Il Segreto degli Abissi

di Julie_A
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un nuovo lavoro ***
Capitolo 2: *** Il Ladro di Donuts ***
Capitolo 3: *** La cacciatrice ***
Capitolo 4: *** Lasciate ogni speranza, o voi ch'entrate ***
Capitolo 5: *** Il Rifugio ***
Capitolo 6: *** Verità nascoste ***
Capitolo 7: *** Cattive abitudini ***
Capitolo 8: *** Un appuntamento singolare ***
Capitolo 9: *** Il leone e l'agnello ***



Capitolo 1
*** Un nuovo lavoro ***



capitolo 1

UN NUOVO LAVORO

«Ecco qui», disse la donna dai lunghi capelli corvini seduta dietro alla scrivania. «Questo è il suo contratto. Inizierà domattina alle sei.»

Crystal guardò la risma di fogli che pendeva dalle mani della donna per un momento che le parve interminabile. Non poteva credere di aver appena ottenuto il suo primo contratto di lavoro. Con le mani che tremavano per l’emozione, si allungò per prendere i suoi documenti.

La donna si ritrasse appena sulla poltrona da ufficio, esitante.

«Prima voglio dirle una cosa, signorina Evans.»

Crystal annuì, il cuore che d’un tratto smise di battere.

«Ha ottenuto questo posto di lavoro perché la nostra precedente cameriera è stata licenziata in tronco.»

«Ma l’annuncio diceva…»

«So bene cosa diceva l’annuncio. Congedo per maternità. In realtà è una questione delicata, perciò ho preferito parlargliene di persona.»

«Ma certo. Nessun problema.»

«La sua collega è stata licenziata in seguito a sospetti e numerosi sparimenti di merce dal magazzino. Si trattava per lo più di alimentari.»

«Capisco», tagliò corto Crystal. Parlare di furti con il suo neo-capo la metteva per qualche ragione in imbarazzo.

«Voglio accertarmi che questo non si ripeta», disse la donna.

«Assolutamente», mugugnò Crystal paonazza.

«Bene», concluse porgendole la documentazione. «Allora domani alle sei. Miranda sarà già lì ad aspettarti. Ti mostrerà le tue mansioni.»

«Grazie mille», seppe dire soltanto. Era così emozionata che le parole le uscivano a stento.



L’indomani Crystal si fece trovare davanti all’entrata dell’Every Flavour Donuts un quarto d’ora in anticipo. Durante la notte era stata così in ansia per il suo primo giorno di lavoro che non era riuscita a chiudere occhio. Si era immaginata almeno un centinaio di versioni diverse della sua giornata, ma ora che il sole era sorto non si sentiva pronta per niente.

Si spaventò quando udì un rumore di ferri scricchiolanti. Si voltò verso la vetrina e vide che la serranda si stava sollevando meccanicamente. Concentrandosi riuscì a scorgere una figura dietro al vetro immacolato. Era una donna e indossava un grembiule a scacchi bianchi e verdi.

La donna aprì la porta a vetri non appena la serranda si fu sollevata del tutto.

«Ciao!», la salutò allegramente. «Tu devi essere Crystal.»

La ragazza annuì. «Sì. E tu devi essere Miranda.»

«Indovinato. Vieni, entra. Ho appena sfornato dei croissant fantastici.»

Crystal non se lo fece ripetere. Entrò nel locale e fu subito investita da un’inebriante profumo di brioches, cioccolato e schiuma di latte.

Si guardò attorno, curiosa ed eccitata. L’interno del locale era stato arredato nei toni del verde. Le pareti verde mela, il bancone di plexiglass color bottiglia e le piastrelle di un intenso smeraldo. L’unico colore di contrasto era il bianco, che si trovava nel soffitto a botte, nei quadri d’arte contemporanea e nelle sedie di fibra intrecciata sparse nella sala.

Non era male come prima impressione. Crystal era affascinata dal lungo bancone di vetro da cui faceva capolino ogni sorta di squisitezza, dalla composizione di frutta fresca che si ergeva sul banco di marmo e dalla grande macchina per il caffè lucidata a specchio.

Miranda disse a Crystal di sedersi dove preferiva e la raggiunse poco dopo portando con sé un vassoio ricolmo di prelibatezze.

«Che profumino», commentò estasiata Crystal.

Miranda le sorrise gentile. «Ora faremo una bella colazione e parleremo del tuo ruolo qui dentro. Si discute sempre meglio a pancia piena.»

«Concordo», rispose Crystal con l’acquolina in bocca.

Miranda era una donna paffuta, sulla cinquantina. Portava i capelli rossi e corti, ordinati in una perfetta messa in piega. Sul naso le pendevano degli occhialetti tondi che, pensò Crystal, la facevano assomigliare ad un personaggio dei cartoni animati.

La donna le spiegò per filo e per segno qual era il compito che le stava affidando. Le raccontò dettagliatamente la giornata tipo del locale e le descrisse brevemente Oliver, il barista. Disse che non era un tipo molto amichevole, ma se Crystal non avesse invaso i suoi spazi lui non le avrebbe dato del filo da torcere.

«E cosa mi sai dire sulla persona della quale ho preso il posto?», azzardò Crystal a bocca piena. «La signora Helgen ha detto che è stata licenziata in tronco per negligenza.»

La fronte di Miranda s’increspò all’improvviso, come quando si morde una fetta di limone.

«Vuoi dire Serena?», rispose a labbra strette. «La signora Helgen l’ha cacciata perché negli ultimi due mesi ci sono state delle strane sparizioni, qui al locale. Ma personalmente non l’ho mai vista fare niente di insolito. Lavorava qui da quasi un anno ed era una buona collega. È tutto quello che posso dirti.»

Crystal, curiosa com’era, avrebbe voluto porgerle altre domande al riguardo. Per esempio cosa ne pensava delle sparizioni di cibo se era convinta che Serena non ne fosse coinvolta. Ma si morse la lingua e si trattenne dal dire qualsiasi altra cosa. Non voleva sembrare una ficcanaso, almeno non al suo primo giorno di lavoro.

«Vieni, ti mostro il tuo armadietto», disse Miranda poco dopo.

Crystal fu contenta di alzarsi dal tavolo, perché aveva la netta sensazione che il parlare della donna licenziata avesse turbato Miranda.

La pasticciera attraversò la sala ed entrò in cucina, seguita da Crystal che si guardava attorno cercando di capire a che cosa servissero tutti quegli arnesi colorati sparsi sui banconi da lavoro.

Arrivarono nel retro bottega, in un’angusta stanzetta che fungeva da spogliatoio. Miranda indicò a Crystal l’armadietto più a destra lungo la parete frontale.

«Ecco, quello è il tuo», la informò.

Crystal annuì e si avvicinò all’armadietto. Notò che la chiave era già infilata nella serratura, così la girò e aprì l’anta grigia. All’interno trovò un piccolo ripiano vuoto e delle grucce sulle quali erano appesi due cambi della divisa da lavoro ancora avvolti nel cellofan.

«Su, cambiati. Ti aspetto al bancone», concluse Miranda prima di uscire dallo spogliatoio.

Crystal si sbrigò a scartare la sua mise da lavoro, che era composta da una polo bianca, lunghi e morbidi pantaloni grigio topo e un grembiulino verde mela da legare in vita. Sul fondo dell’armadietto trovò anche delle ciabatte bianche.

Una volta vestita, Crystal andò alla ricerca di uno specchio per legarsi i lunghi capelli color ebano e trovò una porta che conduceva ad un piccolo bagno. Accese la luce e si guardò intensamente allo specchio.

«Va tutto bene», si disse. «Devi stare tranquilla. Sarai bravissima.»

Crystal trovava un po’ stupido rassicurare sé stessa davanti ad uno specchio, però funzionava sempre. Si sentiva già meno tesa.

Fece un respiro profondo, poi si legò i capelli in un’alta coda di cavallo. Sì lisciò il grembiulino e fece dei risvolti ai pantaloni, che le stavano un po’ lunghi.

Era pronta per iniziare.



Nel pomeriggio Crystal si sentiva già più a suo agio dietro alla vetrina dei dolci. Serviva i clienti con disinvoltura e riusciva ad utilizzare la cassa senza troppi intoppi.

In un momento di calma piatta, verso sera, Miranda chiese a Crystal di rifornire la vetrina dei donuts. Crystal la raggiunse nel laboratorio e prese la prima teglia di ciambelle appena glassate. Tornò al bancone e le espose ordinatamente nella vetrina. Poi tornò da Miranda per il secondo giro.

«Queste sono alle nocciole», le disse Miranda. «Mettile a sinistra.»

«Certo», rispose allegramente.

Crystal tornò al bancone e si mise a disporre le ciambelle dalla glassa scura, quando notò uno spazio vuoto lungo la fila delle ciambelle che aveva sistemato poco prima.

Curioso, pensò la ragazza. Sono convinta di averle disposte una accanto all’altra.

Lo spazio tra le due ciambelle era effettivamente quello di una terza mancante, come se qualcuno l’avesse presa mentre lei era in laboratorio.

Crystal si guardò attorno circospetta, cercando qualcuno che si aggirasse per il locale. Ma l’unica persona oltre a lei era Miranda. Oliver, il barista, sarebbe arrivato mezz’ora più tardi, all’ora in cui Crystal avrebbe smontato.

La ragazza non sapeva se trovarlo divertente o sconcertante. I donuts non camminano di certo, disse fra sé.

Decise comunque di non coinvolgere Miranda. Continuò a lavorare fino al termine del suo turno senza dire una parola.

Stava per uscire dallo spogliatoio, esausta, quando sull’uscio incappò in un ragazzo dai capelli scuri e gli occhi di ghiaccio.

«Ciao», gli disse un po’ sorpresa.

«Ehi», rispose lui in tono monocorde.

«Immagino che tu sia Oliver», aggiunse lei.

Crystal pensò che il ragazzo era davvero carino, con quei ciuffi castani che gli cadevano sulla fronte e quelle labbra sottili contornate da un mento e una mascella spigolosi.

«Sì.»

«Io sono Crystal. È un piacere.»

Il ragazzo scrollò le spalle con noncuranza. «Sei qui per sostituire Serena o sei solo un’altra di quelle stupide stagiste della Saintsbury?»

«Cos’hai contro quelle della Saintsbury?», chiese lei stizzita.

Crystal ricordò le parole di Miranda. “Non infastidirlo e lui non infastidirà te.”

Oliver fece spallucce. «Niente di personale.»

«Comunque sostituisco Serena», disse lei.

«Oh, be’, non ti invidio comunque», rispose. «Buona fortuna.»

Oliver la spostò di lato e s’introdusse nello spogliatoio senza aggiungere altro.

Crystal fu lì lì per chiedergli che cosa intendesse dire con quell’ultima frase, ma le sue intenzioni di dissolsero quando Oliver chiuse la porta con un colpo, facendola sobbalzare.

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PERSONAGGIO DEL GIORNO:
Crystal Evans

Crystal Evans

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Capitolo 2
*** Il Ladro di Donuts ***



capitolo 2

IL LADRO DI DONUTS

Quel pomeriggio Crystal si trovò a gestire da sola il locale. Il venerdì era il giorno di riposo di Oliver, e Miranda si era allontanata per consegnare un ordine dall’altra parte della città.

La ragazza pensò che se Miranda non si era fatta problemi a lasciarla da sola voleva dire che già si fidava di lei. In realtà a quell’ora non c’era mai molto andirivieni di clientela, ma Crystal era comunque soddisfatta della buona impressione che aveva fatto nella sua prima settimana di lavoro.

Andò a sedersi ad uno dei tavolini all’entrata con il quotidiano tra le mani. Avrebbe letto i titoli giusto per ammazzare il tempo, in attesa che Miranda tornasse per darle il cambio.

Aveva appena sfogliato la prima pagina, quando con la coda dell’occhio le parve di vedere un’ombra scivolare oltre la porta d’ingresso aperta.

Volse lo sguardo per controllare, ma non vide nessuno. Probabilmente si trattava soltanto dell’ombra proiettata dai rami degli alberi in strada che dondolavano al vento.

Tornò a posare gli occhi sul titolo di testa, che parlava dell’ennesimo atto vandalico sulla Pacific Palisades, poche miglia lontano dall’Every Flavour Donuts. Sembrava che delle gang si stessero contendendo il dominio di quella zona.

All’improvviso udì una risata femminile provenire dalla veranda del locale e si voltò allarmata. Una ragazza alta e dalla chioma color ruggine se ne stava in piedi al centro della veranda, una mano appoggiata su una delle sedie di vimini.

Crystal non fece in tempo a chiedersi come avesse fatto ad entrare, che un ragazzo biondo balzò all’interno scavalcando la siepe che delimitava il terrazzino con un’agilità da parkourer. Atterrò sulle punte dei piedi, accovacciato e con le braccia tese. Sì rizzò in piedi veloce come un furetto, prese la rossa per i fianchi e la baciò.

Esterrefatta, Crystal pensò a che cosa dovesse fare. Quello non era di certo un comportamento da tenere in un locale, ma Crystal rifletté anche sul fatto che quei due teppisti dovevano avere più o meno la sua età e non aveva la minima idea di come avrebbero reagito vedendo che a riprenderli fosse una loro coetanea.

Si avviò verso la veranda, paonazza in volto per la rabbia, quando un rumore alle sue spalle le gelò il sangue nelle vene. Era lo scricchiolio che il soppalco produceva ogni volta che qualcuno saliva dietro al bancone.

Crystal si voltò di scatto e sorprese un ragazzo dai capelli scuri trafficare nella vetrina dei donuts. Stava agendo indisturbato, come se nessuno potesse vederlo.

«Ehi, giù le mani da lì!», gridò Crystal correndo verso il ragazzo.

Lui alzò appena la testa, con aria indifferente.

«Dimmi, sei sordo per caso?», insistette la ragazza.

Il ladro addentò una ciambella, poi volse lentamente lo sguardo verso Crystal. La fissò per un lungo momento prima di aprire bocca. «Stai… Parli con me?», domandò con nonchalance.

Crystal pensò che non aveva mai incontrato nessuno con tanta faccia tosta. Alzò le braccia in aria, spazientita. «Con chi altri, se no? Vieni subito via da lì!»

Il volto del ragazzo cambiò. Crystal vide stupore e incertezza nei suoi occhi verdi come l’erba in primavera.

«Allora?», continuò lei sempre più nervosa.

«Io…tu…», balbettò il ragazzo. «Tu riesci a vedermi?»

Crystal levò gli occhi al cielo. «Oh, Dio, un'altra vittima della Crocodile. Sei già il terzo questa settimana.»

«Non sono un drogato», replicò secco il ragazzo. «Come ti chiami?»

Crystal impuntò le mani sui fianchi. «Cosa vorresti fare, flirtare con me per farti passare il fatto che ti ho appena sorpreso a rubare dalla vetrina?»

Lui fece un sorriso sghembo, mostrando denti così luminosi da non poter essere naturali.

Nel frattempo, il tizio biondo che Crystal aveva visto in veranda si era avvicinato ai due, attirato dal trambusto.

«Che cosa succede, Gabe?», intervenne alle spalle di Crystal. «Ti stai divertendo con la mondana

La ragazza fece un balzo per lo spavento, poi si voltò furente verso il biondo. «Come mi hai chiamata, scusa?»

Lui parve rimanere sorpreso. Forse non era abituato alle ragazze come Crystal, che non avevano paura di niente, nemmeno di rispondere in quel modo ad un ragazzo tanto bello.

Gabe lanciò al compagno uno sguardo confuso. «Ecco, appunto», disse. «Cosa credi che sia?»

«Non è abbastanza bella per essere una fata…», constatò l’altro con aria seria, «…però…»

«Siete pessimi ladri quanto pessimi adulatori», replicò Crystal.

«Non era un complimento, sciocca mondana», rispose il biondo.

«La vuoi piantare di chiamarmi in quel modo?»

«Che cosa facciamo, Cole?», intervenne Gabe. «Sembra che lei non sappia nulla.»

Il biondo, che rispondeva al nome di Cole, scrollò le spalle. «Non ne ho idea. Forse sta solo fingendo. Hai controllato il Rivelatore?»

Gabe annuì. «Nessuna traccia di attività demoniaca. Questa qui è una mondana

Crystal, che aveva assistito a quella patetica scenetta in silenzio, sbuffò. «Sentite, siete completamente pazzi. Vi conviene darmi delle spiegazioni sensate prima che io decida di chiamare la polizia», obiettò. «Perché sei entrato scavalcando la siepe?», chiese rivolta a Cole. «E tu perché sei salito dietro al bancone come se io non avessi potuto vederti?», aggiunse parlando a Gabe.

«Perché, tecnicamente, tu non dovresti riuscire a vederci», obiettò il moro.

Crystal fece una risatina amareggiata. «Ancora con questa storia?»

«Gabe, questa non può essere una mondana. Nessun mondano può avere la Vista e lei ce l’ha», dedusse il biondo.

«Questo lo so», replicò infastidito. «Dovremmo portarla da Victoria. Forse lei saprà dircelo.»

«Io non vengo da nessuna parte!», esclamò Crystal. Stava quasi urlando. «E chi è quella tipa laggiù? Perché ci sta fissando?»

«Oh, lei è Julie», disse il biondo. «E’ rimasta a fare da palo. Sai, le precauzioni contro i demoni non sono mai troppe. Ultimamente agiscono indisturbati anche in pieno giorno.»

«Taci, Cole», lo zittì Gabe. «Non devi parlare di questo con lei. Non sappiamo ancora che cosa sia.»

«Chiediamo un parere a Julie», propose Cole. «Lei è una mezza fata, no? Forse ne capisce più di noi.»

«Già, buona idea», disse l’altro prima di fare un cenno alla ragazza con la mano.

Appena colse il segnale, la ragazza diede un’occhiata fugace alla veranda, poi entrò all’interno del locale.

Crystal non poté non notare l’eleganza con cui ella si muoveva, sinuosa e bellissima in un paio di jeans scuri ed una giacca di pelle nera. I lunghi capelli ramati le danzavano sulle spalle in morbidi boccoli composti.

«Che cosa c’è?», domandò lei con fare annoiato.

Ora che era ad un metro da lei, Crystal vedeva la perfezione del viso della ragazza. La pelle diafana e liscia come quella di una statua greca, gli occhi verdi impreziositi da pagliuzze ambrate, le labbra piene e rosse. Portava un septum al naso, un semplice cerchietto argentato abbellito da minuscoli diamanti.

«La ragazza non è una mondana», decretò Cole con un tono da sentenza giudiziaria.

«Però. Che occhio», lo schernì lei. «Se ci vede senza che abbiamo attivato la runa della visibilità è per forza una di noi.»

I due ragazzi si guardarono negli occhi, poi entrambi si tirarono su le maniche delle giacche nere.

Crystal rimase terrificata nel vedere che le braccia di Cole e Gabe erano piene di strani tatuaggi, alcuni scuri e altri più chiari. Alcuni sembravano quasi delle cicatrici.

«La mia non è attiva», disse Gabe indicandosi uno tra le decine di segni sull’avambraccio destro.

