Haven't had a dream in a long time

di Kaho
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La fille ***
Capitolo 2: *** L’amour et la folie ***
Capitolo 3: *** Un animal dans la lune ***
Capitolo 4: *** Epilogue ***



Capitolo 1
*** La fille ***


Ouran Koukou Host Club © Bisco Hatori.

Titoli dei capitoli e favole appartengono © Jean de la Fontaine.

Lithium © Evanescence.

 

 

A Deda, un misero tentativo di ringraziamento per l’AMV.

Sei un tesoro e un mostro con Sony Vegas (per me XD)

 

 

 

Haven’t had a dream in a long time

 

 

Parte I – La fille

 

 

L’estate l’avvertiva sulla sua pelle, come una fastidiosa mosca che non riusciva a schiacciare.

A suggerirglielo non erano né il calore del sole, né la brezza che veniva del mare poco lontano da casa, né le ciliegie, che cominciavano ad arrossarsi come se si fossero scottate; ma il suo vestito di seta, pulito e fresco, che si intrufolava fra le gambe umide di sudore.

Éclair arricciò il naso piegando appena il capo, per nascondere la smorfia sotto l’ombra del parasole portato dalla sua dama di compagnia.

La pelle cominciava a bruciarle per l’attrito fra le gambe ed era quasi certa che quella sera avrebbe dovuto concedersi un po’ di tempo in più nella vasca da bagno, per massaggiare la carne arrossata; nemmeno la carezza morbida della seta aveva potuto evitarle l’irritazione cutanea.

Non si permise di dimostrare il proprio malcontento: non si mise a piangere, non esalò nemmeno un accenno di capriccio, si limitò, invece, a buttarsi addosso una ventata d’aria con un gesto secco del ventaglio, tirando le labbra in una piccola smorfia di sconforto.

«Signorina Éclair, ha caldo? Vuole tornare al fresco all’interno della villa?»

Éclair non avrebbe mai compreso l’ansia delle sue dame di compagnia: d’altronde, lei conosceva solo velluto e seta.

Piegò appena il capo di lato ed osservò con una certa  alterigia la giovane donna, che dimostrava non più di trent’anni, con in viso un’espressione nervosa; era evidente il desiderio di compiacere la padroncina.

Sapeva di essere ritenuta dai domestici quasi più severa del padre, così differente dalla sua dolce, frivola madre.

Éclair aveva quel genere di occhi che davano i brividi alle persone e, pienamente consapevole di questo, sfruttava il proprio dono per piegare al proprio volere chi la circondava.

Certe volte, si concedeva di credere di aver avuto in dono le iridi di ghiaccio dalle decine di fatine che popolavano le favole notturne delle sua balie anche se, a dire il vero, Éclair preferiva le streghe e, ascoltando i lieti fini delle favole, le veniva sempre da sorridere.

«Continuiamo a camminare, tesoro, oggi è una giornata luminosa.»

Udì la cameriera sospirare non appena deviò il suo sguardo sulla figura di sua madre, stretta in un corpetto dorato che la faceva sembrare ancora più magra e piatta, come se non avesse dato mai vita ad una creatura. Spesso Éclair aveva sentito pettegolezzi secondo cui lei era una figlia illegittima di qualche dama di compagnia, ma non vi aveva mai creduto: sua madre avrebbe manifestato segni di rifiuto verso di lei, se non fosse stata sua figlia. Era quel genere di donna che non poteva tollerare di essere invidiosa – anche se, disprezzando la felicità altrui, di fatto lo era – e di cui si poteva essere solo gelosi, felice con un bel vestito addosso e la mano anelata di suo marito stretta sul fianco.

Ogni volta che la guardava, Éclair alzava leggermente il mento e la sua bocca si piegava appena all’ingiù; così sua madre diventava ancora più allegra.

«Èclair, ho poco tempo prima del mio viaggio in Giappone e vorrei passarlo con te e tua madre. Non vorrai rattristarla vero?»

Le lenti degli occhiali di suo padre scintillarono sotto i raggi di giugno e la sua mano strinse le dita affusolate di sua madre. Éclair osservò la scena e abbassò gli occhi, compita.

«No, certo. Vi seguo.»

Avanzò lungo il sentiero di ghiaia, stringendo appena le labbra, e seguì le spalle scoperte di sua madre e quelle ricurve e abituate al lavoro d’ufficio di suo padre. Pensò, non per la prima volta, che nessuna di esse era fatta per darle amore.

