Trash Story

di stefanvox94
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'inizio ***
Capitolo 2: *** Presunte differenze ***
Capitolo 3: *** Il passato bussa alla porta ***
Capitolo 4: *** Uscite insolite ***
Capitolo 5: *** Incontri e simpatie: Fulvio e Federico ***
Capitolo 6: *** Lady Borotalco ***



Capitolo 1
*** L'inizio ***


Salgo sulla bilancia.
“53… molto bene!”.
“Non avrai mica intenzione di perdere un altro po' di peso, vero? Se continui così, rischi di scomparire” mi fa mia madre, mettendo improvvisamente piede nel bagno.
“Mi hai fatto quasi venire un infarto” le faccio, fulminandola con lo sguardo.
Si presenta come al solito in qualunque stanza di soppiatto. Sì, lo so che è anche colpa mia: ho il vizio di non chiudere mai le porte. Dovrò dunque imparare presto ad avere questa accortezza. Stavolta non ribatto, tanto so già quale sarebbe la sua risposta: “Io sono l'unica a gestire questa casa… sono l'unica che lava, che stira, che cucina… devo starvi dietro di continuo, devo girare dappertutto a sistemare il disordine che voi lasciate in giro”. “Ma quale disordine?” le feci io qualche giorno fa, stufa delle sue lagne. Era solo l'inizio dell'ennesima litigata, dunque non sto qui ad annoiarvi con un patetico botta e risposta tra una mamma schizzata e una figlia sgallettata.
Indosso le ciabatte, tiro dietro i miei capelli biondi e mi rivolgo a lei con molta calma. Una calma molto forzata, ovviamente. “Stavo semplicemente osservando i risultati della palestra. Non sto seguendo alcuna dieta, non ho intenzione di arrivare a non mangiare nulla. Voglio solo essere… perfetta”.
“Se perfetta significa non avere un filo di grasso...” risponde subito, senza nemmeno guardarmi negli occhi. Appende gli accappatoi e poi controlla che nel suo beauty case sia tutto a posto. “E poi, non è vero che non ti stai fissando col cibo. Eviti i carboidrati come la peste, ad esempio. Credevi che non me ne fossi accorta? Stai sempre a prepararti insalate e passati di verdura”.
“Cerco solo di mangiare in maniera adeguata” controbatto, afferrando il mio scrub corpo con prepotenza e lasciando il bagno dopo aver aggiunto: “non mi riempio di schifezze per poi lamentarmi della salute che va a farsi friggere”. Ovviamente era una frecciatina bella e buona. Ho sempre la risposta pronta. E se non ce l'ho, cerco di formularla in men che non si dica: devo essere sempre io a dire l'ultima.
Per fortuna non risponde, non sopporterei di sentire ancora la sua voce, soprattutto adesso che è mattina e che il mio sistema nervoso è più facilmente irritabile. O probabilmente mi sono già talmente allontanata che non la sento. Già, la distanza tra un bagno e un altro, in questa casa, è abissale. D'altronde, che cosa vi aspettereste dalla residenza di un dottore medico chirurgo sindaco e rappresentante provinciale di non mi ricordo che cosa? Denaro a palate, dimora sfarzosa e ville sparse in diversi posti di mare limitrofi e non.
Sto per urlare alla domestica di prepararmi la colazione con yogurt greco e cereali dietetici, ma ricordo che si è ammalata una settimana fa e maledico il suo nome. Non vedo l'ora che torni. Non solo perché sa bene come massaggiarmi i piedi, ma anche perché è ovviamente più brava di mia madre a cucinare e… a fare tutto il resto. Sono sette giorni che è a letto con un'influenza che io ancora non riesco a concepire (perché è estate e non è la stagione dei malanni e perché una domestica dovrebbe comunque stare attenta a non ammalarsi a priori, dato il suo ruolo di estrema rilevanza in una casa del genere) e sono dunque sette giorni che mia madre dice di essere stanca di fare la casalinga, come se lo facesse da una vita. In realtà credo che voglia semplicemente tornare a stare sul divano e a fumare i suoi sigari cubani tutto il giorno per poi trovare il piatto pronto due volte al dì. Nonostante non mi stia simpatica, non la biasimo, la mia mammina. Ha i soldi (del marito) per godersi questo stile di vita, pertanto quella cavolo di domestica deve tornare al più presto oppure sarò io a ingaggiarne un'altra.
Comunque… poso lo scrub corpo sullo sgabello dorato di uno dei cinque bagni (quello più vicino alla mia camera), mi spoglio, entro nella vasca e comincio a sciacquare la mia pelle candida per poi passare al mio quotidiano rituale di bellezza mattutina: devo apparire splendente quando entrerò nel municipio.
Loris mi aspetta. Lavora per mio padre, gli fa da assistente nei suoi impegni di amministrazione comunale. Non so di preciso di cosa si occupi. Non che mi interessi più di tanto… è il ragazzo più bello della città, è popolare, gli sbavano dietro ragazze e ragazzi e questo è ciò che importa. È alto, ha capelli e occhi castani, è depilato e sbarbato. Una volta pensavo che questo tipo di ragazzi rappresentasse il classico stereotipo gay che ricerca la perfezione estetica: i miei due amici più stretti sono così. Ma mi son dovuta ricredere. Dicono che i ragazzi del genere siano peggio delle femminucce. A me non importa: li preferisco così piuttosto che sbadati, rozzi e puzzolenti. A fianco a una come me c'è bisogno di una figura altrettanto splendente e affascinante. E Loris è quello giusto. Ora che la scuola è finita (almeno per questi tre mesi estivi), vado a trovarlo ogni mattina. Prendiamo il caffè insieme. Quelle poche volte in cui c'è anche papà (ovvero quando quest'ultimo non è in ospedale o in qualche altro palazzo politico eminente) io riesco comunque a catturarlo e farlo mio per la nostra mezzoretta insieme. Naturalmente capita che ci vediamo anche di sera, ma non sempre, dato che lui in settimana si allena o fa cose da maschi insieme alla sua combriccola. Poi ci sono le serate-evento, quelle a cui solo persone come me e come lui possono presentarsi. In genere sono feste di classe che si tengono il venerdì o il sabato. In poche parole sono le occasioni per farmi vedere con lui dal pubblico. Ovviamente sono serate che io mi son guadagnata, in un certo senso: ogni mattina prendo il caffè insieme a lui quando invece potrei fare tutt'altro, rinuncio a perseguitarlo quando non è con me e non so cosa combina coi suoi amichetti, non faccio scenate di gelosia ogniqualvolta vengo a sapere che farà dei servizi fotografici con delle modelle, eccetera. Non credete sia qualcosa di ammirevole? Vengo ricambiata con la sua compagnia davanti a una massa di gentaglia invidiosa ogni weekend. E mi sento importante. Più importante del solito.

Arrivo in Via Municipio.
Lascio la mia bici rosa vicino ad un lampione e mi avvio verso le scalinate grigie che portano all'ingresso dell'imponente edificio. Noto la Mercedes di papà e ricordo che oggi è il suo giorno libero, non deve occuparsi di nessun paziente nell'ospedale della città e quindi può permettersi di dirigere le futili faccende comunali.
Loris mi aspetta proprio di fronte al portone: sta finendo di fumare una sigaretta e mi sorride esibendo la sua magnifica dentatura ed emanando luce dagli occhi.
“Amore mio” mi saluta.
“Ciao cucciolo” gli rispondo, correndo verso di lui.
“Sei magnifica stamattina” esclama, mentre io mi ci avvicino, muovendo le spalle.
“Oh, ma cosa dici mai! Non ho indossato chissà che cosa”. Quanta falsa modestia. Sono consapevole di quanto sia figa la mia maglietta zebrata, per non parlare degli shorts e delle ballerine bianche, tutta roba acquistata nel negozio di prima classe in cui mi reco molto spesso.
“Baciami” mi fa, una volta raggiunto.
Le nostre sdolcinatezze svaniscono non appena papà spunta dietro il mio ragazzo.
“Buongiorno, bellezza” saluta babbo, un bell'ometto poco più alto di me, dai capelli brizzolati e vestito sempre in maniera elegante.
Io vado ad abbracciarlo. Gli voglio tanto bene.
“Come va il lavoro oggi?” domando.
“Nuovi progetti, mia cara, nuovi progetti in vista” risponde, rivolgendosi poi a Loris “non è vero, mio caro assistente?”.
“Oh, sì, signor De Vittori” conferma Loris, con atteggiamenti da bravo ragazzo. Immagino faccia così perché vuole assicurarsi che mio padre accetti la nostra relazione.
“Allora, mia cara Adelasia, sei venuta per il solito caffè?”.
“Oh, babbo...” gli sorrido, quasi vergognandomi.
“Non c'è bisogno di fare la timida” mi rassicura lui, “questo giovincello merita perfettamente di prendersi una pausa con uno splendore come te”.
Loris accenna un occhiolino, io chino il capo e agito di nuovo le spalline, tutta contenta.
“… Ma...” continua papà “stavolta ci sarò anch'io con voi!”.
“Ehm.. cosa?” gli faccio, sbigottita. Io e Loris ci guardiamo perplessi.
“Ti dicevo che abbiamo nuovi progetti e… vorrei che tu collaborassi con noi”.
“Significa che dovrò lavorare in questi uffici d'ora in avanti?” chiedo, storcendo il naso.
“Non proprio, ma quest'estate dovrai aiutarci. C'è bisogno del tuo straordinario contributo… insieme a te creeremo quello spirito di squadra che in questo momento risulta necessario. Entriamo, forza, ti spiego meglio di cosa si tratta”.
Papà riapre il portone del municipio, io e il mio ragazzo ci guardiamo nuovamente, scrolliamo entrambi le spalle e poi lo seguiamo.
Attraversiamo i corridoi in cui i dipendenti lecchini quasi si inchinano di fronte al dottor sindaco e io sussurro a Loris: “Perché fai finta di non sapere? Tu sei sempre a conoscenza di quello che papà e i suoi consiglieri, assessori e compagnia bella combinano in questo comune”.
“Conosco i progetti, ovviamente. Ma non capisco come mai vuole coinvolgerti”.
Se ci penso bene non è una cattiva idea. Avrò una scusa in più per stare con il mio ragazzo e magari per dimostrarmi una persona attiva agli occhi dei cittadini. Però se tutto questo si fa troppo pesante non voglio mica stressarmi. Ho troppe cose a cui pensare… feste, beauty routine, shopping… vabbé, prendiamoci 'sto benedetto caffè e ascoltiamo 'ste proposte.

Sono passati dieci minuti. Mio padre mi ha spiegato tutto e io sono letteralmente basita, anzi direi sconcertata. Accontento sempre il mio paparino, soddisfo le sue richieste, ma stavolta la cosa mi sembra inaccettabile. So già che gli farò questo favore, che non mi tirerò indietro, ma… cavolo, no, non posso negare che questo è chiedermi davvero troppo!
Cercherò di tollerare questa situazione pensando al fatto che molto probabilmente servirà a farlo rieleggere sindaco. Lui ne è convinto: in questi pochi mesi che ci separano dalle nuove elezioni papà deve fare di tutto per apparire una persona benevola, il paladino del bene della comunità: ecco perché si occuperà degli anziani, dei disoccupati e immagino anche degli emarginati e di altri tipi di disgraziati. Io dovrò aiutarlo in questa impresa: mi ha rifilato un posto nel centro ragazzi disabili della città, o una cosa del genere. Dovrò svolgere un tirocinio in un luogo in cui io non so proprio come muovermi. Non voglio dimostrarmi disgustata nei confronti di quei poveri adolescenti che non sono fortunati come me (benché ci sia da sottolineare che anche molti tra quelli non disabili, ovviamente, non sono fortunati o dotati intellettualmente e fisicamente come la sottoscritta), farò del mio meglio, anche perché non è questa specie di volontariato che mi spaventa, ma ben altro. In quell'edificio lavorano i ragazzi più sfigati della città: è questo ciò che mi turba. Dovrò collaborare o comunque stare vicina alla feccia della società, a gente che neanche lontanamente si avvicina a individui come me, che può solo sognarsi le mie feste, i miei vestiti, eccetera. Eterni poppanti che grazie a un corso gratuito di due mesi hanno trovato, subito dopo la maturità, conseguita nei professionali più squallidi della zona, il primo lavoro disponibile praticamente sotto casa. E, come se non bastasse, uno di questi esseri mediocri è il figlio dell'altro candidato sindaco, un rockettaro che un anno fa si dichiarò innamorato di me… ma, lasciamo perdere, mi viene la nausea soltanto a pensarci! Non è brutto come ragazzo, se devo essere sincera, i suoi capelli mori e ondulati non sono male, la sua statura è accettabile… ma… okay, dicono che “altezza mezza bellezza”, però… tralasciando per un attimo la sua classe di appartenenza, le amicizie e quant'altro, io ribadisco che l'abito fa il monaco. E i suoi indumenti acquistati dai cinesi sono la dimostrazione che Madre Natura può regalarti la bellezza, ma non lo stile. Fulvio… Fulvio Terreno, sì, è così che si chiama, ora ricordo.
Loris cerca di consolarmi. Strofina il suo naso sul mio orecchio sinistro, ma io lo respingo. Non è il momento di stare alle sue smielate attenzioni.
“Smettila, okay? Sei fuori luogo” gli faccio.
Lui corruga la fronte, poi sorride, china il capo e torna nel suo ufficio.
Respiro profondamente. Papà mi raggiunge, chiedendomi: “Tutto bene, cara?”.
“Sì, babbo, torno a casa e… cerco su Google Maps la strada di questo luogo di invalidi di cui mi hai parlato”.
“Oh, non preoccuparti, tesoro mio, domani ti ci porto io”, poi si avvicina e mi sussurra: “ci saranno i paparazzi del giornale locale a fotografarci non appena arriviamo lì… sarà l'inizio di tutto!”.
“Ah… capisco...” balbetto, “dovrò dunque scegliere un abbigliamento adatto”.
“Oh, ma lo fai sempre!”.
“Sì, certo, non metto mai niente di inappropriato, ma… devo riflettere bene su come devo apparire sulla stampa!”.
“Se è così, allora, datti da fare… conto su di te!”, e si allontana dopo avermi dato una pacca sulla spalla.
Mi sento disorientata. Sto per impegnarmi assiduamente in un qualcosa che mi farà sicuramente sentire soffocare. Sto per sacrificare un'estate… ma, per il mio babbo, questo ed altro! O, almeno... farò quel che potrò!
Testa alta. Sarò circondata dalla bassezza, ma non mi farò influenzare. Ecco, è una situazione abbastanza difficile, ma devo farmi forza. Sarò capace di affrontare tutto affidandomi alle mie capacità di dissociazione.
Si tratterà soltanto di tre o quattro ore al giorno, per cinque giorni alla settimana. Ce la posso fare.
Forza, Adelasia.
Svolgerò i miei compiti senza pensare ad altro. Magari interloquirò con i disabili a cui le mie graziose mani presteranno assistenza, spiegherò loro cosa significa essere ricca sfondata, avere stile, racconterò un po' della mia meravigliosa vita, ma… con i dipendenti, no… non avrò nulla a che fare. Li eviterò e basta.
Stasera prenderò una coppetta di gelato con Federico e Manuel, i miei due amici gay, e cercherò conforto in loro. E poi… mi aspetterà una notte in compagnia dell'ansia, finché non sorgerà di nuovo il sole e… avrà inizio la mia nuova sfida personale.

