Asso di cuori

di Mary_la scrivistorie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Asso di picche ***
Capitolo 2: *** Asso di fiori ***
Capitolo 3: *** Asso di quadri ***



Capitolo 1
*** Asso di picche ***


s  s  o    d  i    c  u  o  r  i  
                       
  
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Nome autore: MaryScrivistorie [forum], Mary_la scrivistorie [EFP];
Titolo storia: Asso di cuori;
Fandom:  Red/Blue/Green – La Trilogia delle Gemme;
Personaggi: Falk  De Villiers, Grace Montrose, Lucas Montrose, Glenda Montrose;
Pairing: Falk/Grace;
Canzoni scelte:
  1. Atlas – Coldplay;
  2. New Divide – Linkin Park;
  3. Beautiful Crime – Tamer;
Introduzione:
Falk/Grace – 1980 – Mini-long.
Grace Montrose, per Falk De Villiers, è un criptico enigma. Sin dal momento in cui l’incontra per la prima volta, è una figura annebbiata dalla magia di un misterioso gioco. Per riuscire a conquistarla, Falk deve collezionare un poker d’assi – picche, fiori, quadri e cuori. Ogni asso gli viene assegnato quando riesce ad avanzare mosse in quell’offuscata scacchiera – il cuore della ragazza.
La sua impresa richiederà molto più tempo di quanto pensa, tuttavia – è un gioco per la vita, dopotutto.
Dal testo: «Fu durante una fresca mattina di mezz’estate che m’imbattei nella Ragazza-Dai-Capelli-Di-Fuoco per la prima volta ‒ o almeno quella che all’epoca reputavo esserlo.
Avevo sedici anni, una manciata di caramelle alla menta in tasca ‒ quelle che avevo furtivamente sgraffignato la sera prima dalla dispensa in cucina ‒ e una brutta scia di graffi sanguinolenti che avevo rimediato durante i miei abitudinari pellegrinaggi in città. Londra era indubbiamente lo scenario perfetto per incorniciare le piccole avventure di un adolescente come me: rappresentava un enigma offuscato da una fitta nebbia d’argento e ottenebrato dai più arcani segreti ‒ lamavo
[Questa storia partecipa al contest “Tante canzoni, una storia” indetto da Mokochan sul forum di EFP.]

 
Note dell’autore:
Eccoci arrivati, di nuovo, al capolinea. Scade un nuovo contest, comincia un’altra storia: è un’inevitabile catena di eventi che non potrà mai essere spezzata – o, almeno, lo spero con tutta la mia anima. Questo contest, incentrato sulla musica, è stato decisamente d’ispirazione: bramavo da tempo soffermarmi su quel mio adorato Falk De Villiers. Il finale della saga, per quanto riguarda i piccioncini Falk e Grace, ci ha lasciato un po’ l’amaro in bocca. Non vi nego che anche la mia fan fiction lo farà – dev’essere nel sangue di scrittrice, essere così sadica, specialmente nei confronti dei propri lettori. Era da tanto, troppo tempo che non scrivevo brani su questo fandom e, chi mi riconoscerà, vorrà senz’altro picchiarmi. Vi ricordate di quella Mary che aveva cominciato una storia, due anni fa, dal titolo Amethyst Over Time, su una possibile Nuova Generazione di Viaggiatori?  Ebbene sì, proprio lei – avete tutto il diritto di suonarmele a dovere! Sappiate però che non potete ammazzarmi, perché sto terminando il terzo capitolo dopo che avevo perso scaletta e testo dei capitoli – il mio PC s’era rotto. Abbiate fede!
Intanto, vi lascio quest’oscenità – non so neanche come abbia potuto concepire una cosa simile. Rasento l’OOC, ho inserito allegorie banali e squallide, avrò fatto un pasticcio in grammatica: insomma, di tutto e di più. Sarò più che contenta di accettare critiche o commenti crudi, me li merito. Ero di fretta in questi giorni e non sono riuscita neanche a controllare l’efficacia di questa Mini-long. A proposito, sono tre capitoli e presto pubblicherò i seguenti. Bando alle ciance, almeno mi sono degnata di consultare la mappa di Londra per i quartieri da me menzionati e per l’ambientazione degli anni Ottanta. A proposito, dal libro possiamo appurare che Grace è del 1966 (aveva ventott’anni quando Lucy, che ne aveva diciotto ed era nata nel 1976, era fuggita); ho quindi ipotizzato che Falk fosse nato nel 1964 e che fosse coetaneo di Glenda. La storia del padre di Falk – il vero nonno di Gwendolyn – è puramente mia invenzione e presto ho intenzione di scriverci su qualcosa e svelare il segreto di sua moglie – provate a indovinarlo! Il testo cerca di essere quanto più inerente possibile al significato delle varie canzoni: ce l’ho messa tutta, stavolta. Ringrazio chi deciderà di dare un’opportunità a questa storia e pure chi lascerà una recensione. Ringrazio anche la giudiciA per il bel contest che ha indetto. Un vivido saluto dalla vostra folle, malata Mary. ♥

Disclaimer: Questi personaggi non m’appartengono e non sono assolutamente usati a fine di lucro.
 
 
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      Capitolo I Asso di picche
 
         
{Sulle note di Atlas,
singolo dei Coldplay
e colonna sonora del film
Hunger Games ‒ Catching Fire}
 
 
1980.
 
 [1] Dal testo della canzone.
 
