Parte II – L’amour et la folie
«Amore giuocava un giorno in
compagnia della Follia. Aveva il fanciullino in quell'età aperti gli occhi
ch'ora più non ha. Nata una fiera disputa, voleva Amor portarla innanzi ai
Numi, ma la Follia, perduta la pazienza, gli die’ tal
colpo che gli spense i lumi.»
Il tonfo di un libro chiuso le fece alzargli occhi dalla pagina.
«Per oggi basta così, Éclair.» la interruppe gentilmente il professor Hervé Bonheur, con un piccolo
sorriso d’incoraggiamento. «La dizione andava bene, l’interpretazione un po’
meno, ci lavoreremo domani.»
Éclair alzò le sopracciglia. «Sono solo filastrocche, professore.»
Il maestro ridacchiò e le scompigliò i capelli affettuosamente, senza
nascondere l’orgoglio per la sua allieva. Le aveva insegnato l’ABC e la ‘r’
strascicata tipica della zona di Lione. Éclair aveva ingoiato ogni sua sillaba
in un solo colpo, senza gustarla, ma di questo neppure l’insegnante se n’era
accorto, tanto che commentò con leggerezza: «Sono favole, signorina, non filastrocche.», senza aver notato il tono
incolore con cui parlava la ragazzina.
Éclair, dal canto suo, leggeva l’indispensabile e sfogliava, talvolta,
i vecchi libri delle balie, sorridendo tra sé.
Non coglieva come il professor Bonheur i
dolci suoni della lingua francese, né l’irruenza delle marce di Verdi,
preferendo osservare le persone e coglierle nel Momento.
Andando a teatro non provava un brivido di eccitazione, ma una pacata
accondiscendenza di fronte alla passione di suo padre.
Il conte Tonnerre era, infatti, un
appassionato di musica lirica. Disprezzava il teatro dell’assurdo recitato nei
piccoli spalti degli edifici pubblici e nelle scuole – definendolo
“un’accozzaglia di parole senza base” – e amava alla follia l’energia degli
archi.
Tutto ciò che era vitale, razionale, irruento e che avesse un po’ di
dolcezza, era amato dal Conte Tonnerre. Nessuno, per
questo, si stupì quando prese in moglie una ballerina che non aveva origini
nobili, ma incantava con lo sguardo ogni spettatore, piroettando e sorridendo a
testa alta: sua madre, Nicole.
Éclair credeva che i suoi genitori fossero stati inevitabili; loro
avevano le ferrea convinzione che lei fosse sfuggente e lontana, come la
musica. Sempre perfetta, con un accenno di sorriso e seria nelle intenzioni,
una sintesi di contrari, un inno alla loro felicità.
Éclair era cosciente fin da bambina di com’era fatta e di cosa dovesse
fare in ogni situazione. Per questo suo padre l’adorava e sua madre era
orgogliosa di averla messa al mondo.
Proprio per questa passione, suo padre le aveva fatto prendere lezioni
di danza classica, di violino, aveva aggiunto lo studio della lingua italiana
per il canto, insieme a inglese, giapponese, tedesco e, ovviamente, la lingua
madre, il francese – che servivano, essenzialmente, per il suo futuro lavoro
dentro la compagnia di famiglia, gestita insieme ai due fratelli maggiori.
Ora, suo padre voleva che prendesse lezioni di pianoforte e, a quel
che borbottava a cena, aveva trovato l’insegnante perfetta.
Éclair camminava per i corridoi lucidi della casa, picchiettando i
mocassini verniciati lungo il corridoio, producendo tonfi sordi e ripetitivi.
L’annuncio del suo arrivo.
Era un po’ curiosa di vedere questa donna: suo padre l’aveva descritta
con aggettivi che solitamente usava solo per sua madre (e, per questo, la
contessa Tonnerre si era molto ingelosita): elegante,
gentile, con un tocco di dita incredibilmente delicato. Ovviamente sullo strumento, aveva precisato.
Anche il professor Bonheur le aveva
confessato di averla sentita anni fa, quando aveva dato certe lezioni al figlio
della donna, e ne era rimasto estasiato: “neppure
Prévert avrebbe potuto descrivere un suono così”.
