altro
lo soppesò poco convinto. “È tutto?” chiese.
“Certo,
è tutto, signore! Stramaledettamente tutto!”
“Non
è che per caso, per pura fatalità, sono andati persi da qualche
parte orologio e soldi, per esempio?”
“Ma
signore!” protestò il sottufficiale indignato. Quelle cose gli
erano in effetti passate per le mani, ma lui si era tenuto solo il
distintivo della Hitlerjugend, niente di prezioso. Giusto un
ricordino del suo primo mangiacrauti catturato.
Come se
gli avesse letto nel pensiero, il maggiore soggiunse: “Sarà meglio
che tutti gli effetti personali del tenente che per qualche strano
disguido sono andati persi ricompaiano domattina sulla mia scrivania,
altrimenti qualcuno non andrà in licenza fino a Natale, sono stato
chiaro?”
“Chiarissimo,
signore!” esclamò l'altro fissando con grande impegno un punto
all'infinito dietro le spalle del suo superiore, quindi salutò e
scomparve con la velocità del fulmine.
Rimasti
soli, i due ufficiali si concessero un sorriso indulgente. “Come se
non li conoscessi”, disse il maggiore, poi scartabellò i documenti
del tedesco, aprì il brevetto di pilota e scoppiò a ridere. “Ma
tu guarda!” disse porgendo il documento a Poynter. “Hai proprio
ragione, è un giovane idiota!”
“Ci
ha scambiati per i Fratelli della Costa!” esclamò il capitano
divertito.
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
Capitolo
10
“Le
fa male, tenente?”
Seduto
ad un tavolino del circolo ufficiali con l'aria di trovarsi sui
carboni ardenti, il tedesco si limitò a rivolgere al maggiore uno
sguardo torvo.
“Le
ho chiesto se le fa male,” ripeté pazientemente Stuart. “Il
dottor Allen dice che ha preso un brutto colpo.”
“Eh
già, sbadatamente sono finito contro il calcio di un fucile
inglese,” fu la tagliente risposta.
Sullo
stesso tono l’altro gli rispose: “Sarà inciampato mentre cercava
di prendere a pugni qualcuno.”
“In
base alla Convenzione di Ginevra è mio diritto tentare la fuga.”
“Certo.
E nostro diritto – e dovere – è usare ogni mezzo per
impedirgliela.” Lo fissò negli occhi con durezza, ma il tedesco
non abbassò lo sguardo.
“Un
bel brindisi?” intervenne Poynter mettendo un bicchiere in mano al
tenente. “Facciamo come nella Grande Guerra, quando si catturava un
aviatore nemico.”
“Non
bevo,” rispose gelido von Rohr, poi appoggiò il bicchiere sul
tavolo e lo spinse lontano da sé, come a sottolineare la sua ferma
intenzione di non fraternizzare col nemico.
Un
mormorio di disapprovazione attraversò il gruppetto di piloti
inglesi che si erano avvicinati per conoscere cavallerescamente
l’avversario abbattuto.
“Anzi,
forse è meglio che mi facciate portare nella mia cella,” aggiunse
poi, alzandosi e indietreggiando verso il muro. Non era mai stato
prigioniero, ovviamente, ma supponeva che la faccenda avesse a che
fare con celle, sbarre e cose del genere e non voleva dimostrarsi
impreparato.
“Qui
non abbiamo celle,” disse perplesso un ufficiale inglese. “Ne
abbiamo, maggiore?”
“Temo
di no.”
Stuart
rivolse uno sguardo al giovanotto addossato al muro, che lo guatava
con espressione da bestia braccata. Era sicuramente dolorante e
frastornato, probabilmente anche spaventato a morte, ma faceva del
suo meglio per non darlo a vedere.
“Il
nostro tenente è sicuro di essere capitato in mezzo alla Filibusta,”
disse con un sorriso indulgente. “Pensate che mi ha addirittura
nascosto di chiamarsi von Rohr. Forse pensava
che scoprendolo
nobile avremmo chiesto un riscatto come facevano i pirati.”
Ci fu
qualche risata, gli astanti rivolsero al pilota della Luftwaffe
occhiate di divertita curiosità. Un buontempone intonò Quindici
uomini e
tutti gli andarono dietro battendo il tempo sul tavolo
col fondo dei bicchieri.
“Il
mio nome non la riguarda!” protestò il tenente non appena finirono
le strofe della canzone.
“Mi
riguarda eccome,” rispose il maggiore. “Per prima cosa è mio
dovere comunicarlo alla Croce Rossa, e poi tecnicamente lei mi ha
dato un nome falso, quindi potrei anche pensare che è un agente
segreto o qualcosa del genere. Lo sa che fine fanno gli agenti
segreti, von Rohr?”
“Non
lo so e non mi interessa,” ringhiò l’altro, “ne ho abbastanza
di questa farsa. Siamo nemici, non vedo il motivo di bere insieme
come se fossimo all’Oktoberfest! Mi mandi dove mi deve mandare e
facciamola finita!”
Visto
il suo netto rifiuto di interagire con i piloti del 19° Squadron, il
maggiore diede ordine di portare il tenente von Rohr alla chiesa.
Situato
al limitare del campo, l’edificio si chiamava così perché era una
chiesa a tutti gli effetti, anche se sconsacrata. Era una costruzione
gotica con un massiccio portone di rovere, finestroni muniti di
sbarre posti ad un’altezza di due metri e mezzo al pavimento e mura
dello spessore di un metro. Sarebbe stato difficile trovare una
prigione più inespugnabile.
Peraltro
era anche il luogo ove il maggiore Stuart aveva sistemato il proprio
alloggio, dal momento che la canonica condivideva con la chiesa la
struttura robusta ma non mancava delle moderne comodità.
“Abiterete
insieme, tu e quel simpatico mangiacrauti!” l’aveva canzonato
Poynter, anche se in realtà chiesa e canonica erano separate da una
robusta cancellata di ferro.
Proprio
perché il luogo si era rivelato così adatto ad accogliere
prigionieri, il maggiore vi aveva fatto installare dei servizi
igienici e collocare un letto e altri mobili. Al tedesco non sarebbe
mancato nulla.
Certo
fino a quel momento vi aveva soggiornato gente più amabile, che
trascorreva la giornata in amene conversazioni con i piloti dello
Squadron e veniva rinchiusa lì solo a notte inoltrata, la maggior
parte delle volte dopo allegre bevute, e più per formalità che per
reale rischio di fuga, ma il maggiore era sicuro che l’alloggio si
sarebbe rivelato adeguatamente confortevole anche per quello
scontroso giovanotto.
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Capitolo 11 *** Capitolo 11 ***
Capitolo
11
I passi
del tenente von Rohr echeggiavano con monotona regolarità mentre lui
percorreva su e giù la navata centrale della chiesa.
Erano
venti in un senso, poi il leggero strisciare del dietro-front e venti
nell’altro senso. Poi un altro dietro-front e la cadenzata marcia
ricominciava.
E così
via.
Era
esausto ma non riusciva a smettere di camminare su e giù. Si sentiva
come un giocattolo a molla che deve girare fino a che non si è
scaricato del tutto.
E la
sua testa, anche lei, era un motore in folle che non riusciva a
fermarsi.
Erano
passate solo poche ore da quando si era appropriato dell’aereo di
Müller pronto in linea di volo ed era decollato, ma sembrava una
vita. In quel breve lasso di tempo aveva fatto il suo primo volo di
guerra, aveva rischiato di essere ucciso, era stato abbattuto, si era
salvato per miracolo atterrando in un campo, era stato picchiato a
sangue e adesso era prigioniero.
Prigioniero
degli inglesi, gli sembrava un incubo. Che fare? Doveva scappare,
ovviamente, doveva tornare dai suoi, ma come?
Aveva
solo conoscenze teoriche sull’essere prigioniero di guerra. Sapeva
che era un disonore, principalmente. Che non doveva dare confidenza,
che non doveva parlare per non rivelare magari involontariamente
importanti notizie al nemico, che non doveva – orrore –
fraternizzare. Le sue nozioni si fermavano lì.
Di
quello che gli avrebbero fatto gli inglesi non sapeva nulla. La sua
mente sovreccitata gli proponeva una ridda d’immagini una più
agghiacciante dell’altra, sevizie, esecuzioni sommarie,
maltrattamenti, e il rassicurante pensiero della convenzione di
Ginevra era un’isola sempre più lontana in un mare sempre più
agitato.
Devo
resistere,
pensava però caparbiamente, qualsiasi cosa mi
facciano devo resistere. Devo mostrare loro di che tempra sono i
piloti della Luftwaffe!
A
quell’idea si fermò sospirando mentre una romantica Sehnsucht gli
dilagava nell’animo. Forse non avrebbe più rivisto i suoi
compagni, né il capitano Müller o il maggiore Graf. Di colpo provò
nostalgia per quello che aveva perso, addirittura gli mancava il
sottufficiale che gli aveva raccomandato di fare presto a portare il
mezzo maiale da arrostire.
Forse
non avrebbe più rivisto nemmeno la Germania. Si toccò il petto in
un gesto automatico, alla ricerca del distintivo della Hitlerjugend,
ma si ricordò di non avere più neppure quello, qualcuno gliel’aveva
tolto per tenerselo come ricordo.
Volse
lo sguardo ai finestroni gotici e si accorse che fuori stava calando
la sera. Doveva aver camminato in quel modo per ore.
Da una
parte, su un tavolo, c’era anche un vassoio con un pasto. Chi
l’aveva portato? Quando? Non si era accorto di niente.
Mentalmente
si diede dello stupido.
Così
non va, si disse, devi stare all’erta, non puoi farti cogliere
impreparato, ma anzi devi notare e ricordare tutto. Devi scappare da
qui, ricordi? E basta con questo atteggiamento disfattista, indulgere
nell’auto-compatimento non è un modo di comportarsi da ufficiale
tedesco.
Mentre
era immerso nelle sue angosciose meditazioni percepì il rumore di
una porta che si apriva e dei passi in avvicinamento. Al di là del
cancello di ferro che separava chiesa e canonica comparve il maggiore
Stuart, che con tono cortese gli domandò: “Come sta, tenente?”
Von
Rohr rimase in silenzio.
“Io
sono il maggiore George Stuart, a proposito”, disse l’inglese
tendendo la mano attraverso le sbarre.
L’altro
fissò la mano tesa come se avesse voluto incenerirla e non si mosse.
“D’accordo,
vedo che non ha voglia di fare conversazione,” sospirò il maggiore
ritirando la mano. “Si faccia una dormita,” gli suggerì allora,
“mangi qualcosa. Vedrà che domattina si sentirà meglio.”
“Difficile
che mi senta meglio,” non poté fare a meno di ringhiare il
tedesco, “visto il posto in cui mi trovo.”
Allargando
le braccia in un teatrale gesto di rassegnazione, Stuart rispose:
“C’est la
guerre,
direbbero i francesi. La prenda con
filosofia, tenente, tanto da qui non può più andarsene. Mangi e si
riposi, piuttosto. Le garantisco che le farà bene.”
“La
smetta!” rispose asciutto von Rohr.
“Cosa?”
“La
smetta, ho detto! Cos’è lei, un ufficiale nemico o la mia
governante?”
“Lo
dicevo per lei, tenente.”
“I
suoi consigli non mi servono!” fu la brusca risposta, poi il
giovane gli girò le spalle e scomparve nella navata ormai buia.
Stuart
rimase immobile per qualche secondo, poi anche lui si girò e tornò
al proprio alloggio. Da una parte aveva ragione Poynter, quel tedesco
era un ragazzino idiota, ma dall’altra in un certo qual modo quella
sua caparbietà rabbiosa lo affascinava. Era come avere a che fare
con un animale selvatico. Ringhiava e gonfiava il pelo quando sarebbe
stato tanto più facile scodinzolare e tentar d'ingraziarsi i suoi
carcerieri.
Indubbiamente
aveva carattere.
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Capitolo 12 *** Capitolo 12 ***
Capitolo
12
L’Intelligence
si rifece viva due giorni dopo. Tornò il capitano, ma questa volta
era accompagnato da un maggiore. I due ufficiali scesero in fretta
dalla macchina, quasi senza aspettare che l’autista aprisse loro la
portiera, quindi si diressero a rapide falcate verso la baracca che
ospitava il comando.
“Dov’è
il maggiore Stuart?” chiese il capitano, guardandosi intorno come
se si aspettasse di sorprenderlo mentre tentava di sgattaiolare via.
“In
volo, signore,” rispose diligentemente il piantone.
“Quando
tornerà?”
“Difficile
a dirsi, signore,” rispose il soldato a disagio, “dipende da
tante cose.”
Come
poteva dare un’informazione del genere? Intanto bisognava vedere se
il maggiore sarebbe tornato, poteva anche restarci secco, inoltre
dipendeva da cosa gli avrebbero fatto trovare i Fritz lassù. Mica
poteva fornire un orario come se Stuart dovesse arrivare col treno.
“Vorrà
dire che lo aspetteremo,” tagliò corto il maggiore, e senza
attendere risposta si diresse con risolutezza verso l’ufficio di
Stuart.
Il
piantone azzardò poco dopo un’occhiata all’interno e si accorse
che l’ufficiale si era seduto alla scrivania e stava
disinvoltamente controllando il contenuto di tutti i cassetti. Valutò
cosa fare. Era meglio inimicarsi quei due mastini dell’Intelligence
facendoli uscire dall’ufficio, ammesso che gli dessero retta, o
contrariare il maggiore Stuart lasciando che i tizi gli perquisissero
la stanza?
Non
avendo alcuna voglia di finire al fronte da qualche parte, scelse la
seconda opzione e con gran impegno si mise a guardare fuori dalla
finestra.
Continuò
a fissare con fare angelico la campagna del Cambridgeshire anche
quando finalmente tornò il maggiore, che quindi sorprese il suo pari
grado dell’Intelligence mentre sfogliava con grande interesse il
numero di Signal.
Fermo
sulla soglia, freddamente Stuart disse: “Vedo che ha trovato il
modo di non annoiarsi mentre mi aspettava.”
L'altro
abbassò la rivista senza la minima traccia di imbarazzo, con l'aria
di quello che stava leggendo il giornale nel salotto di casa sua.
“Bentornato, maggiore Stuart!” lo salutò allegramente.
L'altro
si limitò a rivolgergli un'occhiata gelida.
“Ci
portiamo via il prigioniero,” annunciò il capitano con un tono che
sembrava volerlo sfidare a opporsi.
Il
maggiore non rispose.
“Lo
portiamo via adesso,” insisté l'altro. “Abbiamo aspettato anche
troppo.”
Stuart
si mosse a disagio riflettendo disperatamente su come prendere tempo.
In tutta la faccenda c'era qualcosa che non quadrava per niente.
L'Intelligence,
tanto per cominciare. Da quando in qua i servizi segreti si
scomodavano per un semplice tenente della Luftwaffe? Sarebbe stato
comprensibile se avessero messo le mani su un pezzo grosso, un
generale magari, ma a chi poteva interessare quell'aquilotto
scontroso?
E poi
la fretta. Quando mai qualcuno si era preoccupato di andare a
recuperare un prigioniero di guerra con tanta sollecitudine?
Si
chiese se per caso quel von Rohr fosse davvero una spia nazista, come
aveva scherzosamente ipotizzato quando l'aveva portato al circolo
ufficiali.
Gli
parve strano, sanguigno e trasparente com'era gli sembrava l'antitesi
del tipico agente segreto freddo e impenetrabile, ma va a sapere.
Magari era anche un ottimo attore.
“Cosa
ne volete fare?” chiese.
L'espressione
del capitano era senza dubbio quella di chi stava per rispondere non
sono affari suoi, ma il suo superiore
lo precedette. Abbassò la
rivista che stava ancora sfogliando e allegramente disse: “La gente
è curiosa di vedere dal vero il famoso Cavaliere di Valsgärde.”
“Ma
non è lui,” non poté fare a meno di rispondere Stuart, “non ha
letto l'articolo su Signal?”
“Indubbiamente
ben fatto,” commentò l'altro, “molto circostanziato. I nostri
avrebbero parecchio da imparare in proposito.” Infilò la rivista
nella propria cartella di cuoio. “Voilà! È sparita. Niente più
scomodo capitano Müller a disturbarci,” concluse.
“Non
capisco,” rispose Stuart senza preoccuparsi di nascondere la
propria diffidenza.
“Solo
un piccolo espediente di psicologia delle masse,” spiegò il
maggiore dell'Intelligence. “Non c'è niente come un bel processo a
un criminale di guerra per rinfocolare l'odio nei confronti del
nemico.”
“Criminale
di guerra?” fece eco Stuart perplesso.
“Quel
tedesco stava diventando una specie di eroe romantico, mi capisce?
Niente di buono, per una sana condotta bellica. La gente deve odiare
il nemico, non ammirarlo e desiderare segretamente di assomigliargli.
E allora noi cosa faremo? Diremo alla gente 'vedete cosa fa il vostro
caro Cavaliere di Valsgärde? Altro che Barone Rosso, è solo un
volgare criminale di guerra.' E dopo il nostro piccolo show i bravi
inglesi odieranno più che mai i cattivi nazisti.”
Gli
rivolse un sorriso compiaciuto. Dava quasi l'idea di aspettarsi i
complimenti per il suo piano machiavellico.
“Quel
pilota non è un criminale di guerra,” commentò lapidario il
maggiore.
“Dettagli
trascurabili,” rispose disinvoltamente l'altro. “Abbiamo preso il
suo aereo, lo filmeremo mentre mitraglia dei civili, fa sempre
impressione la strage di civili.”
“Dimentica
due piccoli particolari,” rispose allora Stuart con ira repressa.
“Primo, mentre voi organizzate la vostra bella farsa il vero
Cavaliere di Valsgärde è ancora lassù. Secondo, il tenente von
Rohr è innocente.”
“Proprio
innocente non direi, visto che è un ufficiale nemico,” replicò
l'altro senza perdere il buonumore. “Quanto al Cavaliere, quello è
affar suo. Se è ancora lassù lo abbatta, così chiudiamo la
faccenda.”
A
quelle parole fece seguito un silenzio greve. Stuart andava con lo
sguardo dall'uno all'altro dei suoi interlocutori, indeciso sul da
farsi. Nonostante la sua proverbiale pacatezza, l'unica cosa che gli
veniva in mente era sbatterli fuori dal suo ufficio, possibilmente a
calci nel sedere, e con lo stesso sistema farli risalire sulla loro
preziosa autovettura assicurandosi che tornassero da dove erano
venuti.
“Capisco
la sua perplessità, mio caro Stuart,” intervenne mellifluo il suo
parigrado.
“Non
sono il suo caro Stuart,” ringhiò il pilota.
“Certo,
certo,” concesse bonariamente l'altro, con l'aria di un genitore
saggio che sopporta le intemperanze del figlio adolescente, “ma
tenga conto che ci sono tanti modi di fare la guerra. Lei vola col
suo aereo e spara addosso ai tedeschi e anch'io, con altri mezzi,
faccio il mio dovere.”
“Ingannando
la gente?”
“Ispirandola,
direi. Si è mai chiesto cosa succederebbe se l'opinione pubblica
cominciasse a pensare che i nazisti in fondo non sono così male?”
“Non
credo che per far capire alla gente che non deve rubare si debba
prendere il primo che passa per la strada e impiccarlo in piazza dopo
averlo accusato di furto.”
“Beata
innocenza! Crede che non sia mai successo, maggiore?”
Stuart
avrebbe voluto rispondergli per le rime, ma in quel momento cominciò
a suonare l'allarme antiaereo.
I due
ufficiali dell'Intelligence si guardarono a disagio.
“I
ragazzi di Goering vengono a farci una visita,” spiegò Stuart con
malcelata soddisfazione, “quindi se lor signori vogliono alzarsi e
seguirmi nel rifugio...”
“Dobbiamo
portare via il tedesco,” lo interruppe il capitano riprendendo
improvvisamente tutta la sua bellicosità.
“Non
se ne parla nemmeno. Tra un po' cominceranno a cadere le bombe.”
Come a
sottolineare il concetto, un'esplosione fece tremare i vetri.
“Muoviamoci!”
ordinò Stuart conciso. Ormai era di nuovo nel suo elemento. Sotto un
bombardamento nemico i piloti come lui sapevano esattamente cosa
fare, mentre i semidei dell'Intelligence, che in condizioni normali
davano ordini persino al Re, scadevano inesorabilmente al rango di
contabili imbranati.
I tre
uscirono precipitosamente. L'allarme continuava a suonare e qua e là
si udivano altre esplosioni.
“Muoviamoci!”
ripeté il maggiore. “Tra un attimo li avremo addosso!”
In quel
momento si scatenò l'inferno: la macchina dei due ufficiali, che era
rimasta ferma in mezzo al piazzale, scomparve in una fontana di terra
e fuoco, seguita subito dopo da un camion. Gli aerei in linea di volo
decollavano per non offrire un facile bersaglio agli Stuka, ma quelli
che rimanevano al suolo venivano distrutti uno dopo l'altro. Tutto il
personale usciva dagli hangar e dalle baracche per correre verso i
rifugi e già i primi feriti venivano trascinati dai compagni.
Nel
cielo fattosi caliginoso per gli incendi guizzavano le ombre nere
degli aerei tedeschi, il frastuono era talmente forte che gli uomini
non riuscivano a parlarsi nemmeno urlando.
Infine
discesero, un po' correndo e un po' incespicando, le scale che
conducevano sottoterra.
Paragonato
all'apocalisse esterna, il silenzio che regnava nel rifugio pareva
irreale. “Tutto bene?” chiese Stuart riprendendo l'abituale
compostezza. Con un guizzo di apprensione si ritrovò a pensare a von
Rohr. Probabilmente a nessuno era venuto in mente di andarlo a
prendere per farlo scendere nel rifugio, col risultato che il
prigioniero rischiava di essere ucciso dai suoi stessi connazionali.
La
chiesa è lontana dal campo, si disse, ma la cosa non gli parve per
nulla rassicurante.
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Capitolo 13 *** Capitolo 13 ***
Capitolo
13
“E
poi com'è andata a finire?” Seduto nella sua poltrona preferita,
Poynter si rigirava in mano l'Old Fashioned con l'aria di un vecchio
gentiluomo al club della caccia.
“Se
ne sono andati con le pive nel sacco. Capirai, la loro preziosa
macchina era saltata in aria, e il furgone per trasportare il
prigioniero non aveva fatto una fine migliore. Li ha dovuti
riaccompagnare il caporale Grice.”
“Non
ti vedo particolarmente dispiaciuto,” scherzò il capitano.
“Hanno
avuto quello che si meritavano,” rispose Stuart con malcelata
soddisfazione. “Così imparano a venire qui a fare il bello e il
cattivo tempo.”
“E il
tuo tedesco?”
“Non
è il mio tedesco,” replicò
l'altro con una punta di
fastidio. “Comunque è stato furbo: quando ha visto che le cose si
mettevano male ha preso il materasso del letto e si è rintanato in
un angolo con quello addosso. Le vetrate sono andate in frantumi, ma
lui non ha un graffio.”
“Molto
furbo.”
“Tu
dicevi che era un ragazzino stupido.”
“Lo
è. Per certe cose ha senso pratico, per altre è un completo
idiota.”
“Ad
esempio?”
“Si è
deciso a rivolgerti la parola?”
Stuart
scosse la testa.
“Eppure
lo stai proteggendo, no? Io dico che uno sveglio capirebbe subito con
chi è il caso di essere gentile.”
Il
maggiore aveva descritto all'amico la manovra che l'Intelligence
intendeva portare avanti ai danni del pilota della Luftwaffe. Con suo
stupore, lo sdegno di Poynter era stato piuttosto tiepido. “Una
buona idea,” aveva anzi commentato.
“Tu
faresti una cosa del genere?” gli aveva chiesto indignato.
“Io
personalmente no,” era stata la diplomatica risposta, “ma mi
sarebbe sembrato strano se non avessero approfittato della
situazione.”
Continuarono
a bere e a sfogliare distrattamente riviste. Una radio in sottofondo
trasmetteva musica leggera, si udiva il chiacchiericcio sommesso di
qualche conversazione.
Stuart
ripensava alle parole dell'amico. Il tuo tedesco.
In
effetti si era opposto con una certa veemenza quando quelli
dell'Intelligence erano arrivati per portarselo via. Una veemenza
davvero insolita per il suo carattere flemmatico.
Ma il
motivo era legato esclusivamente a quello che avevano intenzione di
fare. Pratiche del genere erano un disonore per una nazione civile,
ed era suo dovere fare di tutto per impedirle.
Si
chiese se gli uomini stessero facendo le stesse illazioni di Poynter.
A quel pensiero involontariamente fece girare lo sguardo sulla sala,
ma nessuno faceva caso a lui.
Appoggiò
il bicchiere vuoto e alzandosi bruscamente disse: “Credo che me ne
andrò a dormire.”
“Salutalo
da parte mia,” gli rispose Poynter con un sorriso.
“Chi?”
“Ma
il mangiacrauti, no? Ormai è uno di famiglia.”
“Insomma,
smettila!” protestò Stuart, e senza attendere risposta uscì nel
buio dell'oscuramento. Gli ci volle un po' per abituare gli occhi,
poi riuscì a distinguere la chiesa che si stagliava vagamente più
chiara contro il cielo nero e vi si diresse.
Ancora
comodamente seduto nel circolo ufficiali, Poynter lanciò un'occhiata
distratta alla porta dalla quale era uscito il collega, scosse la
testa e riprese a leggere.
Essendoci
il coprifuoco, anche l'interno della chiesa era completamente buio.
La canonica era stata equipaggiata di pesanti tende scure in modo che
vi si potessero accendere le luci, ma nessuno aveva pensato di
oscurare anche i finestroni gotici, col risultato che appena calava
la notte Hans von Rohr si trovava immerso nelle tenebre.
Il che
era piuttosto seccante, perché non vedendo a un palmo dal proprio
naso non riusciva a fare nulla. Era costretto a girare tentoni
cercando di non inciampare, e senza luce non poteva nemmeno esplorare
la prigione alla ricerca di eventuali vie di fuga.
C'era
solo un vantaggio in quell’incresciosa situazione: l'inglese non
tentava di parlargli, dal momento che non lo vedeva.
Mentre
stava così ragionando udì dei passi in avvicinamento, lo scatto
della serratura e un brillio di luce che filtrava dalla tenda posta
tra la canonica e la chiesa.
Silenziosamente
si fece indietro, di sicuro il maggiore si sarebbe affacciato e se
l’avesse visto gli avrebbe detto qualcosa.
L’ultima
cosa che voleva era intavolare un’amabile conversazione con un
nemico del Reich.
Si
acquattò come una lepre all’arrivo dei cacciatori.
Come
prevedeva, l’ufficiale inglese scostò la tenda e si avvicinò al
cancello. Scrutò nel buio per qualche secondo, poi chiamò: “Tenente
von Rohr?”
Hans
non rispose.
“Tenente?”
Di
nuovo silenzio.
Il
maggiore però rimase fermo. Sembrava quasi che lo vedesse, perché
era girato proprio nella sua direzione. “Io credo che si possa
combattere restando comunque dei gentiluomini,” cominciò. Poi dopo
qualche secondo soggiunse: “Rispettando il proprio nemico,
comportandosi in maniera onorevole.”
Von
Rohr sbatté gli occhi incredulo: si metteva anche a fargli la
ramanzina adesso?
Ma il
maggiore continuò, come parlando fra sé e sé: “Certi sotterfugi
sono indegni di una nazione civile. Non siamo bestie.”
A
questo punto il tenente si avvicinò perplesso.
“Oh,
è qui,” lo accolse Stuart. “Capita anche in Germania che si
inganni la gente per suscitare l’odio nei confronti degli inglesi?”
La
domanda era così inaspettata che al giovane pilota scappò detto:
“Cosa?”
Si
accorse troppo tardi che aveva appena fraternizzato con l’esecrato
nemico.
“Che
la propaganda diffonda falsità per alimentare l’odio nei confronti
dei nemici,” spiegò il maggiore non notando, o signorilmente
fingendo di non notare l’imbarazzo che aveva pervaso il suo
interlocutore al venir meno dei ferrei propositi di riserbo che si
era imposto.
“Non
sono falsità, è tutto vero,” rispose prevedibilmente l’aquilotto
della Hitlerjugend. “Le potenze straniere stavano strangolando la
Germania, se la stavano spartendo come fanno gli avvoltoi con una
carcassa. Per fortuna il Führer ha messo fine a tutto questo, e ora
siamo di nuovo in grado di combattere per il nostro spazio vitale.”
“Già,
il vostro spazio vitale”, rispose il maggiore con un sospiro. Poi,
dopo alcuni secondi di silenzio: “Ho studiato a Heidelberg, ho
imparato ad amare la cultura tedesca. Come avete potuto ridurvi
così?”
Von
Rohr fece una breve risata. “Il padrone protesta perché lo schiavo
non ne vuole più sapere di restare in catene?” domandò
sarcastico. “Ma certo, povera cultura tedesca bistrattata. Ora noi
abbiamo una nuova cultura, maggiore, che non è serva di nessuno, e
abbiamo smesso di vivere della vostra elemosina. Ora ci prendiamo da
soli quello che ci spetta!”
Così
parlando si era via via infervorato e le ultime parole quasi le gridò
aggrappato alle sbarre del cancello, a un palmo dal maggiore Stuart,
che indietreggiò confuso di fronte a quell’impeto.
“Sturm
und Drang,”
commentò poi l’inglese, “lei è un romantico,
von Rohr.”
“Rohr
e basta.”
Seguì
la domanda di rito: “Perché? Non le piace il suo cognome?”
“È
un cognome aristocratico, e io odio l’aristocrazia.”
“Eppure
lei ne fa parte.”
“Nel
Terzo Reich non esiste l’aristocrazia, siamo tutti uguali. L’unica
nobiltà è quella di Sangue e Suolo.”
“Sarebbe
a dire l'appartenenza al popolo tedesco?”
“Precisamente.”
“Quindi
lei è comunque un aristocratico,”
concluse Stuart con un
sorriso.
Ma se
sperava di zittire l’interlocutore con quell’elegante sofisma si
sbagliava di grosso. “L’aristocrazia non esiste,” replicò von
Rohr, “è vuota forma. Le persone valgono per le azioni che
compiono, non per il nome che portano. Cos’era un aristocratico
prima di diventare tale? Una persona qualsiasi.”
“Beh,
non direi. Un titolo nobiliare in genere viene concesso come premio
per aver compiuto azioni particolarmente brillanti.”
“Oh,
ma certo. La classe dominante che rinsalda i propri privilegi. E cosa
sarebbe questo famoso sangue blu che l’aristocrazia
conferisce? Semplicemente più terre, più popolo a cui estorcere
tasse.”
“Questo
mi sembra un discorso da socialista, tenente,” disse il maggiore.
“No,
da nazionalsocialista.”
Il
giovanotto rimase a guardarlo con aria spavalda, come sfidandolo a
contraddirlo. La fioca luce che proveniva dalla tenda scostata gli
investiva in pieno il volto, facendolo emergere pallido e severo
dalle tenebre.
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Capitolo 14 *** Capitolo 14 ***
Capitolo
14
Il
mattino dopo Stuart si alzò in volo di buon'ora con lo Squadron
quasi al completo. Alcune unità navali avevano segnalato uno stormo
di Junkers 87 in avvicinamento e la sua intenzione era quella di
intercettarlo.
Li vide
quasi subito. L'aria era limpida e la forma spigolosa degli Stuka si
distingueva da lontano. Volavano in formazioni di tre, il maggiore si
accorse che sotto la fusoliera avevano bombe da cinquecento chili.
“Fate
attenzione, ragazzi,” disse in frequenza, ma già i piloti del 19°
avevano avvistato i nemici e si stavano rallegrando che non si
vedessero caccia di scorta.
“Sarà
come andare a pesca di salmoni!” esclamò qualcuno.
Altri
gli diedero ragione con entusiasmo, un paio si lanciarono addirittura
in ardite acrobazie aeree.
Subito
Stuart li richiamò all'ordine: “Nervi saldi, nemmeno i Fritz sono
così stupidi da mandare degli Junkers 87 senza scorta.”
“Avranno
pensato che fossimo ancora a letto!” rispose Evans, uno dei
buontemponi dello Squadron.
La
frequenza risuonò di risate e battute.
Tutti
diedero motore per raggiungere i nemici e cominciare quella che si
preannunciava come una facile mattanza.
Impermeabile
a tanto entusiasmo, Stuart scrutava inquieto il cielo terso. Non
sembrava che ci fossero dei caccia tedeschi in giro, ma tutta
quell'abbondanza, praticamente offerta su un piatto d'argento, gli
pareva altamente sospetta.
Gli
Stuka procedevano frattanto come chi ha tutto il tempo del mondo,
sembrava che stessero sorvolando l'Unter den Linden durante una
parata.
Stuart
si guardò intorno di nuovo. Vide il primo dei suoi ragazzi
raggiungere i nemici e sparare una raffica di traccianti. Lo Junkers
87 si buttò in picchiata, lo Hurricane gli andò dietro seguito da
un altro, ma in quel momento qualcosa passò come un fulmine tra il
tedesco e il più avanzato degli inglesi. Un istante dopo lo
Hurricane cadeva in vite emettendo una scia di fumo nero. Stuart non
fece in tempo a riaversi dalla sorpresa che un altro caccia cadde
abbattuto. Si voltò cercando di identificare il misterioso
assalitore e riuscì a scorgere di sfuggita la sagoma scura e
compatta di un Messerschmitt 109. L'aereo guizzò via con una manovra
che Stuart aveva visto innumerevoli volte, si abbassò di quota quel
tanto da convincere un paio di incauti a metterglisi in coda, fece un
Immelmann e un attimo dopo un terzo aereo britannico cadeva in
fiamme.