 

Don’t want to let it lay me down this time,

Drown my will to fly,

Here in the darkness I know myself,

Can’t break free until I let it go (let me go)

 

 

 

 

 

Semplicemente uno studio sul personaggio di Éclair, che appare soltanto nell’anime.

Mi ha sempre affascinata tantissimo, con il suo sorriso languido, la fredda sfacciataggine e quel binocolo, oh quel binocolo *_*!

E lo ammetto senza problemi: ebbene, io tengo alla Éclair/Tamaki. ù_ù Haruhi la lascio al Diavolo (Kyoga <3) o ai due teneri esserini (alias i gemelli *.*).

Ma non vi preoccupate, questa storia contiene solo Éclair/Tamaki one-side e un zic di TamaHaru. Rimedierò in futuro a questa pecca? Forse. XD

 

Partecipante alla V Disfida indetta da Criticoni (http://www.criticoni.net/).

Prima e ultima volta che ci partecipo, giuro, certi nomi degli altri concorrenti mi hanno veramente fatto venire la pelle d’oca. XD

 

Betata da Tinebrella, alias Val.<3

 

Nient’altro da dire, penso. Ritorno a italiano. ;_;

Ma voi qualcosa da dire l’avrete, sìììì? *_* Prego, fatelo fatelo!

 

Kaho

 

 

 

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Capitolo 2
*** L’amour et la folie ***


 

 

Parte II – L’amour et la folie

 

 

«Amore giuocava un giorno in compagnia della Follia. Aveva il fanciullino in quell'età aperti gli occhi ch'ora più non ha. Nata una fiera disputa, voleva Amor portarla innanzi ai Numi, ma la Follia, perduta la pazienza, gli die’ tal colpo che gli spense i lumi

Il tonfo di un libro chiuso le fece alzargli occhi dalla pagina.

«Per oggi basta così, Éclair.» la interruppe gentilmente il professor Hervé Bonheur, con un piccolo sorriso d’incoraggiamento. «La dizione andava bene, l’interpretazione un po’ meno, ci lavoreremo domani.»

Éclair alzò le sopracciglia. «Sono solo filastrocche, professore.»

Il maestro ridacchiò e le scompigliò i capelli affettuosamente, senza nascondere l’orgoglio per la sua allieva. Le aveva insegnato l’ABC e la ‘r’ strascicata tipica della zona di Lione. Éclair aveva ingoiato ogni sua sillaba in un solo colpo, senza gustarla, ma di questo neppure l’insegnante se n’era accorto, tanto che commentò con leggerezza: «Sono favole, signorina, non filastrocche.», senza aver notato il tono incolore con cui parlava la ragazzina.

Éclair, dal canto suo, leggeva l’indispensabile e sfogliava, talvolta, i vecchi libri delle balie, sorridendo tra sé.

Non coglieva come il professor Bonheur i dolci suoni della lingua francese, né l’irruenza delle marce di Verdi, preferendo osservare le persone e coglierle nel Momento.

Andando a teatro non provava un brivido di eccitazione, ma una pacata accondiscendenza di fronte alla passione di suo padre.

Il conte Tonnerre era, infatti, un appassionato di musica lirica. Disprezzava il teatro dell’assurdo recitato nei piccoli spalti degli edifici pubblici e nelle scuole – definendolo “un’accozzaglia di parole senza base” – e amava alla follia l’energia degli archi.

Tutto ciò che era vitale, razionale, irruento e che avesse un po’ di dolcezza, era amato dal Conte Tonnerre. Nessuno, per questo, si stupì quando prese in moglie una ballerina che non aveva origini nobili, ma incantava con lo sguardo ogni spettatore, piroettando e sorridendo a testa alta: sua madre, Nicole.

Éclair credeva che i suoi genitori fossero stati inevitabili; loro avevano le ferrea convinzione che lei fosse sfuggente e lontana, come la musica. Sempre perfetta, con un accenno di sorriso e seria nelle intenzioni, una sintesi di contrari, un inno alla loro felicità.

Éclair era cosciente fin da bambina di com’era fatta e di cosa dovesse fare in ogni situazione. Per questo suo padre l’adorava e sua madre era orgogliosa di averla messa al mondo.