«Neanche la mia», rispose Cole guardandosi il gomito sinistro.

«Allora o è una Nephilim o è una Nascosta. C’è poco su cui riflettere», obiettò la rossa.

«Ma di che diavolo state parlando?», urlò Crystal in preda al panico.

Era convinta che quei tre stessero cercando di farla uscire di senno.

«Io so chi siete voi», continuò. «Fate parte di una di quelle stupide bande che stanno facendo casino sulla Pacific Palisades, non è vero? Per cos’è, per la droga? Si spiegherebbe perché nessuno di voi ha ancora detto una frase che abbia un senso.»

«Solo perché tu non ne vedi il senso non vuol dire che non ci sia, mondana», la prese in contropiede Cole.

«Non chiamarla così», fece Julie in tono quasi materno. «Non lo è.»

Crystal ne ebbe abbastanza di quei tre psicopatici. «Io chiamo la polizia», sentenziò mostrando sicurezza. In realtà era terrorizzata.

Cole scoppiò a ridere. La sua risata suonò quasi malvagia. «Certo. E cosa dirai? Chi ti crederà, se nessuno può vederci a parte te?»

«Ma che accidenti stai…» S’interruppe quando udì dei passi alle sue spalle.

«Eccomi, Crys». Era la voce di Miranda. «Con chi stavi parlando?»

La ragazza si girò, il volto esangue. «Oh, ciao. Io…»

«Ehi, ti senti bene? Sembra che tu abbia appena visto un fantasma.»

Crystal guardò dietro la sua spalla, cercando le sagome di Gabe, Cole e Julie, ma non vide nessuno. Allora compì mezzo giro e fu allora che li vide, in piedi nella veranda. Cole stava sogghignando e le faceva il saluto militare, mentre Gabe e Julie erano impegnati a parlare fra di loro.

«Crystal?»

Lei si volse nuovamente verso Miranda. Sospirò. «È tutto okay. Credo di aver avuto un calo di pressione.»



Crystal richiuse la porta d’ingresso con una gomitata. Le gambe le tremavano. Il suo cervello non riusciva ancora ad elaborare ciò che era successo al locale. Sebbene ci avesse riflettuto per tutto il tragitto fino al suo appartamento, non era arrivata a nessuna spiegazione logica. Chi erano quegli strani individui tatuati che aveva visto? E soprattutto che cosa volevano da lei?

Si gettò sul letto e calciò via le scarpe nervosamente. Stava cominciando a pensare di essersi immaginata tutto.

Loro le avevano detto che nessuno poteva vederli, che nemmeno lei avrebbe dovuto. Però lei ci riusciva. Eccome.

Crystal li aveva definiti degli psicopatici fino a che Miranda non era entrata nel locale e le aveva chiesto con chi stesse parlando. Era stato in quel momento che lei aveva capito che la sua collega non riusciva davvero a vedere i tre teppisti vestiti di nero, mentre lei sì.

Parole sconosciute le risuonavano nella testa. Rune. Rivelatore. Nascosta. Demoni. Fate.

Mondana.

Cole e Gabe l’avevano chiamata così più volte. Ma che cosa significava davvero quella parola?

Si rigirò nel letto e affondò la testa nel morbido cuscino di piuma d’oca. Quei tre fantasmi erano troppo strani, troppo seri e perfino troppo perfetti per essere dei semplici componenti di una banda criminale. Parlavano con scioltezza usando quei termini inusuali come se fossero stati delle parole in codice. Non puzzavano d’alcol, né parevano dei rozzi. La ragazza poi, Julie, era di una bellezza quasi esagerata. Crystal la immaginava più sfilare lungo una passerella vestita da Armani, piuttosto che ritirare mazzette tra i vicoli.

Chiuse gli occhi, cercando pace. Ma presto, quand’era sul punto di addormentarsi, davanti alle palpebre abbassate iniziò a vedere strani segni luminosi simili a geroglifici.



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PERSONAGGIO DEL GIORNO:
Gabriel 'Gabe' Moorefield

Gabe Moorefield

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Capitolo 3
*** La cacciatrice ***


capitolo 3

LA CACCIATRICE


Quando quel martedì pomeriggio Crystal entrò all’Every Flavour Donuts la prima cosa che vide fu un ragazzo moro proteso verso la vetrina delle torte.

Il cuore le balzò nel petto, prima di scoprire con un filo di delusione che si trattava soltanto di Oliver. Dovette ammettere a sé stessa che per una frazione di secondo aveva pensato, sperato, che si trattasse di Gabe. L’affascinante e tenebroso ladro di donuts.

Per tutto il week-end Crystal non si era data pace. Aveva continuato a pensare a quegli strani individui vestiti di nero che l’avevano riempita di domande e paroloni. Come se fosse stata lei quella sbagliata.

Si era ripetuta come un mantra una delle frasi di Gabe che più le avevano dato il tormento, cercando di trovarci un senso. Che cosa credi che sia? Gabe aveva detto cosa, non chi. Come se non l’avessero considerata un essere umano.

Quando, sull’uscio, il campanello trillò sopra la testa di Crystal, Oliver guardò verso l’ingresso e sospirò. «Ce l’hai fatta.»

Non le sembrava di essere in ritardo. Diede un’occhiata all’orologio a muro appeso sulla parete di destra tra i numerosi quadri e ottenne la conferma di essere in perfetto anticipo di cinque minuti.

«Giornataccia?», domandò Crystal avvicinandosi al bancone.

Oliver si slacciò il grembiule da cameriere e lo gettò sul pianale di marmo, mancando Crystal di qualche centimetro. Sbuffò. «Non credo siano affari tuoi.»

Crystal lo guardò indispettita. «Cercavo solo di essere gentile», replicò. «La prossima volta mi ricorderò di lasciarti nel tuo brodo.»

Oliver la fissò per un momento lunghissimo. I suoi occhi di ghiaccio penetravano in quelli cobalto di lei. Crystal si sentì percorrere da un brivido lungo la spina dorsale.

Poi il viso di lui si rilassò. «Scusa», mormorò. «È che ho avuto da discutere con Miranda e ora sono un po’ nervoso.»

«Con Miranda?» Crystal faticava a crederci. Miranda era così gentile e composta che non riusciva proprio a immaginarsi il suo viso paffuto contorto dalla rabbia. O la sua voce mielosa spezzata dal disappunto.

«Sì», continuò Oliver. «Ma preferirei non parlarne.»

Crystal annuì. «Certo, come vuoi.»

Oliver riprese il grembiule che pendeva verso il lato esterno del bancone e lo piegò minuziosamente. Guardò l’orologio, che segnava qualche minuto dopo le quattro, e la sua espressione pensosa si affievolì. «Sarà meglio che vada», disse voltandosi.

«Oliver», lo chiamo Crystal d’impeto. C’era una cosa che voleva chiedergli.

«Sì?», rispose lui. Volse solo la testa, mostrandole il profilo dritto del suo viso.

«Io…volevo… Devo farti una domanda.»

«Spara.»

Crystal si avvicinò e gli si mise davanti, in modo da poterlo fissare negli occhi. Di solito era brava a capire se qualcuno mentiva, interpretando lo sguardo.

«È a proposito di quella cosa che hai detto l’altro giorno. Che non mi invidi per il fatto di aver preso il posto di Serena», fece. «Perché? Cosa sai che io non so?»

Gli occhi di Oliver cambiarono colore. O almeno così parve a Crystal. Le iridi del ragazzo si scurirono fino a diventare di un grigio nube.

Oliver rimase in silenzio, cupo, ma compì un passo verso di lei. Tese le labbra fino a farle scomparire. «Sei una ragazza curiosa», le disse. «E i curiosi non filano bene da queste parti.»

Crystal ne aveva abbastanza dei suoi giri di parole. «Tu non pensi che fosse colpa di Serena, non è così? Parlo delle sparizioni.»

«Ciò che penso io non ha molta importanza.»

«Invece sì.»

Oliver le posò una mano sulla spalla con fare poco amichevole, poi avvicinò le labbra al suo orecchio destro. «Non credo sia stata colpa sua», sussurrò. «Anzi, ne sono certo.»

A Crystal vennero i brividi. Non seppe se per la rivelazione di Oliver o per il caldo alito di lui che le accarezzava la guancia. Fece un passo indietro.

«Chi, allora?», domandò con decisione.

Il ragazzo sorrise, mostrando un minuscolo brillantino sull’incisivo sinistro. «Ti conviene moderare la tua curiosità, ragazzina», le ripeté.

Il modo in cui Oliver l’aveva chiamata le fece venire la pelle d’oca. Ragazzina. Suonava quasi peggio di mondana.

Oliver la salutò con un cenno del mento, poi si voltò e si diresse verso lo spogliatoio, lasciando Crystal con più domande di quante non ne avesse avute prima.

Quando Crystal tornò dal retrobottega, formale nella sua divisa che profumava ancora di ammorbidente, non fece in tempo a salire sul soppalco del bancone che una familiare chioma color rame catturò la sua attenzione.

Julie se ne stava seduta al contrario su una delle sedie della sala, gli avambracci appoggiati sullo schienale a sorreggerle il mento. La sua testa dondolava lenta e le sue labbra stavano producendo un leggero fischiettio. Notò che sul corpo aveva tatuaggi identici a quelli che aveva visto addosso a Gabe e Cole, ma in quantità decisamente inferiore.

Crystal finse di non notarla, sebbene il cuore avesse preso a martellarle nel petto così forte che temette che la rossa potesse sentirlo. Andò dietro al bancone e iniziò a trafficare con le tazzine impilate sopra alla macchina del caffè. Sentiva addosso lo sguardo inquisitore di Julie.

Alla fine la rossa si decise a parlare. «Sai, non credo che fingere di non vedermi servirà a qualcosa.»

Crystal si trattenne dall’impulso di voltarsi e sputare qualche insulto.

«Ho attivato la runa della Visibilità. Chiunque può vedermi, adesso. Anche la tua amica pasticciera che sta in laboratorio.»

La mora non riuscì più a ignorarla. Si voltò di scatto. «Che cosa vuoi?», ringhiò.

Julie fece un risolino divertito. «Bugia», disse mostrandole un polpaccio tatuato lasciato scoperto da degli shorts di jeans. «Non ho attivato alcuna runa. Tu hai davvero la Vista.»

Crystal sbuffò dal naso, arrabbiata e ferita. Si sentiva una stupida per essere cascata nel tranello di quella… quella… Non sapeva nemmeno come identificarla.

«Vorresti dire che agli occhi della gente ora sembro una psicopatica che parla da sola?», le chiese.

Julie sorrise. «Già», rispose. «Non gesticolare troppo. Attirerai meno l’attenzione.»

«Che cosa volete da me?», chiese di nuovo, questa volta più pacata. «Tu e i tuoi due amichetti?»

Julie alzò le spalle nude. «Ci incuriosisci.»

«Chi… Che cosa siete?», domandò a bruciapelo. Utilizzò lo stesso termine che loro avevano usato con lei. Cosa, non chi.

«Shadowhunters», rispose con nonchalance. «Cacciatori di demoni.»

«Cacciatori di che?», le fece eco. «È un modo simpatico per dire che siete degli agenti sotto copertura a caccia di criminali?»

Julie sorrise ancora. «È una buona definizione da mondani, questa», fece. «La proporrò a Victoria.»

«Chi è questa Victoria?», domandò Crystal. Era tesa come una corda di violino. «Avete detto che volete portarmi da lei. Chi è, il vostro superiore?»

«Una specie. È la nostra Maestra», le spiegò. «Comunque, quando dico demoni parlo alla lettera. Creature demoniache che infestano questo e altri mondi e che lo stanno portando alla rovina. Noi li combattiamo e li rispediamo nella loro dimensione originaria, lontano da qui.»

Crystal non sapeva se trovarlo spaventoso oppure divertente. Chi era la pazza, fra le due? Chi delle due stava delirando, adesso? Crystal non ne era più così sicura.

«Mi trovate interessante perché riesco a vedervi», constatò con amarezza. «Teoricamente non dovrei riuscirci, giusto? I mondani, come li chiamate voi, non posso vedervi. Eppure io sì. Perché?»

«È per questo che sono qui, Crystal», le rispose la rossa piegando la testa di lato. «Per scoprirlo.»

Era la prima volta che Julie nominava il suo nome, e nelle orecchie di Crystal parve suonare in modo strano, un modo a cui non era abituata. Sapeva di famiglia, anche se solo vagamente. Il modo in cui una madre chiama un figlio, o una ragazza chiama la sua migliore amica. Cose che a Crystal non era mai stato possibile apprezzare.

«Ti porterò a casa», aggiunse Julie.

«A casa?», domandò sorpresa. «Quale casa?»

Julie sorrise di sbieco. «Be’, non è proprio una casa. Diciamo che è un rifugio. Ci siamo stabiliti a Long Beach solo da un paio di settimane, dopo esserci allontanati dall’Istituto di Los Angeles. È una misura temporanea.»

«Sarebbe il posto dove vivete tu, Cole e Gabe?»

«Sì, ma non siamo gli unici. Con noi ci sono anche Caleb e Vanessa, da Washington DC. Il loro Istituto è stato attaccato da un branco di lupi mannari circa un mese fa. Poi c’è Donovan, direttamente da Idris - la nostra città d’origine. E ovviamente Victoria.»

«Aspetta, ferma. Hai detto lupi mannari?»

Julie parve cadere dalle nuvole. «Sì. Neanche a me piacciono molto. Puzzano come cani bagnati e lasciano bava ovunque.»

Crystal la fissava come se Julie le avesse appena confessato un omicidio.

La rossa si alzò in piedi e si sistemò il top di pizzo nero che le si era sollevato un po’ sui fianchi pallidi. «Okay», fece. «Credo che per ora possa bastare. Sarà meglio che tu elabori tutto questo un po’ per volta.»

«Dove stai andando?», disse d’istinto. Per qualche ragione la presenza di quella ragazza la rassicurava e si ritrovò inaspettatamente a desiderare la sua compagnia.

«Al rifugio», rispose. «Stiamo elaborando un piano d’attaccato per… Hey, ma che importa.» Andò verso la porta d’ingresso. «A che ora smonti?»

Crystal esitò un istante. «Alle nove.»

«Ti aspetterò nel vicolo qui dietro», la informò. «Victoria desidera vederti.»

La ragazza non seppe cosa rispondere. Una parte di lei bramava ardentemente informazioni, scoprire di più riguardo agli Shadowhunters e vedere dove si nascondevano. Ma l’altra parte, quella razionale, era terrorizzata all’idea di venire a conoscenza di altre cose o fatti spiacevoli. Crystal tremava come una foglia al solo pensiero di sentir parlare ancora di demoni, fate e licantropi. Forse, pensò, era più facile non credere al sovrannaturale che sforzarsi per farlo. Forse era meglio che Julie la lasciasse in pace a continuare la sua noiosa e semplice vita da mondana.

Ma quello che le uscì dalle labbra, contro ogni logica, fu: «D’accordo.»

Julie le fece un cenno con la testa, poi si voltò ad aprire la porta a vetri che dava sulla strada. Quando scattò, veloce come un gatto, verso la Quattordicesima il meccanismo a campanello sopra lo stipite tintinnò appena.

Si era alzato il vento. Crystal era stretta nel suo cappotto grigio, la testa bassa per evitare che i capelli le frustassero il viso. Si era infilata in un vicoletto buio tra Atlantic Avenue e Lime Avenue, aspettandosi che Julie fosse già lì ad attenderla, appoggiata contro il muro di mattoni con le braccia incrociate davanti al seno e una suola della scarpa schiacciata contro la parete. Ma il vicolo era scuro e silenzioso. Si udiva solo un lieve scricchiolio di roditori che frugavano tra i sacchetti dell’immondizia abbandonati lungo i bordi della stradina.

«Julie?», tentò. «Sei qui?»

Non ottenne alcuna risposta. Decise di utilizzare la torcia dello smartphone per illuminare almeno un po’ il vicolo.

Un fascio di luce gialla fendette l’aria e si posò sull’asfalto slavato, tracciando un cono. Crystal vide solo dei cassonetti, una bicicletta arrugginita e delle cassette di legno. Non c’era traccia di Julie.

Guardò l’ora. Erano quasi le nove e mezzo. Con un sospiro, decise di tornare in strada e sedersi su una panchina ad aspettare. Chissà, forse Julie aveva avuto un contrattempo e stava ritardando.

O forse si era soltanto presa gioco di lei.

Quell’idea iniziò ad invaderle i pensieri, fino a diventare l’unica soluzione possibile. Un peso le si formò alla bocca dello stomaco: sapeva di umiliazione.

Attese fino a che il campanile su Broadway Court non batté le dieci in punto. Crystal sentiva in bocca il sapore dell’orgoglio ferito e della rabbia che montava.

Chiamò un taxi, furiosa. La prossima volta che l’avrebbe vista, se mai fosse accaduto, gliel’avrebbe fatta pagare per bene.


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NOTA DELL'AUTRICE: Fine del terzo capitolo. Spero che la storia cominci a sembrarti interessante! Se ti va, mi farebbe molto piacere se mi lasciassi una piccola recensione con le tue opinioni. Sia positive che negative. Grazie mille :)

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PERSONAGGIO DEL GIORNO:
Julie Reyes

Julie Reyes


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Capitolo 4
*** Lasciate ogni speranza, o voi ch'entrate ***


capitolo 4

LASCIATE OGNI SPERANZA, O VOI CH’ENTRATE


Una fitta coltre di nubi grigie sovrastava Long Beach, donandole un’aria malinconica e dimenticata. L’Atlantic Avenue era quasi deserta alle sei del mattino e la poca luce rossastra che filtrava dalle nubi trasformava la strada in un paesaggio tetro e surreale, dove gli alti palazzi svettavano verso il cielo senza proiettare alcuna ombra sui marciapiedi e le vetrine dei negozi riflettevano le fronde degli alberi che si muovevano agitate al ritmo delle raffiche di vento.

Crystal si tirò il cappuccio della felpa sopra la testa per ripararsi dalle prime gocce di pioggia. Sapeva che in pochi minuti sarebbe scoppiato un acquazzone, perciò affrettò il passo: non aveva alcuna intenzione di beccarsi una polmonite.

Quando finalmente arrivò davanti all’Every Flavour Donuts la pioggia si era infittita. Crystal infilò una mano tra le grate della serranda abbassata e bussò sul vetro della porta d’ingresso con impazienza. Riusciva a vedere l’ovale di luce che filtrava dall’oblò del laboratorio.

Saltellava sui piedi per scacciare il freddo e con una mano si teneva il cappuccio ben tirato sulla fronte. Ma dove diavolo si era cacciata Miranda? Perché ci metteva così tanto?

Sussultò nell’udire la serranda che si alzava. Solitamente Miranda la raggiungeva alla porta d’ingresso per attivare il meccanismo automatico, ma probabilmente doveva esserci anche un pulsante di attivazione in laboratorio di cui Crystal non era a conoscenza.