Papà ha praticamente sostato per cinque secondi di fronte al centro disabili, ha abbassato il finestrino per farsi fotografare il bel faccino, abbellito dall'ultimo modello Ray-ban, e, una volta che io ho portato il mio culetto fuori dalla sua Mercedes, se ne è andato via.
Ecco dunque che mi ritrovo a dover attraversare il vialetto pieno di fotografi.
Ho scelto un meraviglioso vestito bianco, calze chiare e ballerine nere, una borsa argentata e occhiali giganteschi Dolce&Gabbana. Ho raccolto i miei capelli in una semplice e sbrigativa acconciatura munita di fermacapelli dorati.
Non da meno è il mio trucco. Avendo tolto gli occhiali con eleganza, sfoggio un ombretto viola non troppo pesante, un eyeliner che risalta i miei occhi verdi e un lucidalabbra fucsia.
Sento però che il mio protagonismo viene soppiantato non appena metto piede nella struttura.
Cammino, spaesata, nella sala comune, piena di disabili e relativi assistenti.
“Ecco lei, la smorfiosa… viziata… figlia del riccone… guarda che aria superba...” mormorano gli adulti più volgari della città che ci lavorano, al contrario dei più giovani, a tempo pieno.
Giuro che non mi sono mai sentita così emarginata e in imbarazzo prima d'ora. Per me è tutto… così nuovo…
Vedo che si avvicina la direttrice (ho capito sin da subito il suo ruolo dall'aria sicura e altezzosa che la contraddistingue in mezzo a questi esemplari) e mi sento leggermente sollevata soltanto perché ci sarà qualcuno che mi indicherà cosa fare, ma, per il resto… se non fosse per mio padre sarei scappata via senza pensarci due volte.
Li vedo… sì, vedo anche loro… i ragazzetti dei ceti bassi. Tra loro spicca il belloccio e allo stesso tempo sempliciotto Fulvio Terreno.
Mi sento ancora di più a disagio.
“Ben arrivata, Adelasia” saluta la direttrice.
“Buongiorno”.
“Sei pronta? Vieni con me, ti spiego tutto davanti a un bel cappuccino”.
Giunta nell'ufficio della signora, leggo nome e cognome sulla cattedra: è la moglie dell'altro candidato sindaco! La madre di quel Fulvio lì! Sembrerà strano, ma non l'ho mai incontrata prima d'ora, sapevo soltanto come si chiamava, la moglie del politico Ernesto Terreno.
È per caso un complotto contro di me? Io, che sono sempre circondata da gente che mi osanna, o che accetta ordini da me, adesso… mi ritrovo a dover ricevere direttive da individui che appartengono a tutto un altro mondo.
Mi sento umiliata.
Mi sento svenire.
Mi sento in trappola.

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Capitolo 2
*** Presunte differenze ***


Sì, Adelasia è una persona orribile, obiettivamente parlando. È una sociopatica, a volte addirittura bipolare. È egoista, presuntuosa, vanitosa, e chi più ne ha più ne metta. Insomma, è la tipica ragazza ricca, viziata e arrogante. Ma io posso dire con tutta sincerità di aver conosciuto il suo lato positivo, quel piccolo tesoro non materiale che lei possiede ma che purtroppo nasconde all'umanità intera praticamente ogni momento della sua vita. E sono stato molto fortunato per questo motivo, perché lei mi ha letteralmente salvato. Quando i miei genitori hanno cominciato a ripudiarmi dopo aver saputo della mia omosessualità, è stata Adelasia De Vittori, il personaggio più controverso, odiato e allo stesso tempo ammirato dai suoi concittadini, a risollevarmi dalla mia crisi. I suoi occhi verdi brillavano mentre mi accarezzava il viso.
“Ciao Federico… cos'hai? Non farti vedere così, mi si spezza il cuore. Ascoltami… ti farò sentire al sicuro, per quanto mi sarà possibile” mi promise, così, all'improvviso, una sera, mentre piangevo seduto sul marciapiede della mia strada. Era la prima volta che mi rivolgeva la parola.
Non sapevo avesse compreso del tutto il mio malessere, infatti precisai immediatamente: “Ehm, non credo, o meglio, non possiamo conoscerci in quel senso… ti ringrazio comunque per la preoccupazione”.
“Oh, ma, Federico, lo so che sei gay… o meglio, l'ho capito subito poco fa. Il mio cervello dispone di un gay radar. Sicuramente non sembri una femminuccia sfranta e insopportabile, ma ho notato da subito che sei diverso dagli altri ragazzi” mi spiegò, mettendosi accanto a me e stringendomi la mano destra. “Ehm… diverso non nel senso che… insomma, sei come tutti, questo è certo, non intendevo… io volevo dire, diverso dai soliti ragazzacci che girano da queste parti, credo di essermi spiegata, non è vero?”.
“Allora… come mai tu…” balbettavo anch'io, dubbioso.
“Appena ti ho visto venti secondi fa ho capito che saresti stato un ottimo amico. Ma prima devo dimostrati la mia fedeltà, insomma… la mia gentilezza… è così che si diventa amici, no?” mi domandò, dimostrando di non essere nemmeno così tanto sicura di ciò che pensava.
“Sì...” singhiozzai, prendendo un fazzoletto da lei offerto. Mi pulii il naso e poi ripresi: “Ma… non capisco come mai proprio te, Adelasia De Vittori, ti rivolga a un essere qualunque in questo modo… sappiamo più o meno tutti qui di che pasta sei fatta”, le parlai francamente.
“Ma tu non sei un essere qualunque, Federico… innanzitutto appartieni a una delle famiglie più agiate, e...”.
“Ah, è solo per questo che mi vuoi essere amica?”.
“Beh… no, ora che ci penso meglio...” si corresse, storcendo il sopracciglio e mostrando uno sguardo improvvisamente perso, “… sono sorpresa anche io di questo mio comportamento benevolo… in genere faccio qualunque cosa per un tornaconto… non so, a cosa ha potuto pensare la mia testolina? A cosa ho puntato non appena ti ho visto? Sei ricco, ma… io di amici ricchi ne ho a iosa… Boh, forse ti ho voluto acchiappare perché sei gay e se ho un amico gay posso dimostrare a tutti quanto io sia avanti, futurista, progressista o qualcosa del genere… no, no, neanche questo. In realtà non mi importa, anche perché la bisessualità o comunque la difesa dei diritti LGBT ultimamente vanno di moda… vabbé, dai, basta chiacchiere, voglio aiutarti e basta”.
“Come puoi aiutarmi se il problema è nella mia casa?”.
“Vieni a dormire da me in questi giorni, finché i tuoi non ti chiamano per risolvere, altrimenti rimani da me senza problemi. Che ne pensi? Forza, vai a preparare zaini, valigie e quant'altro”. Accarezzò ancora i miei capelli rossi, poi sembrò contare le lentiggini sulle mie guance rigate dalle lacrime, ignorando la mia espressione perplessa. Dopodiché lasciò da parte la sua pacatezza e mi spronò con aria quasi impaziente: “Coraggio, muoviti”.

Adelasia mi ospitò per tre giorni, finché i miei genitori non morirono in un incidente stradale e io andai ad abitare con i miei zii paterni.
Quei giorni furono così confusionari, emotivamente parlando. Non sapevo se piangere per la perdita o se prenderla come una liberazione. Dopo i primi momenti di disordine mentale capii poi che si trattava più di una liberazione che di un lutto. Io ho sempre odiato i miei genitori, anche prima che mi odiassero loro. Ero figlio unico, e dovevo essere inquadrato secondo i loro criteri. Dovevo dimostrarmi sempre dedito alla famiglia e alla chiesa, conservatore, bigotto, omofobo, razzista… a volte mi fidanzavo forzatamente con la prima ragazzina facile che trovavo soltanto per portarla a casa e rassicurare mamma e papà di essere “normale”.
I miei zii, oltre ad Adelasia, sono stati la fortuna della mia vita. Benestanti anche loro, ma completamente diversi sul piano del carattere e… dello schieramento polito. Mi hanno accolto a braccia spalancate e mi hanno accettato per quel che sono senza fare troppe domande.
“Non ci sforzeremo di capire la tua situazione, semplicemente perché non dobbiamo cambiare idea su nulla. Siamo gente sensibile e per bene e sappiamo benissimo che la tua natura non è perversa” mi disse una volta la zia Cecilia, coi suoi modi chic.
Iniziai da quel momento a vivere veramente. Cambiai liceo. Mi trasferii in un altro linguistico: in quello di Adelasia. Scelsi proprio la sua classe. Frequentavamo il terzo anno. In quel periodo conobbi in discoteca Manuel, gay anche lui. Lo presentai ad Adelasia, alla quale all'inizio risultava difficile accettare il suo stile metallaro, ma poi ci fece l'abitudine e insieme formammo un trio che è tuttora solido.

L'affetto che io e Manuel abbiamo sempre provato per Adelasia, nonostante il suo carattere difficile e insopportabile, l'abbiamo dimostrato anche questa volta, in una serata trascorsa nella gelateria di lusso della nostra cittadina. La nostra amica ci ha spiegato la situazione che la sta sconvolgendo, e io e Manu l'abbiamo convinta a non vederla come una tragedia, ma come un'opportunità. Probabilmente non sappiamo neanche noi di che tipo di opportunità si tratti, ma almeno abbiamo provato a trovare le parole giuste per permetterle di affrontare questa faccenda con minore ansietà.
La verità è che il dottor De Vittori vuole migliorare quanto più possibile e in breve tempo la propria reputazione nella città per poter essere rieletto come sindaco di Dartigliano. E, essendo consapevole che i giornalisti locali ficcano il naso dappertutto, sa per certo che, se inserisce sua figlia in un contesto come quello dei servizi sociali erogati sia dal governo nazionale sia dallo stesso comune, finirà inevitabilmente al centro dell'attenzione. E lo farà occupandosi anche di altro, con molta più dedizione, finché non arrivano le prossime elezioni. Gli verranno dedicati articoli e interviste. Insomma… tutta questione di apparenza!
Ma se è una come Adelasia De Vittori ad essere la figlia di tale sindaco e a doversi sacrificare per una causa del genere, i capricci e i lamenti non possono mancare.
“Anche io odio quella gentaglia” ho ribadito per l'ennesima volta. “I motivi sono però differenti. Tu la detesti perché la reputi diversa principalmente per motivi economici. Io invece disprezzo il loro modo superficiale di ragionare. Non potrò mai scordarmi gli atti di bullismo che ho subìto anni fa. Non sono stati quelli che lavorano in quel centro a provocarmeli, ma erano comunque ragazzetti appartenenti a famiglie di bassa estrazione sociale, come loro”.
“Ecco vedi?” è esplosa, come una schizzata. “C'è una correlazione innegabile tra ceto e mentalità”.
“Non fare di tutta l'erba un fascio, Ade” le ha fatto Manuel, aggiustandosi il ciuffo nero come i suoi occhi. “Pensa a Fulvio Terreno. Non è mica così tanto immaturo… o maligno”.
“E pensa anche ai miei genitori defunti” le ho ricordato io. “Tanto ricchi quanto crudeli”.
Adelasia ha annuito, chinando il capo e riprendendo a sfogare il suo tormento sul gelato senza glutine.
“Tu hai semplicemente paura di essere ripudiata” ha aggiunto Manuel, mantenendo il suo solito sguardo vacuo, apatico e quasi totalmente disinteressato nei confronti di tutto e tutti. “Quelle persone possono facilmente provare invidia nei tuoi confronti, e tu temi di non saper gestire questa situazione”.
“Certo, perché sarò sola!”.
“Va bene, allora, domattina verrò io a farti compagnia, okay?” le ho proposto, “Magari non trascorrerò tutta la mattinata, ma ci passo per qualche minuto”.
“Perché non vieni a fare 'sto tirocinio insieme a me? Che ne dici se lo chiedo a papà?”.
“Ci parlo io, se vuoi, con lui. Domani verso le dieci faccio un salto in questo centro disabili e poi vado a parlare con tuo padre… lo troverò nel municipio?”.
“Sì, domani sì, fino alle tredici”.