Tanti elogi e tante aspettative: la donna doveva essere
sottopressione.
Immaginò le dita delicate aggrovigliarsi tra loro e delle labbra
minute essere morse a sangue per il nervosismo.
Tuttavia, quando aprì la porta di noce, si fermò sullo stipite,
esprimendo con uno sguardo turbato la sua sorpresa nel vedere la sua nuova
insegnante seduta al pianoforte rigidamente, le mani appoggiate sul grembo
immobili e gli occhi posati da qualche parte al di fuori della finestra, come
se il suo arrivo fosse un evento di poco conto.
Éclair aggrottò leggermente le sopracciglia scure, osservando con uno
strano formicolio alle gambe quella strana donna. Era giovane (aveva forse una
trentina d’anni), lunghi capelli mossi color grano e un collo lunghissimo e
color panna.
Era forse un po’ troppo esile e sedeva con la schiena lievemente
chinata in avanti, come se fosse stanca, o come se stesse cullando qualcosa di
invisibile. Le braccia erano ricurve, formavano un’ovale che le ricordarono un demi-bras rilassato.
Era un atteggiamento che non le era mai capitato di osservare.
«Madame?» domandò d’istinto, per attirare l’attenzione della donna,
muovendosi in fretta per raggiungerla, attratta come l’ape al fiore. «Vi ho
fatta attendere?»
La donna si voltò lentamente e, vedendola, dischiuse appena la bocca
in un altro cerchio: un’espressione di stupore elegante, nonostante tutto.
Scosse la testa leggermente e le sorrise, scoprendo i denti bianchissimi.
«Niente affatto, Mademoiselle, vi prego, sedetevi qui con me.»
È morbida in ogni gesto,
pensò Éclair continuando a studiarla senza vergogna, provando a racchiudere la
figura della donna in una lunga linea immaginaria. Curva.
«Merci beaucoup.»
ringraziò educatamente, prendendo posto davanti al pianoforte.
Sentì la donna irrigidirsi impercettibilmente e ispirare lungamente;
questo le fece scappare un piccolo sorriso soddisfatto.
«Ho sentito da mio padre» cominciò con pacatezza. «Che alloggerete qui
come nostra inserviente, dato che ha perso la sua casa. Mi spiace tanto, le
manca?»
La donna sospirò e le dita si intrecciarono; ad Éclair vennero in
mente le madonne bionde del Medioevo.
«Non mi manca tanto il luogo quanto mio figlio, signorina Tonnerre.»
I grandi occhi azzurri della donna si intristirono mentre sfuggiva al
suo sguardo insistente, abbassando il capo verso i tasti bicromici dello
strumento musicale.
«È morto?»
La donna alzò finalmente il viso verso di lei boccheggiando, come se
trattenesse un grido.
«Oh Signore, no!» esclamò con voce incrinata, palesando l’orrore che
l’agitava, finalmente mostrandosi nervosa nelle parole affrettate e mangiate.
«Come può chiedermi una cosa del genere con quel tono?!»
«Quale tono?» domandò Éclair, sinceramente incuriosita.
La donna batté le palpebre, sottili come ali di farfalla. «Come… come se non le interessasse affatto.» balbettò, alla
fine, esitante.
Éclair inclinò il viso, facendo scivolare lungo la spalla un boccolo
castano.
«Ed è così, infatti.»
«Ma… è crudele.»
ribatté la donna, con gli occhi che vagavano irrequieti su di lei, come se non
potesse sostenere il suo sguardo. In questo, non era diversa dagli altri.
«È solo la pura verità, Madame: nutro interesse per la vostra storia,
ma non sentimento affettivo o di simpatia. In fondo lei è un’estranea per me,
non è così?» ragionò freddamente Éclair.
La donna deglutì e mise le mani sul grembo, spingendo lievemente sullo
stomaco.
Più la guardava, più Éclair avrebbe giurato che la donna fosse una di
quelle statuette del paleolitico che rappresentavano la prosperità e,
soprattutto, la maternità.