Quanto la pesante struttura metallica si fermò con un clic, Crystal posò una mano sul pomolo della porta e questa scivolò subito verso l’interno. Era aperta.

La ragazza entrò nella sala, già pronta a levarsi la felpa umida per scaldarsi nel tepore dei forni accesi. Ma subito si rese conto che l’ambiente era gelido, forse ancora di più di quanto non fosse all’esterno. Il suo respiro caldo produceva nuvolette di vapore che si dissolvevano sopra la sua testa.

Crystal guardò l’orologio a muro. A quell’ora l’aria avrebbe dovuto essere satura del profumo delle brioches, dell’olio scoppiettante in cui venivano fritti i donuts e delle crema pasticciera. Invece c’era soltanto un vago odore dolciastro che riempiva tutto il negozio.

I peli biondicci le si rizzarono sulle braccia come dei sonar. C’era qualcosa di lugubre in quella semioscurità e in quel silenzio innaturale, qualcosa che aveva attivato in Crystal un campanello d’allarme.

Si avvicinò con passo felpato verso l’oblò. Si alzò sulle punte per guardarvi all’interno, ma il laboratorio era deserto. Sul bancone d’acciaio c’erano degli attrezzi da lavoro sporchi e una ciotola traboccante di glassa al cioccolato.

«Miranda?», tentò.

Pensò che probabilmente si era recata in cantina a prendere qualche ingrediente, oppure al bagno. Decise di andare a controllare nel retrobottega.

La porta dello spogliatoio era chiusa e dal bordo inferiore filtrava una striscia di luce che disegnava un rettangolo sul pavimento. Si udivano delle voci basse all’interno, roche e gutturali. Con la mano che tremava, come in preda agli spasmi, Crystal abbassò la maniglia ed aprì la porta di scatto.

Rimase con il fiato sospeso anche quando vide che all’interno dello spogliatoio c’era Oliver. Soltanto Oliver. Era a torso nudo e si asciugava il collo con un piccolo asciugamano bianco.

Il ragazzo si voltò repentinamente. «Hey!», esclamò. «Nessuno ti ha insegnato le buone maniere?»

Crystal divenne paonazza. «S-scusa», balbettò. «Io…»

Il ragazzo gettò la salvietta a terra. «Tu cosa?»

«Stavo cercando Miranda. Non pensavo che ci fossi tu», rispose. «Non è il tuo giorno libero?»

Oliver allargò un sorriso che a Crystal fece venire la pelle d’oca. C’era qualcosa di strano nei suoi occhi di ghiaccio.

«Cambio di programma», disse lui. Si chinò verso il suo armadietto aperto, quello a sinistra accanto alla porta del bagno, per prendere la divisa da una delle grucce.

Fu allora che Crystal la vide. Una striscia trascinata di sangue che usciva da sotto la porta del bagno e terminava nel punto in cui Oliver aveva gettato l’asciugamano.

La ragazza si sentì svenire. L’odore metallico del sangue la investì in pieno come un treno in corsa. Tutto questo non aveva il benché minimo senso.

Si era accorta che il sangue le era defluito dal volto, perché lo specchio nella parete opposta ora stava riflettendo l’immagine di un fantasma dai capelli scuri. Ma Oliver non doveva notarlo.

Raccolse dentro di sé tutta la forza che trovò per non gridare. Per quanto potesse sembrare assurdo e impossibile, doveva cercare di mantenere la calma.

«Con chi stavi parlando, poco fa?», gli domandò Crystal, la voce tremolante.

Oliver si volse verso di lei, mostrandole tutto il suo arsenale di muscoli. S’infilò nella testa la polo bianca su cui era stampato il logo dell’Every Flavour Donuts. Aveva completamente ignorato la domanda.

«Dov’è Miranda?», ritentò. Il tono della sua voce si era fatto più alto ed insistente. «Oliver.»

Il ragazzo si avvicinò a lei senza togliersi quel ghigno dalla faccia, la t-shirt che gli pendeva dal collo spiegazzata. «Ti ho già detto che sei troppo curiosa?»

Crystal rimase immobile, il cuore che pulsava frenetico dietro alle costole. «Tu li vedi, non è vero?», mormorò, a voce così bassa che temette non l’avesse sentita. «Riesci a vederli.»

«Non so di cosa tu stia parlando.»

«È per questo che eri certo che le sparizioni di cibo non fossero colpa di Serena», continuò. «E perché mi hai augurato buona fortuna. Sapevi che sarei stata licenziata anch’io per lo stesso motivo. Sapevi che il cibo spariva perché loro venivano a prenderselo.»

«Loro chi?», replicò. «Sicura di non avere la febbre? Stai delirando.» Allungò una mano per posargliela sulla fronte.

Crystal scostò la mano di Oliver con un gesto secco. «Chi sei?», domandò. «Non sei uno di loro. Loro sono pieni di quegli strani tatuaggi…»

«Loro?», la scimmiottò lui. «Perché non li chiami con il loro nome?», aggiunse. «Quegli schifosi traditori alleati con il Conclave...»

Crystal guardò oltre la spalla di Oliver, cercando la striscia di sangue che aveva visto poco prima. Sentì le lacrime addensarsi sugli occhi.

«Che cosa le hai fatto?», latrò. Era sull’orlo della disperazione.

Oliver scrollò le spalle. «Sapeva troppo», rispose. «Proprio come te.»

Una lacrima calda scivolò sulla guancia della ragazza. «Che cosa vuoi da me?»

Lui sogghignò, negli occhi una spietatezza che Crystal non aveva mai visto. «Io? Da te? Niente», obiettò. «Ma sono mesi che ti stiamo dietro. La nostra Signora ti vuole a tutti i costi… Dice che sei importante.»

«Che cosa

«Ad essere sinceri neanche a me sembri niente di speciale, ragazzina. Ma gli ordini sono ordini. Consegnerò il tuo corpo alla Signora di Avalon.»

Le mani di Oliver scattarono come saette sulla gola di Crystal e strinsero così forte che la ragazza iniziò a vedere strani bagliori davanti agli occhi. Boccheggiava come un pesce, in debito d’ossigeno, senza sapere che cosa fare.

Crystal afferrò i polsi di lui e affondò le unghie nella sua carne con tutta la forza che aveva. Lo guardò dritto negli occhi, sperando che un barlume di compassione lo convincesse a lasciarla andare.

Ma con terrore vide le iridi del ragazzo dissolversi lentamente come fumo, e ora due palle bianche simili ad albumi fissavano il vuoto.

«Non opporre resistenza, Iwak». La voce di Oliver si era arrocchita e abbassata di due ottave. Sembrava risalire direttamente dagli Inferi.

Le dita della mano libera del ragazzo si allungarono mostruosamente fino a diventare tentacoli lividi con cui circondò e legò le braccia e il corpo di lei.

«Ti prego», sussurrò Crystal senza voce. Il suo volto era il dipinto del terrore.

«Non pregarmi, ragazzina», replicò il mostro umanoide. «Solo i deboli pregano.»

Proprio quando Crystal sentì che stava per spegnersi, come l’esile fiamma di una candela si abbandona all’insistenza della pioggia, un squarcio di assi rotte rimbombò nella stanza.

Crystal riconobbe con la coda dell’occhio l’alta e scura figura di Gabe, che aveva irrotto nello spogliatoio mandando in frantumi la porta di legno.

«Lasciala andare», ordinò Gabe alla sagoma deforme che stringeva il corpo di Crystal. Nella mano destra teneva una spada argentea, che a Crystal parve di vetro.

«Spiacente, Shadowhunter», rispose l’essere demoniaco. «La ragazza appartiene a noi.»

«Risposta sbagliata», dichiarò Gabe prima di scaraventarsi contro il demone a tutta velocità.

La spada vitrea roteò in aria e fendette il braccio del mostro. La mano tentacolata che stritolava il corpo minuto di Crystal cadde a terra e del sangue nero e denso come il catrame iniziò a riversarsi dall’avambraccio monco, imbrattando il pavimento.

Un gridò animalesco di dolore uscì dalle fauci aguzze del demone, il cui volto si deformava sempre di più. Crystal, in un delirante attimo di riflessione, pensò che restava ben poco dell’affascinante barista dagli occhi di ghiaccio che aveva conosciuto.

I tentacoli allentarono la presa dal corpo di Crystal, così come la mano sana che premeva sul suo collo. La ragazza cadde ai piedi del demone con un tonfo sordo.

Gabe diede un’occhiata fugace a Crystal, prima di accanirsi nuovamente sull’essere demoniaco e conficcargli la spada angelica nel torace fino all’elsa.

«Alea iacta est, Nephilim», gorgogliò il demone. Guardò Gabe negli occhi per un istante interminabile, prima di accartocciarsi su sé stesso come un palloncino sgonfio fino a scomparire.

Il dado è tratto.

Gabe sollevò lo sguardo verso Crystal. La trovò svenuta in una pozza di sangue demoniaco, il collo livido dove il demone l’aveva stretta e il volto esangue. Le sue labbra erano cianotiche.

Lo shadowhunter sperò con tutto sé stesso che non fosse troppo tardi. Se la ragazza fosse morta perché lui aveva indugiato troppo fuori dalla stanza non se lo sarebbe mai perdonato.

Si sedette a terra, accanto a lei, e si issò la testa della ragazza su una coscia fasciata di cuoio. Le diede dei buffetti sulle guance, augurandosi che reagisse. «Crys?», la chiamò. «Mi senti? Crystal!»

La ragazza aprì lentamente gli occhi e il giovane shadowhunter poté smettere di trattenere il fiato per la tensione.

Crystal dovette sbattere più volte le palpebre prima di realizzare che cosa era successo. Percepiva la mano di Gabe accarezzarle la guancia. Sentiva i vestiti fradici appiccicati alla pelle e i capelli impiastricciati di una sostanza oleosa che le si incollavano sulla fronte.

«Ti senti bene?», le chiese Gabe.

«Certo», rispose lei sarcastica. Notò che la voce le usciva strozzata. «Mai stata meglio.»

«Ti ho appena salvato la vita», rispose lui indignato. «Potresti almeno fingere di essermi grata.»

La ragazza si appoggiò a Gabe per issarsi in piedi. Lui la seguì.

«Perché dovrei?», fece lei, cercando di scrollarsi via il sangue di dosso. «Non mi sembra vi sia importato molto, ieri sera, di avermi lasciata sola ad aspettare la tua amica in mezzo ad una strada. E ora piombi qui a fare l’eroe e pretendi che io ti sia riconoscente!»

Gabe annuì consapevole. «Ieri notte Julie è stata attaccata da un demone Ravener. Se l’è vista brutta. Il morso del Ravener contiene una potente tossina in grado di distruggere i tessuti del corpo», le spiegò. «Nessuno di noi sapeva che aveva un appuntamento con te. Se l’avessi saputo prima non sarei venuto ad avvisarti soltanto ora, non ti pare?»

Crystal sentì il cuore stringersi per il senso di colpa. Aveva creduto che Julie l’avesse piantata in asso, mentre invece si era trovata in pericolo mortale. «Mi dispiace», mormorò. «Come sta adesso?»

«Se la caverà», rispose soltanto.

Crystal guardò il punto del pavimento dove il demone si era rimpicciolito fino a sparire ed istintivamente si portò una mano al collo per constatare i danni. Un grosso nodo le si formò in fondo alla gola. «Grazie», sussurrò con la voce spezzata. «Per avermi salvato la vita.»

Fece spallucce. «Non c’è di che.»

Crystal lasciò cadere la testa sulla spalla di Gabe e si lasciò trascinare in un pianto liberatorio. Le lacrime le scendevano copiose sulle guance in fiamme, mentre le labbra le bruciavano come fossero state coperte di sale.

Gabe strinse la ragazza a sé circondandole le costole con un braccio e posò l’altra mano sulla testa di lei, per attutire i tremori dei suoi singhiozzi.

«Va tutto bene, adesso», le sussurrò all’orecchio cullandola. «Ci sono io a proteggerti.»

Crystal annuì sulla sua spalla: questa volta gli credeva. Abbracciata a lui, la giacca di pelle che le scaldava il corpo infreddolito e le sue mani che la accarezzavano, si sentiva finalmente protetta.

«Andremo al rifugio», le disse lo shadowhunter. «Lì sarai al sicuro.»

Senza volerlo, lo sguardo di lei cadde sulla porta semichiusa del bagno, dove c’era ancora quella macabra striscia di sangue scarlatto. «Miranda…», sussurrò, cercando di staccarsi da Gabe per andare a controllare.

«È meglio che tu non veda», le consigliò Gabe trattenendola. «Non è un bello spettacolo. Credimi.»

«Ma forse è ancora viva. Forse…»

Gabe scosse la testa. «I demoni mutaforma come quello fanno vere e proprie carneficine. Non la riconosceresti nemmeno.»

L’ennesima lacrima le rigò il viso ceruleo. «Potresti… andare a controllare tu?», le chiese in tono di supplica. «Per favore.»

Gabe annuì serio e si staccò da lei per raggiungere il bagno. Crystal fu investita da una ventata di aria gelida e per un istante rimpianse di aver allontanato il ragazzo con la sua calda giacca di pelle.

Lui entrò nel bagno. Ci restò per un minuto o forse più, mentre Crystal nello spogliatoio si torturava le mani dall’ansia. Quando Gabe uscì chiudendo la porta, lei capì che non c’era più niente da fare.

Crystal si portò le mani davanti alla bocca e soffocò un grido. Tutto questo non poteva essere reale.

Gabe si affrettò a raggiungerla, le circondò le spalle con un braccio e la trascinò a forza fuori dalla stanza, mentre lei continuava ad urlare e singhiozzare come solo chi vede la morte in faccia può fare.


Gabe aveva caricato Crystal nella sua Shelby grigio metallizzato e aveva guidato fino a Liberty Court, dove si trovava l’entrata al rifugio degli Shadowhunters. Ora si trovavano in un vicolo semibuio disseminato di immondizia, precisamente davanti a una botola nascosta sotto ad un grosso bidone della spazzatura verde.

Il ragazzo estrasse dalla giacca di pelle uno strumento simile ad una penna, con la punta arrotondata e luminescente. «Questo è uno stilo», spiegò a Crystal mostrandoglielo. «Serve a farci i Marchi… e anche a fare questo» continuò infilando la punta dello stilo in una strana serratura su uno dei lati della botola. Questa scattò e si sollevò di qualche centimetro, giusto per infilarci sotto le mani. «Anche se immagino che non sia il momento migliore per farti una lezione sugli Shadowhunters, non è vero?»

Crystal lo guardò di sbieco. Era ancora sotto shock. «Già, grazie.»

Gabe sollevò il coperchio della botola e indicò l’orbita vuota. «Prego, prima le signore.»

Crystal stava per ribattere qualcosa, quando notò che alcuni scalini si stavano materializzando nel buio per formare una scala. Non disse nulla e scese i gradini col fiato sospeso.

Il ragazzo le fu dietro in un attimo, chiudendosi la botola alle spalle. «Prosegui dritto.»

Quando Crystal compì un passo, come per magia delle torce ai lati di un lungo corridoio si accesero, rivelando la strada a poco a poco. Crystal osservò le fiamme tremolanti delle torce, chiedendosi con quale meccanismo si accendessero in quella sequenza.

La ragazza sentiva i passi di Gabe dietro di lei, ma continuava comunque a voltarsi per assicurarsi che si trattasse di lui. Ogni volta il moro, con infinita pazienza, le sorrideva gentile.

Presto arrivarono ad una porta, illuminata da una plafoniera dalla luce intermittente. C’era un pezzo di cartone appeso sulla soglia, imbrattato da una scritta a pennarello.

«Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate», lesse Crystal trattenendo un brivido.

A Gabe sfuggì una risatina. «È stato Cole. A lui piace fare questo tipo di umorismo.»

Crystal fece una smorfia. «Già», replicò. «Davvero divertente.»


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PERSONAGGIO DEL GIORNO:
Nicholas 'Cole' Dawson

Nicholas 'Cole' Dawson

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Capitolo 5
*** Il Rifugio ***


capitolo 5

IL RIFUGIO

Qualsiasi cosa Crystal si fosse aspettata oltre lo spesso portone di legno, non era di certo ciò che si trovava ora di fronte agli occhi.

Una grande stanza grigia e rettangolare si stagliava davanti a loro, spoglia e fredda come una vecchia cantina. Alcuni tappeti stracci e pezzi di vecchie scatole di cartone erano stati sistemati alla bell’e meglio sul pavimento di cemento grezzo per attutire il freddo. Sulle pareti incementate, dove a tratti comparivano dei mattoni sbeccati, erano appesi degli arazzi colorati raffiguranti strani simboli simili ai tatuaggi impressi sulle braccia muscolose di Gabe.

Crystal rivolse al ragazzo uno sguardo confuso. «Quindi… tu vivi qui?»

Gabe annuì.

«Non sembra molto accogliente.»

«Già, lo so. Ma è il meglio che siamo riusciti a rimediare fino ad ora», mormorò con un velo di risentimento nella voce. «Presto troveremo un posto più adatto. Un ospedale abbandonato, una villa in rovina… Qualcosa del genere.»

Prima che Crystal potesse replicare qualcosa, una figura leggermente incurvata in avanti spuntò dall’ombra. La ragazza riconobbe la chioma color ruggine della shadowhunter.

Il viso di Julie affiorò dall’oscurità come se fosse emersa da una vasca d’acqua, e fu allora che Crystal notò il suo volto deturpato e più gonfio di come lo ricordava.

«Ehilà», li salutò. «Ben arrivati.»

Crystal le rispose con un cenno, concentrata ad osservare la cicatrice che le correva trasversalmente sulle labbra. Quando gli occhi si abituarono alla semioscurità della stanza, Crystal vide con orrore che le braccia di Julie erano tappezzate di solchi simili a gravi bruciature.

Allora è questo che fa il morso di un Ravener, pensò con ribrezzo. Poi notò che sul dorso della mano sinistra della rossa appariva un complesso tatuaggio nero.

«È un iratze», le disse Gabe seguendo il suo sguardo «Una Runa della Guarigione. Serve a far guarire le ferite più in fretta.»

Crystal annuì, come assorta.

«Mi spiace di averti lasciata là da sola, ieri notte.» Il dispiacere nella voce di Julie era autentico. «Sono stata presa alla sprovvista da un demone sulla Pacific Palisades, mentre venivo da te. Non mi è andata molto bene. Non mi ero nemmeno fatta dei Marchi di protezione e…»

«Non importa», la interruppe Crystal. «Come ti senti?»

Julie fece una smorfia. «Come se mi avesse investita un camion, fossi stata presa a pugni da un lottatore di sumo e gettata in una vasca d’acido contemporaneamente.»

«Una meraviglia, insomma», intervenne Gabe.

«Già.»

«Fortuna che c’è Cole a prendersi cura di te.»

Nonostante la scarsa illuminazione, Crystal vide le guance di Julie tingersi di rosso.

«Smettila, Gabe», replicò la rossa. «Non c’è niente fra me e…»

Gabe fece un sorriso sornione. «Certo, come no.»