 

 

Proprio per questa passione, suo padre le aveva fatto prendere lezioni di danza classica, di violino, aveva aggiunto lo studio della lingua italiana per il canto, insieme a inglese, giapponese, tedesco e, ovviamente, la lingua madre, il francese – che servivano, essenzialmente, per il suo futuro lavoro dentro la compagnia di famiglia, gestita insieme ai due fratelli maggiori.

Ora, suo padre voleva che prendesse lezioni di pianoforte e, a quel che borbottava a cena, aveva trovato l’insegnante perfetta.

Éclair camminava per i corridoi lucidi della casa, picchiettando i mocassini verniciati lungo il corridoio, producendo tonfi sordi e ripetitivi. L’annuncio del suo arrivo.

Era un po’ curiosa di vedere questa donna: suo padre l’aveva descritta con aggettivi che solitamente usava solo per sua madre (e, per questo, la contessa Tonnerre si era molto ingelosita): elegante, gentile, con un tocco di dita incredibilmente delicato. Ovviamente sullo strumento, aveva precisato.

Anche il professor Bonheur le aveva confessato di averla sentita anni fa, quando aveva dato certe lezioni al figlio della donna, e ne era rimasto estasiato: “neppure Prévert avrebbe potuto descrivere un suono così”.

Tanti elogi e tante aspettative: la donna doveva essere sottopressione.

Immaginò le dita delicate aggrovigliarsi tra loro e delle labbra minute essere morse a sangue per il nervosismo.

Tuttavia, quando aprì la porta di noce, si fermò sullo stipite, esprimendo con uno sguardo turbato la sua sorpresa nel vedere la sua nuova insegnante seduta al pianoforte rigidamente, le mani appoggiate sul grembo immobili e gli occhi posati da qualche parte al di fuori della finestra, come se il suo arrivo fosse un evento di poco conto.

Éclair aggrottò leggermente le sopracciglia scure, osservando con uno strano formicolio alle gambe quella strana donna. Era giovane (aveva forse una trentina d’anni), lunghi capelli mossi color grano e un collo lunghissimo e color panna.

Era forse un po’ troppo esile e sedeva con la schiena lievemente chinata in avanti, come se fosse stanca, o come se stesse cullando qualcosa di invisibile. Le braccia erano ricurve, formavano un’ovale che le ricordarono un demi-bras rilassato.

Era un atteggiamento che non le era mai capitato di osservare.

«Madame?» domandò d’istinto, per attirare l’attenzione della donna, muovendosi in fretta per raggiungerla, attratta come l’ape al fiore. «Vi ho fatta attendere?»

La donna si voltò lentamente e, vedendola, dischiuse appena la bocca in un altro cerchio: un’espressione di stupore elegante, nonostante tutto. Scosse la testa leggermente e le sorrise, scoprendo i denti bianchissimi.

«Niente affatto, Mademoiselle, vi prego, sedetevi qui con me.»

È morbida in ogni gesto, pensò Éclair continuando a studiarla senza vergogna, provando a racchiudere la figura della donna in una lunga linea immaginaria. Curva.

«Merci beaucoup.» ringraziò educatamente, prendendo posto davanti al pianoforte.  

Sentì la donna irrigidirsi impercettibilmente e ispirare lungamente; questo le fece scappare un piccolo sorriso soddisfatto.

«Ho sentito da mio padre» cominciò con pacatezza. «Che alloggerete qui come nostra inserviente, dato che ha perso la sua casa. Mi spiace tanto, le manca?»

La donna sospirò e le dita si intrecciarono; ad Éclair vennero in mente le madonne bionde del Medioevo.

«Non mi manca tanto il luogo quanto mio figlio, signorina Tonnerre

I grandi occhi azzurri della donna si intristirono mentre sfuggiva al suo sguardo insistente, abbassando il capo verso i tasti bicromici dello strumento musicale.

«È morto?»

La donna alzò finalmente il viso verso di lei boccheggiando, come se trattenesse un grido.

«Oh Signore, no!» esclamò con voce incrinata, palesando l’orrore che l’agitava, finalmente mostrandosi nervosa nelle parole affrettate e mangiate. «Come può chiedermi una cosa del genere con quel tono?!»

«Quale tono?» domandò Éclair, sinceramente incuriosita.

La donna batté le palpebre, sottili come ali di farfalla. «Come… come se non le interessasse affatto.» balbettò, alla fine, esitante.