A
questo punto il tedesco sparì, e nell'agitazione generale i piloti
del 19° si accorsero che era in arrivo un nutrito stormo di caccia.
Gli
Stuka divennero l'ultimo dei problemi per gli inglesi.
Stuart
rientrò alla base con cinque aerei di meno, era finito in mezzo ad
una trappola in piena regola. Chi la fa l'aspetti, pensò, rievocando
quella che lui stesso aveva messo in atto per abbattere il Cavaliere
di Valsgärde.
Camminava
svelto verso la baracca del comando quando uno dei suoi piloti più
giovani lo affiancò con tutta l'aria di volergli chiedere qualcosa.
“Mi
dica, tenente Guthrie,” lo incoraggiò.
Il
giovane lo fissò serio. Si fermò, costringendo in quel modo il suo
superiore ad imitarlo. “Era lui, vero?”
“Chi?”
“Lui.
Quello che ha fatto fuori anche Carter.”
Secondo
le disposizioni dell'Intelligence, l'ordine era di considerare il
Cavaliere di Valsgärde caduto in combattimento, ma Stuart non se la
sentì di negare l'evidenza.
“Era
lui,” rispose.
“Credevo
che l'avesse abbattuto, signore.” Al maggiore parve di cogliere
nella frase un tono di vago rimprovero.
“Lo
credevo anch'io, Guthrie,” sospirò Stuart. “Ho abbattuto un
aereo dal muso rosso, questo sì, ma dentro non c'era la persona
giusta.”
“Capisco.
Mi scusi se ho chiesto, signore.”
“Non
si preoccupi.”
Rimase
fermo a guardare il tenente che si allontanava. Forse avrebbe dovuto
riprenderlo per la sua impertinenza, ma preferì far finta di nulla.
Lui e Carter avevano fatto la scuola di volo insieme ed erano amici.
Probabilmente quel ragazzo soffriva ancora per la sua perdita.
Mentre
era ancora immerso nei suoi pensieri, Poynter lo raggiunse. “Mi
viene in mente la barzelletta del pazzo che si credeva un chicco di
grano,” disse.
Stuart
lo fissò stupefatto. “Prego?”
“Dopo
anni di cure viene dimesso dal manicomio e dice ai dottori:
finalmente
sono guarito, non mi credo più un chicco di grano. Mi
rimane solo un dubbio: ma le galline lo sanno?”
“Smetti
di parlare per enigmi,” rispose Stuart, che comunque aveva già
capito dove volesse arrivare l’amico.
“Mi
chiedevo: il Cavaliere di Valsgärde sa di essere stato abbattuto?
Perché se non lo sa sarebbe il caso di farglielo presente.”
“Non
ti ci mettere anche tu.”
“Ah,
non te la prendere, era solo per sdrammatizzare un po'. Quel bastardo
è vivo e vegeto, e adesso non riusciamo nemmeno più a distinguerlo
dai suoi amichetti per metterci al riparo quando arriva. Lo sai che
oggi a momenti mi staccava un'ala? La vecchia Carol ha più buchi di
un colabrodo, povera piccola.”
La
vecchia
Carol era
l'aereo di Poynter.
“Hai
detto agli uomini di sistemarlo per domani?” gli chiese Stuart.
“Si
capisce, Carol ci tiene a presentarsi come si deve.”
Stuart
sospirò. “Che dannato problema,” brontolò fra i denti.
Lasciò
vagare lo sguardo sui suoi piloti che parlottavano fra loro o se ne
stavano sdraiati al sole in attesa che i loro aerei fossero riforniti
e rimessi in condizioni di volo. Era certo che Guthrie non fosse
stato il solo a riconoscere il Cavaliere, e se l'Intelligence poteva
ordinare a lui di tenere la bocca chiusa, non poteva certo impedire a
‘radio gavetta’ di trasmettere ai quattro venti che il tedesco
era ritornato più agguerrito di prima.
Nonostante
le complicazioni che si preannunciavano all'orizzonte, ne provò una
certa vaga soddisfazione. Tempo due giorni e tutti gli Squadron della
sua zona avrebbero saputo l'importante notizia.
“Voglio
proprio vederli adesso a fare il loro bel cinegiornale di
propaganda,” disse.
Poynter
si voltò. “Cosa?”
“Come
faranno a sbandierare che il Cavaliere di Valsgärde è stato
abbattuto?”
Con
gesti misurati il capitano si mise una sigaretta fra le labbra,
l'accese, aspirò una voluttuosa boccata di fumo e filosoficamente
disse: “Non sottovalutarli.”
“Non
possono mica negare l'evidenza!”
“Ah,
no?”
“No!”
rispose il maggiore, ma il tono non fu energico come avrebbe voluto.
Stava per proseguire con un'accorata requisitoria sulla correttezza e
la lealtà quando lo avvertirono che gli aerei erano di nuovo pronti
al decollo.
La
concione venne momentaneamente accantonata.
Per le
successive due missioni il Cavaliere non si presentò. Quelli che lo
Squadron si trovò a fronteggiare furono normali caccia della
Luftwaffe, impegnativi ma non appesantiti dall'aura di invincibilità
che invece ammantava il famigerato avversario, tanto che qualche
ottimista arrivò addirittura a sperare che in realtà avessero
scambiato per il Cavaliere di Valsgärde redivivo un pilota
particolarmente abile o fortunato, secondo la teoria per cui chi si è
bruciato con l'acqua calda teme anche quella fredda.
Fu solo
nel tardo pomeriggio che il Cavaliere ricomparve: mentre Stuart era
in volo con i suoi per rientrare alla base arrivò a tutta manetta
sul pelo dell'acqua, così basso che i riflessi del tramonto sulle
onde si confondevano con la sagoma spigolosa del Messerschmitt, poi
all'improvviso cabrò andando su in verticale, attraversò la
formazione britannica come un fuso e la superò scomparendo contro il
disco rosso del sole. Mentre i piloti inglesi si disperdevano
disorientati dalla subitanea apparizione, il Cavaliere fece una
virata sfogata, picchiò per prendere velocità, puntò un caccia che
era rimasto isolato dagli altri e lo abbatté con una raffica di
traccianti.
Come
sempre, dalla sua comparsa al primo aereo che precipitava in fiamme
non erano passati più di dieci secondi.
Teso,
Stuart si guardò intorno. La luce era la peggiore che si potesse
immaginare: scarsa e bassa sull'orizzonte. In più i raggi aranciati
falsavano pericolosamente i colori disorientando i piloti. I caccia
sono aerei diurni, che hanno bisogno di molta luce e cieli sgombri.
Volare in quel crepuscolo livido dava la sensazione di camminare
sulle sabbie mobili.
“Poynter,
chi è caduto dei nostri?” chiese in frequenza, ma non fece in
tempo a sentire la risposta: una raffica di traccianti gli attraversò
la fusoliera facendo schizzare via scintille e pezzi di rivestimento
metallico. Il maggiore si tolse immediatamente dalla traiettoria dei
proiettili con una scivolata d'ala, e pur nella luce che andava
scemando vide la sagoma di un Messerschmitt che guizzava via per
rimettersi in posizione d'attacco. L'aereo non aveva nulla di diverso
rispetto ai suoi simili, ma ormai Stuart aveva imparato a riconoscere
le manovre del Cavaliere di Valsgärde, e quello era lui senza ombra
di dubbio.
Si
guardò intorno: nessuno dei suoi nelle vicinanze. Il tedesco era di
nuovo sul pelo dell'acqua, appariva e scompariva tra i luccichii del
sole sulle onde. Picchiò per raggiungerlo, ma prima che riuscisse a
metterglisi in coda, quello schizzò verso l'alto. Stuart lo imitò,
ma i pochi secondi che impiegò per interrompere la picchiata e
trasformarla in una cabrata furono sufficienti per far sì che il
Messerschmitt gli sfuggisse.
Un
istante dopo se lo vide arrivare contro a tutta manetta, i traccianti
erano come un nugolo di insetti furiosi e c'era il rumore di una
grandinata. Realizzò con orrore che la grandinata era prodotta dalle
pallottole del tedesco che attraversavano le ali e la fusoliera del
suo aereo.
Sto
per morire,
pensò in un lampo, e subito dopo pensò a von Rohr,
dispiaciuto perché non avrebbe più potuto proteggerlo dalle mire
dell'Intelligence.
Poi non
successe nulla.
Non fu
abbattuto, non morì, non entrò nemmeno in combattimento con il
Cavaliere di Valsgärde. Dopo l'ultimo passaggio il suo avversario si
sganciò e se ne andò verso le coste della Francia.
A
Stuart, pallido e sudato ai comandi del suo aereo, non restarono che
congetture: forse il tedesco si era accorto di avere poco carburante,
o forse aveva compiuto uno degli atti cavallereschi che l'avevano
reso famoso tra le ragazze inglesi. Non era dato saperlo. L'unica
cosa certa era che l'aveva lasciato in vita.
Quando
Stuart scese dall’aereo si accorse che le gambe lo reggevano male.
Sapeva che i ragazzi lo stavano guardando, per cui fece finta di
niente e si diresse verso la baracca del comando. Ovviamente non
riuscì a ingannare Poynter, che lo raggiunse e a bassa voce gli
disse: “Ti vedo un po’ palliduccio.”
“Non
mi hai ancora detto chi è caduto dei nostri,” replicò il maggiore
per tutta risposta.
“Guthrie,
poveretto. Abbattuto come una beccaccia. Volevo dirtelo prima, poi
quello là ti ha preso di coda e ho pensato che avessi problemi più
urgenti.”
Stuart
sospirò. Proprio Guthrie. Se ne sentì assurdamente in colpa.
Lanciò
un'occhiata al cielo che andava virando verso un blu cobalto appena
screziato di nubi e si sentì in colpa – e in imbarazzo – anche
per un'altra cosa: se durante il combattimento il Cavaliere di
Valsgärde l'avesse ucciso, il suo ultimo pensiero sarebbe stato per
Hans von Rohr.
Non
sapeva se considerare la cosa più insensata, ridicola o
imbarazzante.
Si
passò una mano sulla tasca sinistra dell’uniforme, dove, in un
elegante portafotografie di pelle, teneva l’immagine della sua
fidanzata. Fu un gesto automatico come quello di toccare legno
nell’assistere ad un evento di cattivo auspicio.
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Capitolo 15 *** Capitolo 15 ***
Capitolo
15
Stuart
rientrò al suo alloggio che era già buio. Nonostante l’oscurità
si affacciò come sempre sulla navata della chiesa e la sua
attenzione fu colpita da qualcosa di insolitamente bianco. Aguzzò lo
sguardo incuriosito e gli parve di distinguere una figura velata
vagamente somigliante ai fantasmi dei racconti gotici.
“Tenente?”
chiamò stupito. Come prevedeva non gli giunse alcuna risposta.
L'insolita
visione gli fece temere che il prigioniero avesse trovato il modo di
evadere, per quanto non riuscisse ad immaginare come, quindi andò a
prendere una candela per sincerarsi che von Rohr fosse ancora dove
l’aveva lasciato.
Alla
tenue luce della fiammella vide una figura seduta sul letto. Era di
schiena e sembrava avvolta in un lenzuolo drappeggiato come una
specie di peplo. La nuca bionda era inconfondibile, così come il
portamento orgoglioso e vagamente rigido delle spalle.
“Che
ci fa combinato come un imperatore romano, von Rohr?” domandò.
Il
tedesco si alzò in piedi e si girò verso di lui con un movimento in
apparenza solenne, in realtà probabilmente solo cauto, dettato dalla
necessità di mantenere la decenza nonostante l’abbigliamento
insolitamente succinto.
“Ho
lavato i miei vestiti,” disse.
Il
maggiore sorrise. “Oh, capisco,” rispose soltanto.
“Mi
piace la pulizia,” replicò il tenente fissandolo torvo.
Rimasero
in silenzio per qualche secondo. Stuart pensò che con quella luce e
vestito in quel modo von Rohr sembrava uscito da un quadro di Alma
Tadema. Si sorprese a notare che aveva un fisico asciutto ma
muscoloso.
La voce
tagliente di von Rohr lo riportò bruscamente alla realtà: “La
smetta di guardarmi, non sono una scimmia dello zoo. I miei vestiti
erano sporchi e non mi andava di affidarli a qualche soldato inglese
che me li avrebbe rubati come è successo con il resto dei miei
effetti personali. Fare il bucato viola la Convenzione di Ginevra,
per caso?”
Gli
girò le spalle per allontanarsi, ma il movimento fu troppo rapido e
l'improvvisata toga scivolò giù, lasciando scoperto proprio ciò
che egli aveva tanto lottato per nascondere.
Forse
un militare con più esperienza ci avrebbe fatto sopra una risata, ma
von Rohr avvampò e si ritrasse bruscamente recuperando nel frattempo
il lenzuolo caduto.
Scomparve
nell'ombra.
“Non
si preoccupi, tenente, non è il primo uomo nudo che vedo,” gli
assicurò bonariamente Stuart, ma il ragazzo non rispose e mantenne
un ostinato silenzio anche ai successivi approcci del maggiore, che
alla fine si rassegnò e se ne tornò nella canonica.
Quella
notte Stuart fece uno strano sogno: si trovava in un museo e stava
attraversando una galleria che conteneva numerose statue classiche,
tutte disposte ad intervalli regolari lungo le pareti. Esse
raffiguravano esempi storici e mitologici di bellezza maschile,
Apollo, Ganimede, Antinoo, Adone e così via, ed erano completamente
nude.
Erano
poste su elaborati piedistalli e con diabolica precisione avevano
tutte l’inguine all’altezza dei suoi occhi, così che lui era
obbligato a procedere a passo spedito e con lo sguardo dritto davanti
a sé per non dare l’impressione di indugiare sui genitali
maschili, e si chiedeva nel frattempo se quel comportamento non
risultasse paradossalmente ancora più sospetto di tendenze
particolari.
Quel
pensiero gli dava una certa ansia.
Ansia
che divenne autentico panico quando finalmente uscì dalla galleria e
si imbatté nella sua fidanzata a braccetto con un altro. Riconobbe
l’uomo: era il bellimbusto a cui l’aveva sottratta mesi prima.
“Va
pure, a che ti servo io adesso?” gli disse la giovane donna,
salutandolo come se si trovasse a bordo di un piroscafo pronto a
salpare. Si strinse al suo nuovo cavaliere e di colpo era davvero su
un piroscafo, che si stava allontanando dalla costa a velocità
vertiginosa.
Stuart
si ritrovò su un aereo mentre cercava invano di inseguire la
rapidissima nave. Essa scomparve all’orizzonte, e mentre lui
fissava avvilito il mare ormai vuoto si accorse di essere ai comandi
di un Messerschmitt 109 della Luftwaffe. Al suo fianco stava volando
il Cavaliere di Valsgärde, che gli rivolse un cenno di saluto e con
aria di vaga complicità gli disse: “Questo è meglio, no?”
Il
maggiore rispose con entusiasmo di sì, e dimentico del piroscafo si
lanciò assieme a lui in una serie di ardite acrobazie.
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Capitolo 16 *** Capitolo 16 ***
Capitolo
16
Stuart
si svegliò ancora pervaso dalla sensazione di piacere di quel volo.
Si stirò nel letto rievocando nubi così corpose da sembrare solide,
di colori che andavano dall’arancio al rosa, e un mare blu cupo sul
quale i raggi del sole calante si riflettevano in migliaia di
luccichii.
Pensò
al Messerschmitt 109 che aveva pilotato nel sogno.
In
realtà gli era capitato raramente di vedere da vicino il celebre
caccia della Luftwaffe. Una volta ne avevano abbattuto uno vicino
alla base e lui era riuscito ad arrampicarsi sull’ala, ma mentre
stava osservando l’abitacolo c’era stato un allarme antiaereo e
aveva dovuto sospendere la sua ispezione. Poi ne aveva visto qualcun
altro, ma sempre da fuori, e variamente danneggiato dalla contraerea
o dai duelli coi caccia.
Allungò
una mano per scostare la pesante tenda da oscuramento. Fuori c’era
il vago chiarore che precede l’alba e la finestra era un reticolo
nero su un cielo color piombo. Quell’intersecarsi di linee
ortogonali gli ricordò la capottina squadrata del Messerschmitt 109,
ma subito dopo gli evocò un ricordo decisamente meno gradevole: il
soffitto vetrato della galleria delle statue.
Ripensandoci
si accorse che il luogo non era un'invenzione del suo subconscio, ma
uno degli ambienti di rappresentanza dell’Accademia Militare che
aveva frequentato. Ovviamente là non c’erano le statue nude, ma
l’architettura classicheggiante era tale e quale.
E ad un
tratto gli tornò in mente un episodio verificatosi quando era un
cadetto. Tutto pervaso di antica Grecia e sodalizio virile, si era
legato a un giovane di un altro corso, e poiché stavano in due ali
diverse dell’Accademia era solito lasciargli dietro il piedistallo
del busto di Wellington, che troneggiava circa a metà della
galleria, delle poesie composte di propria mano. Nei suoi versi lo
chiamava Fair
Youth,
esattamente come il misterioso giovane
cui si rivolgeva Shakespeare nei sonetti e che si diceva fosse stato
suo amante.
Lo
ricordava ancora: era un ragazzino biondo, dalle fattezze delicate,
con grandi occhi azzurri dall’espressione sognante.
All’epoca
si era invaghito di lui, ma probabilmente solo perché non c’erano
ragazze in giro. E poi perché era giovane e non sapeva ancora niente
del sesso. Fortunatamente, comunque, in tutta la loro frequentazione
non si erano scambiati altro che qualche carezza e qualche casto
bacio sulle labbra.
Molti
palpiti, però, e molte poesie.
Sospirò
a disagio. Avrebbe voluto dimenticare quell’incresciosa faccenda,
ma certi ricordi rimangono piantati nella memoria come chiodi nella
croce di Cristo.
Si alzò
con la sensazione di dover scongiurare una tragedia incombente: quel
sogno gettava una luce nuova – nuova e decisamente inquietante –
sulla presenza di von Rohr.
Perché
si opponeva con tanta veemenza al suo trasferimento? Non voleva che
fosse accusato ingiustamente, certo, ma era davvero il solo e unico
motivo? Non c’era per caso qualche sentimento strano in mezzo?
“Dio
mi scampi,” mormorò passandosi una mano sul viso.
Febbrilmente
cominciò a enumerare tutti gli elementi che deponevano a sfavore
della paventata eventualità, con l’angoscia di un paziente che
valuta i propri sintomi cercando di escludere una malattia
incurabile.
Io
ho una fidanzata, pensò per prima
cosa, una
fidanzata che amo
e con la quale vado a letto tutte le volte che posso. Ce l’ho
sempre in mente. Abbiamo deciso di non sposarci, questo è vero, ma
solo perché c’è la guerra. Sarà la prima cosa che faremo quando
finirà. E poi vogliamo bambini, tanti bambini. Nessun anormale vuole
bambini. E comunque von Rohr è un maschio, e a me i maschi non
piacciono, non c’è altro da dire.
Ma la
cosa non gli dava la sperata tranquillità. Stralci dei versi che
aveva composto in Accademia continuavano a risuonargli in mente
suscitandogli un colpevole imbarazzo, inoltre le allusioni di
Poynter, quelle frasi che buttava lì quando credeva di fare il
simpaticone, continuavano a tormentarlo: il tuo tedesco, sei
più
geloso di lui che della tua fidanzata, abiterete insieme…
Davvero
erano solo battute o aveva capito qualcosa?
O
magari stava cercando di dirgli qualcosa, di fargli
capire
cosa rischiava a tenersi lì quel tedesco.
Perché
in effetti von Rohr era sì un nazista dal carattere sgradevole e dai
modi scontrosi, ma bisognava ammettere che era anche dotato di
notevoli attrattive.
Era
bello, tanto per cominciare. Nonostante la giovane età non aveva
nulla dell’adolescente sgraziato che tenta con fatica di diventare
uomo. Aveva anzi un bel viso dai lineamenti severi, e per quello che
aveva visto anche un corpo armonioso e forte.
E poi
era coraggioso, tenace e risoluto. Forse un po' rigido e
ideologizzato, ma quella in realtà era una cosa che aggiungeva
fascino, anziché toglierne. Tutta quell’intransigenza dava l'idea
di avere a che fare con una specie di templare votato ad una santa
impresa.
Quel
pensiero gli evocò la navata della chiesa, e naturalmente il suo
inquilino. Si voltò a disagio in quella direzione, rimase qualche
secondo come in ascolto, quindi si girò bruscamente e cominciò a
vestirsi in fretta per andare in servizio.
Passò
davanti all'improvvisata prigione alla chetichella, quasi non volesse
farsi sentire. Non c’era pericolo che von Rohr tentasse di
rivolgergli la parola, normalmente quando lui passava il tedesco
stava ben attento a spostarsi verso la parete più lontana e a
girarsi di spalle, ma stavolta non voleva nemmeno correre il rischio.
La
giornata trascorse in voli di guerra. Stuart prese parte a ognuno di
essi, usando addirittura l'aereo di un altro pilota quando il suo
ebbe un'ala sforacchiata e per qualche ora non fu in condizione di
volare. Quando fu troppo buio per le missioni di caccia andò alla
baracca del comando e attaccò febbrilmente un cumulo di burocrazia
arretrata.
Dopo un
tempo imprecisato, Poynter si palesò sulla porta. “Credevo che un
commando di mangiacrauti ti avesse catturato,” disse semplicemente.
“Cosa?”
esclamò il maggiore, alzando bruscamente la testa dal suo lavoro.
Poi, a voce più bassa: “Non ti avevo sentito entrare.” Il tono
aveva una nota di vago rimprovero.
“Non
mi avresti sentito nemmeno se fossi entrato suonando la grancassa,”
rispose noncurante il capitano. “Sembravi parecchio assorto nel tuo
lavoro.” Poi, avvicinandosi: “Che roba è?”
“Stavo
sistemando la corrispondenza.”
“Oh.
Sembra appassionante,” lo canzonò l'amico, quindi soggiunse,
imitando il tono di un maggiordomo della Casa Reale: “Il signor
maggiore intende onorarci della sua presenza in mensa?”
D'istinto
Stuart guardò l'orologio e subito esclamò: “Accidenti, ma è
tardissimo!” Diede un'occhiata fuori dalla finestra e si accorse
che era calata la notte. Scattò a tirare le tende nere e spense la
luce principale lasciando solo quella da tavolo.
Imbarazzato
all'idea di essere stato colto in fallo proprio sull'oscuramento, una
necessità che aveva ribadito ai suoi uomini fino alla nausea, evitò
di guardare in viso Poynter. “Sarà meglio che andiamo,” disse
soltanto, uscendo rapido dalla stanza.
Il
capitano fece spallucce e gli tenne dietro senza replicare.
Dirigendosi
a grandi passi verso la mensa, il maggiore si sentiva però quasi
sollevato per la prima volta nella giornata. L'apparizione di Poynter
aveva in un certo senso fatto da catalizzatore per certe idee che da
parecchie ore andava rimuginando senza riuscire a concludere nulla.
Vederlo
sulla porta e pensare alle sue battute caustiche era stato tutt'uno.
Chissà cosa
direbbe se sapesse del mio sogno, si era chiesto
con apprensione.
E da
lì, in un immaginabile concatenarsi di pensieri, era giunto alla
conclusione che era arrivato il momento di allontanare il
prigioniero.
Non
c'era più motivo di tenerlo lì. Anzi, con la sua destabilizzante
presenza gli toglieva sonno e concentrazione, mettendolo a rischio di
commettere errori potenzialmente fatali durante le missioni di
guerra, quindi era imperativo che fosse allontanato quanto prima.
Era ora
di consegnarlo all'Intelligence come gli era stato richiesto.
Sicuramente alla fin fine non intendevano fargli chissà che, ci sono
delle regole per certe cose. L'avrebbero sballottato un po' in giro,
magari, l'avrebbero messo in qualche finto documentario per mostrare
alla gente gli Unni cattivi e poi l'avrebbero spedito in un campo
prigionieri dall'altra parte del mondo ad aspettare la fine della
guerra. Certo non era corretto, e non era nemmeno una gran
prospettiva per un giovane ufficiale ansioso di fare il proprio
dovere, ma un sacco di gente aveva fatto una fine ben peggiore,
quindi von Rohr non avrebbe potuto lamentarsi più di tanto.
Stuart
trascorse la cena nel più ameno degli stati d’animo. Si sentiva
sollevato come uno che fosse riuscito a scongiurare una minaccia che
da tempo lo terrorizzava. Partecipò alle conversazioni, lodò il
cuoco per la sua abilità e proferì addirittura alcuni garbati motti
di spirito. Relegato in un angolo della sua mente come un metaforico
pacco da spedire, il tedesco sembrava aver cessato di esercitare la
propria nefasta influenza su di lui.
Non gli
faranno niente, si ripeteva, alla fine lo strapazzeranno un po’ e
poi lo manderanno in Canada, magari, o da qualche parte nel Pacifico.
Clima buono e belle ragazze, sempre meglio di una trincea piena di
fango. O di una fossa comune.
“George?”
La voce di Poynter lo fece quasi trasalire.
“Eh?”
“Eri
di nuovo nel tuo mondo, stasera mi sembri Alice nel paese delle
meraviglie. Si può sapere a cosa stai pensando di così piacevole?”
Stuart
ritenne che nominare von Rohr non sarebbe stata una buona idea,
quindi prontamente disse: “Stavo pensando a Margaret. Credo sarebbe
meglio se ci sposassimo.”
“Mi
pareva che fossi stato proprio tu a dirle che preferivi aspettare la
fine della guerra.”
“Lo
so, ma forse non è stata una buona idea. Un uomo si deve sistemare a
un certo punto, no?”
“Immagino
di sì,” fu la diplomatica risposta del capitano.
“Ma
certo che sì!” rispose Stuart con entusiasmo. Poynter valutò che
faceva pensare a un sensale mentre cerca di piazzare un cavallo.
Ostentava una strana allegria forzata, decisamente diversa dal suo
solito atteggiamento pacato e silenzioso.
“Tutto
bene?” s’informò con discrezione.
L’altro
assunse un’espressione stupita. “Perché me lo chiedi?”
“Non
lo so, mi sembri strano.”
“Strano
perché parlo della mia fidanzata? E di cosa dovrei parlare secondo
te per non essere strano?” E
provvidenzialmente s'interruppe
prima che gli scappasse detto: “Di quel dannato
tedesco?”
Tese il
piatto affinché fosse riempito di nuovo e riprese a mangiare in
silenzio. Così
non va,
pensava indispettito, così non va
per nulla.
Perché,
nonostante tutti i suoi sforzi, quel dannato von Rohr tornava sempre
fuori? Per quanto cercasse di cancellarlo dalla mente, nelle
occasioni più inaspettate si trovava a pensare a lui.
Era
decisamente ora di allontanarlo, se lo ripeté per l’ennesima
volta. Non poteva sperare di condurre le missioni di guerra con la
necessaria lucidità se l'assillo di quel giovanotto non voleva
lasciarlo in pace. Molto meglio liberarsi di lui e non pensarci mai
più.
Era
piuttosto tardi quando Stuart fece ritorno al suo alloggio. Si era
trattenuto a chiacchierare con gli altri piloti, una cosa che
normalmente non faceva, e anche nel dirigersi verso la canonica aveva
indugiato in modo insolito.
Si
fermò per l'ennesima volta a scrutare l'edificio, che nel buio
dell'oscuramento appariva come una sagoma indistinta e vagamente
oppressiva. Prese in considerazione l'idea di andare a dormire nella
baracca del comando. Là c'erano una brandina e un cambio di
biancheria per ogni evenienza, ma soprattutto non c'era quel dannato
crucco ad aspettarlo.
In
realtà di sicuro il tedesco non lo stava aspettando, anzi con ogni
probabilità stava già dormendo della grossa, ma la sola idea di
accorciare le distanze tra sé e lui aveva il potere di metterlo a
disagio.
Si
voltò speranzoso in direzione della baracca del comando, ma dovette
a malincuore rinunciare al suo proposito: se avesse fatto una cosa
del genere avrebbe dovuto dare ai suoi piloti una giustificazione
plausibile del perché abbandonava le comodità del suo alloggio in
favore di una brandina sgangherata, e purtroppo non gliene veniva in
mente nessuna. Si augurò che arrivasse un'incursione aerea e
risolvesse lo spinoso problema obbligandolo a trascorrere la notte
nel rifugio, ma quella sera i ragazzi di Goering non sembravano avere
voglia di intervenire in suo favore.
Con un
sospiro raggiunse a malincuore la canonica.
All'interno
il silenzio era perfetto. Stuart rimase in ascolto qualche secondo,
ma non udì il più piccolo rumore. Von Rohr dormiva, o se non
dormiva era immobile da qualche parte come faceva di solito, ben
attento a non dar segno di sé per non attirare la sua attenzione.
Invece
di dargli lo sperato sollievo, quell'idea in qualche modo lo
intristì. Provò fugacemente la stessa costernazione di quando da
bambino aveva tentato di dare da mangiare a un cerbiatto e quello,
invece di prendere il pane dalla sua mano, era scappato via.
Fece un
cauto passo avanti, tastò nel buio finché non trovò una candela e
l'accese.
A
quella pur tenue luce notò immediatamente una cosa insolita: la
tenda che separava la canonica dalla chiesa stava oscillando.
Subito
si guardò intorno alla ricerca di correnti d'aria, ma la fiammella
palpitava perfettamente dritta, segno che l'aria era immobile.
Fissò
di nuovo la tenda, le cui oscillazioni si andavano lentamente
smorzando.
Mi
aspettava? pensò turbato. Poi stabilì che probabilmente von Rohr
voleva solo essere sicuro di non farsi sorprendere dal suo rientro.
Magari i suoi vestiti non erano ancora asciutti e non voleva correre
il rischio di essere visto nudo una seconda volta.
L'idea
gli strappò un sorriso. Ripensò alla comica espressione di
imbarazzo che il giovanotto aveva assunto trovandosi improvvisamente
in tenuta adamitica e per un attimo si sorprese a desiderare di
scompigliargli affettuosamente i capelli.
Poi
intervenne la voce della coscienza a ricordargli che von Rohr era un
ufficiale nemico.
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Capitolo 17 *** Capitolo 17 ***
Capitolo
17
Provvidenzialmente,
l'Intelligence arrivò proprio il mattino dopo. Tornarono i due
ufficiali che aveva già conosciuto, e che frattanto aveva scoperto
chiamarsi rispettivamente capitano Benson e maggiore Linwood,
entrambi col sorriso delle grandi occasioni stampato in volto.
“Salve,
vecchio mio!” salutò il maggiore scendendo dalla macchina. “Le
porto delle ottime notizie!”
“Che
genere di notizie?” chiese Stuart vagamente sospettoso.
“Notizie
di suo gradimento, vedrà. C'è un posto dove possiamo parlare?”
Si
spostarono nella baracca del comando.
“Ecco
qui, guardi!” esclamò il maggiore Linwood non appena si furono
seduti intorno al tavolo. “Guardi che bellezza.”
Solennemente
tirò fuori dalla sua cartella portadocumenti un astuccio di velluto
e lo fece scivolare verso Stuart.
Questi
lo fissò perplesso e poi alzò gli occhi sul collega.
“Lo
apra, lo apra!” disse Linwood con fare incoraggiante.
L'altro
fece ciò che gli veniva suggerito: all'interno della scatoletta,
adagiata su un prezioso letto di seta color porpora, c'era una croce
latina d'argento. Al centro aveva un serto di foglie che conteneva le
lettere R.A.F. ed era sormontato da una corona reale. Lungo i bracci
orizzontali della croce si allargavano due ali.
Stuart
riconobbe la decorazione: si trattava di una DFC, Distinguished
Flying Cross,
e veniva assegnata solo per atti di valore,
coraggio o dedizione al dovere compiuti nel corso di voli di guerra
contro il nemico.
Alzò
gli occhi per fissare in viso il suo parigrado. “Che significa?”
chiese serio.
“Questa
le verrà conferita nel corso di una cerimonia ufficiale.”
“Non
ne vedo il motivo.” Chiuse la scatola con un gesto secco e la
rispedì al mittente.
“Oh,
via, non sia modesto,” rispose Linwood, “in fin dei conti ha
abbattuto un pericoloso pilota nemico.”
“Sarebbe
a dire?”
“Ma
il Cavaliere di Valsgärde, no?”
“Vi
ho già detto che non è lui,” replicò Stuart alzando leggermente
la voce. Poteva anche aver deciso di consegnare von Rohr, ma non gli
andava di prestarsi a quella farsa.
Linwood
assunse l'aria di paterna benevolenza che era solito opporre alle
affermazioni di principio di Stuart. “Suvvia, maggiore, gliel'ho
già spiegato,” disse in tono amichevole, come a cercare una
qualche forma di complicità. “In realtà non importa a nessuno se
quel crucco sia davvero il Cavaliere o no. L'importante è come lo
presenteremo alla gente. Mostreremo un Unno cattivo che viene punito
per la sua perfidia, tutti saranno felici e contenti e odieranno il
dannato Terzo Reich con rinovellato vigore.”