Julie distolse lo sguardo dal moro per posarlo su Crystal. «Vieni, ti mostro il tuo letto.»

S’incamminò lentamente verso il punto da cui era arrivata: una rientranza a destra della stanza. Crystal si accorse che la ragazza claudicava, anche se cercava di non darlo a vedere.

Si affacciarono su un'altra stanza, più stretta della prima e più illuminata. Alcune torce appese ai muri rischiaravano e intiepidivano l’ambiente.

Lungo la parete destra correvano dei letti di fortuna, formati da vecchie strutture di ferro battuto e materassi strappati su cui giacevano alcune coperte e cuscini logori.

«Qui dormono Vanessa e Caleb», informò Julie. «E Donovan, quando c’è.»

«Cioè quasi mai», aggiunse Gabe.

Sulla parete di sinistra c’erano invece dei cassettoni e uno scaffale di metallo su cui erano appoggiati alcuni libri e degli effetti personali. Crystal rimase senza parole nel vedere un grosso coltello dalla lama argentata su uno dei ripiani, lasciato lì così, alla portata di tutti.

Julie attraversò la stanza seguita da Crystal e Gabe, che chiudeva la fila con fare annoiato. Aprì una porta che dava su un corridoio, il quale su entrambi i lati terminava in una stanza.

La rossa indicò a sinistra. «Di là dormiamo io, Gabe e Cole.»

«L’Angelo solo sa quanto vorrebbero poter dormire da soli», disse ironico Gabe.

Julie gli sferrò un pugno sulla spalla. «Finiscila!», esclamò. «Credi che avrei problemi a relegarti nella dispensa, se lo volessi?

Il moro soffocò una risatina.

«Tu dormirai di qua», continuò Julie rivolta a Crystal, indicando la stanza a destra. «Di solito ci dormo io, ma ho pensato che avessi bisogno di un po’ di privacy.»

«Non avresti dovuto disturbarti», rispose Crystal imbarazzata.

La rossa fece spallucce. «Figurati.»

«Dov’è Cole?», chiese senza quasi rendersene conto.

«Oh, dovrebbe essere qui a momenti…»

«Eccomi» proruppe una voce alle loro spalle.

I tre ragazzi si voltarono a guardare il biondo che stava fermo sulla soglia, stretto in un gilet di cuoio e dei pantaloni scuri. Nella mano destra teneva per i manici un borsone blu da palestra.

Crystal non fece in tempo a chiedersi che cosa contesse, che Cole allungò un braccio e gliela porse.

«Tieni. È roba tua», le disse.

«Roba mia?», ripeté la ragazza prendendo il pesante borsone.

«Ho mandato Cole al tuo appartamento per prendere un po’ delle tue cose. Vestiti, trucchi… roba del genere», le spiegò Gabe. «Conosco voi donne. Morireste per il vostro fondotinta.»

Crystal lo guardò torva. «Come sai dove abito?»

Il moro sorrise, mostrando un accenno imbarazzato che non si addiceva per niente al suo viso da cattivo ragazzo.

«Gabe ti ha seguita, l’altra sera», le svelò Julie con un ghigno.

«Non è vero», cercò di difendersi lui.

«Oh, sì, che è vero», aggiunse Cole.

Gabe guardò Crystal come per scusarsi. «Non ti stavo seguendo. Volevo soltanto assicurarmi che tu fossi al sicuro.»

«Uh, giusto!», replicò Julie. «Gabe è convinto di doverti proteggere da qualcosa. Dimmi, di che cosa dovrebbe avere paura una ragazza che a malapena sa della nostra esistenza?»

«Parla quanto vuoi, Juls», la rimbeccò il moro. «Sta di fatto che per poco oggi non si è fatta ammazzare da un mutaforma. L’ho trovata nello spogliatoio dell’Every Flavour Donuts giusto in tempo perché lui non la strozzasse.»

Le bocche di Julie e Cole si spalancarono come se la loro mascella si fosse addormentata tutto d’un colpo. «Che cosa?», fecero all’unisono.

«Il barista», spiegò Gabe. «Era un demone. Ha fatto fuori la pasticciera… e ci è mancato un soffio che uccidesse anche Crys.»

«Crys», ripeté Cole con ironia. «Ma sentilo. Siete già passati ai diminutivi?»

Julie fece un colpo di tosse per camuffare una risata.

«Siete proprio degli idioti», convenne Gabe con disappunto.

«Io invece sono dispiaciuto per quelle ciambelle», cambiò argomento Cole. «Erano così buone. Ora dovremmo cercarci un’altra pasticcieria per arraffarci la colazione.»

«Da quanto rubavate al negozio?», chiese Crystal con una punta di disapprovazione. «Una ragazza è stata licenziata per colpa vostra.»

Cole annuì. «Lo so. Ma noi dovremo pur mangiare! Il Conclave non ci passa il vitto, qui.»

«Già», s’intromise Julie. «Da quando ci siamo separati dall’Istituto di Los Angeles sembra che il Conclave non ci veda di buon occhio.»

«Non abbiamo un soldo. L’unico oro che possediamo è quello di famiglia, che viene tramandato tra generazioni di Shadowhunters da secoli. Non ci sembra il caso di scambiarlo con delle provviste, per quanto io ami il cibo.»

«O altrimenti ci sarebbe l’auto di Gabe», propose Julie. «Se ci pensate, potremmo farci dei bei soldi…»

«Scordatelo, Reyes», replicò Gabe.

 «Capisco», mormorò Crystal assente, corrugando la fronte. La testa le doleva tanto che le orecchie le fischiavano.

Gabe posò le mani sulle spalle di Crystal. «Vieni», le disse. «È il caso che ti riposi.»

Crystal non oppose resistenza. Gli consegnò il borsone e si lasciò guidare verso la sua stanza barcollando.

Julie sgomitò nel fianco di Cole ed entrambi rimasero in corridoio a fissarli divertiti.

«È la prima volta che vedo Gabe così…», sussurrò Julie, fermandosi a metà per cercare le parole.

«…umano?», suggerì Cole.

«Già», confermò lei. «Umano.»

 

Gabe era rimasto seduto sul bordo del materasso fino a che Crystal non si era addormentata. Ora che la sua mente si era alleggerita del peso della realtà, pensò Gabe, aveva dipinta sul volto un’espressione dolce e serena che non le aveva mai visto.

Per un momento ripensò a qualche ora prima, quando era entrato all’Every Flavour Donuts pensando ad una stupida battuta per fare colpo su di lei e invece era finito col doverle salvare la vita da un demone. Se avesse ritardato anche di un solo minuto, magari per arraffare un donut dall’espositore… Gabe non ci volle pensare.

Quando l’aveva vista a terra, esanime, con il volto pallido come la cera… A Gabe non era mai capitato di provare paura per qualcuno, in special modo per una mondana – anche se in realtà Crystal non era affatto una mondana, rifletté. Non aveva mai sentito il sangue raggelarsi nelle vene come quando si era posato il capo di lei, appiccicoso di sangue demoniaco, sulla gamba e aveva iniziato a scuoterla sperando che ciò bastasse a rianimarla. E la ventata di sollievo che lo aveva investito quando lei aveva aperto lentamente le palpebre e i suoi occhi lucenti come zaffiri lo avevano guardato, confusi e disorientati…

Gabe sentì dei passi dietro di sé. Riconobbe il passo leggero di Julie e non si voltò. Il suo sguardo rimase posato sull’esile corpo di Crystal, che dormiva beata sotto ad un pesante strato di coperte.

«Come sta?», gli chiese la rossa.

«È scossa», rispose. «Si è addormentata a fatica. Tutto questo non dev’essere facile per lei.»

La sentì appoggiarsi con una spalla allo stipite della porta, come faceva spesso. «Gabe», lo chiamò.

Lui si volse lentamente, quasi avesse timore a distogliere lo sguardo dalla sua protetta.

«Fa’ attenzione», gli mormorò. «Gli iratze non possono guarire i cuori spezzati.»

Gabe sorrise. «Da quando ti preoccupi per me?»

Lei lo guardò torva. «Ehm, da sempre?»

«Intendevo dire per i miei sentimenti.»

Sospirò. «Riconosco quello sguardo, Gabe. Il modo in cui la guardi. È lo stesso… con cui guardavi Meghan.»

All’udire quel nome, Gabe fremette come avesse preso una scossa elettrica. Il suo sguardo s’indurì.

«Non voglio che tu soffra… ancora», continuò la ragazza, passandosi una mano fra i capelli color del rame. «Il clan ha bisogno di te. Io ho bisogno di te.»

«Lo so», replicò. «Va tutto bene, Juls. È solo che… sento di doverla proteggere». Nel vedere che Julie non era convinta aggiunse: «Non vi abbandonerò. Non questa volta.»

«Ti credo», rispose a bassa voce. «Ma, ti prego, stai attento. Non sappiamo nemmeno chi lei sia o da dove venga.»

All’improvviso Gabe s’illuminò, ricordando un fatto che lo aveva incuriosito. «Ho sentito il demone dirle che la stava seguendo da mesi. Che l’avrebbe consegnata ad una donna, una certa Signora di Avalon.»

«Avalon? Mai sentito», fece Julie soprappensiero. «Che si trovi in una dimensione demoniaca?»

Gabe si strinse nelle spalle muscolose. «L’ho anche sentito chiamarla in un modo strano. Iwak. Hai idea di che cosa significhi?»

Julie scosse la chioma rossa. «No. Proverò a chiedere a Vanessa, non appena lei e Caleb rientreranno dalla missione. A quanto pare se ne intende parecchio di lingue antiche.»

«D’accordo. Grazie.»

Julie girò sui tacchi verso il corridoio. «Esco a cercare qualcosa per fare colazione», concluse. «Uh, Victoria vi aspetta nella Sala. Andate da lei, quando Crystal si sarà svegliata.»

Gabe annuì senza aggiungere altro, poi tornò a posare gli occhi sul volto pacifico di Crystal.

Quando lei si svegliò, intorpidita e spaesata, la prima cosa che mise a fuoco fu Gabe seduto su una sedia da toeletta, accanto a una specchiera, proprio di fronte a lei. Stava trafficando con il cellulare.

Si alzò goffamente su un gomito, cercando di distinguere il pavimento dal soffitto. La testa le girava come fosse appena scesa da una giostra. Fece appena in tempo a sporgersi dal letto, che un conato di vomito la costrinse a riversare la sua colazione sul tappeto viola di Julie.

Gabe la guardò alzando un sopracciglio. «Be’, buon pomeriggio anche a te.»

Crystal sputacchiò, poi si pulì la bocca con il braccio. Alzò lo sguardò verso il ragazzo, livida per la vergogna. «Scusa… Non volevo.»

Gabe si alzò in piedi storcendo il naso. «Dillo a Julie. Lei sì che s’incazzerà.»

«Mi dispiace», ripeté a fatica.

Lui sorrise. «Lascia perdere. Mica l’hai fatto apposta.» Si chinò sul pavimento e ripiegò il tappeto su sé stesso, intrappolando la poltiglia al suo interno, e lo appoggiò davanti alla porta per ricordarsi di andare a buttarlo.

Si avvicinò a Crystal studiando le ombre violacee sotto i suoi occhi cobalto. «Come va? Passata la nausea?»

«Sembrerebbe di sì.»

Si accovacciò davanti a lei per trovarsi alla sua altezza. «Victoria ci sta aspettando nella Sala. Ma se non te la senti possiamo rimandare.»

Crystal cercò di mettersi seduta. «No, va bene. Ce la faccio.»

Gabe le sorrise, affascinato dalla sua forza d’animo. «D’accordo. Vai a darti una sciacquata», le disse dolcemente. «Il bagno è di là. Io ti aspetto fuori.»

Crystal fece di sì con la testa e scese lentamente dal letto, assicurandosi di avere l’equilibrio per rimanere in piedi. Andò alla sua borsa ed estrasse alcuni vestiti, notando con curiosità che Cole aveva prelevato dal suo armadio soltanto abiti dai toni scuri: grigio, blu notte e nero. Scelse un paio di jeans strappati e una t-shirt nera che lasciava scoperta una spalla, poi andò nel bagno e chiuse la porta a chiave. Non che ce ne fosse bisogno, pensò, ma così si sentiva più al sicuro.

La ragazza notò con una vena di disappunto che la doccia non era costituita altro che da una spina d’acqua corrente posizionata poco sopra alla sua testa e da un telo di plastica a fiori fissato ad una sbarra di ferro sbilenca. Era abituata al comfort della sua doccia a Long Beach Avenue, ma dovette accontentarsi. In fondo, pensò, era già un lusso che avesse una doccia tutta per sé in camera sua.

Si tolse i vestiti ancora luridi di sangue e sudore e sgusciò sotto il getto bollente della doccia. Rimase sotto per alcuni minuti, immaginandosi che la sua ansia le scivolasse sul corpo e finisse nel buco di scolo insieme all’acqua e al sudiciume che la ricopriva.

Trovò un asciugamano azzurro appena oltre la tenda. Si asciugò e si infilò i vestiti puliti. Doveva ammettere che si sentiva già molto meglio.

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PERSONAGGIO DEL GIORNO:
Victoria Hangsword

Victoria Hangsword

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Capitolo 6
*** Verità nascoste ***


capitolo 6

VERITA’ NASCOSTE

 

La Sala era molto diversa rispetto al resto del Rifugio. L’arredamento era più curato, con librerie lungo le pareti, un’imponente scrivania di ciliegio al centro, grandi e colorati tappeti persiani che adornavano il pavimento grezzo. L’alto soffitto a volta era dipinto degli stessi simboli neri che Crystal aveva visto all’entrata.

La ragazza s’incamminò all’interno, esortata da Gabe. Vide delle lunghe spade appese alle pareti, simili a quella con cui Gabe aveva ucciso il demone che si era impossessato di Oliver; avevano l’elsa dorata impreziosita da pietre luminescenti e la lama sottile e trasparente come vetro. Crystal allungò una mano per sfiorarne la superficie, quando Gabe la afferrò per il polso a pochi centimetri dalla spada.

«Meglio di no», le disse piano.

Crystal annuì e ritrasse la mano. Subito dopo il suo sguardo fu catturato da un maestoso pianoforte a coda, posto dietro la scrivania. La ragazza pensò che uno strumento tanto bello fosse fuori luogo in una vecchia e umida cantina, ma sentì le punte delle dita pizzicare dal desiderio di preme quei lunghi tasti bianchi.

«Ti piace la musica?», le chiese Gabe. Parlava sottovoce, come si farebbe in una biblioteca.

«Sì, molto», rispose lei.

«Anche a me». Gabe si sporse verso il pianoforte e premette alcuni tasti, producendo un suono dolce e così intenso che a Crystal venne la pelle d’oca.

La ragazza stava quasi per cedere alla tentazione di sedersi sullo sgabello e suonare Al Chiaro di Luna di Beethoven (quel pezzo rispecchiava perfettamente il suo umore in quel momento), ma un colpo di tosse aldilà del pianoforte la fece tornare alla realtà.

Una donna dai capelli scuri come pece li fissava a braccia conserte, fasciata da un tailleur color vinaccia. Aveva occhi appuntiti come quelli di un gatto, di un grigio smog, e zigomi alti e pronunciati.

Crystal, dubbiosa sul da farsi, porse alla donna un sorriso di cortesia, poi guardò Gabe in cerca di un suggerimento.

«Victoria», disse lui a mo’ di saluto. «Questa è Crystal, la ragazza di cui ti ho parlato.» Posò una mano sulla schiena di Crystal e la sospinse in direzione della donna, come per esortarla a camminare.

La ragazza si avvicinò alla donna di nome Victoria. Vide che il suo viso era cosparso di minuscole increspature ai lati degli occhi e sulla fronte, e che una lunga cicatrice correva lungo la parte sinistra del suo volto, partendo dal sopracciglio e tagliando a metà la guancia scarna. Un brivido freddo le corse giù per la spina dorsale quando realizzò che il suo occhio sinistro era cieco.

Crystal fece un mezzo inchino, in evidente imbarazzo. «È un piacere, Signora.»

«Ti prego, chiamami Victoria», replicò lei porgendole la mano. La sua voce era pacata e leggera come una pioggerella estiva.

«Crystal Evans», rispose la ragazza stringendole la mano. Sentì il palmo freddo e le dita esili della donna contro le sue.

«Vuoi che ti lasci sola con lei, Maestra?», disse Gabe, che era rimasto accanto al pianoforte.

«Come preferisci, Gabe», rispose la donna.

«Per favore, resta», sfuggì a Crystal. Sentì gli occhi di Victoria e di Gabe puntati addosso e si sentì avvampare. «Voglio dire…», attaccò.

Gabe annuì. «Non c’è problema. Rimango.» Si sedette sullo sgabello del pianoforte, sparendo dietro al coperchio laccato.

«Vieni, sediamoci», disse Victoria a Crystal, indicandole una delle sedie davanti alla scrivania di ciliegio. Victoria si sedette nella poltrona da ufficio di pelle nera di fronte alla ragazza. «Gabe mi ha detto che questa mattina sei stata attaccata da un demone mutaforma.»

Crystal corrugò la fronte, ripensando al volto di Oliver che si deformava in un viscido mostro dai denti aguzzi. «Sì.»

Victoria annuì pensosa. «E dimmi, da quanto sai dell’esistenza del Mondo Invisibile?»

«Vuol dire la prima volta che ne ho visto uno? Un demone?», chiese Crystal confusa. «Era quella la prima volta. Non mi sono mai imbattuta in niente del genere.»

«No, intendo dire qualsiasi essere appartenente al Mondo Invisibile. Nephilim, vampiri, lupi mannari, fate…»

A Crystal vennero le vertigini. «Io…», mormorò. «La prima cosa strana che ho visto in tutta la mia vita è stato Gabe.»

«Hey, grazie!», esclamò Gabe con tono lamentoso da dietro il pianoforte.

«L’ho sorpreso la settimana scorsa mentre rubava indisturbato dalla vetrina dei donuts», continuò Crystal come se non l’avesse sentito. «È stata la prima volta che mi è capitato di vedere uno di voi. Lo giuro.»

Victoria si accigliò, lo sguardo concentrato su di lei. «Quanti anni hai, Crystal?»

«Ventuno», rispose.

«Non è possibile che tu abbia ottenuto la Vista a ventun anni. Con la Vista ci si nasce, mi segui? Avrai sicuramente visto qualcosa di insolito durante tutti questi anni. Un piccolo elfo correre tra i cespugli della Quattordicesima, una pixie saltellare tra i fiori...»

Crystal scosse la testa con veemenza. «No. Glielo giuro», ripeté.

«I tuoi giuramenti mondani non hanno alcun valore per noi, mi spiace», replicò la donna con apprensione.

Gabe si sollevò dallo sgabello premendo per sbaglio alcune note gravi sulla tastiera. «Lei non mente, Victoria», replicò.

«E come puoi esserne così sicuro?», fece la donna. «Da quanto la conosci?»

«Non ha importanza. So che sta dicendo la verità. Non avrebbe alcun motivo di…»

«Saresti pronto a garantire per lei?»