Éclair inclinò il viso, facendo scivolare lungo la spalla un boccolo castano.

«Ed è così, infatti.»

«Ma… è crudele.» ribatté la donna, con gli occhi che vagavano irrequieti su di lei, come se non potesse sostenere il suo sguardo. In questo, non era diversa dagli altri.

«È solo la pura verità, Madame: nutro interesse per la vostra storia, ma non sentimento affettivo o di simpatia. In fondo lei è un’estranea per me, non è così?» ragionò freddamente Éclair.

La donna deglutì e mise le mani sul grembo, spingendo lievemente sullo stomaco.

Più la guardava, più Éclair avrebbe giurato che la donna fosse una di quelle statuette del paleolitico che rappresentavano la prosperità e, soprattutto, la maternità.

Tutto in lei era un richiamo a quelle icone di madri che venivano rappresentate nelle opere teatrali o nei libri che aveva letto: la dolcezza del volto, la schiena ricurva, le forme morbide dove poter appoggiare il capo.

D’un tratto, Éclair si pentì di essere stata così diretta nel suo interrogatorio.

«Sta male, Madame? Se vuole, le faccio arrivare una tisana dalle cucine, quella al gelsomino è un vero toccasana.»

«No, no» rispose prontamente la donna, scuotendo il capo chino. «Sto bene, solo… se vuole che le racconti la mia storia va benissimo, signorina, gliela racconterò solo… per favore… non mi parli con quel tono così…» esitò, trattenendo il respiro. «Piatto

«Piatto.» ripeté Éclair tra sé, studiandone il suono. «Senza sentimento, intende.»

La donna annuì.

«Anche il professor Bonheur ha commentato qualcosa del genere poco fa, mentre leggevo una favola di de La Fontaine. Dice che sono poco espressiva. Io, al contrario, penso semplicemente di non dover fingere compassione quando non ne provo alcuna. È sincerità, la mia.»

«Mio figlio, invece, era molto sensibile alle favole da bambino.»

Éclair si ripromise di avere un’altra chiacchierata con quella donna, davanti ad una tazza di tè, faccia a faccia in modo da poterle osservare ogni piega del sorriso. Vi era qualcosa di infinitamente triste e, nuovamente, icone di madri e donne gentili le sfilarono davanti agli occhi.

«Mi parli di lui.» ordinò, secca, accavallando le gambe.

«Non… non riesco.»

«E perché?»

I loro occhi si incontrarono per pochi secondi, prima quelli della donna che tornassero sul pianoforte.

«Il suo… sguardo. Mi turba.»

«Oh.» disse Éclair, ricordandosi improvvisamente chi fosse. «Capisco. Aspetti due minuti.»

Si alzò e andò in un angolo della stanza, dove aprì uno dei cassetti di uno dei comò che fungevano da arredi. Prese tra le mani un binocolo, di quelli che suo padre aveva comprato per andare a teatro, e se lo mise sugli occhi prima di risedersi accanto alla donna.

«Ora, vi prego, mi parli di suo figlio.»

«Ma, signorina Tonnerre, è sicura che indossare un binocolo sia– »

«Non se ne preoccupi,» la interruppe fermamente la ragazzina. «Ha mai raccontato a suo figlio la favola di Follia e Amore?»

L’altra sorrise. «Certamente. Non l’ha fatto piangere come la storia del Piccolo Principe, né l’ha colpito più di tanto a dire il vero. Ma ricordo ancora quando mi disse: “Amore sarà anche un po’ triste perché non può più guardare, ma ha la compagnia di Follia ora, no?”»

La donna chiuse gli occhi, inclinando il capo con un movimento impercettibile. «È sempre stato un bambino speciale, gentile e dolcissimo di natura. Non credo di aver mai incontrato nessuno che lo odiasse seriamente, perché è capace di farsi amare. È…» La vide sfiorare il pianoforte con le dita, come se lo accarezzasse. «Come il suono d’un pianoforte.»

Realizzò in quel momento che quella madre, con la sua schiena ricurva, non avrebbe potuto cullare nessun altro bambino se non suo figlio e lei, Éclair Tonnerre, s’era già innamorata d’uno sconosciuto che calzava alla perfezione con la descrizione d’un principe.

