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Lista capitoli: Capitolo 1: *** Premiere Chapitre: Mon rêve épanoui *** Capitolo 2: *** Deuxieme Chapitre: La Noyee *** Capitolo 3: *** Troisieme Chapitre: Notre Vie *** Capitolo 4: *** Quatrieme Chapitre: Imrpévu *** Capitolo 5: *** Cinquieme Chapitre: Histoires *** Capitolo 6: *** Sixième Chapitre: Mon Amour est dans Mon Reve. *** Capitolo 7: *** Septieme Chapitre: L'apres Midi. *** Capitolo 8: *** huitieme chapitre: Sortir *** Capitolo 9: *** Neuvième Chapitre: le grand comedién *** Capitolo 10: *** Dixieme Chapitre: Croix et Delice. *** Capitolo 11: *** Onzieme Chapitre: Crying At the Discoteque *** Capitolo 12: *** Douzieme Chapitre: Mon Grand Péché Radieux ***
Seduto sul letto, la schiena
contro la testiera lignea del letto, il ragazzo fissava i suoi piedi nudi, che
spuntavano dalle lenzuolastropicciate. Mosse le dita, come per testarne la sensibilità.
Poi sospirò, gettando la testa castana all’indietro.
Un filo di luce filtrava
dalla porta del bagno, attraversava il corridoio, e si gettava contro il muro
della camera. Il ragazzo la fissò per qualche istante, attendendo che il filo
di luce divenisse uno spicchio e che proiettasse
quel’ombra così familiare. Quel’ombra che attendeva, e che allo stesso tempo,
quasi, temeva.
Ci stava mettendo tanto, come
al solito.
Perse lo sguardo alla
finestra, in quella fetta di cielo notturno che la tenda verde non riusciva a
coprire mai.
E che lui non voleva affatto
coprire. Non gli piaceva il troppo buio, come non apprezzava la troppa luce,
nella sua stanza. Perché il buio
celava ai suoi occhi la bellezza di quel corpo, muscoloso e abbronzato, che si
mescolava accanto a lui, tra le lenzuola.
Ma la luce era anche peggio,
perché mostrava cosa realmente fosse: una mera illusione.
Sospirò nuovamente, gli occhi
che vagavano tra la stoffa della tenda. Vedeva il palazzo di fronte, le
finestre tutte buie, chiuse. Nessun altro amante malinconico su un letto vuoto,
con cui scambiarsi qualche incoraggiamento.
Sentì la porta del bagno
aprirsi cigolando, e non poté fare a meno di guardare l’ombra che, come aveva
previsto, si stagliava contro la parete, per una frazione di secondo, prima che
il click dell’interruttore facesse spegnere la lampadina.
Un’ombra maschile, non molto alta, ma dai
lineamenti ben marcati, muscolosi.
Udì i suoi passi scalzi sul
pavimento e poi varcare la soglia della stanza da letto in penombra.
Incrociò le gambe, rizzandosi
a sedere, cercando di cancellare qualsiasi espressione negativa dalla faccia. Che
stupido che era, a costringersi nella parte dell’amante spensierato e
soddisfatto della situazione. Eppure non poteva fare a meno. Lo vide raggiungere
i suoi vestiti, gettati a terra a fianco del letto, e a raccoglierli, posandole
sulle coperte aggrovigliate. Poi si sedette, dandogli la schiena, infilandosi
uno ad uno, lentamente, gli indumenti.
“Vai di già Bankotsu?” chiese, avendo cura di inserire una nota di
infantile dispiacere nella voce. Allungò un piede nella sua direzione,
accarezzandogli la schiena, scostandogli la treccia di capelli corvini che gli
scendeva tra le scapole. “Avevi detto che ti saresti fermato in città anche
domani…”
Lui non reagì al contatto. Si
infilò la maglietta e poi la camicia, abbottonandola. “Domattina dovrò
svegliarmi presto, e non dovrò mostrare di aver avuto una serata movimentata.” Si alzò per infilarsi il paio di stretti blue jeans che
l’altro aveva apprezzato così tanto.
“Domani sera? Posso invitarti
a cena?” domandò, fingendo indifferenza.
“Ho il volo domani
pomeriggio.” Rispose Bankotsu.
“Ah. Torni presto a Lille, questa volta. E’ stata proprio una toccata e fuga.”
Il tono acido della frase non riuscì proprio a trattenerlo.
L’altro sospirò, sedendosi
nuovamente sul letto, vicino a lui. Lo coprì con le lenzuola, come se fosse un
bambino riluttante ad andare a dormire. “Jakotsu…”
sospirò nuovamente, alzando lo sguardo verso il suo volto.
Gli occhi, quei due opali iridescenti che lui non avrebbe mai
smesso di ammirare, brillavano nella semioscurità. “Devo dirti una cosa.”
“Fai pure.” Disse il ragazzo
castano, cercando disperatamente di
darsi un tono noncurante. Quando Bankotsu usava
quella frase, per lui significava qualcosa di tremendo. “C’entra la tua
ragazza?”
Bankotsu annuì, distogliendo lo sguardo dall’altro. “Ti ho
sempre detto che ti avrei fatto soffrire.” Iniziò.
“Eppure tu non hai smesso di cercarmi.”
“Beh, nemmeno tu l’hai
fatto.” Si sforzò di allargare le sue labbra nel suo sorriso più genuino.
Doveva ringraziare la penombra, o Bankotsu avrebbe
notato che le sue labbra erano tirate nervosamente. “Avanti, spara, non
lasciarmi sulle spine!”
“Mi sposo.”
Questa non se l’aspettava.
Aveva sempre creduto –sperato – che la ragazza di Bankotsufosse una copertura, o
che fosse una storiella passeggera, con cui riempire il tempo che era costretto
a passare a Lille.
Non riuscì nemmeno a tenere
il sorriso sforzato. “Ah.” Ripeté. “Così giovani?” si sforzò di parlare,
cercando in tutti i modi di mantenere un tono neutro. “Senza convivere prima?”
Non gli stava riuscendo bene.
“Quindi è… un addio?”
Bankotsu rispose che era meglio di si.
“Già, in effetti. E’ meglio
così. Sai… il matrimonio è molto importante, è una cosa che… che ti cambia la
vita. Ed è molto impegnativo… perciò… si, è meglio lasciar perdere le
avventure.” Decise di smettere di tentare di parlare.
La voce gli tremava troppo.
L’altro si alzò, prendendo la
giacca abbandonata su una poltrona ed infilandosela. Gli si avvicinò,
sfiorandogli nuovamente la guancia pallida. “Mi dispiace, non volevo che
finisse così.” Sembra serio, e sincero. Come era
sempre sembrato. Ma lo era mai stato davvero?
“Non hai mai voluto che
finisse in modo diverso. O che le cose si evolvessero” si, questo doveva almeno
dirglielo. Si voltò di scatto verso il comodino, aprì il cassetto e ne estrasse
un pacchetto di sigarette. Le lunghe dita affusolate lo aprirono e ne
estrassero una. Se la infilò tra le labbra, poi prese dal cassetto anche
l’accendino e l’accese. La fiammella illuminò per un
istante anche il volto di Bankotsu, così vicino ora
al suo. Sembrava che i suoi occhi fossero lucidi. Si tolse la sigaretta dalla
bocca, espirando il fumo sulla sua faccia. Lo vide chiudere le palpebre e
soffocare un colpo di tosse. Salutista com’era, aborriva il vizio del fumo,
detestava l’odore di tabacco e non sopportava sentirlo su di lui. Per questo,
quando lo veniva a trovare, Jakotsu si sforzava di
non accenderne neanche una. E di arieggiare la casa, di cambiare le lenzuola.
Di usare quel bagnoschiuma al muschio bianco che a lui dava il mal di testa, ma
che a Bankotsu piaceva tanto.
E di cucinargli al quelle polpette alle verdure, tutte filamentose ed
insapori, che lui doveva mangiare ad occhi chiusi per non vomitare.
Ma ora non aveva più
importanza. Ora non occorreva più nessuno sforzo, nessun sacrificio da parte
sua.
Quando la nuvola di fumo si dissolse dal suo viso, Bankotsu
non si era mosso di un millimetro. Aveva solo aperto gli occhi. “Mi dispiace”
ripeté. “Tu non sai quanto… avrei dovuto starti alla
larga.”
Per quanto ora si sentisse in
bilico sull’orlo del precipizio, Jakotsu ponderò i
momenti che aveva passato insieme a lui. Quattro anni
di incontri, prima assidui poi sempre più rari, anelati, sospirati. E sempre
segreti.
Perché Bankotsu
aveva una reputazione da difendere. Lui era un leader nello sport, lui era la
medaglia d’oro della nazione agli ultimi mondiali di Karate.
Lui aveva aperto una palestra, grande e famosa, a Parigi. Ed un’altra, sempre grande, nella sua città natale, Lille. Dove aveva anche una
ragazza. Una fidanzata.
Jakotsu in tutti quegli anni l’aveva ammirato, capito,
supportato. Aspettato. Si era comportato prima di tutto da amico, e poi da
innamorato. C’era però da riconoscere che Bankotsu
non aveva mai cercato di illuderlo. Gli aveva sempre detto la verità in faccia.
Non nuda e cruda, questo era vero. Ma non l’aveva mai nascosta.
“Sei stato leale con me. A
tuo modo.” Mormorò, un colpo alla sigaretta per far cadere la cenere. Per
terra. Ma ora il disordine in camera non aveva importanza. Poi aspirò un’altra
boccata.
Bankotsu gli spostò, con delicata forza, le dita e la
sigaretta dalla bocca, e le sostituì con le sue labbra. Sembrò prendere in sé
il veleno del fumo, a toglierlo, insieme al respiro, ai battiti del cuore e
all’ultima illusione, da Jakotsu.
Un bacio d’addio.
Si staccò e si allontanò,
camminando lentamente verso l’uscita. Sembrò quasi tentennare. Poi riprese
decisione ed uscì dalla stanza. Pochi passi nel corridoio ed era giù uscito
dall’ingresso, chiudendo la porta alle sue spalle.
Jakotsu chiuse gli occhi con decisione. Quel momento doveva
tenerlo per sempre con sé, come monito alle relazioni future.
E sarà difficile che decida di averne una seria, dopo
questa esperienza. Si disse. Si alzò
e si diresse verso la finestra, aprendola un poco per fare uscire il fumo. La
strada sotto casa era vuota. Alle due di un martedì notte (o di un mercoledì
mattina, che dir si voglia), anche le grandi arterie della città erano vuote.
Figurarsi una delle poche viuzze anonime di Montmartre.
Gli prese improvvisamente la
foga di uscire, di distrarsi, di dimenticare.
Pensò di perdersi tra qualche
locale a Pigalle, di conoscere un uomo – un uomo qualsiasi che lo trovasse almeno un poco attraente – e di portarlo in
quella camera dove, solo mezz’ora prima, aveva gridato di piacere il nome del
suo (ex) amante.
Ma poi desistette. Chi lo
avrebbe aperto poi, il negozio, l’indomani mattina?
A proposito, doveva trovarsi
un’assistente. Ormai iniziava ad avere un discreto giro di conoscenze, che lo
trattenevano per ore fuori dal negozio per servizi
fotografici di vario genere. Era meglio assumere qualcuno che stesse al banco e che svolgesse le mansioni più elementari.
Bene, ottima idea.
Domani avrebbe cercato
subito. Avrebbe messo fuori un bel cartello.
Si staccò dalla finestra, e
fissò il letto. Tra quei cuscini l’aveva baciato, accarezzato, amato. Che
stupido idiota che era stato a sprecare tempo e giovinezza rincorrendo un sogno
che scappava con fermezza da lui.
E adesso c’era ancora
l’impronta del suo corpo sul materasso! E il suo odore sul cotone delle
lenzuola! Se avesse controllato, probabilmente avrebbe trovato anche uno dei
suoi lunghi, lucenti capelli neri su uno dei cuscini.
Spense la sigaretta con
rabbia nel posacenere. Poi raccolse le lenzuola spiegazzate, tolse le federe
dei cuscini e ne fece fagotto. Si diresse al bagno e gettò il tutto, con forza,
dentro la lavatrice. Impostò il programma, riempì la vaschetta di detersivo e
l’avviò.