Lo sguardo di Gabe passò veloce da Victoria agli occhi atterriti di Crystal, poi di nuovo su Victoria, che lo osservava con sguardo di sfida. Le parole del Giuramento gli risuonarono nella testa, insieme a tutte le conseguenze che avrebbe dovuto affrontare se l’avesse pronunciate ad alta voce. Così, con un sospiro, si risedette in silenzio, sconfitto. Non era pronto ad un simile passo per una ragazza di cui conosceva ancora così poco.

«Proprio come pensavo», obiettò Victoria riportando lo sguardo su Crystal.

«Ho vissuto nell’Orfanatrofio di Seaside Park fino ad un paio di settimane fa», mormorò Crystal fissandosi le punte delle scarpe. «Non sono mai uscita di lì prima del mio ventunesimo compleanno.»

Gabe si alzò di nuovo in piedi. «Ecco la spiegazione! In un posto come quello è ovvio che non abbia mai visto un Nascosto. Chi mai entrerebbe in un Orfanatrofio?»

Victoria alzò gli occhi al cielo. «Per favore, Gabe. Se intervieni un'altra volta sarò costretta a cacciarti dalla Sala», replicò. «E si dà il caso che il parco di Seaside sia brulicante di fate. Impossibile che non ne abbia mai visto una.»

«L’orfanatrofio possiede un piazzale interno con un piccolo giardino. È lì che uscivamo tutti, dopo i pasti.», continuò Crystal affranta. «Come le ho appena detto, Signora, non sono mai uscita da quel posto prima di due settimane fa.»

«A che età sei stata portata in orfanatrofio?», le chiese la donna.

«Non ricordo», rispose la ragazza. «Per quanto ne so, potrei esserci nata, lì dentro.»

Gabe la fissava, gli occhi verdi come l’erba in primavera velati da un sottile strato di lacrime trattenute. Pensò ai suoi genitori, a tutte le volte che aveva ripetuto loro quanto li odiasse e quanto avrebbe desiderato andarsene dall’Istituto. Ma il pensiero che Crystal non sapesse nemmeno chi l’avesse messa al mondo e l’idea che avesse trascorso la propria infanzia in un orfanatrofio, lo fece riflettere sul fatto che forse lui non era messo poi così male.

Victoria alzò gli occhi su Gabe. «Tu le credi, Gabriel?»

«Tu no?», replicò lui secco.

«Per quanto mi riguarda, potrebbe anche essere una spia del Conclave.»

Gabe scivolò da dietro il pianoforte e raggiunse la scrivania, fermandosi alle spalle di Crystal. «Non porta i Marchi», disse rabbioso. «Non ha la minima idea di che cosa sia una Runa o uno Stilo. Stava per farsi uccidere da uno dei demoni più semplici da sconfiggere. Non credo che stia mentendo.»

«Oliver…», mormorò Crystal. «…voglio dire, il demone che mi ha attaccata, mi ha chiamata con uno strano nome…»

«Iwak», disse Gabe.

Crystal guardò dietro la sua spalla cercando gli occhi di Gabe. «L’hai sentito anche tu? Che cosa significa?»

«Non lo so», rispose lui. «Stiamo cercando di scoprirlo.»

Victoria batté i palmi delle mani sulla superficie liscia della scrivania. «Bene. Mentre voi vi divertirete a imparare le lingue demoniache, io andrò nella Sala d’Addestramento», disse secca alzandosi. «Buon pomeriggio.»

Gabe fece segno a Crystal di alzarsi dalla sedia e uscire. La ragazza annuì e, sussurrando un lieve ‘grazie’, uscì dalla sala precedendo Gabe.

«E… Gabe», lo chiamò Victoria. «La voglio fuori di qui entro domattina», obiettò indicando Crystal.

Il ragazzo alzò un sopracciglio. «Come, scusa? Perché? Sei stata tu a chiedere che la portassimo qui.»

«Già, ma vorrei ricordarti che questo rifugio, come ogni Istituto, è lieto di accogliere solamente i Nephilim. E dal momento che non abbiamo la minima idea di chi sia quella ragazza, non potrai tenerla qui. Sono spiacente.»

«È assurdo», replicò Gabe schioccando la lingua.

«È la legge, Gabriel Moorefield. Che ti piaccia oppure no.»

Gabe si richiuse la porta della Sala alle spalle, imprecando. Solitamente Victoria era comprensiva, seppur un po’ severa. Non riusciva a capire perché non potesse esserlo anche con Crystal, come lo era stata con decine di Nascosti prima di lei. Chi pensava che fosse? Un demone Drevak travestito da bella ragazza?

Si sporse in avanti per guardare oltre la tenda scura di capelli che copriva il profilo di Crystal. Gli occhi della ragazza erano inespressivi.

«È tutto okay?», le chiese preoccupato. «Non fare caso a Victoria. È un po’ lunatica.»

La ragazza alzò leggermente le spalle. «Non importa.» Continuava a vagare a grandi passi per il Rifugio, cercando l’uscita. Quel labirinto di corridoi la stava mandando in confusione.

«Dove stai andando?» Sebbene fosse un cacciatore ben addestrato, Gabe faticava a stare dietro al passo rabbioso di Crystal.

«A casa», disse secca lei. «È evidente che non sono la benvenuta, qui.»

Gabe l’afferrò per un polso, impedendole di continuare a girare a vuoto. La costrinse a voltarsi. «Sì, che lo sei», mormorò cercando il suo sguardo. «Mi hai sentito? Nessuno ti sta cacciando.»

Crystal impuntò le mani strette a pugno sui fianchi, guardando Gabe di sbieco. «Strano, perché mi pare di aver appena sentito Victoria dire il contrario.»

«Tu non darle retta, d’accordo?» Il tono di Gabe era dolce quanto una carezza. «Julie ha chiesto a Vanessa di scoprire il significato di quella strana parola. Forse ci aiuterà a capire chi sei... E stai certa che quando faremo luce sulle tue origini, Victoria si prenderà cura di te come una figlia, proprio come fa con noi.»

Gli occhi languidi di Crystal lo guardavano con profonda disperazione. «E fino ad allora?»

Gabe sospirò. «Fino ad allora… Victoria dovrà sopportare l’idea di incrociarti per i corridoi.»

Crystal arricciò le labbra. Stava per dire qualcosa, quando dei passi alle sue spalle la interruppero. Quando si volse vide due sagome emergere dall’ombra: una ragazza dai lunghi capelli chiari come spighe di grano e un ragazzo alto dai capelli rasati e una t-shirt strappata sul petto, da cui s’intravedeva la pelle d’ebano deturpata dai Marchi e da lunghe cicatrici biancastre. Avevano l’aria di due che erano appena stati attaccati da un branco di cani randagi.

«Vi siete imbattuti in un grizzly, di ritorno dalla biblioteca comunale?», li schernì Gabe.

Il ragazzo, dagli occhi ambrati come quelli di un gatto, gli si avvicinò e gli diede uno scappellotto. «È bello fare umorismo stando protetti tra le mura del Rifugio, vero Gabe?»

La ragazza, che era rimasta ferma sulla soglia, guardava Crystal come se la stesse studiando a memoria. «E così tu sei la nuova cavia da laboratorio di Gabe», disse freddamente.

Gabe interruppe lo scambio di battute con il ragazzo dalla pelle scura come la notte per fulminare la bionda con un’occhiataccia. «Non ricordavo che ci si presentasse in questo modo ai nuovi arrivati.»

La bionda fece una smorfia d’insofferenza. «Dammi tregua, Gabe. Siamo appena tornati dall’Istituto di Los Angeles e per poco Caleb non si faceva ammazzare da un Raum.»

Lo sguardo di Gabe cadde sulla maglietta sbrindellata del ragazzo. «Capisco…»

«Mi è saltato alle spalle mentre controllavo dove ti fossi cacciata», replicò Caleb. «Non sono uno sprovveduto.»

«Mai detta una cosa del genere, tesoruccio.»

Caleb alzò gli occhi al cielo. «Donne

«Uh, Gabe», intervenne la bionda lanciandogli un piccolo sacchetto di caucciù. «Ecco la tua Stregaluce. Sono riuscita a infilarmi in camera tua con la scusa del bagno. Caleb ha tenuto occupati i Cacciatori. Nessuno si è accorto di niente.»

«Grazie, Vanessa», rispose lui.

La cosa che Gabe estrasse dal sacchetto stropicciato lasciò Crystal senza fiato. Si trattava di una piccola pietra rotondeggiante che, quando Gabe la strinse attorno al suo palmo, s’illuminò di una luce propria irradiando fasci luminescenti tra le sue dita.

«Che cos’è?», domandò Crystal.

Vanessa strabuzzò gli occhi argentei. «Stai scherzando, vero? Non…»

Gabe la zittì con lo sguardo. «Una pietra runica di stregaluce», spiegò pazientemente rivolto a Crystal. «Serve ad illuminare i posti bui. Ogni Shadowhunter ne possiede una.»

«Gabe», lo chiamò Caleb. «L’uomo che gestisce l’Istituto è tuo padre, non è vero?»

Gabe annuì lentamente, tenendo gli occhi fissi su Crystal. Voleva evitare che Caleb notasse la vena di frustrazione che c’era nel suo sguardo mentre ripensava a suo padre.

«Gli assomigli molto.»

«Solamente nell’aspetto», disse con un tono rancoroso che non sfuggì a nessuno. Ora sei occhi lo fissavano incuriositi.

Vanessa si schiarì la voce. «Cooomunque… Ho qualcosa che non ti piacerà. E nemmeno a Victoria», disse rivolta a Gabe.

«Hai scoperto qualcosa a proposito di quella parola?»

«Molto di più.» Guardò Crystal con un’intensità tale che la ragazza sentì i peli rizzarsi sul collo. Consegnò un foglietto ripiegato a Gabe, poi sputò a terra: un chiaro segno di repulsione. «Sei fortunata che questa terra non sia consacrata.»

Gabe la guardò come se avesse appena confessato un segreto di Stato. «Cosa…»

«Creature bandite sia dal Paradiso che dall’Inferno, ecco cosa siete. Maledetti mezzosangue…»

Crystal fissò Vanessa per dei secondi che parvero interminabili, prima di voltarsi e scappare oltre il portone e lungo il corridoio illuminato dalle torce. Calde lacrime le rigavano il viso mentre correva.

Gabe spintonò Vanessa con una spallata. «Grazie tante.» E prese a correre.

La bionda fece una smorfia, poi guardò Caleb interrogativa. «Che ho detto?»

Caleb roteò gli occhi. «Un po’ di tatto non guasterebbe, ogni tanto.»

«Ma lei è…»

«Lo so, Ness. Ma per Gabe è importante.»

Nel mentre, Gabe aveva raggiunto Crystal, che si era fermata al di sotto della botola sul soffitto, cercando di trovare il modo di far ricomparire gli scalini di pietra dei quali si era servita per scendere. Il ragazzo posò le mani dalle lunghe dita affusolate sulle spalle di lei, tentando di attutire i suoi sussulti.

«Lasciami», latrò lei provando a scrollarselo di dosso. Stava tastando la pietra fredda alla ricerca di una leva o un pulsante di attivazione. «Apri questo accidenti di affare!»

Gabe provò a fermarla. «Crystal. Calmati, per favore.»

«No, non mi calmo affatto!», gridò. «Voglio tornare a casa e non vederti mai più. Ne tè, né quegli stronzi dei tuoi amici… né questo accidenti di posto!»

«Crys», la chiamò, mantenendo un tono rassicurante. «Non puoi tornare a casa. Quel demone che ho ucciso al negozio ha detto che ti stanno seguendo da tempo, ricordi? Vuol dire che altri verranno a cercarti molto presto. E io non potrò proteggerti se tornerai a casa tua.»

Crystal scosse la testa. I capelli le si incollarono sul viso bagnato di lacrime. «Non voglio la tua protezione!», sputacchiò. «E che mi vengano pure a prendere. Non ho più niente da perdere. Non ho una famiglia, né amici, e grazie a voi Invisibili del cavolo ora non ho nemmeno più un lavoro!»

Gabe rimase ad ascoltarla in silenzio. In qualche modo riusciva a sentire la disperazione nella voce di Crystal.

«Aiutami ad aprire questa dannata botola», ripeté. «Voglio andarmene.»

«Crys…»

«No, Gabe. Non puoi obbligarmi a stare qui», replicò. «Tutto questo è da pazzi. E io non ho aspettato ventun anni della mia vita per ridurmi a questo.»

Improvvisamente Gabe si ritrovò a immaginare una Crystal bambina, vestita con un serioso vestitino blu notte e due lunghe trecce scure che le scendevano sulla schiena; era seduta alla finestra guardando altri bambini liberi rincorrersi e giocare a pallone nel parco di Seaside, immaginando il lontano giorno in cui anch’ella avrebbe potuto trottare e rotolare in quell’erba verdissima. Un moto di rabbia s’insinuò nel petto di Gabe, che desiderò aver strappato quella bambina innocente da quello spoglio ed infelice orfanatrofio.

«Allora?» La voce di Crystal, acuta come lo scampanellio di una pixie, lo riportò alla realtà. «Vuoi aprire questo dannato coso?»

Gabe, suo malgrado, annuì. Estrasse lo stilo dalla tasca dei pantaloni e lo infilò in una fessura all’interno di una runa angelica solcata nella pietra. La terra sopra le loro teste iniziò a tremare, e una scala di gradini di sasso si allungò verso di loro. La serratura della botola scattò.

«Vuoi che ti accompagni a casa?», le chiese Gabe.

«No», rispose lei secca. «E giurami che non mi cercherai più. Mai più.»

Gabe fece una smorfia. «Ok.»

«Giuralo.»

Alzò gli occhi al soffitto. «D’accordo. Lo giuro.»

«Bene», concluse avviandosi lungo la scala di pietra. «Addio.»

Gabe guardò la ragazza uscire dalla botola, mordendosi il labbro inferiore con tanta ira che in bocca sentì il sapore metallico del sangue. Avrebbe voluto fermarla, cercare di farla ragionare. C’erano così tante cose che avrebbe voluto dirle… Invece la lasciò andare.

Quando strinse i pugni, pronto a scagliare la sua rabbia contro la parete di pietra che si trovava di fronte, sentì qualcosa accartocciarsi dentro al suo palmo destro. Aprì le dita, trovando il foglietto spiegazzato che gli aveva dato Vanessa. Lo dispiegò con cura, riconoscendo la calligrafia ordinata della bionda.

Lesse che cosa aveva scritto… e per poco non si soffocò con la sua stessa saliva.

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PERSONAGGIO DEL GIORNO:
Caleb Milestone

Caleb Milestone

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Capitolo 7
*** Cattive abitudini ***



capitolo 7

CATTIVE ABITUDINI

 

Crystal aveva appena rigirato la chiave nella toppa, i tremori alle mani che le ostacolavano i movimenti, quando si sentì improvvisamente stanca e priva di forze. Aprì la porta, cadendoci quasi addosso, incespicando nei suoi stessi piedi.

Cercò tastoni l’interruttore della luce, ma quando lo premette fu come non lo avesse fatto. Non accadde nulla. Crystal rimase nell’oscurità assoluta del corridoio, chiedendosi a fatica che cosa stesse succedendo. Non poteva credere che si fosse già fulminata una lampadina.

Si diresse lentamente verso la cucina, misurando i passi. Abitava da poco in quell’appartamento e non era certa di avere già impresso nel cervello una piantina affidabile con la giusta disposizione dei mobili. Si ricordò della lampada da terra accanto alla porta del bagno di servizio giusto in tempo per non inciamparci sopra. Cercò l’interruttore, e quando lo trovò lo premette con il cuore in gola. Clic. Ma tutto rimase di un inquietante buio pesto.

Cercò allora la parete destra del corridoio, le mani allungate nel buio. Tastò l’aria protendendosi lentamente, un piccolo passo alla volta.

Riconobbe sotto ai polpastrelli lo stipite della porta della cucina e compì un altro passo in quella direzione, quando la sua mano si ritrovò a sfiorare qualcosa di molle, viscido come il tentacolo di un polpo.

Crystal ritrasse la mano come colpita da una scossa e lanciò un urletto acuto. Che cosa diavolo aveva appena toccato?

Non fece in tempo a ragionarci sopra che improvvisamente, fluttuanti nel buio, apparvero due occhi gialli come quelli di un gufo, ma grandi quanto palle da tennis. Un ringhio rimbombò nelle tenebre, mentre un ticchettio sul parquet fece intuire a Crystal due grosse fauci aperte da cui colava viscida bava.

La ragazza, improvvisamente circospetta, indietreggiò nell’oscurità cercando di non fare rumore, ma quando il ringhio si fece più forte si voltò e prese a correre verso la porta d’ingresso urlando.

Scattò giù per le scale, rampa dopo rampa, mentre sentiva quella cosa viscida dagli occhi gialli scivolare giù per gli scalini. Il terrore che la raggiungesse era così forte che non pensò minimamente al fatto che qualche inquilino, attirato dalle sue grida, potesse uscire sul pianerottolo e vederla scappare da… nessuno.

Le mancavano solamente due rampe di scale, quando si sentì afferrare per le caviglie. Crystal cadde in avanti, atterrando di faccia sul ballatoio di marmo scuro. Per un momento pensò di esseri fratturata la mascella, ma quando si sentì tirare per i piedi se ne dimenticò completamente.

Volse lo sguardo mentre scalciava per liberarsi. I suoi occhi spaventati incontrarono quelli gialli del mostro. Ora che lo poteva vedere, nella luce dorata delle plafoniere del pianerottolo, Crystal sentiva montare la nausea. Il demone assomigliava a una piovra gigante, nera come le tenebre e dalle fauci di squalo. Dai denti colava un liquido verdastro simile a melma, che si riversava sulle scarpe e sui jeans della ragazza. L’aria puzzava di alghe putride e di acqua salmastra.

«Lasciami!», gridò Crystal scalciando i tentacoli del mostro marino che ondeggiavano in aria, iridescenti. Sentiva il viso in fiamme e le caviglie nude che pizzicavano al contatto con il liquido viscoso che ricopriva il corpo purulento del demone.

Le fauci della piovra si spalancarono con un suono viscido, mostrando a Crystal un primo piano di denti affilati come coltelli.

La ragazza si sentì percorrere da un tremito. Per una frazione di secondo ripensò alle parole di Gabe prima che lei abbandonasse il rifugio. Aveva ragione, pensò. Mi stavano ancora cercando. E mi hanno trovata.

Le fauci del demone si gettarono su di lei, e Crystal, amaramente consapevole di come sarebbe andata a finire di lì a poco, chiuse gli occhi pregando che la sua morte fosse breve. Sentiva le lacrime salate che le mandavano a fuoco le guance e l’alito caldo del mostro sulla sua testa.

Ma i denti aguzzi del demone non la raggiunsero mai. Udì uno rumore di metallo che affondava in carne che non era la sua, ma restò comunque schiacciata contro la parete con le palpebre serrate.

Un grido acuto e inumano rimbombò nella tromba delle scale, e poco dopo Crystal percepì che i tentacoli stretti attorno alle sue caviglie avevano allentato la presa.