 
Fu durante una fresca mattina di mezz’estate che m’imbattei nella Ragazza-Dai-Capelli-Di-Fuoco per la prima volta ‒ o almeno quella che all’epoca reputavo esserlo.
Avevo sedici anni, una manciata di caramelle alla menta in tasca ‒ quelle che avevo furtivamente sgraffignato la sera prima dalla dispensa in cucina ‒ e una brutta scia di graffi sanguinolenti che avevo rimediato durante i miei abitudinari pellegrinaggi in città. Londra era indubbiamente lo scenario perfetto per incorniciare le piccole avventure di un adolescente come me: rappresentava un enigma offuscato da una fitta nebbia d’argento e ottenebrato dai più arcani segreti ‒ lamavo.
Era la culla che calzava a pennello le mie tiepide e fragili illusioni fanciullesche e i miei desideri più reconditi. Perfino la più tenue delle luci ‒ che provenisse dall’orizzonte o dai lampadari delle sontuose ville dei più altolocati era tutt’altro affare ‒ era eclissata da quella buia coltre d’ombre che invadeva indiscriminatamente ogni cosa sino ad appropriarsene con avidità. La città stessa era il suggello di un giuramento infernale che sanciva che ogni cosa sarebbe dovuta appartenere di diritto all’oscurità maligna che bramava di possedere i cuori e le loro ceneri.
Per quando riguardava me, ero una giovane anima alla ricerca della luce. Si trattava del mio svago preferito: gironzolavo nei meandri di quel labirinto, vagando per quelle strade maledette, e cercavo smanioso un minimo chiarore in quei velati sentieri.
Stavo appunto contemplando in quel momento gli sfavillanti bagliori dell’alba stagliarsi sulle silenti acque del Tamigi ‒ finalmente rassicurato dall’avvento della luce ‒ con i gomiti saldamente piantati sui parapetti in ferro arrugginito e pietra e lo sguardo smarrito nel vivido colore del cielo, e pensai che il fiume non era null’altro che uno specchio in cui si riflettevano gli squarci di vita che effondeva quell’afosa giornata d’agosto.
Ero partito presto da casa in modo da non emettere rumori molesti e sgraditi in casa e da non destare né la mia famiglia né l’ossessivo maggiordomo che c’era capitato.
Mi ero recato là di soppiatto, sfuggendo ai pedanti controlli di Mr Taylor, con la mia affidabile bicicletta e con le illusioni di una libertà che allora non sapevo che non sarebbe mai arrivata. Una fitta lancinante mi carpì il cuore, mentre la mia mente eluse il mio controllo e si concesse delle meditazioni agghiaccianti.
Era Paul il fenomeno da baraccone di famiglia, era Paul quello che poteva ambire al supremo infinito, era sempre Paul che avrebbe in futuro scorrazzato nei meandri del tempo ed esplorato la Storia ‒ durante la sua trascendentale metamorfosi ‒ attraverso i suoi stessi occhi. La cosa buffa era che veniva già idolatrato come se fosse un dio redentore dalle sembianze umane piuttosto che un poppante di appena sei anni ‒ aveva da poco iniziato a frequentare le lezioni di un celebre precettore da poco stanziatosi in centro.
Nel mio profondo, percepivo un oscuro sentimento ‒ l’avrei solo in seguito identificato come “invidia” ‒ che m’attanagliava lo stomaco e non mi concedeva scampo con la sua mera crudezza. Feriva, per quanto era intenso.
Probabilmente m’infastidiva il fatto che mio fratello avrebbe ricevuto la possibilità di rifugiarsi in un altro universo, sfuggendo a quella complicata realtà che s’offriva invece a me in tutte le sue controverse sfaccettature.
Sbuffai, iracondo contro quel cielo che m’aveva appena sbeffeggiato con i suoi criptici segreti, e mi sistemai i capelli bruni scompigliati dalla brezza. Come mi ripeteva mio padre sino allo sfinimento, ero il rampollo primogenito dei De Villiers e dovevo mantenere un certo ritegno in qualsiasi situazione.
La morte di mia madre l’aveva lentamente trasformato in una creatura innaturalmente algida e inquieta: assuefatto di un odio cruento ed avvelenato che lo trascinava negli abissi più foschi e che gli deturpava perfino l’aspetto esteriore, aveva cominciato a dedicarsi agli effimeri privilegi dell’ebrezza e ai più eccentrici lussi del ceto nobile. Sebbene fosse quasi perennemente assente ‒ probabilmente a vagare instancabilmente fra osterie e bordelli ‒ e noi fossimo più che altro seguiti dal nonno Kenneth, ci picchiava con maggior frequenza ed esigeva che fossimo perfettamente degni della reputazione che avevamo l’obbligo di difendere, così come della maschera d’argilla che custodiva le menzogne che celavamo al mondo ‒ e, diamine, se ce n’erano!
Ogni frase pronunciata dalle sue labbra ormai straordinariamente tirate era costellata da almeno una fandonia. Quei loschi tranelli facevano ormai parte della mia vita: ero un De Villiers e, secondo l’originaria tradizione del mio lignaggio, avrei ben presto iniziato gli studi da adepto per la Loggia del Conte di Saint Germain ‒ in pratica, ero nato per svanire sotto il fardello di tutti quei inganni che avrebbero soffocato prima o poi ogni pilastro della mia esistenza.
Non era la vita che ‒ se ne avessi avuto la possibilità, certo ‒ avrei scelto, ma quella che mi sarebbe fatalmente toccata: era scritto negli Annali, così come nei presagi nelle stelle. Avrei ben presto giurato di servire al meglio delle mie capacità ogni viaggiatore del tempo e di rispettare indiscutibilmente i preziosi dettami del Conte.
Afferrai un sasso piatto e lo lanciai in acqua con rabbia. Assorto, mi concessi un sorriso sarcastico e ribelle: e così, era quello il mio oracolo. Sarebbe stato mio compito diventare un suddito del Tempo, senza che qualcuno avesse valutato il livello delle mie facoltà a tal proposito.
Quanto a Paul, lui si sarebbe divertito alle mie spalle ‒ letteralmente, indietro negli anni e nei secoli ‒ insieme alla sua graziosa e venerabile gemella temporale, Lucy. Aveva quattro anni, lei.
Un’altra risatina ironica fiorì sulle mie labbra, dove morì in fretta e furia quando realizzai quanto quella mia sentenza fosse crudele e lapidaria. Non m’allietava ridere di fatti così sconcertanti e patetici, non se rimuginavo su mio padre e sulle “lezioni di vita” che s’ostinava a impartirmi ‒ con le buone o con le cattive maniere.
I miei denti stridettero rumorosamente quando li digrignai in una smorfia di disappunto: le cicatrici sulla schiena, purtroppo, non erano i pegni delle avventure vissute nel nome del mio ardito onore. Bruciavano lungo la spina dorsale, accendendosi l’una dopo l’altra come una sfilza di candele nella notte, e rilucevano di porpora per il sangue ormai essiccato versato in una pira di pene e di rancore. Potevo percepirne il richiamo farsi strada tra i miei neuroni e reclamare vendetta: c’era di più, oltre al risentimento, in quegli indelebili marchi di strazio. C’era l’esigenza di porre fine a quell’atroce supplizio e di ritrovare quei brandelli di famiglia che si erano progressivamente dissolti con il trascorrere degli eventi, c’era la bruciante necessità di trovare conferme anziché un mare di barriere schive e distruttive; c’era il cocente bisogno di ritrovare e distinguere la mia aura in quella tetra esistenza terrena.
Non ero solito commiserarmi nelle mie afflizioni: ero più il tipo che soffriva in solitudine e si rintanava sotto una nube di menzogne piuttosto che dimostrare agli altri la propria vulnerabilità emotiva. Strinsi fra le dita una scheggia di granito appena raccolta dal suolo e ne ispezionai la consistenza sotto gli spiragli dei raggi mattutini che s’innalzavano con solerzia al di sopra delle forme corporee e degli irrazionali cuori dormienti in tutta Londra.
Stavo là, con il viso rivolto al cielo sereno e ai dolci spettacoli che mi proponeva, in attesa di percepire i benefici di quell’abbagliante manifesto di luce che si protraeva nell’arco di ore intere fino al momento del mezzodì. Uno stormo di rondini si librò in volo da una quercia vicina, svanendo poi nell’oblio dell’orizzonte.
Avrei voluto assaporare quel panorama con un sorriso intriso di gioia da regalare al mondo, ma lo stendardo della mia maledizione mi perseguitava come una plumbea tempesta in agguato ‒ ero un De Villiers, dopotutto.
Nonostante avessi da poco oltrepassato la fase iniziale della pubertà, ero destinato a diventare membro di una setta segreta di cui non mi ero mai interessato in vita mia. Ero un condannato.
Le impronte della mia ribellione scintillarono sulla mia pelle: mi era stato concesso un ultimatum e dovevo effettuare una scelta il prima possibile.
La via più semplice era lì, appesa come un velo dinnanzi ai miei occhi ormai vitrei: non mi restava che agguantarla e sperare che non mi recidesse anch’essa.
Un altro sospiro, così intimo e fioco che lo mantenni per tutta la vita come un altro dei miei innumerevoli segreti. Combattuto, m’eressi sulle punte dei piedi e improvvisai il cipiglio superiore che mio padre mi suggeriva spesso di sfoggiare fuori casa, in pubblico. Quella mattina non c’era nessuno e non avevo paura di canzonare i modi aristocratici e ampollosi di mio padre con smorfie di repulsione o disprezzo. Nonostante i miei propositi derisori e poco opportuni, la farsa risultò più credibile del previsto.
Forse era il prospetto affilato dei miei occhi eccezionalmente ambrati oppure la piega ricurva e stretta delle mie labbra, tuttavia sembravo esser nato per fingermi superbo come un qualsiasi altro De Villiers ‒ avevo la stoffa dello snob altezzoso, non c’è che dire. O, per meglio dire, ce l’avevo nel sangue.
Un silenzio insopportabile piombò sull’aria leggera e mi scalfì la pelle con la sua gravezza.
Riecheggiò soltanto il sussulto di un altro ciottolo scagliato in quelle meste acque fluviali che mi suscitavano pensieri tanto infausti. Dovevo infrangere la micidiale catena che m’imbrigliava saldamente alle radici di quegli abissi cupi e maligni per rompere quello squilibrio morale.
La strada per raggiungere quell’ambiziosa meta sembrava, d’altra parte, una mera allucinazione che si delineava nel profilo sfuggente delle nubi ‒ quell’alba era l’unica oasi dalla quale potevo abbeverarmi.
Era principalmente per quelle ambigue ragioni che mi trovavo lì, prigioniero di sentimenti fra loro contrastanti e affacciato sulle trepidanti acque del Tamigi che fluivano ignare sotto il mio sguardo distante.
Fu, infine, un flebile rumore a riscattarmi da quelle tristi riflessioni: si trattava del suono flautato di passi leggiadri celati dall’ombra. Senza indugiare, mi voltai verso la direzione da cui proveniva l’eco dei dolci picchiettii sul suolo e riconobbi soltanto una figura minuta dai capelli rossi prima che questa scomparisse dietro la vecchia biblioteca che rappresentava il confine con la carreggiata del ponte. Accattivato da quel piccolo gioco che in ambiente familiare mi sarebbe stato senz’altro negato, m’accinsi a osservarmi intorno, nel tentativo di distinguere fra i colori caldi di quella mattinata il vermiglio della chioma della ragazza. Se solo mio padre si fosse sognato che suo figlio scorrazzava allegramente dietro a un’estranea provvista di una capigliatura così ramata e fiammeggiante ‒ il simbolo delle streghe, il simbolo di quelle pazze Montrose ‒ mi avrebbe volentieri fustigato davanti al resto della famiglia. Un brivido mi risalì repentino la spina dorsale mentre rimuginavo su quell’eventualità ‒ la frusta che scivolava inevitabilmente sulla mia pelle ormai coriacea per straziarla, ancora e ancora ‒ e mi strinsi le spalle con fare protettivo verso quelle terrificanti memorie che il mio cuore non faticava certamente a decifrare.
Un fruscio più caotico degli altri emerse fuori dalla melodia che producevano le scarpe della ragazza sui sampietrini come una nota stonata al violino: un riso d’illuminazione mi comparve sulle labbra mentre mi dirigevo con passo sicuro verso destra.
Altri fiochi brusii in agguato non fecero altro che accreditare la mia ipotesi riguardo la localizzazione di quella strana fanciulla. Ti ho trovato.
Quando mi sporsi oltre le mura cieche del vano fra la biblioteca e un’angusta bottega di musica, riuscii a distinguere fra il mite grigiore della foschia e del cemento il porpora della chioma della ragazza. Era piccola di statura, esile e aggraziata come un fuscello, con una vaporosa cascata di riccioli luminosi e i lineamenti tanto malandrini quanto fatati. Sfoderava un sorrisetto angelico che, lo sapevo per esperienza, non prometteva niente di buono. Contraeva sollecitamente i muscoli delle gambe in rapida successione, creando minuscole spirali di vento che sollevavano i fiori di ciliegio sparsi per terra, preannunciando un’armoniosa danza d’estate.
Piuttosto che denigrarla per l’assurdità dei suoi gesti, fui rapito dalla bellezza di un tale scenario: si trattava di un breve frammento idilliaco estratto dalla storia di un sogno. Nessuna delle sue mosse era eccessiva o straripava dall’equilibrio che riusciva a effondere nell’aria: il suo eterno ballo era delicato, opportuno per accompagnare la sua sagoma minuta e per suscitare un misticismo spirituale negli animi del suo pubblico ‒ in quel caso me medesimo. Sembrava che danzasse esclusivamente per il gusto di farlo: probabilmente era la sua occasione per sfogare le proprie tensioni e ritrovare quei barlumi di libertà perduta nella monotonia della quotidianità.
La sua pelle nivea tremolava sotto lo scintillio degli spiragli di sole durante i suoi movimenti leggiadri che facevano arcuare soavemente i suoi arti flessuosi. Smarrito nell’ondeggiare lieve delle sue ciocche infuocate, non potei far altro che ritrovarmi a decretare che lei poteva permettersi ogni genere di stravaganza, talmente era bella.
Alla fine, quando terminò il rituale della sua vellutata malia, scivolò con grazia sull’ultimo passo da lei mimato e articolò con le braccia una graziosa posa finale, provvista di un sorriso serafico a fior di labbra.
Fu allora che mi sporsi oltre il consentito e lei s’accorse della mia silenziosa presenza. Dapprima parve incollerita, a giudicare dall’accesa sfumatura delle sue iridi e dall’innaturale piega obliqua che avevano assunto le sue sopracciglia; in un secondo momento, invece, mi sondò dubbiosa con i suoi occhi color lapislazzuli e optò infine per coprirsi quel poco di carne lattea che sbucava dalla sua camicia a quadri. Non che ci fosse molto da poter vedere: in caso contrario, me ne sarei senz’altro avveduto. Era magari giusto quella scollatura creata dai bottoni slacciati che dondolavano a caso ad attirare l’attenzione: una vista acuta poteva arrivare a distinguere il delizioso e pallido incavo tra i seni e perfino scorci di pizzo del suo reggiseno bianco. Stavo appunto rimuginando sulle sue forme non poco generose, quando iniziò a urlare con foga.
«Che cosa diavolo ci fai qui?», domandò, saltando su furiosa e allacciandosi malamente i bottoni sfuggiti dalla camicetta. Probabilmente s’era accorta che ero perlopiù concentrato sulle sue candide grazie che sulle sue parole ‒ e la cosa non le andava molto a genio, intuii. La sua voce era fragile, flautata, come se fosse soltanto la soffusa eco di una vibrante melodia classica. Aveva sì o no quattordici anni.
Mi soppesò, furibonda, come se le avessi fatto chissà quale torto e mi detestasse incondizionatamente. Neanche la conoscevo. Non potei evitare di riconoscere stupidamente che era bella anche da arrabbiata, quella bizzarra fanciulla. I suoi occhi azzurri ‒ che tuttavia sembravano sfavillare di luce rossastra ‒ scandagliarono il mio corpo alla ricerca di tratti sospetti o di qualche difetto che potesse giustificare il suo innato disprezzo nei miei confronti.
Mi limitai a perdermi ‒ proprio come un fesso ‒ negli scorci più nitidi del suo volto che possedeva uno splendore frastornante. Il suo naso era leggermente all’insù ‒ mi rammentava le fattezze elfiche secondo il folklore britannico ‒ e cosparso da una spruzzata di minuscole lentiggini. Aveva gli zigomi alti e sporgenti e il viso spigoloso.
«Sono stato incuriosito dal suono dei tuoi passi e sono venuto a controllare cosa stessi facendo ma, ti prego, non interrompere la tua danza per me.», la supplicai, con un tono concitato che non avrebbe senz’altro fatto onore alla mia natura De Villiers.
Lei rimase allibita dalle mie parole e avanzò di qualche passo per ispezionarmi meglio. Era davvero magra, constatai: le sue braccia eburnee erano scheletriche e le clavicole molto evidenti al di sotto della gola. Deglutì, come se all’improvviso non riuscisse più a tollerare quello scambio seppur esiguo di parole, e mi scoccò un’occhiata torva.