 

Lithium, don’t want to lock me up inside,

Lithium, don’t want to forget how it feels without,

Lithium, I wanna stay in love with my sorrow,

Oh God, but I want to let it go

 

 

 

 

 

 

 

 

Secondo capitol, quello corposo. :3

E ultima nota prima di andare a nanna: gaurdate questo video. È splendido e Lithium è proprio la canzone di Éclair! <3

à http://www.youtube.com/watch?v=Rcgw9WZgmgw

 

 

Bye dall’assonnatissima XD

Kaho

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Capitolo 3
*** Un animal dans la lune ***


Parte III – Un animal dans la lune

 

 

«Principe…»

Soffiò quel nome con una tenerezza sconosciuta, che mimava il sospiro della madre di Tamaki, quello che aveva ascoltato milioni di volte mentre lei, con pazienza, le narrava la sua vicenda.

Ora, mentre si stringeva addosso a Tamaki cingendogli lo stomaco, schiacciandosi contro la sua schiena, Éclair capiva ciò che aveva tante volte cercato di dirle la donna.

Tamaki era come un getto d’acqua fresca sulla pelle e le sorrideva, senza abbassare lo sguardo, anche quando lo sfidava con lo sguardo aperto, non ostruito dal binocolo che portava sempre con sé, più per abitudine che per necessità.

Éclair lo aveva riconosciuto prima ancora che la nonna di Tamaki glielo presentasse, appena entrata nell’edificio scolastico, nonostante le numerose studentesse e, in numero minore, studenti che stavano in una stanza adibita a cafè.

Era alto e smilzo, con gli stessi occhi grandi e liquidi di sua madre e gli stessi capelli biondi, leggermente più chiari. Sorrideva alle diverse clienti e, di tanto in tanto, urlava qualcosa contro due gemelli dai capelli arancioni o tentava d’abbracciare quello che a prima vista le era sembrato un ragazzino piccolo e moro; ma aveva occhi troppo larghi e ciglia troppo lunghe per essere un uomo.

Aveva cominciato a sospettare un affetto tra i due non appena li aveva visti interagire. Anni e anni di osservazione dei ragazzi che frequentava in Francia e dei suoi genitori le avevano reso famigliare il desiderio trattenuto di Tamaki di toccarla, di starle vicino.

Per questo si era comportata crudelmente, con una consapevolezza che per una volta la feriva.

Si aggrappò alla camicia di Tamaki, affondando il naso nell’incavo del suo collo, odorandone il profumo di sapone e strizzando gli occhi per celare a se stessa il cellulare di Tamaki, che giaceva sul fondo dell’acquario, inutilizzabile.

Aveva distrutto l’immagine di lui e quella ragazza, morsa dal serpente della gelosia; aveva agito d’impulso, senza riflettere, ma poco dopo aveva finto di avere il controllo sull’intera situazione quando, invece, l’unico che possedeva autocontrollo rimaneva fermo nel suo abbraccio, rispettando il suo desiderio di toccarlo, finalmente.

Sembravano due attori sullo sfondo: la strega, il principe ed un incantesimo che non era ancora riuscita a lanciargli.

Éclair si morse le labbra e accarezzò il petto di Tamaki. Lo sentì rigido sotto il suo tocco, e si chiese se lui provasse repulsione per lei, che non aveva conosciuto nessun altro sogno che d’incontrare colui che tutti riuscivano ad amare (che anche una come lei sarebbe riuscita ad amare).

«Ti prego, suona per me Tamaki.»

Era un sussurro sottile ed emozionato; aveva smarrito se stessa da qualche parte da quando lo aveva incontrato. Lui la confondeva e influenzava ogni suo gesto.

Non vi fu altra risposta che un fascio di note che risuonò nell’aria; le braccia lunghissime di Tamaki si allargavano – abbracciando tutto – e le dita pizzicavano senza troppo forza i tasti del pianoforte.

La musica era appassionata, aveva molto più vigore delle sonate della madre di Tamaki e molto più sentimento dei suoi tentativi riusciti perfettamente nella tecnica, e mai nell’emozione.

Si sentiva così strana che gli occhi le si inumidirono.

«Tamaki, fermati.»

Lui appoggiò le mani sul pianoforte e attese, in silenzio.

«Ora mi siedo sulle tue ginocchia e tu guiderai le mie dita sul pianoforte.»

Era troppo buono. Troppo.