Aprì un occhio e scorse una figura incappucciata davanti a lei, una spada angelica sguainata nella mano destra e un’altra conficcata nel palato del mostro.

«Non fai più il figo, adesso, uh?»

Era Gabe. Crystal non sapeva se sentirsi sollevata o provare rabbia. Lui le aveva giurato che non l’avrebbe più cercata, ma ora eccolo lì, scuro come la notte nella sua veste da Cacciatore, pronto a salvarle la vita per la seconda volta in un solo giorno.

Il demone ringhiò ancora, schizzando dappertutto bava e sangue nero come pece. Sollevò uno dei pesanti tentacoli e lo indirizzò verso Gabe, che fu più veloce e lo schivò saltando verso destra.

Gabe alzò le spade di vetro in aria, poi con un grido soffocato di rabbia le fece roteare, fendendo alcuni tentacoli del mostro, che caddero a terra con un tonfo sordo.

«Sai, ho sempre schifato l’insalata di polpo», riuscì a dire mentre caricava per colpirlo un’altra volta.

Crystal non riusciva a capire come potesse fare dell’humor in una situazione del genere. Lei era lì, premuta contro la parete con le ginocchia al petto e le mani che tremavano come foglie al vento, mentre Gabe… sembrava quasi che si stesse divertendo.

Quando una spada angelica gli trafisse l’addome, il mostro indietreggiò emettendo sinistri suoni gutturali. Per un momento parve arrendersi allo scintillio azzurrino della spada, ma poi, improvvisamente, alzò un tentacolo e sferzò il volto di Gabe, che per via del contraccolpo rotolò a terra.

«Gabe!», gridò Crystal terrorizzata.

La grossa piovra lo sovrastava, allungando i suoi tentacoli viscidi sul corpo del ragazzo. Crystal riuscì a vedere che il volto di Gabe era livido dove il demone l’aveva colpito, e bolle di pus purulente gli si stavano gonfiando sulla fronte e sulla guancia.

«Scappa!», le gridò lui mentre tentava di trascinarsi sui gomiti. I tentacoli si stavano arrotolando alle sue caviglie come un serpente attorno ad un topo. «Mi hai sentito? Vattene

Crystal cercò di rimettersi in piedi. Sentiva male dappertutto, come se si fosse buttata sotto ad un treno in corsa. Scuoteva la testa nervosamente, anche se sapeva che Gabe non riusciva a vederla, dal punto dove si trovava.

«Crys!», le urlò di nuovo. La sua voce si spezzò in un suono acuto e disperato. Volse la testa cercando la ragazza.

Quando i loro occhi s’incontrarono, in qualche modo Crystal riuscì a cogliere un bagliore riflesso negli occhi verdi di lui: l’inconfondibile luminescenza del vetro antidemoni. Il suo sguardo cadde su una delle spade angeliche che erano scivolate sul pavimento. Si trovava a soltanto qualche passo da lei, alle spalle del demone che stava per stritolare Gabe.

Senza pensarci due volte si gettò sulla spada e l’afferrò per l’elsa. Era rovente, pensò Crystal, e pulsava come un cuore impazzito. Quando la strinse, la lama di vetro s’illuminò di un bagliore argenteo.

Crystal alzò la spada sopra la sua testa e poi, con un grido di sforzo, la conficcò tra le scapole del demone. Questi urlò, poi scoppiò come un fuoco d’artificio dissolvendosi in una cascata di frammenti di braci e carbone. Tutto ciò che rimase dell’essere mostruoso fu un mucchietto di cenere sul pavimento.

Gabe era ancora sdraiato a terra, il volto deturpato dal veleno del demone e il respiro pesante. Guardò Crystal, con il solo occhio sano, in un misto di scontento e ammirazione. «Wow», disse. «Pensavo che ti avrei detto che salvarti la vita non dovesse diventare un’abitudine, ma ora credo di poter dire che siamo pari… no?»

La ragazza lasciò cadere la spada a terra. Fissò terrorizzata il mucchietto di cenere, per poi pestarci sopra furiosamente con la suola della scarpa. «Vaffanculo!», gridò calciando via la polvere scura, che formò una nuvola di fumo grigiastro. L’aria sapeva di bruciato.

Gabe si alzò in piedi a fatica e s’incamminò verso Crystal, una smorfia di dolore chiaramente dipinta sul viso sfigurato. Lei lo guardò, cercando di riconoscere dietro quei lividi il bel ragazzo moro dagli occhi verdi e la mascella quadrata che aveva sorpreso a rubare dalla vetrina del negozio.

Lui stava quasi per sorriderle, quando qualcosa lo colpì con violenza sulla guancia sana. Guardò Crystal, sgomento. «Ma che diavolo fai?»

Crystal si fissò torva il palmo della mano, arrossato per l’urto contro la pelle di Gabe. «Me lo avevi giurato», ringhiò. «Mi avevi promesso che non mi avresti seguita. Credevo di aver capito che i giuramenti degli Shadowhunters fossero vincolanti.»

«E lo sono», rispose lui. «Ma io non ti ho fatto un vero Giuramento. Per quello serve recitare una specifica formula contenuta nel Codice. È una specie di rito.»

Crystal sospirò, esausta. «Quindi ti sei preso gioco di me.»

Lui scrollò le spalle. «No, ho semplicemente giurato come fate voi mondani. Non sembra che diate molto peso ai giuramenti, non è così?»

«Io non sono una mondana», replicò lei, quasi sputando l’ultima parola.

«Già, l’ho visto», rispose. «La spada non ti avrebbe risposto se tu non fossi in parte un angelo, come lo siamo noi Shadowhunters.»

«Che cosa? Un angelo?»

Gabe fece un sorriso sbilenco. «Non ti gasare, zuccherino. Lo siamo solamente in parte. Gli Shadowhunters sono figli dei Nephilim, creature per metà umane e per metà angeli. I veri angeli non gironzolano per Long Beach a caccia di demoni.»

«E che cosa fanno, allora?»

Gabe scrollò le spalle. «E chi lo sa», mormorò. «Comunque sei stata fortunata che io non abbia mantenuto la parola. A quest’ora saresti stata impasto per pancake demoniaci.»

Crystal lo fulminò con lo sguardo, poi il suo volto si ammorbidì. In fondo gli doveva la vita per ben due volte. «Hai ragione. Grazie.»

Lui le sorrise, scoprendo i denti bianchissimi. «E vedi di non farlo più, okay?», le disse allungando una mano verso il suo viso.

«Già. Non volevo colpirti. Credo sia stata l’adrenalina.»

Gabe le sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.  «Intendevo scappare. Non posso passare il mio tempo tirando ad indovinare dove tu ti sia cacciata. Il tempismo perfetto è solo roba da film d’azione.»

Crystal sentì il sangue fluire sulle guance. Il tocco di Gabe era delicato come i petali di una rosa. «D’accordo», sussurrò abbozzando un sorriso. «Però oggi hai dato prova di un ottimo tempismo, direi.»

«Fortuna sfacciata», ammise. «In realtà non capita quasi mai.»

Crystal incastonò i suoi occhi in quelli di Gabe, come se stesse cercando di capire che cosa stava provando. «Perché mi hai seguita?», gli chiese.

D’istinto Gabe infilò la mano nella tasca dei pantaloni e le punte delle sue dita raggiunsero il bigliettino di carta scritto da Vanessa. Improvvisamente sentì freddo. Non posso ancora dirglielo, pensò. Devo prima esserne completamente certo.

Gli occhi di lei lo fissavano. Erano lo specchio della disperazione. Gabe avrebbe voluto raccontarle la verità, dirle che cosa avevano scoperto su di lei…

Era per questo che l’aveva seguita fino a casa sua, per rivelarle chi - che cosa - credevano che lei fosse. Ma in quel momento capì che lei non era ancora pronta per accettarlo. Sembrava così fragile in quel cardigan beige macchiato di sangue demoniaco, la pelle così pallida, gli occhi così stanchi e confusi.

Gabe la guardò ancora attraverso gli occhi gonfi e martoriati dal veleno di demone. Nonostante avesse i vestiti ridotti a brandelli, i capelli scuri scompigliati e sporchi di sangue demoniaco appiccicati al viso, e la puzza di demone addosso, Gabe la trovava bellissima come il giorno in cui l’aveva vista per la prima volta…. quand’era entrato di soppiatto nel locale dove lei lavorava e aveva svaligiato la cantina senza destare sospetti. Nel momento in cui era passato davanti al laboratorio, invisibile agli occhi dei mondani, aveva intravisto Crystal dal grande oblò ed era rimasto a contemplarla per dei minuti prima di sgusciare giù per le scale.

«Gabe?» La voce di Crystal era un sussurro, che fece risvegliare il ragazzo come da un bel sogno. «È tutto…?»

Crystal non riuscì a terminare la frase, perché Gabe si era proteso verso di lei e all’improvviso le loro labbra si erano scontrate, così, quasi per sbaglio. Lei rimase immobile, bloccata per la sorpresa, mentre lui le posava le mani sui fianchi e la tirava delicatamente verso di sé.

Le labbra di Crystal si schiusero lentamente sotto la pressione di quelle di Gabe. Il bacio fu dolce, come guardare un tramonto sulla riva di una spiaggia deserta. A Crystal parve di vedere le sfumature rosse, gialle e viola di un cielo immaginario sopra le loro teste, ma quando Gabe la lasciò andare, infrangendo il sogno, lei scorse soltanto il soffitto biancastro del pianerottolo.

Il volto deformato di lui era indurito da una smorfia indecifrabile. «Per riportarti a casa», disse.

Crystal impiegò dei secondi prima di capire che aveva appena risposto alla sua domanda. «Il rifugio?», chiese stordita.

«Sì. Soltanto lì sarai al sicuro.»

Crystal lo vide estrarre lo stilo dalla tasca della giacca e tracciarsi delle linee sul braccio. La sua pelle sfrigolava come carne su una griglia al contatto con la punta luminescente dello stilo. La sua bocca era contorta in una muta manifestazione di dolore.

«Che cosa fai?», gli domandò ansiosa. Nel vederlo soffrire le si stringeva il cuore.

«Mi sto tracciando un Iratze», rispose. «Una runa…»

«…della Guarigione», concluse lei.

Lui la guardò con una vena d’orgoglio negli occhi. «Sì. Brava. Farà poco o niente contro il veleno del demone, ma perlomeno mi sistemerà le costole rotte.» Terminò di disegnare la runa, poi si tirò la manica della giacca fino al polso. «Ci conviene andare», aggiunse. «Potrebbero arrivarne altri da un momento all’altro.»


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PERSONAGGIO DEL GIORNO:
Vanessa Evergreen

Vanessa Evergreen

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Capitolo 8
*** Un appuntamento singolare ***



capitolo 8

UN APPUNTAMENTO SINGOLARE

 

Crystal fissava il soffitto di pietra, sdraiata sul suo letto al Rifugio. Sul suo ventre era appoggiato un libricino rosso dalla copertina logora, aperto sulla pagina della Runa della Chiaroveggenza. Glielo aveva dato Gabe qualche giorno prima, dicendole che era il suo vecchio quaderno degli appunti, risalente a quando aveva preso lezioni di Runologia all’Istituto di Los Angeles. Aveva studiato tutto il pomeriggio, e ora stava cercando di ricordare le linee che componevano alcune rune. Immaginò di tracciare la runa della Chiaroveggenza sul soffitto di roccia con l’indice e che questa iniziasse a brillare di luce propria.

Sollevò il libro per guardare la runa un’ultima volta. Accanto al disegno, simile ad un occhio aperto, c’era una breve annotazione. Crystal posò la punta del dito sulla carta, seguendo la calligrafia di Gabe. Non se lo immaginava per nulla seduto dietro ad un banco, chino su quel quaderno a prendere appunti.

Una fitta di nostalgia le strinse il cuore. Gabe era uscito quella mattina assieme a tutti gli Shadowhunters meno che Julie, la quale era rimasta a farle da guardia. Ricordava l’espressione dura di Gabe e il suo tono intransigente mentre diceva alla rossa di tenerla d’occhio. Per quanto ne sapeva, erano andati in missione a San Diego per conto del Conclave.

Chiuse il libro e lo posò sul comodino di legno scuro. Lei e Gabe non avevano ancora avuto modo di parlare di quello che era successo nel pianerottolo di casa sua, dopo che lei aveva ucciso il demone. Al solo pensiero di Gabe che le si avvicinava e le stringeva i fianchi sussultò. Si portò una mano sul viso, sfiorandosi le labbra con le punte delle dita. Il modo in cui l’aveva baciata era stato duro e dolce al tempo stesso, come una magnifica rosa opalescente che abbia centinaia di spine acuminate come punte di coltelli.

Si mise seduta sospirando. Il display del suo cellulare segnava le otto di sera. Julie era passata dalla sua stanza circa mezz’ora prima per chiederle se avesse voglia di mangiare qualcosa, ma Crystal aveva risposto di no. Ora, però, il suo stomaco vuoto gorgogliava.

Se pensava a come la sua vita era stata completamente sconvolta nel lasso di un paio di settimane scarse, le girava la testa. Aveva trascorso la sua infanzia e la sua adolescenza tra le quattro fredde mura dell’orfanotrofio di Seaside Park, immaginando come sarebbe stata la sua vita una volta che fosse uscita di lì. Aveva sognato mille versioni del suo possibile futuro, ma nessuna si avvicinava minimante a quello che stava vivendo adesso. Alloggiava in una specie di scantinato insieme a ragazzi tatuati e addestrati per essere macchine assassine. Aveva perso l’unico lavoro che avesse mai svolto. Aveva sentito Vanessa darle della mezzosangue e, sebbene non avesse ancora approfondito la questione, si sentiva spaesata e preoccupata come al risveglio da una sbornia. Era stata strappata da morte certa per ben due volte dal ragazzo più sexy e insopportabile del pianeta, il quale l’aveva addirittura baciata. Aveva ucciso un demone utilizzando una specie di spada luminosa che assomigliava a quelle dei cartoni animati che guardava da bambina. E ora si ritrovava nella stanza di qualcun altro a consultare un libro sulle rune angeliche.

Si passò una mano sul volto. Si sentiva come se si trovasse in un incubo senza fine da cui non riusciva a riemergere. A volte, quando si addormentava al chiaro della stregaluce, sognava Miranda che le sorrideva da dietro quei suoi buffi occhialetti, oppure Oliver che la liquidava con freddezza. Lavorare all’Every Flavour Donuts era la cosa migliore che si fosse mai aspettata che le accadesse, e ora, a distanza di un solo paio di settimane dalla sua assunzione, quel posto era soltanto un brutto ricordo. Alcune notti si svegliava nell’oscurità, sudata e in preda ai singhiozzi. I suoi incubi si manifestavano in tutto il loro orrore, ricordandole che Miranda era morta in un bagno di sangue e che Oliver-il-demone era stato ucciso brutalmente da Gabe.

Si alzò in piedi lentamente, rimpiangendo per un momento l’orfanotrofio. Nella sala ricreativa, dove lei andava ogni pomeriggio, c’era un pianoforte nero davanti a cui si sedeva ogni volta che si sentiva un po’ giù. La musica era sempre stata un ancora a cui aggrapparsi quando si era sentita affondare nelle tenebrose acque della solitudine. Avrebbe voluto potersi sedere ancora di fronte a quel pianoforte e suonare il primo pezzo che le veniva in mente.

Poi ricordò. C’era un pianoforte nella Sala in cui aveva incontrato Victoria per la prima volta. Julie le aveva detto che avrebbe potuto visitare la Sala ogni volta che ne avesse sentito il bisogno, che fosse per leggere un libro o per scrivere una lettera. Decise che ci sarebbe andata.

Quando entrò, la Sala era fievolmente illuminata da torce azzurre di stregaluce, ma nonostante la semioscurità Crystal non si sentiva a disagio. L’aria profumava di pagine di libri antichi e di inchiostro. Camminò verso il pianoforte, i passi attutiti nei pregiati tappeti persiani. Si sedette davanti alla tastiera, posando le punte delle dita sui tasti d’avorio.

Premette qualche nota a caso, godendosi il dolce suono della musica che rimbombava nella stanza silenziosa. Crystal si sentì svuotare di ogni sorta di preoccupazione e iniziò a suonare, lasciando che il suo cuore la guidasse. Per troppo tempo era stata lontana dalla musica, tanto che si chiese come avesse fatto a resistere. La musica era la sua essenza, come per gli Shadowhunters lo era l’uccidere. Bel paragone, pensò.

Si perse nelle sue stesse melodie per un tempo indecifrabile. Minuti, forse ore. Non avrebbe smesso fino a che non le si fossero indolenzite le dita.

«Allora è vero…»

Quella voce la fece trasalire. La musica s’interruppe con un accordo sgraziato. Quando guardò oltre il pianoforte, vide Gabe sulla soglia, appoggiato ad uno stipite.

«No, non smettere. Per favore», aggiunse incamminandosi nella sala.

«Da quanto sei lì?», gli chiese lei imbarazzata.

Il bagliore delle torce lo illuminava di azzurro, addolcendo la sua mascella tesa e schiarendo i suoi capelli corvini. Indossava una t-shirt nera e le sue braccia erano fresche di Marchi. Un grande Iratze gli adornava l’avambraccio destro. Non le rispose.

Crystal sistemò la seggiola e si diresse verso di lui. Notò che le sue spalle larghe e muscolose erano rigide come quelle di un manichino. «Come stai?», ritentò.

«Bene», rispose fermandosi a mezzo metro da lei. «Siamo stati attaccati da alcuni demoni Shax mentre cercavamo il passaggio per…». Sollevò una mano in aria. «Non importa. Piuttosto, come ti senti?»

«Gabe, perché ho la brutta sensazione che tu mi stia…», replicò lei guardandolo dritto negli occhi verdissimi. «…evitando?»

«Non capisco. Cosa vuoi dire?»

«Non lo so», mormorò. «Ogni volta che mi parli ti interrompi come se ci fosse qualcosa che non vuoi dirmi. Nell’ultima settimana non hai risposto a nessuna delle mie domande. Che cosa c’è?»

Gabe sospirò e il suo sguardo scivolò oltre la spalla di Crystal. «Suoni molto bene il pianoforte.» La sua voce era un sussurro.

Lei guardò dietro di sé. «Me la cavo. Era il mio passatempo preferito all’orfanotrofio.»

Gabe annuì. «Crys… C’è una cosa che devo dirti.»

«Sentiamo.»

«Riguarda le tue origini.» Cercò la mano di Crystal nella semioscurità e la strinse nella sua. «È da un po’ che volevo parlartene, ma volevo prima esserne assolutamente certo.»

Il cuore di Crystal iniziò a battere freneticamente. Lo sentiva pulsare attraverso le dita strette in quelle di Gabe. «Quando sei entrato poco fa hai detto: “Allora è vero”. A che cosa ti riferivi?»

«Vedi, quelli come te hanno un talento innato per la musica. Riescono persino ad incantare gli umani…»

«Quelli come me?», lo interruppe. «Vuoi dire che io e te non…»

«Non siamo la stessa cosa, no.»