Mantengo sempre le promesse. E adesso mi ritrovo nel Centro Giovani Diversamente Abili di Dartigliano. Mi sembra un po' strana come situazione, perché in genere è sempre stata Adelasia a portarmi in giro, a feste, incontri, di qua e di là… insomma, ogni volta che ci siamo ritrovati in luoghi affollati in cui si tenevano riunioni, celebrazioni o cose simili, Adelasia era (ed è ancora oggi in molte circostanze) la protagonista, e io una specie di accompagnatore, o… cagnolino. Certo, io mi sono sempre accontentato di questo ruolo, al contrario di Manuel, che, se poco gradiva l'ambiente in cui era invitato, non esitava a rifiutare e a starsene per i cavoli suoi. Comunque, nonostante la mia secondarietà in queste situazioni, la compagnia di Adelasia mi è sempre piaciuta, anche quando mi ha portato in posti in cui veramente, se non fosse stato per lei, sarei fuggito senza pensarci più di tanto. Non scorderò mai uno dei convegni di femministe a cui partecipammo perché Adelasia decise di provare a interessarsi di cose serie. Tutte quelle ragazzette ben vestite non facevano altro che urlare il loro orgoglio… ma ciò che più mi lasciò allibito e allo stesso tempo divertito fu un'esclamazione di una di quelle lì: “Dobbiamo lottare per la parità dei sessi… e lo faremo dimostrando la nostra superiorità!”, seguita da un “Viva le donneeee!” urlato in coro. Avrei voluto timidamente chiedere: “Ma… non è un controsenso?”, tuttavia continuai a rimanere recluso nel mio silenzio e nella mia immobilità. Scelsi di trattenermi, altrimenti mi avrebbero fatto fuori senza ombra di dubbio. Nonostante questi sporadici episodi di delirio, inquietudine e turbamento, ho sempre seguito Adelasia per cercare di socializzare e di aprirmi al mondo dopo gli anni oscuri vissuti coi miei genitori. Mi sono perennemente aggrappato alla mia migliore amica senza lasciarla mai, anzi, senza lasciare che lei mi lasciasse.
Ora invece, a quanto pare, Adelasia ha più bisogno di me di quanto io abbia mai avuto bisogno di lei. È sempre così sicura di sé, ma stavolta le è inaspettatamente bastato poco per sentirsi spacciata.
La trovo in un angolino della sala in cui di solito i dipendenti del centro si fermano per uno spuntino o anche per pranzare.
“Come mai sei seduta vicino a degli umilissimi distributori?” le faccio, sorridendo.
“Non è il momento di scherzare” tuona, volgendo il volto disperato verso di me. Ha occupato interamente uno dei tavolini bianchi con una delle sue enormi borse scintillanti, il suo beauty case, i suoi frullati e altre bevande e cibarie portate da casa. “E comunque non tocco quella roba”.
“Cosa fai?”.
“Faccio merenda. Ho aspettato che gli altri sloggiassero da questa sala dopo le loro disgustose pause in cui mangiano sbavando e spettegolando sul più e sul meno”.
“Che cosa stai mangiando?”.
“Gallette di riso e miele”.
“A me sembra polistirolo” riprovo a tirarle su il morale, invano.
“Ripeto, non è il momento di scherzare”.
“Ascolta”, mi faccio serio anche io, “non ti aiuterà di certo continuare a tenere il broncio. Cerca almeno di instaurare un buon rapporto coi pazienti”.
“Ci ho provato. Ma i discorsi e gli atteggiamenti imbecilli di quegli ottusi mi hanno fatto distogliere l'attenzione da...”.
“Non è una scusa” la interrompo fermamente.
“Ah sì? Vuoi sapere un po' di cose? Così valuti anche tu la situazione… dunque, stanno sempre a parlare di cibo. Sono letteralmente ossessionati dalla cucina. Per loro mangiare fa figo, quanto più uno di loro dichiara di ingozzarsi durante i pasti, più desta la meraviglia dei suoi simili. Se non parlano del cibo, sparlano dei laureati. Dicono che quasi tutti loro non trovano lavoro se non nei McDonald's e che possono soltanto usare il proprio attestato di laurea come carta igienica. Cos'altro?... ah, sì: scaricano film e musica illegalmente… si vantano di non comprare nulla di originale… che poveracci! Hanno la povertà anche al posto della dignità! E poi… riempiono le bottigliette d'acqua dal rubinetto del bagno… ti rendi conto? DAL RUBINETTO DEL BAGNO!” si sfoga, cercando di non alzare troppo la voce.
Non faccio in tempo a replicare al suo elenco di tragedie che si avvicina Fulvio Terreno.
“Ciao ragazzi, tutto okay? Ehi… Federico, giusto? Come va?”.
Il sorriso del figlio del candidato sindaco Terreno è innegabilmente attraente. Anche i suoi capelli mediamente lunghi e mossi sono affascinanti… insomma, è un ragazzo carino, anche nei modi, non posso dire il contrario. Ma Ade non si abbasserà mai ai suoi livelli e continuerà a preferire la superficialità di Loris pur di apparire la ragazza perfetta accanto al ragazzo perfetto.
“Va tutto bene, grazie” risponde seccamente lei, voltandosi dalla parte opposta.
“Non c'è male” gli faccio io, con tono decisamente più cordiale. “Probabilmente anch'io svolgerò un tirocinio estivo qui”.
“Grandioso! Mi fa piacere avere intorno altri giovani come me”. Fulvio sembra essere sincero. Non posso fare a meno di fissare i suoi pantaloncini grigi… non li avrà comprati in uno dei negozi in cui spesso io e Adelasia facciamo shopping, ma… devo ammetterlo, non sono niente male.
“Sono… contento”.
“Ora devo proprio andare… oggi faccio mezza giornata, per via di altri impegni. Ci vediamo presto, allora… è stato un piacere”. Fulvio mi stringe la mano, fa un occhiolino alla mia amica e se ne va.
“Tu rimani un altro po', vero?” mi domanda lei.
“Ma sì, dai, magari assaggio un po' del tuo polistirolo e poi vado a incontrare tuo padre”.
“Perfetto”.
Nessun commento sul ragazzo con cui abbiamo appena scambiato due parole. Rimaniamo in silenzio per un minuto, mangiucchiando in maniera compita. Dopodiché, prima che io sgattaioli via, vengo accompagnato a fare un giro nella struttura, in cui i soli colori che dominano solo il bianco e il celeste, poi nel giardino posteriore, finché io e la mia amica non ci salutiamo nel viale d'ingresso.
Procedo a piedi verso il municipio. Attraversando le strade più disparate, non posso fare a meno di assistere agli scenari di vita quotidiana della parte più “paesana” della mia cittadina. D'altronde è un posto del sud, e si sa che qui i popolani rappresentano lo stereotipo del provincialotto perfetto. Vecchie bizzoche che, all'uscita dalla chiesa, non resistono a intrattenere discorsi squallidamente religiosi col prete dopo la messa mattutina; anziani al bar che stanno attenti a squadrare chiunque passi davanti a loro per poi commentare o ricostruire l'albero genealogico di ogni individuo preso in esame; ragazzi che già dai sedici anni circa fumano le canne o tracannano birra nascosti dietro i monumenti del centro storico; zitelle che malignano sulla vita di ognuno a partire dal proprio vicino di casa fino ad arrivare all'ultimo superstite del villaggio in periferia… ho provato più volte a giudicare obiettivamente questo tipo di persone, senza farmi influenzare da giudizi estremisti come quello di Adelasia in primis, ma non sono riuscito più di tanto a trovare in me un minimo riscontro di simpatia o di tolleranza soprattutto nei confronti di coloro che mi hanno fatto passare le pene dell'inferno con i loro insulti e i loro pregiudizi: ingiurie non molto diverse da quelle che uscivano dalle bocche perfide dei miei genitori, ma semplicemente riformulate con un linguaggio più rozzo e volgare.
“Tutto il mondo è paese”, si sa, siamo tutti umani, abbiamo tutti quanti dei difetti che vengono fuori soprattutto quando ci lasciamo andare e ci abbandoniamo alla nostra natura infida e malvagia, ma, lasciando da parte la questione dei ceti sociali, non ha tutti i torti la mia migliore amica quando afferma che la bassezza culturale è inversamente proporzionale alla propensione verso l'apertura mentale.

Il carissimo dottor Bruno De Vittori, avendo ascoltato la mia proposta in uno degli affollati corridoi comunali, ha accolto caldamente la mia richiesta, che è più un favore per sua figlia che un'attività che mi possa effettivamente risultare utile. Se lo facessi per puro egoismo, potrei pensare che questo tirocinio sarà inserito nel mio curriculum o… boh. Ma… okay, trascorrere qualche ora in più con Adelasia per me è un piacere.
“Ti sono grato per il tuo sostegno” dichiara, poggiando la sua mano destra sulla mia spalla sinistra. “Questa città ha bisogno di noi… il nostro schieramento deve assolutamente vincere!”, aggiunge senza mezzi termini. “Noi faremo di tutto!”.
“Sono felice di poter appoggiare un movimento civico apartitico come il suo, dottore”.
“Ma dammi pure del tu, ragazzo, ormai sei di famiglia!”.
L'entusiasmo del dottor De Vittori viene interrotto da delle urla provenienti sia dall'interno che dall'esterno. Avendo visto qualcuno uscire precipitosamente dall'edificio, anche io e il sindaco facciamo lo stesso.
Il corpo senza vita di Loris Gerardi, fidanzato di Adelasia e assistente del dottor de Vittori, è riverso a terra, sul marciapiede, in una pozza di sangue. Qualcuno lo ha lanciato dalla finestra… o si è suicidato, gettandosi dal quarto piano dell'imponente palazzo storico di Dartigliano.

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Capitolo 3
*** Il passato bussa alla porta ***


Ovviamente io non ho partecipato al funerale di Loris Gerardi. Sarei stato un ipocrita a farlo. Ho sempre detestato quel tipo di persone e cerco di rimanere coerente con me stesso. Posso provare certamente un minimo di dispiacere, ma unirmi al dolore di coloro che condividevano qualcosa con lui mi avrebbe reso una persona falsa e disonesta. Alcuni miei colleghi, nonché amici, ieri non sono venuti a lavorare per recarsi a casa Gerardi e poi in chiesa. Io invece ho preferito continuare a svolgere il mio compito, quello di prestare assistenza a giovani sfortunati che meritano di ricevere più attenzioni di quante molti diano a gente che, purtroppo, con uno schiocco di dita si ritrova al centro dell'attenzione e dell'interesse pubblico.
La morte del fidanzato di Adelasia rappresenta sicuramente una vicenda abbastanza controversa e misteriosa. Le forze armate si sono date da fare per trovare il colpevole, ma ancora niente è stato risolto. Non è stato individuato nulla di rilevante dal controllo delle telecamere di sicurezza del palazzo municipale. E c'è da aggiungere che nel corridoio dello stanzino in cui il ragazzo si era recato per sbrigare qualcosa non ci sono telecamere di alcun tipo, proprio perché è una parte del palazzo generalmente poco frequentata. Una cosa però e certa: si è trattato di un omicidio. Qualcuno dice di aver sentito urlare Loris, che pregava il nemico di lasciarlo stare e di non fargli del male.
Ancora oggi, logicamente, i concittadini non parlano di altro. E anche qui, al centro dei giovani disabili, i discorsi degli assistenti e del resto del personale sono incentrati sull'accaduto.
Adelasia arriva in ritardo. Entra, seguita da Federico, con un'aria più furiosa che depressa. Si sistema il vestito casual azzurro, mette gli occhiali da sole nella borsa in pelle e mi adocchia: non sembra per niente intenzionata a dare del buongiorno a qualcuno, tanto meno a rivolgersi a me in modo gentile. Anzi, continuando a fissarmi con gli occhi socchiusi e le pupille contratte, si incammina verso di me, rumoreggiando coi tacchi in tutto il salone principale.
“Salve, Fulvio Terreno. Io e te dobbiamo fare un bel discorsetto” annuncia, fermandosi a un metro di distanza. Guardo il suo amico, che allarga le braccia, forse in segno di incertezza. Non faccio in tempo a chiederle nulla, perché mi ordina di seguirla in un angolo più riservato.
La guardo, e inizio a rivangare nei ricordi. La mia mente rievoca immagini di come Adelasia era prima. Sì, prima. Prima di diventare quella che è adesso.
Nonostante lei mi ignori o mi disprezzi, io, per lei, riserverò sempre un posto nel mio cuore.
La conobbi quattro anni fa. L'avevo vista fare volontariato nella comunità di immigrati del suo rione. Nel tempo libero si prendeva cura anche dei cani randagi: i suoi modi dolci mi attirarono sin da subito. Era una ragazza decisamente molto più naturale, si truccava raramente, raccoglieva i capelli in una semplice coda di cavallo, indossava quasi sempre la tuta… e aveva un sorriso più genuino. Fu soprattutto il tempo trascorso insieme nel progetto di raccolta rifiuti nelle campagne ad unirci, in un certo senso. Il progetto prevedeva anche il coinvolgimento dei giovani nella pulizia del parco comunale ogni domenica. Non scorderò mai quella mattina in cui io arrivai per primo nei giardinetti della villa, e lei spuntò improvvisamente da un cespuglio, ridacchiando divertita.
“Ahahaha, ti ho spaventato? Ti chiedo scusa!”, poi mi si avvicinò con una piccola margherita in mano, e mi bisbigliò: “L'ho presa per te… ma non dirlo al responsabile del parco, altrimenti mi fa 'na ramanzina, e lo va a riferire anche a mio padre”.
“Tranquilla, io… non dirò niente a nessuno”, le promisi, prendendo delicatamente il fiorellino tra due dita, con gli occhi che mi brillavano dalla meraviglia.
Io e lei ci raccontavamo molte cose, parlavamo di musica, di film, dell'importanza dell'ecologia, di animali, di giardinaggio… ma trattavamo anche argomenti molto più impegnati per la nostra età, come la scuola e il lavoro, la laicizzazione dello stato, la cultura, l'attualità… A mio parere, è stato l'incontro con Loris e la sua cerchia a trasformarla, anzi, a rovinarla. È entrata in un mondo in cui dominano l'apparenza e la superficialità. Non feci in tempo a conquistarla, perché quando le confessai ciò che provavo lei aveva già conosciuto quel ragazzaccio insieme alla sua compagnia. I miei sentimenti furono oggetto di scherno da parte del suo nuovo gruppetto. Pensai di averla persa per sempre, ma, nonostante il triste epilogo di questa storia, in me è ancora accesa la speranza che lei torni ad essere la ragazza acqua e sapone di cui mi invaghii tempo fa.
Adelasia comincia a vomitarmi addosso accuse, una dopo l'altra.
“Spero che tu stia scherzando, Adelasia. Credi veramente che io sia capace di fare, o soltanto di pensare di fare, una cosa del genere?”.
“Avevi i tuoi motivi per farlo fuori, non puoi negarlo. Nessuno odiava il mio ragazzo!”.
“Ne sei proprio sicura?”.
“Ne sono sicurissima” conferma, con tono incattivito.
“Beh, non mi importa se lo conoscevi del tutto o no, se sapevi veramente cosa faceva o con chi stava quando non era con te, ma una cosa è certa: io non ho ucciso nessuno. E poi… quali sarebbero questi miei motivi di cui parli?”.
“Sappiamo benissimo entrambi a cosa mi riferisco” mi risponde seccamente.
Capisco cosa intende.
“Adelasia, ascolta… io… non ammazzo un ragazzo soltanto perché è fidanzato con una che mi piaceva molto tempo fa”.
Mi si fa più vicina, digrigna i denti, e prosegue: “Quella mattina hai lasciato prima il centro. Qui non esistono le mezze giornate, o almeno, sì, sono previste nei contratti dei più giovani, ma non nel tuo, dato che tua madre è la direttrice e ti ha offerto senza molti problemi il posto di lavoro a tempo pieno. Da quando sono arrivata io chissà cosa hai confabulato, chissà cosa ti è frullato nel cervello… ed ecco che una mattina ti allontani dal posto di lavoro e vai ad uccidere il fidanzato di una tipa che speri, così facendo, di poter conquistare facilmente”.
“L'altro ieri ho chiesto alla direttrice, ovvero mia madre, di andarmene dopo qualche ora per poter far visita a mia nonna, dato che nel pomeriggio sarebbe partita in vacanza con mio zio. Volevo salutarla. Chiedi conferma alla donna che dirige questo posto, o pensi che anche lei possa mentire?”.
“Io non mi fido di te. Ascoltami bene, Fulvietto, questa storia non finisce qui. Non la passerai liscia. Le indagini proseguono, io sono sempre aggiornata sugli andamenti, e se quei caproni dei carabinieri della nostra città non sono capaci di trovare il colpevole, giuro che farò di tutto per scoprirlo da me”. Così dicendo si allontana, dirigendosi verso un paziente che non riesce a capire come funziona la sua nuova sedia a rotelle. “Hey, Tommaso, ti aiuto io… guarda, premi qui e spingi...”.
Federico mi guarda. Sembra dispiaciuto. Ma non dice nulla, abbassa lo sguardo e torna anche lui dai pazienti.
Spunta dietro di me la mia amica Angela.
“Cosa voleva quella lì?”.
“Non hai sentito nulla?”.
“Sì, ma non so se ho capito bene… ti ha accusato dell'omicidio del suo Loris?”.
“Proprio così”.
Angela si toglie gli occhiali e pulisce le lenti con la maglietta.
“Quella lì è tutta scema” esclama senza mezzi termini, passandosi entrambe le mani tra i capelli ricci e ribelli.
“Parli di me, grassottella?”.
Io e Angela ci guardiamo esterrefatti.
“Ma cos'hai? Le orecchie bioniche?” chiede la mia amica ad Adelasia.
“Scherza di meno con me, barboncino mangione”.
“Sei tu quella che offende più di tutti qui, sciacquetta. Datti una calmata”.
“Come mi hai chiamata?!”.
“Okay, adesso basta” mi intrometto io.
“Sì, infatti, fatela finita” interviene anche Federico.
Adelasia fa un sorrisetto antipatico, poi, con molta calma, si issa in piedi, dice a Tommaso di andare dai suoi compagni che giocano a scacchi, e propone ad Angela: “Ci vediamo dopo, io e te. Risolveremo questa questione da sole”.
“Non c'è nessun problema” accetta l'altra, senza agitarsi minimamente.