Il
maggiore Stuart lo fissò meditabondo. Dopo qualche secondo di
silenzio chiese: “Non gli farete niente, vero? Intendo, niente di
male.”
I due
dell'Intelligence si scambiarono un'occhiata. “Assolutamente
nulla,” gli assicurò il maggiore.
“Niente
di niente,” ribadì il capitano, che apriva bocca per la prima
volta.
“Voglio
dire, non vi metterete a picchiarlo o cose del genere per fargli
confessare che è il Cavaliere di Valsgärde, spero.”
Linwood
parve addirittura offeso. “Che sciocchezza, non siamo mica nel
Medioevo!” protestò.
Sul
gruppo calò di nuovo il silenzio. Stuart avrebbe dovuto provare
sollievo per quello che stava per succedere, ma chissà perché la
cosa invece gli comunicava una sorda inquietudine. Fissava ora l'uno
ora l'altro dei suoi interlocutori alla ricerca di una conferma che
von Rohr sarebbe stato trattato adeguatamente, ma la loro espressione
non lo rassicurava per nulla.
Aprì
la bocca per parlare, ma prima che potesse proferire verbo Linwood lo
precedette: “E c'è anche una promozione nell'aria,” disse con
una strizzata d'occhio. “Dia retta a me, se gioca bene le sue carte
si ritroverà tenente colonnello prima della fine del mese.”
In quel
momento un aereo passò a bassissima quota sul campo, facendo tremare
i vetri col rombo del motore.
Stuart
non alzò nemmeno la testa, sicuramente si trattava di uno dei suoi
ragazzi in vena di bravate, ma i due dell'Intelligence, non abituati
a tali spettacoli, corsero alla finestra.
Vedendoli
distratti, il maggiore ne approfittò per sbirciare i dattiloscritti
che spuntavano dalla cartella di cuoio. Lo strano atteggiamento
mellifluo dei suoi ospiti l'aveva insospettito e voleva vederci
chiaro.
Sfilò
un documento e gli diede una scorsa. Subito lo sguardo gli cadde su
una parola: impiccagione.
“Che
significa?” esclamò, balzando in piedi senza abbandonare il
foglio.
Tutti i
suoi bei castelli in aria crollarono miseramente: altro che
strapazzarlo un po' e mandarlo in un campo prigionieri in Canada,
quelli volevano ammazzarlo!
I due
ufficiali dell'Intelligence si girarono bruscamente verso di lui.
“Che
cosa significa tutto questo?” ripeté Stuart indietreggiando col
documento sgualcito in mano.
Linwood
sospirò. “Via, maggiore, non faccia il bambino.”
“Come
sarebbe a dire ‘non faccia il bambino?’ Volete processare e
uccidere un innocente, io non sarò mai complice di una cosa del
genere, nemmeno se mi offrite dieci medaglie e il grado di generale!”
I due
dell'Intelligence si scambiarono uno sguardo a metà fra il perplesso
e l'esasperato. “Questa è guerra, maggiore Stuart,” cominciò
poi pazientemente Linwood. “Guerra, ha presente?” Sembrava che
parlasse a un bambino ritardato. “E noi avremmo anche intenzione di
vincerla, possibilmente. Giusto?”
Si
fermò in attesa di una risposta, ma il pilota si limitò a guardarlo
torvo.
Imperterrito,
Linwood riprese: “Capisce anche lei che non possiamo permetterci di
perderla. È in gioco la sopravvivenza della civiltà come noi la
conosciamo, e se il prezzo da pagare per mantenere le cose come sono
è la testa di due o tre innocenti, chiamiamoli così, io lo accetto
ben volentieri.”
Stuart
continuava a tacere. I suoi occhi mandavano lampi.
“Ma
insomma!” sbottò alla fine Linwood. “Mi sembra che lei gli abbia
sparato per abbatterlo, no? Non ha rischiato di ucciderlo in quel
frangente?”
“Non
è la stessa cosa,” fu la cupa risposta. “Quello era uno scontro
onorevole, questo sarebbe un assassinio.”
A
quelle parole l'ufficiale dell'Intelligence si irrigidì. L'aria da
curato di campagna scomparve come per incanto e lasciò il posto a un
cipiglio da freddo burocrate.
“Basta
così,” disse asciutto. “Il suo romanticismo mi commuove, ma io
sono pagato per distruggere il Terzo Reich, non per recitare
melodrammi.”
Sfilò
dalla sua cartella una busta e la porse al maggiore.
“Questi
sono gli ordini. Abbia la compiacenza di attenersi ad essi, se non
vuole finire sotto processo per insubordinazione.”
Attese
che Stuart prendesse i documenti, quindi girò sui tacchi e uscì
seguito dal capitano Benson.
Dalla
soglia, Stuart gli gridò dietro: “Ha sbagliato, Linwood! Invece di
una medaglia e una promozione, avrebbe dovuto propormi trenta
denari!”
Dopodiché
chiuse la porta con un tonfo.
Per
svariati minuti non fece altro che aggirarsi furente per la stanza.
Camminava su e giù come una belva in gabbia senza riuscire a
capacitarsi di quello che aveva appena udito.
Quel
ragazzo sarebbe stato impiccato come un criminale e lui non avrebbe
potuto fare niente per impedirlo.
Guardò
fuori dalla finestra quasi augurandosi che qualche Heinkel 111 della
Luftwaffe avesse a bordo delle bombe di troppo e decidesse di mollare
l'eccedenza proprio sopra la macchina dei due ufficiali di rientro a
Londra.
Com'era
possibile far la guerra in quel modo?
Lui
combatteva tutti i giorni contro i tedeschi. Ne aveva abbattuti
parecchi, certo, sicuramente ne aveva anche uccisi, esattamente come
i tedeschi avevano abbattuto e ucciso tanti dei suoi, ma non aveva
mai provato odio nei loro confronti, né tentato di vincere le
battaglie con gli inganni che l'Intelligence voleva portare avanti.
A suo
modo di vedere ci dovevano essere delle regole nella guerra, che
anche negli scontri più cruenti facevano sì che gli uomini non si
trasformassero in bestie.
Sospirò
interrompendo il suo nervoso aggirarsi. L'avevano definito romantico.
Con disprezzo, come se fosse stata una cosa di cui vergognarsi,
quando gli unici che avrebbero dovuto vergognarsi erano loro.
Scosse
desolato la testa, impotente a contrastare ciò che stava accadendo,
ma al tempo stesso disgustato e furioso.
Lesse
gli ordini che gli erano stati lasciati: si trattava di un'asettica
serie di istruzioni circa il trasferimento del prigioniero. Rifletté
che se non fosse riuscito a sfilare quel foglio dalla cartella del
maggiore non avrebbe mai saputo cosa stava per accadere a von Rohr.
Quella era la considerazione che l'Intelligence manifestava nei
confronti degli ufficiali delle Forze Armate: galoppini idioti, da
tenere il più possibile all'oscuro delle sue mene.
Ripensò
al giovane pilota della Luftwaffe. Era terribile che dovesse fare
quella fine: accusato ingiustamente di essere un criminale di guerra
e giustiziato. Si chiese per l'ennesima volta se ci fosse un modo per
evitarlo, ma per quanto ci ragionasse non gliene veniva in mente
nessuno.
Aprì
un cassetto della scrivania per riporre la busta con gli ordini e nel
movimento gli rotolò sotto gli occhi un distintivo che vi aveva
dimenticato dentro giorni prima. Lo raccolse con un vago sorriso e se
lo infilò in tasca, poi abbandonò la baracca del comando per andare
alla ricerca di Poynter.
Quel
giorno c'era burrasca sulla Manica, il che erigeva un muro pressoché
invalicabile tra la caccia della RAF e quella della Luftwaffe.
Condannati all'inattività, i piloti del 19° Squadron cercavano di
ingannare il tempo in qualche modo. Alcuni ne approfittavano per
recuperare un po' di sonno arretrato, altri scrivevano a casa, altri
ancora se ne stavano semplicemente a ciondolare in giro senza saper
bene che fare.
Poynter
stava giocando a golf. Aveva tirato fuori il suo fedele wedge e con
quello cercava di spedire delle palline dentro una tinozza. Siccome
non ci riusciva quasi mai, c'erano palline disseminate un po'
dappertutto in un raggio di dieci metri intorno a lui.
“Qualcuno
potrebbe inciampare,” disse Stuart avvicinandosi.
Il
capitano interruppe il suo allenamento. Si voltò senza fretta verso
di lui e rispose: “Anch'io sono felice di vederti, George.”
Si
appoggiò alla mazza assumendo una posa vagamente simile a quella del
Re Sole.
“Qual
buon vento?” chiese poi, visto che il suo interlocutore continuava
a fissarlo cupo senza proferire parola.
“Quei
bastardi!” sbottò allora Stuart.
“Prego?”
“Sono
degli schifosi bastardi, non meritano di indossare l'uniforme.”
Poynter
inarcò le sopracciglia assumendo un'espressione di cortese
interesse. “Si può sapere di chi stai parlando?”
“I
due ufficiali dell'Intelligence. Schifosi, stavolta hanno passato
ogni limite.”
Il
capitano notò che nel parlare l'amico stringeva nervosamente i
pugni, cosa che faceva unicamente quando era fuori di sé dalla
rabbia.
“Cos’è
successo?” gli chiese.
“Ti
conosco, alla fine darai ragione a loro,” brontolò Stuart per
tutta risposta. “Dirai che non ti aspettavi niente di diverso e che
è un modo molto razionale di fare la guerra.”
“Ma
di cosa stai parlando, in nome di Dio?”
“Lo
vogliono ammazzare!” rispose il maggiore con improvvisa veemenza.
“Organizzeranno un processo farsa in cui lo faranno passare per
criminale di guerra e poi lo impiccheranno.”
Prima
di rispondere, Poynter si prese un mezzo minuto di riflessione. Colpì
una pallina, che rimbalzò sulla tinozza e rotolò via, quindi
proferì: “Non si può negare che sia una porcata.”
Tornò
a concentrarsi sul golf.
“Ma?...”
buttò lì Stuart, consapevole che il parere dell’amico non si
sarebbe limitato a quella scarna constatazione.
“Ma
non mi aspettavo niente di diverso,” rispose il capitano con
un’alzata di spalle. “Hanno un’occasione e la sfruttano, tutto
qui.”
Altro
colpo, altra pallina a rotolare sul prato. “Piuttosto…” riprese
poi cautamente.
“Cosa?”
“Forse
ti stai prendendo la faccenda un po’ troppo a cuore.”
Stuart
gli rivolse uno sguardo torvo e ringhiò: “Sarebbe a dire?”
“Suvvia,
hai capito benissimo,” replicò Poynter prendendo di mira
l’ennesima pallina, “von Rohr è un prigioniero di guerra, non
hai nessun motivo per tenerlo qui.”
“Ma
lo vogliono uccidere!” insisté indignato il maggiore.
“Posso
ricordarti che tu hai cercato di fare la stessa cosa non più di
dieci giorni fa?”
“Et
tu, Brute!”
“Non
cominciare col latino,” lo ammonì Poynter, che ben conosceva la
tendenza dell’amico a ricorrere alle citazioni classiche quando si
trovava a corto di argomenti. “Te lo tieni in gabbia come una
specie di animale da compagnia e sai benissimo che è una cosa fuori
da ogni regola. Sicuramente in altre circostanze avrei giudicato von
Rohr un simpatico giovanotto e un abile pilota, ma purtroppo adesso
siamo in guerra e lui è un ufficiale nemico.”
“E
quindi?”
“E
quindi? Sai quanti dei nostri avrà fatto fuori? Lascialo perdere, è
una porcata accusarlo ingiustamente, ti capisco, ma non è nemmeno
opportuno che tu ti faccia tutti questi scrupoli per lui.”
“Oh,
scusa tanto,” replicò Stuart sarcastico, “probabilmente hanno
ragione quelli dell’Intelligence, sono un romantico.”
“Temo
proprio di sì.”
Detto
questo, Poynter riprese gli allenamenti di golf. Stuart fece qualche
tentativo di proseguire il discorso, ma l’udienza era terminata. Il
suo amico gli aveva già detto quello che aveva da dire, e ora lo
lasciava libero di ragionarci sopra.
Il
maggiore rimase per un po' a guardarlo mentre provava il suo celebre
swing, poi tornò
rassegnato e deluso sui propri passi.
Avvertiva una sgradevole sensazione di solitudine: lui era lontano
mille miglia da quei prosaici ingegneri della guerra, gente per cui
lealtà e onore non erano altro che ingranaggi da oliare
adeguatamente per far funzionare meglio la macchina.
Non
aveva niente da spartire con loro.
Paradossalmente,
gli parve di avere molte più cose in comune con von Rohr, che in fin
dei conti come lui era un romantico che combatteva
mosso da
ideali.
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Capitolo 18 *** Capitolo 18 ***
Capitolo
18
La
sera, Stuart rientrò al proprio alloggio in preda a sentimenti
contrastanti. Da una parte, forse per la prima volta non si sentiva a
disagio all’idea di passare davanti al cancello che separava la
canonica dalla chiesa. Dall’altra era terribile pensare che entro
breve quel ragazzo sarebbe stato giustiziato in quel modo così
atroce e disonorevole.
La
guerra rendeva incerto il destino di tutti – forse solo più
incerto del solito – ma guardare in faccia von Rohr sapendo quando
e come sarebbe morto lo faceva stare male.
Nonostante
questo non rinunciò a fermarsi davanti alla tenda scura. Accese come
di consueto la candela e scostò il pesante lembo di stoffa.
Al di
là tutto taceva, ma Stuart non si lasciò ingannare: sicuramente il
tedesco era da qualche parte che lo scrutava nel buio.
“Tenente
von Rohr?” chiamò.
Forse
al giovane ufficiale la solitudine stava cominciando a pesare, perché
invece di spostarsi verso il fondo della navata e girargli le spalle
come faceva di solito si avvicinò adagio.
Rimase
a fissarlo diffidente a qualche passo di distanza.
“Ho
qualcosa per lei, tenente,” disse Stuart tendendogli attraverso le
sbarre una mano chiusa.
Von
Rohr non si mosse.
“Coraggio,
questo era suo,” insisté l’altro, “sono sicuro che sarà
contento di riaverlo.”
“Cos’è?”
chiese il tedesco, sempre senza muoversi.
Il
maggiore sorrise. “Non riesco ad arrivare fin lì, deve avvicinarsi
lei.”
“Mi
dica di cosa si tratta.”
“Venga
a vedere lei stesso.”
Un
passo dopo l’altro, cautamente, Hans von Rohr coprì la distanza
che li separava. Stuart vide che lo fissava sospettoso, pronto a
balzare indietro al minimo accenno di pericolo.
Di
nuovo provò un vago senso di tenerezza nei suoi confronti, tanto che
si sentì in dovere di rivolgergli un sorriso incoraggiante. “Credo
che lei tenga molto a questa cosa,” gli disse, “quindi mi farebbe
piacere restituirgliela.”
Aprì
finalmente le dita, rivelando una piccola spilla a forma di losanga,
di smalto bianco e rosso e decorata al centro da una croce uncinata
nera.
“Il
mio distintivo della Hitlerjugend!” non poté fare a meno di
esclamare von Rohr, quindi prese quasi con reverenza l’oggetto che
il maggiore gli porgeva e solennemente se l’appuntò sulla tasca
sinistra dell’uniforme.
“Grazie,”
disse rialzando il capo. Per un istante i suoi lineamenti severi si
addolcirono in un sorriso.
“Le
sono molto obbligato,” aggiunse poi tornando serio, quindi arretrò
fino a scomparire nel buio.
Stuart
rimase fermo dinnanzi al cancello ancora qualche secondo, ma von Rohr
non si fece più vedere.
Alla
fine il maggiore si risolse ad allontanarsi. Si sentiva come se un
daino fosse uscito dalla foresta, gli avesse mangiato dalla mano e
poi fosse tornato nel folto degli alberi. Provava una sensazione di
meravigliata felicità, che però si velava di amarezza se pensava a
ciò che sarebbe accaduto di lì a qualche giorno.
Se ne
andò perplesso, e man mano che aumentava la distanza tra lui e
l’ufficiale tedesco, la meraviglia cedeva il posto allo sconcerto.
Tutto
questo è assurdo, si disse infine
lasciandosi sprofondare in una
poltrona, assurdo,
te ne rendi conto? Von Rohr è un nemico. Un
crauto, un nazista. Cosa credi che ci sia dentro gli aerei con cui ti
scontri ogni giorno? Tanti piccoli von Rohr, ognuno con il suo bravo
distintivo della Hitlerjugend sul petto, e ognuno pronto a farti
secco se gliene dai l’occasione.
Con un
sospiro afflitto si prese la testa fra le mani. Non sapeva che fare.
Perché gli aveva dato quel distintivo? Cosa sperava di ottenere? Il
buon senso gli avrebbe suggerito di ignorarlo fino a quando non
sarebbe giunto il momento di consegnarlo all’Intelligence, ma lui
non lo faceva.
Tutto
il contrario, anzi: cercava di convincerlo a parlargli, addirittura
gli faceva dei regali.
Si
ripresentò lo spettro che aveva già cercato di allontanare senza
successo giorni prima: Dio, fa che non stia
diventando un
anormale,
pregò.
Seduto
sul suo letto nelle tenebre più complete, frattanto, von Rohr
meditava sugli ultimi avvenimenti.
Perché
quell'inglese gli aveva restituito il distintivo? Ricordava bene che
non era stato lui a rubarglielo, gliel'aveva preso un sergente
corpulento quando l'avevano portato al campo, e se l'era messo in
tasca. Evidentemente il maggiore in qualche modo se n’era accorto e
se l’era fatto consegnare per poi darlo a lui.
Si
chiese se facesse parte delle procedure. Magari era normalissimo che
agli ufficiali nemici catturati venissero restituiti gli oggetti
personali rubati dai cosiddetti cacciatori di souvenir. In Germania
succedeva, quindi era plausibile che succedesse anche in Inghilterra.
In
effetti erano state più che altro le modalità a lasciarlo
perplesso: perché presentarsi di notte, con quella strana aria di
complicità, e dargli il distintivo come si sarebbe data una
caramella a un bambino?
Di
colpo gli venne la folgorazione: sapeva bene quello che dicevano
degli inglesi.
Il
pensiero gli fece correre un brivido di ribrezzo lungo la schiena.
Possibile che quell’ufficiale nutrisse nei suoi confronti
sentimenti anormali?
Valutò
che in effetti, viste sotto quella nuova e inquietante ottica,
parecchie cose che gli erano sempre parse senza senso di colpo
divenivano terribilmente logiche: ecco perché l'inglese cercava
continuamente di parlargli, ecco perché lo teneva segregato lì
invece di inviarlo a un campo di prigionia, ed ecco perché, infine,
si era presentato con quell’atteggiamento da cospiratore e gli
aveva restituito il suo distintivo.
Voleva
sedurlo, ecco cosa voleva fare.
Quell'improvvisa
consapevolezza lo rese piuttosto inquieto, tanto che nonostante il
buio si alzò, desideroso di camminare in su e in giù come faceva di
solito quando ponderava la soluzione di un problema particolarmente
complesso.
Azzardò
qualche passo, ma era un pilota da caccia e non era fatto per la
navigazione strumentale: camminare senza vedere dove andava lo
metteva a disagio. Dopo qualche tentativo rinunciò e riguadagnò
faticosamente il letto.
Si
sedette di nuovo ragionando ansiosamente sul da farsi. Aveva
considerato tutto della prigionia: non dare confidenza, non
fraternizzare, non lasciarsi sfuggire per sbaglio informazioni di
importanza strategica e dar prova di fermezza e coraggio, ma non
aveva mai pensato all'eventualità di trovarsi a dover fronteggiare
voglie pervertite.
Rimase
un altro po’ meditabondo, con i gomiti appoggiati alle ginocchia e
il volto fra le mani, poi di colpo gli balenò in mente un’idea: e
sfruttare la cosa per tentare la fuga?
Fece
una smorfia come quando da piccolo doveva prendere una medicina
particolarmente cattiva.
Che
schifo,
pensò inorridito, un ufficiale tedesco
non deve
nemmeno prendere in considerazione un’azione del genere!
Alzò
lo sguardo verso le finestre. Durante l’ultimo bombardamento le
vetrate erano andate in frantumi e si vedeva il cielo stellato.
Gli
sfuggì un sospiro. Aveva come unica prospettiva quella di rimanere
in gabbia fino alla fine della guerra. I suoi compagni avrebbero
conquistato la gloria combattendo contro i nemici del Reich e lui
sarebbe tornato in Patria a cose fatte senza aver abbattuto un solo
aereo nemico.
Quella
sì che sarebbe stata una vergogna per un ufficiale tedesco, altro
che sfruttare le perversioni del nemico per evadere. Non doveva
lasciarsi condizionare dai retaggi di una pruderie reazionaria
figlia di tempi ormai passati.
C’era
in corso una guerra in cui si sarebbero decisi i destini dell’Europa,
sarebbe stato quanto meno egoista anteporre il proprio onore alla
vittoria finale della Germania.
Ci
ragionò su un altro po’. Nonostante la tensione ideologica, non
riusciva a prendere a cuor leggero la decisione di cedere alle
profferte di un altro uomo. E quando mi vorrà
toccare?
pensava raccapricciato, quando tenterà di
baciarmi? Come farò?
Era
certo che non sarebbe riuscito a nascondere il disgusto.
Ma
doveva, ovvio, altrimenti quell’inglese si sarebbe accorto subito
dell’inganno.
Come
fare, però? Non poteva certo buttarsi fra le sue braccia come una
specie di cocotte, anche in quel caso
il maggiore avrebbe
subodorato l’inganno. Doveva anzi mantenere un contegno ritroso,
per cedere infine senza aver l’aria di volerlo fare.
Dio,
che schifo,
non poté fare a meno di pensare ancora una volta, ma
cos’era meglio? Accettare supinamente la prigionia o rassegnarsi al
disonore pur di tornare a combattere?
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Capitolo 19 *** Capitolo 19 ***
Capitolo
19
L'allarme
antiaereo sorprese Stuart nella poltrona in cui era sprofondato la
sera prima.
Svegliato
di soprassalto, istintivamente il maggiore balzò in piedi, afferrò
la combinazione di volo e corse fuori. Nella luce incerta dell'alba
vide i suoi piloti uscire dagli alloggi infilandosi frettolosamente i
vestiti.
“Uno
stormo di bombardieri, signore!” lo accolse l'ufficiale di
servizio. “Arrivano da sud est con forte scorta di caccia, e stando
a quello che dicono gli osservatori dovrebbero passare proprio qui
sopra.”
Lo
raggiunse e gli mostrò un foglio.
“Decollare
subito,” ordinò conciso il maggiore dopo avergli dato un'occhiata.
“Voglio tutto lo Squadron in volo entro cinque minuti!”
Constatò
con soddisfazione che gli avieri stavano già portando gli aerei in
linea di volo.
Poco
dopo il 19° al completo stava sorvolando le campagne del
Cambridgeshire diretto verso la costa. Stuart avvistò quasi subito i
bombardieri della Luftwaffe: erano degli Heinkel 111 dal
caratteristico profilo arrotondato e procedevano in formazione
diretti verso Londra.
“Guarda
quanti ce ne sono di quei bastardi!” esclamò qualcuno in
frequenza.
“Meno
chiacchiere, Evans!” fu la secca reprimenda del maggiore, che non
amava i commenti fuori luogo.
Nessun
altro espresse pareri sulla formazione nemica.
Avvistati
gli inglesi, frattanto, gli Heinkel 111 avevano serrato la
formazione, il che rappresentava praticamente l'unica azione
difensiva che un gruppo di bombardieri potesse compiere se veniva
attaccato. Meno spazio c'era fra gli aerei, del resto, meno potevano
infilarcisi i caccia nemici.
E a
proposito di caccia, ecco spuntare quelli della Luftwaffe, i
Messerschmitt 109 dalle corte ali squadrate, quasi neri nella luce
tersa del mattino.
Procedevano
a gruppi di quattro, nella caratteristica formazione di due più due.
“Prepararsi
ad attaccare!” ordinò Stuart in frequenza, e subito vide i suoi
piloti prendere quota per portarsi in posizione di vantaggio.
Lui
stesso cabrò dando tutta manetta e notò che i tedeschi stavano
facendo lo stesso. Carichi di ordigni, però, i bombardieri salivano
molto più lentamente dei caccia, che quindi erano costretti a
rallentare per non lasciarli indifesi.
Era una
situazione tatticamente vantaggiosa e le sorti della battaglia
volsero in breve a favore della RAF. Già diversi bombardieri erano
precipitati in fiamme e i caccia dovevano difendere sia i superstiti
che loro stessi, col risultato che non riuscivano a fare bene nessuna
delle due cose.
E poi
spuntò dal nulla una coppia di Messerschmitt. I due aerei arrivarono
a tutta manetta, poi si divisero e il più avanzato passò attraverso
la formazione dei bombardieri dal basso verso l'alto come una lama di
coltello. Andò su in verticale per qualche centinaio di piedi,
quindi fece una virata sfogata e picchiò bruscamente. Puntò uno dei
caccia inglesi più spavaldi, che ormai certo della vittoria si era
spinto troppo vicino agli Heinkel 111. Due brevi raffiche e lo
Hurricane precipitò lasciandosi dietro una scia di fumo nero.
Il
Messerschmitt si sganciò rapido, guizzò di nuovo in posizione
d'attacco, ingaggiò un breve combattimento con un altro nemico e
inesorabilmente lo abbatté.
“È
lui!” esclamò qualcuno in frequenza. “È quel bastardo!”
A
questo punto Stuart diede tutta manetta per intercettarlo, ma parve
che l'altro avesse capito le sue intenzioni, perché immediatamente
fece un Immelmann sfuggendogli
proprio sotto il naso, quindi
puntò un aereo leggermente arretrato e gli si mise in coda.
A
quella vista il maggiore si sentì gelare il sangue. “John!”
gridò in frequenza, “John, ce l'hai dietro!”
Corse a
dare man forte all'amico, ma sotto i suoi occhi inorriditi il
Cavaliere di Valsgärde sparò due raffiche di traccianti e recise di
netto un'ala dell'aereo di Poynter.
Subito
lo Hurricane si rovesciò a cominciò a precipitare in vite.
“No!”
urlò Stuart seguendolo impotente con lo sguardo.
Dopo
una caduta che sembrava non finire mai, l'aereo si riprese e uscì
dalla vite quel tanto che consentì a Poynter di lanciarsi col
paracadute. Il maggiore provò un attimo di fugace sollievo: dunque
non era morto. Non ancora, almeno. Nervosamente si disse che era una
gran fortuna che non avessero ancora raggiunto la Manica. Ammesso che
non fosse ferito da qualche parte, Poynter avrebbe trovato un posto
per atterrare e sarebbe stato rispedito allo Squadron prima di cena.
Se
tutto fosse andato come doveva andare, ovviamente.
Fu
costretto ad interrompere le sue angosciose congetture incalzato
dagli aerei della Luftwaffe. Il Cavaliere era ancora nei paraggi e se
continuava a perdersi così in elucubrazioni rischiava di essere la
sua prossima vittima.
Atterrò
esausto poco dopo. Avrebbe voluto chiedere notizie del capitano, ma
stavano arrivando altri bombardieri e non poté fare altro che
decollare non appena il suo aereo fu rifornito.
Fu solo
in tarda mattinata, con tre piloti e cinque aerei in meno nei ranghi
dello Squadron, che riuscì a trovare il tempo di cercare il
capitano.
Cominciò
la sequela delle telefonate: chiamò gli altri Squadron, il Comando
di zona, gli ospedali e i reparti della difesa costiera, ma nessuno
sembrava aver visto Poynter. Gli furono riportati diversi
avvistamenti di aerei precipitati e piloti scesi col paracadute, ma
nessuno corrispondeva a quello del suo collega e amico.
“Forse
è caduto nel bel mezzo della campagna, signore,” azzardò il
sergente Watkins, che aveva seguito tutta la trafila vedendo il suo
superiore farsi sempre più mogio ad ogni risposta negativa. “Quando
finiscono in mezzo a quelle dannate paludi ci mettono un sacco a
recuperarli e...” Captò l'occhiata di Stuart. “Mi scusi,
signore,” borbottò, tossicchiando imbarazzato.
I
piloti che cadevano nelle paludi di solito ci morivano anche.
Il
maggiore stava per replicare quando lo sguardo gli cadde su un
notiziario delle Forze Armate che era stato abbandonato sul tavolo.
Un titolo cubitale recitava: Il Cavaliere di
Valsgärde sarà
processato.
Seguiva
un articolo che descriveva minuziosamente le malefatte del supposto
criminale di guerra ed esaltava in termini a dir poco trionfalistici
l'eroismo del maggiore George Stuart, l’abbattitore del torvo
nazista, rivelando che entro breve sarebbe stato decorato dal Re in
persona con la Distinguished Flying Cross.
Il
primo impulso di Stuart sarebbe stato appallottolare il dannato
notiziario e lanciarlo fuori dalla finestra, quell'articolo tronfio,
pieno di boria e soprattutto falso l'aveva fatto imbestialire, ma coi
suoi uomini che lo stavano guardando dovette mantenere il solito
contegno.
“Diventerà
famoso, signore,” osservò Watkins, ansioso di farsi perdonare la
gaffe di poco prima.
“Pare
proprio di sì,” sospirò il maggiore, poi uscì dalla baracca del
comando per fare qualche passo sul prato antistante. Aveva un
disperato bisogno di aria aperta e solitudine. La seconda, più che
altro, perché gli riusciva penoso comportarsi con i suoi uomini come
se niente fosse mentre l'angoscia e la rabbia gli stavano dilaniando
l'anima.
“Abbiamo
catturato il Cavaliere di Valsgärde, come no,” ringhiava fra sé e
sé, “e allora chi è stato ad abbattere John, lo Spirito Santo?”
E
intanto pregava che John fosse vivo e possibilmente incolume, e allo
stesso tempo pregava che quei farabutti, cinici, bastardi e
mistificatori di Benson e Linwood incappassero nel famoso Heinkel 111
con un'eccedenza di bombe che aveva invocato per loro il giorno
prima.
Quando
si fece troppo buio per volare, di Poynter non c’era ancora nessuna
notizia. Stuart aveva chiesto dappertutto, persino ai municipi dei
paesi che avevano sorvolato nel corso della missione, ma l’amico
sembrava essersi dissolto nel nulla. Non era tra i corpi che erano
stati recuperati, questa era l’unica notizia positiva che aveva
ricevuto fino a quel momento. La cosa lo confortava, ma solo
parzialmente. Sapeva bene che spesso i corpi non si trovavano, oppure
rimanevano così sfigurati che a stento li si riconosceva come umani
e venivano genericamente classificati come ‘caduti in azione’.
Ansiosamente
si ripeteva che scendere col paracadute non era poi così pericoloso
e che al massimo ci si poteva rompere una gamba, ma invariabilmente
una vocina interveniva a suggerirgli che forse Poynter era già
ferito quando era saltato dall’aereo, e che una volta a terra,
indebolito dalla perdita di sangue, non era stato in grado di
chiedere aiuto, e quindi giaceva morto o gravemente ferito in qualche
posto isolato.
“Dobbiamo
aspettare domattina,” disse ad alta voce, anche solo per liberarsi
di quei pensieri opprimenti, “col buio le ricerche non possono
proseguire.”
I
piloti che avevano assistito alle telefonate si dispersero
parlottando fra loro.
Guardandoli
allontanarsi, il maggiore fece del suo meglio per mantenere il solito
contegno. Non era né il primo né l’unico cui capitava una cosa
del genere, e non poteva certo tenere per se stesso un atteggiamento
diverso da quello che avrebbe tenuto per ognuno dei suoi uomini in
un’analoga situazione. Aveva fatto tutto il possibile per cercare
Poynter, ora doveva fermarsi e rimandare tutto all’indomani.
E
togliersi quell’aria afflitta dalla faccia, soprattutto.
Ostentando
la massima tranquillità si diresse verso la mensa. Si obbligò a non
pensare a John, ma continuava a rivederlo mentre tirava palline da
golf dentro la tinozza del bucato con il distacco dalle cose terrene
di un Bodhisattva, oppure mentre sedeva nella sua solita poltrona al
circolo ufficiali e sorseggiava con aria da intenditore il suo
beneamato Old Fashioned con molta angostura.
Cenò
con apparente imperturbabilità, quindi diede le consegne
all’ufficiale di servizio e si ritirò nel suo alloggio.
Fuori
era buio pesto, il cielo era coperto e non spirava un alito di vento.
Il maggiore rimase fermo sulla soglia della mensa per qualche secondo
aspettando che gli occhi si abituassero all’oscurità, poi cominciò
a procedere a passi lenti verso la chiesa.
Poiché
non voleva macerarsi sulla sorte di Poynter per tutta la notte, cercò
di dirigere i pensieri verso altre cose. Per un po’ ci riuscì, ma
ogni volta che si distraeva tornava a fare capolino la paura per il
fato dell’amico.
Arrivò
al suo alloggio profondamente avvilito e andò dritto alla poltrona
in cui era sprofondato la sera prima.
Vi si
lasciò cadere con un sospiro e rimase parecchi minuti immobile al
buio. Pensava alla morte. A quella probabile del suo amico, e a
quella certa del giovane Hans von Rohr, e pensava che in fin dei
conti entrambe erano da attribuirsi all’inganno che l’Intelligence
stava portando avanti. In guerra si poteva morire in qualsiasi
momento e di qualsiasi cosa, ma nella fattispecie Poynter era
incappato in un pilota nemico che per ordini superiori doveva essere
considerato abbattuto in combattimento.