Lo sguardo di Crystal vagò disperato per la stanza. «Ma lo hai detto tu. Io ho sangue angelico. La spada…»

«Lo so. Caliel ti ha risposto perché nel tuo corpo scorre anche sangue angelico.»

«Caliel? È così che si chiama la tua spada?»

«In un certo senso. Ad ogni spada angelica deve essere assegnato un nome prima di essere utilizzata in battaglia. Nomi di angeli, s’intende.»

«Capisco», rispose lei. «Ma se hai detto che in me c’è sangue angelico, cos’altro c’è che… che non va?»

Gabe strinse la mano di Crystal con più decisione, quasi da farle male. «Il fatto è», mormorò. «che l’altra parte di te non è fatta di sangue umano, come lo siamo noi Nephilim, ma di sangue… demoniaco.»

Crystal sbiancò. Non poteva credere alle sue parole. «C-cosa?», balbettò. «Deve essere uno scherzo. Io non posso essere… non posso essere come quegli esseri ripugnanti che… che abbiamo ucciso.»

Gabe la guardò intensamente. I suoi occhi emanavano puro dispiacere. «È così», confermò in un sussurro. «Ma solamente in parte. Il sangue angelico predomina sull’altro, altrimenti Caliel non avrebbe reagito quando l’hai presa. Le spade angeliche sono costruite con l’Adamas, uno speciale metallo anti-demoni.»

«Questo non mi rassicura affatto», mormorò Crystal. Aveva la sensazione che la terra le stesse franando sotto i piedi e che presto sarebbe stata risucchiata dal pavimento per scomparire negli Inferi.

Gabe le accarezzò il mento. «Sei una Seelie, Crystal», le disse. «Una delle creature più meravigliose ed interessanti di questo mondo.»

«Una che

«Una Seelie. Fai parte del mondo fatato, come Julie», rispose. «Solo che tu… sei un po’ diversa.»

Crystal si stava spazientendo. «In che senso diversa?!»

«Crys, sei una sirena.»

Lei lo guardò in cagnesco. Niente di quella conversazione aveva un senso. «Una… sirena? Vuoi dire quelle con le pinne?»

«Quali altre, se no?», ribadì. «Ricordi il modo in cui ti ha chiamato il demone? Iwak. È in un’antica lingua polinesiana. Significa ‘pesce’.»

«Quindi loro… i demoni… lo sanno. Sanno che cosa sono.»

«Sì», obiettò. «Entrambi i demoni che ti hanno attaccato avevano sembianze di esseri marini. Questo ci ha portati a pensare che provengano da Oceanus, un luogo remoto fra le isole polinesiane. È lì che si trova la Corte delle Sirene.»

«Ma non è possibile», continuò Crystal confusa. «Se sono una sirena, dove sono le mie pinne? Perché accidenti non vivo in una vasca per pesci?»

Gabe sorrise. «Riesci a fare dell’umorismo. Mi piace.»

«No, seriamente, Gabe.»

Lui si strinse nelle spalle. «Non lo so. Dobbiamo ancora scoprirlo. In realtà c’è una leggenda che racconta di sirene in grado di uscire dall’acqua e trasformare la loro coda in gambe umane...»

«Come ne ‘La Sirenetta’?»

«Che?»

Crystal strabuzzò gli occhi. «Walt Disney. Davvero non sai...? Be’, lasciamo perdere. Continua.»

Gabe increspò le folte sopracciglia nere. «È solo una leggenda, appunto. E in ogni caso la storia dice che le sirene non potevano allontanarsi per troppo tempo o troppo lontano dall’acqua, perché il richiamo degli abissi glielo impediva. Non si spiega perché tu sia vissuta per tutto questo tempo sulla terraferma.»

«Forse vi siete sbagliati. Forse io non sono…»

«Lo sei», replicò. «Su questo non c’è dubbio. Hai la bellezza di un essere angelico… e sei tagliente come un demone. Hai un talento smisurato per la musica. E la tua voce ha il potere persuasivo dei Seelie.»

Crystal esitò. Sentiva le guance scottare per l’imbarazzo, ma non sapeva se fosse perché si sentiva offesa o lusingata. «Doveva essere un complimento, il tuo?»

Lui sorrise, e i suoi denti brillarono d’azzurro al chiarore delle stregaluce. Passò un polpastrello sulla guancia di lei, disegnando linee contorte come stesse tracciando una runa.

La sua pelle era liscia e perfetta come quella di Julie, pensò Gabe con un tonfo al cuore, e quindi identica a quella dei Seelie. Come aveva potuto non farci caso prima? Le ragazze dell’età di Crystal solitamente avevano il viso cosparso di brufoletti purulenti, pelle secca e acne, invece il suo era liscio come una tavola da surf.

«Dove sei stato tutto il giorno?», chiese lei senza quasi accorgersene. Era persa negli occhi di lui, a contemplare quanto verdi fossero le sue iridi anche sotto la luce azzurrina emanata dalle torce.

«Perché, ti sono mancato?»

Crystal non era certa che ci fosse del sarcasmo nella sua domanda. Terribilmente, avrebbe voluto rispondere, ma si limitò ad una smorfia seccata.

Lui si dondolò sul posto. «Julie mi ha detto che non hai voluto cenare.»

«Non avevo fame», si giustificò malamente.

«E ora ne hai?»

Crystal accennò un sorriso. «Un po’», ammise.

«Perfetto, allora sarà meglio che io vada a darmi una ripulita, uh?», disse abbassando lo sguardo sulla sua maglietta imbrattata di sangue secco. «Non è il caso che esca conciato così.»

«Uscire?», domandò sorpresa. «E dove andiamo?»

Lui le pizzicò leggermente il mento. «A mangiare qualcosa di buono. Ad essere sinceri anch’io ho una certa fame.»

Crystal annuì piano. Era… era un appuntamento, quello che Gabe le stava offrendo? Si trovò confusa al riguardo. Negli ultimi giorni Gabe non era sembrato molto propenso a dare un seguito, o almeno una spiegazione, a ciò che era successo in quel pianerottolo. Ora aveva cambiato idea?

«Ci vediamo nell’atrio fra una ventina di minuti, ti va?», le chiese.

«Va bene», concluse lei.

Fece per avviarsi verso la sua stanza, quando sentì le mani di Gabe sui fianchi. La pressione di lui la costrinse a voltarsi, e ora improvvisamente i loro nasi si sfioravano. Gabe la guardò per un lungo momento, mentre lei sentiva una strana sensazione sulle labbra, come se le prudessero. Un impulso sconosciuto le suggeriva di protendere il viso verso quello di Gabe e colmare il vuoto che c’era fra le loro labbra, ma un’altra sensazione, più intensa e viscerale, glielo impedì. Era come se fosse attratta e spaventata da lui allo stesso tempo.

«Gabe…», sussurrò, e quando lo fece il suo labbro inferiore sfiorò quello di lui.

Lo shadowhunter era serio, la mascella serrata. I suoi occhi erano incatenati in quelli di lei, in una sorta di legame silenzioso che lui non riusciva a spezzare. Fu lei a scioglierlo, poco dopo, scostando lo sguardo sulla sua t-shirt macchiata.

Gabe sospirò. Picchiettò l’indice sulla clavicola di lei, rigido come un burattino, poi la allontanò. «Si sta facendo tardi», obiettò.

Crystal assentì, il cuore che ancora scalpitava per la vicinanza con Gabe, e a passo indeciso uscì dalla Sala.

 

 

Quando Crystal giunse nell’atrio, vestita con una lunga gonna nera che le sfiorava le caviglie e un top bianco incrociato sulla schiena, la prima cosa che vide fu Gabe, informale in jeans e giacca di pelle, che parlava a bassa voce insieme a Julie. Più che parlare, constatò Crystal con una seconda occhiata, si stavano sussurrando all’orecchio. La mano di lui era posata sulla spalla di lei in un modo che, per qualche ragione, attivò un moto di gelosia nello stomaco di Crystal. Julie, in tenuta da cacciatrice, aveva invece un’espressione tra il preoccupato e l’incerto. Accarezzò una guancia di Gabe con il dorso della mano, prima di fare un sorriso amareggiato e sgusciare nel corridoio che portava alla Sala.

Crystal, il cuore che batteva impazzito, attese qualche attimo prima di raggiungere Gabe. Quando lui la vide, i suoi occhi si illuminarono. «Hey», lo salutò, cercando di mitigare la gelosia.

Lui le sorrise. «Accidenti», mormorò lanciandole un’occhiata da testa a piedi. «Sei davvero…»

«Andiamo?», lo interruppe lei. «Comincio ad avere i crampi per la fame.»

Gabe la guardò di sbieco. «Certo», disse con incertezza.

Quando uscirono nel buio di Liberty Court, Crystal rabbrividì per il calo repentino di temperatura. Lasciò che Gabe la precedesse lungo il vicolo e procedette in silenzio, facendo attenzione a dove metteva i piedi.

Dopo qualche metro sfociarono sull’illuminata Pacific Palisades, che a quell’ora della sera era ancora piuttosto trafficata. Il cielo era torbido, e l’aria odorava di smog e pioggia.

«Stammi vicino», le disse Gabe offrendole la mano. «Questa strada pullula di demoni Du’sien.»

Crystal fissò la mano protesa verso di lei… e la rifiutò scostando lo sguardo verso l’altro lato della strada. Tre ragazzi malconci si stavano riscaldando al tepore di un fuoco acceso in un bidone, all’imbocco di un vicolo. «Quindi fammi indovinare: siete voi che avete creato tutto quel casino nelle ultime settimane?», domandò.

«Già», rispose Gabe ripensando a quando, due settimane prima, era finito contro la vetrina di un negozio di biciclette durante uno scontro con un Eidolon. «I demoni hanno iniziato a materializzarsi quando hanno scoperto che ce ne siamo andati da Los Angeles. Questo posto, a differenza dell’Istituto, non è consacrato, quindi possono girare indisturbati. Di solito se ne stanno qui nei paraggi in cerca di un Nephilim con cui fare merenda.»

«Bello», ironizzò lei. «Ora che ci penso non mi hai ancora detto perché ve ne siete andati.»

Gabe si voltò a guardarla e schiuse la bocca, come se per un momento avesse deciso di parlare. Ma poi la richiuse con una smorfia, lasciando Crystal in preda alla curiosità. «Non manca molto», disse tornando a guardare davanti a sé.

Nel punto in cui la Pacific Palisades s’intersecava con Elm Avenue, Crystal si ritrovò a chiedere a Gabe di rallentare il passo. Aveva il fiato corto: stare dietro alle sue falcate decise era un’impresa non da poco.

Gabe alzò gli occhi al cielo. «Ti ci vorrà un bel po’ d’addestramento», obiettò con più asprezza nella voce di quanto avrebbe voluto. «Nelle tue condizioni non riusciresti a sfuggire ad un Behemoth.»

«Mi rincresce, signor Moorefield», lo schernì lei imitando la voce tagliente di Victoria. «del fatto che io non sia una podista. O che non sia in grado di arrampicarmi lungo i muri come un ragno. O che non faccia roteare la spada come un samurai. Mi dispiace così tanto di non soddisfare le Vostre aspettative!»

Gabe arricciò il naso. «Già», disse, parlando quasi fra sé. «Avevo ragione. Sei proprio un mezzo demone.»

Crystal sentì montare la rabbia. Per un attimo ebbe l’impulso irrefrenabile di rompergli il naso, ma qualcosa la trattenne. Forse, rifletté, è perché è la verità.

Quel pensiero le invase la mente. Lei era in parte demone, fatta della stessa sostanza di quei mostri che la gente attorno a lei era abituata ad uccidere. I Cacciatori erano nati per combattere quelli come lei, e Crystal si ritrovava a convivere con alcuni di loro.

Ripensò all’espressione di Gabe quando le aveva detto che lei e Julie erano entrambe delle Seelie. La prima volta che Crystal aveva incontrato Gabe, Cole e Julie, li aveva sentiti farneticare sul fatto che quest’ultima era una mezza fata. Mezza. Cioè meno sangue demoniaco di quanto non ne avesse Crystal. E in ogni caso, Julie era troppo bella, affascinante e gentile per poterle rinfacciare di essere in parte un demone. Lei, invece, non era niente di tutto questo… o almeno ne era convinta.

Ad un tratto Gabe si fermò. Crystal, ancora immersa nelle sue congetture, non se ne accorse e andò a sbattere contro la sua schiena. «Accidenti!», brontolò scostandosi.

Gabe si voltò corrucciato. «Sei anche impacciata come una mondana», replicò. «Questo è il posto», aggiunse indicando alla sua destra. «Siamo arrivati.»

Crystal seguì lo sguardo di Gabe e si ritrovò a fissare l’insegna spenta di un supermercato. «È uno scherzo?», chiese esterrefatta. «Perché non è molto divertente.»

Gabe si avvicinò alle vetrate del negozio, posando le mani sul vetro freddo. «Niente affatto.»

«Io… io che credevo che…»

Il ragazzo si volse a guardarla con un sorriso sbilenco. «Credevi che ti saresti rimpinzata di champagne e caviale?», domandò ridacchiando.

«No, per l’amor di Dio», rispose esasperata. «Ma nemmeno questo. Non ho intenzione di compiere un’effrazione.»

«Okay, allora vorrà dire che te ne starai ad aspettarmi qui fuori a pancia vuota, mentre io sarò lì dentro a imbottirmi di patatine e coca cola. Ci stai?»

Crystal sbuffò. Mai nessuno aveva sfidato il suo autocontrollo quanto Gabe. Era certa che prima o poi l’avrebbe fatta scoppiare, e allora nessuna runa sarebbe riuscita a salvarlo dalla sua furia. «D’accordo, aspetta. Vengo con te.»

Gabe sogghignò. «Ti conviene fare piano. Io ho questa», mormorò indicandole una runa che si era tracciato alla base del collo. «Ma tu potresti far scattare l’allarme. E non credo sia il caso che la polizia ti scopra a rubare in un supermercato, uh?»

«Dammi il tuo stilo», replicò lei. «Me la traccerò anch’io. L’ho studiata, so come è fatta.»

«In realtà», fece Gabe. «Non è decisamente il caso. Non ho la minima idea di che effetto potrebbe fare su di te.»

«In che senso, scusa?»

«Nel senso che soltanto coloro a cui scorre sangue angelico nelle vene possono tracciarsi le rune.»

«Ma io ho sangue angelico!»

«Già» Il suo tono di voce era imbarazzato. «Ma devi sapere una cosa. Le rune bruciano, a contatto con il sangue demoniaco. In quel caso moriresti lentamente, sciogliendoti come se ti avessero gettato in una vasca piena d’acido fluoridrico. Se vuoi il mio modesto parere, te lo sconsiglio vivamente.»

Crystal lo fissava sconvolta, immobile come una statua di cera. «Quindi… stai dicendo che mi hai dato da studiare un libro a proposito di cose che su di me risulterebbero letali?!»

Gabe non sembrava molto preoccupato. Si strinse nelle spalle. «Perché ancora non ne ero certo. Neanche ora lo sono, in realtà. Caliel non ti ha bruciato quando…»

Lei si gettò in avanti e lo afferrò per il colletto della giacca. «Sarei potuta morire, razza di idiota!», gridò. «Ti è mai passato per l’anticamera del cervello che avrei potuto tentare di tracciarmene una?»

«No», rispose con nonchalance, scrollandosi di dosso la ragazza. «E parla piano. Quei mondani ti stanno fissando come se fossi una pazza.»

Crystal si volse lentamente. Aldilà della strada, una coppia di uomini sulla cinquantina la stavano osservando con un’espressione mista tra curiosità e compassione. «Dannazione», mormorò a denti stretti. «Non riesco ad abituarmi al fatto che voi siate invisibili agli occhi dei mondani.»

«Allora, andiamo?», la esortò Gabe. Aveva lo stomaco che brontolava e non aveva intenzione di rimanere su quella strada ancora a lungo. Meno restavano negli spazi aperti e meglio era. «Seguimi. Entreremo dal retro.»

«Hai detto che io e Julie siamo entrambe Seelie», obiettò Crystal mentre seguiva Gabe all’interno di uno stretto vicolo, buio e maleodorante. «Allora perché lei può tracciarsi le Rune e io no?»

«Prima di tutto», rispose lui con voce seccata. Schivò un sacchetto di immondizia con un salto aggraziato. «Julie è dovuta passare sotto l’esame del Clave di Idris per diventare una Shadowhunter. Ha ricevuto il suo primo Marchio durante l’assemblea del Conclave, dove ha pronunciato il Giuramento.» La voce di Gabe si addolcì mentre parlava di Julie. «Compirò la mia missione con il coraggio degli angeli. Servirò la giustizia degli angeli. E la servirò con la pietà degli angeli…»

«Sul serio dite queste cose?», domandò Crystal stupefatta.

Gabe sembrò non sentirla. «Inoltre», seguitò. «Julie è soltanto per metà Nascosta. Sua madre era una fata, mentre suo padre uno Shadowhunter. Questo significa che, a conti fatti, è demone soltanto per un quarto.», le spiegò. «Sai, le Rune bruciano sulla sua pelle in modo leggermente diverso dal mio, o di qualsiasi altro comune Shadowhunter… E guarisce più in fretta rispetto a noi, anche senza usare l’Iratze. E, come avrai sicuramente notato, la sua bellezza non è terrena. Su questo ha preso da sua madre.»

Crystal sentì una fitta al cuore. Pensò alla prima volta che aveva visto Julie, il passo deciso mentre attraversava la sala, il corpo longilineo di una modella, i capelli ramati che le contornavano il viso lattiginoso. Riportò alla mente il ricordo di quel volto ovale e perfetto, senza l’ombra di un brufolo o una ruga d’espressione. Ricordò anche quando l’aveva rivista al Rifugio, claudicante e ferita, e con una cicatrice che le tagliava le labbra. Nonostante quel difetto così evidente, aveva pensato Crystal, Julie rimaneva perfetta come una bambola di porcellana.

«Crys», si sentì chiamare. «Ci sei?»

La ragazza si rianimò con un brivido e la figura di Gabe nell’ombra si rimise a fuoco. Lo vide leggermente proteso in avanti, una mano a tenere aperta la porta dell’ingresso sul retro del supermercato.

«Ma come…» Prima di terminare la domanda, Crystal notò la runa di Apertura disegnata sulla maniglia. Brillava di un tenue bagliore azzurro.

«Sei pronta?», le chiese Gabe. «Se non te la senti puoi rimanere qui. Ci metterò soltanto qualche minuto.»

La luna proiettava dei riflessi argentati sui capelli di Gabe, facendolo quasi sembrare biondo, e accentuava le linee dure del suo naso e della sua mascella. Crystal rimase a contemplarlo per qualche secondo, prima di annuire con un velo di incertezza. «No, vengo con te.»