Rimase per qualche istante
incantato dall’oblò. Poi si diresse dentro la doccia.
I suoi vicini di casa non
sarebbero stati contenti, ma questo era un problema secondario. Attese in un
angolo del box che l’acqua calda scorresse, poi si
tuffò completamente sotto il getto confortante.
Quasi sorrise, scuotendo la
fradicia chioma ribelle. Suonava strano soffrire d’amore (Si, perché il suo era
amore – quello di Bankotsu no, forse. Ma il suo lo era eccome!) a Parigi, la città dove ci si innamorava per
antonomasia.
Gli venne in mente uno dei
suoi film preferiti, ambientato proprio in quella città. Sotto l’acqua
scrosciante, cantilenò a mezza voce il motivetto con cui si apriva la scena
iniziale, una strofa che aveva sempre sentito sua:
“There was a boy... A very strange enchanted boy.
They say he wandered very far, very far
Over land and sea,
A little shy and sad of eye
But very wise was he.
And then one day,
One magic day, he passed my way.
And while we spoke of many things,
Fools and kings,
This he said to me,
"The greatest thing you'll ever learn
Is just to love and be loved in return."
C’erano ancora tante cose là
fuori. Stolti e Re.
Tra le tante cose per cui valeva la pena vivere, ce n’era una in particolare: Le sorprese.
Arieccomi, prima del previsto!!!
In realtà non riuscivo a staccarmi
completamente dalla storia che avevo appena terminato… Continuavo a pensarci, e
nonostante avessi anche altri soggetti (sicuramente più interessanti di questo)
da prendere in considerazione per scrivere, non ho potuto fare a meno di
partorire questa…idiozia.
Questa FanFiction
è da considerarsi uno Spin-Off di This
Time Around. Sono gli anni di Kagura (e di Jakotsu! – Numi del Cielo, com’è OOC) in Francia.
Ciò vuol dire che non dovete per forza
leggervi il mio precedente lavoro. Cercherò di rendere le due cose il più
indipendenti possibili l’una dall’altra. Purtroppo temo che qualche
collegamento tra le due sarà inevitabile, ma cercherò di circoscriverlo il più possibile
NOTE: il titolo deriva da una canzone
della colonna sonora di MOULIN ROUGE! (uno dei miei
film preferiti), così come il titolo del capitolo ne è un verso. Complainte de la Butte significa ‘la canzone malinconica
del Colle (Montmartre)’, mentre il significato del
nome del capitolo è “Il mio sogno svanisce”
Ed è proprio a MoulinRouge che Jakotsu pensa
sotto la doccia, canticchiando la prima strofa di Nature Boy, con cui si apre
il film.
Spero di fare un buon lavoro.
Grazie intanto per aver letto almeno
questo capitolo.
Uscì
dall’hotel, sul marciapiede, venendo investita dai raggi di un grande sole che
scaldava la mattinata invernale di Parigi.
Si
infilò gli occhiali scuri, questa volta più per proteggersi dalla luce che per
protezione, e si incamminò, senza una meta precisa. Percorse a passi lenti,
calmi, respirando tranquillamente la via, sino a trovarsi inPlaceduTertre.
Si
mescolòin
mezzo al turbinio di turisti e di artisti di strada. Si lasciò coinvolgere dai
loro lavori, dai sorrisi nei ritratti a carboncino che avevano appesi ai loro
cavalletti, dalla musica di un trio di chitarristi. Ammirò una bancarella che
vendeva chincaglierie artigianali e si lasciò convincere dalla giovane
venditrice ad investire qualche spicciolo in un paio di orecchini fatti da una
fila di piccole perline di vetro verdi.
“Ou, madame, vousetestrèsJolie!”
l’adulò la ragazza. Kagura sorrise, ammirandosi allo specchietto che le porgeva
per aiutarla ad infilarseli. “Merci!”
ringraziò, riprendendo la passeggiata.
Non
poteva fare a meno di continuare a guardarsi attorno, attraverso le lenti
scure. On riusciva a smettere di temere di vedere spuntare una faccia familiare
da qualche angolo della strada.
Ma smettila! Si rimproverò. Devi
abituarti a considerarti libera! Il profumino di crepes
le arrivò alle narici, stuzzicando il suo stomaco. Ora che ci pensava, non
aveva fatto nemmeno colazione. Ne acquistò una ripiena di crema alla nocciola e
si sedette su una panchina a mangiarla, guardando l’andirivieni davanti a sé.
Si
frugò in tasca, come a controllare che le banconote che aveva con sé quella
mattina fossero ancora al loro posto. Doveva usarle
con estrema parsimonia.
Dopo
aver pagato il documento falso e qualche abito la sera precedente, non le
restava molto. Calcolò che avrebbe potuto permettersi quel piccolo e infimo
hotel ancora per una settimana.
Doveva
sbrigarsi al più presto a trovarsi un lavoro.
Le
venne da ridere. Lei, di solito così meticolosa e precisa
nella preparazione di un suo qualsiasi passo, aveva trascurato l’aspetto
economico della sua nuova vita. Era troppo disperata per guardare al di là
della scaletta dell’aereo.
Tutti commettiamo degli errori. Si confortò. Si domandò se qualcuno si fosse accorto
della sua assenza. Erano passate ormai due giorni dalla sua scomparsa. Si
domandò se avessero già trovato la sua auto, e se la sua denuncia aveva sortito qualche effetto. Chissà se avevano arrestato Naraku. A questo pensiero sospirò. “Gli uomini come lui
riescono sempre a cavarsela.” Si disse, accartocciando
la confezione della crepes e gettandola nel cestino
dei rifiuti a suo fianco.
Chissà cosa starà
pensando ora Sesshomaru… Sospirò
nuovamente, sentendo qualcosa dentro di sé farsi sempre più pesante ed
occuparle i polmoni. La libertà aveva il retrogusto amarissimo del prezzo da
pagare. E nel suo caso era l’unica persona che le aveva dato appoggio e
comprensione.
E
non solo.
Gli
aveva detto che lo amava, prima di interrompere la conversazione e di
consegnarsi all’oblio.
Lei
lo amava? Davvero? Si ama uno che si abbandona? Lei non aveva altra scelta.
Davvero?
Scosse
la testa con decisione, giocherellando con le maniche della giacca che lui le
aveva comprato in una boutique dell’Hakurei. Un
milione di anni prima. Lei non aveva altra scelta. Se fosse restata con lui,
avrebbe dovuto continuamente guardarsi alle spalle. Non sarebbe riuscita a
vivere tranquillamente, a passeggiare per la città, a godersi il sole e il
cielo terso. E i suoi incubi l’avrebbero tormentata.
Ma
Sesshomaru ora che pensava? La odiava? Le mancava? Voleva far gettare Naraku in cella a vita? O si era disinteressato alla
questione, scrollandosi di dosso quel fardello di guai che si era portato in
casa per chissà quale motivo?
Non
doveva più affliggersi con questi dubbi. Ora lei era a Parigi – la più bella città del mondo! -Ed era riuscita a
concedersi questa seconda, preziosa, insostituibile, chance. Che non doveva
sprecare per nulla al mondo. Ora lei aveva il cielo azzurro, il suono degli
organetti nelle orecchie e il profumo di una città che aveva lottato per la
propria libertà. Come lei.
Il
peso scese dai polmoni allo stomaco.
Ma
non c’era Sesshomaru.
La
sera precedente (la sua prima notte libera! Quanto aveva sognato quel momento…) quando si era stesa tra le grezze lenzuola del
letto dell’hotel, la mancanza del suo uomo l’aveva travolta come una gelida
ondata improvvisa. Si era sentita sola e sperduta. Era rimasta avvolta nei
dubbi, in preda ai brividi dell’incertezza. Aveva pianto a lungo. La libertà
era diventata la sua croce e la sua delizia.
Trovava
insopportabile persino la solitudine, la sua più cara amica durante la sua vita
a Villa Onigumo.
Poi
aveva aperto la borsa e aveva scoperto che, nella foga dei preparativi, aveva
infilato tra i suoi pochi vestiti anche la maglia del pigiama di Sesshomaru.
L’aveva annusata a pieni polmoni. Sapeva di lui! L’aveva indossata senza
pensarci due volte e si era di nuovo stesa nel letto.
Cullata dal suo profumo, come quando si svegliava al
mattino al suo fianco, Kagura era finalmente scivolata in un sonno senza sogni
né incubi.
Riprese
il cammino, facendo scivolare lo sguardo di vetrina in vetrina.
Forse
avrebbe dovuto chiamarlo e dirgli che era tutta una messa in scena, scusarsi
per averla fatta e chiedergli di raggiungerla a Parigi.
No.
Questa
cosa non aveva senso. Avrebbe vanificato completamente i suoi sforzi.
E
poi aveva preso una decisione, no? E quando prendeva una decisione, lei non
tornava mai indietro.
Coerenza, Kagura, coerenza. Le ripeteva sempre sua madre, quando la vedeva
indecisa su ciò che doveva e quello
che voleva fare.
Per
ogni strada percorsa, c’era un dazio da pagare. Ed il suo era perdere la
persona che amava.
Il
suo sguardo amaranto si posò sulla vetrina di uno studio fotografico, “Vie Lumièrè”, apprezzando il gioco di parole, studiò le foto
esposte. Un ragazzo dai capelli ribelli raccolti sulla testa, scivolò tra le
foto esposte e la superficie di vetro, un foglio di carta in mano e il roto di nastro adesivo tra le labbra rosee. Posò il foglio
contro il vetro e lo appese per gli angoli con un paio di puntine di scotch.
Poi, senza alzare gli occhi verso di lei, volse le spalle e tornò verso il
bancone, assorto nei suoi pensieri.
Kagura
guardò incuriosita il foglio. Era bianco. Le venne da ridere. Picchiettò sul
vetro per attirare l’attenzione del giovane, che si voltò incuriosito.
“Il est blanc!” mormorò la donna,
scandendo bene le parole.
Lui
guardò il foglio e alzò gli occhi al cielo, battendosi la fronte con il palmo
della mano, mentre un sorrisetto sbadato gli compariva. Si riavvicinò al vetro
e girò il foglio, sempre attaccandolo allo stesso modo. Kagura notò i suoi
lineamenti dolci, quasi femminili, e il piccola smorfia
che avevano assunto le sue labbra, quasi imbarazzata. Quando finì, alzò gli
occhi scuri, dal taglio quasi orientale, verso di lei, congiunse le mani
davanti al viso e, con un accennato e scherzoso inchino mosse le labbra in un
ringraziamento.
Lei
guardò di nuovo il foglio: “Recherche commise”(Cercasi
Commessa) Avvisava.
Rimase inizialmente sorpresa. Aveva appena pensato di dover
cercare assolutamente un lavoro, ed ecco che trovava quel cartello appeso.
Quasi le venne da ridere. Doveva interpretarlo come un segno del destino?
“Aiutati che il ciel t’aiuta?” pensò, guardando la schiena del ragazzo andare verso il bancone e
trafficare con vari oggetti, mettendo a posto qua e là.
Oh, beh, valeva la pena tentare, no? D’altronde, lei cosa aveva da
perdere?
La mano si posò sulla maniglia della porta, e la spinse piano,
quasi esitando. Il campanello d’entranta tentennò, un
suono quasi fatato.
Il ragazzo, che nel frattempo era tornato dietro al bancone, alzò
la testa castana di scatto e la guardò, accennando un sorriso.
“Excusemoi…j’ai vu votretableu…”
iniziò Kagura, improvvisamente a corto di vocaboli in francese. Lui la studiò
un secondo, assottigliando gli occhi in un’espressione concentrata “Japonais, n’est pas??” indovinò.
La donna rimase di sasso. Annuì.
“L’accento.” disse lui nella sua lingua, alzando
le spalle. “Mio padre era di Osaka.” Aggiunse, sorridendo.
A Kagura scappò da ridere. Un’ulteriore prova che il mondo era
incredibilmente piccolo. “Dicevo, ho visto il cartello alla vetrina e…”
Lui alzò di nuovo agli occhi al cielo. “Non dirmi che è ancora
bianco! Io non so dove ho la testa oggi….!”