«Tu e io ci odiamo.», sibilò, come se quella frase bastasse a spiegare tutta la diffidenza che nutriva nei miei confronti e lo dicesse per rimarcare il concetto. Il suo tono s’incrinò a circa fine frase ma riuscì a camuffarlo simulando un piccolo colpo di tosse. I suoi capelli parvero illuminarsi di bronzo e con orrore mi ritrovai a pensare che forse avevo beccato proprio una Montrose: esaminai con perizia il suo incarnato di porcellana, i suoi occhi di zaffiro e i suoi lunghi capelli ondulati che le sfioravano il fondoschiena. Confrontai mentalmente quella ragazza con l’unica Montrose che conoscevo bene. Lei e Glenda erano tuttavia del tutto diverse: quest’ultima portava i capelli rossi lisci e scalati, aveva un collo da giraffa e gli occhi a mandorla scuri e penetranti. Inoltre, rammentavo che mio nonno mi avesse detto che nessuna di quelle pel-di-carota era capace di ballare o di dilettarsi in qualsiasi strumento musicale: erano soltanto rigide e ciniche, con un’inquietante propensione al cameratismo e alle frivolezze. Mi aveva ammonito a dovere in merito a quel tipo di donna, così cercavo di evitarle per quanto mi era possibile. No, quella lì non poteva essere una Montrose: troppo leggiadra, troppo alla mano, troppo affascinante.
«Io non ti conosco e di certo non ti odio», proferii con una dolcezza che nauseò perfino me stesso. Cosa mi stava succedendo? Ero sempre stato un maschio restio ai sentimentalismi e a qualsiasi altra dimostrazione d’affetto, incitato dai nobili precetti impartiti dalla mia casata: distacco e regalità, sempre e comunque. Eravamo plasmati per incarnare i ritratti viventi del nostro avo Robert Leopold, il celeberrimo Conte di Saint Germain, e non per imitare dei pupazzi.
Anche lei storse il naso, come se provasse ribrezzo, dopodiché dichiarò con tono amaro: «Io conosco te, però.»
Senza accorgermene, m’ero avvicinato alla sua sagoma e con uno scatto mi bloccai a meno di mezzo metro dal suo volto. In tutta risposta, lei incurvò le spalle e piegò il capo come se cercasse di evitare i miei occhi a ogni costo. «Guardami.», le mormorai dolcemente, sfiorandole la mano d’alabastro e incastrando le sue dita affusolate fra le mie. Da dove proveniva tutta quella spavalderia? Potevo contare giusto un paio di ragazze nella mia collezione di relazioni, e nessuna di loro aveva potuto vantare il privilegio di avermi catturato il cuore ed essere riuscita ad abbattere le mie rigorose barriere morali. Un gesto impedito da quegli ostacoli del cuore ‒ un gesto che a loro avevo negato ‒ era appunto l’atto di intrecciare le mani. E, diamine, quella non era nient’altro che una sconosciuta! Quelle ragionevoli considerazioni furono annullate dalla trepidazione che m’assaliva i polmoni e mi smorzava il respiro con il suo inconfutabile vigore. Il cuore incastonato nel mio petto palpitava così ferocemente che temevo che potesse prima o poi arrestarsi di colpo ‒ ma così non avvenne. Continuò la sua interminabile lotta contro il tempo, rendendomi preda di quell’anima ingenua che sfuggiva alla mia custodia e si librava fra le nubi di perla che sormontavano i nostri corpi. Sempre incapace di metabolizzare i miei preoccupanti istinti, l’afferrai per le spalle ‒ esili e scarne come quelle di nessun’altra ‒ e provai ad appigliarmi alla sua, di anima, scavando fra gli aloni della sua aura alla ricerca di un rifugio, di una catena che mi ancorasse a terra e non mi lasciasse precipitare in quel tremendo nulla. Il contatto con la sua pelle d’avorio si fece sempre più vivido, non era più una fantasia offuscata dalla nebbia dei desideri bensì una visione nitida della solida realtà. Percepii il peso di quel presente negli angoli del mio cuore mentre allentavo la mia presa e mi riducevo a sfiorarle delicatamente la carnagione lattea, che si costellò di leggeri brividi al mio passaggio. La sua resistenza cominciò a vacillare quando il soffice calore della sua epidermide si fuse con il mio tocco.
Esalai un sospiro di soddisfazione mentre con la punta dei polpastrelli percorrevo il solco della sua gola invitante e lei abbandonava la sua iniziale rigidità e s’arrendeva alle mie carezze. Il suo collo di cigno si tese all’indietro, ormai illanguidito all’idea di quel leggero massaggio, e riuscii a distinguere il suo fascio di vene contrarsi ancora e infine desistere. Ogni suo diniego crollò e compresi che aspettava soltanto una reazione baldanzosa da parte mia. Ormai lavevo in mio pugno.
«Guardami e dimmi cosa vedi.», riuscii a boccheggiare, in cerca di un ossigeno che non ostruisse le mie vie respiratorie.
La ragazza, che era rimasta pietrificata sotto la mia stretta ma non s’era sottratta affatto ‒ una piccola fitta di compiacimento ‒, emise un fioco rantolo e, con lentezza, si girò a fissarmi. Ammutolì impercettibilmente quando incrociò il mio sguardo ma non mollò la sfida che le avevo lanciato. Piantò le sue iridi screziate di blu sulle mie, che erano di tutt’altro colore ‒ d’oro, il loro colore complementare secondo la tavolozza dei colori. Quella tacita riflessione mi sconcertò e mi fece barcollare, tuttavia sostenni il peso della sua occhiata solenne e ignorai la tentazione di afferrarla per i fianchi e spingerla prepotentemente contro il mio corpo ‒ quella distanza era insopportabile. Se volevo conquistarla, dovevo procedere con calma. Avevo ancora la mano serrata intorno alla sua e mi ero perfino guadagnato la sua attenzione: era in quel momento che avrei dovuto giocarmela come meglio potevo. Deglutii ed esternai pacatamente parole insensate che la mia mente aveva abbinato a caso, senza che ci fosse neppure l’ombra di un barlume di buonsenso. Avvertii l’odore acre e frizzante del mio alito che sapeva di limone ‒ la caramella che avevo da poco divorato ‒ mentre iniziavo, attingendo a ogni briciolo del coraggio che segregavo nel foro che rimpiazzava il mio petto, un discorso che sperai caldamente non suonasse ridicolo o banale.
«Aldilà di quello che siamo, aldilà di ciò che ci attornia, aldilà delle emozioni che ci sopraffanno ogni secondo, noi siamo qua, vivi e splendenti di moti d’animo, di pensieri segreti e parole mai pronunciate. Siamo vivi sotto il fardello dei nostri demoni e delle maledizioni che il Destino ci ha scagliato tanto tempo fa, quando non eravamo null’altro che la promessa di una giovane vita in procinto d’esser definita. Quel processo è cominciato all’alba dei tempi e continuerà fino all’ora in cui non saremo totalmente in balia delle brutali scelte del Fato che si riverseranno sulle nostre esistenze terrene. Tutto sarà di nuovo regolato dall’ordine e nessun oblio potrà più farci affievolire dal pianeta. Appunto per questo motivo, ti chiedo di continuare a danzare, senza meditarci tanto su. Devi dimenticare la catena d’eventi che ci attendono alla deriva e persino chi appartiene al tuo affezionato pubblico, devi ballare per goderti quel poco di caos ‒ quel poco di umanità ‒ che ci è concessa prima dello scoccare dell’ora del giudizio. Sii, per una volta, l’eroina mortale che sceglie il difetto alle virtù, il mondo al paradiso, nonostante il resto. Sii l’innocente peccatrice millenaria che ci ha regalato la vita e giace ora nei nostri cuori, aspettando di essere riscattata. Sii umana
Perfetto, Falk, adesso crederà che sei completamente impazzito. In effetti, la ragazza dai capelli rossi non parve affatto scalfita dalle oscure verità che avevo appena enunciato. Pensai che con le mie predizioni avevo forse profanato il candore che circondava la sua aura costellata di bagliori stupefacenti e minuscole tracce di magia. Pensai che l’avevo già persa, conducendola al vero sapore della vita. Dopotutto, aveva solo quattordici anni ed era ancora una ragazzina appena sbocciata: non era ancora pronta per svelare gli enigmi di quel mondo criptico.
Lei sbatté le palpebre, disorientata dall’improvvisa luce che era calata su di noi, e m’elargì un gran sorriso che condannò il mio cuore a un nuovo zampillo di frenesia. Solo un istante più tardi realizzai che quel ghigno era puramente derisorio: m’osservava sempre con quella sua assurda e languida dolcezza intanto che mi sbeffeggiava dentro di sé ‒ e anche fuori, a quanto pareva. Rise finché le fu possibile, poi si ricompose con eleganza e mi fulminò con un’altra delle sue efficaci occhiatacce.  «Complimenti, De Villiers. Non avevo mai ascoltato un monologo così brillante e pretenzioso da un tizio che vuole solo rimorchiare. Ce l’hai messa tutta, devo rendertene atto.», mi schernì, divincolandosi dalle mie braccia.
De Villiers?, pensai sconvolto un secondo dopo. Come faceva a conoscere il mio cognome? Volevo porle a raffica un’infinità di interrogativi ma sapevo che il tempo ancora a nostra disposizione era contato. Articolai sulle labbra un “Chi sei?”, avido di sapere, bramoso di conoscere ogni sua sfaccettatura. Venni impulsivamente dissuaso dalle mie intenzioni nell’istante in cui incrociai il suo sguardo: gli occhi le scintillarono di divertimento prima che li distogliesse dai miei. Senza più indugiare, s’affrettò ‒ fu fin troppo rapida, a dire il vero ‒ a raccogliere la borsa che aveva gettato a terra per dedicarsi al suo svago e a montare sulla sella della bicicletta. Con il marchio del rifiuto che mi bruciava sulla fronte e un’illusione appena e crudelmente strappata dal petto, la guardai andarsene via oltre la nebbia londinese. Una fitta di rammarico mi colse quando realizzai che su un punto aveva avuto ragione: ce lavevo davvero messa tutta. Avevo sconfinato oltre i miei limiti e i miei consueti valori pur di renderla più che un’effimera eco sopraggiunta nella mia storia a trasformare il mio essere e a svanire repentinamente com’era arrivata. Non accettavo un cambiamento senza che la sua fonte rimanesse nella mia vita. Non potevo permetterlo: per una volta nella vita, il mio cuore si era schierato da una fazione ed era mio compito guidarlo verso la sua meta. Quel viaggio era appena al preludio.
Ero ancora incantato sulla sua sagoma ormai opaca dall’orizzonte quando mi risvegliai bruscamente da quello stato catatonico di rimpianto e lo scacciai definitivamente. Non mi sarei arreso così facilmente.
Dei momenti successivi ho ricordi vaghi e confusi: rammento che raggiunsi in fretta e furia il mio veicolo e cominciai a rincorrerla. Era più avanti di me di circa un chilometro ma la stavo pedinando pazientemente e instancabilmente: non avevo fretta alcuna. Dopotutto, erano soltanto le sette del mattino e, prima che a casa fosse occorso il mio aiuto, sarebbe trascorso un altro paio d’ore.
La Ragazza-Dai-Capelli-Di-Fuoco si stava addentrando verso i quartieri più rinomati del centro: interessante.
La sua folta chioma svolazzava irruentemente verso direzioni contrapposte a quelle per cui svoltava: una volta a destra e l’altra a sinistra, come a intermittenza. Riuscii a distinguere la sagoma ben proporzionata della sua schiena elegante, delimitata da spalle dritte e ben arcuate. Aveva anche un discreto sedere, per essere una ragazza in miniatura.
Il vento sferzava sugli alberi e sul mio corpo e m’accompagnava durante quell’arduo inseguimento, violando la mia pelle e lasciando invisibili segni del suo inesorabile passaggio. Le piante arboree del Green Park erano lambite dal suo burrascoso passaggio così come le mura degli edifici, che tuttavia opponevano una solida resistenza alla sua energia. La città cominciava a popolarsi: qualche operaio sfoggiava un bel corredo di sbadigli sulla soglia di casa mentre usciva per rimediare un giornale; qualcun altro s’avviava cupamente verso il pub per consumare una colazione dignitosa prima di ritornare alla pratica lavorativa; altri anziani, invece, ormai rassicurati nelle proprie bolle di cristallo, uscivano per passeggiare e oziare nei quartieri più durante il mattino, quand’erano placidi e spogli di bancarelle.
La brezza m’invitava a procedere, a seguirla come se io raffigurassi l’ombra del vento, sebbene lei si fosse ridotta ormai a una sagoma scolorita che si dilatava all’orizzonte. Pedalavo senza mai fermarmi, una spinta dietro l’altra, con il singolo obiettivo di cancellare quella distanza che cominciava in effetti a darmi sui nervi. Avevamo da poco superato il parco e la via del Piccadilly, quando abbandonammo Dover Street e svoltammo a sinistra verso il Berkeley Square Gardens. Avevo da sempre odiato le squallide rotonde della zona di Mayfair: ritenevo che facessero soltanto perdere tempo prezioso alla gente e che scombinassero l’ordine quasi completamente assente in strada.
Tuttavia, non mi diedi per vinto e proseguii il mio tallonamento, sbuffando d’impazienza ogni cento metri. A pensarci bene, ero uno stalker se pedinavo una ragazza di cui non conoscevo neanche l’identità? Lo ero se cercavo solamente di esplorare angoli di lei e portare alla luce la novella dischiusa dalla sua anima? Lo ero se perseguitavo le impronte lasciate dalla sua storia, avido più che mai di teorizzarle negli anfratti della mia mente?
Probabilmente sì. Di nuovo, ignorai tale fastidiosa insinuazione e continuai il mio percorso.
Avevamo imboccato Bourdon Street, quando realizzai che il nome di quella via aveva qualcosa di tremendamente familiare. Rimuginai a lungo, scavando negli abissi delle mie memorie alla ricerca della chiave che mi avrebbe permesso di risolvere quell’ambiguo dilemma. Non riuscivo a definire qualche particolare utile di quei ricordi fuggiaschi, però. Imprecai sottovoce.
La ragazza accostò la bici vicino a una casa che somigliava più che altro a un castello edificato in mezzo a tante piccole ville a schiera. Era maestoso, imponente, enorme: insomma, lasciava presagire che fosse il patrimonio di valore di una famiglia che viveva negli agi e nel vizio.
Tenendo una mano sul manubrio, afferrò il laccio rosso che aveva al polso e se lo portò sotto la nuca per avvolgere i suoi esuberanti capelli in una morbida acconciatura che li tenesse ordinati. Contemplai i movimenti con cui le sue dita si giostravano fra quelle ciocche rigogliose che scampavano il più delle volte la sua presa ferrea. Con un po’ di pazienza, ne uscì fuori uno chignon elegante da cui sfuggivano alcuni ciuffi ribelli e che offriva una bella mostra del suo collo esile e invitante.
La Ragazza-Dai-Capelli-Di-Fuoco si voltò verso di me, con un’espressione lieta e pacifica e per nulla sconvolta dalla mia presenza. Sfoderò un sorriso appagato che per poco non fece collassare il mio cuore, che mi stava rimbombando in gola. Deglutii, intorpidito da quella distante carezza che mi raggiungeva velatamente le membra, e continuai a osservarla cautamente mentre scendeva dal suo mezzo con leggiadria.
Lei ampliò il suo sorriso e si fermò sulla soglia del cancello del castello, indicandomi il numero civico con un cenno del capo. Bourdon Place, numero ottantuno.
Fu in quel preciso istante che ogni cosa acquisì un proprio significato compiuto. Quei capelli di fuoco ‒ che secondo i miei parenti contraddistinguevano le fattucchiere più temibili e urlanti ‒ le erano stati regalati per una valida ragione. Non era né una falsa veggente né una sociopatica da manicomio: era una Montrose ‒ era entrambe le cose. Montrose: il peggiore dei miei incubi notturni sotto le umane sembianze di una creatura così desiderabile. Montrose. Soffocai un singulto e riflettei su quella scoperta così scontata che non avevo avuto il fegato di valutare. Ecco perché mi conosceva; ecco perché mi detestava; ecco perché capelli rossi, occhi azzurri, fascino etereo... Perfino nei momenti in cui m’ingannavo d’esser normale, ero perseguitato dall’ombra del mio fardello, delle mie responsabilità. Quel dovere non poteva avere altro che un solo nome: loggia segreta del Conte di Saint Germain. Mi reclamava sin da quando ero un infante e il suo vibrante corno proveniva fin da Temple: avevo per tempo immemore declinato la loro richiesta, semplicemente perché ero ancora un bambino inesperto e sarei stato più un fastidio che altro. Invece ora avevo sedici anni e il mondo intero era destinato a evolversi ‒ a partire dal mio mestiere.
Il mondo mi crollò addosso mentre ogni mio proposito veniva gradualmente polverizzato ‒ “porterò io il tuo mondo[1] ‒ sotto la sordida realtà dei fatti che lei mi aveva gentilmente esposto ‒ “il tuo è già abbastanza pesante”.
Seppi, in quell’istante intriso della dannazione dell’Inferno, che ero fottuto ‒ così come il mio cuore e la mia razionalità. La mia aria interdetta parve rallegrarla, dato che i suoi occhi già sfolgoranti di loro s’accesero di un sadico compiacimento. Con una mano afferrò qualche assurdo aggeggio dei suoi e lo mollò a terra, sempre con gli occhi immobili sui miei.
Non diedi adito al moto di vorace curiosità che mi sopraffece e non staccai lo sguardo dal suo ‒ ciano contro giallo. I suoi occhi riflettevano del colore dei miei, creando un adorabile contrasto fra pagliuzze ambrate e quelle azzurre. La nostra breve fusione mi disorientò e mi portò a serrare le palpebre per trovare un rifugio, una tregua; quando li riaprii, la Ragazza-Dai-Capelli-Di-Fuoco stava armeggiando con il campanello di casa e non mi guardava più.
Non appena percepii le isteriche urla della mia coetanea Glenda da una delle finestre socchiuse ‒ “Muoviti, carogna, sei in ritardo ed è il tuo turno in cucina!” ‒ riconobbi che era il momento giusto per squagliarmela.
In fretta e furia, raccolsi il pegno che m’aveva offerto quella giovane Montrose e svanii insieme al vento.
 