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Ciao! Che ne dici di recensire? Ti ci vogliono soltanto due minuti e per me significherebbe molto! Grazie :)

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Capitolo 9
*** Il leone e l'agnello ***



capitolo 9

IL LEONE E L’AGNELLO

 

«Bene, dunque», disse Gabe. «Prima le signore.»

Crystal lo sorpassò lanciandogli un’occhiataccia. All’interno, l’ambiente era buio e freddo. L’unica fonte di illuminazione era la luce dei lampioni che si riversava dall’esterno. Crystal avanzò piano nell’oscurità, tenendo d’occhio la strada dai finestroni della vetrina: aveva il terrore che qualcuno la notasse.

Gabe le picchiettò sulla spalla. «Tieni questa», mormorò posandole qualcosa nel palmo della mano.

Crystal osservò l’oggetto rotondeggiante, e quando ci chiuse le dita sopra, un bagliore celeste si sprigionò all’improvviso dalla piccola pietra. La ragazza cercò di soffocare la luce con le mani, improvvisamente agitata. «Spegniti, accidenti!», esclamò.

«Non ti preoccupare», la rassicurò Gabe. «I mondani non possono vederla.»

Crystal tirò un sospiro di sollievo. «Avresti potuto dirlo prima che mi venisse quasi un infarto.»

Gabe ridacchiò. «E perché? È stato così divertente!»

Se avesse potuto, Crystal lo avrebbe incenerito con lo sguardo. «Allora adesso che si fa?»

«Non so tu, ma io ho una gran voglia di una bella coca ghiacciata!»

«Sì, va bene anche per me.»

«Okay. Vado a prenderne qualcuna», rispose in un sorriso. «Tu fatti un giro, se ti va.» Gabe estrasse dalla tasca dei jeans quello che sembrava un sacchetto per la spesa di tessuto nero e glielo lanciò. «Prendi quello che ti serve.»

Crystal annuì, e poco dopo vide Gabe svanire dentro alla corsia delle bevande, una pietra di stregaluce nella mano destra che disegnava la sua ombra sul pavimento.

La ragazza si infilò nel corridoio di fronte a sé, scoprendo con piacere che si trattava del reparto dei dolci. Prese a rovistare tra gli scaffali e, di tanto in tanto, una confezione di biscotti o caramelle scivolava nel sacchetto che le aveva dato Gabe. Aprì una scatola di brioches, se ne ficcò una in bocca e versò il resto del contenuto nella borsa. Perlomeno avevano di che fare colazione la mattina successiva, pensò.

Passò poi al reparto successivo, trovandosi circondata da deodoranti, spazzole per capelli e boccette di profumo colorate. Prese alcuni oggetti utili, come ad esempio uno spazzolino e del dentifricio, e si spruzzò addosso un profumo scelto a caso dall’espositore.

Quando il sacchetto fu ricolmo, Crystal decise di andare a cercare Gabe. Lo trovò al frigo dei salumi, nella pozza di luce argentea emanata dalla sua stregaluce. Dalla bocca gli pendeva un panino imbottito mentre infilava delle confezioni di prosciutto e salame in un sacco di tela nera.

«Eccomi», disse Crystal.

In tutta risposta, Gabe sollevò leggermente la testa e le lanciò una latina di Coca Cola, che lei afferrò al volo. Era ghiacciata. Subito dopo le porse anche quello che aveva tutta l’aria di essere un panino al formaggio.

Crystal ci affondò i denti, affamata come mai lo era stata prima. Il formaggio le si sciolse in bocca, fresco e dolce.

«Meglio di qualsiasi mensa self-service, che dici?», fece Gabe a bocca piena.

Crystal si scoprì a ridacchiare. «Già, non male», disse. «Ma nessuno si accorge di tutte queste sparizioni? Immagino che veniate qui spesso.»

«In realtà non molto spesso», rispose lui. «Proprio per non dare troppo nell’occhio. Di solito alterniamo con altri due o tre supermercati… Ma a dire la verità dubito che i mondani che lavorano qui si siano mai insospettiti. E al massimo darebbero la colpa a qualche teppistello del quartiere.»

Mentre parlava con Gabe, Crystal scorse una luce gialla provenire dalla vetrina che dava sulla strada, come i due fari di un’auto. Disegnavano due coni di luce, uno poco distante dai suoi piedi. «Gabe…», lo chiamò, indicandogli la fonte di luce.

Gabe si alzò in piedi, circospetto. «Poliziotti», le spiegò. «Cammina verso di me lentamente. Niente movimenti avventati.»

«Gabe», ripeté lei, nel panico. La sua voce tremava mente il cono di luce avanzava verso i suoi piedi.

Gabe l’afferrò per un polso e la nascose dietro ad uno scaffale giusto in tempo prima che la luce della torcia la illuminasse in pieno. Poteva sentirle il cuore battere impazzito dietro alle costole. «Andiamo», le disse.

«Gabe, ho paura», rispose lei. Le pareva di avere le ginocchia di gelatina.

Lui la trascinò verso l’uscita del retro, da dove erano entrati, cercando di schivare le chiazze di luce che si muovevano per il negozio attraverso le vetrate. Quando furono fuori, bloccò la porta con una Runa di Chiusura e si tirò appresso Crystal, rigida come una statua di gesso, lungo il vicolo buio.

Pioveva. Crystal sentiva sulla nuca le gocce di pioggia che filtravano tra i tetti e il rumore dell’acqua che rimbalzava sull’asfalto.

Allo sbocco del vicolo, Gabe si sporse per controllare e vide che i poliziotti stavano salendo sulla loro volante. «Se ne vanno», disse a Crystal.

Lei trasse un rumoroso sospiro di sollievo, poi si lasciò scivolare lungo il muro di una casa, finendo seduta.

Gabe si accovacciò di fronte a lei, l’aria vagamente preoccupata. «Crys, è tutto okay?»

La ragazza, il pallido volto illuminato dalla luce fioca della luna, annuì piano. «Sì, è solo che… per un momento ho creduto che…»

Lui le accarezzò una guancia, sorridendo. «Lo so. Sarebbe tutto più semplice se tu potessi fare uso delle Rune. Ma non è andata male, dopotutto, no? Qui abbiamo cibo sufficiente per una settimana», disse indicando la refurtiva.

«Ottimo.» Crystal si fece aiutare a rimettersi in piedi, ma Gabe la tirò con troppa forza e lei rovinò su di lui, il quale colpì la parete opposta del vicolo con la schiena.

 «Oh… mi spiace», mormorò Crystal imbarazzata. Erano così vicini che i capelli di lui le solleticavano la fronte.

«A me no», rispose lui in un sorriso mozzafiato.

Si sentì avvampare. «Gabe…», si lamentò cercando di sottrarsi, ma le mani di lui tenevano uniti i loro bacini.

«Sì?» Gli occhi smeraldini di lui la fissavano irrequieti.

Crystal si chiese, con una punta di fastidio, perché mai quando si trovava così vicina a Gabe non riusciva a pensare ad altro che a baciarlo. Eppure avrebbe dovuto essere arrabbiata per come lo aveva visto comportarsi con Julie, o per le sue insopportabili frecciatine, o per averla fatta quasi sorprendere a rubare in un supermercato… Ma non lo era. E questo la irritava parecchio.

Le labbra di Gabe sfiorarono la sua guancia: una carezza accennata. «Vuoi tornare al rifugio?», domandò contro la sua pelle.

Il che, nelle orecchie di Crystal, suonò come Vuoi che ti baci oppure no?

Crystal faticava a sostenere il suo sguardo. «E tu?», gli chiese.

Lui la fissò. «Non si risponde ad una domanda con una domanda», disse con aria offesa. «Hai paura di fare qualcosa di sbagliato?»

La ragazza sentì nella gola la morsa dell’imbarazzo. Le gambe le parvero sciogliersi come burro al sole. «Veramente, io…»

Una goccia di pioggia scivolò fra i tetti e cadde sul viso incupito di Gabe, brillando alla luce della luna come una lacrima argentea. «Sarà meglio andare», disse dopo un po’, rompendo il silenzio. «Gli altri si staranno chiedendo dove siamo finiti.»

Gabe fece per uscire dal vicolo, quando Crystal strinse le mani attorno al suo braccio. «Aspetta…»

Lui si volse, le sopracciglia e la fronte accartocciate dall’indignazione. Forse, pensò Crystal, mai prima d’allora una ragazza aveva esitato quand’era stata l’ora di farsi baciare da lui. «Aspetta cosa?», replicò sollevando un sopracciglio scuro.

Senza indugiare, Crystal si sporse sulle punte e premette le labbra contro quelle dure di lui. Gabe sembrava di marmo, sotto il suo tocco insicuro. La ragazza cercò le sue mani nel buio, e quando le loro dita s’incontrarono Gabe trasalì appena. Era come se anche lui, pensò Crystal, fosse combattuto per i suoi sentimenti. Come se stesse continuamente ponderando che cosa fosse più giusto.

Anche lei si sentiva così, in bilico tra la voglia costante di gettarsi fra le sue braccia ed il fuggire il più lontano possibile da lui. L’idea che Gabe fosse uno shadowhunter, un Nephilim, la faceva sentire inadeguata, quasi indegna. Come in uno di quei film dove la ragazza qualunque di turno s’innamora del bellissimo, ricchissimo e amatissimo unico figlio della famiglia più abbiente della città. Sebbene nei film, alla fine, si scopra sempre che il ragazzo ricambia i sentimenti di lei ed è pronto a contraddire tutta la sua famiglia pur di sposare la fanciulla.

All’improvviso Gabe, come se avesse potuto leggerle nel pensiero, la prese per i fianchi e uscì dal vicolo, spingendola contro la parete ruvida della casa. Lì non c’erano tetti o altre protezioni a contrapporsi tra loro e la pioggia, che adesso scrosciava incessante. Crystal sentiva le gocce fredde colpirle la fronte e scivolarle lungo le braccia, ma non le importava. Il modo in cui Gabe aveva preso a baciarla, adesso, le avrebbe fatto dimenticare anche cose ben più gravi del rischio di beccarsi una polmonite.

Crystal si lasciò sfuggire un gemito di sorpresa quando le mani di lui sollevarono il bordo del suo top e sfiorarono la sua schiena nuda. Le dita di Gabe erano lisce e fredde contro la sua pelle.

In quel momento un’automobile sfrecciò lungo Elm Avenue e, quando passò di fianco a Gabe e Crystal, sollevò una pozza d’acqua che schizzò verso il marciapiede. L’onda li investì in pieno, ed entrambi si ritrovarono improvvisamente fradici ed infreddoliti.

Gabe scoppiò a ridere contro le labbra di Crystal, mentre al contempo lei lanciava un’imprecazione. «Be’, se non altro ora riesco a capire l’espressione “È stato come una doccia fredda”!»

Crystal non riuscì a trattenere un risolino, sebbene l’idea di essere completamente zuppa d’acqua non la divertisse particolarmente. Subito dopo fu percossa da un brivido gelido.

«Hai freddo?», le domandò Gabe.

Crystal annuì, trattenendo l’impulso di battere i denti. «Un po’.»

Lui, con fare un po’ teatrale da cavaliere, si sfilò la giacca di pelle dalle braccia e la posò sulle spalle irrigidite di lei. «Va un po’ meglio?»

Crystal gli sorrise. «Molto meglio», rispose. «Ma ora sarai tu a morire assiderato», aggiunse notando che indossava soltanto un’attillata t-shirt scura, da cui si intravedevano i gonfi muscoli dell’addome.

Gabe scrollò le spalle. «Meglio io che te.»

La ragazza non poté che arrossire. Mai, nella sua vita, aveva ricevuto tante attenzioni da qualcuno. Il massimo che si sarebbe potuta aspettare all’orfanotrofio, se mai si fosse fatta trovare bagnata fradicia per i corridoi, sarebbe stato una bella sgridata, seguita da una settimana di punizione per aver imbrattato i pavimenti.

A quel pensiero, Crystal rabbrividì tra le mani di Gabe. Si chiese come avesse potuto rimanere là dentro per ventun anni senza dare di matto. Pensò al sapore salato del brodo vegetale, in contrapposizione a quello dolce della Coca Cola che là dentro non aveva mai nemmeno potuto assaggiare. O all’odore acre del caffè al mattino, così diverso dal profumo inebriante dei croissant che si gonfiavano nel forno dell’Every Flavour Donuts.

Gabe notò il suo sguardo distante. «Crys. È tutto okay?»

Crystal rinsavì, lieta che i suoi occhi mettessero a fuoco una cosa tanto bella come Gabe, abbandonando la visione degli spogli corridoi dell’orfanotrofio. «Stavo solo… pensando ad una cosa.»

Gabe s’incamminò lungo il viale, prendendola per mano. «Ed era una cosa brutta?»

«No, non proprio», rispose mostrando un timido sorriso. «Pensavo all’orfanotrofio. Là dentro non è stato molto facile per me, ma credo che proprio per questo ora riuscirò a godere davvero delle cose belle. Qui fuori è tutto così… amplificato

Gabe le sfiorò il mento con le dita. Mentre camminavano, i loro capelli bagnati rilucevano come argento liquido in contrasto con l’asfalto scuro. «Ti capisco. Anch’io ho trascorso gran parte della mia infanzia rinchiuso nell’Istituto di Los Angeles. Quando sono uscito per la prima volta ho visto, sentito e provato così tante cose insieme che mi sono sentito scoppiare la testa», mormorò. «Non è proprio la stessa cosa, ma riesco a farmi un’idea.»

«Gabe, so che non ne vuoi parlare», iniziò Crystal. «Ma mi stavo chiedendo se tu abbia deciso di abbandonare l’Istituto per via dei tuoi genitori.»

Il ragazzo sembrò sorpreso, ma poi si ricompose in una smorfia seria. «Io e mio padre non… non andiamo molto d’accordo», riuscì a dire. Crystal aveva la sensazione che Gabe stesse misurando le parole. «Perché questa domanda?»

«Perché quando Caleb ti ha chiesto se fosse tuo padre l’uomo che dirige l’Istituto, tu sei improvvisamente diventato di ghiaccio», gli spiegò con delicatezza. «E poi Vanessa ti ha dato la stregaluce, dicendo che l’aveva presa di nascosto dalla tua stanza. Ho pensato che se tu non eri tornato di persona a riprendertela poteva voler dire che non avevi intenzione di rivedere i tuoi genitori.»

«E hai pensato bene», rispose con tono severo, sorprendendo Crystal. «Abbiamo avuto delle… divergenze d’opinioni, in passato. Quando ho compiuto ventun anni ho capito che non avrei seguito la strada che loro avevano scelto per me. E quando ho ottenuto l’appoggio di Julie e di Cole me ne sono andato.»

«Capisco.»

«Ora la mia famiglia sono Julie, Cole e Victoria», disse. «Le uniche persone di cui mi fido ciecamente e per le quali sarei disposto a dare la vita, se fosse necessario. Loro farebbero lo stesso per me.»

«E che mi dici di Caleb e Vanessa?»

«Non so per quanto ancora resteranno con noi», rispose pensoso. «Vanessa è amica di Julie dai tempi in cui entrambe vivevano a Idris. Poi Vanessa fu inviata a Washington D.C., mentre Julie scappò a Los Angeles. Quando ci è giunta notizia che l’Istituto di D.C. era stato attaccato dai lupi mannari, Julie ha proposto a Vanessa di raggiungerci a Long Beach. E lei si è presentata qui insieme a Caleb.»

«E quel Donovan?», continuò Crystal. «Avete detto che non c’è quasi mai. Dove va?»

Gabe sorrise. «Donovan è un tipo particolare

«In che senso?»

«Nel senso», fece Gabe senza nascondere una punta di divertimento. «che è un vampiro.»

«Un vampiro? Dici sul serio?»

«Già», replicò. «Ma è un bravo ragazzo, dopotutto.»

Il viso di Crystal si deformò in una smorfia disgustata. «Ma di cosa si nutre?»

«Secondo te?»

Crystal stava per avere un conato di vomito. «Vuoi dire che uccide i mondani?»

Gabe ridacchiò. «Certo che no! Si nutre soltanto di sangue animale. Credi che faremmo entrare di proposito un assassino nel nostro rifugio?»

Lei si sentì subito risollevata. «E dove sta tutto il tempo, se non è con voi?»

«Donovan vive con il suo clan in Myrtle Avenue, in una vecchia casa abbandonata… Come potrei spiegarti? Lui fa da filtro tra noi e loro. Non so se te l’ho già detto, ma Nephilim e Nascosti non vanno molto d’accordo», spiegò. «Donovan è un idealista. Sta cercando di mitigare le avversioni che abbiamo gli uni contro gli altri.»

Crystal era confusa. «Non ti piace l’idea di andare tutti d’amore e d’accordo?»

«Non è che non mi piaccia», specificò. «È che lo vedo alquanto impossibile. I vampiri e i licantropi si odiano da sempre, così come i Nephilim si sono sempre tenuti alla larga da ogni tipo di Nascosto. Non ci si può svegliare una mattina e decidere che tutto questo deve cambiare. Sarebbe come chiedere ai mondani di dimenticare le differenze che loro vedono tra un bianco ed un nero, tra un cristiano ed un ebreo, o tra un etero ed un gay. Credi che basti qualche decina di menti aperte per cambiare la convinzione di un intero mondo?»

«D’accordo, ma pensaci: già il fatto che voi vi rapportiate con Donovan, significa che non siete di vecchio stampo, come ad esempio potrebbero esserlo i tuoi genitori. Julie è una mezza fata, mezza Nascosta, giusto? E io sono una sottospecie di sirena senza pinne. Tutto questo è la prova che le convinzioni stanno già cambiando.»

«Soltanto perché per me non risulti un problema avere degli amici Nascosti, non significa che valga lo stesso per tutti. Victoria ha impiegato parecchio ad accettare Donovan, così come i miei genitori hanno accolto Julie all’Istituto soltanto perché aveva ottenuto il primo Marchio direttamente dal Clave. Come vedi, l’idea che i Nephilim siano superiori ai Nascosti è un pensiero ben radicato.»

A Crystal prudevano le labbra dal desiderio di sapere una cosa in particolare. «Credi che i tuoi genitori non approverebbero che… insomma, se io e te…»

A Gabe sfuggì una risatina. «Che io e te usciamo insieme, dici?», concluse al suo posto. «Be’, questo è uno dei tanti motivi per cui mi sono allontanato da loro.»

«Forse hai ragione», rifletté Crystal. «Chiedere agli adulti di cambiare i loro ideali potrebbe essere impossibile, ma voi siete una nuova generazione di Nephilim. Se provaste a cambiare questa assurda mentalità, le generazioni future di Nephilim e Nascosti potrebbero collaborare, non pensi?»

Gabe si fermò e le pizzicò dolcemente la guancia. Crystal non si era accorta che erano arrivati in Liberty Court, davanti alla botola d’entrata per il Rifugio. «Penso», disse. «che tu sia un po’ sognatrice, Crystal Evans» Sciolse la presa dalla sua mano per picchiettare l’indice contro la sua fronte, e aggiunse: «Ma c’è del potenziale qui dentro.»

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PERSONAGGIO DEL GIORNO:
Donovan Mortenson

Donovan

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