“Oh, no, no!” lo interruppe la donna. “E’ solo che… beh, ecco, io
stavo cercando lavoro quindi..”
“AH!” esclamò il ragazzo, colpito. “Non mi aspettavo una risposta
così presto. Accidenti, questo si che è record. Sei
una fotografa?”
Kagura rise nuovamente, improvvisamente nervosa ed imbarazzata.
“Beh, ho fatto un corso fotografico all’università – ma
ormai sono passati un po’ di anni… facevo arte e…” cercò di spiegare, mentre
capiva, parola dopo parola che non aveva proprio le credenziali adatte.
“Meglio così. Non mi ruberai il lavoro.” Cinguettò il ragazzo,
interrompendola.
Lei lo fissò meravigliata. Aveva forse capito male?
“Ho bisogno subito di qualcuno da mettere al bancone, per prendere
appuntamenti e semplicemente per sviluppare i rullini dei miliardi di turisti
là fuori, mentre io sarò impegnato per dei servizi
fuori negozio. Non sono una persona che rimugina molto sulle cose, e visto che
hai abboccato come un pesce… Io mi chiamo Jakotsu.” Gli porse la mano.
Kagura rimase letteralmente a bocca aperta. Davvero era stato così
facile? No, impossibile, doveva esserci qualcosa sotto. Ma d’altronde, lei cosa
aveva da perdere? Riuscì a riprendersi, sforzandosi a
mantenere il proprio controllo. Deglutì, prima di sorridere e stringere la mano
del ragazzo. Per poco non si tradì, presentandosi con il suo nome nuovo. “Vesper”notò lo sguardo perplesso di lui. “Genitori
filobritannici…” spiegò timidamente.
Lui non sembrò farci caso.“E anche un po’ Hippies,
immagino!”
Nella successiva mezz’ora Jakotsu le
aveva mostrato lo sviluppo istantaneo delle foto, il programma del computer con
cui prendere appuntamenti (Kagura si trattenne dal ridere: lo usava da dieci
anni per gestire la sua agenda d’affari...) e il gestionale per i pagamenti. La
istruì brevemente sugli articoli in vendita nel negozio, come cornici, poster
della città o macchine fotografiche usa e getta. “Non sono più tanto di moda”
confessò. “ma qualche volta capitano turisti disorganizzati.”
Avevano parlato del compenso (una misera in confronto a quello a cui era abituata, ma doveva farselo bastare. Sorrise
compiaciuta come se fosse statauna somma considerevolmente alta) e
della tipologia di contratto. Infine, si scambiarono i numeri di telefono e
Kagura si fece fotocopiare il suo (falso)
passaporto.
“Abiti molto lontano da qui?”
“Non tanto, il mio hotel è su Rue Bervic.”
Jakotsu storse il naso. “Hotel? Ti fai spennare
come una turista qualunque?”
Lei alzò le spalle, centilenando il
bicchiere di tisana alla menta che il suo nuovo datore di lavoro le aveva
offerto. “Sono a Parigi da poco più di due giorni! Una cosa per volta…”
Il ragazzo si mangiucchiò l’unghia del pollice, pensieroso. “Hai
intenzione di cercare un appartamento intero o ti basta una stanza?”
Rispose che sapeva a che livello astronomico fossero gli affitti
parigini. “Mi basta una stanza, conosci qualcuno che le affitta?”
“Quanto deve essere grossa come stanza?”
Furono interrotti da una cliente tedesca che voleva acquistare un
poster del Sacre-Coeur. I due si guardarono, poi Jakotsu, con un gesto cerimonioso, fece segno a Kagura di
occuparsi della signora.
“Non ti aspettare molto, anche io sono in affitto, e posso
permettermi solo questo buco.. E’ poco più di uno
sgabuzzino… ma sei magra e dovresti starci.” Spiegò, un po’ imbarazzato, mentre
salivano le strette e buie scale del palazzo. Arrivati al terzo piano, la donna
cercò di nascondere il suo giramento di testa, mentre il ragazzo estraeva dallo
zainetto un vistoso mazzo di chiavi, decorato con un portachiavi di peluche
rosa.
Beh, almeno non doveva temere di essere finita tra le braccia di
un maniaco. Si trovava con lui da nemmeno un giorno, e aveva capito che il suo capo non era interessato minimamente
alle donne. Poco prima della chiusura era entrato in negozio un ragazzo biondo
molto avvenente, che l’aveva fatto quasi sciogliere in lacrime. “Mondieu!!” aveva squittito quando il cliente era
uscito. “Per uno così avrei dato un braccio!”
Kagura era scoppiata a ridere. In effetti
non era davvero male…
Lui l’aveva guardata storto. “Giù le mani” aveva sibilato. “L’ho
visto prima io.” Quando la donna gli aveva fatto notare che il biondino si era
congiunto ad una morettina che l’attendeva dall’altro lato della strada, Jakotsu l’aveva informata che non era poi così simpatica come
le era sembrata inizialmente.
Il ragazzo aprì la porta di casa, ed entrò, presentando
l’appartamento con il cerimonioso appellativo di “ChateauJakò”.
Kagura si guardò attorno, entrando timidamente con il suo borsone
in spalla. L’ingresso era su un corridoio giallo limone, al quale si
affacciavano quattro porte. La porta davanti a sé conduceva ad una piccola sala
dalle pareti lilla coperte interamente di fotografie o
riproduzioni di quadri, dotata di un angolo cottura abbastanza scalcinato.
Vi entrò, curiosando sul mobilio, mentre il padrone di casa, alla
finestra, ciarlava sulle abitudini dei suoi dirimpettai.
Contro una parete vi era divano verde, dall’aria datata e pieno di
cuscini colorati e decorati, di fronte, su un piccolo mobile d’arte povera vi
era un televisione e un lettore DVD. Dvd e libri e candele riempivano gli scaffali di una
libreria in un angolo.
Jakotsu le mostrò la propria camera da letto. Non
era molto grande, con pareti verdi, un armadio ad ante scorrevoli tappezzate di
sticker, una scrivania ingombra di vestiti e volumi,
ed un letto matrimoniale in ferro battuto, anche questo completamente sommerso
da cuscini colorati dalle varie forme, uno diverso dall’altro.
“Adori i cuscini, vedo.” Notò la donna, ammirando comunque la
fotografia di una scogliera al tramonto che campeggiava sulla testiera del
letto.
Il ragazzo scoppiò a ridere. “E’ una delle mie ossessioni. Ne
prendo in continuazione. Ne ho dovuto regalare un paio ad alcuni miei amici
perché non sapevo più dove metterli!”
Il piccolo bagno azzurro era l’unico posto libero da fotografie o
poster, ad eccezione di una polaroid infilata nell’angolo dello specchio.
Infine. Jakotsu si diresse verso l’unica
porta chiusa. La guardò, imbarazzato, ormai certo di un rifiuto. “Beh, e qui
c’è la camera degli ospiti…” Aprì la porta. “Anche se chiamarla camera è forse
eccessivo.”
Kagura vi tuffò la testa dentro. Vi era un letto singolo, di
legno, coperto da un lenzuolo bianco, probabilmente per non fargli prendere
polvere. Nella parete di fronte, un piccolo armadio con due ante. Lo spazio era
talmente ridotto che calcolò che, per aprire le ante, doveva inginocchiarsi sul
letto. Due mensole sulle pareti giallo chiaro completavano il mobilio.
La donna si voltò verso il ragazzo, appoggiato allo stipite della
porta, che si mordicchiava il labbro inferiore.
“Non ho le parole per descrivere la tua casa.”
Disse, semplicemente.
“Mignon?”suggerì il ragazzo,
torcendosi una ciocca di capelli castani sfuggiti alla forcina.
“Forse MARVEILLEUSE è il
termine esatto…”
Aveva sempre desiderato una casa del genere. Colorata, caotica,
piena di fotografie, di immagini. Ciò che aveva davanti era la realizzazione
delle sue fantasie, dei suoi sogni. E poco le importava se per aprire l’armadio
dovesse arrampicarsi sul letto o se non aveva molto spazio vitale nella sua
stanzetta. Quel piccolo ed eccentrico appartamento per lei valeva molto di più
della villa in cui aveva abitato sino a quel momento.
Jakotsu aveva cinguettato il suo accordo, e si
era avviato canticchiando verso la cucina, dove aveva intenzione di stappare
una bottiglia di un qualsiasi cosa per festeggiare
l’evento.
Kagura si abbandonò sul materasso. “Fa che non sia un sogno” pregò.
“Fa che tutto ciò sia reale…!” Sorrise ai raggi del sole che scompariva dietro
ai tetti.
Si, il prezzo da pagare era stato alto, ma forse, giorno dopo
giorno, le sarebbe stato meno doloroso.
Il padrone di casa aveva trovato un cartone di infimo vino da
cucina “Non ho ancora fatto la spesa, questa settimana….”
Si giustificò. La donna accettò comunque di buon grado il bicchiere,
tracannandolo tutto d’un sorso dopo il cin-cin di rito, e seguendo Jakotsu nelle smorfie disgustate.
“A Parigi da due giorni, hai già trovato lavoro e casa.” Sospirò
lui, aggiungendo altro vino ad entrambi i bicchieri. “Sei una ragazza estremamente fortunata”
La donna gettò lo sguardo fuori dalla
finestra, temendo di non riuscire a nascondere nulla allo sguardo del ragazzo. Fortunata? Beh, da poche ore si.
Ok.
Ok. Ci sto provando ragazze. Faccio del mio meglio. Grazie comunque a Kirarachan
per la recensione, e a Rohchan e a PikkolaRin per avermi inserito nei preferiti (credo sia
stata una scelta di fiducia, più che altro…spero di non deludervi…)
D’altronde, io non sono mai
stata nemmeno a Parigi. Ma ieri ho comprato la guida per andarci, così, per non
scrivere troppe scemenze. ^^’
Questi due capitoli sono
stati puramente introduttivi… spero di riuscire a “rianimare” un po’ la
situazione.
Se non si è notato, sono una
fervida e convinta sostenitrice della frase “Sorridi alla Vita che la Vita sorriderà a Te.”(o aiutati che il ciel t’aiuta, come volete)
La Noyee
(l’annegata) è una musica tratta dal film francese “Il Meraviglioso Mondo di Amelie”, ambientato, appunto a MontMartre .Trovo che la colonna sonora sia
spettacolare (anche il film non è male) e la sto ascoltando a ripetizione per avere
l’ispirazione.
Per quanto riguardo le frasi in francese qua e là: Ho cercato di mettere quelle
di significato intuitivo…. Così da non continuare a fare note su note di
traduzione. Se notate errori grammaticali… beh, segnalatemeli pure. Ormai il
francese lo utilizzo come conversazione, la scrittura
non è il mio forte.
Fondamentalmente non aveva fatto nulla di così avventato, o
stupido. Aveva seguito semplicemente il corso degli eventi e aveva fatto una
proposta degna del suo modo d’essere.
Quindi, alla fine, nulla di così eclatante, per una persona che,
come lui, era definito un vulcano pronto ad eruttare idee balzane;
incomprensibili, impensabili e assurde dalla
gente normale.
D’altronde, una volta Bankotsu non
l’aveva associato alla parola Weird?
Ecco, ancora quel nome che compariva tra i suoi mille pensieri.
Sbuffò, interrompendo a metà il “Saluto al sole”, unica posizione di Yoga che
si era dato la pena di imparare, e che ripeteva tutte le mattine, per chissà
quale motivo.
Non poteva farne a meno. Per quanto cercasse
in ogni modo di controllare la mente e di focalizzare la sua concentrazione su precise
situazioni, e di non lasciare il suo pensiero a vagare leggero come faceva di
solito, alla fine quel dannato nome spuntava fuori da qualsiasi discorso
cercasse di intraprendere, con sé stesso o con gli altri.
Per fortuna la sua nuova coinquilina non si era rivelata una gran
chiacchierona ficcanaso, almeno in quei primi giorni di convivenza, quindi lui
nei suoi sproloqui era riuscito ad evitare di incappare nel nome di Bankotsu tra una frase e l’altra. Ma non parlarne era buono
per metabolizzare il tutto e passare al livello di oblio?