 
 
 
2012.
 
Un asso di picche.
Erano ormai anni che mi rigiravo quella carta fra le dita, avido di carpirne i segreti e di tradurre il suo significato in qualche sentenza umanamente comprensibile ‒ era tipico di Grace, celarsi nella criptica nebbia della magia.
Avevo scoperto dopo breve tempo dall’acquisizione del mio nuovo asso che quella ragazza non era mai stata una sconosciuta: l’avevo già intravista tante di quelle volte, negli anni precedenti, che non riuscii a capacitarmene di come non l’avessi identificata da subito. All’epoca era solo una bambina, che scorrazzava nei corridoi per mano a Lord Montrose e che squadrava con gran curiosità ogni angolo della Loggia. Rossa di capelli, con gli occhi blu e quell’aria deliziosamente irrisoria: Grace Montrose non era per nulla cambiata, con il trascorrere del tempo.
Da anni a quella parte, solevo sedermi sulla mia scrivania di Gran Maestro ‒ una postazione cambiata spesso nel corso degli anni e stabilizzatasi soltanto dopo la morte del mio predecessore ‒ e ascoltare i sussurri che effondeva nell’aria il rilievo color ebano della picca.
Quella non era altro che la prima delle carte che avevo man mano collezionato durante la mia travagliata relazione con Grace Montrose. Come avevo già profetizzato in quel primo incontro, si trattava di una donna ossessionata dal misticismo filosofico e dall’alchimia. Una fattucchiera. Non si era rivelata una sorpresa per la mia esperienza sociale, dunque: l’avevo già ampiamente catalogata.
Sorrisi al pensiero ‒ avevo avuto ragione fin da subito ‒ e gettai la carta fra le altre: avevo raccolto oltre a essa un asso di fiori e un asso di quadri, sempre della stessa fabbrica. Ironia del destino: l’unico che mi mancava era quello di cuori.
Almeno non è un due di picche.” Queste erano state le tiepide parole di mio nonno Kenneth ‒ che sia benedetto in cielo ‒ quando m’aveva visto arrivare a casa con un’espressione inorridita e una carta da gioco in mano,tanti anni prima. All’epoca avevo interpretato quella carta come un ammonimento negativo, come il simbolo della disillusione e della rottura dei miei sogni. Grace Montrose mi aveva suggerito di finirla lì e di non continuare a vederla, neppure di nascosto, e fine.
Riconobbi soltanto l’anno seguente ‒ dopo una serie di indizi da parte sua ‒ che avevo frainteso le sue intenzioni: quello non era un categorico rifiuto bensì un invito alla sfida di conquistarla. Il primo degli assi: un’esortazione a procedere con il gioco. Un moto d’ira mi sfigurò i lineamenti quando rimuginai su quel tira e molla che si era protratto per anni e sulla disonorevole fede al suo indice quando aveva scelto Nicolas a me.
Grace Montrose non era stata altro che una truffatrice, in special modo nelle sue stesse sfide: aveva imbrogliato i partecipanti approfittandosi dei loro momenti di debolezza e ferendo più intensamente di qualsiasi lama ‒ spezzando un cuore innocente che le era da sempre appartenuto.
Rammentai la cieca rabbia, il sordido rancore, l’odio avvelenato che avevo serbato verso l’unico amico che mi era sempre stato accanto e che mi aveva fregato la ragazza anni prima.
La realtà era che la colpa era stata sempre e solo sua, che s’era rannicchiata in disparte e aveva permesso che due amici per la vita s’accanissero per il suo amore. Avevo perso tutto, in quei brevi frammenti di vita: amicizia, amore, gloria e speranze ‒ tutto infranto, tutto sepolto al di sotto di un cumulo di cenere. Mio padre aveva avuto ragione, a redarguirmi sull’amore di una donna.
La verità era che ero stato ammazzato dalle stoccate inferte da Grace a suo tempo e che ostentavo risolutezza nella speranza che qualcosa stavolta mutasse. La verità era che quella benedizione ancora mi regalava la speranza. La verità era che mi mancava soltanto l’asso di cuori.
Mi alzai dalla sedia e sbatacchiai la porta alle mie spalle con rabbia.
Forse adesso è lora di vincerlo, questo gioco.