Mentre le due discutono – in modo pacifico, spero –, io e Federico ci sediamo davanti a un caffè.
“Ci voleva proprio una bella pausa” mi fa, versando un po' di zucchero.
“Stanco?”.
“Non proprio, ma dopo due orette e mezza, un intervallo è più che gradito. Non pensavo che mi sarebbe piaciuto così tanto aiutare questi giovani come noi. Non mi sentivo all'altezza, ma poi mi son trovato bene”.
“L'hai fatto per lei, vero?”.
“Che cosa?”.
“Venire qui”.
“Uhm...”, sembra sentirsi un tantino a disagio. “Beh, sì, diciamo che mi ha chiesto di starle vicino in questo progetto”.
“E tu da buon amico non hai rifiutato”.
“Proprio così”.
“Ascolta Federico”, mi faccio più serio, “tenevo a chiedertelo: tu credi a quello che lei dice sul mio conto? Io… giuro su tutto quello che ho, non sono un assassino”.
“Fulvio, lei… mi sembra molto incavolata per quello che è successo… e...”.
“Non hai risposto alla mia domanda”. Gli sorrido, per non apparire troppo freddo.
“Sono fatti suoi, Fulvio. Io non voglio giudicare giusto o sbagliato quello che lei crede. Non posso dipendere totalmente da tutto ciò che lei fa o pensa” spiega.
“Ti sembro uno che uccide?” insisto, sperando ancora in una risposta a mio favore.
“Ovvio che no, ma non ho pregiudizi di alcun tipo. Non mi pronuncio, se non conosco le persone. Questo è quanto. E, tra l'altro, non mi fido di nessuno, se proprio devo dirla tutta… quindi, non mi esprimo né su di te né su chiunque altro”. Il silenzio piomba nella saletta dei distributori. “Scusa per la mia franchezza” aggiunge poco dopo.
“Non preoccuparti”.
Dopo aver udito delle urla, ci rechiamo di corsa nel bagno delle donne.
“Che succede qui?!” piombiamo io e Federico, preoccupatissimi.
Troviamo Adelasia e Angela ridere come delle pazze.
Io e l'altro ragazzo ci guardiamo perplessi.

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Capitolo 4
*** Uscite insolite ***


Non è stato male parlare con la cicciottella. Stranamente mi è sembrata simpatica. Ha molti lati negativi, su questo non ci piove. Primo fra tutti l'abbigliamento.
“Se ci tieni tanto ad avere gente con stile intorno a te, allora modifica l'ambiente che ti circonda”.
“Cosa vuoi dire?” le ho domandato.
“Comincia da me: portami nei negozi che tu tanto elogi, fammi vedere cos'è la classe per te, e, se mi piace tutto ciò, magari posso intervenire sul mio aspetto”.
“Sei veramente disposta a farlo?”.
“Ma certo”.
“Guarda che quelli non sono negozi da quattro soldi”.
“Già. Questo forse è l'unico problema. Non ho di certo denaro da sprecare in quantità di vestiti che non ho mai visto in camera mia”.
“Non si tratta di sprecare, mia cara. Comunque, sì, capisco che non sei ricca quanto me… ma, vabbé, magari la tua forza di volontà sarà talmente convincente che sarò io a comprarti qualcosa”.
“Questo mi piace” ha ammesso.
Non potevo credere che stesse accadendo veramente. Quella ragazza mal sistemata voleva impegnarsi ad apparire migliore soltanto per non farmi sentire a disagio.
Oppure la sua unica intenzione è quella di provare l'esperienza (e l'ebrezza) di vestire come me.
“Ma non dimenticarti che devi anche puntare alla perdita di peso, altrimenti non serve a nulla” le ho fatto presente.
“Sono soltanto cinque chili al di sopra del mio normopeso”.
“Non mi interessa. Per me questo è essere in sovrappeso e quindi devi mangiare di meno, oppure andare in palestra”.
“Tu vai in palestra, vero?”.
“Sì, ma se ti ci vuoi iscrivere già da adesso soltanto per stare con me, ti dico che stai correndo troppo. Prima pensiamo ai vestiti, al cibo da ridurre e poi, quando sarai un pochino più decente e pronta a mostrarti accanto a me in pubblico anche al Fitness Time, ne riparleremo”.
“L'unica pecca di quella palestra è la gente che la frequenta” si è lamentata.
“Di che gente parli?”.
“Gente come te. Antipatica… mmmm, o forse più antipatica di te”.
“Quelle persone ti sembrano antipatiche soltanto perché non conosci ancora molto bene il loro mondo. Persino io, se allargo i miei orizzonti ed esploro l'universo dei tuoi hobby da sfigata, potrei cambiare leggermente idea su quelli come te”.
“Sì, ma parliamo di stupide galline come Luisa Rinaldi… insomma, dai...”.
“Confermo, Luisa Rinaldi è una stronza”.
“Ahhh, ecco, su di lei sei d'accordo allora?”.
Ho annuito.
Poi ha cominciato a fare la sua imitazione e io sono scoppiata a ridere. Nel bagno sono piombati Federico e Fulvio, comprensibilmente allarmati dai nostri schiamazzi.

Torno a casa dopo una giornata decisamente migliore al centro dei giovani disabili. Mi auguro di trovare il mio paparino, che è sempre pronto a scherzare un po' con me. Ma trovo soltanto mia madre che sfumacchia sigari sul sofà.
“Ciao” la saluto.
“Sai per caso dov'è tuo padre?”.
“Ehm… no. Forse… lavora?!”.
“Non lo so”.
“Oggi è il suo turno mattutino in ospedale?”.
“Non lo so”.
Ma cos'è che sai tu, vorrei dirle.
“È tornata Antonietta, per caso?” domando, notando la casa pulita e mia madre che se la spassa.
“Sì. Ora è andata a pagare le bollette. Per fortuna la banca chiude alle 15:30, altrimenti il cuore di quella povera disgraziata non avrebbe retto in una sola mattinata tra le faccende di casa, la spesa e anche le uscite per pagare tasse o roba simile”.
Non commento. Chiudo per un secondo gli occhi, alzo il sopracciglio e mi dirigo in cucina per mangiucchiare qualcosa. Purtroppo, però, quella figura femminile magra e dai capelli rossi a caschetto che a volte addirittura penso di odiare mi raggiunge nella sala cottura.
“Cosa c'è?” le faccio, mentre mi accingo a preparare un piatto di tonno e maionese biologica. Il modo in cui mi guarda mi preoccupa, e non poco.
“Ho già preparato qualcosa per pranzo, perché fai sempre di testa tua?”.
“Tu? Hai preparato qualcosa? Semmai Antonietta...”.
“Le ho detto io cosa fare, è la stessa cosa”.
“Certo”.
“Mangia queste friselline con la salsa bernese… e magari anche uno di questi hamburger”.
“Innanzitutto si dice salsa béarnaise, e comunque quelle friselline mi fanno schifo. Al massimo assaggerò un po' di hamburger, ma solo se trovo un po' di insalata per accompagnare quella carne”.
“Sei tu che fai schifo, con tutte queste manie”.
Mi alzo in piedi, sbuffo e sbotto: “Ascoltami bene, abbiamo già affrontato questo discorso, mammina. Fammi mangiare come mi pare e piace, io non ti rompo le scatole sul tuo stile di vita, e tu devi fare lo stesso con me. Togliti questo vizio di infastidirmi durante i pasti con le tue frottole, ci siamo intese?”.
“Bene, allora se vuoi che io rispetti le tue abitudini alimentari… d'accordo… dividiamo questo hamburger a metà, altrimenti penserai che è pericoloso assumere troppe proteine animali” mi cita, facendo riferimento a uno dei nostri precedenti battibecchi sull'argomento. E così prende un coltello e dimezza uno degli hamburger di pollo preparati dalla domestica. “Così va bene? O hai da ridire su qualcos'altro?” sussurra, puntandomi contro il coltello. Per fortuna si trova a qualche passo di distanza da me, non sto morendo dalla paura, ma… la cosa mi inquieta.
“Non sono io quella che ha da ridire su tutto” ribatto.
“Attenta, ragazzina. Porta un po' di rispetto per l'autorità di questa casa, o saranno guai”.
Da un lato, mi viene quasi da scoppiare a ridere per la terminologia che sceglie di usare durante questo tipo di minacce. Dall'altro… sono seriamente preoccupata. Non è la prima volta che mi rimprovera, ma non si è mai rivolta a me in questa maniera… stavolta sembra molto più seria e… pericolosa. Un brivido mi percorre la schiena.
Dopo altri venti secondi in cui mi fissa, immobile, con l'arma da cucina rivolta in direzione della mia faccia, si gira verso il lavandino, posa l'oggetto in una delle vaschette e torna nel salotto.
Deglutisco, sospiro, rilasso le spalle e mi rimetto seduta.

Sono pronta per il fatidico pomeriggio di shopping con Angela.
Mentre passo il burro di cacao sulle labbra, sento un'ansia apparentemente inspiegabile. Non sono mai andata a braccetto con una grassottella dai capelli arruffati: probabilmente questo mi sta facendo salire un'angoscia che ho provato soltanto il primo giorno di tirocinio nel centro disabili.
Di cosa ho paura? Della reputazione? Del giudizio degli altri che assistono a un qualcosa di mai visto prima? Del notevole dislivello che c'è tra me e questa mia nuova compagnìa? Oppure ho paura di farmi vedere vestita a colori e non di nero dopo pochi giorni dalla morte del mio ragazzo?
In alcuni momenti ho pensato di disdire l'appuntamento e di fare qualcos'altro, del tipo, boh, chiamare Manuel e stare un po' col mio amico apatico che mi racconta di come anche oggi ha snobbato le critiche altrui col suo tipico atteggiamento impassibile.
Ma poi ritorno in me, mi ripeto che ce la posso fare. Mi faccio forza e scendo la scalinata in marmo che porta sul viale alberato. Seduta su una delle panchine color pesca c'è lei, Angela, a cui mia madre ha aperto il cancello elettrico dopo aver sentito il campanello e aver annunciato: “C'è una tipa con la faccia gonfia, gli occhiali di Maria De Filippi e i capelli cianfrusagliati… è venuta per te?”.

Il pomeriggio con Angela procede bene, tutto sommato. Le ho consigliato un po' di magliette e shorts. Indosserà alcuni di questi quando sarà dimagrita perché se li indossa ora si spacca tutto il ben di dio che ho scelto per lei. Sono stata io a pagare, e lei mi ha ringraziato, ma senza scomporsi più di tanto. I suoi modi a volte mi ricordano un po' Manuel, ma rimangono comunque due mondi totalmente differenti. Entrambi hanno in comune soltanto una minima dose di snobismo, poiché in questo il mio amico è sicuramente superiore.
Camminiamo per i corridoi del mio centro commerciale preferito, reggendo le shopping bags. Probabilmente ci fermeremo a un bar, ma per ora continuiamo a guardare le vetrine.
Quando passiamo vicino all'entrata della sezione tabacchi, una pubblicità attira la nostra attenzione: si tratta di un manifesto di un nuovo gratta e vinci che, in poche parole, ti invita a giocare perché col nuovo metodo si può vincere facilmente e perché i soldi ti rendono felice.
“Tzé, che roba” commento, voltando lo sguardo dall'altra parte.
Angela non tarda a dire la sua.
“Non mi serve la ricchezza materiale per sentirmi felice. Dunque, non ho bisogno di soldi”.
“Neanche io ho bisogno di soldi, perché ce li ho già”.
Dopodiché, davanti a un bel frappè (che stavolta riesco a concedermi perché il corpo di Angela ha accresciuto la mia autostima e la mia sicurezza), avendo ascoltato l'elenco delle sue passioni inerenti a cose tipo la play-station, comincio a domandarle qualcos'altro per conoscerla meglio.
“Tu frequenti il liceo…?”.
“Pedagogico. Tu il linguistico, vero?”.
“Sì” confermo.
“Federico Valli viene in classe tua?”.
“Esatto”.
“E l'altro tuo amico… com'è che si chiama…?”.
“Manuel?”.
“Sì”.
“Lui va in un professionale”.
“Non sapevo avessi amici non liceali!” esclama, comprensibilmente sorpresa.
“Mmmm… capisco il tuo sbalordimento”, le confesso. “Manuel è molto intelligente, ma ha preferito andare in una di quelle scuole in cui ti assegnano i compiti per casa al massimo una volta alla settimana”.
“Allora lui… sta con gente della città che… insomma… tu preferisci evitare?”.
“Non credo. Va, sì, in un professionale, ma è una scuola privata e costosa”.
“Capisco” fa lei, ingurgitando avidamente il suo frappè alla fragola.
“E tu… sei brava a scuola… vero?”.
“Certo”.
“Oltre ad interessarti della roba nerd, sei anche un'appassionata di cultura” provo a dedurre.
“Già, proprio così. Sono brava. Ho ottimi voti. E mi basta poco tempo per divorare venti pagine di un libro”. Ti basta poco tempo per divorare qualsiasi cosa, vorrei aggiungere. “Ho molti tipi di memoria, tra cui quella visiva”.
“Non hai mai… sgarrato in qualcosa?!”. Storco il sopracciglio.
“Una volta ho fatto una figuraccia durante un'interrogazione di storia. Il prof mi ha chiesto di parlare della guerra civile americana, e io, presa dall'argomento, ho finito per parlare di Via col vento”.
“Beh, se non sbaglio c'entra qualcosa con quella guerra civile, no?”.
“Certo che c'entra”.
“Beh, scusa, non sono un'esperta, e tra l'altro io devo cominciare il quinto anno… non ho ancora studiato quegli eventi… quindi tu… ti sei diplomata?”.
“Sì. Per ora mi tocca uno stage presso il centro giovani disabili. A ottobre mi iscriverò alla facoltà di scienze sociali”.
“Interessante” rispondo, giusto per dire qualcosa. Cambio subito argomento. “Che shampoo usi?”.
“Ehm… che c'entra, adesso?”.
“Ho pensato di fare un salto nell'erboristeria qui vicino, magari ti interessano i miei stessi prodotti”.
“Uso il Life Breathe”.
“Oddio”.
“Che c'è?” mi chiede, notando la mia espressione disgustata.
“Roba da supermercato… mmm, vabbé, sempre meglio della sottomarca...”.
“Ogni volta che lo uso, non lo applico due volte come tutte le pubblicità dicono di fare”.
“Cosa?!”.
“Vogliono soltanto che noi consumiamo prima il prodotto per poi acquistarne di più. Io non ci casco, in queste strategie di marketing”.
“Gesù santo… Dove l'hai letta 'sta cosa? Su uno di quei forum che pullulano di gente come te?”.
“No, l'ho scoperto grazie a Ethan Craft, un personaggio di Lizzie McGuire”.
“Sei anche una tipa da serie-tv...”.
“Sì, da quando sono piccola. Ricordo puntate di programmi che ormai non vengono trasmessi”.
“Bene…”, mi alzo in piedi, sospirando, “andiamo a prendere un ottimo shampoo erboristico, e magari anche una buona crema corpo… devo rifornirmi di cosmetici nuovi. Sento che ci sono dei cambiamenti in corso nella mia vita… E bisogna sempre partire dalla propria beauty routine”.