Pensando ad altro, ma Vesper stava
ancora dormendo?
Raggiunse la porta della camera e bussò, picchiettando le dita ritmicamente. “Yu-hu!” cantilenò
“Avanti, dormigliona, devi guadagnarti la pagnotta anche questa mattina!”
Sentì un mugolio sommesso provenire dalla stanza, poi, dopo pochi
secondi, la donna aprì la porta e si presentò con i capelli arruffati e gli
occhi gonfi, vestita solo di una maglietta sformata.
“Uh-hu! Famme Fatale…!” la canzonò il ragazzo, mentre lei si dirigeva,
ciondolando, verso il bagno, senza smettere di strofinarsi gli occhi. “Vuoi
qualcosa da mangiare? C’è del pane tostato, yogurt, succo d’arancia scaduto
solo da due giorni…”
“No, grazie, non ho per niente fame.” Bofonchiò, dirigendosi verso
il lavello. La vide guardarsi disgustata allo specchio, poi prendere tra le
dita la piccola polaroid infilata nella cornice. “Che carino.” Commentò. “Il
tuo ragazzo?”
Jakotsu gliela tolse velocemente di mano. “No. E’ il mio ex… non-so-bene-come-qualificarlo”
spiegò, in un tono scocciato da cui trapelava una punta d’amarezza.
La donna si stiracchiò. “Hai fatto male a lasciarlo. Era proprio
carino.”
“E’ stata una decisione comune.” Sventolò l’immagine, indeciso se
rinchiuderla in un cassetto o se distruggerla. “Più sua che mia, ma comunque…”
La strappò con decisione in più pezzetti. “Non fare quella faccia. Mai avuto un
inqualificabile?”
La donna rispose con una scrollata di spalle, prima di farlo
uscire dal bagno invocando la privacy.
Come ogni mattina, lei aveva tentato di convincerlo a prendere la metro per recarsi al negozio. Questa volta oltre al suo
dirigersi con finta nonchalance
verso le gradinate della stazione sotto casa, aveva anche
aggiunto una piccola e buffa moue, risultata
come sempre inutile.
“Mezz’ora di camminata non ti farà altro che bene!” gli ripeté per
l’ennesima volta, trascinandola via. “Con lo stipendio che prendi, non puoi
permetterti una palestra.”
“Devo ancora prenderlo lo stipendio” bofonchiò di risposta. Poi
sbuffò, sconsolata, con lo sguardo di fuoco che vagava qua e là frenetico, come
al solito. Jakotsu alzò gli occhi al cielo. “Oh, Vesper! Quando fai così non ti sopporto. Sembri una spia
russa che teme di farsi riconoscere!”
“A proposito, posso chiederti di non chiamarmi più Vesper?”
“Allora sei davvero una spia russa? Come ti chiami, Tatiana?”
La donna sbuffò di nuovo. “No, non voglio più sentire questo nome.
Chiamami Kagura, il mio nome vero, e facciamola finita.”
Il ragazzo si grattò il mento, pensieroso. Effettivamente aveva
notato un nome diverso sui documenti della donna, ma non ci aveva fatto poi
così tanto caso. Lui non si formalizzava mai su queste cose burocratiche. “Vesper cos’è, un soprannome?”
Lei annuì, fingendo indifferenza, guardando la strada, cercando di
evitare la gente che camminava in senso opposto.
Il ragazzo assunse un’aria risoluta. “Era il nomignolo che ti dava
uno dei tuoi focosi uomini?”
Lei annuì di nuovo, sul viso l’espressione di chi non poteva dire
altrimenti.
“Oh ohoh… E magari lo ripeteva
rocamente nell’apice della passione… pronunciandolo così: Veeeespeeeer!”
“Ma smettila!” lo rimproverò lei, un po’ infastidita, colpendolo
con le nocche sul braccio. “Si, era un soprannome datomi dal MIO Ex-non-so-come-qualificarlo. Contento?”
“Halleluya!” esclamò lui. “finalmente conosco
qualcosa della mia misteriosa coinquilina!”
“Potresti anche scoprire che sono una psicotica serial killer….”
Jakotsu sorrise leggermente, divertito. “Beh, di certo non mi
annoierei…” Arrivati al negozio, estrasse le chiavi del grosso lucchetto e aprì
la serranda. “Ma raccontami un po’ del tuo Ex-non-so-come-qualificarlo…”
Lei lo precedette all’entrata, lapidandolo con un secco: “Non c’è
nulla da raccontare. È passato e basta.”
Nuovamente, il ragazzo alzò gli occhi al cielo. Entrare in
confidenza con quella testona gli sembrava, a volte, un’impresa quasi
impossibile. Era curioso di sapere se avevano più punti in comune di quanti non
si potesse notare al primo impatto.
Aveva il bisogno spasmodico di trovare qualcuno con cui
condividere i suoi frenetici stati d’animo, o con cui confrontarsi. Non pensava
di avere attorno qualcuno con cui parlare davvero. La
gente che conosceva, i suoi amici, erano abituati a vederlo indossare una
maschera, ed era etichettato come quello allegro, spensierato e stralunato, che
squittiva e flirtava con ogni ragazzo carino che gli capitava sotto tiro. E lui
non si sentiva a proprio agio a mostrarsi diversamente con loro. A volte temeva
di deludere qualcuno, rivelando come si sentisse
realmente.
Ma la sua nuova assistente non lo conosceva minimamente, e forse
la loro coabitazione poteva risultare produttiva in più punti, oltre a quello
professionale.
Si era stancato di tornare a casa e trovare l’appartamento vuoto,
ma si sentiva troppo debole per tentare di cercare una relazione seria.
E Kagura, o Vesper, o Tatiana, qualsiasi
nome essa avesse davvero, sembrava capitata sul suo sentiero per aiutarlo a
guarire. Il caso, a volte…!
“Questa sera ti va di uscire?” domandò Jakotsu, dopo aver
consultato la propria messaggeria del cellulare.
Lei alzò gli occhi dal programma di fotoritocco sul computer con
cui stava prendendo confidenza.
“Oh, non preoccuparti, non è un appuntamento…” aggiunse ironico.
“Dicevo… un giro in un locale, magari una cenetta veloce, un po’ di musica dal
vivo…”
La donna alzò le spalle indecisa, prima
di asserire.
“Perfetto! Andremo al locale di un mio amico. Ti piace la musica
Jazz? A me non fa impazzire, ma giusto per passare una seratina tranquilla…”
Lei annuì, indifferente. “Basta che non andiamo in un posto tròp chic, non ho nulla da mettermi…”
Il locale era piccolo, ma arredato con
gusto, in stile vintage, sottolineato dal quartetto jazz che suonava in un piccolo
palco in un angolo.
Era pieno di gente, di cui gran parte coppie di vario genere, che
sorseggiavano cocktail chiacchierando o ascoltando la musica.
Jakotsu salutò con voce squillante un paio di bei ragazzi, avendo
poi cura di spettegolare su di loro con Kagura, che sembrava essere,
finalmente, quasi a suo agio e si guardava attorno con la viva curiosità di chi
si trova ad apprezzare un posto nuovo.
Si diressero al bancone, dove il proprietario, un uomo non molto
alto, ma ben piantato, dalla testa avvolta in una bandana nera, era intento
nella preparazione delle bibite.
Il ragazzo lo salutò allegramente, occupando uno degli sgabelli
liberi e invitando Kagura a fare lo stesso con quello a suo fianco. “Lui è Renkotsu.” Spiegò. “E’ il proprietario del locale, ci
conosciamo dai tempi dell’università. Prepara il Cosmopolitanmigliore di tutta Montmartre.”
Il proprietario alzò la testa dallo shaker che stava riempiendo,
salutando i due con un sopracciglio alzato e un cenno scattante del capo.
“E’ un pò timido, all’inizio…” bisbigliò il ragazzo alla compagna,
che annuì, non molto convinta.
“Avete intenzione di ordinare o solo di stare li
a fissarmi?” sbottò il proprietario. Jakotsu sbuffò, alzando gli occhi al
cielo. “Quando fai così sei insopportabile….” Disse prima di ordinare un TequilaSunrise.
“Anche per me” aggiunse Kagura, dopo una breve scorsa al menù.
Mentre il barman preparava i cocktails,
Jakotsu si mise a studiare con lo sguardo la sua coinquilina, seduta dritta
sullo sgabello, le gambe elegantemente accavallate. Doveva ammetterlo anche
lui, aveva che di affascinante, e il movimento lieve del suo collo, che faceva
posare gli occhi rubino sulle facce degli altri
avventori, le regalava un portamento elegante, nonostante i vestiti semplici
che indossava. In quei pochi giorni Jakotsu l’aveva vista sempre intenta in una
qualche attività, come se cercasse di tenersi occupata per porre un freno ai
suoi pensieri, come cercava di fare lui, d’altronde. E l’ammissione di un suo
ex disperso da qualche parte gli faceva presupporre che ciò fosse vero.
“Non mi hai raccontato nulla di te.” Chiese, con finta noncuranza.
“Come mai sei venuta a Parigi?”
Lei rispose pronta, cercando di mascherarsi dietro un sorriso
fintamente sereno. “Avevo deciso di cambiare la mia vita.”
“Dal tono che usi non doveva essere granché…” eppure non aveva
l’aspetto di chi era passato attraverso grandi tribolazioni. Le mani, i
capelli, e anche quella pelle diafana gli sembravano molto curati. Poi aveva
l’abitudine di truccarsi in un modo molto leggero, puntando su un rossetto rubino,
dello stesso colore dei suoi occhi, com’era di moda. Anche il suo modo di
parlare, di camminare e di sedere gli suggerivano che non proveniva di certo
dai sobborghi di una metropoli.
Un’ombra le passò veloce sul volto. “Si, non era granché.” Ammise.
Renkotsu gli porse il loro cocktail, e lei recuperò
un sorriso tirato e lo ringraziò.
“Di cosa ti occupavi? Mi hai detto che hai studiato arte…” incalzò
lui, giocherellando con la cannuccia e le guarnizioni.
“Già, ma poi …sono stata costretta a cambiare.”
Sorseggiò il liquido colorato, in una smorfia d’apprezzamento. “Sai, i casi
della vita… Lavoravo nell’azienda di famiglia.”
Il ragazzo fece una smorfia di disapprovazione. “Lavoravi con i
tuoi famigliari? Brutta situazione…” degustò anche lui il cocktail. “E poi
così, di punto in bianco ti sei licenziata e sei partita per Parigi?”
Lei annuì, sorseggiando ancora il cocktail. “Proprio così. Volevo…
riappropriarmi dei miei spazi.”
Anche Jakotsu prese un sorso della bevanda. “Ci vuole un discreto
coraggio per fare certe scelte.”
Di nuovo un’ombra passò sul volto pallido della donna, che annuì,
guardando altrove.
Il ragazzo le lanciò un’occhiata complice e curiosa “E….il tuo ex-non-so-come-qualificarlo? Era
da molto che stavate insieme?”
Lei sogghignò, alzando le spalle. “Non tanto. Però…abbiamo vissuto
insieme per un certo periodo. Adorava la sua vita. Non avrebbe funzionato,
anche se mi ha aiutato molto nei…momenti difficili.”
Jakotsu la fissò incredulo. “L’hai lasciato tu?”
“Praticamente…si, è stata una mia scelta.”
“E lui era d’accordo?”
Kagura arricciò le labbra, indecisa. “Non credo. Ma non ne sono
sicura. E’ un tipo…come dire… criptico.”
Il ragazzo fece segno di aver capito, perdendo lo sguardo nel
bicchiere. Certe persone sputavano proprio in faccia alla fortuna.
Renkotsu spuntò dal retrobottega, un sorrisetto
mellifluo sulle labbra sottili. Aveva una grossa busta in mano, che gettò sul
bancone di fronte ai due. “Jakotsu, à toi!”esclamò.
Curioso, il ragazzo la prese e domandò cosa fosse,
mentre l’apriva. “L’ultimo lavoro del tuo concorrente…”
Rispose il barman, incrociando le braccia, quasi con
soddisfazione.
Jakotsu scoppiò a ridere. “Suikotsu?”