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Capitolo 2
*** Asso di fiori ***


s  s  o    d  i    c  u  o  r  i  
                       
  
   *
 
 
 
 
Disclaimer: Questi personaggi non m’appartengono e non sono assolutamente usati a fine di lucro.
 
 
*
 
 
      Capitolo II ‒ Asso di fiori
 
         
{Sulle note di New Divide,
brano dei Linkin Park
e colonna sonora del film
Transformers}
 

 
 
1981.
 
 
 «È fantastico, papà.», stava snocciolando lei con la sua voce insopportabilmente melodiosa. Possibile che riecheggiasse come il suono delle dolci campane argentate della cattedrale di St.Mary-le-Strand? Possibile che fosse una carezza proibita e lasciva che non soddisfaceva a pieno il mio desiderio ‒ di possederla, di renderla mia oltre i confini dell’umanità?
Forse era soltanto un’altra delle mie paranoie, che erano in numero davvero eclatante in quei tetri giorni d’inverno. Stavo appunto consultando le cartelle dell’archivio alla ricerca di titoli inerenti al conflitto seicentesco con l’Alleanza Fiorentina, scartandone alcune e piazzandole su una grossa pila di fascicoli che si erano rivelati inconcludenti, quando la sagoma slanciata della ragazza rossa di capelli che infestava le mie notti insonni si materializzò davanti a me. Avanzò con passo aggraziato nella stanza, sbottonandosi malamente il cappotto signorile e gettandolo sulla scrivania vuota che, come tutto il resto dell’edificio, apparteneva a suo padre e quindi era una prolifica sezione del suo patrimonio ereditario. A mio malincuore, dovevo riconoscere che il clan dei Montrose progrediva nel bel mezzo dei più confortevoli agi che potesse accaparrarsi una ricca famiglia londinese: dopo la recente morte del nonno Kenneth ‒ avvenuta non più di due mesi prima ‒ era diventato Gran Maestro il suo devoto seguace Lord Lucas Montrose, comportando la naturale ascesa del suo lignaggio. Una delle regole più ferree della Loggia era che la successione seguisse il principio elettivo: i De Villiers più fanatici come mio padre avrebbero preferito la forca piuttosto che assegnare il proprio voto a un membro della casata “rivale”, tuttavia gli altri non concordavano con le loro tesi e avevano optato per affidare il delicato incarico all’uomo con maggior esperienza in campo cronografico, ovvero il vecchio e ammuffito patriarca dei Montrose. Si diceva che fosse già così decrepito perché aveva come primogenito un uomo già bell’e fatto e finito, il padre della futura viaggiatrice Lucy, che aveva concepito quand’era poco più che un adolescente e che si era trasferito da poco non-so-dove per evitare ogni genere di contatto con i consanguinei. Ammiravo quell’uomo audace: perlomeno, aveva avuto il fegato di affrontare i suoi parenti e sfuggir loro come la peste ‒ il passo che mio padre non aveva il coraggio di compiere.
I miei zii avevano prontamente dilapidato tutta la parte loro attestata del patrimonio del nonno, sperperandola nel gioco d’azzardo o nei capricci più superflui ‒ mastodontiche Ferrari o grandiose Jacuzzi incorporate di idromassaggio. Si erano ben presto rivolti all’unico fratello non rimasto al verde, ovvero mio padre, che aveva rimandato il suo verdetto, indeciso sul da farsi: aveva più volte confessato il suo timore che un rifiuto potesse un giorno essergli ritorto contro e che potesse più che altro danneggiare gli interessi di me e Paul in futuro. Odiavo quando ci utilizzava come giustificazione per la sua codardia. Lui aveva escluso a priori l’eventualità di consumare i lasciti del nonno: per lui si trattava di denaro maledetto, intavolato dal suo genitore come un anatema indelebile. Era il pegno di tutti i suoi sacrifici durante la vita e pareva che ringhiasse: “Non siete nient’altro che traditori del vostro stesso sangue.” Mio padre era da tempo ossessionato dagli spettri dei suoi demoni: le ombre della mamma e del nonno non facevano altro che perseguitarlo e condannarlo a quello stato catatonico di allucinazioni da cui non era più emerso da anni a quella parte ‒ beato lui, che s’era smarrito nelle dune della propria mente. C’era chi, come me, si perdeva da tutt’altre parti e non riusciva più a darsi una scrollata.
Fui interrotto da quel cruccio da un soave fruscio piuttosto vicino a me. Quando parli del diavolo...
Grace Montrose era tutt’altro che una creatura infernale: elegante nei suoi abiti sofisticati, con gli elfici lineamenti perpetuamente serrati in un’espressione serafica e un portamento decisamente regale, somigliava più che altro a un angelo.
Il suo arrivo fu suggellato dalla vellutata musica di “Claire de lune” di Debussy, trasmessa da quella microscopica radio che Lord Montrose s’ostinava ad accendere giusto per alleggerire l’atmosfera ‒ che secondo me si stava facendo invece sempre più greve, chissà perché ‒ e portare armonia perfino in quell’anfratto dimenticato da Dio.
Un singolo e furioso battito di cuore m’artigliò la gola mentre mi drizzavo di scatto e appoggiavo su un comò vuoto un vecchio scatolone polveroso che conteneva volumi di antiche profezie dei Guardiani. Non guardarla, non devi guardarla.
Sfiorai l’involucro di cartone con metodica perizia, esaminando il suo spessore e decidendomi soltanto all’ultimo momento a strapparlo con forza ‒ una cruda metafora con lo stato del mio cuore.
Non guardarla. Mi parve essere la sfida più astrusa a cui avessi mai acconsentito, non girarmi verso di lei e contemplare il suo corpo formoso e sodo sbucare dagli indumenti. Attinsi a ogni briciola d’energia per non esitare sui suoi fianchi a clessidra e non mettere in moto le mie fantasie giovanili più sfrenate.
Si trattava tuttavia di un proposito molto arduo da rispettare. Indossava una gonna scura stretta in vita da una cintura eburnea e una blusetta altrettanto candida e attillata che non celava a dovere le sue grazie femminili. Rivolgendomi un altro dei suoi abitudinari sorrisi burleschi appena accennati, si scostò dal volto i boccoli scarmigliati e li riordinò a casaccio in una coda di cavallo. Probabilmente il suo intento era quello di provocarmi. In verità avevo già assaporato il suo profumo di nascosto: applicava sui capelli uno shampoo ai fiori di pesco e all’albicocca. L’odore che sprigionava era delizioso: una miscela floreale decisamente appetibile nel bel mezzo dell’opacità del freddo invernale.
Lord Montrose, ancora dedito a catalogare brani degli Annali nel suo studio privato adiacente all’aula dove mi trovavo, gracchiò: «Falk, fatti pure aiutare da Grace. È insolitamente brava a sbrigare faccende del genere.»
Non guardarla. Percepii l’inebriante fragranza della sua pelle perlacea nel momento in cui si chinò ad aiutarmi a raccogliere i tomi che avevo ammucchiato sul pavimento. Le sue mani agili si muovevano svelte sulle rilegature, esplorando i volumi con ineccepibile rapidità e operando una minuziosa selezione fra di essi ‒ come le avevano più volte fatto notare, aveva la stoffa del Guardiano. Peccato che le donne fossero estromesse a priori dall’iniziativa: sarebbe stato tutto molto più divertente, con un paio di belle ninfette a vivacizzare quel fosco ambiente. Magari non saremmo stati a tal punto ossessivi verso gli ingarbugliati indizi lanciati dal Conte, se avessimo avuto pane per i nostri denti. Inoltre, il clan femminile delle Montrose non era così scarseggiante di belle risorse: sebbene quelle donne dannate avessero tutti i capelli da strega, erano tutte avvenenti, nei propri limiti. Perfino Glenda, una bisbetica irascibile da cui mi ero a stento liberato, aveva un fascino tutto suo. Avrei preferito tuttavia collaborare con una dolce schiera di aspidi piuttosto: quando si trattava di lei, conveniva scappare a gambe levate ‒ e io ero uno dei pochi che c’era riuscito indenne.
Grace non si dilettò in chiacchiere o in altri svaghi: con la coda dell’occhio, ebbi l’occasione di constatare che sembrava più che altro impegnata a meditare. Oh, quanto avrei voluto conoscere i suoi pensieri! Chissà cosa diavolo stava architettando nella sua mente diabolica. Pensai che forse mi detestava perché avevo chiuso con tanta brutalità con la sua adorata sorella maggiore ‒ ironia della sorte. Le uniche volte che non le avevo viste discutere animatamente era alle riunioni della Loggia, quando si erano limitate a occhiate in cagnesco e squallidi insulti a bassa voce ‒ avevo intuito che il vero conflitto sarebbe stato rimandato a un momento più opportuno. Quanto mi sarebbe piaciuto assistere a una loro lite e imprimere quelle scene nella mia temprata memoria! Magari si sarebbe rivelato spassoso: ce le vedevo, lei e Glenda, a battersi alla spartana in un’arena.
Risi al pensiero con sana spensieratezza, tuttavia ben presto un dolce impatto mi trascinò verso la deriva della realtà.
Fu in effetti l’unico contatto che ebbi con lei: le nostre dita s’incrociarono inavvertitamente sullo stesso libro. Senz’alcuna esitazione, avevo adagiato i polpastrelli su una copertina color verde bottiglia per inquisirne i tratti distintivi e valutare se fosse da stilare o meno sulla mia nuova lista, e così aveva fatto anche lei. La sua carne si dimostrò, come al solito, un caldo e accogliente invito di primavera: la sua consistenza era soffice, aromatica, sublime. Era un tessuto impregnato dell’essenza delle meteore e di quella lunare, proveniente da altre galassie e lontano dallo sferzante gelo che soffocava i corpi e le menti in quei mesi freddi. Sembrava che fosse un velo d’avorio offuscato dalla solennità dei libri che ci attorniavano e che facevano scemare ogni confine di quel mondo terreno. Esaminai inconsuetamente le piccole pieghe sulle sue falangi, gustandomi la morbidezza con cui s’arrendeva alla mia indagine e al mio tocco inesperto. Non mi degnò comunque di un’occhiata ‒ neanche una minima bozza ‒ e proseguì a scartabellare l’elenco che teneva sottobraccio a mo’ di diario segreto. Alzai il capo con l’intenzione di incontrare il suo sguardo e di smarrirmi almeno vagamente nel mondo di luce che celavano, ma così non avvenne: come ogni altro scorcio di lei, era distante anni luce da me. Non so quante fossero le preghiere che invocai in quel momento per farla fondere con me almeno emotivamente. Come prevedibile, Dio non m’ascoltò: non l’aveva fatto al funerale di mia madre ‒ quand’ero ancora un bambino fedele alla dottrina spirituale ‒, non l’aveva fatto a quello del nonno ‒ quand’ero un adolescente in disgrazia prostrato dinnanzi a innumerevoli fardelli ‒ e non l’avrebbe fatto per esaudire la mia fresca brama d’amore ‒ ed ero un giovane uomo aggravato da sacrifici portentosi che non volevano saperne di darmi pace. Non era che Dio ‒ intendo l’entità suprema per eccellenza, venerata sia dai cattolici che dagli anglicani ‒ avesse una gran considerazione di me: forse ero il primogenito del malaugurio, quello su cui ricadevano le più gravose responsabilità e a cui toccava rimboccarsi le maniche per compiere il lavoro sporco ‒ rinunciando alle promesse di gioia che talvolta facevano capolino da un orizzonte a me estraneo. Uno di quei piccoli miracoli era Grace Montrose: sfavillante d’energia e di vitalità, era un respiro profondo concesso durante un’apnea. E, come quel minuscolo sollievo, era illecita.
«Levati dai piedi.», sibilai a denti stretti, furibondo perché rifuggiva le mie attenzioni come un’agile gazzella braccata da un leone. Sfogai la collera su un documento, artigliandolo con malagrazia e scaraventandolo sulla sua mensola con uno scatto violento.
Tutto ciò che avrei voluto fare era voltarmi e urlarle a pieni polmoni di non scappare via da me ‒ d’altra parte, rientrava nei divieti della mia vita.
Lei si voltò a scrutarmi con un’espressione d’artefatta innocenza che non lasciava affatto presagire la crudeltà interiore con cui mi respingeva da sempre ‒ svettava il famigerato asso di picche. Dapprima insofferente e in seguito scintillante di un nuovo moto di scherno, non si scostò di un millimetro. In compenso, incrociò le braccia e mi concesse una breve smorfia sprezzante ‒ da quando s’era azzardata a fregarmi il ruolo? Aveva rubato a Glenda quel cipiglio d’incontestabile superiorità che sfigurava le sue eteree fattezze.
«Come ben sai, Falk, sono la figlia del tuo capo e non una qualsiasi sguattera che obbedirà ai dettami di un insolente bambino come te. Impara a portare rispetto ai tuoi superiori e avrai già appreso il modo con cui fare carriera.»
Lapidaria.
Chiusi gli occhi, indugiando a lungo sul tono tagliente eppure inconsapevolmente ammaliante della sua sentenza. Aveva discorso con appena un filo di voce eppure aveva polverizzato con una certa facilità la corazza della mia anima.
«Le tue insinuazioni mi sembrano piuttosto ingiustificate, stupida Pel-di-carota.»
L’insulto con cui avevo chiuso la frase risuonò infantile e patetico persino a me stesso. “Stupida” non era davvero, considerando quanto aveva già potuto dedurre sulla Loggia e su come si era spremuta le meningi sui suoi segreti; quanto a “Pel-di-carota”, mi parve quantomeno assurdo denigrarla per una delle caratteristiche che contribuivano a renderla così affascinante ai miei occhi ‒ era la mia Montrose proibita, nel bene e nel male.
Distolse di nuovo gli occhi, uccidendomi un’altra volta ancora nel suo poco, e bisbigliò: «Parla per le tue, Occhi-gialli».
Esalai un sospiro di compiacimento, mentre rimuginavo sulle sue parole. “Occhi-gialli” era una frecciata migliore di “insolente bambino” e su questo non c’era dubbio: significava che mi aveva esaminato quanto bastava per scorgere sprazzi piuttosto definiti del mio aspetto. Inoltre, ammetto che il colore delle mie iridi era uno dei tratti di cui andavo più orgoglioso e sapere che lei l’aveva notato mi faceva stare meglio ‒ molto meglio.
Un sorrisetto compiaciuto mi comparve a fior di labbra mentre mi davo da fare per soppesare altri due manufatti che intuii fossero di vecchia data. Il suo sguardo si soffermò su di me solamente per un istante, giusto perché era una delle sue prerogative, essere inevitabilmente stregata dai misteri più arcaici custoditi dalle pergamene più antiche. Sbirciò il tesoro fra le mie mani con un’espressione avida, quasi famelica, aggrappandosi a uno scaffale per sporgersi verso l’enigma cartaceo che stavo srotolando con lentezza.
«Non c’è bisogno che tu mi osservi in quel modo, Montrose. Sono già a conoscenza della mia incredibile avvenenza.», sussurrai, perdendomi nei deliziosi petali delle sue palpebre che si dischiudevano rivelando quegli occhi incantati ‒ oltre che incantevoli.
Grace si ricompose freddamente in un solo attimo, drizzando la schiena e le spalle. Mi scoccò un’occhiata in tralice ‒ totalmente contrapposta alla premura che rivolgeva alle risorse bibliografiche ‒ e rise beffarda, contrattaccando con destrezza alla mia stoccata un po’ fiacca.