Se
avessero potuto organizzare un’altra operazione per eliminare
finalmente quel fantasma, forse John avrebbe
trascorso quella
serata bevendo un Old Fashioned al circolo ufficiali, e non chissà
dove, ferito o magari morto.
E von
Rohr non sarebbe stato impiccato come criminale non avendo altra
colpa che quella di essere un ufficiale nemico.
Sospirò
di nuovo: si conosceva bene e sapeva che avrebbe trascorso la notte a
rimuginare su problemi che non avevano soluzione, diventando man mano
sempre più demoralizzato e rancoroso, fino a che il mattino dopo non
sarebbe andato in volo stanco, sfiduciato e colmo di risentimento, il
che rappresentava la premessa ideale per essere abbattuto.
Di
solito in casi del genere parlava un po’ con Poynter, ma ora che
era proprio lui a mancargli, con chi poteva parlare?
Gli
tornò in mente un pensiero che aveva formulato già il giorno prima
dopo la visita dell’Intelligence, ovvero che in fin dei conti gli
sembrava di avere molte più cose in comune con von Rohr che con la
maggior parte dei suoi connazionali.
Come
spinto da una volontà che non gli apparteneva, si alzò dalla
poltrona e andò ad accendere una candela, quindi fece il giro di
porte e finestre controllando che fossero tutte sbarrate. Quando fu
certo di aver eliminato ogni possibile via di fuga si diresse al
cancello che separava la chiesa dalla canonica.
Seduto
sul suo letto, Hans von Rohr rifletteva sul da farsi. L’inglese era
tornato, aveva sentito la porta che si apriva e i passi nel
corridoio, ma non si era fermato a salutarlo.
Cosa
significava? Doveva chiamarlo? Sarebbe stato troppo sfacciato, anche
uno stupido avrebbe capito che c’era qualcosa sotto. E attirare la
sua attenzione fingendo un incidente? Poteva fare rumore in qualche
modo, l’inglese sarebbe arrivato, lo avrebbe trovato a terra e…
no, troppo scontato. Dalla notte dei tempi, chiunque dovesse gestire
dei prigionieri sapeva che quello era il sistema tipico per ingannare
i secondini. Non avrebbe mai abboccato.
Quindi
che fare? Alzò la testa, tentando di cogliere nel buio la sagoma
delle alte bifore. Ogni minuto che passava in quel posto era un
minuto che sottraeva al combattimento. Non poteva restare lì, doveva
andarsene, in qualsiasi modo. Anche a costo di fare quello che stava
per fare.
Si
ripeté che la vittoria finale era più importante del suo onore.
In quel
momento comparve sul pavimento una pennellata di luce. Von Rohr si
volse in quella direzione e vide che la tenda era leggermente
scostata. Fu attraversato da un brivido. Ci siamo, pensò con
un misto di aspettativa e timore. Ce l’avrebbe fatta? Avrebbe
ottenuto ciò che si proponeva? E qualora l’avesse ottenuto,
avrebbe poi saputo farne il giusto uso? Si accorse di provare la
stessa tensione di quando si era appropriato dell’aereo del
capitano Müller pronto in linea di volo.
Si
morse il labbro inferiore in attesa delle mosse dell’altro.
Passarono
alcuni angosciosi secondi di silenzio, poi la lama di luce tremolò
leggermente sul pavimento e la voce dell’inglese chiamò: “Tenente
von Rohr?”
Hans si
alzò cauto e silenziosamente raggiunse il cancello. “Cosa c’è?”
domandò. Strinse gli occhi infastidito dalla fiamma della candela.
“Io…
mi chiedevo se non fosse stanco di stare sempre chiuso lì dentro,”
cominciò Stuart con voce esitante.
Stupito,
l’altro aggrottò le sopracciglia. Cos’era, uno scherzo di
cattivo gusto? Nonostante ogni suo precedente proposito, strinse le
labbra mantenendo un ostinato silenzio.
“Voglio
dire, anche se siamo nemici, non significa che dobbiamo
necessariamente essere scortesi l’uno con l’altro,” si affrettò
a spiegare il maggiore, “può venire di là con me per un po’, se
le fa piacere, così magari vede un ambiente diverso.”
Von
Rohr si prese qualche secondo per riflettere. Solo il giorno prima
avrebbe rifiutato una proposta del genere con sdegno, ma da allora in
effetti parecchie cose erano cambiate.
“D’accordo,”
disse semplicemente.
“Accetta?”
chiese il maggiore. Aveva l’aria così stupita che per un attimo il
tenente pensò di avere esagerato.
“Sì,
accetto,” confermò, facendo un passo indietro per nascondere
nell’ombra il rossore che sicuramente gli aveva colorito le guance.
Subito
la pesante serratura scattò e il cancello si aprì stridendo sui
cardini. “Non ci sono altre uscite,” si sentì in dovere di
precisare il maggiore, “e sono armato.”
“Mi
avrebbe stupito il contrario,” non poté fare a meno di ribattere
von Rohr.
Stuart
condusse il giovane ufficiale in salotto e gli indicò una poltrona.
Posò poi la candela su un tavolino che ospitava già una bottiglia e
due bicchieri.
“Che
significa?” chiese von Rohr, sedendosi cauto.
“Non
vorrà farmi bere questo Borgogna da solo,” rispose il maggiore con
un sorriso.
“Io
non bevo.”
“Fa
come il suo Führer, che beve solo latte?”
“Io
ammiro il Führer,” rispose brusco von Rohr, rabbuiandosi in volto.
“Ma
certo, lei è un ufficiale tedesco,” concesse il maggiore, “però
pensavo che potremmo fare come i cavalieri antichi, che anche se
erano nemici, ogni tanto sapevano dimenticare le battaglie e
intrattenersi amabilmente fra loro. In fin dei conti la summa della
poesia cavalleresca viene proprio dal suo paese, o sbaglio? Penso a
Wolfram von Eschenbach, per esempio.”
“Una
lettura alquanto classista,” commentò lapidario il giovane.
“Che
intende dire?” domandò stupito l’altro.
“Cavalieri
che passavano il tempo facendo tornei e banchetti, senza lavorare un
solo giorno della loro esistenza, mentre nel frattempo i servi della
gleba, neppure padroni della loro stessa vita, morivano di fame nelle
campagne.”
“Ma i
cavalieri aiutavano i deboli.”
“Oh,
certo. Un debole a caso di tanto in tanto. Raddrizzavano qualche
torto, a modo loro, s’intende, punivano qualche malfattore, o
almeno così si dice, ma alla fin fine erano sempre gli sgherri del
potere costituito. A parte Florian Geyer, che guarda caso era
tedesco, ha mai sentito dire che un cavaliere abbia guidato una
rivolta popolare?”
“Veramente
no,” ammise il maggiore.
“Eppure
avrebbero dovuto. I re e gli aristocratici affamavano il popolo, lo
dissanguavano con le tasse. Se i cavalieri avevano davvero tutta
questa voglia di difendere i deboli, perché non si sono mai mossi
contro chi obbligava la gente a vivere nella miseria?” Fece una
breve pausa, poi aggiunse: “Ipocrisia demagogica, come quella di
Gesù Cristo quando faceva i miracoli.”
“Cosa?”
“Cristo
prende un cieco a caso e gli restituisce la vista. Piuttosto crudele
nei confronti degli altri ciechi, non le pare? Ed era anche figlio di
Dio, almeno così dicono, per cui se avesse voluto avrebbe potuto
ridare la vista a tutti i ciechi della Palestina. Che senso ha
aiutare uno solo e lasciare che gli altri si arrangino? Tutti hanno
diritto di vivere dignitosamente.”
Stuart
lo scrutò pensoso. Nell’empito della discussione, von Rohr aveva
assunto un’espressione risoluta che conferiva una nota di durezza
metallica ai suoi occhi chiari. Come aveva intuito la prima volta che
l’aveva visto, sotto quell’apparenza fredda era passionale e
impulsivo: era bastato dargli uno spunto e dopo giorni di sdegnoso
silenzio si era lanciato in una requisitoria che quasi non gli aveva
lasciato la possibilità di ribattere.
“Diamine,
tenente, i bolscevichi al suo confronto sono dei borghesi,” osservò
con un sorriso.
“Questo
perché come ogni buon nazionalsocialista io ho a cuore il benessere
del popolo, non quello di una classe dominante tirannica e avida di
privilegi.”
A corto
di argomenti di fronte a tanto fervore, Stuart si risolse a stappare
la bottiglia. Non era sicuro di aver avuto una buona idea a
fraternizzare con quel ragazzo, perché lo stava scoprendo
inaspettatamente affascinante.
“Eppure
lei mi ricorda Parsifal,” disse piano. Versò il vino, che alla
luce della candela era scuro e corposo come sangue.
“Dubito
che Parsifal la pensasse come me,” replicò il tenente, accettando
il calice che l’altro gli porgeva. Bevve cauto un sorso, e quando
riabbassò il bicchiere lo sguardo di Stuart non poté fare a meno di
correre al suo labbro inferiore macchiato di rosso.
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Capitolo 20 *** Capitolo 20 ***
Capitolo
20
Il
mattino dopo i voli di guerra cominciarono presto: un allarme
antiaereo spinse tutti fuori dagli alloggi alle prime luci dell’alba
e fin quasi a mezzogiorno il maggiore Stuart, esausto e frastornato
per non aver chiuso occhio tutta la notte, non ebbe modo di indugiare
sui propri guai.
Al
venir meno della pressione nemica, però, i pensieri che aveva
accantonato tornarono uno dopo l’altro, e ricominciarono a far
scempio della sua anima come un branco di lupi affamati.
Non
aveva ancora ricevuto notizie di Poynter, tanto per cominciare, e
ormai anche le più tenaci speranze di ritrovarlo in vita stavano
cominciando a vacillare.
E se il
timore – ormai quasi certezza – di aver perso un amico non fosse
stato sufficiente, ci si metteva anche il dannato von Rohr a
complicargli l’esistenza. Gli aveva parlato, avevano bevuto
insieme, alla fine avevano addirittura riso insieme, seppur
brevemente.
Era un
ragazzo bello, coraggioso e determinato, orgoglioso e con le idee
chiare.
Ed era
un morto che camminava.
Capì
perché quando era piccolo i suoi genitori gli proibivano di giocare
con gli agnellini e i vitellini della tenuta.
Mentre
era immerso in quelle angosciose considerazioni, un improvviso suono
di tromba lo fece quasi sobbalzare. Alzò lo sguardo stupefatto e
vide entrare nel piazzale una monumentale Bentley nera lucida come
uno specchio, con le cromature che brillavano al sole e un autista in
livrea alla guida.
Per un
attimo pensò che fossero tornati quelli dell’Intelligence, ma era
una macchina troppo lussuosa per qualsiasi rango delle Forze Armate.
Nemmeno un capo di Stato Maggiore avrebbe potuto permettersi di
andare in giro a bordo di una vettura del genere.
Sotto
il suo sguardo perplesso la Bentley si fermò, l’autista scese e
aprì con deferenza la portiera.
Ne uscì
John Poynter, che si stirò, si guardò intorno con aria soddisfatta
e disse: “Ciao, George.”
Il
maggiore Stuart lo fissò senza proferire parola.
L’altro
stava per replicare quando dal finestrino della vettura uscì
un’avvizzita mano femminile che sventolava un fazzolettino di
chiffon.
“Au
revoir, mio
caro!” disse una voce chioccia, “à bientôt,
j’espère!”
“Lady
Fetherstonhaugh,” spiegò Poynter in risposta all’occhiata
interrogativa del maggiore. “Ci invita tutti alla prossima caccia
alla volpe, a proposito.”
Si
chinò per salutare la nobildonna e continuò a fare ampi gesti con
la mano anche mentre la Bentley ripartiva.
“Milady
è stata molto gentile,” disse quando la vettura fu scomparsa alla
vista.
Stuart
continuava a tacere.
“Vecchio
mio, il gatto ti ha mangiato la lingua?” s'informò cortesemente
Poynter al protrarsi del silenzio.
“Ti
credevo morto.”
“E
invece sono qui, come vedi,” rispose il capitano con un sorriso.
“Potevi
anche degnarti di dirci qualcosa,” replicò Stuart con ira
repressa. Tutta la tensione accumulata nelle ultime ventiquattro ore
gli si stava scaricando in rabbia.
“Scusa,
George, avrei tanto voluto,” disse l'altro con un sorriso
disarmante, “ma vedi, quando mi sono buttato col paracadute sono
atterrato dritto dritto nella serra di quella vecchia contessa un po'
eccentrica. Per un bel po' sono rimasto svenuto, poi verso sera mi
sono ripreso e Milady ha voluto assolutamente invitarmi a cena. Le ho
suggerito di avvertire qualcuno, e lei ha convenuto che sarebbe stata
una cosa molto appropriata. Purtroppo ho scoperto solo stamattina che
l'unica persona che ha pensato di avvertire è stato il giardiniere,
affinché rimpiazzasse quanto prima i vetri rotti e le piante che
avevo rovinato nella caduta.”
Stuart
avrebbe voluto dire qualcosa, ma di fronte a tanto candore tutte le
sue reprimende si dissolsero come neve al sole. “Sei ferito?” si
limitò a chiedergli.
“Neanche
un graffio!” rispose l'altro trionfante, allargando le braccia in
un gesto vagamente messianico.
Come se
quello fosse stato un segnale, tutti coloro che avevano assistito al
ritorno del figliol prodigo gli corsero incontro e cominciarono a
fargli festa. Poynter era benvoluto, e non c'era militare della base
che non volesse almeno dargli una pacca sulla spalla o stringergli la
mano.
Ancora
sotto l'effetto dei sentimenti tumultuosi di poco prima, Stuart lo
lasciò al suo bagno di folla e si allontanò di qualche passo.
Pensava
di nuovo a von Rohr. Perché non riusciva a smettere di pensare a
lui?
Von
Rohr, frattanto, si aggirava per la sua cella egualmente spiazzato.
Si
spostò ansante nella chiazza di sole che entrava da una delle
finestre sfondate. Si terse il sudore dal corpo con un asciugamano e
cercò di normalizzare il ritmo del respiro. Per mantenere intatta
l’efficienza fisica passava le giornate di prigionia allenandosi.
Faceva addominali, piegamenti sulle braccia, esercizi a corpo libero
e cose del genere. Tutto ciò che gli veniva in mente pur di temprare
il corpo.
Quella
mattina, però, si era allenato con tale energia che adesso era
completamente esausto e grondante di sudore.
Si era
svegliato con la testa pesante per colpa dell’alcol bevuto la sera
prima. La sensazione, per lui completamente sconosciuta, non gli era
piaciuta per nulla. Odiava anzi l’idea di non essere perfettamente
lucido e padrone di sé, perché quella era la via che portava a
perdere il controllo e trovarsi in balia della volontà altrui.
Per
nulla al mondo avrebbe accettato di essere soggetto a volontà
diverse dalla sua, quindi aveva deciso che doveva depurarsi, e come
diretta conseguenza l’allenamento era stato molto più intenso del
solito.
Ricordò
che aveva bevuto il primo sorso per compiacere Stuart, ma poi il vino
gli era piaciuto e aveva esagerato.
Strinse
le labbra, si buttò a terra prono e ricominciò a fare piegamenti
sulle braccia doloranti, stando ben attento a tenere la schiena
dritta e gli addominali tesi. Tocca terra col
mento! si
ordinò
inflessibile, devi farne
cinquanta, non uno di meno!
Quando
ebbe finito si abbandonò esausto sulle pietre fredde del pavimento.
Nonostante tutto, i suoi pensieri continuavano a tormentarlo: avrebbe
fatto così anche con l’altra cosa? Avrebbe cominciato con un sorso
e poi non sarebbe più stato in grado di porsi un limite?
Le
chiazze di sole sul pavimento si spostarono e si allungarono,
divennero aranciate e infine scomparvero lasciando il posto a una
penombra silenziosa. A questo punto von Rohr, che nel corso della
giornata le aveva seguite con crescente apprensione, prese a
passeggiare su e giù per la navata come faceva sempre quando era
nervoso.
Giunse
il buio che stava ancora camminando. Arriverà? pensava.
Quando
arriverà?
Non
aveva orologi, e immerso nelle tenebre com'era non aveva alcun modo
per misurare il passare del tempo, quindi poteva solo aspettare.
Si
chiese di nuovo se il maggiore sarebbe arrivato. Viene qui tutte
le notti,
si disse pragmatico, perché stanotte non
dovrebbe?
Si
sorprese a considerare con un'ombra di apprensione che ogni giorno
l'inglese poteva cadere in combattimento.
E se
fosse stato abbattuto?
Quel
pensiero gli diede un tale inspiegabile disagio che interruppe il suo
passeggiare e rimase fermo nel buio come un cavallo bendato. Se
fosse stato abbattuto, addio possibilità di fuga, considerò
concreto, ma il disagio non si risolse. C'era qualcos'altro che lo
preoccupava, qualcosa di strano, che al momento non gli era ben
chiaro ma gli comunicava una sconosciuta inquietudine.
Toccò
il distintivo della Hitlerjugend che portava sul petto come un fedele
avrebbe toccato in un momento di particolare apprensione la croce che
teneva al collo.
Nervi
a posto, si
ripeté, non
farti prendere dalla smania.
Nel
silenzio udì il ben noto passo che si avvicinava, e prima di
rendersi conto di ciò che stava facendo era al cancello e scrutava
ansioso la tenda.
Non fu
deluso: subito udì lo scatto del catenaccio e lo sfregamento del
fiammifero sulla scatola, quindi il chiarore dorato della candela
filtrò da sotto la spessa cortina.
Si
morse nervosamente il labbro inferiore nell'attesa di ciò che
sarebbe successo.
La
stoffa nera si spostò da una parte e apparve il maggiore Stuart con
una bottiglia in mano. “Buona sera, tenente,” lo salutò, “ha
voglia di ripetere la conversazione di ieri sera?”
“Se a
lei va”, rispose von Rohr dopo qualche secondo di esitazione,
indietreggiando di un passo.
“Certo
che mi va,” rispose l'altro con un sorriso, “altrimenti non
gliel'avrei chiesto, non le pare?” Poi, dopo una pausa: “Mi dia
giusto il tempo di preparare il nostro piccolo boudoir e sarò
subito da lei.”
Scomparve
prima che il tenente potesse replicare, stette via qualche minuto e
tornò con la chiave del cancello.
“Inutile
ricordarle che sono armato e non ci sono vie di fuga, giusto?” gli
domandò prima di far scattare la serratura.
Von
Rohr non rispose.
Stuart
lo condusse nella stanza della sera prima. Lì c'era già il tavolino
preparato con la bottiglia e i due bicchieri, ma stavolta al posto
della candela c'era un candelabro a tre braccia, col risultato che
l'ambiente era molto più luminoso.
“Si
sieda, tenente” lo invitò l'altro.
Il
tedesco obbedì. “Dove siamo, qui, maggiore?” chiese dopo essersi
guardato intorno.
“Nel
mio alloggio, come vede.”
Von
Rohr ebbe un moto di impazienza. “Non mi dia risposte da
inglese, la
prego. Intendo dove siamo geograficamente, in quale
località.”
“Ovviamente
non glielo posso dire,” rispose l'altro con un sorriso, “sarebbe
contro le procedure.”
“Anche
tenermi qui è contro le procedure, eppure lo fa.”
Stuart
esitò qualche secondo prima di replicare. “Si lamenta della
sistemazione, tenente?” gli chiese poi senza smettere di sorridere.
“Preferirebbe dividere una camerata sporca con altri cinquanta
prigionieri?”
“Mi
dica dove siamo”, insisté von Rohr imperterrito.
Il
maggiore sospirò con fare indulgente. “Lei è davvero un tipo
caparbio”, osservò. Nella pausa che seguì stappò la bottiglia e
versò due bicchieri di vino. “Ci beva sopra”, gli consigliò
porgendogliene uno.
“Che
intende dire?”
“Si
rassegni, non posso dirle dove ci troviamo, lei è pur sempre un
nemico.”
A
quelle parole, il carattere focoso di von Rohr prese il sopravvento
nonostante ogni suo buon proposito: “E allora mi riporti in gabbia,
no? Visto che sono un nemico, che senso ha tutta questa commedia?”
Rimase
a fissare il suo interlocutore con gli occhi che mandavano lampi e le
mani puntate sui braccioli come se fosse in procinto di scattare in
piedi.
“Non
ha molto senso, in effetti,” ammise il maggiore dopo un lungo
silenzio, “ma sa, io sono un romantico, e mi piace pensare
che nonostante tutto si possa fare la guerra in modo onorevole,
combattendo per i propri ideali senza perdere umanità e
compassione.”
“Mi
scusi allora se non lo sono altrettanto,” rispose sarcastico von
Rohr, sempre teso come per balzare via da un momento all’altro, “ma
il romanticismo è un lusso che chi combatte per la sopravvivenza non
può permettersi.”
“Non
mi sembra proprio il caso di voi tedeschi, tenente,” replicò il
maggiore, “avete invaso Polonia e Francia. Questa non è certo la
condotta di chi lotta per sopravvivere.”
“Immagino
che a voi faccia comodo considerare la faccenda in questo modo,”
rispose l'altro, tornando lentamente alla posizione rilassata, “il
cattivo Terzo Reich che opprime le povere nazioni confinanti. Posso
ricordarle che quelle stesse nazioni qualche decennio fa hanno messo
in ginocchio la Germania con debiti di guerra esorbitanti?”
“La
Polonia no.”
“Ma
la Francia sì.”
“Beh,
in realtà l'Impero Tedesco se l'è cercata, non le pare, von Rohr?”
“Forse
dal vostro punto di vista,” rispose l'altro imperterrito, “e di
certo i debiti e gli obblighi che ci sono stati imposti erano al di
fuori di ogni ragionevolezza. Come si sentirebbe per esempio lei,
maggiore Stuart, se le potenze straniere venissero in Inghilterra con
la pretesa di regolare persino i trasporti fluviali? Se a voi inglesi
venisse impedito di avere un esercito degno di questo nome e
un'aviazione militare, se vi venisse tolta la maggior parte del
frutto del vostro lavoro, se foste costretti a raccogliere gli avanzi
per mangiare mentre avvoltoi stranieri si ingrassano col vostro
sangue? Non le verrebbe voglia di ribellarsi e far valere il suo buon
diritto?”
Di
nuovo fissò il maggiore con lo sguardo acceso e un'espressione
spaventosamente risoluta sul volto pallido. Stuart ebbe quasi paura
di lui, perché si rese conto di avere di fronte una persona disposta
a combattere fino alla morte per i propri ideali.
“Beva
qualcosa, tenente,” gli disse porgendogli il bicchiere.
“Ma
certo, meglio evitare il discorso, vero?” lo sfidò l'altro.
“Come
oratore non valgo nemmeno la metà di lei,” replicò l'inglese con
un sorriso, “l'esito dello scontro sarebbe troppo scontato.”
Poche
ore dopo, nel buio opprimente della camera oscurata, il maggiore
Stuart si rivoltava fra le coltri in preda ad una sorda angoscia.
Cercava disperatamente di distogliere il pensiero da Hans von Rohr,
ma per quanto ci provasse esso tornava sempre a lui, con la
pervicacia di un animale sitibondo che ha finalmente trovato una
polla d'acqua.
Riuscì
faticosamente ad addormentarsi, sudato e agitato, e fece sogni
terribili. Vide la sua fidanzata morta, adagiata su un letto di rose
rosso sangue, coperta da una bandiera della Hitlerjugend che lasciava
visibile solo il volto.
Poi
vide se stesso nudo, al centro dello spiazzo che si trovava di fronte
alla baracca del comando. Tutti gli uomini dello Squadron lo
insultavano e lo deridevano, mentre seduto nella sua solita poltrona,
sordo alle sue richieste di aiuto, Poynter beveva un Old Fashioned e
con un risolino diceva: “Me l'aspettavo.”
Vide
anche il ragazzo di cui si era invaghito in accademia, il Fair Youth
di shakespeariana memoria, che indossava l'uniforme della Luftwaffe e
teneva in mano un calice di vino dal colore rosso cupo.
L'ultimo
sogno però fu il più spaventoso di tutti: era nel salotto del suo
alloggio e sedeva in una delle poltrone con uno strano senso di
angosciosa aspettativa. Era come se sapesse che sarebbe accaduto
qualcosa di molto brutto ma avesse nel contempo la consapevolezza di
non poter fare nulla per evitarlo. Quel pensiero lo rendeva inquieto,
era sicuro che avrebbe dovuto tentare di fare qualcosa per
scongiurare ciò che stava per accadere, tuttavia non riusciva a
muoversi.
Fissava
poi lo sguardo sulla porta della camera da letto, certo che da lì
sarebbe uscito qualcosa di terribile. Aveva paura, ma al tempo stesso
avvertiva una sorta di morbosa curiosità. Ad un certo punto la porta
si apriva lentamente ed egli vedeva uscire un altro se stesso. Un se
stesso strano, dall'espressione viziosa, quasi laida. Con i capelli
spettinati e gli abiti discinti.
Senza
degnarlo di attenzione, il suo doppio andava a staccare dal chiodo
cui era appesa la chiave della prigione di von Rohr, e poi si
dirigeva con sicurezza al cancello che la chiudeva.
Stuart
a questo punto lo seguiva ed era testimone impotente di un episodio
orribile: il suo alter ego entrava deciso
nella chiesa e
raggiungeva il letto sul quale von Rohr stava dormendo. Dalla
posizione in cui si trovava, Stuart vedeva bene il ragazzo
addormentato, con il bel corpo parzialmente coperto dal lenzuolo in
un seducente gioco di trasparenze.
L'alter
ego afferrava il giovane ufficiale per un polso, tirandolo poi
brutalmente verso di sé. Svegliato di soprassalto, l'altro cercava
di divincolarsi, ma il misterioso doppio sembrava dotato di una forza
sovrumana e rintuzzava facilmente i suoi sempre più convulsi
tentativi di liberarsi.
Il
maggiore vedeva la rabbia negli occhi di von Rohr mutarsi in paura
nel momento in cui egli raggiungeva la consapevolezza di non essere
in grado di difendersi.
I due
comunque lottavano brevemente e alla fine l'alter ego immobilizzava
al suolo von Rohr, che rimaneva a divincolarsi invano con la faccia a
terra e le mani bloccate dietro la schiena.
Sotto
il suo sguardo attonito, il suo doppio si calava i pantaloni,
rivelando un fallo enorme, che svettava turgido e pulsante. Poi gli
rivolgeva un sorriso che aveva un'odiosa connotazione di complicità
e con un esperto colpo di ginocchio allargava le gambe del giovane
prigioniero.
“No!”
gridò il maggiore Stuart svegliandosi di soprassalto. Si rizzò
bruscamente a sedere e cercò a tentoni il bicchiere d'acqua che
teneva sempre sul comodino. Lo bevve affannosamente, tutto d'un
fiato, con tale impeto che gliene colò addirittura un rivolo lungo
il mento.
Si
passò una mano fra i capelli sudati. Stava ansimando ed era –
orrore – eccitato. L'erezione gli pulsava dolorosamente,
obbligandolo a rievocare suo malgrado i particolari di quel sogno
terribile.
Eppure
era stato uno spettacolo rivoltante. Come poteva essersi eccitato
assistendo ad una scena così efferata?
Rivide
Hans von Rohr prono sul pavimento, nudo e immobilizzato, e con suo
sconcerto un brivido di colpevole piacere gli percorse la spina
dorsale.
Ne
rimase allibito. Davvero nel suo subcosciente albergavano desideri di
quel tipo? Non riusciva a crederci.
Si
lasciò ricadere sdraiato e giacque nel buio disteso sulla schiena,
cercando di ignorare ciò che aveva fra le gambe.
È
stato solo un sogno, si ripeteva, niente di ciò è
accaduto
realmente. È stato uno scherzo della tua immaginazione.
Uno
scherzo talmente realistico che doveva fare appello a tutta la sua
forza di volontà per impedirsi di andare a controllare che von Rohr
stesse bene.
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Capitolo 21 *** Capitolo 21 ***
Capitolo
21
Il
mattino dopo c’era un tempo perfetto per volare: non una nuvola in
cielo e nemmeno un filo di vento. Tutti erano ansiosi di decollare e
persino gli aerei allineati sembravano impazienti di staccarsi da
terra.
Sullo
sfondo di tanta euforia, il volto cupo e teso del maggiore Stuart
appariva fuori posto come una macchia su un vestito.
Poynter,
che stava facendo gli ultimi controlli al suo aereo, gli si avvicinò
e disse: “Mi chiedevo se per caso quel tuo tedesco ha degli
antenati in Transilvania.”
“Non
sono in vena di scherzi, John,” rispose Stuart bruscamente. Aveva
dormito sì e no due ore, tormentato da incubi raccapriccianti, e
l’ultima cosa che desiderava al mondo era ascoltare le arguzie di
Poynter.
“Parlo
sul serio, George, perlomeno sul serio a mio modo. Da quando ce l'hai
in casa, ogni mattina sei più sbattuto. Non è che di notte si
trasforma in pipistrello, esce dalla sua prigione e ti succhia il
sangue?”
“Piantala!”
rispose asciutto il maggiore. “Non succede proprio niente, di
notte.”
Il
capitano si strinse nelle spalle. “Visto che è nobile, magari è
un parente del conte Dracula, va a sapere.”
Stuart
stava per ribattere, ma l’altro gli posò una mano sul braccio e
facendosi di nuovo serio disse: “Fa un favore a te stesso e ai
ragazzi stamani: non andare in volo.”
Il
maggiore lo fissò con tanto d’occhi. “Che intendi dire?”
“Sei
troppo stanco, non sei concentrato, hai la testa altrove. Se vai in
volo così, sai come va a finire.”
“Smettila,
sto benissimo. E smettila anche di farmi da balia, ci stanno
guardando tutti.”
“I
ragazzi sono preoccupati, George.”
Il
maggiore dardeggiò tutt’intorno uno sguardo sospettoso: i piloti
apparivano ostentatamente assorti nelle più svariate attività.
C’era chi controllava i flap, chi ripiegava con cura la mappa, chi
infine si accertava che le armi fossero caricate a dovere.
A
momenti si mettono anche a fischiettare, pensò il maggiore
indispettito, constatando che ancora una volta il suo amico aveva
ragione.
“Beh,
non hanno motivo di preoccuparsi,” tagliò corto, “e se non
sbaglio abbiamo del lavoro da fare, quindi mi aspetto che lo Squadron
sia in volo al completo entro tre minuti.” Fece qualche secondo di
pausa, quindi aggiunse: “E poi cosa dovrei dire? Scusate ma oggi
non mi va di fare le missioni di guerra?”
“Potresti
marcare visita.”
“Ma
figurarsi. Se tutti quelli che dormono male dovessero marcare visita,
qui non si alzerebbero più in volo neanche i piccioni.”
Poco
dopo, ai comandi del suo aereo, il maggiore rifletteva sulle parole
dell’amico.
I
ragazzi sono preoccupati.
Per la
prima volta ebbe la sensazione che la faccenda del prigioniero stesse
sfuggendo al suo controllo. Fino a quel momento aveva pensato di
essere riuscito a mantenere tutto ammirevolmente privato e di non
aver fatto trapelare nulla dei suoi turbamenti per il destino di von
Rohr e per altre cose, ma se Poynter gli parlava in quel modo, se
persino i suoi piloti si preoccupavano per lui, era segno che in
realtà quello che aveva cercato con tanto impegno di nascondere non
era poi così nascosto.
Angosciosamente
si chiese cosa sapessero, e quasi
senza rendersene conto fece
girare lo sguardo a destra e a sinistra, scrutando gli aerei in volo
attorno a lui.
In quel
momento, qualcuno gridò in frequenza: “Formazione nemica a ore
due, quota duemila o duemila e cinquecento!”
Immediatamente
Stuart accantonò le sue preoccupazioni e fissò lo sguardo nella
direzione indicata: sulle prime vide solo dei puntini neri, che però
in breve assunsero le sembianze spigolose di altrettanti
Messerschmitt 109.
“Prepararsi
ad attaccare!” ordinò, stringendo le cinghie che lo assicuravano
al sedile come faceva sempre nell’imminenza di un combattimento.
I
caccia della Luftwaffe si separarono in gruppi di quattro e poi si
divisero ulteriormente in coppie, segno che anch'essi erano
intenzionati a combattere.
Poi le
due formazioni si scontrarono. Il cielo divenne un unico susseguirsi
di duelli furibondi, Messerschmitt e Hurricane si passavano talmente
vicino da rischiare collisioni in volo e l’aria era attraversata in
ogni direzione da raffiche di traccianti.
In
breve cominciarono a cadere aerei da una parte e dall’altra,
lasciandosi dietro dense scie di fumo, mentre i fiori bianchi dei
paracadute scendevano con assurda indolenza attraverso quella mischia
infernale.
E poi
Stuart lo vide: era il Cavaliere di Valsgärde. Arrivava a tutta
manetta sul pelo dell’acqua, così basso che sembrava fondersi con
la superficie verdastra delle onde.
Se
n'era accorto troppo tardi: capì che il tedesco l'aveva sorpreso.
Aveva già cabrato e gli stava arrivando addosso da sotto, come una
specie di orca assassina.