Strappò la busta continuando a sorridere, spiegando a Kagura: “Siamo vecchi
compagni d’università, abbiamo fatto anche il corso di fotografia insieme. Ma
lui preferisce essere un fotografo…da gossip. Lavora per uno di quei
giornaletti scandalistici, hai presente, no? E passa tutto il suo tempo a
scattare foto sorridenti di personaggi più o meno famosi che…”
Il provino della copertina di giornale che si trovò in mano lo
lasciò senza fiato. Boccheggiò per qualche istante come un pesce, prima di
deglutire. “Ma guarda chi si vede!” mormorò, cercando di imitare un sorriso.
La foto, larga tutta la pagina, ritraeva Bankotsu,
abbracciato alla sua ragazza, entrambi con sorrisi quasi più larghi della
faccia. Alle loro spalle, gliChampésElysées a fare da romantico sfondo, mentre il titolo,
che campeggiava a mezza altezza, annunciava che “Dopo l’oro olimpico, le
nozze”. Un’altra foto li ritraeva a passeggio, mano nella mano, sereni ed
innamorati, in un parco. E poi ancora un bacio davanti al Sacre-Coeur.
L’attenzione di Renkotsuvenne catturata da un cliente, mentre Kagura, incuriosita, gli
si era avvicinata e fissava anche lei la pagina. “E’ il tuo “Ex-non-so-come-qualificarlo?”
bisbigliò la donna nell’orecchio. Jakotsu, pallido come un morto, annuì
impercettibilmente.
“Che figlio di puttana…”
La voce del ragazzo tremava sensibilmente.“Beh, lo sapevo che
aveva la ragazza… e che si stava per sposare…e che…”
“Mi riferivo al tuo amico
barman”
Inspiegabilmente Jakotsu rise. Nervosamente, ma comunque ad alta
voce. “La simpatia non è il suo forte.” Fece scivolare nuovamente il foglio
dentro alla busta. Prese un bel respiro ed esclamò, con voce squillante:“Hey,
Renky!”
L’uomo gli rivolse uno sguardo gelido.
“Mica male la prima pagina… Questa volta Suikotsu ha fatto centro! Mi costringi a congratularmi con
lui.”
Dal fianco opposto quello cui si trovava Kagura, si affacciò un
ragazzo dall’aria colpevole. “Non avevo intenzione di mostrati quelle foto…”
“E perché no? Tanto sotto casa ho un’edicola che non vede l’ora di
esporre questo giornale…!” Jakotsu si volse verso la donna. “Kagura, questo è
il mio acerrimo rivale, nonché autore delle foto in questione. Suikotsu, questa è la mia nuova assistente Kagura.”
Lui parve sorpreso, mentre le stringeva la mano cordiale, con un
sorriso gentile.
“Non ti lasciare incantare dai suoi modi affabili. In realtà Suikotsu è veramente uno stronzo.
A volte sembra quasi un’altra persona. Lo chiamavamo Schizofrenico,
all’Università.”
L’altro fece un segno di impazienza. “Ognuno ha i suoi problemi,
no?”
Jakotsu ordinò una vodka liscia, poi domandò, falsamente ingenuo:“Quando hai fatto il servizio? Sembra recente…”
“La settimana scorsa Bankotsu e la sua
ragazza erano qui in città.”Rispose Suikotsu,
prima di ordinare un Manhattan.
“…la settimana scorsa? Davvero? Erano qui insieme?” Per nascondere
il suo stato d’animo Jakotsu quasi si infilò tutto il bicchiere in bocca,
mentre Kagura lo guardò sospirando.
Anche Suikotsu sembrava imbarazzato,
giocherellando con l’orlo del bicchiere, senza alzare lo sguardo verso gli
altri due. “Beh, si. Una toccata e fuga. Lei, sai, è una giornalista famosa.
Doveva fare qualche servizio sul turismo a Parigi, e lui è venuto per i suoi
soliti affari con la palestra. Ne hanno approfittato per rendere pubblica la
questione matrimoniale.”
Jakotsu ordinò un Martini, che Renkotsu
servì gongolando, sotto lo sguardo quasi disgustato di Kagura. “Quindi li
conoscevi?” domandò la donna, intromettendosi.
Suikotsu alzò le spalle. “Beh, eravamo tutti
quanti nello stesso giro di amicizie, anni fa. La fidanzata di Bankotsu però l’ho conosciuta la settimana scorsa. Ero ad
un party del giornale per cui lavoro, lei mi si è
avvicinata e mi ha chiesto se il giorno dopo potevo farlo io il servizio.
Pensavo che fosse una buona opportunità e che…”
“C’era anche Bankotsu al party?” lo
interruppe Jakotsu, dopo aver tracannato il Martini tutto d’un sorso.
“Oh, no. Era ad una cena condei suoi allievi della palestra. O,
almeno, così mi ha detto lei…”
Jakotsu sbatté il bicchiere con violenza sul bancone. Il Barman
gli voltò le spalle per nascondere la risata.
Suikotsu gettò uno sguardo verso Kagura, in cerca
d’aiuto, che non poté far altro che alzare le spalle, con aria impotente.
Il ragazzo aprì il portafoglio e gettò un paio di banconote sul
bancone. “Lascia che ti offra da bere, Suiky. Ce ne è
per un altro giro.” Si alzò dallo sgabello, sforzandosi di sorridere. “Io vado
a casa, Kagura. Ho un po’ sonno e domani ho l’agenda piena di impegni. Se vuoi
restare…”
La donna rispose che anche lei si sentiva stanca. Si avviarono
verso l’uscita, dopo aver salutato con un cenno Renkotsu,
mentre l’altro rimaneva al bancone, il bicchiere mezzo vuoto, a mordicchiarsi
il labbro inferiore.
“Suikotsu lo sapeva?” domandò Kagura,
appena fuori dal locale.
Jakotsu fece segno approssimativo con la mano. “Diciamo che non
sono mai riuscito a nascondere tanto di avere una tremenda cotta per Bankotsu. In compenso
lui riusciva a nascondere qualsiasi cosa.” Sospirò.
“Dannatamente criptico anche
lui.”Giocherellò con una ciocca di
capelli. “Però quando eravamo insieme stavo bene. Credo che stessimo
bene entrambi.
Ma lui…beh, non se la sentiva di rendere tutto pubblico. Diciamo
che se ne vergognava terribilmente.
In fondo…lui è un personaggio pubblico…una stella dello sport. E…beh, non siamo
tutti uguali, no? Cosi non lo forzavo…”
Estrasse il pacchetto di sigarette dalla giacca e ne offri una a
Kagura, che accettò volentieri. “Cercare di vivere una storia con qualcuno a cui tieni, mantenendo tutto in segreto è maledettamente
difficile, ma anche abbastanza eccitante.”
“Ne ho qualche idea, a proposito.” Annuì la donna. “Per vedere il
mio Ex-non-so-come-qualificarlo dovevo scavalcare la
siepe, sai?”
A lui scappò una risatina. “Montecchi e Capuleti?”
“Più o meno.”
Sentirono la voce di Suikotsu chiamare
il ragazzo, poi comparire dall’angolo.
“Volevo chiederti scusa. Io…. davvero,
non avevo intenzione di ferirti. Non pensavo che Renkotsu
ti facesse vedere le foto. L’altra sera le avevo con me…. Ed ero preso dalla
foga…sai, la mia prima copertina... mi ha chiesto se gliele lasciavo,
e io ho accettato.”
Jakotsu abbozzò un sorriso. “Non c’è problema, davvero. Sapevo già
che si stava per sposare.”
I tre rimasero in silenzio, Kagura che fumava nervosamente,
guardando prima uno e poi l’altro. Gettò il mozzicone di sigaretta a terra,
fumato a metà, e lo pestò decisa, con aria disgustata. “Mi è venuto il mal di
testa…” commentò, massaggiandosi la fronte.
Il ragazzo annuì, e la prese sottobraccio, girandosi verso la
strada di casa. Stava per salutare Suikotsu, quando
lui lo precedette con una domanda a bruciapelo. “Bankotsu
non era a cena con i suoi allievi della palestra, vero? Era con te. O sbaglio?”
Jakotsu rimase un po’ in silenzio, indeciso su cosa rispondere.
Girò la testa sopra la spalla, guardando l’altro con la coda dell’occhio. “Come
ti dicevo, sapevo già che si stava per sposare.”
“Prevedibile!” fu il commentò dell’altro,
prima di tornare dentro al locale, scuotendo la testa.
Camminarono per qualche metro in silenzio, entrambi immersi nei
propri pensieri. Poi improvvisamente Jakotsu si riprese. “Perché non andiamo a
ballare a LesFolies de Pigalle? Scommetto che non ci sei mai stata!”
Lei lo guardò stupita, sgranando gli occhi rossi. “Ma sei
impazzito?” Domandò. Lui fece segno di non capire, come se fosse stata la cosa
più normale del mondo. “Ascolta, se tu hai intenzione di scordarti di Bankotsu andando a caccia di altri uomini fai pure, ma,
sinceramente, non è il locale propriamente frequentato da uomini del mio target
e… e poi chi aprirà il negozio domattina?”
Il ragazzo soffocò una risatina. Non pareva convinto. “Andiamo,
Kagura… andiamo a divertirci…!” la pregò, cercando di adularla.
Lei sospirò, sconsolata. Gli mostrò i vestiti, speranzosa “Non
sono proprio vestita nel modo corretto, non credi?”
“Oh, non preoccuparti. Dirò che sei lesbica!”
“Hey!” protestò la donna, prima di
sbiancare di colpo. “Io è meglio che vada a casa.”
Jakotsu scalpitò sul posto, come un bambino a
cui viene tolta la gita al parco giochi. Poi la guardò preoccupato.
Sembrava sull’orlo di uno svenimento.
Kagura si portò le mani alla bocca e fece appena in tempo a
voltarsi dall’altra parte, che vomitò sull’asfalto la cena e il cocktail
bevuto. Lui la guardò terrorizzato, prima di cercare di soccorrerla, porgendole
disgustato un fazzoletto di carta.
“Ok, me lo segno tra gli appunti. Tu non
reggi l’alcool.”
La donna si pulì la bocca con il fazzoletto, riprendendo fiato.
“Se non reggessi l’alcool non sarei arrivata a
quest’età.” Mugugnò.Alzò lentamente la
testa dolorante. “Deve essermi bloccata la digestione, con questo freddo. E’
davvero meglio che vada a casa…”
“Altroché. Se aspettiamo ancora un po’ chissà cosa combinerai…” La
prese sottobraccio, un’aria di compatimento dipinta sul volto. “Femme Fatale…”
Lei gli tirò una debole botta sul braccio, sena riuscire a
trattenere un sorrisetto stanco.
Scusate ragazze! Ultimamente sono ultra impegnata, e non riesco
sempre ad aggiornare con frequenza…
Altro capitolo abbastanza introduttivo….
Grazie a chi recensisce e a chi mi ha inserito tra i suoi
preferiti!!
Cercherò in tutti i modi di non deludervi!
Come sempre, suggerimenti e critiche costruttive sono sempre ben
accette!!!!!
“C’è da ammirare la tua costanza. Per quanto la trovi inutile”.
Esordì Kagura, entrando, come ogni mattina, nel salotto, dove Jakotsu stava
ultimando la sua posizione yoga.
“Buongiorno anche a te, ma jolie.” Rispose lui, le mani giunte sotto il mento, gli
occhi chiusi e l’aria ispirata, rivolto verso la finestra. “Finché non lo provi
non potrai mai capire il beneficio della meditazione tibetana.”
La donna si avvicinò verso l’angolo cottura. Aprì il frigo,
gettandoci uno sguardo disgustato. Non le andava giù niente, al
mattino. Si sentiva lo stomaco bloccato e avvertiva anche un leggero senso di
nausea. Richiuse lo sportello dopo aver deciso di sforzarsi a
mangiare solo una mela.