«Quando ti guardo, Falk De Villiers, non vedo altro che un giovane Peter Pan rinchiuso nella sua stessa fiaba e incapace di dar adito al proprio cervello. Per quanto ne so, poi, l’avvenenza non è da annoverare all’esigua manciata di virtù che puoi vantare. Potrei sempre sbagliarmi e avere un cattivo gusto in fatto di ragazzi, sai. Non prendertela troppo, in ogni caso: essendo a conoscenza della tua vena da predatore di donne e della tua inconfessabile mania verso le fanciulle più giovani, non ti enumererei fra i tizi più raccomandabili in circolazione. Inoltre, hai spezzato il cuore di mia sorella Glenda e non riuscirò mai a perdonarti l’insensibilità con cui l’hai rovinata. È il caso di dirlo: tu mi repelli
Sorridi, Falk, che la vita è bella.
Dovevo farlo, in ogni caso: quei fendenti erano più laceranti di qualsiasi altro colpo io avessi subito nel corso della mia breve esistenza. Mi sforzai di superare a cuore aperto quegli anatemi scagliati con immensa ferocia e di affidarmi a quell’accenno di resistenza che si stava facendo strada fra i miei bronchi per prendere il sopravvento sulla mia anima dolente. Sorrisi debolmente ‒ le eco delle sue accuse, un vivido richiamo nel vento ‒ e mormorai: «Beccato.»
Una volta tanto, piantò gli occhi sui miei ‒ schierando una scia di brividi sulla mia spina dorsale ‒ e ribatté seccamente: «Non riesco ancora a capire perché tu l’abbia mollata. Sei un tipo decisamente indecifrabile, quando vuoi.»
Le sue dita tremolarono quando estrassero alcuni libri dalle loro dimore originarie per concedere alla loro proprietaria di identificarli. Sì, era decisamente infuriata con me.
Osservai i suoi movimenti leggiadri e un po’ affettati, consistenti in guizzi fulminei del polso, che le permettevano di muoversi con sicurezza fra i titoli in esposizione. Consultava i volumi con foga, i nomi che comparivano via via sulle sue labbra purpuree che li pronunciavano senza appellare la propria voce, le dita atte a scendere soavemente sulla carta e a carpirne le nozioni più rilevanti. Dopodiché, riponeva il tomo alla sua postazione primigenia e passava a quello accanto.
Fu sempre con lo sguardo inchiodato sul suo ritratto animato che replicai: «La speranza è l’ultima a morire.»
Si voltò verso di me, quella volta, mollando persino il tomo che stava reggendo. Pensai che forse quelle parole, esalate come la confessione di un moribondo, avrebbero sortito un qualche effetto positivo: lo avevo da sempre ritenuto troppo banale, giocare con i cuori delle donne. Erano pedine estremamente manipolabili, al punto che una singola farsa sentimentalista poteva riuscire a ingannarle. Non ero mai rimasto attratto dalla supremazia ancestrale che caratterizzava l’uomo, a differenza dei miei avi ‒ si narrava che il Conte fosse un maschilista convinto che aveva rinnegato la compagnia femminile.
Come avrei dovuto aspettarmi, Grace non rispettava la tradizione: mi venne addirittura il dubbio che fosse una donna e, acciuffando al volo l’occasione, valutai le curve del suo sedere. Non aveva mai manifestato, in oltre un anno, delle preferenze sessuali: quand’era reclusa negli uffici del padre, era un’affidabile assistente concentrata esclusivamente sui propri doveri. Sebbene scorrazzassero per quei corridoi i più bei rampolli De Villiers ‒ compresi i nativi della Svezia, dotati di corpi imponenti e di occhi color verde mare ‒ lei non aveva mai infranto il suo protocollo di severità e non si era mai soffermata sui loro volti, a differenza della sorella che invece aveva sfoderato tanto d’occhi dinnanzi a tanta virilità.
Dopo che mi ebbe squadrato dall’alto in basso, con le braccia occupate a cingersi protettiva e a difendersi dalle mie frasi menzognere, sbuffò furtivamente e alzò gli occhi al cielo.
Cos’è andato storto, stavolta? Ignorai il sordido batticuore che mi stava sfiancando e provai a sospirare e accettare quegli schiaffi morali come se non fossero pubbliche umiliazioni bensì suggerimenti confidenziali. Era una squisita idea solo nella mia immaginazione.
«Mi odi, Falk?», domandò a bruciapelo, come se non fosse più in grado di tollerare quella buia coltre di tempeste che s’interponeva fra di noi.
, avrei voluto dire, tanto. Grace Montrose era stata la prima femmina a respingermi con tanta fierezza e a mandarmi segnali così contraddistinti e inequivocabili ‒ la sua maledetta carta da gioco. L’avevo a lungo considerata una delle sfide più accattivanti della mia vita ma mi ero ben presto rassegnato: dopo cinque volte che avevo insistito a seguirla per ravvicinarla, mi era sfuggita. In compenso, avevo catturato le attenzioni di sua sorella che non aveva affatto disdegnato il mio aspetto e si era presentata sempre più spesso alla sede a Temple. Uno scambio di sguardi, un paio di sorrisi, un bacio nello sgabuzzino: io e Glenda Montrose ci eravamo fidanzati in un intervallo imprecisato dell’autunno appena trascorso. Non era andata molto bene: dopo appena una settimana, avevo già  pianificato di rompere con lei. Non avevo affatto scordato sua sorella ‒ la cui essenza ormai scorreva nelle mie vene insieme al sangue ‒ ed era diventata decisamente insopportabile. Gelosa di quella, gelosa di quell’altra, gelosa perché aveva un brufolo e Grace no, gelosa perché il tizio più carino della squadra di badminton aveva ammiccato solo alla sua amica e non a lei, gelosa che io non ero abbastanza protettivo nei suoi confronti: in breve, una ragazzina appiccicosa che non riuscivo a scrollarmi di dosso.
Odiavo Grace Montrose? La verità era che non la odiavo, nemmeno un po’, nonostante mi avesse fatto sudare le sette camicie e non fossi stato comunque all’altezza delle sue criptiche prove. Probabilmente è così, quando ci s’imbatte nell’amore puro: nessuna fatica conta, purché si raggiunga il risultato. Io avevo fallito in ogni caso, oppresso dall’incommensurabile rete di insidie che m’avevano assalito: il verdetto era stato quello ‒ l’asso di picche, il simbolo della mia sconfitta. Colmo di rammarico, m’ero rintanato in me stesso e avevo convissuto con i brucianti echi di quel fiasco, limitandomi ad andare avanti e a reprimere ripetutamente il risentimento che mi straziava.
«Non ti ho mai odiato, Grace, neppure quando mi hai rifiutato.»
Quella conclusione, sospirata flebilmente, parve raffigurare la frattura del mio petto. Da un lato, una frazione si sentiva tradita ‒ stupido, stupidissimo orgoglio ‒, la vittima mietuta in un complotto ordito dal folle Amore che mi teneva in suo pugno; dall’altro, la diga incustodita che manteneva integro il confine fra sogni e verità si era spaccata, rivelando al mondo cosa celavo nell’anima. Forse Grace era insaziabile anche per quanto riguardava i miei sentimenti, chissà.
Per una volta, s’accostò a me, chinandosi per sussurrarmi all’orecchio: «Non ti ho mai rifiutato. Ti ho solo dato il primo degli assi. Stava a te giocare.»
Stava a te giocare. Quella frase palpitò nella mia mente come se fosse incatenata ai battiti del cuore: la scandivo con perizia mentre mi rimbombava nelle arterie, pompata insieme al sangue e vibrante d’elettricità. Mi colse un moto di vertigini mentre i miei pensieri, disorientati da quella strana confutazione, si perdevano nelle memorie.
«Stronzate.», sentenziai, infine, con le nocche talmente contratte da esser diventate smunte. «L’unico gioco a cui ho partecipato è stato uno da Inferno in cui ho perso la mia testa e la mia vocazione. Volevi maledirmi sin dal principio.»
Mi fissò tristemente, come se mi fosse sfuggito proprio il fulcro della sua strategia. I suoi occhi azzurri scintillarono d’oro e d’arguzia quando si spalancarono per spiegarmi con urgenza: «Dovevi soltanto giocare.» Detto ciò, si sistemò gli indumenti e ritornò a lavorare come se niente fosse. Gli arti nivei di Grace costellavano i ripiani e accarezzavano i libri trepidanti dell’amore che riservava solo a loro.
Quando registrai le sue parole, pensai che fossero soltanto calunnie improvvisate in quell’istante. In un secondo momento, mi fermai a riflettere e giudicai che forse avevo davvero combinato un casino: avevo terribilmente frainteso il suo messaggio. Il primo era stato l’asso di picche. “Almeno non è un due di picche.” Era stato il commento del nonno Kenneth quando aveva distinto la carta fra le mie mani. Picche: il primo dei semi neri. Quello più fatidico da conquistare e la parte del gioco che io non ero riuscito a terminare in quell’intervallo di tempo ‒ un anno e qualcosa in più.
La rivelazione arrivò sferzante come il vento e altrettanto rimpianta: mi ero arreso al vuoto quando avrei potuto proseguire e vincere senza dar dimostrazione di viltà. Il mio blocco non era stato nient’altro che un’inerzia: scaraventato contro la colonna delle negazioni, non avevo potuto fare a meno di sfoggiare la mia corazza d’acciaio e di ricercare la catarsi nello scempio che stavo vivendo.
L’asso di picche, nitido negli alvei del mio cervello, non era null’altro che il vessillo d’inizio nella scacchiera ideata da Grace: non era un pegno d’arresto bensì un invito a procedere con le altre tappe ‒ gli altri assi. Dovevo arrivare a collezionare un poker d’assi per aver il trionfo ‒ quella intricata femmina di una Montrose ‒ in pugno. Sigillai le labbra per qualche altro attimo e assaporai le dolci sfaccettature di quel silenzio profetico: non m’aveva scacciato via, allora. Ero ancora salvo.
Eppure mi domandavo se la pausa di quell’anno trascorso nell’erudizione eremitica non facesse la differenza.
«Quindi ho perso?», chiesi infine, sputando fuori il quesito che tanto m’angosciava. «È finito il gioco, giusto?».
Non volevo sapere la risposta: m’avrebbe assillato, torturato, reso folle. Quelle afflizioni erano semplicemente troppo asfissianti per me.
Preferivo crogiolarmi nella meraviglia per quel brusco risveglio che patire per un altro insuccesso, quella decisivo.
«Il gioco è nelle tue mani e solo tu puoi decretarne la fine.», rettificò Grace, sempre dedita ai suoi fascicoli e senza studiare la mia reazione.
«Tu cosa preferiresti, che io giocassi o no?», pretesi ancora di sapere. Senza accorgermene, m’ero pericolosamente appressato a lei e potevo quasi lambire i suoi capelli con le labbra. Il suo alito era un morbido spiffero di gigli. Sebbene avesse il respiro smorzato dalla vicinanza, insisteva nell’ignorarmi.
«Onestamente, non sarei qui ad aspettare come un’ebete se non lo volessi ‒ se non ti volessi ‒ con tutta me stessa.»
Non rimuginai oltre: ritenni che il pensiero per un uomo non fosse nient’altro che un impertinente brusio che destava i cuori dalla collina delle follie ‒ ed io desideravo ardentemente smarrirmi in quel dolce oblio. L’afferrai per i fianchi, sbattendola malamente sullo scaffale dietro di lei. Mi avrebbe presto riempito di ceffoni, perciò non esitai oltre e, prima che potesse in alcun modo effondere veleno dalla bocca, le catturai le labbra fra le mie.
Non so da quanto tempo anelassi il tepore di quel bocciolo che si dischiudeva soltanto per profetizzare la mia rovina: forse da mesi, forse sin da quando l’avevo conosciuta, forse era scritto nelle stelle. La strinsi tra le mie braccia, giacché era vera, e la sistemai gentilmente in un angolo della scrivania abbandonata, percorrendo con le mani la sua pelle lattea che si cospargeva intanto di brividi. Non so che tipo di bufera mi stesse dilaniando per essermi ridotto a una tale bestia.
Quel che sapevo era che lei aveva un gusto prelibato, così invitante che non fui capace di rinunciare al suo dono neanche per riprendere fiato. Le labbra che prima mi sembravano sacre erano lì, schiuse sotto le mie, ormai incandescenti per l’irruenza che ci trascinava sempre più oltre, ai confini del desiderio, di quell’oceano di carta e passione che s’intrecciava tra di noi.
Non riuscii a contenermi e con le mani perlustrai la pelle bollente protetta dai vestiti, sfiorandole il ventre e risalendo fino alla gola.
Fu allora che Grace Montrose si stancò della mia ispezione e prese l’iniziativa ‒ un modo delicato per lasciar intendere che s’avventò su di me per vendetta. Era spietata perfino nei baci: deliziava le mie labbra arpionandole alle sue e insinuava la lingua contro la mia, per poi lasciare insoddisfatto il mio anelito ed esasperarmi con le sue lievi carezze di velluto. Mi sfiorò con le dita ‒ che avevano sperimentato fino a quel momento soltanto la rigidità dei libri ‒ e scese lungo il mio petto e sostò sui miei addominali.
Un piccolo gemito risuonò nell’aria, incontrollato: realizzai sconvolto che apparteneva proprio a me. Lei, evidentemente compiaciuta d’avermi strappato quell’impulso di passione, sorrise sulle mie labbra e mormorò: «Taci, o mio padre s’accorgerà che il suo dipendente non rispetta le sanzioni da lui previste.»
«Al diavolo le sanzioni!», mi sfuggì mentre tentavo inutilmente di riprendere possesso sul suo corpo. Istintivamente indignato, le feci anche notare: «E io non ero quel tizio poco raccomandabile che ti repelleva?».
Lei s’aprì in un sorriso sghembo fulgido di splendore che avrebbe fatto invidia al sole per la sua lucentezza. «Ognuno ha i suoi vizi.»
Avrei voluto aggredire le sue labbra solo per quella perla di saggezza ma decisi che era anche il mio compito estenuare il suo corpo.
«E non mi odiavi per ciò che ho fatto a tua sorella?», indagai, lascivo, giocherellando con i riccioli sfuggiti dalla sua acconciatura.
Mi fissò e parve accorgersi che avrebbe dovuto mantenere il suo cipiglio iracondo piuttosto che gettarsi fra le mie braccia. Infine optò per un «Al diavolo Glenda!» e s’appigliò alla mia spalla.
Mi prese la mano con amabilità e la perlustrò a fondo, esitando sulle increspature ricurve sul palmo e accarezzandola da cima a fondo. Con sollecitudine sospinse la mano verso la tasca della sua gonna e lì mi lasciò indugiare. Esplorando il tessuto potei percepire una carta sottile e tagliente come una lama: seppi cos’era ancor prima di estrarlo con impeto ‒ l’asso di fiori. Lo appoggiai sul tavolo e tornai a dedicarmi alla piccola dea fra le mie braccia, che si dimenava per assumere il controllo della situazione, com’era suo solito.
Ripresi a baciarla con foga, giusto perché anche lei mi repelleva, e pensai che forse ne era valsa la pena di quell’anno anno di solitudine. Posai le mani sui suoi fianchi e la strinsi ancor di più a me ‒ doveva comprendere che prima o poi avrei vinto perfino l’asso di cuori.
Sbirciai da sopra la sua spalla la carta luccicante sotto i raggi che sbucavano dalla vetrata cristallina dell’aula: avevo completato il duo dei semi neri.
Mi mancavano soltanto altre due carte.