Se non le rispondeva a tono, se non si ribellava con parole aspre, come avrebbe potuto lei stare lontana da lui?

Non aveva mai desiderato nulla, né denaro, né potere, né amicizie perché l’aveva avuto tutto pur senza chiedere, usando la sua influenza. Ma ora desiderava essere amata, sinceramente, perché non aveva mai incontrato nessuno con una schiena su cui appoggiarsi con tanta naturalezza, dove riposare il capo e respirare profondamente, con grandi ansiti, come un neonato appena uscito dal grembo.

Mai.

 

 

Come to bed, don’t make me sleep alone,

Couldn’t hide the emptiness, you let it show,

Never want it to be so cold,

Just didn’t drink enough to say you love me.

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi scuso per la rapidità degli aggiornamenti, ma dato che è per un concorso mi pare più giusto pubblicarla completa nel minor tempo possibile. J

Non so se avete notato, ma c’è un cambiamento di ritmo rispetto agli altri due capitoli e questo per un motivo molto semplice: per me Éclair è un’osservatrice troppo attenta e per questo non osserva mai se stessa. Tamaki la manda “fuori-fase”, diciamo.

 

Commenti per rallegrarmi la giornata sono graditissimi! xD

 

Kaho

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Capitolo 4
*** Epilogue ***


 

 

Parte IV – Epilogue

 

 

Mai l’avevano ringraziata con tanta enfasi, mai.

Eppure Tamaki non aveva fatto altro che sorriderle leggermente, perdonandola silenziosamente, ed era saltato dall’automobile in corsa senza darle il tempo di potergli gridare qualcosa, qualsiasi cosa.

In quel momento non le sarebbe importato nulla di apparire patetica o diversa, Éclair aveva sempre agito come si sentiva e, per la maggior parte del tempo, non provava assolutamente nulla.

Ma con Tamaki era diverso e non sapeva neppure spiegarselo: era inevitabile che lei si fosse innamorata di lui, era inevitabile che le fosse sfuggito dalle dita, era inevitabile che volesse accanto a sé quell’altra ragazza.

Tuttavia, nonostante ne fosse consapevole, si era messa a piangere.

Nella confusione si chiese se era giusto piangere senza emettere un rumore, con gli occhi spalancati e il cuore palpitante; il suo petto doveva sconquassarsi? Avrebbe dovuto apparire più sconvolta, meno immobile?

Non poteva, però, obbligare se stessa ad assumere atteggiamenti che non le si confacevano. Pianse in silenzio, senza sorridere né urlare né mordere le labbra. Rimase seria e compita, con grandi lacrime che le rigavano le guance.

«Torniamo all’aeroporto.»

La voce nemmeno le tremò, al contrario di quando parlava con Tamaki.

«Sì, signorina Tonnerre.» le rispose l’autista, spostando lo sguardo sul lungo ponte per rispettare la sua intimità.

Éclair appoggiò il volto sul palmo della mano, fissando il fiume dove si era buttato Tamaki scorrere lontano.

Lo rivide mentre gli volgeva la schiena, tradendola, e spiccava il volo che l’avrebbe fatto atterrare tra le braccia di quella ragazza, accoglierla e stringerla forse come aveva fatto lei nelle sere precedenti, abusando della sua gentilezza.

La spalla che era stata vicino a quella di Tamaki era improvvisamente fredda; ed Éclair, d’un tratto, riuscì ad osservare se stessa con i propri occhi, senza vedersi attraverso gli altri.

Aveva perso qualcosa davvero. Sentiva la mancanza di Tamaki, soffocante e fastidiosa come il sudore contro la seta durante l’estate.

 

 

Darling I forgive you after all,

Anything is better than to be alone,

And in the end I guess I had to fall,

Always find my place among the ashes.

 

 

 

 

Oh, Éclair! ;_;

Un finale che mi ha lasciata di stucco, perché qual pianto sbalordito, inconscio quasi di Éclair sottolinea quella tristezza che ho sempre visto in lei. Sigh.

Ultimo capitolo. Any suggestions? :D

Grazie, comunque, a tutti quelli che hanno letto questa storia. Spero di avervi fatto piacere un po’ di più Éclair se l’avete odiata o di avervela resa ancora più odiosa: in ogni caso, sarà stato un sentimento piuttosto forte. xD

 

Bye!

Kaho

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