Jakotsu la raggiunse: “Stomaco in subbuglio anche questa mattina?”
estrasse dal frigorifero un barattolo di yogurt, osservò positivamente colpito
che la data di scadenza non era già passata e l’aprì, infilandosi un biscotto
in bocca prima di appoggiarsi sul tavolo per continuare la colazione. “Fossi in te andrei a farmi visitare…”
Lei scosse la testa. “Non è nulla, non ho mai avuto una gran fame,
alla mattina.”Questo era vero. Solitamente sorseggiava solo una tazza di caffè, mentre
si preparava per andare in ufficio. Probabilmente tutti quegli anni di
alimentazione scorretta, di nervosismo e di rabbia le avevano corroso lo
stomaco, ed ora ne pagava le conseguenze.
Beh, Parigi valeva ben una gastrite.
E una nausea tremenda, che la lasciava libera
poche ore al giorno. “Secondo me è lo stress.”
Disse, pelando il frutto.
Jakotsu le mostrò un palmo di lingua, imbiancata di yogurt. “Puoi
dire tutto di me, ma non che sono un capo stressante.”
Lei sorrise, dispettosa. “Infatti sto
parlando del mio coinquilino.”Lo puntò
con il coltellino con cui stava sbucciando la mela: “E delle sue rumorose
nottate brave che mi tolgono il sonno.”
Il ragazzo ridacchiò malizioso, guardando il soffitto: “Si
chiamava Jean-Claude, ed era il modello di biancheria
intima a cui ho fatto il servizio fotografico due
giorni fa.” Assaporò lo yogurt sul cucchiaino chiudendo gli occhi. “semplicemente delizioso”
Masticando il suo frutto, Kagura scosse la testa, ridendo. La
compagnia di quel ragazzo era davvero positiva per l’umore. Jakotsu era
incredibilmente creativo e spontaneo, sempre carico di energia, anche se a
volte un po’ esagerato nelle sue espressioni e nei suoi comportamenti. E poi si
sentiva incredibilmente in empatia con il suo lato malinconico, che emergeva di
tanto in tanto. Jakotsu era un personaggio dalle mille sfaccettature, che
viveva indossando una maschera di risate e leggerezza per nascondere la propria
insicurezza o i propri sentimenti.
E nessuno meglio di lei riusciva a capire quanto fosse pesante quella maschera da indossare.
“E tu, quando decidi di rimetterti in carreggiata?” Gli domandò a
bruciapelo, continuando l’assalto allo yogurt.
“Presto” mentì la donna. In realtà non sentiva affatto il bisogno
di avere un altro uomo, non si sentiva ancora pronta a sostituire Sesshomaru.
Andare a letto con qualcun altro gli sarebbe sembrato un tradimento nei suoi
confronti, anche se, di fatto, la loro storia doveva definirsi conclusa. Ma era così tremendamente difficile
chiudere la porta al passato. A quasi un mese dal suo arrivo a Parigi, Kagura
non si sentiva ancora al sicuro, e nei momenti di solitudine il passato tornava
a tormentarla. Dolce come il miele se le saliva dal
cuore il ricordo di quel’uomo che non riusciva a smettere di sentire suo, Fiele
terribile quando a torturarla a bussava il fantasma terrorizzante di suo
fratello Naraku.
Come ad intuire la sua bugia, Jakotsu cinguettò: “Chiodo scaccia
chiodo. Fai come me, hai visto, come sono bravo a trovarmi compagnia?”
“Forse sei un po’ troppo bravo” borbottò lei, squadrandolo con il
suo sguardo indagatore, dal sopracciglio alzato.
Lui la guardò un attimo interdetto, prima di scoppiare a ridere:
“Ma per chi mi hai preso, per lo scemo della città? Kaguretta,
so bene cosa c’è la fuori, in che guai
potrei cacciarmi. Non mi crogiolo nell’autodistruzione, preferisco cautelarmi!” Sempre ridendo, terminò la
sua colazione. “E con questo, non c’è nulla di male. Ti ho già detto, chiodo
scaccia chiodo.”
“E come faccio a trovarmi un uomo se quelli che mi presenti tu
sono tutti interessati a te?”
“Beh, devi imparare a cavartela da sola, no?”
Kagura sbuffò, tetra. “Non ne ho voglia.”
Jakotsu sospirò che non capiva come una persona non potesse
perdere la libido. “Deve essere questa la vostra famosa sindrome premestruale.” Concluse, rimettendo a posto le stoviglie da lui
utilizzate e dirigendosi verso la porta.
La donna interruppe la sua parca colazione, fissando l’ultimo
pezzo di mela rimasto. Le era sfuggito qualcosa, o no? Alzò gli occhi verso il
calendario appeso in un angolo, stringendo gli occhi per mettere meglio a fuoco
i numeri del mese. “Che giorno è oggi?”
“10febbraio.” Rispose il ragazzo. “Ho una marea di appuntamenti.
Temo che non riusciremo nemmeno a pranzare insieme. E anche stasera dovrai
chiudere il negozio da sola, farò tardino. Ti spiace?”
Assorta nei suoi calcoli, Kagura non afferrò tutta la frase.
Jakotsu, alzando gli occhi al cielo ripeté, e lei annuì distrattamente, mentre
gli occhi rubini tornavano di nuovo al calendario.
“Benissimo, ci vediamo stasera.” Salutò lui, uscendo canticchiando
nella sala. Dopo aver sentito la porta d’ingresso chiudersi, Kagura si alzò e
si avvicinò al lunario appeso.
Gennaio presentava anche una colonna del mese conclusivo dell’anno
precedente.
Con la punta del dito la donnapassò in rassegna i giorni,
sforzandosi di ricordare la data del suo ultimo menarca. Era esattamente a metà
dicembre . Poi più nulla.
“Oh no….” Gemette, portandosi una mano alla fronte. Ci mancava
solo questa. Contò di nuovo i giorni. Ma come poteva essere stata più stupida
da non accorgersi di nulla? Da non tenere conto di questa mancanza?
Che la sua vita fosse stata finalmente sconvolta in quegli ultimi
due mesi era vero; ma, dannazione, addirittura dimenticarsi della sua natura di
donna era troppo!
Grattandosi la fronte, sentendosi improvvisamente senza forze, si
sedette al tavolo. “Ah, smettila Kagura,
di fare la stupida. E’ impossibile.” Anzi, no. In fondo, era anche vero
che, nella fretta della sua fuga da Villa Onigumo,
non era nelle condizioni di pensare a portare con sé la
confezione di pillole anticoncezionali.E quando lei e Sesshomaru avevano fatto l’amore non si erano di certo
preoccupati di usare altre precauzioni.
La donna scosse la testa. No, non era possibile. Semplicemente lo
stravolgimento delle sue abitudini aveva scombussolato il suo organismo. Le
sarebbe tornato il ciclo da un momento all’altro, ne era sicura.
Si affrettò ad uscire di casa, quasi per lasciarsi alle spalle il
dubbio, e percorse la strada per il negozio con più fretta del solito, quasi
correndo.
Aveva la nausea da giorni.
Spesso le girava la testa.
Il ciclo non arrivava.
Ma perché diamine ci si doveva mettere in mezzo anche un problema
simile? Kagura appoggiò i gomiti al bancone e si prese la testa tra le mani.
Aveva voglia di piangere.
Era il suo destino vedere la libertà per cui
aveva lottato scivolarle tra le mani non appena pensava non fosse più
un’illusione?
Non poteva aver faticato così tanto per nulla, questa volta. Ma
doveva comunque togliersi ogni dubbio. Doveva fare un test di gravidanza. Guardò
l’orologio, che segnava mezzogiorno e mezzo. Avrebbe chiuso il negozio e
avrebbe fatto un salto in farmacia.
Si rialzò da quella posizione non appena sentì la porta d’ingresso
aprirsi.
Invece di un cliente entrò Jakotsu sorridendo, in mano un
involucro. “Sono riuscito a liberarmi prima, ti ho portato qualcosa da metterci
sotto i denti!” Appoggiò i pacchetti sul bancone. “Ho anche preso della frutta,
nel caso non ti sentissi ancora molto bene….”
Aggiunse, guardandola bene in volto. “In effetti, non hai per niente una gran
cera.”
Lei annuì, affermando che in effetti non
si sentiva molto in forma. “Ma non è niente, non preoccuparti.”
“Dovresti farti vedere da un medico.” Gli consigliò nuovamente,
prendendo d’assalto il proprio panino.
Kagura annuì nuovamente, mentre si dirigeva verso la vetrina e
girava il cartellino nella scritta FERME’– CLOSE. Ritornò al bancone, accorgendosi di aver fame. Prese un
panino e iniziò a sbocconcellarlo, mentre l’altro le raccontava del servizio
della mattina.
“Una coppia di americani ricchi sfondati, che vogliono tornare a
casa dalla loro luna di miele con un book fotografico da catalogo. Evviva la
spontaneità, dico, ma sai quanto riesco a spennarli?”
Raccontò che aveva passato la mattinata a fotografarli in giro per
Montmartre, per poi riuscire a seminarli in un ristorantino tipico, non prima di una foto sul tavolo sulla
strada. “… e ci manca ancora L’Ile, Place de la
Concorde, La Tour e lesChampesElysées… tutto prima che
cali la luce. A volte Parigi la detesto. E poi questi due… così sdolcinati che
sembrano usciti da uno di quegli insulsi libri per adolescenti!”
“Così melensi da sembrare finti.” Asserì lei.
Il ragazzo annuì con foga. “E comunque potrebbero essere finti.”
Confidò, abbassando il tono della voce come se potessero entrare da un momento
all’altro e avvicinando il viso al suo. “La ricca è lei, è un’ereditiera. Carina, ma tanto oca… e il marito era il suo giardiniere.
Con un fisico da dieci e lode. Ti pare una cosa un po’ costruita?”
Kagura scoppiò a ridere, dandogli della comare pettegola. Lui alzò
le spalle. “Io ho detto solo un mio pensiero.”
La donna sospirò. La sua vita era perfetta, il pensiero di
incrinare quel’equilibrio in cui era stata accompagnata dalle braccia della
fortuna le stringeva il cuore.
Detestava gli imprevisti, erano così dannatamente difficili da
gestire.
“Qualcosa non va?” domandò Jakotsu, masticando l’ultimo pezzo del
panino. “Parlando dei due piccioncini ti ho ricordato
il tuo Leggendario Uomo?”
Lei scosse la testa con forza. “Assolutamente. Era
l’anti-sdolcinatezza per eccellenza. Fortunatamente.”
“Tu hai qualcosa che non va, ragazza mia. Credo sia davvero meglio
che vada a farti visitare. Domani pomeriggio se vuoi
ti accompagno.”
Kagura apprezzò l’interessamento del ragazzo, ma gli rispose che
era adulta e vaccinata, e che sarebbe andata da sola. Sperando che il mio malessere non sia quello che temo.
“Come vuoi” alzò le spalle l’altro. Guardò l’orologio, sobbalzando
sull’orario. “Vado, o l’amichetta di Paris Hilton
avrò una crisi isterica e inizierà a strillare così sottile da sembrare
ultrasuoni.”
“Il che mi ricorderebbe qualcuno…” sorrise la donna, mentre lui,
uscendo, le mostrava un palmo di lingua.
“Ci vediamo stasera, niaise”
Richiuse la porta di casa alle sue spalle, rimanendo per un istante avvolta nel buio, quasi senza rendersene conto,
tanto era immersa nei suoi pensieri. Sempre senza accendere la luce, si diresse
verso la sala, guidata solo dalla luce dei lampioni che filtrava dalle tende
tirate. Una volta arrivata presso il tavolo accese la luce, quindi vi appoggiò
la borsa della spesa sul tavolo e la borsetta. L’apri e, lentamente ne estrasse
la confezione comprata in farmacia. Era arrivato il momento della verità.
Sentiva una certa frenesia in corpo, quasi a volersi togliere il
pensiero il prima possibile. Si diresse in bagno leggendo le istruzioni,
concentrata, il cuore in subbuglio.
Prese lo stick tra le dita e seguì le istruzioni. Quindi, attese,
davanti allo specchio. Studiò il proprio volto, il proprio fisico. La
superficie riflettente la mostrava a mezzo busto. Si guardò il ventre piatto,
cercando di immaginarselo arrotondato. Se lo sfiorò un paio di volte, sempre
scuotendo la testa.
Sospirò più volte.
Lesse sulla confezione che il risultato era assolutamente
affidabile. Cosa avrebbe fatto se quel test fosse risultato positivo?