 

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Capitolo 3
*** Asso di quadri ***


s  s  o    d  i    c  u  o  r  i  
                       
  
   *
 
 
 
 
Disclaimer: Questi personaggi non m’appartengono e non sono assolutamente usati a fine di lucro.
 
 
*
 
 
      Capitolo III Asso di quadri
 
         
{Sulle note di Beautiful Crime,
brano di Tamer
e colonna sonora del trailer della serie televisiva
Daredevil}
 
[2] Dal testo della canzone.

 
Mio padre abitava in una fortezza murata appena fuori Canterbury: attorniata da una fitta nebbia in cui sarebbe stato impossibile distinguere perfino la luce di un lampo, era soprannominata nella cittadina come “Castello degli Spettri” per via della sua atmosfera ermetica. Si vociferava che fosse infestata dai più temibili demoni infernali e che chi osasse sostarvi fosse automaticamente destinato alla dannazione eterna: chiunque vi risiedeva, anche per breve tempo, era ritenuto l’artefice dell’evocazione di quegli esseri mostruosi e quindi compartecipe dei rituali satanici svolti in quel luogo sinistro. Talvolta i passanti riuscivano a scorgere luci vivide dalle finestre: si trattava di bizzarri fulmini anneriti circondati da aloni rossastri ‒ e si diceva che ognuna di quelle saette sancisse l’arrivo di un nuovo demone sulla Terra.
Perfino l’arcivescovo aveva decretato che quel fosco meandro era soggetto alla supremazia di forze oscure e ignote e che pertanto fosse un posto da cui scappare, se possibile, a gambe levate. Non avevo idea di come un ragazzino come Paul fosse conciliante all’idea di giocare nel piccolo orto su cui s’affacciava l’edificio: non vi proliferava un filo d’erba e i protagonisti indiscussi in quello scenario erano gli avvoltoi, che s’acquattavano sugli alberi in attesa di mietere qualche vittima animale. Personalmente, io avrei avuto paura a mettere un piede fuori dalla soglia di casa ‒ e già quella non era nient’affatto rasserenante. Per mia fortuna, mio padre aveva traslocato lì dopo che avevo compiuto i sedici anni e quando stavo quindi soggiornando in affitto dal nonno ‒ per terminare i miei studi ‒, il cui appartamento mi era stato poi lasciato in eredità secondo le volontà del testamento in seguito alla sua scomparsa. Mio fratello era stato tuttavia costretto a trascorrere il suo tempo in quel maniero e ‒ fatto ancor più sconcertante ‒ sotto la tutela di nostro padre. I Guardiani s’erano più volte dimostrati contrari a quel proposito. Le fondamenta della loro logica analitica rimanevano le stesse: Paul non era un semplice futuro adepto bensì il nono dei viaggiatori nel tempo e, come tale, avrebbe dovuto vivere nel privilegio e nel prestigio ‒ come accordato dalle norme stabilite dagli Annali. Avrebbe dovuto seguire corsi specializzati in una serie di discipline in voga nei secoli passati e avrebbe dovuto essere controllato nella condotta ‒ che doveva essere degna di un galantuomo ‒, negli usi e nei costumi. Mio padre aveva replicato che per quelle emerite stronzate c’era ancora tempo e che, da quando era morta la mamma, era lui il tutore dei suoi figli. Alla fine, per nulla convinti, i Guardiani s’erano arresi all’evidenza: quell’avaro di un De Villiers aveva un aspetto talmente esangue che supposero sarebbe un giorno di quelli collassato a terra, stecchito, e loro non avrebbero dovuto far altro che aspettare quell’evento per poi calarsi in picchiata sul premio che tanto agognavano ‒ l’innocente anima di Paul. Per il resto, a nessuno importava che il mezzano della progenie di Kenneth De Villiers fosse uno schizofrenico sul punto di morire segregato in una roccaforte costruita, invece che in mattoni, d’incubi.
I miei zii paterni pretendevano soltanto un esito, quello dei soldi, e la mia zia di parte materna era all’erta perché consapevole che l’affidamento sarebbe toccato a lei ‒ sebbene non fosse così ben disposta verso di noi.
Su un singolo punto delle tesi di quei bastardi potevo trovarmi d’accordo: mio padre era ormai decrepito. Non si vedeva più traccia di muscoli sulle sue braccia e la pelle era così sottile da lasciar intravedere la sagoma delineata dalle ossa; sembrava ormai sbiadirsi fra le pareti lignee del suo studio mentre allungava gli arti una sola volta al giorno, per raggiungere ogni sera la lettera che aveva tanti prima abbozzato per la mamma ‒ prima della sua morte ‒ e che non aveva mai avuto il coraggio di spedirle. Pensavo che contenesse oscenità sul suo passato o vergogne mai esternate: quando la rimirava, era assorto nella sua malinconia da cui non si riprendeva per ore intere. Un altro fattore che rendeva mio padre un’eco delle tenebre era la perdizione espressa dai suoi occhi vitrei: si muoveva nell’ombra, rapito da chissà quale inquietudine, e aleggiava nell’oscurità come se ne fosse parte integrante.
Sembrava che il Castello degli Spettri rispecchiasse l’ecatombe che lo devastava: il compianto dovuto al lutto dei suoi cari corrispondeva a quell’angosciosa e sanguinaria scalinata tramite la quale si recava nel suo personale santuario ‒ un anfratto dedicato ai ritratti della mamma e ai pegni terreni che gli restavano di lei ‒ da cui si destava soltanto per concedersi una manciata d’ore di sonno. Nonostante il suo comportamento senza vita, s’ostinava a fingersi ancora un De Villiers, altezzoso e opportunamente risentito, e a bere come se fosse l’unica gradevolezza che gli fosse permessa.
Insistevo tuttavia nel giudicare l’esilio di mio padre come un onorevole martirio: dopotutto, stava compiendo quei sacrifici al fine di non vanificare i rigorosi precetti del nonno e di non farci diventare le copie viventi di ciò in cui lui s’era mutato ‒ un altro spettro riflesso allo specchio.
Facevo ricorrenti visite in quel luogo maledetto per assicurarmi che andasse tutto per il verso giusto e che mio padre non rovinasse anche l’infanzia del suo secondogenito. Ero sempre visibilmente preoccupato per Paul e per la sua educazione: non volevo che la disperazione che affliggeva nostro padre contagiasse anche la sua crescita. La mia apprensione non faceva che infastidire mio padre che riteneva che me ne curassi soltanto per i miei doveri di primo assistente della Loggia. Perciò tentai di sfoggiare un’espressione mite e pacata ‒ nonostante la bufera dentro ‒ non appena varcai quegli ombrosi confini.
Quando suonai il campanello e oltrepassai il vano fra il cancello in ferro battuto e il maestoso portone che forniva accesso all’atrio, riuscii a distinguere il pallido profilo del mio genitore che scrutava la propria immagine nello specchio annidato accanto all’entrata.
Notai che si era fatto ancor più smunto rispetto alla mia ultima visita: i capelli d’argento erano ormai sciupati e unti; il volto, che anni addietro era stato decantato da una sfilza di donne per la sua sontuosa bellezza, s’era trasformato nella sua versione incupita e deturpata dall’età; la sua corporatura non era più vigorosa e atletica bensì scheletrica e emaciata; la sua carnagione non era più levigata come un tempo ma sfigurata da grinze di depressione e rughe d’esperienza, oltre che ad apparire coriacea per lo sfiancante lavoro di tollerare tutte quelle catastrofi senza arrendersi all’ineluttabilità della vita. Le sue spalle ossute mi rammentarono quelle di Grace, quando le avevo strette con dolcezza durante il nostro primo incontro ‒ maledizione, non dovevo pensarci! Mi sforzai di pensare piuttosto a Kristen Hershey, che, sebbene presentasse un vago tessuto adiposo sui fianchi, aveva un davanzale stratosferico e non un paio di mozzarelle qualunque al posto del seno. Ecco, molto meglio.
«Che dispiacere vederti, figliolo. La Pel-di-carota se l’è data a gambe, non è così? Tutte quelle streghe lo fanno, prima o poi. Entra, che ti offro io un bel brandy toccasana.»
Paul poltriva sul divano e sorseggiava pigramente un bicchiere colmo di liquido ambrato che somigliava incredibilmente a birra. Mi studiò con zelo come se fossi un ispettore che gli voleva rubare le caramelle. Magari, se ce le avesse avute! Barcollai verso di lui, con aria inferocita, e iniziai a strillare come un oratore in piazza.
«Paul, molla immediatamente quella birra, prima che ti spedisca in gattabuia!», lo redarguii, fregandogli la bibita di mano e tracannandola tutta d’un fiato.
A mio padre brillarono gli occhi, come a dire: “Il vecchio Falk è tornato.” Non osò profanare quel momento di tregua più unico che raro con un’esplicita provocazione, nonostante gli leggessi il trionfo nello sguardo, ma s’azzardò a scaldare le acque: «Osservo con piacere che hai finalmente smesso di spacciarti per il damerino di quel vecchio brontolone di un Montrose.»
La microscopica vittoria sul suo antico rivale sfavillava nelle sue iridi come se fosse infervorato da un moto di pura ripicca. Quella rappresaglia sembrava essere destinata a non estinguersi mai, neppure tra le fiamme dell’Inferno.
Stentavo a credere che, sebbene si fosse ridotto a quella creatura macilenta, covasse ancora quel suo cruento rancore verso la famiglia che aveva sostituito il nonno sul trono della Loggia. Mio padre s’era ritirato tanti anni prima, per esaudire l’infausto desiderio di mia madre prima che ella spirasse, e non si era mai crucciato di quella scelta: forse per non disonorare la memoria di mia madre con un tale affronto; forse perché non aveva mai eccelso in quell’ambito o forse perché con il lutto di sua moglie aveva effettivamente perso ogni cosa. Rimaneva comunque preda dell’odio che l’aveva già avvelenato in gioventù, tanti anni prima.
La sua presenza in quella dimora demoniaca non guastava affatto: era l’ennesimo fantasma che invadeva il Castello degli Spettri, dotato di poca carne e una gracile ossatura.
Quando ebbi terminato la bevanda e la percepii ardermi nello stomaco, non indugiai ad afferrare un bicchiere di cognac ‒ intuii che mio padre avesse già consumato gli altri superalcolici ‒ e a svuotarlo in un sorso. Impulsività, Falk, impulsività. Rimasi un attimo spiazzato dal velo che cominciò a offuscarmi i sensi e mi smarrii in quel dolce torpore che non mi coglieva da tempo immemore. Ero disorientato dall’estasi di quell’ebrezza: prendeva il sopravvento sui miei pori e li armava di vertigini. Riconobbi in quello stato di semicoscienza uno squarcio salvifico: una visione così sfuggente delle cose, perlomeno, non aveva il potere di scalfirmi. Potevo già sciorinare una lista di ferite che non si sarebbero mai rimarginate: Grace Montrose non s’era trattenuta e aveva dato il meglio di sé con i suoi artigli affilati che m’avevano ripetutamente violato la carne. Scacciai lo stesso sconforto che m’attanagliava da un mese a quella parte e mi soffermai piuttosto sulla caraffa di cristallo da cui s’abbeverava mio padre. E così, per scampare ai mali del mondo, tutti i De Villiers prediligevano l’oblio dei sensi: buono a sapersi. Sarei diventato perfino io in quella maniera, un giorno? Mi sarei ridotto a un vecchio eremita segregato nella propria mente e accompagnato da ombre insonni? Sperai con ogni briciola del mio animo che non fosse così.
Mio padre mi scoccò il sorriso più sarcastico e sgradevole che potesse ideare: «Ora sì che ti riconosco, Falk. Dov’è la fattucchiera fulva?».
L’aveva chiamata così anche l’ultima volta che era venuta con me, ovvero circa un paio di mesi prima. Lei non se l’era presa soltanto perché l’avevo avvertita in tempo del disgusto che lui nutriva per i Montrose, a prescindere dalla generazione e dalle loro azioni.
Pensai amaramente di rispondergli: “È a farsi fottere, letteralmente.” Gli schiamazzi di una risata riecheggiarono nel mio cuore ormai marcio d’amore ‒ tante, troppe disillusioni. Rimuginai su di lei, sulle promesse che avevamo stretto avvinti sotto al firmamento ‒ “Sei mia?”, “Ti apparterrò sempre.” ‒, e sulla graduale metamorfosi che ci aveva condotto a quella scissione definitiva. In una scala da uno a dieci, io avevo sofferto cento e lei forse due, nonostante l’infinito che m’aveva giurato sotto il suggello del cielo.
Tra quelle promesse in cui io avevo investito ogni capitale di me stesso ‒ ben più caro del denaro ‒, ne aveva infrante la maggior parte. Se la memoria non m’ingannava, soltanto una era la superstite della sua strage ‒ “Quanto ci vorrà prima che io conquisti tutti gli assi?”, “Settimane, mesi, anni, forse di più.”
In effetti, l’asso di fiori risaliva esattamente a tre mesi prima. Scintillava ancora nella mia tasca come se fosse un marchio benefico piuttosto che la testimonianza della voragine in cui ero precipitato. Avevo sperato a lungo che, in quell’unico mese trascorso in serenità, Grace Montrose avesse potuto consegnarmi l’asso di quadri, la penultima tappa di quel viaggio negli abissi del suo cuore. Essere a metà strada, assurdamente, mi aveva dato sui nervi: mi ero sentito ancora impotente, come se non la conoscessi abbastanza, e ciò mi aveva reso sempre più ansioso e possessivo nei suoi confronti. Nonostante la relazione con lei non fosse né consolidata né ufficializzata, non tolleravo le occhiate moleste che i maschi rivolgevano alle sue floride forme. Quando glielo avevo fatto notare, senza astenermi dal palesare quella vena d’irritazione, lei era scoppiata a ridere ‒ sempre con quella sua straordinaria magia ‒ e mi aveva baciato la guancia, come se la mia gelosia non avesse fatto altro che intenerirla. Allora già avevo previsto che Grace m’avrebbe fatto ammattire, ma non sapevo fino a che punto.
Una settimana dopo s’era presentata nel mio ufficio con un’aria affranta ed io, senza riuscire a opporre resistenza ai miei impulsi primitivi, l’avevo abbracciata, tentando di consolarla e di rinsavirla da quella negatività che stonava decisamente sui suoi graziosi lineamenti.
“Mio padre l’ha scoperto. Si è arrabbiato perché non gliel’ho detto e perché stiamo infrangendo il protocollo in merito alla sfera privata dei segretari. Non ha potuto proteggermi dalle accuse dei tuoi parenti: è stato obbligato a licenziarmi.”
Avrei dovuto aspettarmelo: suo padre aveva già concesso un’eccezione per assumerla part-time come propria assistente, figuriamoci se avesse potuto permettersi di salvarla dalle proteste dei suoi colleghi dopo il pasticcio che avevamo combinato e sapendo che si trattava di una donna!
“Da’ loro tempo: si abitueranno a te, parola d’onore.” Erano le uniche menzogne che me la sentii di rifilarle: non potevo mentire ancora, non a lei. La verità era che il nostro amore sarebbe sempre stato mutilato dal richiamo del sangue, di quel sangue, portandoci a conseguenze ben peggiori di un rifiuto professionale.
“Falk, ho appena perso l’unica passione a cui abbia dedicato tutta me stessa.” Sembrava esausta, madida di disperazione e tremante per quell’estenuante diniego, e cercava una nuova flebile speranza nelle mie parole. Probabilmente fu in quell’attimo che mi giocai l’asso di quadri.
Non le offrii il sostegno di cui aveva impellente necessità. La baciai con premura, certo, cercando di cancellare la mestizia dal suo volto, ma dentro di me già sapevo che quella faida secolare avrebbe segnalato una frattura anche nel nostro rapporto. “Calma, hai me. Tutto si risolverà.”
Evidentemente quella minuscola bugia a fin di bene non bastò a rassicurarla.
Grace svanì d’improvviso, come la scia di cenere e fumo che cerchi di afferrare, senza più dare sue notizie per settimane. Talvolta mi decidevo a raggiungere Bourdon Place ma, prima che potessi richiamare l’attenzione di quel clan che m’era ostile, mi arrendevo e tornavo a rifugiarmi nel mio cappotto ‒ avevo bisogno di un nascondiglio anche da me stesso. Qualche volta, invece, visitavo i giardini fuori città, quelli in cui avevamo giaciuto nelle ore diurne, a contemplarci. Non avevo mai realizzato la beatitudine che mi dominava quand’ero con lei: era nei momenti d’assenza, quando il mio cuore strabordava di nostalgia, che me ne avvedevo. Il culmine del malumore era di notte, quando mi capitava di sognarla fuggire di soppiatto, di andarsene via da me ‒ proprio come, alla fine, aveva fatto.
Venni a conoscenza della fine di quel rapporto che s’era instaurato fra di noi non da lei, bensì da uno dei pochi amici che avevo avuto nel mio vecchio liceo prima di intraprendere gli studi specializzati per ordine della Loggia. Avevo legato con Gregory Sykes perché era l’esatto opposto di me: modesto, gentile, impavido, affettuoso e, in genere, una noia mortale. Aveva origini umili ma non aveva mai provato invidia nei miei confronti: come avevo già detto, era una persona così leale da risultare nauseabonda e così buona da poterci scrivere su una tediosa storia strappalacrime. Inoltre, era capitano della squadra di rugby ed era idolatrato dalla maggior parte delle ragazze della scuola.
Quando quel giorno si recò da me, pensai che gli occorressero dei soldi. Di solito, i pochi amici dei De Villiers venivano a cercarli dopo anni e anni e soltanto perché erano incappati in gravi crisi finanziarie. Stavo già per cantilenare: “Quanto ti serve?”, quando notai lo sfarzoso sorriso che sfoggiava. Il suo entusiasmo mi sconvolse e distrusse ogni mia ipotesi. Perché era lì? Era davvero talmente disperato da venire da me per potersi sfogare con un amico? Fui inorridito da tale possibilità.
“Falk, non indovinerai mai cosa mi è successo.” Non attese né un invito né una risposta: entrò nel mio appartamento sempre ridendo e mi strinse in un abbraccio soffocante. “Mi sono messo con Grace Montrose.”
Avevo creduto che fosse quello di Gregory l’universo delle brutte notizie e dei problemi caritatevoli sull’umanità, ma non impiegai molto tempo ad accorgermi che era il contrario. Fu il mio mondo a capovolgersi, fu il mio cuore a riempirsi di piombo dopo quella rivelazione, fu la mia anima a sbriciolarsi sotto il fardello della verità. Non risposi mai al mio amico: senza neanche una parola, lo congedai e gridai di rabbia finché non mi mancò la voce. Mi concentrai poi sulle carte che avevo depositato nel mio comodino preferito: non era che esigessi chissà cosa da quel rapporto improvvisato così su due piedi, ma di certo non m’aspettavo che mi tradisse così di getto, senza neanche degnarmi di una spiegazione. Fu allora che feci i conti con il segreto da cui mio padre non m’aveva mai risparmiato: i De Villiers non erano fatti per stare con le Montrose, punto e fine.
Mi ricomposi in quello stesso istante e replicai freddamente: «Non credo che tornerà più da me. Ha trovato una compagnia più desiderabile.»
Mio padre alzò il calice dell’amnesia e ammiccò: «Parole sacrosante, figliolo. Te ne avevo già parlato, mi sembra. Mai fidarsi di quelle meretrici.»
Brindai con lui e approfittai di quell’opportunità per informarlo sull’andamento del lavoro: «Il vecchio Montrose mi ha promosso a rango superiore: sarò il suo vice, d’ora in avanti.»
Lui scrollò le spalle come se non fosse affatto sorpreso da quel progresso. «Non credere che l’abbia fatto per nobiltà d’animo: è stato smosso dalla compassione, come farebbe ogni padre che è consapevole di avere come segretario il cornuto della figlia.»
Quelle parole, pronunciate dalla lingua senza scrupoli di mio padre, ebbero l’effetto di riempirmi di un’ira funesta. Allora era quello che ero a tutti gli effetti: un cornuto. Ero stato per tutto quel tempo la pedina sacrificale nel gioco di Grace: aveva carpito ogni piega di vita dall’anima che le avevo consacrato e m’aveva spezzato con una sola tattica.
«Padre, io l’amavo.» Era la prima e l’ultima volta che l’avrei detto: una singola lacrima tradì ‒ anch’essa ‒ il tormento che celavo e s’infranse sul tavolo dove mio padre custodiva i suoi amici redentori ‒ brandy, cognac e rum. Probabilmente anche quel piccolo sfogo corrispondeva ad altrettanta purificazione: dovevo esternare tutto il gelo che avevo dentro, che s’era fatto ingestibile. Mi abbandonai sul sofà e mi rannicchiai in posizione quasi fetale, raccontando tutta la verità che avevo taciuto: il primo incontro ‒ l’asso di picche ‒, la resa, il risveglio ‒ l’asso di fiori ‒, il suo licenziamento e la conseguente separazione. Se era stata bandita da Temple, era anche colpa mia ‒ colpa della mia natura di De Villiers e del cattivo sangue che mi scorreva nelle vene.
Mio padre mi scrutò con curiosità, come se l’amore fosse semplicemente un concetto astratto per la sua mente: «Tu credi di amarla, figliolo. Le donne non si amano: si possono avere, controllare, proteggere ‒ ma non amare. Sono soprattutto gli ingenui come te che devono guardarsi bene dalle illusioni amorose: potrebbero farti finire al manicomio o in carcere o, peggio, al cimitero. Alcuni crepano anche, nel nome dell’amore ‒ che in realtà è un brutto scherzo del destino. Guarda com’è ridotto il tuo vecchio: sleale, spietato, abrasivo, malvagio, malato. È così che ti trasforma quel sentimento che ritieni essere l’amore: ti corrode dentro, come un intruglio avvelenato, e non ti lascia più scappare, come la gabbia di una bestia. Prima te ne accorgi, meglio è.»
Paul, intanto, s’era addormentato: non era la prima volta che mi ritrovavo a confrontarlo con me stesso. Un sorriso amaro mi fiorì sulle labbra mentre vagavo a un anno e passa prima: sembrava esser passato così tanto tempo, da quando avevo invidiato le attenzioni che i Guardiani gli rivolgevano. In quel momento, gli invidiavo soltanto l’ingenuità giovanile ‒ volevo tornare a essere anche io un bambino meravigliato dal mondo che s’offriva alla sua indagine. Volevo tornare a essere un innocente.
«Da come ne parlate, padre, sembra che voi l’abbiate provato a vostre spese.», gli feci notare, giocherellando con il cristallo della coppa vuota fra le mie mani. Tintinnava, accompagnando il dolce crepitio del focolare, mentre lo colpivo con le unghie.
La sua espressione si rabbuiò, deformata dalla demoralizzazione che ormai aveva preso il sopravvento sul suo corpo e sulla sua anima, portandolo alla miseria peggiore del mondo ‒ l’aridità del cuore.
«Tua madre non era una Montrose, Falk: era, se possibile, una compagnia ancor più scandalosa. Avrei dovuto evitarla con tutto me stesso, per far bene. Io commisi il deplorevole errore di qualsiasi altro giovane uomo: spaccato fra coscienza e lussuria, preferii concedermi di incontrarla di nascosto. Lo feci e lo feci di nuovo, incurante degli effetti collaterali che tutto ciò avrebbe comportato, cominciando ad abituarmi e a essere dipendente da lei. Rimase ben presto incinta di te ed io, pur di non rovinarmi la reputazione, la sposai, dietro consiglio ‒ e minaccia ‒ di tuo nonno. Neanche a dirlo, divenni la vergogna della famiglia: spettegolavano tutti in merito alla faccenda, chiedendosi cosa m’avesse potuto indurre ad abbassarmi a un tale squallore. Alcuni parlavano di una stregoneria o di qualche altra diavoleria eretica da parte di lei; altri sostenevano che la vera stoltezza provenisse da me solo ‒ tra essi svettava tuo nonno, che non la smise mai di additarmi come “traditore della sua nobile stirpe”. Già, perfino lui era un fanatico: notevolmente migliorato con l’età, ma avresti dovuto vederlo nel fiore degli anni...Come diceva Dante per Caronte, aveva dei terribili “occhi di bragia”, che mi condannavano a priori.
I più vicini a me m’offrirono il loro contributo per ammazzarla senza destare sospetti: c’era chi proponeva una battuta di caccia, chi un infuso virale appena testato, chi una pillola letale... Quelle congiure non fecero altro che confermare le mie paure più luttuose: la vita di un De Villiers non è nient’altro che una recita da palcoscenico. Tutto dev’essere architettato nei minimi dettagli per funzionare a dovere.
Il mio matrimonio con tua madre non fu, quindi, semplice: rinnegati da chiunque, ci toccò trasferirci altrove per darti un’infanzia serena e spensierata ‒ lontano dai complotti orditi dai tuoi stessi consanguinei. Tua madre, come ben sai, dette alla luce tuo fratello e dopo poco morì, non si sa come ‒ tradotto: non si sa chi fu a ucciderla. Potrei essere stato perfino io in un impeto di sonnambulismo: non sai quante volte l’ho temuto, non sai da quanti incubi mi sono svegliato di soprassalto. Nel bel mezzo del suo mortifero delirio, mi fece giurare soltanto una cosa: la nostra famiglia avrebbe dovuto restare intatta, a ogni costo. Sapevo bene che intendeva che dovevo escludermi dalla vita di Guardiano e non esitai a darle retta: avevo già imparato la lezione a mio tempo. Quella vita era la firma di un documento falsificato, una congrega di malfattori coperti da pseudonimi di nobiltà. Non potevo rivelarvi la verità: era mio compito mantenere il segreto, sperando che un giorno ne veniste a capo da soli, compiendo la vostra scelta. Questi sono i vostri giorni e non i miei: non ho mai voluto essere un ladro di vite. Preferisco di gran lunga appassirmi come sto facendo ora, nel bel mezzo di una sbronza e assistito dagli occhi compassionevoli di mio figlio che si prende cura di me finché ne ha le facoltà. Guardami, Faulk: ho seguito la volontà di mia moglie, eppure lo sbaglio è stato quello antecedente ‒ infatuarmi di lei. Magari il suo decesso non m’avrebbe distrutto a tal punto ‒ magari sarei ancora vivo.»
Repressi un singulto, chinando lo sguardo a terra. Mio padre si era da sempre rifiutato di rivelarmi le cause della morte della mamma: nella caotica miriade di volte che glielo avevo chiesto, soltanto da una manciata di risposte avevo potuto dedurre qualche linea generale. Dicevano che s’era gravemente ammalata e che era crollata durante la sua infernale agonia: mio nonno aveva da sempre ribadito ‒ a labbra strette ‒ che mio padre l’aveva affiancata per tutto il tempo, leggendole nel frattempo i romanzi di Emily Brontë, che a lei piacevano tanto. Dicevano anche che, quando lui sfogliava le pagine di un nuovo capitolo, lei sorrideva perfino dal limbo dove si trovava, perché avrebbe tanto voluto pubblicare i suoi, di brani. Mia madre era stata un’assidua scrittrice: i più avevano paragonato la sua penna allo scettro di Nike, la dea della vittoria. Quando lei scriveva, nulla poteva interromperla ‒ non falliva mai. Mio padre era riuscito a salvare una dozzina di rimasugli bibliografici prima che il resto di essi, sotto la volontà della loro autrice, venisse bruciato. Avevo provato a leggerli ma avevo dedotto che quelle fossero le opere derivate dal suo periodo di traviamento: lì si narrava di cospirazioni a suo danno e di tradimenti da parte degli amici più affiatati. Acquisirono un senso compiuto soltanto dopo quel racconto.
«Pensi che l’abbiano uccisa?», domandai accigliato, più per sentirglielo dire ad alta voce che per altro.
Mi fissò con gli occhi stanchi, come se avessero assaporato la cruda essenza del mondo, e mormorò: «Credo proprio di sì, Falk.»
Annuii senza proferire. Quel silenzio era intriso di una condanna all’Inferno ancora da scagliare ‒ presto ne sarebbe stata l’ora. Sapevo che insistere sull’eventualità di un assassinio non m’avrebbe condotto a nessun chiarimento, perciò svicolai: «Perché la mamma era una donna così sconsigliabile, padre?».
Lui si rigirò l’anello dalle dodici punte fra le dita ‒ esaminando il pegno della sua vecchia appartenenza ‒, riflettendo con ogni probabilità su quale menzogna improvvisare quella volta, quando optò per l’onestà ‒ bagliori di luce ‒ e negò con il capo: «Ho giurato anni fa che il suo segreto sarebbe morto con me.»
Feci di nuovo un cenno d’assenso, quando gli rivolsi l’unico quesito per cui nutrivo davvero delle aspettative: «Accettereste che vostro figlio commettesse il vostro stesso errore di circostanza?».
Il tono s’era affievolito a metà frase: incrociai le dita, al di sotto dei guanti sgualciti che indossavo, e attesi.
Esitò a lungo, respirando i fiochi anelli di fumo disegnati dalle fiamme del camino, come se sperasse soltanto che il vortice della Morte venisse a sottrarlo da quelle risposte che non voleva porgere a nessuno. Esalò un sospiro, cristallizzato in un’espressione placida e al contempo meravigliata, e sorseggiò un altro po’ di brandy ‒ l’alcol doveva ormai pulsare nelle sue vene come il desiderio di vendetta.
«Come ti ho già detto, Falk, questo tempo non m’appartiene più. La scelta non è mia. Puoi benissimo sbagliare, per quanto mi riguarda.»
Era la cosa più simile a un consenso che m’avesse mai rivolto. Dischiusi le palpebre, stupito da quella resa ‒ la prima dinnanzi a qualche mia intenzione ‒, e non m’accorsi neanche che in un istante ero già in piedi, pronto per affrontare la ragazza degli assi.
«E, comunque, quella megera rossa sarebbe davvero un bel crimine da concedersi. Spero che tu ti giochi bene gli assi che ti rimangono, figliolo.»
Sorrisi alle pareti di gelo e di marmo. Quella, invece, era una benedizione.
 