Tentò
una manovra evasiva in extremis buttandosi tutto da una parte con una
scivolata d’ala, ma già le raffiche del Messerschmitt gli avevano
bucato un serbatoio e centrato in pieno il motore.
In un
attimo di bruciante consapevolezza, il maggiore realizzò che il
Cavaliere di Valsgärde l’aveva appena abbattuto, che rischiava di
precipitare in mare e che si era fatto fregare come l’ultimo dei
novellini.
A
motore fermo, le pale dell’elica in bandiera, l’aereo stava
cadendo come un sasso. Gli strumenti sembravano impazziti,
l’avvisatore di stallo fischiava, l’altimetro indicava una
frenetica perdita di quota e l’abitacolo era ormai invaso da un
fumo denso e acre che faceva lacrimare gli occhi. Il maggiore spinse
la barra in avanti con tutte le sue forze, obbligando lo Hurricane a
buttare il muso verso il basso. Dopo qualche tentativo riuscì a
recuperare una parvenza di assetto, l’avvisatore di stallo tacque e
in qualche modo l’aereo riprese goffamente a planare.
Una
volta sicuro di averlo più o meno sotto controllo, Stuart cabrò
leggermente e diede qualche grado di flap riducendo la velocità
mentre guardava fuori alla ricerca di un posto dove atterrare. Era
riuscito ad arrivare alla costa, e inclinando il velivolo vedeva già
le onde infrangersi sulla battigia.
Valutò
che una bella striscia di sabbia umida era l'ideale, considerando che
sarebbe dovuto atterrare sulla pancia. Il carrello non funzionava, e
anche se fosse stato integro non avrebbe avuto tempo di azionarlo: il
suolo si stava avvicinando con una velocità decisamente sgradevole.
Ebbe
solo il tempo di staccare i contatti e chiudere i serbatoi della
benzina, poi con un fracasso da fine del mondo l'aereo toccò terra.
Sbalzato
in avanti con violenza dall'impatto, trattenuto unicamente dalle
cinghie di sicurezza, Stuart si trovò a lottare contro un velo nero
che gli oscurava la vista.
Scosse
bruscamente la testa per schiarirsi le idee: non era il momento di
abbandonarsi ad uno svenimento. Fece saltare la capottina di
plexiglas mentre l'aereo continuava a strisciare scavando un solco
nella sabbia.
Poi
finalmente il caccia, ormai ridotto a una carcassa informe, si fermò
e sulla scena calò un silenzio spettrale, rotto solo dal lieve
sibilo del vapore che usciva ancora dal radiatore sfasciato.
Il
maggiore si guardò intorno attonito, realizzando di essere a terra e
probabilmente tutto d'un pezzo. Vide che dal motore si levava ancora
fumo, e questo lo convinse ad abbandonare immediatamente il relitto.
Sganciò le cinture di sicurezza, uscì dall'abitacolo e si lasciò
cadere su quello che restava dell'ala, quindi si allontanò
rapidamente per portarsi fuori dal raggio di eventuali esplosioni.
Quando
fu ad una distanza di qualche decina di metri da quello che restava
del suo Hurricane si sedette sulla sabbia e si concesse di guardare
in alto. La battaglia stava ancora infuriando, ma da lì gli riusciva
difficile capire se stessero vincendo gli inglesi o i tedeschi.
Chissà
se Poynter l'aveva visto cadere? C'era da scommettere di sì.
Sembrava distratto e perso nel suo mondo, ma in realtà non gli
sfuggiva mai nulla.
Respirò
profondamente adagiandosi sulla sabbia, e guardando il cielo
attraversato dalle strisce di condensa assaporò la sensazione
inebriante e al tempo stesso vagamente colpevole di essere scampato
per un pelo alla morte.
Si
chiese se l'avesse provata anche von Rohr quando si era trovato nella
stessa situazione.
Non
fece in tempo a darsi una risposta: un clamore di persone in
avvicinamento lo distrasse dalle sue elucubrazioni.
Arrivò
un gruppetto di civili che subito lo circondò vociando. Erano per la
maggior parte abitanti del vicino paese e apparivano tutti assai
soddisfatti di poter dare aiuto a un eroico aviatore. Tra pacche
sulle spalle e giri di fiaschette di whisky, sordi alle sue proteste
lo sollevarono praticamente di peso e lo caricarono su un calessino,
che subito partì al trotto alla volta del centro abitato.
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Capitolo 22 *** Capitolo 22 ***
Capitolo
22
Quando
Stuart fece ritorno allo Squadron, cosa che avvenne nel tardo
pomeriggio, Poynter lo accolse con un signorile silenzio. “Tieniti
i tuoi piloti,” fu l'unica cosa che si degnò di dirgli. “Erano
talmente preoccupati per te che non si accorgevano nemmeno di quando
davo un ordine. Che gusto c'è a fare il comandante in seconda, se
poi al momento buono gli uomini non ti danno neanche retta?”
“Mi
dispiace,” rispose semplicemente Stuart, e non era chiaro se fosse
dispiaciuto per quello che gli aveva riferito il capitano o per
essersi fatto abbattere.
“Ah,
lascia perdere,” replicò Poynter con un'alzata di spalle.
“Piuttosto: cos'è quella fasciatura che hai lì sul braccio?”
Il
maggiore fu tentato di nasconderla come un bambino avrebbe nascosto
alla madre uno strappo nel vestito nuovo. “Niente, niente.”
Nel
corso dell'atterraggio aveva riportato un taglio, se n'era accorto
quando si era alzato dal sedile del calessino e l'aveva trovato
intriso di sangue. La ferita però non era grave, ed era già stata
accuratamente medicata dal dottore del paese. “Posso volare,”
soggiunse.
“Volare
necesse est, vivere non necesse, per parafrasare
Pompeo,”
rispose Poynter, come se la cosa lo lasciasse del tutto indifferente.
“Adesso
cominci anche tu col latino?”
“Sì,
per non cominciare con gli insulti.”
Saggiamente,
Stuart decise di lasciar perdere. Il capitano si trovava in una delle
sue rarissime fasi di furore, e andare a stuzzicarlo avrebbe
suscitato una specie di eruzione del Krakatoa.
Senza
aggiungere altro uscì dalla baracca del comando e una volta
all'esterno rimase a contemplare in silenzio le ombre lunghe del
tramonto.
Tornò
lo sgradevole senso di colpa che aveva provato poche ore prima. Aveva
agito con sconsideratezza, non era andato in volo nelle condizioni
adeguate e non aveva dato ascolto ai saggi consigli degli amici.
Eppure lui era vivo mentre tanti altri bravi piloti erano morti.
Si
sentì disperatamente solo. Quasi senza accorgersene volse allora lo
sguardo verso la chiesa, e si trovò a pensare al suo inquilino con
un vago senso di calore.
La cosa
gli comunicò la consueta fitta di sgomento, che però
inaspettatamente si stemperò nella consapevolezza che in tutta la
base solo il tedesco sembrava pensarla come lui su certe cose.
Alla
sera si ritirò presto con la scusa che era stanco. In realtà non lo
era più degli altri giorni, ma aveva un disperato bisogno di stare
da solo e possibilmente di riflettere.
Il
problema di cui non riusciva a venire a capo era von Rohr.
Era a
causa sua che la mattina si era fatto abbattere e ci aveva quasi
lasciato le penne.
Per
prima cosa, pur con stupore doveva ormai ammettere che provava
attrazione nei suoi confronti. Negarlo sarebbe stato come rifiutarsi
di riconoscere che il sole sorgeva tutti i giorni, o che il cielo era
azzurro. Se pensava a lui sentiva il cuore accelerare i battiti e un
brivido di colpevole desiderio gli percorreva la schiena.
Poi
c'era la faccenda dell'Intelligence. Entro due giorni sarebbero
venuti a prenderlo, e avrebbero messo in atto con lui quella loro
ignobile farsa.
Però
von Rohr era anche un nemico, ed era chiaro che non sarebbe potuto
rimanere presso la base in eterno.
Avrebbe
potuto consegnarlo, in questo modo di sarebbe liberato del primo e
forse peggiore problema, però poi sarebbe dovuto venire a patti con
la sua coscienza per il secondo.
Ma del
resto poteva non consegnarlo? Con
che autorità, con quale
scusa?
Sospirò
afflitto. Gli sembrava di essere una volpe con la zampa in una
tagliola: aspettare il cacciatore, cercare di sfilare l'arto
straziandoselo orribilmente, o troncarlo con un morso e rassegnarsi
alla mutilazione?
Così
meditando si accorse di essere arrivato davanti alla porta del suo
alloggio. Ebbe un sorriso amaro: tutto considerato, andare a pensare
lì dentro era come mandare un alcolizzato a riflettere in una
cantina.
Entrò
adagio, cercando di fare meno rumore possibile. Evitò di accendere
la candela e sperò con tutto il cuore che Hans von Rohr avesse di
nuovo il suo consueto atteggiamento di sdegnoso rifiuto e gli desse
le spalle dal fondo della navata.
“Buona
sera, maggiore Stuart,” lo salutò una voce nell'oscurità.
Sulle
prime l'inglese sussultò, poi si trovò involontariamente a
sorridere e avvertì il piacevole senso di calore che compare quando
si incontra un vecchio amico.
“Buona
sera a lei, tenente,” rispose dopo un attimo di esitazione.
Fece un
po' di luce e vide che von Rohr era riuscito ancora una volta ad
afferrare la tenda e a raccoglierla da una parte. “Mi stava
aspettando?” non poté fare a meno di chiedere.
L'altro
annuì in silenzio.
“Oh,”
disse Stuart, mentre tutti i suoi propositi di rigore e meditazione
si sgretolavano come edifici durante un terremoto. “Oh. Certo. Ha
voglia di intrattenersi un po' con me?”
“Volentieri,”
rispose il giovane ufficiale, poi fece un passo avanti spostandosi
nell'alone di luce della candela e rimase a fissarlo negli occhi.
Poco
dopo erano seduti nel salottino, con una bottiglia di sherry davanti
e il candelabro a rischiarare l'ambiente.
“C'è
una cosa che ho sempre voluto chiederle, von Rohr,” disse Stuart,
cercando di ignorare come la luce delle candele conferisse una
tonalità di oro caldo ai capelli chiarissimi del giovane ufficiale.
Il
tenente si voltò verso di lui. “Che cosa?”
“Può
anche non rispondermi, se preferisce.”
“Se
non so la domanda...” rispose il tenente. Sul volto gli aleggiò un
vago sorriso.
“Ha
ragione,” disse il maggiore. “Perché c'era lei nell'aereo del
Cavaliere di Valsgärde?”
Il
tenente sembrò sussultare. Aggrottò le sopracciglia e negli occhi
gli balenò un lampo dell'antica diffidenza. “Perché lo vuole
sapere?” ringhiò.
Stuart
bevve un sorso di sherry, si appoggiò all'indietro contro lo
schienale e finalmente spiegò: “Non glielo so dire, in realtà. È
solo che mi piacerebbe saperlo. Ho letto l'articolo di Signal che
parlava del capitano Müller e mi aspettavo di trovarci lui,
nell'aereo che ho abbattuto.”
“Lui
non lo abbatterete mai!” replicò il tenente ergendosi con
fierezza.
“Il
mai purtroppo non esiste in guerra,” rispose il maggiore scrollando
le spalle.
Il
tenente non rispose e fra i due calò un silenzio rotto solo dal
lieve crepitare delle candele.
“Non
sto cercando di farle l’interrogatorio,” si sentì in dovere di
chiarire Stuart al protrarsi del mutismo di von Rohr, “il mio è un
interesse personale.”
Vide
l'altro fissarlo stupito e subito si pentì di aver usato
quell’aggettivo: non voleva che il giovane ufficiale si accorgesse
dell’attrazione che provava per lui, perché era una cosa
vergognosa e disonorevole.
“Voglio
dire, era solo una curiosità,” spiegò abbassando lo sguardo.
Afferrò
la bottiglia per riempirsi di nuovo il bicchiere, ma nel movimento la
manica della camicia si spostò lasciando intravedere le bende che
aveva sul braccio.
“È
ferito?” chiese il tedesco.
“Niente
di importante,” rispose subito il maggiore ritirando il braccio. Si
vergognava a dirgli che quella mattina era stato abbattuto.
“Ma
no, aspetti, questa fasciatura andrebbe rifatta.” Von Rohr si
protese e gli afferrò il polso. “Vede? È tutta allentata, così
non serve a nulla.”
“Davvero,
non si disturbi,” si difese il maggiore, ma l’altro sembrava
irremovibile. Senza dargli ascolto gli rimboccò la manica, poi
cominciò a svolgere la benda con una disinvoltura che denotava una
lunga pratica.
Stuart
deglutì mentre un brivido gli percorreva la schiena: era la prima
volta che von Rohr lo toccava. Come aveva immaginato, aveva una presa
salda, ma mani fondamentalmente delicate e lisce.
Abbassò
irresoluto gli occhi su di lui: era concentrato sul suo lavoro, così
vicino che poteva addirittura sentire il suo odore di pulito. Un
pensiero gli attraversò la mente come un lampo: per baciarlo sulla
nuca gli sarebbe bastato piegarsi appena in avanti.
Ne fu
sconcertato. Come poteva anche solo prendere in considerazione l'idea
di baciare un ufficiale nemico – un maschio – sulla nuca?
Mentre
era immerso in quelle angosciose considerazioni si fece udire la voce
del tenente: “Cosa farebbe lei, maggiore, se non le permettessero
di compiere missioni di guerra perché la credono troppo inesperto?”
Aveva
parlato come fra sé e sé, continuando frattanto a sistemare le
bende sull'avambraccio del suo interlocutore.
“Che
intende dire?” gli chiese perplesso Stuart.
“Io
ero già istruttore di aliante a sedici anni, e sono uscito dalla
scuola di volo primo del mio corso, con il massimo dei voti. Eppure
il mio comandante non mi permetteva di partecipare alle missioni di
guerra.”
“Avrà
voluto rendersi conto di persona delle sue capacità,” ipotizzò
l'inglese, intuendo quanto l'argomento stesse a cuore all'altro da
come i suoi movimenti si erano fatti improvvisamente nervosi.
“E
come, facendomi pilotare un Fieseler Storch pieno di cibarie?”
ringhiò il tedesco. Stuart, che non sapeva nulla dell'umiliante
episodio, rimase in silenzio.
“È
per questo che ho preso l'aereo del capitano Müller,” proseguì
allora von Rohr, “volevo dimostrare a tutti quanto valgo come
pilota.”
A
quelle parole, meravigliato il maggiore chiese: “Quindi quella era
la sua prima missione di combattimento?”
“Sì.”
“Forse
dovrei chiamarla von Richthofen, allora, non von Rohr.”
“Non
mi prenda in giro anche lei,” protestò il giovane rabbuiandosi in
volto.
“No,
parlo sul serio,” rispose il maggiore, “ho sudato sangue per
tirarla giù e mi ha anche abbattuto due aerei.”
Intanto
il tedesco aveva finito di sistemare il bendaggio. Controllò
un'ultima volta il suo lavoro e con tono sbrigativo disse: “Lasci
stare, non so nemmeno perché le ho raccontato tutte queste cose.
Comunque adesso il braccio non dovrebbe più darle problemi.”
Stuart
sorrise. “La ringrazio, è una fasciatura perfetta. Dove ha
imparato a farle?”
“Nella
Hitlerjugend.”
“Insegnano
anche queste cose?”
“Insegnano
tutto.”
Ancora
sotto l'effetto del turbamento di poco prima, Stuart si versò un
altro po' di sherry. Distolse lo sguardo dagli occhi di von Rohr, che
in quella luce soffusa diventavano di uno straordinario blu tendente
al viola, e quasi senza rendersene conto disse: “Se quella era la
sua prima missione, diventerà un pilota ancora più abile del
Cavaliere di Valsgärde.”
E poi
realizzò che von Rohr non sarebbe diventato più niente, perché
entro pochi giorni sarebbe morto.
Quella
brutale epifania lacerò senza pietà il velo di illusione nel quale
si era fino a quel momento crogiolato.
Vuotò
il bicchiere d'un fiato, con un movimento precipitoso che provocò
un'alzata di sopracciglia nel suo interlocutore. Che fare? Dirglielo?
Avvertirlo della minaccia mortale che incombeva su di lui? Cosa ne
avrebbe ricavato? Tanto in ogni caso non avrebbe potuto influire in
alcun modo su ciò che sarebbe accaduto.
“Qualcosa
non va?” chiese von Rohr.
“Io
volevo dire...” cominciò il maggiore esitante, ma subito l'altro
lo interruppe: “So cosa voleva dire: poiché ora sono un
prigioniero di guerra, lei pensa che non avrò più occasione di
dimostrare la mia abilità in volo.”
Si era
di nuovo raddrizzato nella persona. Abbandonata ogni dolcezza, il suo
sguardo aveva ripreso la consueta adamantina determinazione.
“Ebbene,
che lei ci creda o no, io me ne andrò di qui, maggiore,” gli
promise, “e lei non potrà fare niente per impedirlo.”
Vilmente
Stuart non lo contraddisse.
Di
nuovo nella sua cella, von Rohr camminava su e giù pensieroso.
C'era
la luna e chiazze di luce lattea si disegnavano sul pavimento di
pietra in corrispondenza dei finestroni sfondati.
Per
contrasto il resto era così buio che sembrava scomparso nel nulla.
Avrebbe
dovuto sentirsi soddisfatto della serata. Il maggiore cominciava ad
abbassare la guardia, a mostrare meno cautela quando lo avvicinava.
Presto
tramortirlo e fuggire sarebbe stato facile come rubare le caramelle a
un bambino.
Eppure
c'era qualcosa di sbagliato in tutta la faccenda, che lo impensieriva
e gli conferiva uno strano disagio.
Quello
che aveva raccontato a Stuart durante la loro conversazione, per
esempio. Per quanto si ripetesse che l'aveva fatto per suscitare la
sua fiducia e la sua simpatia, in realtà nell'intimo sapeva che il
motivo non era stato quello.
O
meglio: sì, forse era stato anche quello, ma c'era
qualcos'altro. Il racconto gli era uscito di bocca praticamente senza
che lui se ne accorgesse, come se fosse stato in compagnia di un
vecchio amico, uno di quelli a cui si può dire tutto. E non era
stata solo una mossa calcolata per rendersi 'simpatico' ai suoi
occhi. Aveva voluto condividere qualcosa con lui, conoscere il suo
parere.
Da
quando in qua era importante il parere di un nemico? Forse aveva
sbagliato ad accettare con quella leggerezza l'offerta di confidenza
del maggiore, perché conoscerne i lati umani lo stava disorientando
e distogliendo dal suo obiettivo.
Era una
persona affascinante, tanto per cominciare, ed era un ufficiale che
sapeva il fatto suo. Si sorprese a pensare che avrebbe accettato i
suoi ordini volentieri, se fosse stato un maggiore della Luftwaffe.
E poi
c'era un'altra cosa, forse addirittura più preoccupante delle
precedenti: quando Stuart lo guardava in un certo modo, sentiva
qualcosa di strano dentro. Come un tuffo al cuore, o una specie di
brivido.
Quando
gli aveva sistemato la fasciatura era rimasto piuttosto turbato dalla
sua vicinanza. Turbato in un modo dal quale fino a quel momento aveva
pensato di essere immune.
Sospirò
fermandosi nel bel mezzo di una chiazza di luce. Forse stava
diventando anche lui un anormale.
Sarebbe
riuscito ad uccidere Stuart, se quella fosse stata l'unica
possibilità di fuggire?
La
confidenza era stata un errore, ora lo sapeva per certo.
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Capitolo 23 *** Capitolo 23 ***
Capitolo
23
Quando
la sera successiva si recò alla chiesa, Stuart era piuttosto
inquieto.
Il
maggiore Linwood aveva telefonato due volte nel corso della giornata,
per ricordare che l’indomani sarebbe venuto a prelevare il
prigioniero.
Astutamente
aveva evitato in entrambi i casi di parlare direttamente con lui,
limitandosi a lasciargli detto di attenderlo per la mattina dopo.
Una
vecchia tattica: in quel modo il destinatario del messaggio poteva
solo limitarsi a prenderne atto, senza alcuna possibilità di
interloquire.
Era una
serata pessima, si sentiva sfiduciato e stanco per vari motivi. Aveva
perso due bravi piloti in combattimento, la Luftwaffe aveva
tartassato ben bene tutta la costa e il nuovo aereo che gli avevano
promesso era stato assegnato a un altro Squadron.
E poi
c'era la faccenda di von Rohr.
Ricordava
un aneddoto che aveva letto in Accademia: una volta avevano chiesto a
Giulio Cesare quale fosse la morte migliore, e lui aveva senza
esitazione risposto 'quella inaspettata.'
Il che
era sacrosantamente vero. Tante volte aveva parlato con persone che
dopo poco erano decedute, non ultimo il povero Guthrie, che era stato
abbattuto in combattimento alcune ore dopo avergli chiesto se il
Cavaliere era tornato, ma trovava terribile conversare con qualcuno
sapendo già come e dove sarebbe morto.
Soprattutto
perché quel qualcuno non gli era indifferente.
Cupo e
teso entrò nella canonica, e per prima cosa andò a controllare che
il salotto fosse a posto. Diede un'occhiata tutt'intorno, ma non
scorse nulla di diverso dal solito, quindi pose sul tavolino la
bottiglia migliore che era riuscito a trovare e accese il candelabro,
poi andò a chiamare von Rohr.
Il
tenente lo seguì docile, man mano che approfondivano la reciproca
conoscenza appariva sempre meno ombroso, e si accomodò nella solita
poltrona con un movimento che ormai denotava una certa confidenza.
“Come
va la sua fasciatura, maggiore Stuart?” domandò per prima cosa.
“Me
n'ero quasi dimenticato. Me l'ha sistemata così bene che non mi
accorgo nemmeno di averla addosso.”
Il
maggiore si passò soddisfatto la mano sull'avambraccio bendato,
quindi versò due bicchieri di vino e ne porse uno a von Rohr.
Il
tenente lo accettò senza difficoltà, segno che pian piano si stava
abituando anche a quello.
Involontariamente,
Stuart sospirò. L'idea che il giovane ufficiale stesse lentamente
prendendo confidenza con lui gli faceva stringere il cuore. Ormai si
fidava, e lui stava per tradirlo.
Si
chiese cos'altro avrebbe potuto fare, ma per quanto pensasse non gli
veniva in mente nulla a parte atti che avrebbero comportato un'accusa
di alto tradimento.
Era
forse un vile? Faceva il suo dovere di ufficiale e non tradiva la
Patria oppure anteponeva la propria salvezza al comportarsi con
onore? Se l'era chiesto tante volte, senza peraltro mai raggiungere
un verdetto.
La voce
di von Rohr lo distrasse dalle sue meditazioni: “La vedo
pensieroso.”
Stuart
alzò bruscamente la testa. “Mi scusi, ero distratto,” disse in
fretta.
“L'ho
notato. Qualcosa non va?”
“Io...
pensavo alla mia fidanzata,” rispose il maggiore, cercando scampo
nella prima cosa che gli veniva in mente. “La mia fidanzata.
Margaret. Lei ha una fidanzata, tenente?”
Il
giovane lo fissò esterrefatto. “Io? No di certo!”
“No?”
L'altro
si strinse nelle spalle e scosse la testa.
La
questione delle fidanzate era un problema che nell'arco della sua
breve vita non si era mai posto. Sapeva che un giorno avrebbe dovuto
sposarsi, per dare figli al Reich, ma al momento la cosa gli pareva
lontana da lui come l'idea di andare sulla luna o sul fondo
dell'oceano.
“Non
mi interessano le ragazze,” aggiunse candidamente.
L'altro
non poté impedirsi di assumere un'espressione stupefatta. “Prego?”
“È
così,” fu la risposta, pronunciata con commovente innocenza. “Chi
vorrebbe mai perdere tempo con quelle creature vanitose e sciocche
quando ci sono così tante cose da imparare sugli aerei?”
“Oh,
un sacco di gente, mi creda,” gli assicurò il maggiore, cercando
di ignorare il tremito che l'aveva invaso alle parole del suo
interlocutore.
“Volare
è così bello,” riprese von Rohr con aria sognante dopo qualche
secondo di silenzio. “Se potessi, vorrei fare come i rondoni, che
trascorrono la vita in volo.”
In
quell'istante un soffio di vento sollevò la tenda di una finestra.
Il
maggiore si voltò inorridito in quella direzione e realizzò, in un
secondo di raggelante consapevolezza, che la finestra non era chiusa.
Se l'era dimenticata. Aveva controllato tutto, ma quella no.
Ed era
a meno di un metro da von Rohr.
Istintivamente
guardò il tenente, questi gli restituì lo sguardo. Ci fu un attimo
di immobilità cristallizzata in cui persino le fiammelle delle
candele sembrarono smettere di tremolare, poi, rapido come un felino,
il giovane ufficiale balzò fuori e scomparve nella notte.
Subito
Stuart si precipitò alla finestra, e nel debole chiarore che essa
spandeva sul selciato lo vide rotolare agilmente, rialzarsi in piedi
e correre via.
L'unica
cosa che poté fare fu attaccarsi al telefono e dare l'allarme.
Finalmente
libero, von Rohr correva con quanto fiato aveva in gola. Doveva
andarsene, mettere più distanza possibile fra sé e quella base di
Tommies.
Avrebbe
pensato dopo, con calma, a cose pratiche come soldi, mezzi di
trasporto, abiti civili e documenti. Adesso l'unica cosa che contava
era andarsene da lì ed evitare di farsi catturare di nuovo.
Si
appiattì ansante contro la parete di un hangar. Alle sue spalle il
silenzio della notte era lacerato da clamori sempre più forti, segno
che il maggiore aveva già dato l'allarme.
Provò
una fitta di nostalgia al pensiero di Stuart, subito rimpiazzata da
un più consono sentimento di rivalsa.
Volevi
tenermi in gabbia, eh? Beh, l'uccellino è volato via.
Da
qualche parte venivano accesi dei riflettori. Von Rohr si costrinse a
non guardarli, sapeva che se l'avesse fatto avrebbe perso
l'adattamento delle pupille all'oscurità e sarebbe diventato come
cieco.
Scivolò
rapidamente dall'altra parte dell'hangar e riprese la fuga.
Alle
sue spalle i clamori si erano fatti più violenti, e si sentiva anche
qualche sparo.
Il
giovane tenente corse via e man mano che si allontanava il sentimento
di rivalsa si trasformava in autentico trionfo. Maggiore Graf, sto
arrivando!
pensava, capitano
Müller, ragazzi, torno da voi!
Gli
sembrava quasi di sentire tra le mani la barra del Messerschmitt 109.
Inconsapevolmente mosse il pollice come per posizionarlo sul pulsante
che comandava le mitragliatrici.
Poi uno
sparo echeggiò nel buio.
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Capitolo 24 *** Capitolo 24 ***
Capitolo
24
Lo
ritrovarono il mattino dopo, alle prime luci dell'alba. Era nel bel
mezzo dello sbarramento di filo spinato, così tenacemente avvinto
dalle spire di metallo che per liberarlo furono necessarie le cesoie.
Era
stato colpito a una spalla, e per quanto la ferita non fosse
particolarmente grave, probabilmente il colpo l'aveva sbilanciato e
fatto cadere sui cavalli di Frisia. Il giovane aveva poi
spasmodicamente cercato di liberarsi, ma nel buio e ferito, alle
prese con il tipo di filo spinato detto 'a rasoio', non aveva fatto
altro che avvilupparsi sempre di più, ridursi a brandelli gli abiti
e tagliarsi dappertutto.
Dovettero
far venire una barella e portarlo via così, semisvenuto e
sanguinante, talmente stremato da non reggersi neppure in piedi.
Prontamente
chiamato, il maggiore raggiunse la piccola processione a metà del
suo percorso verso l’infermeria.
“È
vivo?” fu la prima cosa che domandò, osservando preoccupato il
prigioniero.
Von
Rohr giaceva immobile, gli occhi socchiusi avevano uno sguardo vacuo.
Il volto era di un pallore mortale.
“Vivo,
sissignore,” rispose subito il caporale Grice, che aveva sovrinteso
all’operazione di recupero, “anche se non particolarmente
vegeto.” Fece una breve risata, che provocò un’occhiataccia di
Stuart.
“Cos’è
successo?” chiese dopo qualche secondo l’ufficiale.
“L’idiota
è finito lì in mezzo.” Il graduato fece un cenno con la testa
verso gli sbarramenti di filo spinato. “E invece di starsene buono
e fermo come avrebbe fatto qualsiasi militare di buon senso, si è
agitato tutta la notte come una volpe presa al laccio.”
“Poteva
ammazzarsi,” constatò il maggiore quasi parlando fra sé e sé. Si
accese nervosamente una sigaretta, pregando che Grice non si
accorgesse del tremito che l’aveva invaso.
Lungi
dal notare simili bazzecole, il caporale rispose: “Già, peccato
che non abbia finito il lavoro, non è vero, signore?” Poi si
guardò intorno e con aria astuta soggiunse: “Ma stia tranquillo,
possiamo pensarci io e i ragazzi. Lei vada là in fondo a fumare la
sua sigaretta, e le garantisco che quando torna non dovrà più
preoccuparsi di questo nazista bastardo.”
“Caporale
Grice, le proibisco di parlare in questo modo,” disse freddamente
Stuart.
“Mi
scusi, signore,” rispose il graduato. Al maggiore parve di cogliere
una nota di impertinenza nella voce dell’uomo.
Così
parlando avevano infine raggiunto l’infermeria. Per vari motivi,
Stuart preferì non entrare. Primo, il tono che il caporale aveva
usato per rispondergli suggeriva di dimostrare apertamente che lui
non era interessato al giovane tedesco. Secondo, non era certo che
sarebbe riuscito a rimanere più a lungo impassibile. Vedere von Rohr
ferito e sofferente l’aveva inaspettatamente gettato nello
sconforto più completo: di colpo aveva realizzato che avrebbe potuto
perderlo, e che se l’avesse perso avrebbe sofferto orribilmente.
Quella
consapevolezza assunse la connotazione della tragedia. Che cosa gli
stava succedendo? Si era davvero innamorato di quel ragazzo?
Diede
un ultimo tiro nervoso alla sigaretta e si allontanò rapido,
augurandosi solo che il suo cuore smettesse di martellare come se
avesse voluto uscirgli dal petto.
Verso
metà mattina si presentò in pompa magna l'Intelligence militare: in
fila indiana arrivarono una macchina con a bordo Linwood e Benson, un
furgone per il trasporto del prezioso prigioniero e un'intera
camionetta di soldati per scortarlo.
I due
ufficiali smontarono nervosi, al solito senza nemmeno aspettare che
l'autista aprisse loro la portiera. Questa volta non recavano doni e
fecero addirittura fatica a rispondere al saluto che Stuart rivolse
loro intercettandoli in mezzo al piazzale.
“Siamo
qui per portare via il prigioniero,” disse brusco Linwood,
aggirando subito dopo il parigrado e dirigendosi spedito verso la
baracca del comando.
“Non
ne dubito,” rispose Stuart raggiungendolo. Poi, con una vaga nota
di soddisfazione nella voce aggiunse: “Ma temo che oggi non sia
possibile trasportarlo.”
“Non
ricominci con le sue geremiadi sull'onore,” ringhiò l'altro, “le
ho già sentite in tutte le salse, e la avverto che la misura è
colma.”
Il
pilota lasciò passare qualche secondo, poi con tono neutro replicò:
“Non intendevo tirare in ballo concetti così alieni alla sua
mentalità. Al momento il tenente von Rohr è in infermeria e non può
essere spostato.”
Linwood
si fermò. “Che cosa ci fa in infermeria?”
“È
ferito.”
Il suo
interlocutore ebbe un moto di impazienza. “E si può sapere come
mai è ferito?”
“Ha
tentato la fuga,” lo informò il maggiore Stuart, col tono che
avrebbe usato per parlare del tempo. E al protrarsi del silenzio
dell’altro, premurosamente aggiunse: “Secondo la Convenzione di
Ginevra, è diritto di ogni soldato prigioniero tentare la fuga.”
“Conosco
la Convenzione di Ginevra,” tagliò corto il maggiore Linwood.
“Perfetto,
allora saprà che ho ragione.”
Di
nuovo calò un silenzio greve come una lastra di piombo. Sembrava che
anche gli uccelli si fossero zittiti. Solo il vento faceva frusciare
appena le foglie degli alberi.
All'apparenza
perfettamente calmo, Stuart avvertiva in realtà la tensione tipica
dei voli di guerra. Stava conducendo una partita pericolosa, che
rischiava di terminare in una corte marziale con l’accusa di alto
tradimento.
L’Intelligence
per ora non se la prendeva con lui, ma probabilmente solo perché
l’effetto negativo sul morale delle truppe di un comandante di
Squadron arrestato per alto tradimento avrebbe eliso quello positivo
derivante della cattura del Cavaliere di Valsgärde.
Era
solo una questione di algebra, in fin dei conti.
La voce
di Linwood lo richiamò bruscamente alla realtà: “È stata messa
in atto ogni necessaria misura per impedire la fuga al prigioniero?”
“Ovviamente
sì.”
“Sa
che questo andrà nelle sue note caratteristiche, vero, maggiore?”
Per
tutta risposta Stuart si strinse nelle spalle con l’espressione di
chi si sottomette all’ineluttabile.
Un
altro silenzio.
“Conosceva
l’importanza di quel prigioniero,” riprese poi Linwood, sempre
più esasperato dal menare colpi e vederli andare a vuoto uno dopo
l’altro, “eppure l’ha lasciato scappare.”