Avrebbe compiuto trenta anni a giugno, non era di certo una
ragazzina. Ma non si era mai immaginata madre, né sentiva il desiderio di un
figlio. Forse perché aveva altri pensieri in testa.
Guardò lo stick.
Sembrava un alone. No, non era chiaro, sembrava una cosa sbiadita,
quindi non era da prendere in considerazione.
L’alone si fece più scuro. E divenne una linea, netta. Blu.
Kagura si portò le mani sulle labbra, lasciando cadere il test,
soffocando un grido. Sentì la gola bruciare e le lacrime pizzicarle gli occhi,
per poi uscire prepotentemente, seguite dai singhiozzi.
Era incinta.
“Tesooorooooo, sono a caaaasaaaa!” Cinguettò radioso Jakotsu, entrando dalla
porta canticchiando. Kagura, ancora accasciata sotto il lavandino del bagno, se
ne accorse a malapena. E adesso come avrebbe fatto a dirglielo? Sicuramente
l’avrebbe licenziata, se non addirittura cacciata di casa. La sua vista fu
annebbiata nuovamente dalle lacrime, che ripresero a scorrere, mentre cercava
di soffocare i propri singhiozzi premendosi la mano sulla bocca.
“Gli americani mi hanno pagato subito, e in contanti!” lo sentì
spiegare nel corridoio. “Ho preso una bottiglia di quel vino bianco che ti
piace tanto, mi pare un’ottima occasione per festeggiare!” Lo sentì andare
nella sua camera. “Ma dove sei finita, Kaguretta?”
Infine la sua testa castana fece capolino nel bagno.
Kagura non riuscì nemmeno ad alzare lo sguardo da terra. Lui si
avvicinò a lei, preoccupato. “Stai male? Sei svenuta?” gli
chiese, scuotendola dolcemente.
Cercò di sforzarsi a smettere di
piangere, senza riuscirci. Provò ad abbozzare una spiegazione, ma i singhiozzi
le spezzavano il respiro e impedivano alla voce di uscire. Lui le fece segno di
tacere, prendendola sottobraccio ed aiutandola ad alzarsi. “Forse hai avuto un
calo di pressione. Dannazione, Kagura, ti avevo detto di andare da un medico!”
La scortò sino al divano, dove la fece sedere e cercò invano di convincerla a
sdraiarsi. Infine, il ragazzo notò lo stick di plastica che stava reggendo
ancora in mano. “Che cos’è?”
Kagura inizialmente si ritrasse, stringendolo a sé, poi pensò che
non avrebbe avuto senso nascondere la cosa e lasciò
che lui glielo sfilasse di mano. Lo vide scrutarlo senza capire. Conscia che le
sue parole avrebbero scatenato un inferno, ma ormai rassegnata a ciò, la donna
cercò di trattenere i singhiozzi. “E’ un test di gravidanza.”
Jakotsu sgranò gli occhi, senza toglierli dalla linea blu. “E cosa
dice?” domandò, già conoscendo la risposta.
La guardò, incredulo. “Sei incinta?”
Presa nuovamente dai singhiozzi, Kagura non poté far altro che
annuire, tuffando il viso nelle mani.
Rimasero per qualche istante in silenzio, seduti l’uno a fianco
dell’altro, interrotti solo dal pianto di Kagura. Poi il ragazzo le passò una
mano sulle spalle e l’attirò a sé, appoggiando la testa contro la sua.
“E adesso?” domandò, con tono dispiaciuto. “Torni in Giappone?”
Lei tirò su con il naso, asciugandosi le lacrime con le maniche
della maglia. “Non posso” mormorò. “E non è necessario.”
Jakotsu la guardò interdetto. “Ma aspetti un bambino, Kagura.”
Sembrò ricordarle, con dolcezza. “…dovresti crescerlo con suo padre, non credi?”
La donna scosse la testa con decisione, sforzandosi di recuperare
lucidità mentale.Il ragazzo scosse la
testa, portandosi le ginocchia al petto ed abbracciandole. “Guarda che è
difficile crescere un figlio da sola.”il tono pacato divenne improvvisamente cupo e malinconico “Maledettamente
difficile. Te lo posso assicurare. Temi un suo rifiuto? Potrebbe anche non
esserci. Potrebbe anche accettarlo e magari, addirittura esserne contento. Non
vuoi almeno provare?”
La donna scosse la testa, alzandosi dal divano e dirigendosi verso
la cucina. Sentiva lo sguardo del ragazzo seguirla. Prese tra le mani la
bottiglia di vino che Jakotsu aveva appena portato in casa e la stappò, ne
riempì un bicchiere e ne bevve un gran sorso.
“Ma cosa diavolo fai! L’alcol fa male al bambino!”
Lei si voltò verso di lui. Passato l’attimo di panico, di
disorientamento, aveva riacquistato la sua determinazione. Sentiva la sua testa
girare vorticosamente, ma non avrebbe ceduto al suo stato. “Non ha nessuna
importanza, Jakotsu, perché io non crescerò nessun bambino.”
Si guardarono, restando in silenzio.
“Domani pomeriggio andremo da un medico.” Decise il ragazzo.
“Non è necessario che tu venga, Jakotsu. Come ti dicevo oggi, sono
adulta e vaccinata, e posso farcela da sola.”
Lui scosse di nuovo la testa. “Voglio evitare che tu faccia delle
sciocchezze avventate, di cui potresti pentirti.”
Kagura rimase colpita dalle sue parole. Jakotsu era davvero una
persona dai mille volti, e quello che le stava mostrando ora, era quello di un
ragazzo maturo e determinato. Non riusciva ad afferrare bene il perché si
stesse comportando in quel modo, perché sembrava interessato a lei e al suo
stato. Non si rendeva conto che sarebbe stato un peso anche per lui?
“Jakotsu, io non posso né voglio tornare sui miei passi. Voglio
restare qui, voglio continuare a vivere questa vita che mi sto costruendo. E’
la vita che desidero, e ho faticato parecchio, te lo posso garantire, per
essere qui oggi. Non lascerò che una leggerezza distrugga tutto.”
Lo vide sospirare mestamente. “Perché ti preoccupi per questo?”
gli domandò.
Lui alzò gli occhi neri da terra e glieli puntò in faccia. “Perché
dubito fortemente che tutto potrebbe tornare come prima, per te. E
sinceramente, ho sempre creduto che i figli fossero una bella cosa, da avere.”
“Non stiamo parlando di un bambolotto. Stiamo parlando di
responsabilità, di esseri che ti prosciugano la tua linfa vitale, a cui devi dedicarti anima e corpo, a cui devi donare tutta
la tua attenzione.”
Jakotsu alzò le spalle. “Per me non c’è problema, sai. Se hai
bisogno di una mano – e so già che ne avrai bisogno, io sarò sempre e comunque
qui.”
Lei si stupì ulteriormente. “Mi conosci da appena un mese. Non sai
nulla di me…”
“So quanto basta. So che tu hai
sofferto.” Fu la risposta. “E’ una cosa che traspare da ogni fibra del tuo
essere. Eppure, non sei una che si arrende facilmente, sei tenace e decisa. Non
ci vuole un genio per capirlo. E sei una persona fondamentalmente molto sola.
Tanto quanto me. Per questo ti capisco.”
“Tu non sei solo, hai un sacco di amici e…”
“Si può essere soli anche in mezzo alla folla. Anzi, ti dirò, è il
tipo di solitudine più diffuso, e più letale. Sai,
Kagura, io credo nel destino.” Gli occhi gli brillavano, ma non di malinconia o
di pensieri tristi. Brillavano di speranza. “Il destino ha fatto in modo che io
e te ci incontrassimo, qui a Parigi, nella città dei nostri sogni, in un
momento in cui entrambi non avevamo nulla da perdere, in qui entrambi
decidevamo di dare una svolta alle nostre vite. Siamo stati feriti entrambi,
probabilmente in modalità diverse, abbiamo toccato entrambi il fondo. Non dirmi
che non è vero. Però, Kaguretta… quando si raggiunge
il fondo non si può far altro che darsi una bella spinta e risalire. Non è
vero?”
La donna annuì, sentendosi d’accordo in tutta la linea. Era vero,
la sequenza di eventi che l’avevano portata sino a quel punto aveva un che
quasi di sovrannaturale. Guardò
nuovamente il ragazzo di fronte a sé, al suo volto senza maschere, e pensò di
essere stata davvero fortunata ad averlo incontrato. Ma il suo cuore erapesante, si sentiva
tradita da sé stessa. Come poteva perdonarsi un errore così madornale? E poi
c’era un’altra questione, ancora più tremenda, che la stava dilaniando. Vi era
anche la possibilità che quel bambino non fosse di
Sesshomaru, ma che… no, non ci voleva nemmeno pensare. Cercò di scacciare quel
pensiero dalla sua testa, sottolineandolo con un cenno della mano. No, non
poteva davvero tenere il bambino. L’indomani si sarebbe rivolta ad un medico,
ne avrebbe parlato e avrebbe agito. Non avrebbe sopportato una cosa simile.
“Non…non sono pronta a fare la madre.”
“Oh, se è per questo nemmeno io ad essere il padre. Dirò che sono
un semplice donatore di sperma.”
Rimasero per un istante a guardarsi, prima di scoppiare entrambi a
ridere.
Eccomi di nuovo!! Vi avviso, questa
storia potrebbe procedere un po’ a rilento… ultimamente è un periodo un po’
incasinato per me…
Grazie per le recensioni, per i preferiti, grazie, grazie, grazie!!!!
Il
ritmo della metropolitana veniva scandito dalle luci
di emergenza che lampeggiavano a tratti al di là dei finestrini, squarciando il
riflesso dei loro volti sui vetri.
Tu-tutumtu-tutum
Jakotsu
ormai aveva rinunciato a tentare di far parlare Kagura e non poteva far altro
che studiarne il riflesso cupo e stanco, le labbra rosse pizzicate nervosamente
dai denti. Dalla sera precedente, qualsiasi risposta che otteneva non era più
lunga di un semplice monosillabo. Aveva cercato di intavolare una conversazione
già al mattino appena svegli, chiedendole se fosse
riuscita a dormire la notte precedente, o come si sentisse. Di ritorno, aveva
ricevuto solamente uno sguardo torvo attraverso le occhiaie vistose, che gli
sembrava una risposta abbastanza esauriente.
Che cosa le starà passando per la testa,
in questo momento? Si domandò per
l’ennesima volta. Gli aveva ripetuto più volte che era inutile darsi pena per
il bambino, che non l’avrebbe mai accettato e che non l’avrebbe tenuto. La sua
determinazione e il occhi fiammeggianti l’avevano
fatto desistere dai suoi propositi convincitivi.Era soltanto riuscito a strapparle l’accordo
di accompagnarla dal dottore, quel pomeriggio.
Kagura
aveva scelto la dottoressa dopo una breve scorsa all’elenco telefonico. Questa
o quella per lei non faceva la differenza, dato che aveva già preso la sua
decisione.
Eppure…
c’era qualcosa che gli sfuggiva. Qualcosa che non quadrava. Jakotsu non era di
certo un genio, ma aveva il pregio di essere un grande osservatore. Era abituato
a studiare le persone che lo circondavano, semplicemente osservandone i gesti e
i modi di parlare. A volte gli capitava di farlo anche con la gente per strada.
Il motivo vero e proprio non lo sapeva nemmeno lui, a dire il vero. Forse
sentiva semplicemente il desiderio di incontrare una persona che stimolasse la sua curiosità e con cui condividere uno stato empatico, qualcuno che valesse davvero la pena conoscere. Quella
donna era una sfinge dagli occhi enigmatici. E dura come la roccia. La persona
più complessa che gli fosse mai capitato di
incontrare.
Ah,
glielo diceva sempre, sua madre, che sarebbe dovuto diventare uno psicologo…
eppure la trovava una professione così noiosa da non prenderla mai davvero in
considerazione.
Così,
teneva la psicanalisi coatta come hobby, da fare nei momenti vuoti, come mentre
mangiava un panino in un bar o mentre si trovava in una metropolitana. Sembrava
strano, ma non era forse vero che la fotografia, cioè la sua professione, fosse
l’hobby di milioni di persone?