Ho appena cenato e avverto una voglia irrefrenabile di incontrare il mio amico Manuel dopo aver visto una sua foto su Instagram che lo ritrae disteso sul letto, con un insolito mezzo sorriso abbozzato, gli occhi socchiusi e sognanti e una decina di scatole di Xanax sparse su di lui e sulle lenzuola.
È proprio la serata ideale per stare col mio amico apatico.
“Che tempo meraviglioso” esclama, allontanando dagli occhi il ciuffo scuro come la sua anima e guardando le nuvole che hanno inaspettatamente invaso il cielo estivo.
“Non male questo venticello” aggiungo io, indossando una giacchetta color blu mare. “Nemmeno io adoro l'estate. Il caldo e l'umidità non fanno per me”.
“Fosse solo quello il problema. C'è anche la gente che suda facilmente e puzza come la morte”.
“Pensavo che la morte fosse qualcosa di affascinante per te, mio caro amico, tenendo conto della musica satanica che ascolti”.
“La morte come concetto esoterico, non come processo biologico che porta alla cessazione delle funzioni biologiche di un essere vivente che non è più vivente ma un cadavere puzzolente”.
“Credevo che avresti terminato la spiegazione formale con un linguaggio altrettanto scientifico… o… almeno poetico”.
“Allora diciamo… un ammasso di materia morta che emana un aroma ripugnante”.
“C'è da notare che hai pronunciato tutto ciò con un tono decisamente terrificante” ammetto, imboccando insieme a lui una delle strade del centro, illuminate dalla luce giallognola dei lampioni.
“Questo per me è un magnifico complimento. Grazie, tesoro”.
Attendiamo in Via Roma il trenino panoramico che porta in giro per la città. Manuel, vestito come al solito di nero, ha comprato due bottiglie di birra da sessantasei centilitri e non esita, cominciando a sorseggiare la sua bevanda preferita, a sottolineare nuovamente quanto il tempo di stasera si avvicini al suo ideale di perfezione atmosferica, nonostante sia il diluvio universale a rappresentare per lui il top del top.
“Il cielo ha il tuo stesso aspetto, Ade”.
“… Cosa?!”.
“L'aspetto di una che è in lutto per la morte dell'amore della sua vita”, ironizza, il simpaticone.
“Giuro che quando sto sola in casa ogni tanto mi metto a piangere”, cerco di giustificarmi.
“Ah, sì? Ti scappa la lacrimuccia?” domanda lui, perennemente freddo, e quando il trenino giunge, si volta verso il bigliettaio. “Ciuff, ciuff” gli fa, “che bello, si parte, yahoo”.
Paghiamo per tutti i dieci posti dell'ultimo vagone, così nessuno siederà con noi e avremo tutto lo spazio a nostra disposizione.
Manuel non esita però, prima di salire, ad esporre le sue osservazioni sui disegni del trenino.
“Lupin, Hulk, Goku… e tanti altri inutili personaggi qui rappresentati… insomma, cartoni animati seguiti dai neoadolescenti maschi in piena crisi ormonale… vorrei fare un appello a tuo padre”.
“Del tipo?” chiedo, prendendo posto e appoggiando la borsetta rosa sul sedile di fronte.
“Se salirà nuovamente come sindaco dovrà sostituire questi disegnini. Troppa roba scontata”.
“Parlane direttamente con lui… hai un'idea in particolare riguardo a queste modifiche da te desiderate?”.
“Non saprei, ma ci mediterò su. Dunque… parliamo di te, amica mia. Un fidanzato volato in cielo (dopo esser volato prima per terra), un ex corteggiatore che ti ritrovi di nuovo tra i piedi, tirocini in posti per te insoliti… insomma, un bel po' di novità… ma occupiamoci della più interessante… adesso esci con le ciccione?”.
Gli spiego in quattro e quattr'otto cosa penso di ottenere da questa situazione.
“Non male come piano” risponde. “Spero solo che tu riesca a trasformare una così. Sempre pezzente nel cuore, però, rimarrà”.
“Non lo so” gli dico con tutta onestà. “Magari servirà a qualcosa, sempre meglio provarci”.
“Se hai la pazienza di farlo, ben venga”.
“Tu… ti sei trovato il ragazzo?” cerco di curiosare un po' nella sua vita.
“Ma non essere sciocca. Secondo te, mi va di impegnarmi? Per ora non se ne parla proprio. Sono gay, ma non praticante. Almeno per il momento. Eppure ci sono individui che mi chiedono di andare a letto con loro”.
“Perché non accetti?”.
“Perché d'estate non mi va di fare sesso. Quando arriverà l'autunno riprenderò a consumare i miei soliti rapporti sessuali con gli etero che mi chiedono di soddisfarli e di non dire niente a nessuno”.
“Ogni tanto ti invidio” ammetto.
“Preferisco non chiederti il motivo” dice lui.
“Ehm… come mai?”.
“Mi piace il mistero. Quella dose di ignoto”.
Vedo che la birra comincia a fargli effetto. Non capisco bene in cosa sia più disinibito, forse nella scioltezza del linguaggio e nella prontezza della risposta, perché gli atteggiamenti sono sempre gli stessi.
“Sei un tipo tutto da scoprire” gli faccio io, sentendomi un po' brilla.
“Spero non in quel senso”.
Ci guardiamo negli occhi per due secondi e poi scoppiamo a ridere come due oche giulive.
Pensavo che pian piano avremmo finito per parlare in modo sconclusionato o di cose insignificanti. Invece lui sembra voler trovare a tutti i costi una soluzione per i miei casini.
“Comunque potresti accettare anche il suo avvicinamento”.
“Parli di Fulvio?”.
“Sì. Alla fine… che male c'è? Se fosse veramente un pericolo e se tu, nonostante ciò, continuassi a essere una ragazza sicura di sé, non dovresti proprio aver paura”.
“Non capisco”, ammetto.
“Mettiamo caso che lui sia un tipo pericoloso, come tu sospetti. Se rimani una tipa intoccabile, non può avere in alcun modo un'influenza negativa su di te, anche se ti apri leggermente a lui… ovviamente parlo di semplice comunicazione, non di altri tipi di rapporti”.
“Beh, se lo dici tu, che raramente parli di instaurare relazioni con la gente, mi fido”.
“D'altronde si tratta soprattutto della tua sopravvivenza. Pensa alle settimane che devi trascorrere in quel posto. Non puoi avere sempre Federico sotto i piedi e non scambiare neanche una parola con gli altri”.
“Tu faresti così?”.
“Lo dico a te che devi vivere questa situazione. Io non mi ci immagino proprio in un luogo gremito di persone con cui collaborare… quindi… non ti so dire cosa farei in quel caso, personalmente”.
Dopo una trentina di minuti termina il giro della città. Siamo tornati al punto di partenza.
Manuel scende prima di me e io, appena poggio il piede su uno dei due scalini d'uscita, mi ritrovo quasi faccia a faccia con Fulvio. Sento il suo profumo. È leggero, ma caldo. I suoi capelli sono più sistemati ma pur sempre sbarazzini. Porta una camicia grigia e dei jeans corti. Dei bracciali e un orologio pesante abbelliscono il suo braccio sinistro.
Con lui ci sono Angela, con cui mi scambio rapidamente un saluto, e altri due amichetti, pronti per salire dopo di noi.
Io mi blocco. Non so cosa mi sia preso, ma non riesco a distogliere lo sguardo da Fulvio, che abbassa gli occhi per due secondi e poi tende la mano verso di me.
“Forza, scendi, ti reggo io”.
Afferro la sua mano e, messi i piedi a terra, gli accenno un “Grazie”.
Lui mi sorride. Io abbottono la mia giacchetta e vado verso Manuel.
Non ho potuto trattenermi. La sua gentilezza mi ha leggermente destabilizzata poco fa. E credo si sia meritato una parola di gratitudine, assassino o non.

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Capitolo 5
*** Incontri e simpatie: Fulvio e Federico ***


Vorrei tanto parlare con lei.
Scambiare qualche parola… oppure portare avanti un bel discorso. Sì, insomma, è il mio desiderio più grande al momento.
Ieri, quando l'ho aiutata a scendere dal trenino, mi sono sentito quasi rinato. E sono contento che mi abbia ringraziato, significa che sta cominciando a sopportarmi. Mi sarei aspettato una reazione aggressiva da parte sua, e invece… sorpresa!
Insomma, devo decidermi. Tra poco arriva nel centro insieme al suo amico e io non potrò fare a meno di chiederle di ascoltarmi per qualche minuto. Se non lo faccio, non me lo perdonerò mai. Non posso reprimere quello che sento.
Eccola, è entrata. Saluta i pazienti, con aria molto più dolce del solito. Non sto rivedendo la ragazzina che conobbi nel periodo dell'innocenza, ma… sembra comunque più rilassata, serena, disponibile a socializzare.
Anche oggi indossa un vestitino casual chiaro. Credo sia verdino. È molto splendente, come il suo volto. Gli orecchini argentati rendono il suo aspetto ancora più radioso.
Si accorge di me. Mi fissa. Io sono bloccato. Il suo sorriso svanisce, e ciò mi rattrista. Abbassa gli occhi e aumenta il passo. Volge di nuovo lo sguardo verso di me e mi saluta.
“Buongiorno”.
“Ciao, Adelasia”.
Posa la borsa nel suo armadietto e, girandosi verso le finestre, sbatte col ginocchio destro sullo spigolo del mobile del televisore.
“Ahi!” esclama, piegandosi verso il pavimento. “Ma dov'è Federico quando serve?!”.
“Non è ancora arrivato, pensavo sarebbe venuto con te anche stamattina” le rispondo io, avvicinandomi.
“Doveva passare dal supermercato”.
“Ferma, non sfregare con le mani” le consiglio, poggiandomi a terra. “Ti aiuto io, okay? Vieni con me in infermeria”.
“Mi sta uscendo un po' di sangue” fa, socchiudendo gli occhi.
“Lo vedo, ma… tranquilla… non morirai di certo” la rassicuro, sorridendole. Posa gli occhi sul mio viso e ci guardiamo per alcuni secondi. “Forza, vieni con me, ti faccio passare tutto. Il disinfettante che usiamo noi non brucia, non preoccuparti”.
La aiuto ad alzarsi in piedi, le tengo stretto il braccio e la trascino lentamente.
“Lasciami, ce la faccio da sola”.
Rifiutare il mio sostegno non le è servito, poiché dopo poco si poggia urgentemente su una sedia.
“Vedi? Non ce la fai da sola! Tieniti a me… non voglio mica importunarti. Quando avrò finito col tuo ginocchio, vedrai che ti sarò stato utile”.
“Lo spero” mi fa, con occhi minacciosi. Ricambio la sua irruenza con un'altra risatina, tornando poi a sorreggerla. “E smettila di sghignazzare, mi dai sui nervi”.
“Va bene, la smetto” ubbidisco, alzando verso l'alto la mano libera, in segno di ottemperanza.
“Ciao Adelasia… successo nulla?” le chiede mia madre, non appena si accorge della situazione.
“È sbattuta su quel mobile”, indico con la testa, “niente di grave, la accompagno in infermeria”.
“Mi raccomando, figliolo, trattala bene!”.
“Sarà fatto, mamma”.
“Vedrai, ragazzina, è bravo con cremine e cerotti. Sei in buone mani!”.
“Bene” mormora Adelasia, sbattendo le ciglia nervosamente.
Ciò che ho in mente è di farla sedere sul lettino, disinfettarle la ferita, fissare un cerotto e poi tentare di parlare un po' con lei. Ma tutto ciò non si rivela facile, poiché comincia ad esigere spiegazioni su tutto.
“Come mai sei tu l'infermiere qui? Hai fatto un corso? Sei davvero competente? Ci sono degli attestati che lo dimostrino? Che tipo di disinfettante usi? E le creme rigeneratrici? Che ingredienti hanno? Sono ipoallergeniche oppure…?”.
“Oh, basta! Ti calmi?”. Non ho potuto trattenermi. Sono esploso.
Ma lei non mi rimprovera, anzi, continua con le domande.
“Scusami, ma perché non indossi i guanti? Ti pare che mi faccio mettere le tue mani piene di batteri sulla mia pelle?”.
“Sto per indossarli. Sto per prendere un disinfettante sicuro al cento per cento. Sto per spalmare una crema ipoallergenica. Sto per usare farmaci e unguenti sicuri, consigliati e portati qui dal farmacista in persona. Sto per usare un cerotto di ottima qualità. STO PER FARE TUTTO NEL MIGLIORE DEI MODI”.
“E l'attestato?”.
“Te lo mostro dopo, se proprio ci tieni. Okay? Non credi sia meglio pensare alla ferita prima?”.
“Sì”.
Afferro la scatola dei guanti usa e getta.
Nell'infermeria è piombato il silenzio. La mia faccia si è fatta seria. Dopo un minuto, mentre continuo a preparare l'occorrente, la osservo con la coda dell'occhio: è lì, seduta, immobile, proprio come l'ho lasciata. Fissa un punto sul pavimento, ha le spalle tese e le mani sotto le cosce.
“Tutto a posto?”.
Mi meraviglio di me stesso: non avrei mai pensato di poter sbraitare in quel modo contro di lei. Ma ora torno a preoccuparmi, soprattutto perché non ha pronunciato una parola dopo la mia leggera sfuriata.
“Pensavo che...” risponde finalmente, corrugando la fronte, “in farmacia adesso è disponibile una crema riparatrice che ha un nome francese. Non ricordo la marca… ma so che ha come ingrediente principale l'acqua termale… Mmm, magari dopo passo a comprarla. Sul forum di KissMyBeautifulSkin la consigliano nell'85% dei commenti. Il 15% è sicuramente scritto da sciattone senza ritegno”.
“È proprio quella, la crema che usiamo noi” affermo.
“Oh, molto bene!” le si illumina il viso.
“Potrei mai parlare con te, ogni tanto?” le chiedo, inaspettatamente sicuro di me, mentre inumidisco un po' di ovatta col disinfettante e intervengo sulla parte lesionata del suo ginocchio.
“Manuel mi ha consigliato di farlo. Non per un obiettivo preciso s'intende, ovviamente. Ma… come potrei chiudere le porte a chiunque mi stia intorno? Devo pur...”.
“Allargare i propri orizzonti, Adelasia” concludo. “Allargare i propri orizzonti”.
I nostri sguardi si fondono. Ma io mi libero presto da quella trappola incantevole, riprendendo a pulire la ferita.
“Sì, può essere” dice, scrollando le spalle.
“Non brucia, vero?”.
“Non ti è ancora arrivato un ceffone, quindi direi di no”.
Ridacchiamo improvvisamente. Cresce la sintonia fra noi due.
Federico arriva quasi ansimando.
“Ehi! Che è successo? Uno dei pazienti mi ha detto che ti sei fatta molto male!”.
“Ma no, sto bene!” risponde lei.
L'amico le si fa vicino per assicurarsi che sia così. Poggia il suo marsupio sul tavolino blu a due passi da noi e inizia ad esaminare la gamba di Adelasia.
“Non hai altre ferite? Solo sul ginocchio?”.
“Sì, tranquillo. Chi è stato a dirtelo?”.
“Martino”.
“Lui, poi, sempre tragico!” esclamo io, conoscendo bene quel ragazzo ormai da tempo. Dopo aver applicato il cerotto sulla pelle lesa di Adelasia, saluto momentaneamente i due ragazzi. “Beh, ora vi lascio soli. Tu, rimani a riposo per un po' e tu, Federico, tienile compagnia, se ti va. Prenderò io il vostro posto, ho così tanta voglia di lavorare oggi!”. Poi sussurro a lei: “Spero che adesso tu stia cominciando a conoscermi davvero. Vorrei tanto che mi credessi”.
Adelasia si sistema le sopracciglia guardandosi allo specchietto interno del suo orologio fucsia. Credo mi abbia capito, perciò non insisto e lascio l'infermeria.