Tutto in lei era un richiamo a quelle icone di madri che venivano
rappresentate nelle opere teatrali o nei libri che aveva letto: la dolcezza del
volto, la schiena ricurva, le forme morbide dove poter appoggiare il capo.
D’un tratto, Éclair si pentì di essere stata così diretta nel suo
interrogatorio.
«Sta male, Madame? Se vuole, le faccio arrivare una tisana dalle
cucine, quella al gelsomino è un vero toccasana.»
«No, no» rispose prontamente la donna, scuotendo il capo chino. «Sto
bene, solo… se vuole che le racconti la mia storia va
benissimo, signorina, gliela racconterò solo… per favore… non mi parli con quel tono così…»
esitò, trattenendo il respiro. «Piatto.»
«Piatto.» ripeté Éclair tra sé, studiandone il suono. «Senza
sentimento, intende.»
La donna annuì.
«Anche il professor Bonheur ha commentato qualcosa
del genere poco fa, mentre leggevo una favola di de La Fontaine.
Dice che sono poco espressiva. Io, al contrario, penso semplicemente di non
dover fingere compassione quando non ne provo alcuna. È sincerità, la mia.»
«Mio figlio, invece, era molto sensibile alle favole da bambino.»
Éclair si ripromise di avere un’altra chiacchierata con quella donna,
davanti ad una tazza di tè, faccia a faccia in modo da poterle osservare ogni
piega del sorriso. Vi era qualcosa di infinitamente triste e, nuovamente, icone
di madri e donne gentili le sfilarono davanti agli occhi.
«Mi parli di lui.» ordinò, secca, accavallando le gambe.
«Non… non riesco.»
«E perché?»
I loro occhi si incontrarono per pochi secondi, prima quelli della
donna che tornassero sul pianoforte.
«Il suo… sguardo. Mi turba.»
«Oh.» disse Éclair, ricordandosi improvvisamente chi fosse. «Capisco.
Aspetti due minuti.»
Si alzò e andò in un angolo della stanza, dove aprì uno dei cassetti
di uno dei comò che fungevano da arredi. Prese tra le mani un binocolo, di
quelli che suo padre aveva comprato per andare a teatro, e se lo mise sugli
occhi prima di risedersi accanto alla donna.
«Ora, vi prego, mi parli di suo figlio.»
«Ma, signorina Tonnerre, è sicura che
indossare un binocolo sia– »
«Non se ne preoccupi,» la interruppe fermamente la ragazzina. «Ha mai
raccontato a suo figlio la favola di Follia e Amore?»
L’altra sorrise. «Certamente. Non l’ha fatto piangere come la storia
del Piccolo Principe, né l’ha colpito più di tanto a dire il vero. Ma ricordo ancora
quando mi disse: “Amore sarà anche un po’ triste perché non può più guardare,
ma ha la compagnia di Follia ora, no?”»
La donna chiuse gli occhi, inclinando il capo con un movimento
impercettibile. «È sempre stato un bambino speciale, gentile e dolcissimo di
natura. Non credo di aver mai incontrato nessuno che lo odiasse seriamente,
perché è capace di farsi amare. È…» La vide sfiorare
il pianoforte con le dita, come se lo accarezzasse. «Come il suono d’un
pianoforte.»
Realizzò in quel momento che quella madre, con la sua schiena ricurva,
non avrebbe potuto cullare nessun altro bambino se non suo figlio e lei, Éclair
Tonnerre, s’era già innamorata d’uno sconosciuto che
calzava alla perfezione con la descrizione d’un principe.
Lithium, don’t want to lock me up inside,
Lithium, don’t want to forget how it feels
without,
Lithium, I wanna stay in love with my sorrow,
Oh God, but I want to let it go
Secondo capitol, quello
corposo. :3
E ultima
nota prima di andare a nanna: gaurdate questo video. È
splendido e Lithium è proprio la canzone di Éclair! <3
à http://www.youtube.com/watch?v=Rcgw9WZgmgw
Bye dall’assonnatissima
XD
Kaho