“Non
mi sembra di averlo lasciato scappare,” replicò il pilota
con distacco, “tant’è che adesso non sta correndo libero per
l’Inghilterra ma è in infermeria ferito.”
“Voglio
vederlo.”
“Come
preferisce.”
L'infermeria
era una palazzina a due piani un po' distaccata dal resto degli
edifici. Per volere del capitano medico Allen, che la gestiva in
osservanza ai più rigidi principi ippocratici, essa era mantenuta in
uno stato di scrupolosa pulizia ed era circondata da un piccolo orto
di piante medicinali, destinate ad alleviare coi loro effluvi le
sofferenze degli infermi.
Sulla
porta c'era un soldato di guardia, che scattò sull'attenti e salutò
all'approssimarsi dei tre ufficiali.
“Riposo,
Curtis,” disse il maggiore rispondendo al saluto, “abbiamo
bisogno del capitano Allen.”
“Sissignore.
Lo chiamo subito, signore!”
Il
soldato scomparve all'interno dell'edificio. Con sollievo, suppose
Stuart, dal momento che a nessuno piaceva avere a che fare con
l'Intelligence.
Poco
dopo arrivò il capitano, che invece si dimostrò molto meno
impressionato dagli inattesi ospiti. Era un uomo di circa
trentacinque anni, alto e magro, che portava un camice completamente
abbottonato e occhiali dalla sottile montatura d'oro. Dava
l'impressione di trovarsi quasi per sbaglio all'interno dei ranghi
militari.
“Buon
giorno, signori,” salutò tranquillamente.
Linwood
aggrottò le sopracciglia a quell'atteggiamento decisamente poco
marziale. “Siamo qui per vedere il prigioniero,” disse.
Il
medico annuì, ma subito dopo rivolse lo sguardo al maggiore Stuart,
come per chiedergli la conferma che doveva davvero introdurre
estranei – e probabilmente profani – all'interno
dell'asklepieion.
Precedendolo
nell'atrio dell'edificio, il comandante del 19° Squadron spiegò: “I
signori sono venuti a controllare le condizioni del tenente von
Rohr.”
Non
aggiunse altro, lasciando che l'assurdità di due ufficiali del
servizi segreti che fanno visita a un prigioniero ferito dilagasse
come acqua da un vaso rovesciato.
“Sì,
signore” rispose dubbioso Allen. Si voltò verso i nuovi arrivati.
“Certo, signore,” ripeté, ancora poco convinto, “è di sopra.
Se i signori hanno la compiacenza di seguirmi...”
Si
incamminò rapido su per le scale senza terminare la frase.
Condusse
i tre ad una stanza che conteneva sei letti, uno solo dei quali
occupato. “Eccolo là,” disse semplicemente, fermandosi sulla
soglia.
“Bene,
ora vediamo,” disse Linwood senza preoccuparsi di nascondere la
propria diffidenza, quindi si diresse verso il ferito seguito
dall'immancabile e silenzioso Benson.
Von
Rohr era ancora di un pallore mortale. Era stato ripulito dal sangue,
ma su ogni parte visibile del corpo aveva medicazioni e fasciature,
alcune già macchiate di rosso. Era immerso in un profondo torpore.
“Gli
ho dato un po' di morfina,” disse Allen in risposta allo sguardo
preoccupato del maggiore Stuart.
“È
così grave?” domandò l'altro sforzandosi di mantenere un tono
neutro.
“Non
particolarmente, ma avevo paura che si agitasse e ho preferito
sedarlo.”
A
quelle parole intervenne Linwood: “Bene, se non è così grave
faccia il favore di impacchettarcelo, dottore, perché lo dobbiamo
portare via.”
Il
capitano medico inarcò le sopracciglia assumendo un'espressione a
metà fra lo stupore e l'indignazione. Dunque aveva ragione: erano
due profani!
“Il
mio paziente non si muove di qui,” si limitò a rispondere, e anche
da quelle poche parole trasparivano una costernazione e uno sdegno
senza fine.
Linwood
sospirò ostentando esasperazione. “Dottore, dobbiamo portare via
questo nazista oggi,” ripeté con studiata lentezza, scandendo ogni
parola. “Sia così cortese da metterlo in condizioni di viaggiare,
prego.”
“No.
Ha numerose medicazioni che richiedono assoluta immobilità, non è
possibile spostarlo.”
Gli
occhi dell'altro divennero due fessure. Con voce minacciosamente
bassa chiese: “Che cosa fa, dottore, protegge un nazista?”
“Curo
un ferito,” fu la risposta, pronunciata con ammirevole fermezza.
In quel
momento von Rohr gemette piano, distogliendo per fortuna il medico
dalla sua pericolosa presa di posizione.
“Si
sta svegliando,” disse Allen dopo aver tastato il polso e sollevato
una palpebra al giovane ufficiale.
“Bene,
allora ce lo portiamo via,” insisté Linwood imperterrito.
Per
tutta risposta, il dottore prese un oggetto che si trovava sul
comodino e glielo mostrò. Era un sottile nastro metallico dai bordi
irregolari, sporco di sangue.
“Che
cos'è?” chiese perplesso il maggiore.
“Filo
spinato a rasoio,” spiegò Allen. “Lo vede com’è fatto? È
roba che taglia a guardarla. Il tenente si è dibattuto tra queste
spire tutta la notte cercando di liberarsi. Questo pezzo ce l'aveva
conficcato in una coscia, e non è l'unico che gli ho tolto.”
“Quindi
in pratica si è macellato da solo,” non poté fare a meno di
osservare Benson, guadagnandosi un'occhiataccia da parte del suo
superiore.
“Precisamente,”
confermò il medico.
A quel
punto i due ufficiali dell'Intelligence si appartarono e si misero a
confabulare animatamente a bassa voce.
Rimasto
accanto al letto assieme ad Allen, Stuart abbassò gli occhi sul
ferito e si sentì stringere il cuore. Era terribile vederlo così.
Allungò lentamente una mano e con delicatezza gli prese il mento tra
le dita, voltandogli poi adagio la testa fino a mettere in evidenza
una fasciatura sul collo.
“Poteva
ammazzarsi,” disse alle sue spalle il capitano medico, “quella
ferita ha praticamente sfiorato la carotide, ed è un miracolo che
non si sia sfigurato o accecato.”
“Povero
ragazzo,” mormorò Stuart abbandonando la presa. Ricordava le
serate trascorse con lui nella canonica, il suo sguardo ardente, la
sua fermezza carica di sfida...
“Le
fa impressione?” gli chiese improvvisamente Allen.
Stuart
avvampò. “No di certo, perché?”
“È
impallidito.” Poi, dopo una pausa: “Forse è meglio che venga
fuori.”
“Ma
no, le assicuro che sto benissimo.”
“Il
ferito ha bisogno di riposare,” tagliò corto l'altro, “quindi
ora sarà meglio uscire.” L'ultima frase la pronunciò alzando
leggermente il tono della voce a beneficio dei due ufficiali
dell'Intelligence.
Uscirono
tutti dalla camera di degenza e si ritrovarono nella stanza attigua,
che era quella da cui partiva la scala per andare al piano inferiore.
Ritenendo
chiusa la questione del trasferimento di von Rohr, il capitano medico
salutò e tornò alle sue occupazioni.
“Un
bel tipo anche quell’Allen,” osservò Linwood sarcastico quando
il dottore se ne fu andato. “Siete tutti cavalieri della Tavola
Rotonda, qui? Non c'è nessuno che si limiti ad eseguire gli ordini
senza sentire il bisogno di fornire il proprio parere in merito?”
“Probabilmente
siamo gente un po' all'antica,” rispose Stuart sullo stesso tono,
“non molto al passo con i tempi. Crediamo ancora che l'onore e il
rispetto valgano qualcosa, pensi un po' quanto siamo strani.”
A
quelle parole Linwood strinse gli occhi fino a renderli due
minacciose fessure. “Non tiri troppo la corda, Stuart,” sibilò
lentamente, “la mia pazienza non è infinita e comincio ad averne
abbastanza delle sue sparate moraliste.”
“Che
coincidenza,” replicò l'altro senza lasciarsi impressionare,
“anch'io sono piuttosto stanco del suo cinismo e della sua
grettezza.”
“Ma
c'è una differenza fra noi due: io posso farla condannare per alto
tradimento, lei no.”
“Ma
certo, lei è Dio, può fare quello che vuole!” rispose Stuart
alzando la voce a quell'ennesima minaccia. “Lei può anche prendere
un prigioniero, farlo passare per criminale e impiccarlo senza
perderci un minuto di sonno!”
“La
smetta con queste idiozie! Stiamo combattendo una guerra, non una
partita di cricket, e dobbiamo vincerla a qualsiasi costo, con
qualsiasi mezzo!”
“Anche
mentendo e ingannando?”
“Certo,
se sarà necessario! E le dirò una cosa: se tirando il collo a quel
maledetto crucco fossi sicuro di salvare anche una sola vita inglese,
lo farei adesso con le mie mani!”
“Von
Rohr non è un criminale di guerra! Lei vuole uccidere un innocente!”
“In
guerra gli innocenti non esistono!”
La lite
andò avanti su quei toni per un po', poi i due tacquero, ansimanti e
rossi in viso, e per lunghi secondi rimasero a fissarsi immobili.
“Basta
così,” disse infine Linwood, “tra una settimana verrò a
prendere quel dannato nazista, e lei me lo farà trovare pronto per
il trasporto, oppure ci saranno due esecuzioni e non una.”
Se ne
andò senza attendere risposta.
Padrone
del campo dopo una disastrosa vittoria di Pirro, per un tempo
imprecisato il maggiore Stuart rimase semplicemente immobile al
centro della stanza. Si guardava intorno attonito, come se stentasse
a riconoscere ciò che lo circondava.
Gli
sembrava di vivere in un sogno, infatti. O più che altro in un
incubo. Si sentiva come un animale braccato che vede le vie di fuga
chiudersi una dopo l'altra.
Che
fare? Aveva sette giorni, poi Linwood sarebbe tornato per portare via
von Rohr. Lo rivide come gliel'avevano mostrato all'alba, stremato e
coperto di sangue, e si rese conto che non sarebbe riuscito a
sopportare per la seconda volta uno spettacolo del genere.
Stava
angosciosamente ragionando fra sé e sé quando sentì dei rumori
provenire dall'altra stanza. In preda ad un orribile presentimento
tornò nella camera di degenza e trovò von Rohr seduto sul letto.
Era
spaventoso a vedersi: aveva lo sguardo febbrile e ansava per quello
che doveva essere stato un tremendo sforzo. Alcune ferite si erano
riaperte e il sangue scuro rigava una pelle altrimenti bianca come
gesso.
“Maggiore...”
mormorò faticosamente, con una voce roca che metteva i brividi.
“Io... non sono un criminale di guerra. Io ho combattuto secondo le
regole.”
“Ha
sentito tutto?” domandò Stuart correndo verso di lui, anche se il
profondo turbamento del ragazzo appariva una risposta più che
eloquente.
“Non
sono un criminale di guerra,” ripeté il tedesco caparbio, “non
ho paura di morire, ma il disonore non lo accetto.”
In
preda a chissà quale inquietudine, d'impulso si alzò in piedi. Il
maggiore, che ormai era a pochi metri da lui, lo vide farsi
d'improvviso cereo e barcollare alla ricerca di un appiglio.
“Tenente!”
gridò raggiungendolo, “Hans!”
Lo
afferrò un attimo prima che crollasse al suolo e lo strinse a sé.
Istintivamente
il ragazzo gli circondò il collo con le braccia e rimase
pesantemente appoggiato a lui, così vicino che il maggiore sentiva
il suo cuore battere all'impazzata.
E anche
il proprio, per inciso.
“Hans,”
ripeté piano, “non devi alzarti.”
L'altro
rinsaldò per tutta risposta la stretta intorno al suo collo. “Non
lasciarmi,” mormorò con voce appena udibile.
A quel
punto, le difese che entrambi avevano faticosamente eretto giorno
dopo giorno crollarono di colpo, come una diga cede improvvisamente
alla pressione dell'acqua tumultuosa. Come guidate dall'attrazione
reciproca, le loro bocche si unirono in un lungo bacio ardente e
disperato.
Un
rumore al piano di sotto li fece trasalire. Con le labbra che
ancora sfioravano quelle del ragazzo, Stuart mormorò: “Non qui. Se
ci scoprissero sarebbe la fine.”
Ma non
si risolveva a lasciare von Rohr.
Qualcuno
stava salendo. Con la stessa sofferenza che avrebbe provato
strappando via una parte di sé, Stuart si obbligò infine a
sciogliere l'abbraccio e aiutò il ragazzo a sdraiarsi nuovamente sul
letto.
Un
attimo dopo entrò il capitano medico dicendo: “Mi sembrava di aver
sentito qualcuno litigare.” Poi fissò il maggiore e si accorse che
aveva il volto acceso e l'uniforme macchiata di sangue.
“Che
è successo?” chiese stupito.
“Il
tenente von Rohr voleva alzarsi,” rispose l'altro, col tono più
neutro che riuscì a tirare fuori, “ho dovuto afferrarlo per
evitare che cadesse a terra.”
“Oh,
capisco.” disse Allen. Si avvicinò al prigioniero. “Lei deve
rimanere sdraiato,” lo redarguì, “è ancora troppo debole. E poi
guardi cos'ha fatto: alcune ferite si sono riaperte. Se si comporta
così le resteranno delle brutte cicatrici.”
“Lo
terrò presente, signor capitano medico,” mormorò il giovane
tedesco, ancora turbato per quanto era accaduto solo poco prima.
Chiuse
gli occhi con un sospiro lasciando che Allen gli sistemasse le
medicazioni.
Stuart
capì che era il momento di andarsene. Il giovane aveva interrotto
volontariamente il contatto visivo per permettergli di allontanarsi
prima che l’ attrazione reciproca lo rendesse impossibile.
Lasciò
precipitosamente la stanza, scese incespicando le scale e uscì
dall'infermeria col cuore in tumulto, pregando che il capitano medico
non avesse capito il vero motivo del suo turbamento.
Una
volta all'esterno, si accese una sigaretta con mani tremanti,
aspirando il fumo come ossigeno dopo una prolungata apnea.
Si
ravviò nervosamente i capelli, inspirò ad occhi socchiusi come per
calmarsi. Doveva cambiarsi subito l'uniforme, ma dove mettere quella
insanguinata che aveva addosso? Non poteva certo lasciarla da lavare,
si sarebbero fatti delle domande, ma d'altra parte non poteva nemmeno
lavarla lui stesso, anche quello avrebbe suscitato domande.
Sospirò
irresoluto, con la sensazione di essere un assassino che tenta di
nascondere le prove del delitto commesso.
Andò
svelto alla canonica, deciso perlomeno a riconquistare il decoro
prima che qualcuno dei suoi uomini lo vedesse in quelle condizioni.
Volutamente
evitò di pensare a von Rohr. Erano tali e tante le implicazioni di
ciò che era appena accaduto che al momento non se la sentiva di
affrontarle.
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Capitolo 25 *** Capitolo 25 ***
Valsgärde 25
Capitolo
25
Seguirono
tre giorni d'inferno per il maggiore.
Per
prima cosa, non sapeva nulla di von Rohr. Il prigioniero era
ricoverato in infermeria, ma lui non osava andare a chiedere sue
notizie. Evitava addirittura di accennare all'argomento se per caso
incontrava il capitano medico al circolo ufficiali.
Il che
salvava le apparenze, o almeno così si augurava lui, ma lo lasciava
a rimuginare dolorosamente per ore sulle condizioni del giovane
tedesco.
L'aveva
visto prostrato, nemmeno in grado di reggersi in piedi. Si era
ripreso nel frattempo? E le ferite si stavano chiudendo senza
problemi? Mangiava adeguatamente? Stava bene?
Domande
destinate a rimanere senza risposta, che gli toglievano sonno e
concentrazione.
Quelle
tormentose preoccupazioni non erano peraltro il solo motivo per cui
passava le notti in bianco: anche altri pensieri, angosciosi e
pressanti come e forse più dei primi, lo opprimevano giorno e notte.
L’aveva
baciato. Un bacio profondo, ardente. Quello che avrebbe potuto
scambiarsi con l’amore della sua vita, carico al tempo stesso di
passione e tenerezza. Non ricordava di avere mai baciato neanche
Margaret in quel modo.
Per
quanto ci rimuginasse, però, l'accaduto non gli suscitava l’orrore
che si sarebbe aspettato.
Anzi,
gli era piaciuto baciare Hans von
Rohr.
Quella
era la cosa che lo sconvolgeva maggiormente: il fatto di non riuscire
a provare repulsione per un atto che lui stesso fino a quel momento
aveva sempre con veemenza definito ‘contro natura’.
Era una
situazione assurda, paradossale: combatteva tutti i giorni contro i
tedeschi, però si struggeva per uno di essi, arrivando al punto di
provare un'innaturale attrazione nei suoi confronti.
Non
aveva senso.
Eppure
era ciò che stava accadendo, inutile fingere. Era un'ossessione
anormale, disonorevole, che avrebbe potuto costargli la carriera, la
libertà e forse anche la vita, ma non riusciva a togliersela dalla
testa.
Gli
sembrava anzi di essere posseduto, mosso da una volontà che non gli
apparteneva. Ogni suo pensiero era per lui, da quando apriva gli
occhi all'alba a quando li chiudeva la notte, sempre che riuscisse a
dormire e non passasse anche quelle ore a rimuginare su di lui. Con
la mente riandava in continuazione a quei pochi minuti trascorsi
nell'infermeria, lo rivedeva anelante, con le labbra umide per il
bacio appena ricevuto, gli occhi socchiusi e la testa appena
reclinata all'indietro in un atteggiamento che evocava desiderio e
arrendevolezza.
E
invariabilmente quando pensava a lui in quel modo il cuore gli
balzava nel petto e si sentiva le cosiddette farfalle nello stomaco.
Aveva
l'impressione di essere intrappolato nelle sabbie mobili: più si
dibatteva e più affondava.
Il
quarto giorno fu il medico a cercarlo.
Entrò
nel suo ufficio con un atteggiamento che gli parve cauto in maniera
sospetta e poi rimase a fissarlo con un'aria stranamente irresoluta,
come se dovesse dire qualcosa di molto spiacevole ma non trovasse il
coraggio di farlo.
Il
maggiore si obbligò a rimanere impassibile. Non può averlo
saputo, si
ripeteva, anche se non riusciva a liberarsi
dell'impressione di avere la colpa scritta in fronte come una specie
di marchio di Caino.
“Ebbene,
capitano Allen, cosa c'è?” domandò, col tono in apparenza più
tranquillo e noncurante del mondo.
Il
medico parve farsi decisamente imbarazzato. Evitando lo sguardo del
suo superiore, dopo qualche secondo di esitazione esordì: “Ecco,
signore, si tratta del prigioniero.”
Stuart
sentì un brivido gelido percorrergli la schiena. Sa tutto!
pensò angosciato, e subito si buttò a vagliare le possibilità di
salvezza che gli si presentavano: negare? Indignarsi? O era meglio
ammettere quello che era successo e cercare comprensione nel capitano
Allen in quanto medico?
Forse
aveva sbagliato a comportarsi come se von Rohr non esistesse nemmeno.
Quell'atteggiamento di ostentato disinteresse era diventato in realtà
una spudorata ammissione di colpa. Del resto, se il tenente fosse
stato un prigioniero come tutti gli altri, non avrebbe visto nulla di
male nell'informarsi ogni tanto delle sue condizioni.
Ma von
Rohr non era un prigioniero come tutti gli altri, questo ormai doveva
essere chiaro ad ogni uomo della base.
La voce
del capitano lo distrasse bruscamente dalle sue tormentose
meditazioni: “Temo per la sua incolumità, maggiore.”
Stuart
ebbe la stessa sensazione di quando si apre il paracadute dopo
centinaia di metri in caduta libera. Rimase metaforicamente appeso al
salvifico ombrello, contemplando con surreale calma ciò che prima
aveva visto come la morte certa che gli veniva incontro a velocità
vertiginosa.
“Per...
la sua incolumità?” ripeté perplesso, faticando ad articolare le
parole per via della bocca secca.
“Suppongo
non ignori che il caporale Grice ha il dente avvelenato con i
tedeschi,” spiegò Allen.
L'altro
annuì. Il sottufficiale aveva perso una parte della famiglia nel
corso di un bombardamento e non faceva mistero del suo odio per i
nemici.
“L'ho
sorpreso un paio di volte ad aggirarsi intorno all'infermeria,”
riprese il capitano medico, “e quando gli ho chiesto cosa stava
facendo mi ha dato risposte piuttosto insolenti.”
“Mi
sta chiedendo di punirlo, capitano?”
“No,
signore. Le sto chiedendo di riportare il prigioniero nella sua
cella. Mi sentirei molto più tranquillo sapendolo ben chiuso e al
sicuro.”
Di
nuovo nella chiesa, von Rohr giaceva immobile sul letto. Non
ricordava molto del trasferimento dall'infermeria alla sua vecchia
prigione. Durante la degenza il medico aveva largheggiato con la
morfina, probabilmente pensava che non fosse in grado di sopportare
un po' di dolore, e quindi aveva passato tutto il tempo immerso in
uno sgradevole dormiveglia. Aveva qualche vago ricordo di qualcuno
che lo aiutava a mangiare o gli cambiava le fasciature, ma il resto
era nebbia.
Non
sapeva nemmeno quanto tempo fosse passato. Quanto mancava allo
scadere della settimana?
Perché
una cosa la ricordava bene, nonostante i sedativi: Tra una
settimana verrò a prendere quel dannato nazista.
Rammentò
che quando era piccolo la sua governante tentava di spaventarlo
dicendogli che se avesse fatto il cattivo il diavolo sarebbe venuto a
prenderlo, e lui regolarmente si appostava dietro la porta della sua
camera con qualche oggetto contundente per sorprenderlo prima che lo
facesse lui.
Bei
tempi.
Sospirò.
Allo svanire degli effetti della morfina la lucidità pian piano
ritornava, e con essa tutti i pensieri che il farmaco gli aveva fino
a quel momento impedito di elaborare.
All'inizio
era stato tutto molto semplice: gli inglesi sono nemici, sbagliato
dare confidenza, giusto tentare la fuga con ogni mezzo.
Poi le
cose si erano complicate, esattamente come una pianta che quando
nasce è composta da un solo stelo, ma crescendo fa spuntare
diramazioni e germogli.
Gli
inglesi avevano acquisito connotazioni umane, tanto per cominciare.
Non erano più un generico nemico da tenere a
distanza, si
erano trasformati in una persona con un carattere ben definito, con
principi e ideali.
Una
persona che gli aveva fatto battere il cuore, e che aveva suscitato
in lui sentimenti che fino a quel momento non aveva mai provato per
nessuno.
L'aveva
baciato. Così, senza nemmeno pensarci. Un attimo prima era
aggrappato al suo collo per non cadere, un attimo dopo aveva la bocca
incollata alla sua come aveva visto accadere solo nei film.
E la
cosa tragica era che ci aveva provato gusto.
Gli era
piaciuto, era successo proprio quello che gli avevano sempre
descritto i ragazzi che avevano già avuto delle esperienze: si era
sentito leggero, euforico e con la testa fra le nuvole. Poche volte
aveva provato qualcosa di così bello in vita sua.
E tutto
questo con un maschio.
Avrebbe
potuto invocare la debolezza, per quello che era accaduto,
l'ottundimento derivante dai sedativi, ma sarebbe stata solo una
patetica ipocrisia. Alla fine era successo come per il vino: aveva
bevuto il primo sorso per calcolo, ma poi la cosa gli era piaciuta e
non era più riuscito a porsi un limite.
Si mise
cautamente seduto. Come tutte le volte che rimuginava su argomenti
particolarmente impegnativi aveva bisogno di camminare, quindi scese
dal letto e seminudo com'era prese a passeggiare su e giù. Gli
effetti della morfina lo rendevano fastidiosamente instabile e
zoppicava ancora un po' per via dei punti nella coscia, ma come
sempre si impose di perseverare.
Quando
nel tardo pomeriggio il maggiore tornò alla canonica, von Rohr era
talmente assorto nei suoi pensieri che non si accorse nemmeno di lui.
La
tenda era rimasta leggermente aperta, e da quello spiraglio Stuart
poteva vedere il ragazzo che percorreva a passi lenti la navata, la
testa china in un atteggiamento di faticosa ponderazione.
Pensò
che sarebbe stato facile attraversare il corridoio alla chetichella e
raggiungere le sue stanze senza farsi sentire, ma stranamente non si
decideva a farlo. Il suo unico movimento anzi fu un impercettibile
passo di lato, che lo portò ad occultare la sua persona dietro la
tenda, così che se von Rohr avesse guardato da quella parte non
sarebbe riuscito a scorgerlo.
E poi
rimase lì a spiarlo, con un atteggiamento a metà fra la meraviglia
di osservare un animale selvatico nella foresta e la morbosità del
voyeur che sbircia attraverso il buco della serratura.
Il
ragazzo non indossava che la biancheria intima. Le ferite più gravi
erano ancora bendate, ma le altre stavano cominciando a guarire e non
erano ormai che scure linee sottili.
Stuart
fissava rapito il portamento orgoglioso delle sue spalle larghe, la
sua schiena muscolosa, e il modo in cui la stoffa bianca delle
mutande si tendeva sulle natiche sode ad ogni passo.
Poi,
quando von Rohr si girava per tornare indietro, lasciava indugiare lo
sguardo sui muscoli addominali, che si contavano ad uno ad uno, e sui
fasci dei quadricipiti, che ad ogni passo guizzavano tonici. E
qualche volta lo sguardo si spostava anche in mezzo alle gambe.
Si
sorprese a deglutire.
In quel
momento il giovane ufficiale si immobilizzò bruscamente e alzò
nella sua direzione occhi che fiammeggiavano d'ira.
Il
maggiore ebbe la consapevolezza che il tedesco si era accorto della
sua presenza, e si sentì perduto. Che fare? Filarsela con
discrezione? Passare come se niente fosse? Rimanere immobile nella
speranza che von Rohr stabilisse di essersi ingannato?
Difficile
fregare l'aquilotto con trucchi così meschini.
“C'è
qualcuno?” chiese infatti il giovane, facendo un paio di passi in
avanti. Continuava a scrutare con uno sguardo così acuto che dava
l'impressione di riuscire a vedere anche attraverso la spessa stoffa
della tenda.
“Stuart?”
“Hans,”
lo chiamò il maggiore spostandosi nel suo campo visivo.
“Mi
stavi... mi stava spiando?”
Il
tedesco continuava a fissarlo. Stuart notò che era riaffiorata
l'espressione rabbiosa e diffidente dei primi tempi, e se ne sentì
profondamente dispiaciuto.
“Io...”
il maggiore si frugò in tasca. “Io volevo restituirti il tuo
distintivo della Hitlerjugend. So che ci tieni.”
Glielo
tese attraverso le sbarre come aveva fatto la prima volta. L'aveva
recuperato dal mucchio di stracci insanguinati che erano stati
l'uniforme della Luftwaffe di von Rohr e l'aveva conservato sapendo
quanto il giovane ufficiale tenesse a quel piccolo oggetto.
“Cosa
sarebbe, lo zuccherino per ammansire il cavallo?” lo gelò il
tedesco, fermandosi a qualche metro da lui.
Mentre
Stuart s'arrabattava per trovare una risposta, l'altro impetuosamente
lo rimbrottò: “Tu... lei mi stava guardando il posteriore!”
Il che
avrebbe forse fatto ridere, se la frase non fosse stata proferita con
un tragico misto di rabbia e delusione.
“Hans,
io...”
Von
Rohr arretrò, ma era ancora malfermo sulle gambe e inciampò in
un'asperità del pavimento, finendo lungo disteso per terra. Tentò
di alzarsi, ma una fitta di dolore troncò il gesto a metà.
Rimase
ad ansimare semisdraiato, in un atteggiamento che ricordava quello
del Galata morente, e Stuart non riusciva a pensare ad altro che alla
sua avvenenza e a come in quella posizione egli fosse più bello che
mai.
Superato
l'attimo di smarrimento, il maggiore spalancò il cancello e corse da
lui.
Vedendolo
arrivare, Hans von Rohr si irrigidì. In realtà non sapeva nemmeno
lui perché si stesse comportando in quel modo. Forse un qualche
istinto atavico, o un'antica diffidenza nei confronti del nemico che
comunque non mancava di farsi sentire.
Ipocrisia
borghese, di cui era opportuno liberarsi: se non avesse voluto
baciare Stuart, se non avesse voluto intimità con lui, non avrebbe
dovuto fare altro che tirarsi indietro. Il fatto che ciò non fosse
successo denotava chiaramente che certe cose non erano accadute
contro la sua volontà.
Quindi
che senso aveva adesso risentirsi per le occhiate lascive che
l'inglese gli aveva rivolto?
Peraltro
doveva ammettere che non gli dispiaceva la vicinanza del maggiore:
Stuart riusciva a comunicargli al tempo stesso la passione di un
amante e la tenerezza del vecchio amico a cui si può dire tutto. Era
una persona rassicurante, alla quale si sarebbe volentieri affidato,
se per la sua mentalità fosse stato concepibile affidarsi a
qualcuno.
Quindi
lasciò che gli circondasse il torso con le braccia, e che lo
aiutasse a rialzarsi. Gli piacque, anzi, sentire le sue mani calde
che lo accarezzavano, e aspirò con un certo piacere il lieve odore
di colonia che emanava. Era profumo di pulito, e lui amava le cose
pulite.
Quando
furono in piedi, il maggiore sommessamente gli disse: “Non dovevi
alzarti, sei ancora troppo debole.”
Von
Rohr, che gli stava circondando il collo con un braccio,
semplicemente rispose: “La debolezza non va assecondata.”
Dopo
quella frase rimasero in silenzio, dritti al centro della navata, i
cuori che battevano l'uno contro l'altro all'unisono.
Poi le
loro labbra si unirono in un bacio. Non il divorarsi febbrile della
volta precedente, ma un lento assaporarsi, un addentrarsi l'uno
nell'altro come appassionati d'arte alla scoperta di una collezione
preziosissima e nascosta.
“Voglio
fare l'amore con te,” disse Hans von Rohr quando il bacio terminò.
La
richiesta colse Stuart talmente alla sprovvista che si staccò da lui
e lo fissò sconcertato. La perentorietà di quel giovanotto aveva
immancabilmente il potere di spiazzarlo.
“Non...
non è necessario, se non vuoi,” balbettò incerto, distogliendo lo
sguardo dal suo. Non è che non avesse mai preso in considerazione
l'idea di portarselo a letto, i suoi sogni ne erano la prova, ma un
conto erano le fantasie, un conto era fare davvero l'amore con un
maschio.
“Se
te l'ho chiesto è perché lo voglio,” rispose imperterrito il
ragazzo. “Ora che ho capito quello che sento per te, voglio andare
fino in fondo.”
“Credo
che neanche uno Spartano dei tempi di Licurgo mi avrebbe fatto una
dichiarazione del genere,” mormorò interdetto il maggiore.
“Arrivati
a questo punto, fermarsi sarebbe da ipocriti,” disse l'altro per
tutta risposta, “le cose si fanno fino in fondo, o non si fanno per
nulla.”
Stuart
si astenne dal domandargli se quella determinazione adamantina fosse
dovuta ai sentimenti che provava per lui o alla sua necessità di
coerenza.
Alzò
lo sguardo: von Rohr lo stava fissando.
“Non
adesso,” gli disse, “tra un po' sarà servita la cena in mensa, e
verranno a portare da mangiare anche a te. Non credo sarebbe
opportuno che ci sorprendessero.”
L'altro
rimase in silenzio.
“Stanotte.
Verrò da te stanotte,” gli assicurò il maggiore, rinculando verso
il cancello. “Stanotte” ripeté prima di uscire.
Stuart
arrivò in mensa piuttosto frastornato. Come gli accadeva sempre, man
mano che si allontanava dal giovane prigioniero una sorta di malia lo
abbandonava e le cose cominciavano ad apparirgli sotto una
prospettiva decisamente diversa.
Nella
fattispecie, aveva appena promesso a un maschio che avrebbe avuto un
rapporto sessuale con lui. Il che non era solo immorale e contro
natura, era anche proibito. Se l'avessero scoperto ci avrebbe rimesso
i gradi e sarebbe finito nel carcere militare.
Fu
assalito da un dubbio atroce: e se fosse stato proprio quello il
perverso intendimento del giovane nazista? Magari il Terzo Reich
disseminava qua e là ufficiali avvenenti che in realtà avevano il
compito di sedurre e trascinare nella perdizione i loro omologhi
delle nazioni nemiche.
Ci
ragionò un po' su. Piuttosto macchinoso come piano, mandare dei bei
ragazzi nella speranza di far cadere in tentazione gli ufficiali
inglesi. Forse sarebbe stato meglio paracadutare delle ragazze, se lo
scopo era quello, magari vestite in modo succinto.
Con lui
aveva funzionato, comunque.
Era a
quell'imbarazzante punto delle sue elucubrazioni quando lo raggiunse
Poynter. “Il tuo simpatico inquilino si è ristabilito?” gli
domandò il capitano per prima cosa.
“Che
vuoi che ne sappia?” gli rispose bruscamente Stuart, ancora turbato
dai sospetti su cui stava ragionando.