Trascorrerò questa serata insieme a Federico. Aveva un appuntamento con Adelasia, ma a quanto ho capito lei vuole rimanere a casa per rilassare la gamba. L'amico le ha chiesto se volesse accoglierlo in camera sua, ma lei gli ha risposto che non doveva rinunciare alla serata al bar dei Pineti, dato che suona la sua cover band preferita. Se non ho capito male, sarà Manuel a recarsi in casa De Vittori.
“Ti va se ci incontriamo verso le 20:00?” ho proposto stamattina a Federico.
“Ehm, mi dispiace, ma… dovrò tenere compagnia alla mia amica… sarà per un'altra volta, d'accordo?”.
Ma poi, verso le 19:00 mi ha telefonato, annunciando il cambio di programma e la sua disponibilità ad organizzarci.
“Come hai avuto il mio numero?” gli ho domandato per curiosità.
“Adelasia l'ha chiesto ad Angela. Ascolta, se vuoi ci incontriamo, ma dobbiamo assolutamente ascoltare la tribute band dei Bad Sugar al bar dei Pineti” ha fatto chiaro, dall'altra parte del telefono.
“D'accordo… ma, scusa l'ignoranza… che genere è?”.
“Indie rock… pensavo li conoscessi!”.
“Ne ho sentito parlare… ma stasera avrò l'occasione di ascoltare qualcosa!”.
“Faresti bene poi a deciderti di ascoltare i loro brani originali… comunque, sempre meglio cominciare dalla cover band...”.
“E magari stasera mi racconterai qualcosa riguardo a questo gruppo che ti piace tanto. Il tuo indie e il mio rock potrebbero intendersi”.
L'ho sentito ridere e poi acconsentire: “Va bene, Fulvio… non so se abbia molto senso quello che ogni tanto esce dalla tua bocca... vado a prepararmi, a dopo”.

Piazza Guarini è il nostro punto di incontro.
Lo aspetto seduto su una delle panchine del secondo parco comunale più grande della cittadina. Alcuni bambini giocano e si inseguono tra le giostrine, ma tra un'oretta questo posto sarà più affollato: giungeranno famiglie intere e ragazzi che trascorrono le serate estive tra discorsi spensierati, granite, cedrate e altre bevande fresche acquistate nel chioschetto situato accanto al grande scivolo giallo, l'attrazione che ai piccoli desta fascino e inquietudine allo stesso tempo.
Ho indossato dei pinocchietti color cenere, sneakers verde acqua in tela, una maglietta nera con un fantasmino bianchissimo e fluorescente raffigurato al centro.
Vedo arrivare Federico: scarpe leggere bianche, shorts maschili dello stesso colore e una maglietta grigiastra con su scritto in nero Take me away.
“Che buon odore che hai” esordisce, dandomi la mano.
“È un profumo che mi ha regalato mia sorella” spiego.
“Caldo, ma non troppo forte. È un tipo di fragranza che piacerebbe ad Adelasia”.
Dopo due secondi in cui sorrido imbarazzato, rompo il silenzio: “Anche il tuo odore non è male”.
“La mia è una semplice acqua di colonia al talco” mi fa, cominciando a camminare lentamente.
Lo seguo. “Vedo che non hai fretta… credevo non vedessi l'ora di ascoltare quella band”.
“È così, infatti. Ma in genere tardano non meno di quindici minuti. Quindi, direi che facciamo ancora in tempo. Quando arriveremo si staranno sicuramente ancora preparando… e io ti offro una bella birra, che ne dici?”.
“Anche tu ami le birre?”.
“Sì… ma con anche intendi oltre a te?”.
“Intendo oltre ad Adelasia e a Manuel”.
“Conosci i loro gusti” nota.
“Beh, li ho visti ieri sera scendere dal trenino panoramico con due bottiglie vuote”.
“Ah, capisco… beh, sì. Diciamo che potrebbe sembrare strano il fatto che Adelasia beva alcool...”.
“Dici?” chiedo incuriosito.
“Beh, è una specie di salutista, credo… insomma, sta sempre attenta a cosa mangia e a cosa beve”.
“Allora immagino che ogni tanto dia uno strappo alla regola, per concedersi qualcosa di diverso dal solito”.
“Macché...” sogghigna lui, “una volta le chiesi come mai lei ami così tanto la birra, sebbene non esageri. Mi ha risposto che ultimamente va di moda il lievito di birra come integratore per pelle e capelli, e così, senza acquistare quelle pasticche, preferisce scolarsi una Peroni o una Moretti”.
Ci mettiamo a ridere, pensando a quanto sia eccentrica e divertente, in fondo, quella ragazza.
“I suoi modi di fare sono un vero spasso, a volte” ammetto.
“In effetti… è un personaggio particolare, la mia amica” conferma Federico.
“Dici che prima o poi sparirà il suo odio nei miei confronti?” domando senza mezzi termini.
“Non ti so dire, Fulvio, lo sai bene”.
“Beh, sei un suo amico molto stretto, magari ne avete parlato o lei ti ha detto qualcosa...” gli faccio, continuando a passeggiare con le mani dietro la schiena.
“Sinceramente no. Credimi, niente di niente. Ma stamattina ho visto che tra voi due non va male adesso… o mi sbaglio?”.
“Stanno migliorando le cose… la mia speranza è che continui ad andare così”.
“Sì, dai, meglio essere ottimisti. Non può detestare una persona per tutta la vita”.
Mi fermo, poggio subito le mie mani sulle sue spalle e gli dico: “Ma lei mi ha detto di essere certa che sia stato io ad uccidere il suo fidanzato… non te lo sei scordato, vero?”.
Siamo proprio davanti al luogo di destinazione. C'è un po' di gente ma non c'è molta confusione o baccano.
Federico afferra delicatamente i miei polsi e li riporta verso il mio bacino. “Era arrabbiata, Fulvio. Passerà. Te lo prometto”.
I suoi occhi mi trasmettono innocenza e sincerità.
“Mi fido di te, Federico”.
Sorride mostrando i suoi denti bianchi come la sua pelle. Le sue gote si arrossiscono leggermente. Poi, prendendomi per il braccio destro, mi esorta: “Forza, entriamo”.

Dopo due ore e mezza di musica che ho molto apprezzato e bicchieri di birra che hanno contribuito a renderci ancora più allegri, io e Federico non sembriamo disposti a darci la buonanotte.
La serata si fa tranquilla fuori dal locale, mentre godiamo di nuovo dell'aria aperta e di una brezza che porta un po' di sollievo dopo l'ennesima giornata di afa.
“Ti va di passeggiare ancora un po'?” mi fa lui, che in realtà si è già avviato verso la salita che porta alla parte superiore di Dartigliano.
Accetto volentieri.
La scalinata centenaria è ben illuminata dai lampioni gialli che costeggiano, insieme a delle piantine fiorite, ognuno dei trenta gradini.
“Non ho ancora sonno… d'estate di solito non vado a letto alle 23… finché non arriva la mezzanotte non mi sento particolarmente stanco” spiego.
“Vale lo stesso per me. Allora vieni a casa mia, stiamo un po' lì e poi ciao ciao”.
“Cosa vuoi fare in casa tua? E i tuoi non ci sono?” domando.
“Se non sbaglio hanno cenato in giardino con degli amici. Ma ora sono soli… non c'è problema, non li disturbiamo mica… nemmeno loro vanno a letto presto. Se stanno nel soggiorno, noi andiamo in camera mia… e comunque sono miei zii, ma va bene lo stesso...”.
“Oddio, scusa, io...”.
“Non preoccuparti. Per me, sono loro mio padre e mia madre.  Comunque… ti invito da me perché in questo modo non dovrò più pensare al ritorno e… quando la serata sarà finita, io starò già a casa!”.
“Ah-ah, furbo lui!”.
“Tanto… tu non abiti molto lontano da me, giusto?”.
“Beh, la mia residenza non è nel quartiere dei benestanti!” provo a scherzare. Ma dalla sua espressione non sembra abbia gradito più di tanto la mia uscita. “No, non abito molto lontano”.

Al contrario della maggior parte delle abitazioni di questo quartiere sfarzoso, quella di Federico è una casa senza un vialetto d'entrata. Dopo aver aperto un grande portone in legno pregiato (credo sia così, per quanto io ne possa capire), saliamo un po' di scale in marmo e ci ritroviamo nel lusso dei salotti in cui, soprattutto grazie alla mobìlia, predominano i colori caldi. L'occhio cade sin da subito sugli sfavillanti tappeti rossi e sul resto dell'arredamento composto da divani beige, che immagino siano inutili, dato che servono solo ad abbellire magnificamente questi saloni che portano al vero e proprio soggiorno.
I signori Valli si trovano spaparanzati su un gigantesco sofà bianco, a qualche metro di distanza da uno schermo di dimensioni colossali. Un tavolino di cristallo, sul quale si trova almeno una dozzina di pacchetti di sigari, gli separa dal televisore che è sintonizzato su un canale a pagamento che trasmette soltanto film cinematografici. Credo stiano guardando James Bond, o qualcosa del genere.
La zia, o madre, che fino a pochi secondi fa aveva le gambe distese su quelle del marito, accortasi del nostro arrivo, si sbriga a rimettersi composta. Dopo aver indossato delle ciabatte blu, si drizza in piedi, porta dietro al collo i lunghi capelli biondo cenere, si sistema la vestaglia rosa e saluta: “Buonasera. Se non sbaglio, tu devi essere il figlio del signor Terreno”.
“Salve” fa il marito, dal viso rotondo e simpatico.
“Sì, mi chiamo Fulvio” mi presento, quasi imbarazzato.
“Non eravamo pronti a ricevere gente” si scusa lei.
“Oh, non preoccupatevi, io...”.
“Benvenuto” pronuncia l'uomo.
“Grazie mille” rispondo, avvicinandomi per stringere loro la mano.
“Molto piacere”.
“Federico,” riprende lei, “fa' in modo che il nostro ospite...”.
“Sì, zia, tranquilla, stiamo andando in camera mia per stare insieme qualche minuto, a dopo”.
“Va bene” fa lei, con un occhiolino rivolto al nipote.
Federico scuote la testa, credendo che io non mi sia accorto di nulla. Suppongo voglia far capire alla zia che io sono semplicemente un amico.
“Simpatici i tuoi” dico io, entrando nella sua stanza. “Non gli ho conosciuti bene, ma…”.
“Dai, che impressione ti hanno fatto?” mi chiede, accendendo le luci e chiudendo la porta. Un letto matrimoniale dalle lenzuola arancioni si trova al centro, tra due comodini color panna come la scrivania e l'armadio frontistanti. Le pareti, così come il pavimento, non differiscono dalle altre parti della casa che ho visto finora.
“Tuo zio ha la faccia simpatica. Posso dire qualcosa di più su di lei… mi sembra una donna elegante e cordiale allo stesso tempo”.
“Mmm, sì, dai, l'hai descritta brevemente ma in maniera perfetta, direi” afferma, mettendosi comodo sul letto. “Vieni, siediti anche tu, non stare lì impalato”.
Faccio come dice. “Adelasia viene spesso qui?”.
“Certo… ah, a proposito…” si alza e si sposta verso il comodino vicino alla finestra. “… è praticamente il motivo per cui ti ho portato qui...”.
“Riguarda Adelasia?!”.
Federico non risponde, fruga nei cassetti e poi tira fuori un foglietto piegato.
“Questa è la lista dei suoi cantanti preferiti… se vuoi farle un regalo che le faccia cambiare idea su di te, basta masterizzare un cd con alcuni dei loro brani”.
“Tu sei pazzo”. Rido come un isterico e afferro quella lista, non appena lui si riavvicina. “Innanzitutto credo che lei reputerà tutto questo una grande poracciata, conoscendo il suo disprezzo verso le cose poco originali”.
“Non ha importanza, in questo caso”.
“Sul serio?”.
“Ma sì”.
“E se mi chiede come mai conosco i suoi gusti, cosa le devo dire?”.
“La verità. Le dici che ne abbiamo parlato”.
“Credi che funzionerà?”.
“La conosco benissimo, conta su di me” mi assicura, con un sorriso.
“Perché fai questo per me?”.
“Mi piace fare stare bene le persone. Se tu vuoi riprendere i rapporti con lei, beh… ti do una mano. Nulla di particolarmente impegnativo”.
“Io… non so come ringraziarti...” ammetto. Poi comincio a gironzolare per la stanza, guardando le foto appese qua e là. “Eri proprio carino da piccolo”.
“Lo prendo come un complimento” mi fa, stendendosi completamente sul letto.
“Ahahah, non volevo dire che ora non lo sei. Ma… guarda che paffutello!” esclamo davanti a un ritratto di Federico vestito da cucciolo de La carica dei 101, probabilmente durante una festa di carnevale.
Quando mi giro verso la scrivania, poso l'occhio su una catasta di libri, perlopiù di narrativa contemporanea, e noto una busta da lettere gialla con un cuoricino rosso e una scritta: “Per Federico, solo per te, mio caro” pronuncio senza neanche accorgermene, preso dall'interesse.
“Oddio, lascia perdere quella roba”. Balza subito lontano dal letto, facendo cadere un cuscino per terra. Mi si mette davanti e sistema velocemente un po' di libri. “Questa è la parte più disordinata della mia camera, ti chiedo scusa”.
“No, non ti devi scusare… la mia sta messa peggio! Ma… cos'era quella cosa? Dai, son curioso!”.
“Fulvio...” si volta verso di me, con la fronte corrugata e il sorrisetto malizioso. “… non ti facevo così”.
“… così… come?”.
“Mmm, niente, lascia perdere”. Agita le mani e volge lo sguardo dalla parte opposta.
“Non ti fidi di me?”.
“Oddio, no… di nuovo con questi discorsi sulla fiducia?”.
“Va bene, non insito”, mi arrendo, tornando sulle lenzuola arancioni.
Mi guarda quasi dispiaciuto e dopo qualche secondo acconsente: “E d'accordo, ti mostro 'sta letterina… tanto non è niente di che… e poi... è qualcosa che appartiene al passato, ormai”.
“Cos'è, nello specifico?” chiedo.
Federico si toglie le scarpe, si mette a gambe incrociate davanti a me ed estrae la lettera dalla busta gialla.
“È una poesia”.
“Per te?”.
“Già”.
“Mi piacciono le poesie…” gli confesso.
“Credo di trovarla ancora un po' ridicola, questa qui… me la scrisse un ragazzo eterosessuale che, boh, si innamorò di me… o forse non proprio, insomma… si tratta delle solite confusioni dei tipi come lui...”.
Mi porge la paginetta, ormai biancastra e quasi del tutto stropicciata.
La apro in un attimo, incuriosito.