 

 
 
Non mi sarei mai aspettato una torta di lamponi spiaccicata in faccia. Non avevo mai provato a fare una dichiarazione in pubblico ma di certo la crema non rientrava nelle mie ipotesi riguardanti i rischi di quel gesto avventato. Almeno, ero riuscito a sgraffignare l’asso di quadri, come previsto dal mio piano.
Larissa Crofts e Gregory Sykes erano per me nominativi privi d’importanza. Se, invece, sapevo una cosa di Grace Montrose, era che non era decisamente una ragazza accomodante. Io non potevo permettermi d’esser geloso del ragazzo con il quale era uscita per settimane dopo che i miei parenti l’avevano fatta licenziare ‒ ma ti pare? Era un’ingiustizia bell’e buona, ai suoi occhi ‒ tuttavia lei poteva accaparrarsi tutto il diritto di molestarmi con il cibo per aver scambiato due chiacchiere con la figlia del vecchio pupillo di mio nonno.
Uscii dalla stazione della metropolitana coprendomi con le braccia: avevo freddo perché il mio giaccone era finito in lavanderia, dato che le macchie di crema erano grosse come palle da rugby.
Mi voltai verso Leicester Square, la maestosa e luminosa isola che mi s’offriva dopo il buio di quella prigione sotterranea, e seguii i pedoni lungo la scia di botteghe. Avevo origliato la matriarca delle Montrose mentre diceva all’autista della Loggia che si sarebbero riuniti tutti là, in quel pomeriggio, in occasione del compleanno di Glenda. Che meraviglia.
Non credo di esser mai stato contento in quel modo per la fortuna della maggiore figlia femmina dei Montrose, che avrebbe compiuto diciott’anni quella sera e si sarebbe liberata dal peso della minore età.
Mi strinsi nel soprabito, sempre più infreddolito, e m’avviai a sud, nella direzione di Trafalgar Square. Ero tremendamente puntuale: secondo i miei calcoli, la famiglia sarebbe dovuta apparire all’orizzonte da un momento all’altro. Studiai nel frattempo i passi della gente: i più si muovevano con foga, attratti dalla prospettiva dello shopping e quindi animati da impeti di trepidazione; altri ancora procedevano con calma, fermandosi talvolta per contemplare qualche vetrina ben allestita che invitava all’acquisto; altri ancora erano cadenzati, malinconici, assorti in chissà quali melodrammi. Quella gente non era poi così diversa da me.
Buste d’oro scintillavano fra le mani dei passanti che le sollevavano con aria compiaciuta; altri erano rintanati nelle cabine telefoniche e parlottavano fitto, concentrati nel dialogo; altri ancora gesticolavano con le dita mentre discutevano in branco.
Poche persone erano sole. In quella categoria, rientravano perlopiù adolescenti, che divergevano dal resto del mondo e che non trovavano conforto nei gruppi di amici. Era una schiera di guerrieri nient’affatto deludenti.
Qualche ragazzo tirò fuori una radiolina e cercò compagnia nella melodia della musica  ‒ che aveva il potere di capire tutto il mondo nello stesso attimo ‒; qualcun altro sorpassò furtivamente le combriccole, tentando di non essere riconosciuto dalle persone; altri ancora indugiavano, proprio come me, in attesa di un qualunque segnale dal cielo.
Il mio segnale giunse quando distinsi una banda di persone per la maggior parte provvisti di chiome falbe. Glenda era riconoscibile a distanza, per via del suo trucco sfarzoso e del suo soprabito  stravagante ‒ probabilmente ripreso da una delle mode del Piccadilly Circus ‒; lo scricciolo al suo fianco, avvolta da indumenti più sobri e senza un filo di trucco, sorrideva con gusto. Notai che Grace stava discorrendo con i genitori: Lord Montrose scintillava del suo stesso sorriso ‒ era indubbia l’ereditarietà dei suoi geni ‒ mentre Lady Arisa negava con il capo, probabilmente reputando che quelle opinioni dovessero rimanere fra padre e figlia. Avevo da sempre notato quell’affinità tra Lord Lucas e Grace: il padre aveva un rapporto molto più stretto con lei che con Glenda o Harry. Continuarono a ridere, sempre trapelando quell’incanto tipico della loro dinastia, e simularono delle piroette da ballerina.
Il volteggio di Grace fu paragonabile a quello di una fata o comunque di un’entità ultraterrena, come al solito. Terminò con un leggiadro inchino la sua esibizione e rivolse un sorriso trionfante a Glenda che, neanche a dirlo, era già gelosa come un Otello di quella danza urbana in cui s’era appena dilettata la sorella.
«I talenti sono tali quando insegnano qualcosa a te stessa, non agli altri.», sentenziò Glenda, alzando l’indice con superiorità, «Non è che io recito per strada solo per farmi dire che sono una brava attrice. È una cosa triste, Grace.»
La sorella minore la fissò con tanto d’occhi, come se la stesse realmente ammirando per la sua arguzia: «Hai ragione, Glenda. Tu reciti sempre: non è possibile distinguere quale ruolo tu scelga nei vari momenti. Ora, lo confesso, somigli terribilmente alla Signorina Rottermeier di Heidi
Glenda avvampò furiosamente e accelerò il passo. Lady Arisa si concesse una breve risata prima di ritornare alla sua algida compostezza, senza però rinunciare al braccio che il marito gli offrì in quel preciso istante. Lord Montrose strizzò l’occhio alla figlia minore senza farsi vedere e la elogiò: «Brava, piccola. Gliene hai cantate quattro, a tua sorella.»
Grace s’illuminò in un altro dolce sorriso ma ben presto si smarrì nei suoi pensieri. Potevo quasi leggerle nella mente: c’era stata soltanto un’altra persona che soleva irridere in quella stessa maniera. Sperai che il suo divieto di rivolgerle la parola non fosse così solenne come sembrava.
Quando mi sporsi e Glenda alzò gli occhi, divenne ancor più rossa, tanto da far sembrare i suoi capelli giallognoli. Mi puntò addosso il suo famigerato indice accusatore ‒ con la stessa collera con il giorno prima l’aveva fatto la sorella ‒ e tuonò: «TU! Tu, cosa ci fai qui?».
Gli sguardi azzurri del resto della famiglia saettarono verso di me, accompagnati da diverse reazione. Lady Arisa sussultò e imprecò sottovoce: «Gesù Cristo, signorino Falk!»; Lord Montrose, quell’incredibile uomo che riusciva a prevedere ogni mia mossa, sorrise mestamente; Grace, invece, erede del padre, mi scrutò con i suoi occhi autorevoli e attese una mia iniziativa.
Il primo passo che avanzai fu accolto dagli acuti strilli di Glenda, che blaterava sfilze di frasi incomprensibili. «Ti sembra questo il modo? Ti ho già detto che ci siamo mollati...tu, per me, sei come il piscio, della stessa consistenza e della stessa importanza...!».
Fu sua madre a zittirla con parole carezzevoli: «Glenda, mia cara, credo che Falk cerchi Grace e non te.»
Ammirai seduta stante quell’intrepida donna.
La ragazza in questione ammutolì, sbiancando d’improvviso, e con malignità snocciolò: «Oh. Bene bene, non me n’ero accorta. Ne vedremo delle belle.»
Quella volta toccò a Lord Montrose bloccarla. «Figlia mia, credo che intendano parlare da soli.»
Da soli. Fissai Grace e mi chiesi se non pensasse a quella volta, nell’ufficio del padre, da soli. Evidentemente ci stava rimuginando, perché un lieve rossore costellò i suoi zigomi spigolosi.
Glenda incrociò le braccia al petto e annunciò: «Non capisco cos’abbiano da dirsi di così importante da essere rivelato in segreto. Parla forte e chiaro, Faulk.»
L’altra mi sondò con aspettativa, come se agognasse perfino lei una mia pubblica umiliazione. Stavolta no, pensai.
Mentre i genitori si occupavano di trattenere Glenda per le braccia con infinita pazienza ‒ si divincolava per seguirci come una bambina di cinque anni ‒, Grace s’avvicinò a me con aria sdegnosa.
«Cos’altro vuoi da me, Falk? Pensavo che quella torta esprimesse già a pieno il concetto.», proclamò, sfoggiando un sorriso soltanto per la soddisfazione d’avermi messo in imbarazzo davanti a metà Londra.
Prevedibile. «A dire il vero, sono tornato per consegnarti una cosa che ti è caduta ieri dalla tasca. Non sapevo quando potevo dartelo, dato che ieri sei fuggita in fretta e furia. Mi era sembrato di sentire che oggi v’incontravate qua, pertanto ne approfitto per recapitarti l’oggetto e togliere il disturbo.»
Quando estrassi dal mio marsupio l’asso di quadri e glielo porsi, sfoderò un sorrisetto mordace che sembrava voler canzonare la sua stessa stupidità.
«Ma certo», commentò, fingendosi sorpresa, «come diavolo ho potuto dimenticarmene?».
«Non so, l’ho raccolto da terra poco dopo che era caduto.», mentii spudoratamente, passandomi la mano sulla fronte imperlata di sudore. Ero abbastanza nervoso, già.
Grace si stancò di quella farsa e mi puntò il dito contro, scoccandomi un’occhiata guardinga e affilata.
«Quanto riesci a essere sagace, Falk! Per ironia della sorte, sei venuto a restituirmi uno degli assi che ti mancava per terminare il gioco. Direi che costruisci metafore più intriganti di qualunque altra storia romanzata.»
Constatai che era più distaccata del solito: la faccenda di Larissa doveva averla proprio infastidita. Con lei era impossibile stabilire un compromesso: non avrei mai potuto mettere una pietra sopra Sykes e lei sopra la Crofts, mai. Avrei dovuto sudare di nuovo per riconquistarla.
«Se vuoi, posso tenerlo io.», le feci l’occhiolino. Vai così, Falk.
Rise senza allegria. «No, grazie. Ridammelo.»
Fu allora che decretai che era il momento giusto. «Grace, ti amo.», dichiarai, tentando di sembrare quanto più austero possibile.
Lei dischiuse le palpebre con dolcezza: «Mi sono sorbita il tuo discorso strappalacrime ieri, non c’è bisogno che tu me lo riproponga. Stavolta non ho le buste per il vomito.»
«Certo che non mi rendi mica le cose facili, tu. Sei incredibilmente contorta, Montrose.»
Alzò le spalle e sorrise con soavità: «Cosa vuoi farci?».
Baciarti fino a sottometterti.
«Larissa Crofts è una sgualdrina e non la degnerei della minima considerazione se ho te accanto. Andiamo, Montrose, mica avrai davvero scelto di rimpiazzarmi con quello sfigato di un Sykes!».
«Sei più sfigato di lui!».
Quel battibecco si protrasse per circa mezz’ora, in cui ci insultammo reciprocamente. Le diedi della “secchiona” e dell’“ingarbugliata”, da parte sua lei mi additò come “ridicolo” e “cinico”. Furono molti altri gli epiteti ‒ anche non così carini ‒ con cui proseguimmo a etichettarci. I nostri sguardi erano intanto smarriti, dediti a rivelarsi qualcos’altro ‒ “Ogni respiro che prendi è mio”, “Ti ho dato ogni cosa, ed è un bel crimine[2] ‒ mentre continuavamo a bersagliarci instancabilmente. Ispezionai i suoi occhi di zaffiro e vi lessi, nel profondo, la stessa brama che ardeva nei miei. Attanagliato da quel desiderio proibito, non potevo pronunciare quelle verità inconfessabili e compresi che perfino lei l’aveva intuito, e aveva scelto di perdersi nell’ombra dei ricordi.
Alla fine, giunse l’ora della cena per la festa di Glenda e la famiglia fu costretta a ritirarsi, al completo.
Peccato che lasso di quadri sfavillasse ancora nella mia mano.

 
 
 
In lontananza, udii Lady Arisa indagare: «Vi siete rimessi insieme, per caso?».
La voce di lei si spezzò giusto all’ultimo. Per il resto, suonò abbastanza credibile. «Scherzi, mamma? Lui mi repelle!», bofonchiò.
Anche quella era una sorta di benedizione.

 
{The End}

 

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