L'altro
fece spallucce. “Te l'hanno riportato in casa, immaginavo avessi
dato un'occhiata a come sta.”
“E
perché avrei dovuto?” ringhiò il maggiore. Nel rispondere aveva
alzato leggermente la voce, e più d'uno dei piloti si girò stupito
a guardarlo.
A
quella vista, Stuart corresse immediatamente il tiro: “Volevo dire,
non ho avuto tempo. Ma suppongo stia bene, altrimenti non l'avrebbero
fatto uscire dall'infermeria.”
Prima
che Poynter potesse ribattere spostò la conversazione sui nuovi
aerei in arrivo. L'argomento interessava a tutti e in breve von Rohr
venne dimenticato in favore delle prestazioni dello Spitfire.
Le
discussioni divennero anzi così animate che dopo un po' nessuno si
accorse che lui aveva smesso di prendervi parte.
Questo
gli diede l'agognata possibilità di riflettere su quello che sarebbe
successo di lì a poco.
Naturalmente
avrebbe potuto rifiutarsi. Il prigioniero era chiuso in cella e
inerme. Gli sarebbe bastato semplicemente passare davanti alla sua
prigione ignorandolo e tutto si sarebbe risolto per il meglio.
Molto
semplice, in teoria, ma inattuabile in pratica, dal momento che se
von Rohr non aveva fisicamente alcun potere su di lui, in realtà dal
punto di vista morale ne aveva moltissimo.
La sua
determinazione, per esempio. Poteva forse dimostrarsi vile, di fronte
ad un coraggio che sfiorava l'incoscienza?
Poteva
dimostrarsi tentennante e incerto, di fronte a una volontà che
sembrava in grado di smuovere le montagne?
Senza
contare che una parte di lui ardeva di desiderio al pensiero di ciò
che sarebbe successo. Una parte che rievocava in continuazione la
voluttà del lungo bacio che si erano scambiati e gli sussurrava
suadente che un piacere ben più grande era in attesa di essere
delibato.
Ringraziò
che la giacca dell'uniforme scendesse ben sotto l'inguine, perché
altrimenti non avrebbe saputo come giustificare l'imbarazzante
gonfiore che gli deformava il davanti dei calzoni.
Trascorse
il tempo che mancava all'ora di ritirarsi come un condannato in
attesa dell'esecuzione.
Quando
si decolla, vi è un punto della pista che viene definito di non
ritorno, perché passato quello non è più possibile interrompere la
manovra.
Ciò
che stava per accadere, Stuart lo capiva bene, era il suo personale
punto di non ritorno: una volta fatto ciò che aveva in animo di
fare, tutto sarebbe cambiato. Le prospettive sarebbero state
stravolte, i valori redistribuiti.
Di
nuovo pensò ai cavalieri di Wolfram von Eschenbach, che pur essendo
nemici erano comunque uniti dall'etica e dall'onore.
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Capitolo 26 *** Capitolo 26 ***
Capitolo
26
La
canonica non gli era mai parsa così opprimente. Le due finestre e la
porta, bordate di pietra bianca, componevano nel buio la sinistra
figura di un teschio, che lo fissava con vuote orbite accusatorie. Il
richiamo di un uccello notturno risuonava nell'aria fredda come una
lugubre trenodia.
Si
fermò interdetto: che cosa stava per fare?
Avrebbe
tradito Margaret, con un uomo peraltro. Avrebbe tradito il suo Paese,
la fiducia dei suoi uomini...
No, era
follia. Non poteva, non doveva lasciarsi tentare da quel demone
lascivo.
Corse
dentro, attraversò il corridoio a passi rapidi. Ebbe la fugace
visione di un volto pallido che lo fissava nel buio, ma s'impose di
non voltarsi. Si rifugiò nella sua camera come se qualcuno lo stesse
inseguendo e sedette sul letto ansante, col cuore che gli batteva
all'impazzata e le mani tremanti.
Passò
così un tempo imprecisato. Stuart era immobile nel buio. Il silenzio
era così perfetto che gli sembrava di sentire von Rohr che camminava
su e giù per la navata.
Una
cosa impossibile, dal momento che il giovane era a piedi nudi e
quindi i suoi passi non producevano alcun rumore.
Quel
pensiero gli fece ricordare che il tedesco indossava solo la
biancheria intima, dal momento che i suoi vestiti si erano ridotti a
brandelli, e quindi doveva avere molto freddo.
Subito
balzò dal letto, accese la candela con gesti febbrili e corse a
spalancare le ante dell'armadio. Raccolse i pochi indumenti civili
che vi trovò, se li mise sottobraccio e si diresse alla chiesa.
Quando
si affacciò al cancello, von Rohr era molto meno infreddolito del
previsto. Giaceva prono sul letto con la coperta che gli arrivava
solo fino a metà schiena, e sembrava tranquillamente addormentato.
Stuart
rimase a fissarlo rapito: era come guardare Endimione, o Ganimede, o
qualsiasi altro bel giovane della mitologia classica. Immaginò di
affondargli le dita fra i capelli dorati, e poi di far scorrere la
mano più giù, lungo la schiena, fino a spingerla sotto la coperta,
alla ricerca di quelle natiche sode che tante volte avevano turbato
le sue fantasie.
In quel
momento, von Rohr aprì gli occhi, si sollevò appoggiandosi su un
gomito e lo fissò serio. “Sei venuto per quello?” gli chiese
dopo alcuni secondi di silenzio.
Stuart
avrebbe voluto rispondere che no, mai e poi mai avrebbe acconsentito
a quello, che non voleva fare
altro che dargli dei vestiti per
coprire quelle nudità che avrebbero dannato un santo, ma si trovò a
lasciar cadere l'involto che aveva sottobraccio e ad avanzare verso
di lui con l'incosciente pervicacia di un sonnambulo.
Lo
afferrò per un polso, come nel sogno. Lo fece alzare in piedi e a
passi rapidi si diresse con lui alla propria camera.
Lo
spinse verso il letto. Von Rohr vi si adagiò senza una parola e
rimase a guardarlo mentre si liberava frettolosamente dell'uniforme
lasciandola in un mucchio sul pavimento.
Quando
vide che era nudo, si spogliò completamente a sua volta, quindi
sempre in perfetto silenzio si distese disciplinatamente in posizione
prona, con le mani vicino alle spalle e le gambe leggermente
divaricate. Sembrava che qualcuno gli avesse impartito il comando ‘a
terra’.
Stuart
dovette faticare per non sorridere affettuosamente. “Ma no, Hans.
Non così.”
Il
giovane si voltò verso di lui: per la prima volta da quando lo
conosceva aveva un’espressione imbarazzata. “Non va bene?” gli
chiese. Dava l’impressione di aspettarsi un rimprovero. “Non l’ho
mai fatto,” si scusò dopo qualche secondo.
Il
maggiore sorrise: vederlo mentre si muoveva cauto e intanto lo
fissava di sottecchi alla ricerca della sua approvazione lo colmava
di tenerezza.
Allungò
una mano ad accarezzargli i capelli, poi si sedette sul letto accanto
a lui. “Ecco, Hans…” tentò di spiegare, “quando due persone
stanno insieme non dev’essere una cosa meccanica… come
un’esercitazione. Ci deve essere sentimento.”
L’altro
lo guardava in silenzio.
“Sentimento,
capisci? Passione, desiderio.”
Mentre
parlava fece scorrere la mano dalla nuca del giovane alla sua
schiena, e poi più in basso. Quando arrivò alle natiche, Hans
fremette mordendosi il labbro.
“Ti
piace così?”
Con le
guance vagamente arrossate, il giovane accennò di sì con la testa.
Stuart
si sentì percorrere da un’ondata di eccitazione. Aver scoperto
finalmente un ambito dell’esistenza in cui von Rohr passava da eroe
adamantino a scolaretto impacciato gli conferiva tutta la sicurezza
che fino a quel momento gli era mancata, e lo faceva diventare
singolarmente ardito.
Approfondì
il contatto rendendolo più intimo, piegandosi frattanto a baciarlo
sul collo, poi lo rivoltò delicatamente sulla schiena e si allungò
accanto a lui continuando a baciarlo e ad accarezzarlo.
Per un
po' Hans lo lasciò fare senza quasi reagire, ma era dotato di un
carattere molto passionale, e superata una prima fase di insicurezza
cominciò a rispondere in modo sempre più pronto e vigoroso alle
sollecitazioni dell’amante.
Stuart
si scoprì peraltro depositario di una sapienza che fino ad allora
non aveva nemmeno immaginato di possedere. Con una sorta di istinto,
più che sulla base di considerazioni razionali, era in grado di
toccare il corpo del giovane in modo da farlo letteralmente vibrare
di desiderio.
Si
chiese se fosse un retaggio che gli derivava dall'appartenere ad una
casta militare. In fondo erano un uomo e un ragazzo, uniti dal fatto
di essere entrambi soldati, come ai tempi di Licurgo.
E come
in tante altre società guerriere della Storia, prima e dopo Sparta.
Abbassò
gli occhi su di lui: egli lo guardava ansante, gli occhi resi liquidi
dal desiderio erano più chiari e trasparenti che mai.
Mentre
ricambiava il suo sguardo gli parve così naturale ciò che stava per
fare, così appropriato, che si stupì di tutti gli scrupoli che
l'avevano tormentato fino a quel momento.
Fu
quindi con sicurezza che allungò la mano verso il flacone dell'olio
per armi, con la consapevolezza di stare facendo la cosa giusta.
“Non
ho altro,” si scusò con un sorriso, e prima che l'altro potesse
rispondergli, se ne servì su se stesso e su di lui.
Poi si
fermò mentre un brivido gli percorreva la schiena: era il momento.
Ebbe una strana sensazione, come di un rituale iniziatico che doveva
essere portato a compimento, e fu con quello stato d'animo che si
accostò al ragazzo.
“Voglio
guardarti negli occhi,” disse Hans, girandosi sulla schiena e
protendendo le braccia verso di lui.
Stuart
gli accarezzò piano una guancia. “Tu non fai mai niente ad occhi
chiusi, vero?”
“Voglio
ricordarmi per sempre di questo momento,” replicò il ragazzo.
“Anch'io.”
Tornarono
attoniti alla realtà dopo un tempo imprecisato. Il fuoco della
passione era ormai sopito, il rombo del sangue nelle orecchie, che
prima li aveva storditi con la sua violenza, era scomparso e tutto
era silenzio. Lucide di sudore, le membra rabbrividivano ora
nell’aria fredda della notte.
I due
erano ancora abbracciati, le gambe intrecciate, le labbra così
vicine che i respiri si confondevano. Tra i loro corpi avvinti
scivolava perlacea l’effusione del piacere.
Stuart
fu il primo a riprendersi. Si sollevò su un gomito e rimase a
fissare in volto il giovane amante, la cui severa bellezza si
stemperava ora in un'espressione di sensuale appagamento.
Gli
accarezzò la guancia col dorso delle dita e gli chiese: “Non ti ho
fatto male, vero?”
Nella
foga che l'aveva pervaso era stato piuttosto rude e probabilmente
aveva dato qualche strattone di troppo agli svariati punti di sutura
che Hans aveva ancora sparsi sul corpo.
Von
Rohr però nel frattempo era riuscito a recuperare la sua patina
inossidabile e lapidario rispose: “Nella Hitlerjugend si impara ad
ignorare il dolore.”
Quella
frase ebbe il potere di riportare Stuart alla realtà contingente. Si
mise a sedere, si pulì sommariamente con una salvietta e tendendone
una al ragazzo gli disse: “Prendi questa. Quando hai finito vieni
di là con me.”
Si
diresse verso il salotto.
Quando
von Rohr lo raggiunse, il maggiore era seduto sulla sua solita
poltrona. Non aveva altro indumento che una coperta buttata sulle
spalle, e aveva davanti a sé una mappa ripiegata, un foglio e una
matita. “Vieni qui,” gli disse, vedendolo avvicinarsi.
Il
ragazzo prese posto a sua volta nella poltrona che era solito
occupare e rimase a fissarlo in silenzio.
Stuart
aprì la mappa sul tavolino. Indicò un paese. “Qui è dove siamo
noi,” disse. Circondò la località con un cerchio di matita.
Prese
poi il foglio, cominciò a tracciarvi linee precise.
“Questo
è il perimetro del campo,” spiegava, continuando a disegnare, “qui
ci sono le torrette delle guardie, questi sono gli sbarramenti di
filo spinato, qui ci sono gli alloggiamenti degli uomini, questo è
il percorso delle sentinelle. La ronda c'è ogni ora...”
Il
foglio andava coprendosi di segni e simboli mentre il maggiore
continuava ad elencare tutte le difese del campo.
Von
Rohr lo fissava in silenzio, immobile come una statua.
“Ecco
qui,” disse alla fine Stuart, spingendo il foglio verso di lui,
“questo lo puoi tenere. La pistola e i soldi sono nel mio comodino.
I vestiti che ti ho dato ti staranno un po' grandi, ma è meglio di
niente. Buona fortuna.”
Sempre
senza una parola, il tenente raccolse la piantina del campo e la
osservò come se non avesse mai visto nulla di simile in vita sua,
quindi alzò lo sguardo fino a fissarlo in quello di Stuart e
avvicinò un angolo del foglio alla candela accesa. Subito la carta
prese fuoco e cominciò ad ardere con una fiamma sempre più alta e
chiara.
“Che
fai?” esclamò il maggiore. Cercò di afferrargli la mano, ma
l'altro fu rapido a sottrarsi.
Lasciò
che il foglio bruciasse completamente, abbandonandolo solo quando era
ormai ridotto ad un cartoccio di cenere che finì di consumarsi sul
pavimento.
“Perché
l'hai fatto?” gli chiese allora Stuart costernato, “hai sentito
anche tu cos'hanno detto quelli dell'Intelligence: se non te ne vai,
ti uccideranno.”
“Ma
se me ne vado uccideranno te.”
Il
maggiore rimase a fissarlo allibito per parecchi secondi, poi spostò
lo sguardo dal suo viso risoluto al mucchietto di cenere sul
pavimento, come per sincerarsi che ciò che aveva visto fosse
realmente accaduto e non fosse stato solo uno scherzo della sua
fantasia.
I resti
carbonizzati del foglio erano ancora lì.
“Perché
l'hai fatto?” ripeté.
“Te
l'ho detto.”
“Ma
quelli stavano solo cercando di fare la voce grossa!” gli assicurò
l'altro con calore, “volevano spaventarmi. Non rischio nulla, sta
tranquillo. Tu, piuttosto, devi andartene via subito. Non riuscirò a
proteggerti ancora per molto.”
Von
Rohr scosse la testa e caparbio ripeté: “No, ho sentito bene
quello che hanno detto. Se non potranno portare via me, prenderanno
te.”
Il
maggiore sospirò esasperato.
“Ti
accuseranno ingiustamente,” tentò, “morirai nel disonore. È
questo che vuoi?”
“Se
me ne vado, questa fine toccherà a te,” fu la risposta.
Di
nuovo passarono alcuni angosciosi secondi di silenzio.
“E
quindi cosa vuoi fare?” gli chiese Stuart disperato, “vuoi
startene qui ad aspettare che ti vengano a prendere e ti impicchino
come un criminale?”
“C'est
la guerre,
me l'hai detto tu il primo giorno, ricordi? È andata
così, recriminare non serve a nulla.”
La
testa fra le mani, Stuart non replicò. Fu invece von Rohr che dopo
un po' disse: “Godiamoci questi ultimi giorni insieme, è tutto
quello che abbiamo.”
“Dannazione...”
cominciò Stuart. Si alzò di scatto dalla poltrona. La coperta gli
scivolò giù dalle spalle, ma lui parve non farci nemmeno caso.
Prese a passeggiare nervosamente su e giù con i pugni stretti e lo
sguardo fiammeggiante.
“Dannazione,”
ripeté, “maledetto tedesco testa di legno e cocciuto, ti ho aperto
la porta, ti ho fatto la mappa del campo, ti ho anche dato armi e
soldi! Prendi la tua roba e vattene, fammi questo favore!”
“Se
me ne vado, tu muori,” rispose freddamente il giovane.
“E se
non te ne vai sarai tu a morire, lo capisci?” replicò furioso il
maggiore. “E io non voglio che tu muoia, che Dio ti strafulmini!”
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Capitolo 27 *** Capitolo 27 ***
Valsgärde 27
Capitolo
27
Silenzioso
come un’ombra, il capitano Poynter scivolò all’interno
dell’hangar principale. Era pomeriggio inoltrato, quell’ora a
cavallo delle effemeridi in cui non si facevano più voli di guerra
ma non era ancora completamente buio, ed era proprio il momento in
cui i meccanici tendevano a manifestare minore entusiasmo per il loro
dovere.
Se
potevano sgattaiolavano via, o tiravano fuori qualche bottiglia,
oppure si mettevano a fumare e a chiacchierare fra loro.
Il che
alla fin fine non era poi così grave, si trattava perlopiù di bravi
ragazzi volonterosi e a quell’ora avevano senz’altro diritto a un
po’ di riposo, ma non era comunque male fare ogni tanto qualche
controllo a sorpresa, giusto per tenere alto il livello di
attenzione.
Il
capitano percepì immediatamente una conversazione sulla quale si
inserivano risatine soffocate.
Si
avvicinò con cautela.
“Ehi,
guardate questa!” diceva uno.
“Che
roba, da non crederci!” rispondeva un altro.
Altre
risate, altri commenti increduli e divertiti.
“Ma
sul serio?”
“Se
te lo dico io!”
I
meccanici sembravano spassarsela un mondo.
Poynter
stette ad ascoltare per un po’. I ragazzi non si erano accorti di
lui, per cui ebbe modo di avvicinarsi cautamente e buttare uno
sguardo a quello che stavano facendo.
C’era
una bottiglia che passava di mano in mano, ma quello al momento gli
parve il problema minore. Addirittura le sigarette accese all’interno
dell’hangar, che normalmente scatenavano la sua ira funesta, erano
poco più che bazzecole, paragonate ai disegni che gli avieri stavano
con grande ilarità ammirando.
“Datemi
subito quei fogli!” intimò bruscamente, palesandosi
all’improvviso.
Colti
di sorpresa, i ragazzi sussultarono e rimasero a fissarlo immobili,
senza nemmeno fare un tentativo di nascondere i vari ‘corpi del
reato’ sparsi in giro.
Il più
alto in grado, un caporale, con gran sfoggio di buona volontà gli
tese la bottiglia mezza vuota, ne recuperò un’altra piena e gli
consegnò anche quella, poi spense la propria sigaretta e ordinò a
tutti gli altri di fare altrettanto.
A
questo punto lo fissò speranzoso.
Ma
Poynter non era più il buon vecchio Poynter sempre pronto a
scherzare. Aveva anzi un cipiglio che metteva i brividi.
“I
fogli,” ordinò inflessibile, “datemeli tutti.”
“Ma
signore…”
“Adesso.”
Tese la
mano, che rimase immobile a mezz’aria minacciosa come un’arma.
“Signore,
per favore,” tentò di nuovo il graduato, “passeremo i guai.”
“È
esattamente quello che vi meritate.”
“I
ragazzi non volevano fare niente di male…”
“E
lei, caporale, che cosa pensava di fare?” lo interruppe bruscamente
il capitano, “Perché non è intervenuto quando si è accorto di
questo scempio? Perché invece di stare qui a ridacchiare come una
specie di scimmia non ha preso i nomi dei colpevoli e non ha fatto
rapporto?”
Seguirono
alcuni lunghi secondi di silenzio.
“Io…
credevo che non fosse così grave, signore,” si decise a dire il
giovanotto, col tono di chi affronta la morte.
“Ah,
lei credeva?” Fuori di sé dalla rabbia, con gli occhi che
mandavano lampi e le mascelle contratte, il gioviale capitano era
irriconoscibile. “Ora queste cose andranno a finire dal comandante,
e vedremo cosa ne pensa lui delle sue credenze. Voglio i nomi di
tutti i presenti, tanto per cominciare.”
Tirò
fuori dalla tasca un minaccioso taccuino.
Una
volta uscito dall’hangar, Poynter andò subito alla ricerca di
Stuart.
Lo
trovò che si stava recando al circolo ufficiali. “Devo parlarti,”
gli disse asciutto, fermandolo mentre aveva già un piede sulla
soglia.
L’altro
parve piuttosto disorientato da quell’insolita risolutezza. “Che
c’è?” gli domandò perplesso.
“Devo
parlarti subito.”
“Ma…
certo, entriamo e sediamoci.”
“Devo
parlarti da solo.”
Incurante
delle occhiate perplesse che gli rivolgevano gli altri piloti, il
capitano lo afferrò per un braccio e si diresse rapido verso la
baracca del comando, che a quell’ora era vuota. Lo spinse dentro.
“In
nome di Dio, vuoi dirmi cosa c’è?” gli chiese il maggiore
facendo qualche passo nella stanza semibuia.
Senza
una parola, Poynter trasse di tasca i fogli e li sparse sulla
scrivania.
Quando
ebbe visto di cosa di trattava, Stuart ringraziò che ci fosse poca
luce, perché era sicuro di essere sbiancato.
Erano
caricature, che ritraevano in modo grottesco lui e von Rohr impegnati
in attività erotiche di ogni genere.
“Io…
non capisco,” balbettò, appena si fu ripreso abbastanza da
ritrovare la voce.
“Detesto
dire ‘te l’avevo detto’, George,” rispose Poynter.
Stuart
non replicò. Andò a passi lenti verso la finestra e rimase a
fissare ostinatamente il campo che andava scomparendo nel crepuscolo.
Alle
sue spalle si fece nuovamente udire la voce dell’amico: “Sono
ragazzi semplici, non puoi pretendere che capiscano certe cose.”
“Che
intendi dire?”
“Beh…”
cominciò Poynter con un certo imbarazzo, “non hai smistato von
Rohr con gli altri prigionieri di guerra, te lo sei tenuto nella
chiesa, hai preso a male parole quei due dei Servizi Segreti che se
lo volevano portare via. Sono tutte cose che facilmente si possono
prestare ad interpretazioni errate.”
“Devo
preoccuparmi dell’opinione degli avieri, adesso?” ringhiò
Stuart, sempre senza voltarsi.
“Non
sei tenuto a farlo,” concesse l’altro, “ma tu sai bene che per
un comandante di Squadron avere il rispetto degli uomini è di
importanza vitale.”
Di
nuovo, il maggiore non rispose. Non avrebbe saputo cosa rispondere,
in effetti. Si sentiva sul ponte di una nave che affonda, o
all'interno di un palazzo che sta crollando: sapeva che avrebbe
dovuto fare qualcosa, ma al tempo stesso gli era chiaro che nulla di
ciò che avrebbe potuto fare l'avrebbe salvato.
La voce
di Poynter gli calò sulla nuca come la mannaia del carnefice:
“Lascialo perdere. Forse siamo ancora in tempo a salvare la
situazione, ma bisogna che ti liberi di lui.”
“Tu
non puoi capire,” rispose Stuart.
E
davvero era convinto che il bravo Poynter, così pieno di buon senso
e ironia, non avrebbe mai capito il piacere al tempo stesso demoniaco
e divino di stringere quel corpo muscoloso, di divorare di baci
quelle labbra che riuscivano ad essere contemporaneamente severe e
sensuali, di ascoltare sospiri che da soli valevano la dannazione
eterna della sua anima.
Rievocò
con un brivido di voluttà l'istante in cui si era appoggiato contro
il suo corpo fremente apprestandosi a penetrarlo per la prima volta.
Aveva ancora davanti agli occhi il suo volto arrossato dal piacere,
sul quale si leggeva un commovente misto di risolutezza, curiosità,
timore e desiderio.
“Nessuno
può capire,” disse.
A
quelle parole il capitano lo fissò come se lo vedesse per la prima
volta. “Gesù Cristo, George, non puoi parlare sul serio!”
protestò raggiungendolo.
Lo
prese per le spalle, e scuotendolo vigorosamente esclamò: “Diamine,
ragiona! Sei un ufficiale, sei un comandante! Siamo in guerra! Ti
sembra il momento di metterti a giocare al Battaglione Sacro? Con un
nemico, per di più?”
Stuart
si lasciò scrollare senza opporre resistenza, ascoltò l'altro con
volto singolarmente inespressivo e alla fine lapidario proferì: “Non
è un gioco.”
Poynter
lo mollò come se scottasse. “Come sarebbe a dire che non è un
gioco?”
Poi,
senza attendere risposta, rapidamente aggiunse: “Beh, lascia
perdere. Qualsiasi cosa sia, qui dobbiamo salvare il salvabile.
Mandalo via, liberati di lui, fatti visitare dal dottor Allen e digli
che ti serve una licenza perché hai i nervi scossi, io intanto
cercherò di far calmare le acque...”
S'interruppe:
sembrava di parlare con un manichino. Il maggiore aveva di nuovo lo
sguardo perso fuori dalla finestra.
“George?”
Nessuna
risposta.
“George,
Dio santo, tu ti sei bevuto il cervello!”
Il
maggiore rimase ancora una volta in silenzio. Poynter stette per un
po' a fissarlo preoccupato, ma era come se l'amico avesse eretto un
muro fra sé e lui.
Non
poté fare altro che stringergli amichevolmente il braccio e dirgli:
“Non venire in mensa stasera. Hai una faccia che spaventerebbe
Belzebù in persona, sembra che tu abbia visto un fantasma. Vattene
da qualche parte a riflettere, io inventerò una scusa qualsiasi per
giustificare la tua assenza.”
“D'accordo.”
“E
pensa a quello che ti ho detto.”
Stuart
non rispose.
Rimasto
solo nella baracca del comando ormai buia, Stuart in effetti pensava.
Tutto
stava andando a rotoli, inutile negarlo. Gli uomini sapevano. O se
non sapevano, immaginavano, il che all'atto pratico faceva poca
differenza.
La
mattina aveva richiuso in cella von Rohr per salvare le apparenze, ma
in una sorta di autodistruttiva noncuranza non gli era venuto in
mente di togliere gli indizi di quello che era successo durante la
notte. Cosa poteva aver pensato il suo attendente, trovando un
flacone di olio per armi sul comodino e due asciugamani con macchie
inequivocabili in giro per la stanza?
Non ci
voleva molta fantasia per indovinarlo.
Del
resto, se giravano disegni come quelli che gli aveva mostrato
Poynter, era segno che gli uomini avevano già capito cosa stava
succedendo.
Presto
avrebbero saputo anche gli ufficiali, se non sapevano già, e poi i
suoi superiori, i suoi familiari e infine Margaret.
La
tragedia era che non gliene importava niente.
Per
quanto ci ragionasse, per quanto pensasse alle conseguenze
potenzialmente gravissime – disonore, vergogna, corte marziale –
di quello che stava accadendo, tutto ciò scompariva come neve al
sole allorquando rivolgeva il pensiero a Hans von Rohr.
Di più:
visto che il tedesco aveva consapevolmente scelto la morte e il
disonore per salvarlo, era come se lui volesse in qualche modo
emularlo.
Una
cosa perfettamente irrazionale, questo era chiaro, che come minimo
vanificava il sacrificio di von Rohr, ma era come se una voce gli
ripetesse costantemente che se non potevano salvarsi insieme almeno
avrebbero bevuto insieme l'amaro calice.
Uscì
dalla baracca del comando e andò alla canonica come un drogato si
sarebbe diretto ad una fumeria d'oppio, consapevole che vi avrebbe
trovato il più inebriante piacere ma anche la più abietta rovina.
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Capitolo 28 *** Capitolo 28 ***
Capitolo
28
In
mensa Poynter fu accolto da occhiate indagatrici e da un silenzio
carico di aspettativa.
Più
d'uno aveva notato la precipitazione con cui aveva portato via
Stuart, e di sicuro nel tempo che loro due avevano impiegato a
discutere, i piloti dovevano aver formulato sulla faccenda le più
varie ipotesi.
“Il
maggiore non si sente bene,” annunciò con tono neutro.
Dal
fondo della sala, a voce abbastanza bassa da non essere identificato
ma sufficientemente alta da essere udito, qualcuno disse: “Avrà
fatto indigestione di crauti.”
Il
capitano fece finta di non aver sentito e la frase impertinente cadde
in un imbarazzato silenzio.
La cena
procedette in un clima da monastero di clausura. Gli unici suoni che
si udivano erano il lieve acciottolio delle stoviglie e il tintinnio
smorzato delle posate. Nessuno alzava la testa dal proprio piatto.
Esentato
dall'obbligo della conversazione, Poynter ne approfittò per
riflettere su quanto stava accadendo.
Che
quel tedesco avesse una potente carica destabilizzante se n'era
accorto abbastanza in fretta, come in fretta si era accorto che da
quando aveva a che fare con lui George aveva cominciato a comportarsi
in modo strano, ma di certo non avrebbe immaginato neanche con la più
perversa delle fantasie quello che in effetti era accaduto: il suo
amico, normale, fidanzato, mai dato segno di tendenze strane da
quando lo conosceva, per qualche inspiegabile motivo si era
innamorato di lui.
Ora, a
prescindere dal perché e percome di tutta la faccenda, bisognava
fare qualcosa in fretta.
La voce
era corsa, bastava guardarsi intorno per averne una conferma. Gli
ufficiali facevano battute, e la truppa si dilettava di vignette
satiriche. In questa débâcle Stuart, perso nella
sua follia,
sembrava indifferente a qualsiasi cosa che non fosse il suo diabolico
mangiacrauti.
In
condizioni del genere lo Squadron sarebbe presto finito allo sbando,
e George avrebbe fatto una brutta fine. Inutile dire che la cosa non
gli andava per niente bene.
Cosa
fare, però?
Mancavano
pochi giorni al ritorno dei due ufficiali dell'Intelligence. Tutto
perfetto, teoricamente. Si sarebbero finalmente portati via la Mata
Hari in
pantaloni e la faccenda si sarebbe con gran sollievo
chiusa.
Sempre
che Stuart non si inventasse qualche altro modo per trattenere il
tedesco, sempre che non si mettesse a fare scenate come quella
dell'infermeria, udita, a quanto raccontavano, persino dai
segnalatori a bordo pista.
Farli
venire in anticipo? Il giorno dopo, magari?
Avrebbe
dovuto trovare una scusa, e soprattutto spiegare il motivo per cui
aggirava l'autorità del comandante dello Squadron e agiva di sua
iniziativa.
Inoltre
Stuart non gliel'avrebbe mai perdonato.
E lì
si pose un altro problema: il tuo migliore amico è drogato, che fai?
Gli butti via la droga sapendo che poi ti odierà per tutta la vita o
lo aiuti a trovare il modo di indulgere nella sua dipendenza senza
subirne i danni?
Se
fosse stato un vero amico, avrebbe dovuto eliminare quel tedesco con
un colpo di pistola: Ha cercato di fuggire e io l'ho fermato. Ah, è
morto? Pazienza, c'est la guerre. E fine della trasmissione.
In
realtà non se la sentiva di abbattere quel giovanotto a sangue
freddo, neanche per una motivazione assennata come quella che stava
ponderando.
Ma
qualcosa doveva fare, questo era chiaro. E doveva farlo in fretta.
Sprofondato
sulla sua poltrona, immerso in pensieri tormentosi, Stuart guardava
fisso davanti a sé senza in effetti vedere niente.
Aveva
la coperta della sera prima come unico indumento, ma non sentiva
freddo. Il ricordo di ciò che aveva appena fatto era sufficiente a
riscaldarlo.
La
candela ardeva sul tavolino ormai quasi consumata. La sua luce
tremolante lasciava intravedere la stanza attigua e in essa il letto,
sul quale era adagiato in un atteggiamento di languido abbandono Hans
von Rohr.
Il
maggiore si voltò verso di lui e per un po' ne contemplò in
silenzio il corpo nudo.
“Vattene,”
disse alla fine.
Il
ragazzo alzò la testa e si sollevò appoggiandosi su un gomito.
“No.”
“Vattene,
fallo per me. Per favore.”
“No,
se me ne vado ti uccideranno.”
Stuart
si alzò faticosamente e lo raggiunse. “Se non te ne vai
uccideranno te,” disse sedendosi sul letto e allungando una mano ad
accarezzargli piano i capelli, “è questo che vuoi?”
Impassibile,
von Rohr rispose: “In tutte le caserme della Germania c'è una
scritta sul muro, proprio nell'atrio d'ingresso. Vuoi sapere cosa
dice?”
“Sentiamo.”
“Siamo
nati per morire.”
Il
maggiore si morse un labbro. “Hans, hai diciannove anni,” disse,
continuando ad accarezzargli lentamente i capelli.
“Non
è che tu sia molto più vecchio di me.”
L'altro
non replicò, cercare di spuntarla in una discussione con lui era una
battaglia persa in partenza.
Con un
sospiro affranto si adagiò al suo fianco e per un po' rimase
semplicemente a contemplare il soffitto con un braccio dietro la
testa.
Se si
guardava intorno vedeva solo una distesa di metaforiche rovine. Era
tutto finito: Hans sarebbe morto, la sua rispettabilità era
distrutta, la sua autorità presso gli uomini perduta. Forse avrebbe
addirittura subito un processo, piombando irrimediabilmente nel
disonore e nella vergogna.
“Mayerling,”
disse con voce incolore, rivolgendo un’occhiata al cassetto che
conteneva la pistola.
Von
Rohr si voltò verso di lui. “Prego?”
“La
tragedia di Mayerling, il doppio suicidio dell’Arciduca Rodolfo e
di Mary Vétzera.”