Chi sei tu?
Entri nel mio cuor senza prima bussare,
occupi la mia mente senza abbindolare...

Oh, ragazzo dalla pelle color della Luna,
quelle lentiggini sono i tuoi milioni di sogni,
che mai saranno negati, a un angelo come te.

Rosso è il color del capello,
non importa se fiore o pisello,
è indifferente ciò che possiedi,
mi fai tremar dalla testa ai piedi.


“Non male”, faccio, un po' impressionato ma divertito.
“Ma va'… è orribile”.
“In realtà mi piace il modo in cui ha espresso che non gli importava di che sesso fossi… molto poetico… d'altronde, è questo l'amore… no?”.
“Mio dio… no, non ci siamo proprio…” continua a inorridire, badando poco alla mia osservazione.
Il nostro incontro termina sull'uscio del suo portone, con un abbraccio che da me parte spontaneo.

Torno a casa.
Mi sdraio sul letto. Penso a lei… a quanto sia bella… a quanto era bella dentro, anche… o a quanto lo sia ancora, spero, in fondo..
Poi penso a Federico… alla sua dolcezza… alle sue mani lisce e morbide che, dopo l'abbraccio, stringono le mie e che lentamente scivolano via, mentre i suoi polsi emanano la fragranza di una di quelle colonie leggere e delicate che si usano sulla pelle dei bebé.
“Oh, no!”.
Salto in piedi. Mi sono scordato la lista dei cantanti preferiti di Adelasia!
Mando un messaggio a Federico, dicendogli di uscire di casa.
Raggiungo la sua abitazione in quattro e quattr'otto. Non so perché ho così tanta fretta… forse si tratta di qualcosa a cui tengo tanto… o voglio semplicemente rincontrare qualcuno che suscita un po' del mio interesse?
Giro l'angolo della sua strada così velocemente che sbatto su di lui…
Federico non riesce a rimanere in piedi, si adagia lentamente sull'erbetta del marciapiede dietro di lui… ho provato a tenerlo stretto a me, ma non ce l'abbiamo fatta ad evitare la caduta e, scoppiando a ridere, siamo finiti entrambi per terra.
Scivolo inevitabilmente sul suo corpo e le mie labbra si appiccicano alle sue, quasi fossero calamite.

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Capitolo 6
*** Lady Borotalco ***


“Buongiorno, Antonietta. Hai già fatto la lavatrice? Ah, okay… meglio così, i vestiti li trovo già negli armadi? Molto bene. Comunque… vorrei che mi lavassi anche 'ste scarpe. Se non vuoi fare un'altra lavatrice, allora lavale a mano… vabbé, sta a te decidere, la domestica sei tu”.
Non credo che la cara Antonietta dalla panza pronunciata e il seno abbondante, che nei miei rari momenti di empatia con l'universo vorrei addirittura abbracciare come se lei fosse una delle mie zie zitelle, goda di un'ottima salute. Credo che soffra delle tipiche patologie di quelle come lei, donne sulla soglia dei sessant'anni e dall'appetito indomabile, tipo colesterolo alto, pressione sanguigna altalenante, rischio diabete… insomma, le solite cose di cui si parla tanto nei programmi di salute mattutini ideati per le casalinghe che puliscono con il televisore acceso.
Nonostante ciò, però, una parte del suo corpo funziona perfettamente: le sue orecchie. Questo rappresenta una comodità per me: date le dimensioni della mia casa, posso permettermi di urlare gli ordini a decine di metri di distanza. Mia madre non sopporta questo mio modo di fare, non molto diverso dal suo, ma… 'sti cavoli.
Anche stamattina Antonietta è tutta indaffarata e, grazie alla potenza della mia voce, recepisce i miei comandi mentre io faccio il bagno nella vasca idromassaggio dall'altra parte del palazzo.
Dopo pochi minuti sento mia madre che richiama la domestica, ma non per chiederle di fare qualcosa per lei.
“Antonietta, dove sei? Vengo io, devo parlarti… ci metto due minuti”.
Allora… innanzitutto, come mai è lei che va dalla domestica e non il contrario? E poi… di cosa cavolo vorrebbe parlarle? Del salario e di tutte quelle cose burocratiche si occupa mio padre… Boh, mistero. Comunque, mi sono resa conto che in questo periodo la salute mentale della mia mammina sia diventata ancora più preoccupante. Coltelli puntati contro sua figlia, sguardo da stronza non più solo da stronza ma anche da perfida, e atteggiamenti più benevoli nei confronti della sua serva, la quale è sempre stata assolutamente devota alla signora De Vittori, senza che quest'ultima ricambiasse in alcun modo.
Tutta questa situazione mi lascia perplessa e allo stesso tempo stuzzica la mia curiosità, tant'è che, per la primissima volta nella mia intera vita, esco dieci minuti prima dalla sontuosa vasca, mi asciugo velocemente, mi cospargo di amido di mais purissimo, indosso le ciabatte e la prima vestaglia che trovo nel ripostiglio e mi sposto nel corridoio.
Dov'è che stanno, quelle due? Ah sì… ora sento qualcuno bisbigliare… quella arpia vuole nascondere qualcosa.  Si trovano sicuramente nella camera degli indumenti e dei cosmetici di mia madre, dove di solito Antonietta massaggia le gambe della sua padrona o si improvvisa estetista con cerette e pinzette. Immagino che la panzona si trovi lì per sistemare il vestiario di quella strega, che ora l'ha raggiunta per dirle chissà cosa… e se si trattasse di me?
Percorro il corridoio alla chetichella... piano, piano… piede destro, piede sinistro… mi tengo alla parete mentre inarco la schiena leggermente in avanti... cerco di trattenere il fiato, ma non ci riesco: ci sono ancora troppi passi di distanza… così espiro, facendo pressione con la mano destra sulla parte inferiore della faccia, tra le narici e il mento… e poi, inspiro, espiro, lentamente, sperando che proprio ora non mi venga uno starnuto o che il mio stomaco non brontoli oppure ancora che un osso non scricchioli... tolgo le ciabatte per non rischiare ulteriormente di far rumore... sento solo il mormorio di quella lì e il mio cuore palpitare così forte che temo che da un momento all'altro possa schizzare come un razzo fuori dalla mia gabbia toracica.
Madò che ansia.
Finalmente giungo dietro la porta. Comincio ad origliare.
“Ascolta, Antonietta, credo che non dovremmo più togliere i peli delle mie gambe con le strisce o con la crema. Dovremmo farlo col rasoio”.
“E perché mai, mia signora? Le innovazioni sono sempre comode e sbrigative”.
“Sì, lo capisco, ma il mio dottore mi ha detto che con le vene varicose che stanno comparendo sulle mie gambe non conviene utilizzare trattamenti, a suo dire, troppo aggressivi”.
“Sarà fatto, allora, signora” risponde la domestica, che riesco a intravedere spostando leggermente il capo. Antonietta si sistema il cerchietto sulla sua chioma nera come la pece e poi, col fiatone, cerca, per quanto le risulti possibile, di piegarsi in avanti per esaminare al meglio le gambette di mia madre.
“Tra l'altro,” continua mamma, “la farmacista mi ha consigliato un fondotinta supercoprente e che non sporca su nulla, nemmeno sui capi bianchi come le lenzuola”.
“Ha intenzione di utilizzarlo a letto?!” domanda Antonietta, con aria incredula.
“Sì, altrimenti come faccio ad essere ancora desiderabile agli occhi di mio marito con queste evidenti venacce viola? Okay, di notte, con la luce dell'abat-jour, non si vede granché, ma… meglio prevenire… e poi, potrò utilizzarlo non solo a letto. Anche in piscina, ad esempio… è resistente all'acqua”.
“Ottima scelta, mia signora”. Antonietta regala uno dei suoi rari sorrisi. Eh... la signora De Vittori per lei rappresenta tutto. Peccato che è mio padre che la fa campare.
“Mi raccomando, niente di quello che ti ho rivelato deve uscire da questa stanza”.
“Oh, mia signora, conosce bene il rispetto che ho per lei”.
“Ehi, voi due”, piombo io.
Mia madre riafferra il suo accappatoio celestino e si copre metà corpo, dalla vita in giù.
“Sì, Adelasia, dimmi pure”.
“Devo fare qualcos'altro per lei, signorina?”.
“No, Antonietta, tranquilla. Volevo soltanto informare che dopo aver finito di sistemarmi mi recherò da Lady Borotalco”.
“La contessina Clelia Tambroni?” fa mia madre, con sguardo indisponente. “Fai ancora visita a una ragazza che è ricca semplicemente per aver ereditato un titolo? Noi siamo i veri ricchi, quelli che il lusso se lo sono costruito con il lavoro. Tra l'altro, la sua famiglia usufruisce ancora dell'eredità economica degli antenati… l'aristocrazia non ha più i privilegi e l'importanza di un tempo”.
“Non me ne frega niente di queste cose, è ricca e basta e questo è ciò che mi importa”, sbotto. “Comunque è papà che da sempre ha lavorato per avere tutto questo, definiamo il vero soggetto. Detto ciò… vorrei incontrarla perché mi piace la sua compagnia, e più volte mi ha invitato nel suo palazzo dopo che i suoi si son trasferiti nella villa in campagna”.
“Dunque ora quella dimora è tutta sua?” domanda, mentre Antonietta allinea i diversi balsami per il corpo davanti allo specchio.
“Esatto, ci abita con i suoi tre amanti”.
“Tre amanti?” ripete lei, storcendo il muso.
“Proprio così. Sappiamo che è una personalità eclettica… e vive la vita, l'amore, qualunque compagnia come le pare e piace, senza seguire i canoni sociali”, prendo le sue difese, nonostante io, finora, non sia mai stata una molto disposta a distinguermi dalla maggior parte di coloro che appartengono al mio ceto. “Vive con una ragazza e due ragazzi”.
“Che faccia come vuole” conclude la mamma, nascondendosi dietro il siparietto per togliere l'accappatoio e rimettere i pantaloni.
“Ha bisogno di qualcosa, signorina?”.
“No, Antonietta, ti ho già detto di no, grazie”.
“Se avrà bisogno di me prima di uscire, non esiti a chiamare”.
“Oh, certo, mi sembra ovvio”.
“Torno a servire sua madre” annuncia la novità dell'ultimo minuto, mantenendo intatta la sua eterna espressione da cagnolino bastonato, che non ho mai capito se ha imparato ad assumere volutamente o se le viene proprio naturale.
“Sì, sì, torna ad accudire il tuo boss” borbotto a bassissima voce, allontanandomi da quella saletta.
 Crema idratante, trucco leggero con colori freschi e neutri, acconciatura chignon a cipolla, vestitino estivo grigio perla, ballerine color panna, borsetta color argento, collana e bracciale in oro e son pronta.
Ah, dimenticavo gli occhialoni da sole regalatimi dalla buonanima di Loris… sono quelli che si abbinano di più, oggi.
Palazzo Tambroni si trova praticamente a cinquanta metri da casa mia, perciò posso percorrere la strada a piedi.
Lady Borotalco è una mia grandissima amica. Il soprannome fa riferimento al suo amore per il famoso cosmetico. Ognuno ormai la chiama così, e a lei questo non dispiace per niente.
È nota anche per le numerose feste che tiene nella sua fastosa residenza, eventi in cui è ben accetto tutto ciò che risulta appariscente ai suoi occhi: è amante del vintage, dello splendore e della maestosità. Le sue incantevoli cerimonie vengono organizzate perlopiù nei mesi freddi, ma anche d'estate non mancano i ricevimenti nell'immenso giardino, vera oasi e cuore verde pulsante di Dartigliano. Ovviamente solo gente come me può metter piede nella sua reggia.
Nell'ultimo periodo si dice che si sia presa una pausa per via della morte di Loris, uno dei suoi amici più cari nonché frequentatore assiduo, insieme a me, di tutti i suoi festeggiamenti.
Io credo che abbia preso questa decisione anche per potersi dedicare maggiormente e diversamente ai suoi amori poliedrici: pochi giorni fa i suoi compagni hanno infatti pubblicato sui social network le foto delle loro vacanze in non so dove. Sono andati sia al mare che in montagna. Lady Borotalco, invece, non è iscritta ad alcun “ambiente virtuale e astratto”, come lei stessa definisce il mondo del web. Pare che detesti l'uso di internet, ma riesce comunque a chiudere un occhio quando uno dei suoi amanti le scatta una foto per Instagram o Facebook.
“Sono Adelasia De Vittori, annunciatemi alla contessina, per lei sarà certamente una gran gioia potermi accogliere”.
Le guardie del suo palazzo, sempre vigili davanti all'austero portone verde smeraldo, sanno benissimo chi sono, ma qui la propria presentazione è una formalità indispensabile.
Poco dopo, uno dei custodi, vestiti completamente di grigio, riferisce che posso accedere.
L'ingresso, dominato da un portale in pietra preziosa – di cui una volta Clelia mi disse il nome preciso che ora però non ricordo perché non posso ricordare sempre tutto –, è costituito da un ampio androne seguito da un cortile che un tempo rappresentava il luogo d'arrivo delle carrozze.
La scalinata che conduce al piano nobile, a un certo punto, si divide in due rampe che portano parallelamente al salone di ingresso, luogo dove spiccano i quadri degli antenati… insomma ti ci ritrovi ad essere fissata da tutta la stirpe dei Tambroni. Questo ambiente, così come i salotti che si sviluppano a seguire, sono arredati con mobili d'epoca e presentano decorazioni angeliche sul soffitto. Il marmo pregiato su cui ora si trovano le mie favolose scarpe ricorda vagamente i pavimenti di buona parte della mia dimora. Ciò che mi attira di più è sicuramente il colore delle tende, un rosso fuoco insieme al quale, da entrambi i lati, l'oro dei pomelli luccica come pochi altri materiali che io abbia mai visto nella mia vita.
Le imponenti porte-finestre, poi, permettono di ammirare tutta la cittadina: contemplare il panorama da qui si fa molto più interessante di sera, quando si accendono i superbi lampadari in cristallo e questo posto diventa un vero e proprio spettacolo al di sopra del mondo.
Finalmente giunge la Lady.
“Buongiorno, Adorata”.
Il suo originale saluto riecheggia in tutto il salone.
“Carissima Clelia”.
Vado incontro alla contessina, che procede lentamente trascinando la lunga veste, candida ma leggermente rosata, come il suo colorito. Porta con sé anche il perenne profumo di talco che la avvolge ogni attimo della sua vita ma che mai la stanca né infastidisce chi le sta attorno. Sarà una specie di droga?
“Non immagini quanto stia gioendo a vederti qui, Adorata. Ma allo stesso tempo devo esprimere tutta la mia tristezza e il mio dolore per la perdita del tuo Adorato… oddio, oddio… Loris! Quanta sofferenza mi ha portato la notizia! Purtroppo non son potuta esser presente ai funerali, né contattarti privatamente per le condoglianze, a causa di impegni che non mi hanno fatto star ferma un minuto. Avrei comunque fatto di tutto, ora che sono più tranquilla, per invitarti da me… ma eccoti qui!”.
La lady dai capelli biondo platino, alta quanto me senza tacchi (beata lei), strizza gli occhi scuri, mi prende le mani e le porta verso il suo cuore. È struccata ma la sua pelle appare veramente impeccabile. Spenderà un capitale per la sua cura, molto più di me sicuramente, ma i risultati si notano senza alcun dubbio. Neanche un poro dilatato. Neanche un rossore. Le occhiaie sono leggermente più scure rispetto al resto del viso, ma ciò è dovuto al contrasto con la sua bianchezza, un pallore non da malato ma da creatura luminosa, eterea.
“Oh, non preoccuparti, cara Clelia. Non ho minimamente dubitato della tua amicizia. Sapevo che, se non fossi venuta io, non sarebbe comunque mancata la tua presenza prima o poi. Sei stata assente per dei motivi validi, suppongo, ma ora… eccoci qui! Eh, sì… la morte del mio fidanzato è stata una vera tragedia...”.
Cerco di sembrare un po' più dispiaciuta. Non che non lo sia, eh, ma… ogni tanto bisogna enfatizzare per comunicare i nostri sentimenti. Avvicino la mano destra sulle labbra, chiudo forte gli occhi e respiro a intermittenza.
“Oh, Adorata, non fare così. Io ti son vicina. Speriamo che la verità venga svelata al più presto e che la giustizia faccia il suo corso. Ma prima dobbiamo pensare al tuo benessere. Sai, ci si può risollevare prendendosi cura di se stessi”.
“Tu dici?” domando con voce flebile, riaprendo gli occhi.
“Oh, ma certo, Adorata. Rinnovando le abitudini cosmetiche, innanzitutto. Io, ad esempio, seguo dei programmi fissi, come cospargermi il viso e il decolté di talco prima di dormire – un talco mentolato che contenga possibilmente anche qualche altro ingrediente benefico, lenitivo, opacizzante e ammorbidente –, ma cambio sempre gli olii per il bagno”.
“Oh, i tuoi olii segreti! Quanto vorrei un giorno conoscerne qualcuno!” le confesso.
“Adorata, chiaramente te li farò scoprire con molto piacere. Un giorno potresti unirti a me e ai miei amanti per il bagno pomeridiano… magari portando qualcuno con te… qualcuno di speciale...”.
“Eh, sì, molto volentieri… quando tornerà l'amore nella mia vita… a proposito, è proprio di questo che ti vorrei parlare. Oltre al desiderio di rivederti, è l'amore che mi ha portata qui e… vorrei chiederti un favore”.
“Nostalgia per l'amore che non puoi più vivere, Adorata?”.
“Mmm… no, direi di no. Ho bisogno che tu legga le carte per me. C'è una nuova presenza nella mia vita e… vorrei far chiarezza. Credo che un ragazzo provi qualcosa per me e… anch'io, insomma...”.
“Sul serio?”. Lady Borotalco agita la testolina, mostrando stupore.
“Sì, cara Clelia. Forse è ancora presto per pensarci, ma...”.
“Oh, no, Adorata, non è mai presto o tardi per questo!”.
“E, sai, conoscendo la tua abilità coi tarocchi...”.
“Ma certamente! Faccio portare le carte da Gasparo”.
Clelia richiama il domestico, uno dei tanti che lavorano per lei, e in poco tempo riceve un mazzo di carte sul cui retro spicca il simbolo di uno scorpione argentato, al centro di uno sfondo rosso sangue. Rimango quasi turbata alla vista di una raffigurazione così tetra. Non pensavo che in questo palazzo così chic potesse esserci un oggetto sinistro. Eppure… ecco i tarocchi di Lady Borotalco, che per la prima volta posso vedere girati dal lato opposto. Ho sempre visto le carte scoperte, con figure di amanti, anziani, alberi, stelle, arcobaleni, nuvole e cose così. Non ho mai capito come faccia a leggerli, ma non mi interessa la procedura, bensì ciò che hanno da dire. Se non sbaglio non sono questi i tarocchi ufficiali, o comunque quelli che in genere vengono usati dalle cartomanti o dalla maggior parte degli esperti in quest'ambito. Clelia una volta mi raccontò che aveva scoperto l'esistenza di questo tipo di carte a Parigi, molti anni fa. È infatti sin da quando era bambina che si dedica a questa roba, offrendo letture e consulti soprattutto alle persone del suo ceto, come la sottoscritta.
Quasi mi gira la testa mentre cerco di seguire le sue mani che, sul tavolino dorato in fondo al salone, vanno a destra e manca, spostando le carte da una parte all'altra. Mi sono accomodata davanti a lei. Queste sedie in legno pregiatissimo sembrano più degli sgabelli… sono veramente basse! Per fortuna le usa solo per queste sue pratiche.
Lady Borotalco mormora qualcosa. Non capisco nulla di quello che dice… ogni tanto colgo qualche sillaba, ma sembra si tratti di una lingua straniera o del tutto inesistente. Forse borbotta parole a casaccio per concentrarsi maggiormente, o semplicemente per creare atmosfera.
Scopre alcune carte e nasconde delle altre. Le mischia, le ripesca… Ne mischia ancora, ne pesca tre e le gira lentamente, inspirando profondamente ed espirando ad occhi chiusi, dopo aver messo a posto tutte le altre e aver posato entrambe le mani sulle tre che si trovano al centro del tavolino.
Vorrei chiederle se è arrivata alla fine, perché sembra proprio che sia così. Ma forse sta ancora interpretando quello che le carte le stanno comunicando, e quindi mi sto zitta e aspetto che sia lei a pronunciare qualcosa.
“Ci siamo” enuncia finalmente.
Dopo aver avuto la fronte corrugata per un po', rilasso i muscoli facciali, sebbene mi senta leggermente in ansia per quello che dovrò sentirmi dire.
“Bene… ehm… allora?”.
“Oh, Adorata. Non sono mai stata così confusa davanti ai miei tarocchi. C'è un messaggio chiaro, questo è sicuro, ma… sembra che ci siano troppi intoppi ad attenderti...”.
“Intoppi?!”.
“Proprio così. Qui vedo amore… o meglio, vedo un sentimento vero, forte… un'attrazione, soprattutto mentale… un qualcosa che tu finora hai cercato di respingere e che per un altro po' di tempo tenterai invano di reprimere. Ma alla fine ti abbandonerai a quel che ti aspetta. Anche perché il ragazzo che ti incuriosisce, a quanto pare, non è mai stato il tuo tipo. Più precisamente sei stata tu ad imporre a te stessa di non preferire persone come lui. Ma, in fondo, non vedo nessuna influenza negativa che questa anima potrebbe avere sulla tua. Gli ostacoli sono invece poco chiari… molto vagamente riesco a vedere che sarete frenati, ma… allo stesso tempo attirati… sempre più legati da una forza che è già presente e che voi stessi, anche inconsciamente, alimenterete giorno dopo giorno”.
Avendole esposto ulteriori perplessità, Lady Borotalco mi incoraggia con i suoi toni pacati, quindi decido di non insistere e di ringraziarla per il tempo dedicatomi.
“Mi sei stata veramente d'aiuto”.
“Adorata, io ho fatto ben poco. Ora sta a te agire, in base a ciò che ti riserva il futuro. Il destino è solo parzialmente scritto, sei tu ad avere in mano la penna che mette nero su bianco la tua storia”.
Prima di congedarmi, mi ricorda di usare sempre la protezione solare, anche di inverno e anche quando il cielo è nuvoloso. È un consiglio che mi ha ripetuto almeno un centinaio di volte.

È sabato e sono libera. Riprenderò il tirocinio lunedì, eppure… credo di non avere tanta voglia di godermi questo weekend. In alcuni momenti vorrei persino che la nuova settimana arrivasse subito, senza aspettare due altri giorni. Quel centro disabili sta diventando per me un luogo rassicurante, direi quasi piacevole. Strano ma vero… e chi se lo sarebbe aspettato?
Palazzo Tambroni è ormai alle mie spalle. Decido di fare un salto nell'erboristeria del centro, a pochi passi dal punto in cui mi trovo.
Cammino decisa, ma un sorriso insolito, tenue, più sincero, compare sul mio viso. Abbasso la testa, come se improvvisamente mi stessi vergognando di me stessa per la sensazione inconsueta che sto provando. Eppure è così… bello… mi sento più serena. Sarà un'illusione? La paura non manca mai… forse è questa che mi “frena”. Rifletto sulle parole di Clelia e penso che forse dovrei cominciare a lasciarmi andare.
Una voce antipatica mi ferma. Allargo le braccia e quasi mi cade la borsetta per lo spavento.
“Adelasia De Vittori, ma che piacere incontrarti”.
È Luisa Rinaldi, la mora stronza che odio profondamente. È la riccona più insopportabile di Dartigliano. Mi sono addirittura sfogata con Angela la cicciottella per l'odio che provo nei confronti di questo essere poco degno di godere dei privilegi della sua posizione sociale. Sempre pronta a sparlare di quelli del suo ceto, come una popolana qualunque. Una vera e propria vipera velenosa.
“Ciao Luisa”, la saluto seccata.
L'arpia si è portata appresso, come sempre, il suo cagnolino. No, non un vero animale da compagnia, ma quasi… una specie di assistente che lavora gratis. Il suo nome è Giulio Lambreschi. Ricco anche lui. Un po' bassino, con gli occhiali, i capelli ricci castano chiaro e un fisico normale… niente di che, insomma. Si veste senza pretese e ha una vita troppo tranquilla e monotona. In poche parole non approfitta per niente dei soldi della sua famiglia. È conosciuto soltanto per la sua leggera balbuzie.
“Cia..ciao Ade...Adelasia”.
“Ciao Giulio”. A lui mi rivolgo con un po' più di simpatia. “Come va? Bella giornata, vero? Stai risultando di aiuto anche oggi? Cosa farai di bello? Reggerai le buste della spesa della tua amica?”.
Il risolino di Luisa è chiaramente falso, come lei.
“Ma no, abbiamo preso un caffè al Bar Ducale, e ora passeggiamo un po'”.
“E...e… Federico… il tu… tuo amico?”.
“Ah, non so… forse starà con me questa sera, o domani. Ci dobbiamo organizzare. Ma di sicuro lo incontrerò la settimana prossima. Svolgo insieme a lui un tirocinio nel centro dei disabili della città, dunque… lo vedo spesso!”.
Giulio sorride angelicamente, mostrando tutti i denti ben curati dal papà odontoiatra.
“Cooosa?!” esclama invece Luisa.
“Cosa… cosa?” ripeto.
“… Nel centro dei disabili?”.
“Sì, hai capito bene. Ti sconvolge la notizia, per caso?”.
“No, io… no, non mi sconvolge, ci mancherebbe altro! È il centro in cui lavora Fulvio Terreno? Il figlio del candidato sindaco che se la giocherà con tuo padre?”.
“Proprio così” confermo, non riuscendo nuovamente a trattenere il nervosismo che mi fa tremare le mani e sbattere ininterrottamente le ciglia.
“Oh, è lì al bar”, indica con la mano destra, “oggi sembra un moribondo”.
Non le rispondo. Mi dirigo subito verso di lui. Solo che Gulio mi blocca, tenendomi la borsetta. Io mi volto di scatto e, quasi imbestialita, gli faccio : “Che c'è?!”.
“Potrò venire a tro… trovare Federico ogni ta… tanto?” mi domanda lui timidamente.
“Sì, certo, Giulio, quando vuoi”.
Fulvio è seduto da solo. Ha la testa poggiata su uno dei tavolini. Sembra triste… è pallido, ha gli occhi cerchiati… non sarà mica sconvolto per qualcosa?!
“Fulvio? Che cosa ti è successo?!”.
Mi fermo davanti a lui. Poggio la borsa su una sedia, gli tocco la fronte e porto dietro i suoi capelli spettinati. Sembra impassibile, ha pronunciato il mio nome con voce flebile e questo mi preoccupa.
“Niente… credo di avere la febbre”.
“Eh, sì, questo è sicuro: stai scottando”.
“Davvero?”. Spalanca gli occhi, come se gli avessi detto chissà cosa. “Devo rimettermi in sesto! Non posso permettermi dei giorni senza fare nulla”.
“Vieni, ti accompagno a casa” gli faccio, non appena vedo l'autista di mio padre che sta per salire sulla nostra Mercedes. “Ehi, Andrei!”.
“Coza vuole, zignorina?”. L'ometto dalla pelle spenta e gli occhi fuori dalle orbite sembra andare di fretta.
“Aspetta, dobbiamo accompagnare il mio amico”.
Questa situazione è abbastanza curiosa: l'altro giorno era Fulvio a sostenermi mentre provavo a camminare, adesso è il contrario.
“Grazie, Adelasia” mi dice Fulvio, non riuscendo ad aprire del tutto gli occhi. Le sue labbra sono secche e le sue orecchie hanno preso il colore dei pomodori.
“Io no posso! Dover prendere dottore e…!” protesta Andrei.
“Mio padre può aspettare! Adesso fa' come ti dico io!” gli urlo, ormai a pochi metri di distanza. L'intera piazza mi starà fissando, ma stavolta non me ne frega niente. “Maledetto rumeno” sussurro poi.
“Ehi, Ade, non essere razzista”.
“Sì, scusa, Fulvio, io non volevo… coraggio, ci siamo quasi”.
In pochi minuti arriviamo nei pressi di casa sua. Scendo dall'auto per accompagnarlo fino all'entrata. Sembra intenzionato ad abbracciarmi, ma è talmente debole che gli suggerisco di non perdere tempo.
“Entra, su, abbi cura di te”.
Mi accarezza le braccia e poi mi stringe forte le mani. Annuisce, poi mi lascia stare. Mette piede in casa e mi vedo il portone che piano piano mi si chiude davanti.
Mi ritrovo da sola… sento solo la voce di Andrei dietro di me: “Avanti, zignorina, per favora, io sono ritardo!”.

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