“Sembra
che in realtà siano stati uccisi,” fu il lapidario commento del
tedesco, “lui perché era sfavorevole all’alleanza con la
Germania e lei perché era una testimone scomoda, e che poi per
coprire il tutto sia stata inventata la storia degli amanti
disperati.”
Stuart
si sedette nuovamente. “Il che non cambia la nostra situazione,
comunque.”
“Nulla
può cambiarla ormai.”
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Capitolo 29 *** Capitolo 29 ***
Capitolo
29
L’esplosione
fu così potente che mandò in frantumi tutti i vetri della camera,
fece cadere un paio di mensole cariche di libri e scaraventò Poynter
giù dal letto.
Svegliato
di soprassalto, il capitano imprecò, si vestì sommariamente e corse
alla finestra: in mezzo al piazzale c’era un cratere di due metri,
da esso scaturivano fiamme che nel grigiore dell’alba brillavano di
un vivido arancione.
La
gente si stava riversando all’esterno, l’aria era lacerata dal
lugubre ululato delle sirene antiaeree, dappertutto si udivano
tramestio concitato, richiami e ordini.
Seguirono
altre esplosioni, questa volta sul perimetro del campo. La contraerea
entrò in azione, vomitando piombo contro le nubi basse. Le scie
luminose dei traccianti riempirono il cielo ancora scuro.
Dall’alto
proveniva il rombo di numerosi bombardieri. Non era il solito
gruppetto di Stuka che scaricava un po’ di bombe e andava via,
stavolta era una cosa in grande stile.
Un’altra
esplosione assordante, un’ala dell’edificio crollò in un fragore
da fine del mondo sollevando una nube di polvere.
Sbattuto
a terra da un rovente spostamento d’aria, Poynter si rialzò rapido
e corse all’esterno.
Fuori
sembrava che fosse in corso l’apocalisse: l’aria era una caligine
in cui vorticavano nugoli di scintille, su tutta la superficie del
campo piovevano bombe e dappertutto era un fischiare di micidiali
schegge. Già vi erano i primi morti, e le urla dei feriti si
sovrapponevano alle deflagrazioni e al rombo sordo dei crolli.
Il
bagliore degli incendi dava alla base devastata l’aspetto di un
girone infernale.
Chi
poteva saltava a bordo dei caccia e decollava, per sottrarre gli
aerei alla distruzione, tutti gli altri sciamavano verso i rifugi.
Poynter
stava correndo verso gli hangar quando vide una bomba cadere proprio
accanto alla chiesa. L’esplosione scosse l’edificio fino alle
fondamenta, mandando in frantumi tutte le vetrate rimaste e facendo
crollare una parte del campanile.
Subito
l’ufficiale fece dietro-front e si diresse più veloce che poteva
all’alloggio di Stuart.
Le
antiche pietre rovinarono al suolo con un rombo cupo e la navata si
riempì di polvere. Dall’alto piovevano schegge di vetro e frantumi
di piombo, i lampadari ondeggiavano come navi in tempesta, le vetuste
catene che stridevano sinistramente prossime a spezzarsi.
Stuart
e von Rohr, che si stavano dirigendo verso la porta, arretrarono
precipitosamente per evitare il crollo e tornarono indietro nel
tentativo di guadagnare un’altra uscita.
Attraversarono
il salotto, devastato al pari del resto. Le due poltrone erano
rovesciate e le librerie cadute avevano sparso in giro tutto ciò che
contenevano.
Incespicando
su suppellettili frantumate i due si diressero verso la finestra,
solo per esserne respinti dal poderoso spostamento d’aria di un
ordigno caduto a pochi metri di distanza.
L’atmosfera
si fece ancora più irrespirabile, già balenava in un angolo il
bagliore sanguigno di un incendio. Da fuori giungevano urlio confuso,
sirene e detonazioni.
Ansante,
Stuart afferrò il giovane per un braccio e lo spinse nella camera da
letto, unica stanza al momento risparmiata dalla distruzione, e nel
farlo si soffermò a pensare all’assurdità della situazione: stava
lottando per salvare se stesso e von Rohr pur sapendo che entro tre
giorni il ragazzo sarebbe stato prelevato dall’Intelligence e
ucciso, e lui si sarebbe sparato un colpo alla tempia.
“Dobbiamo
andare al rifugio!” esclamò nondimeno.
Era pur
sempre il comandante dello Squadron, e gli uomini contavano sulla sua
presenza. O almeno si augurava che fosse ancora così.
In quel
momento si fece udire una voce dall’esterno: “Ehi, voi due!”
“John!”
disse il maggiore stupito.
“Forza,
venite fuori,” rispose Poynter, “non c’è un minuto da
perdere!”
I due
uscirono dalla finestra, Stuart non poté trattenere un’esclamazione
di orrore nel momento in cui si rese conto a pieno della distruzione
che regnava ovunque.
La voce
del capitano lo riportò bruscamente alla realtà: “Muoviamoci!”
Si
diresse rapido verso gli hangar.
“I
rifugi sono dall’altra parte,” gli fece notare Stuart.
“Non
ci servono i rifugi, abbiamo bisogno di un aereo,” fu la brusca
replica del capitano.
“Un
aereo? Perché?” chiese stupito il maggiore.
Un'esplosione
vicinissima costrinse i tre a buttarsi a terra. “Dobbiamo andare ai
rifugi prima di farci ammazzare tutti!” insisté Stuart.
“No,
ho un piano,” rispose Poynter con sicurezza, poi si rialzò imitato
dagli altri, spazzolandosi via la terra e i detriti che l'esplosione
gli aveva scaraventato addosso. Con un sorrisetto compiaciuto spiegò:
“Ora il nostro ospite germanico prende un caccia e decolla. In
mezzo agli altri non sarà notato, e quando tutto sarà finito tu,
George, dirai all’Intelligence che è stato spappolato da una bomba
e io giurerò sulla testa di mia madre che è la pura verità. Se lui
ha fortuna e non si fa abbattere, se ne torna in Francia e la
faccenda è risolta.”
A
quelle parole seguirono alcuni secondi di silenzio attonito. Infine
von Rohr incredulo gli chiese: “Lei vorrebbe darmi un aereo e farmi
scappare? Sta parlando sul serio?”
“Mai
stato così serio. A prescindere dalle mie personali opinioni in
merito, il mio amico tiene molto a lei. Poiché io tengo molto al mio
amico e non voglio che faccia sciocchezze a causa sua, questo mi
sembra un buon sistema per salvare capra e cavoli.”
“Ma...
com'è possibile?”
“Conosce
il proverbio? Ponti d'oro al
nemico che fugge. Se lei mi fa la
cortesia di togliersi da qui, sono anche disposto ad accompagnarla
personalmente dal suo Führer.”
“E se
tornano tutti i vostri piloti ma alla fine manca un aereo? Non si
faranno delle domande?” volle sapere ancora von Rohr,
apparentemente impermeabile al sarcasmo del capitano.
“Nel
caso, io e George ritoccheremo un po' la lista degli aerei distrutti
al suolo. Uno più uno meno, chi vuole che ci faccia caso?”
“Capisco.”
“Ma
ora muoviamoci, un'occasione del genere non si ripeterà. Almeno
spero.”
C'era
rimasto un solo aereo nell'hangar. Nessuno aveva avuto il coraggio di
prenderlo, perché si trattava dello Spitfire nuovo del maggiore.
“Che
meraviglia!” non poté trattenersi dall'esclamare von Rohr
vedendolo. Poi, rivolto a Stuart: “Non posso accettarlo.”
“Non
è un regalo,” s'intromise Poynter prima che l'altro avesse modo di
rispondere con qualche romanticheria, “è una questione di
sopravvivenza. Nostra, più che sua. Ora, da bravo, ci aiuti a farlo
uscire e a controllare che ci sia il pieno di benzina.”
Von
Rohr annuì in silenzio e fece quanto gli era stato chiesto.
Fuori
era un inferno. Decollare sarebbe stato quasi impossibile, essendo la
pista l’obiettivo principale dei bombardieri della Luftwaffe, ma in
effetti il capitano inglese aveva ragione, non c'era altro da fare.
Poco
lontano un hangar fu colpito in pieno da una bomba e collassò con
lunghi gemiti di lamiere accartocciate.
“Devi
andare!” lo ammonì Stuart.
Il
giovane ufficiale annuì, ma non si risolveva a muoversi.
Poynter
vide come i due si fissavano negli occhi, e con molto tatto decise di
spostarsi dall'altra parte della fusoliera per controllare che la
semiala di quel lato fosse ancora al suo posto.
Non
appena il capitano scomparve alla vista, i due si gettarono l'uno fra
le braccia dell'altro, baciandosi con disperata foga.
“Va’
ora,” disse infine a malincuore il maggiore, le labbra ancora
indolenzite per l’ultimo avido bacio che lui e von Rohr si erano
scambiati, “non c’è più tempo, devi andare.”
Il
giovane salì sull’ala, ma prima di entrare nell’abitacolo si
voltò verso Stuart e solennemente gli disse: “Questo è per te.”
Gli
mise in mano il suo distintivo della Hitlerjugend.
Il
pugno serrato sul piccolo oggetto, il maggiore rimase a guardarlo in
silenzio. Tentò di imprimerselo nella memoria così, mentre si
stagliava contro il cielo tormentato in piedi sull’ala del caccia,
con lo sguardo fiero e i capelli appena scompigliati.
“Addio,
Hans,” lo salutò.
“Ci
rivedremo lassù,” gli promise il tedesco.
Poi gli
girò bruscamente le spalle e si infilò nell’abitacolo.
La
capottina di plexiglas si chiuse con un rumore secco, e qualche
secondo dopo il rombo del Rolls-Royce Merlin coprì il fragore delle
esplosioni.
L’aereo
rullò sulla pista prendendo velocità.
Sotto
lo sguardo angosciato di Stuart sbandò, si riprese, sobbalzò su un
detrito rischiando di finire sull’erba e infine riuscì a involarsi
nell’aria caliginosa.
Il
maggiore emise un sospiro.
“Andiamo?”
lo richiamò Poynter tirandolo per un lembo della manica, ma l'altro
non si muoveva.
“Andiamo,
su. Non vorrai che ci cada una bomba sulla testa proprio adesso.”
A
malincuore Stuart staccò gli occhi dall’aereo che spariva
all’orizzonte e si costrinse a seguire l’amico.
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Capitolo 30 *** Capitolo 30 ***
Capitolo
30
Ancora
frastornato dopo gli ultimi eventi, von Rohr regolava meccanicamente
i parametri di volo, secondo l’adagio per cui se in aereo non hai
niente da fare probabilmente stai trascurando qualcosa.
Tutto
andava bene, negli strumenti.
Le cose
andavano meno bene nella sua testa, dove sembrava infuriare lo stesso
bombardamento che si era abbattuto sulla base inglese.
Che
cosa gli era successo? Era stato un sogno, un incubo, un momento di
follia? Che cosa aveva ottenebrato la sua mente fino a fargli
decidere di affrontare la morte con disonore per salvare un ufficiale
nemico?
Ripensò
a Stuart, al breve, struggente periodo trascorso insieme a lui.
Rivisse la dolcezza piena di passione con cui si erano amati
fisicamente.
E forse
non solo fisicamente.
Ringraziò
che la comparsa delle coste francesi richiedesse tutta la sua
attenzione, perché non avrebbe avuto il coraggio di addentrarsi
oltre in quei ragionamenti.
Scese
di quota. Non doveva dimenticare che era a bordo di un aereo inglese:
se i suoi l’avessero incrociato l’avrebbero scambiato per un
nemico e molto probabilmente avrebbero tentato di abbatterlo.
Sarebbe
stato il colmo, sfuggire in quel modo alla prigionia – e a tutto
quello che la prigionia aveva comportato – per poi finire
miseramente abbattuto dai propri camerati.
Riconobbe
la zona che stava sorvolando. In previsione di missioni di guerra mai
effettuate aveva studiato le mappe fino a consumarle, e ora
finalmente tutte le conoscenze accumulate gli tornavano utili.
Si
abbassò ancora di quota, pregando che non ci fosse qualche falco in
missione di caccia
libera alla
ricerca del primo avversario
della giornata.
In
mancanza di meglio, stabilì che si sarebbe girato su un fianco e
avrebbe mostrato la pancia all’arrivo di un eventuale avversario,
esattamente come un cane quando si imbatte un suo simile più grosso.
Sperò che quell’atto di sottomissione fosse sufficiente a far
capire che non aveva intenzioni bellicose.
Per sua
fortuna non incontrò nessuno.
Non ci
mise molto comunque a ritrovare il campo da cui settimane prima era
decollato a bordo dell’aereo di Müller. Era ancora lì,
esattamente come l’aveva lasciato: la lunga pista in cemento, le
baracche dei soldati, gli hangar, la villa padronale che fungeva da
dimora per i piloti. Se guardava bene, vedeva anche il gruppetto di
alberi sotto cui erano state disposte le tavolate per la famosa
‘festa’ del maiale arrosto.
Si
sentì invadere da un empito di gioia simile a quello del naufrago
che vede una nave muoversi nella sua direzione.
Ma non
era ancora il momento di esultare: ora doveva atterrare senza danni.
Era uno Spitfire che si presentava al limitare di un campo della
Luftwaffe. Non poteva certo sperare di essere accolto da un picchetto
d’onore.
Fece un
basso passaggio scuotendo le ali. Vide la gente buttarsi a terra, e i
serventi della FLAK correre ai posti di combattimento.
Un paio
di piloti uscirono in combinazione di volo dalla villa e si diressero
verso i Messerschmitt allineati davanti agli hangar.
Regolò
la radio sulla frequenza dello stormo. “Maggiore Graf, capitano
Müller,” chiamò, “qui è il tenente Hans Hartwig von Rohr. Ci
sono io a bordo dello Spitfire che sta sorvolando il campo!”
Silenzio.
La FLAK
mandò un paio di colpi di avvertimento, che esplosero a poca
distanza da lui.
“Signor
maggiore, dica di non sparare per favore, sono il tenente von Rohr!”
Fece
uscire il carrello e si mise in finale per atterrare.
“Signor
maggiore!” esclamò di nuovo, peraltro con una certa concitazione,
scartando bruscamente per evitare un’altra salva della contraerea.
Finalmente
la radio sembrò animarsi: “È proprio lei, tenente von Rohr?”
“Sì,
signor maggiore, sono io! Si ricorda il Fieseler Storch coi polli?”
Dalla
radio provenne una breve risata e poi Graf rispose: “Bentornato a
casa, tenente.”
Quando
finalmente fu a terra e a motore spento, von Rohr si accorse di
essere esausto. Faticosamente uscì dall’abitacolo per andare
incontro al comandante dello stormo, ma quando posò i piedi sul
cemento barcollò penosamente e due avieri dovettero accorrere per
sostenerlo.
Cercò
comunque di raddrizzarsi all’arrivo del maggiore Graf. Lo salutò
militarmente e col tono più marziale che riuscì a tirare fuori
scandì: “Tenente von Rohr a rapporto, signore!”
L’altro
lo fissò serio e una ruga di preoccupazione gli si formò sulla
fronte ampia. “Lei ha bisogno di essere visitato subito da un
dottore,” fu l’unica cosa che disse.
“Sì,
signore.”
Nel
frattempo si erano avvicinati altri piloti, la maggior parte dei
quali stava ora girando con curiosità intorno all’aereo inglese.
“Un
bel giocattolo, quello che ci ha portato,” apprezzò il capitano
Müller.
“Gli
facciamo mettere le insegne tedesche?” propose Faber.
Ma von
Rohr, sempre più stremato, non riusciva nemmeno a rispondere.
“Sembra
che abbia bisogno di dormire,” osservò qualcuno.
Il
tenente in effetti aveva un disperato bisogno di dormire. Con il
venir meno della tensione che aveva accompagnato il volo erano
ritornati i ricordi ed egli bramava l’oblio del sonno più di
qualsiasi altra cosa.
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Capitolo 31 *** Capitolo 31 ***
Capitolo
31
Il
tenente von Rohr dormì ventiquattro ore consecutive, senza
svegliarsi nemmeno quando il medico gli applicò di nuovo dei punti
di sutura che nella concitazione della fuga si erano strappati.
Alla
fine riaprì gli occhi stranito, e per un po' rimase semplicemente a
guardarsi intorno come se non si capacitasse di ciò che lo
circondava.
Sentì
qualcuno parlare in tedesco nella stanza attigua, alla parete era
appeso il ritratto del Führer. Accanto a lui, sul comodino, c’era
un piatto con due fette di pane nero imburrate e della salsiccia.
Tutte
cose rassicuranti, rasserenanti addirittura, ma che comunque non
alleviavano di molto il dolore che lo tormentava.
Cautamente
si mise a sedere sul letto. Lenzuola candide, odore di pulito. La
finestra aperta lasciava vedere il cielo azzurro, i rumori del campo
erano solo un’eco lontana.
Si
prese la testa fra le mani come aveva visto fare tante volte al
maggiore Stuart. Da una parte aveva una necessità pressante di
ragionare su ciò che era accaduto, ma dall'altra non voleva farlo,
perché ciò significava ripensare a lui, a quello che c’era stato
fra loro e al fatto che lui non c'era e non ci sarebbe stato più.
Per un
po’ il sonno l’aveva pietosamente protetto, ma gli era bastato
aprire gli occhi perché le Erinni gli piombassero addosso e
cominciassero a fare scempio della sua mente e della sua anima.
Una
voce lo distrasse dalle sue angosciose meditazioni: “Finalmente si
è svegliato, tenente von Rohr.”
Hans
sussultò e si voltò in quella direzione come se fosse stato
sorpreso a fare qualcosa di molto sconveniente. “Buon giorno,
signor maggiore,” salutò.
Il
comandante dello stormo si avvicinò, prese una sedia e si sedette
accanto al letto. “Come sta ora?” s’informò.
“Sono
pronto a riprendere servizio, signore.”
Il
maggiore Graf lo fissò serio. A dispetto di quella scarna
rassicurazione, il tenente sembrava tutto meno che pronto a
riprendere il servizio. Era rientrato dalla prigionia sul suolo
britannico in condizioni pietose e ai comandi di uno Spitfire appena
uscito dalla linea di produzione. Per quanto ci avesse pensato, non
riusciva ad immaginare una sequenza di eventi che collegasse in modo
logico le due cose. “Mi vuole raccontare cos’è successo laggiù?”
gli chiese.
“Preferirei
di no, signore,” fu la risposta, che il tenente proferì con lo
sguardo ostinatamente rivolto alla finestra.
Graf
ritenne che non fosse il caso di insistere. Il medico gli aveva detto
qualcosa, più che altro mezze frasi rese ancora più incomprensibili
da complicati giri di parole, dalle quali però era riuscito a capire
che il giovane ufficiale doveva aver subito sevizie contrarie
all’onore di un soldato.
Non
avrebbe giovato a nessuno tormentare oltre il povero ragazzo
costringendolo a imbarazzanti descrizioni.
“Mi
dica solo come si è impadronito di quell’aereo, prego.”
“C'è
stato un bombardamento, nel corso del quale è crollata una parte
dell’edificio in cui ero detenuto. Sono uscito, ho visto lo
Spitfire pronto in linea di volo e approfittando della confusione
l'ho preso e sono decollato.”
Von
Rohr evitò di guardare il suo superiore: era la prima volta che
mentiva in vita sua.
Sospirò.
Evidentemente l'abisso di depravazione nel quale era piombato l'aveva
reso già talmente abietto da fargli considerare menzogna e reticenza
due comodi strumenti per evitare le situazioni spiacevoli, una cosa
indegna di qualsiasi tedesco.
Faticava
però a collocare nell'ambito della depravazione ciò che era
successo tra lui e il maggiore Stuart. A suo parere, anzi, vi erano
stati in quella breve ma intensa relazione nobiltà d'animo e spirito
di sacrificio, coraggio e responsabilità.
Si era
trattato quindi di un vero sodalizio virile, come quelli che aveva
studiato nella Hitlerjugend.
Perché
allora si sentiva così male quando ci pensava?
“La
lascio riposare.” La voce del maggiore Graf lo riportò bruscamente
alla realtà. “Il dottor Ebersbach dice che dovrà stare qui ancora
qualche giorno, poi potrà riprendere il servizio normalmente.”
“Sì,
signor maggiore.”
Von
Rohr rimase solo coi suoi pensieri, e le Benevole ricominciarono a
perseguitarlo.
L'indomani
gli fece visita il capitano Müller.
“Come
sta il nostro piccolo Hans?” lo salutò con disinvoltura, sedendosi
tranquillamente sulla sedia che si trovava accanto al letto.
Il
tenente lo fissò stupito.
“Lei
ha fatto come il piccolo Hans della canzone,” spiegò Müller
allegro, “è voluto andare da solo per il vasto mondo.”
“E
poi sono tornato a casa dalla mamma, è questo che vuole dire?”
domandò cupo von Rohr, pensando al testo della canzone.
“Via,
non sia sempre così sulla difensiva. Ha avuto una brutta avventura,
ma ha riportato a casa la pelle. Questo è già qualcosa, no?”
Passò
qualche secondo di silenzio. Seduto sul letto con le gambe sotto le
coperte e un pigiama un po' troppo largo addosso, von Rohr faceva
davvero pensare a un bambino nei panni di un adulto.
“Non
mi ha ancora detto come sta,” gli giunse la voce di Müller.
“Sono
pronto a riprendere servizio, signore,” rispose l'altro
meccanicamente.
Il
capitano gli appoggiò una mano sulla spalla. Per un attimo fu quasi
sul punto di domandargli perché avesse l'aria così triste, poi ci
ripensò e disse: “Le porto un paio di belle notizie, von Rohr.”
Il
tenente lo fissò serio. “Quali, signore?”
Müller,
che non era tipo da perdersi d'animo, sorrise e spiegò: “Per prima
cosa, ho convinto il vecchio a non punirla per quello che ha fatto. È
ben vero che lei ha preso un aereo senza autorizzazione, ma in fondo
si è fatto abbattere al posto mio, quindi credo che dovrei anche
ringraziarla. E poi ci ha portato in cambio un bello Spitfire nuovo
di zecca! Come minimo le daranno una promozione, per una prodezza del
genere.”
Von
Rohr preferì non rispondere, trovava indegno di un ufficiale tedesco
mostrarsi soddisfatto per essere scampato ad una giusta punizione.
Senza contare che avrebbe quasi preferito scontarla, sarebbe stato
perlomeno un atto catartico.
“Non
doveva disturbarsi, signore,” disse soltanto, al protrarsi del
silenzio.
“Ah,
sciocchezze!” rise Müller, il cui buonumore sembrava impossibile
da scalfire, “lei è il mio nuovo gregario. Visto che avrà il
dovere di proteggermi in aria, come minimo devo ricambiare
proteggendola a terra!”
A
quelle parole von Rohr si girò di scatto e lo fissò con occhi acuti
come lame. “Il suo nuovo gregario?” ripeté, quasi non si
capacitasse di quello che aveva appena udito.
“Esattamente,
quindi veda di rimettersi in fretta. Il suo Messerschmitt 109 la sta
già aspettando in linea di volo.”
“Davvero?”
“Deve
contribuire anche lei alla vittoria finale, von Rohr,” rispose
Müller ostentando un tono di serietà grave.
Lungi
dal cogliere l'ironia della frase, raddrizzandosi nella persona il
tenente rispose: “Sono qui per questo, signore.”
L'altro
parve soddisfatto. “Benissimo, allora comincia a chiamarmi Heinz,
perlomeno quando siamo in volo. Non penserai mica di dire frasi tipo
'signor capitano, nemici a ore undici', vero? Ora che ho capito cosa
mi stai dicendo, ci hanno già abbattuti tutti e due.”
“Sì,
signore.”
“Heinz.”
“Heinz,
certo. Mi scusi. Scusa.”
Il
capitano Müller dava l'idea di essere felicissimo della piega che
avevano preso gli eventi. “Appena Ebersbach ti molla facciamo un
volo di prova, che ne dici?”
Indeciso
se usare il tu o il lei, von Rohr si limitò ad annuire.
Non
poteva dire di essere felice per la notizia appena ricevuta, perché
ciò che provava era qualcosa di molto più profondo rispetto a una
semplice felicità. Era un senso di completezza, di appartenenza. Era
la consapevolezza che presto avrebbe fatto ciò che era suo dovere
fare, e che questa era cosa buona e giusta.
Si
sentì come un cavaliere che ha appena ricevuto l’investitura.
“Ora
che sei dei nostri,” riprese Müller, accentuando inconsapevolmente
il senso di appartenenza iniziatica che aveva pervaso von Rohr, “e
vista la tua bella prodezza coi Tommies, penso che tu abbia diritto
al tuo emblema sull’aereo. Hai già qualche idea?”
Il
tenente ci pensò un po’ sopra, poi sorrise e disse: “Sì, ce
l’ho.”
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Capitolo 32 *** Capitolo 32 ***
Capitolo
32
C’erano
voluti giorni per ridare al 19° Squadron un’operatività
accettabile.
Nel
devastante raid compiuto dalla Luftwaffe, strutture della base e
velivoli avevano subito danni ingenti, alcuni uomini erano morti e
c’era stato un gran numero di feriti.
Praticamente
era rimasta in servizio poco più della metà degli effettivi, e i
rincalzi tardavano ad arrivare.
Seduto
al sole davanti alla baracca del comando, Stuart lasciava vagare lo
sguardo sulle rovine della chiesa. Poco dopo che lui e von Rohr ne
erano usciti, una bomba l’aveva colpita in pieno. La navata aveva
perso il tetto, il campanile già danneggiato era collassato su se
stesso e della graziosa canonica non erano rimaste che macerie, dalle
quali gli avieri avevano volenterosamente scavato fuori la maggior
parte dei suoi effetti personali.
Le
rovine della chiesa, comunque, erano niente rispetto alle rovine
della sua anima.
Il
bombardamento aveva avuto se non altro l'effetto di stornare
l'attenzione di tutti dal suo rapporto con von Rohr, e quindi a
livello di disciplina e relazioni interpersonali le cose erano
tornate più o meno come al solito.
Essendo
i soldati creature superstiziose, specialmente quando sono in guerra,
i militari della base avevano trovato inequivocabili collegamenti tra
il loro comportamento indisciplinato e l'apocalisse che si era
abbattuta sullo Squadron, quindi ora esageravano dal lato opposto nel
tentativo di liberarsi della loro hybris.
Tutto
quello sfoggio di zelante disciplina paradossalmente faceva sentire
ancora più a disagio il maggiore Stuart, che invece della sua
personale hybris era ben lungi
dall'essersi liberato.
Erano
tali e tanti i motivi di dolore e vergogna che non sapeva da che
parte cominciare a elaborarli.
Si
ergevano a silenzioso monito, esattamente come i cumuli di macerie
che costellavano il piazzale dove una volta sorgevano gli hangar.
Tanto
per cominciare, aveva intrattenuto rapporti contrari all'onore di un
soldato con un ufficiale nemico, poi gli aveva consegnato un aereo da
guerra in perfette condizioni di volo e l'aveva spinto a fuggire. E
come se tutto ciò non fosse stato sufficiente, aveva poi mentito ai
suoi superiori dicendo che l'ufficiale nemico era perito nel
bombardamento.
Se
prima di quella storia qualcuno gli avesse detto che avrebbe fatto
cose del genere, l'avrebbe senz'altro considerato pazzo.
Eppure
era esattamente così che erano andate le cose. Sodomia, alto
tradimento, azioni tese a favorire il nemico.
C'era
gente che era stata fucilata per molto meno.
Per
quanto grave, quello del tradimento nei confronti della Patria non
era il solo problema che si trovava a fronteggiare.
Aveva
tradito anche Margaret, per gradire. Con un maschio. Provandoci
gusto.
Questo
cosa faceva di lui? Un pervertito? Un pederasta? Ogni volta che
enumerava gli epiteti che si attagliavano a ciò che era accaduto fra
lui e von Rohr rabbrividiva d'orrore, e regolarmente finiva per
dibattersi nelle sabbie mobili di elucubrazioni senza capo né coda:
lo era anche prima? Lo era sempre stato e aveva ingannato tutti? Lo
era diventato? E adesso? Che sarebbe successo? Lo sarebbe rimasto per
sempre o sarebbe guarito?
E
comunque, nonostante tutto von Rohr gli mancava.
Se
pensava al tempo trascorso insieme a lui provava una nostalgia
struggente, che diventava quasi un dolore fisico quando rievocava i
particolari degli amplessi consumati.
Lo
rivedeva nei suoi atteggiamenti tipici, quando lo fissava con aria di
sfida oppure quando camminava su e giù per la navata della chiesa
con passo marziale.
Si
chiese con apprensione dove fosse, cosa stesse facendo. Era riuscito
a tornare fra i suoi camerati? Stava bene?
Immaginò
di stringerlo a sé, di accarezzarlo e baciarlo finalmente con la
dolcezza che il frenetico precipitare degli eventi non gli aveva mai
permesso di manifestare.
L'allarme
antiaereo lo sorprese mentre indugiava in quelle immagini cariche di
tenerezza e rimpianto.
In volo
sulla Manica, Stuart perlustrava il cielo alla ricerca degli aerei
della Luftwaffe.
Erano
state segnalate coppie di Messerschmitt in missione di Freie Jagd,
o caccia libera, il che significava aerei con la dichiarata missione
di cercare caccia nemici, impegnarli in combattimento e possibilmente
abbatterli.
Il
maggiore si guardò attentamente intorno, ma il cielo sembrava
sgombro. O i caccia erano andati da qualche altra parte, o era uno
dei soliti falsi allarmi della difesa costiera.
Ne fu
quasi dispiaciuto.
Sebbene
per tacito accordo nessuno al 19° Squadron alludesse più al
Cavaliere di Valsgärde, lui aveva voluto che l’emblema che l’aveva
reso famoso tra gli Squadron inglesi, ovvero il leone che azzanna
l’aquila dalla testa rossa, fosse riprodotto fedelmente su ogni suo
nuovo aereo.
Se gli
veniva chiesto il perché, era solito rispondere che si trattava di
un portafortuna.
In
realtà il motivo era del tutto diverso, e aveva a che fare con le
ultime parole di von Rohr: ci rivedremo lassù.
Voleva
che Hans fosse in grado di riconoscerlo.
Razionalmente
la cosa non aveva senso, lo capiva da solo. A prescindere
dall’insensatezza di fornire il proprio biglietto da visita al
nemico, von Rohr poteva essere stato trasferito, poteva trovarsi in
licenza di convalescenza, oppure poteva anche non essere mai arrivato
in Francia, magari abbattuto proprio da qualche cacciatore tedesco
alla ricerca di preda.
Eppure…
“A
ore tre, contro il sole!” gridò Evans, che pilotava uno dei caccia
più avanzati.
Stuart
si girò in quella direzione: c’erano dei puntini all’orizzonte,
quattro coppie. Apparivano e scomparivano nel riverbero dei raggi
solari.
“Formazione
da combattimento!” ordinò in frequenza, e subito tutti i suoi
caccia si mossero con rapidità e precisione per intercettare il
nemico.
La
Luftwaffe intanto si avvicinava. Gli aerei tedeschi si erano
distanziati e stavano velocemente salendo di quota.
Pochi
secondi dopo, Spitfire e Messerschmitt presero a duellare
furiosamente nel cielo terso, che in breve si trasformò in un
calderone ribollente di traccianti, fumo e scie di condensa.
Gli
aerei si inseguivano in combattimenti serrati, dando l’impressione
di belve rabbiose che si contendessero una preda.
I pezzi
di rivestimento alare strappati dai proiettili fluttuavano verso
terra luccicando come pesci nell’acqua profonda.
Stuart
diede il colpo di grazia a un avversario, che precipitò in vite
lasciandosi dietro una scia di fumo nero.
Stava
per correre a dare man forte ad uno dei suoi piloti in difficoltà
quando si accorse che un caccia tedesco gli veniva incontro a tutta
manetta dal fianco.
Resosi
conto che in quella posizione era un bersaglio indifeso, cercò
angosciato di scartare, ma il Messerschmitt, arrivato ad una certa
distanza, senza apparente motivo interruppe l’attacco e scivolò
d’ala per togliersi dalla sua traiettoria.
Nel
momento in cui lo vide di profilo, Stuart notò che sulla capottatura
del motore aveva dipinto lo stemma della Hitlerjugend.
Ebbe un
tuffo al cuore. “Hans!” disse a voce alta.
Si
buttò al suo inseguimento.
Il
Messerschmitt si lasciò prendere di coda quasi con indolenza,
procedette così per alcuni secondi e poi all’improvviso guizzò
via lasciando il suo antagonista stupito e disorientato. Schizzò
verso l’alto in un mezzo looping, poi completò la figura con un
mezzo tonneau finendo per trovarsi a quota maggiore e in direzione
opposta rispetto allo Spitfire.
L’inglese
lo raggiunse un attimo dopo, ma il tedesco lo vide arrivare e si
buttò in una picchiata verticale che lo sottrasse alla sua mira.
Andarono
avanti così per un po’, avvicinandosi e allontanandosi con
terribile grazia nella danza fatale del combattimento.
Il
Messerschmitt si lanciò infine in una serie di ardite acrobazie,
figure intessute nel cielo di smalto per la pura gioia del volo.
Scosse poi le ali in un gesto di saluto e si diresse a tutta manetta
verso le coste francesi.
L’ultima
cosa che il maggiore vide fu un fugace brillio nella nebbia azzurrina
dell’orizzonte, mentre Hans von Rohr scompariva come un sogno sul
fare dell’alba.
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