Ecco,
beh, d’altronde lui non era l’antiabitudinario per eccellenza? L’eclettico?
L’imprevedibile?
Il
Weird?
Oh, dannazione, ancora con questa
storia. Si stava stancando del suo
stato piagnucoloso. E isterico.
Piagn-isterico. Bel neologismo, in quale si identificava in quel momento. Piagn: perché non
riusciva ancora a metabolizzare bene la sua “perdita” e sentiva sempre la sua mancanza, e Isterico
perché non riusciva a sopportare tutto ciò.
Per
fortuna che c’era Kagura, a ricordagli che i problemi
erano ben altri, e che lo distraeva. Senza di lei a quest’ora sarebbe
impazzito.
La metro
si fermò ad una stazione. Gente che scendeva dal vagone, gente che saliva. La
maggior parte di loro erano turisti. Tra un paio d’ore sarebbe stato l’orario
di punta dei pendolari che uscivano dagli uffici. Sperò che la visita non
durasse tanto. Se c’era una cosa che detestava era quella di dover prendere la metrò quando era affollata: lo irritava essere pressato
come una sardina in scatola.
Mai
una volta che gli capitasse di essere nello stesso vagone di una
aitante squadra di rugby. O di un team di pompieri. Beh, quello sarebbe
stato indubbiamente più interessante. Si lasciò sfuggire un
sorrisetto sognante, lasciando la mente libera di costruirsi una fantasia.
Quanto era probabile che la nazionale di Rugby dovesse prendere il metrò in
maglietta e calzoncini? Con tanto di palla ovale in mano?
O
che cinque bei pompieri smontassero dalla caserma con ancora indosso le loro
divise, appena sporchi di fuliggine?
“La
prossima fermata è la nostra” lo informò Kagura, dando un’occhiata al foglio
degli appunti. “siamo in perfetto orario.”
Lui
annuì, scendendo dalle nuvole. Quella era un’occasione per dimostrare di avere
i piedi per terra, qualche volta.
“Non
c’è bisogno di nessun controllo, né tanto meno di nessun esame, ho già deciso
di non tenerlo, dottoressa.” Il tono di Kagura era
freddo, controllato, calmo. La frase stonava con l’ambiente circostante:
L’ambulatorio in cui erano stati accolti era un inno alla gravidanza, con le
pareti tappezzate di poster informativi e di foto di avanzamenti fetali.
Jakotsu, sinceramente, li trovava un po’ inquietanti.
“Non
prenda decisioni affrettate, Kagura.”, rispose il medico, invitandola ad
accomodarsi sul lettino e a sollevarsi la maglia, mentre accendeva
l’apparecchio per l’ecografia. “Prima di tutto controlliamo che effettivamente
sia in corso una gravidanza, e di quanto è avanzata.”
Kagura
sembrava tesa e nervosa, mentre la dottoressa le spalmava il gel sul ventre. Il
ragazzo le si sedette di fianco, cercando di
sorriderle confortante, prendendole la mano. Era curioso. “Come le dicevo,
secondo i miei calcoli, non dovrei essere a più di quattro settimane.” Spiegò Kagura.
“Sta
entrando nella quinta.” La corresse la dottoressa.
Voltando verso di loro lo schermo dell’apparecchiatura e indicandogli un punto“Eccolo qui.”
Sia
Kagura che Jakotsu strizzarono gli occhi per cercare
di vedere meglio. Non si riusciva a distinguere granché. La dottoressa ingrandì
l’immagine. “E’ lungo già 2millimetri. Un vero gigante.”
“Ma…
è brutto!” esclamò Jakotsu, deluso dalla foto sfuocata che vedeva sullo
schermo. Si tappò subito la bocca con la mano, certo di aver detto qualcosa di
terribilmente sbagliato, gettando lo sguardo allarmato verso la donna sul
lettino. Lei non sembrava nemmeno essersene resa conto,
assorta com’era dalle immagini.
La
dottoressa, con uno sguardo trionfante, sicura di riuscire a calamitare
ulteriormente la positiva reazione della paziente, premette un pulsante, e un
rumore gracchiante e ritmico provenne dal macchinario.
“Questo, signora, è il cuore del suo bambino.”
Rimasero
entrambi in silenzio, mentre lei gli illustrava la posizione, spiegandogli
quali rischi ci potevano essere sino all’ottava settimana, la più delicata, in
cui si formava il sistema nervoso del feto.
Jakotsu
accarezzò con un dito la guancia di Kagura, non sorprendendosi di trovarla
umida. Era sicuro che avrebbe cambiato idea, quando si sarebbe davvero resa
conto di aspettare un vero bambino.
Alla fine lei avrà qualcuno che l’amerà
incondizionatamente pensò, con una
fitta leggera di invidia.
Ripresa
dall’iniziale stupore, la donna domandò se si potesse
definire precisamente la data del concepimento.
La
dottoressa si avvicinò al terminale, non prima di aver stampato un’immagine
dell’ecografia, e inserì nel computer i dati che Kagura le forniva.
“Il
concepimento è avvenuto tra il 27 dicembre e il 1° di Gennaio.” Rispose, sicura. “Al massimo il 2, verso le prime ore del
mattino”
Invece
di mostrare qualsiasi segno di sollievo, Kagura si infilò una mano nei capelli,
deglutendo faticosamente “Non c’è qualcosa di più preciso?” incalzò. Il ragazzo
notò una nota di panico nella voce. Non si sarebbe messa ancora a piangere,
vero?
La
dottoressa alzò le braccia. “Ha solamente quattro giorni di dubbio…”
“Esiste
un test del dna da effettuare subito?”
“Oh
no, signora, mi dispiace. Il test può essere effettuato solo dopo la nascita
del bambino.”
Lo
sguardo di Kagura scese sulla propria pancia, che pulì delicatamente dal gel
con un fazzoletto di carta.
“Allora
non posso proprio tenerlo.”
Kagura
era sprofondata nuovamente nel suo mutismo. Non aveva parlato più parlato nella
fase finale della visita, né tanto meno durante il tragitto verso casa.
Così
Jakotsu decise di prendere in mano la situazione non appena chiusa la porta
dell’appartamento alle sue spalle.
“Dunque…
non sei così sicura che sia del tuo Leggendario Uomo?”
Lei
annuì con noncuranza, fingendo di trovare interessante il contenuto del
frigorifero e di pensare a cucinare la cena.
Il
ragazzo si appoggiò alla parete, le braccia incrociate sul petto. “E’ pur
sempre tuo figlio.” Mormorò, cercando di mantenere un tono calmo e confortante.
Kagura
sbatté il vaso di sugo che aveva in mano sul tavolo, alzando gli occhi al
cielo, furiosa. “Non è una cosa rilevante.” Sibilò, puntandogli addosso gli occhi infuocati. “Non è una cosa che ti
riguarda, perciò, stanne fuori. Ho già preso la mia decisione, e non tornerò
indietro.”
Un
silenzio pesante riempì la stanza, mentre lei tornava ad occuparsi dei
fornelli, voltando le spalle al suo coinquilino appoggiato alla parete.
“Mia
madre era sposata, quando rimase incinta.” Disse il
ragazzo.
“Mi
fa piacere per lei, ha avuto qualche problema in meno.”
Lui
scosse la testa, sbuffando una risatina. “Non era sposata con mio padre, però.”
Continuò. Notò, con piacere, che Kagura lo stava osservando con la coda
dell’occhio. “Lei e mio padre erano colleghi. E mio padre aveva già famiglia in
Giappone. Si trovava qui a Parigi per lavoro, doveva starci solo un anno. Però
iniziò una relazione con mia madre. Lei stava portando avanti un matrimonio
basato sulla reciproca indifferenza, trascinato semplicemente da qualche pseudo obbligo morale. Credo. In ogni modo, rimase incinta.
Non credo che sapesse subito con certezza chi fosse il
padre, ma comunque accettò il rischio. Era sposata da quasi dieci anni, e
nonostante tutte le cure del mondo non era ancora riuscita ad avere figli.
Forse pensava che non fosse tanto evidente da farlo notare al marito. Ma,
disgraziatamente, i miei tratti orientali si notarono prepotentemente sin dalla
nascita. Tra l’altro, sia mia madre che suo marito erano entrambi biondi, e io
avevo questa zazzera nera come la pece! Se ne sarebbe accorto persino un cieco.
Così suo marito l’abbandonò, proibendole addirittura il suo rientro a casa. Mio
padre era disperato: di certo non poteva aspettarsi che la sua ‘avventura’
avesse questo effetto! Però per i primi tempi accettò di far vivere mia madre
nel suo stesso appartamento. Lei sperava che sarebbe rimasto a Parigi, ma
invece se ne tornò, senza battere ciglio, ad Osaka.”Il ragazzo si avvicinò ad una sedia del
tavolo, la spostò e vi si sedette a cavalcioni.
“Così
mia madre si ritrovò senza casa e con un pargolo strillante a carico. E senza
lavoro, tra l’altro, perché quel bastardo del suo capo aveva fatto i salti
mortali per licenziarla. Anche i miei nonni le avevano voltato inizialmente le
spalle. Erano persone estremamente religiose, reputavano l’intera storia uno
scandalo inqualificabile. Fummo ospiti a casa di vari suoi amici. Qualcuno di loro ne divenne anche amante, più per interesse economico
che per altro. Si arrabattava con lavoretti occasionali, cercando di non farmi
mancare nulla. Poi finalmente, i miei nonni decisero che avevano fatto penare
la figliola abbastanza, e le permisero di tornare presso di loro.
Avevo
5anni, quando sbarcammo a Belle-Ile, il luogo
d’origine di mia madre. E’ un’isoletta molto bella, in Bretagna,
maSouzon, il paese, è piccolo, e la gente
mormorava alle spalle di mia madre. Lei oppose a tutti i pettegolezzi una
stregua resistenza. E ce la fece a lungo. I miei nonni erano terribili, non
facevano altro che rinfacciarle tutto il disagio che le causavamo. Non hanno
mai mostrato qualche segno d’affetto nei miei confronti, e credo davvero che
abbiano permesso a mia madre di tornare solo per renderle la vita un inferno.
Quando dovetti iniziare le scuole superiori le chiesi di tornare a Parigi. Non
ne potevo più di quel paesino piccolo, mormorante e insignificante. Ma non
avevamo abbastanza soldi, mio nonno, tra l’altro, era anche morto da poco. Mi
promise che, se avessi pazientato, sarei riuscito a frequentare l’Università a
Parigi. Fece molti sacrifici, anche io lavoricchiavo a tempo perso, ma mantenne
la promessa, e riuscì a scappare da quel posto. Sarò sempre grato a mia madre
per quello che ha fatto per me. Anche se so di averle
dato un dispiacere, abbandonando gli studi. Mi sarebbe piaciuto davvero
riuscire a restituirle l’immenso favore che mi aveva fatto.”
La
donna l’osservava, appoggiata alla scalcinata cucina. Aveva lasciato perdere
pentole e fornelli e aveva dedicato al ragazzo tutta
la sua attenzione. “E non ce l’hai ancora fatta?”
Lui
scosse la testa, sorridendo tristemente. “Mia madre si è ammalatagravemente, ed è
morta quattro anni fa. Sono solo riuscito a farle passare i suoi ultimi giorni
qui a Parigi, la città che amava più di qualsiasi altro posto al mondo, e che
aveva dovuto lasciare per me.”
“Mi
dispiace… mi dispiace davvero tanto…”sospirò, avvicinandosi e prendendo posto
nella sedia accanto. “Tuo padre è mai più tornato?”
“Oh,
si. Qualche volta. Veniva, ma poi andava. Poi veniva, e andava di nuovo.”
Spiegò, sottolineando con un movimento della mano. “Pensavo di compiacerlo
imparando il giapponese. Ma non è servito a nulla, se non a comprendere gli Anime in lingua originale. Quando mia madre si è
ammalata è definitivamente sparito. Ho provato a contattarlo, ma si è reso
irreperibile.” Cercò di togliere il più possibile il
tono grave della sua voce, che non aveva potuto fare a meno di assumere nel
raccontare di sua madre.
“Quello
che ti volevo dire, Kagura, è che se mia madre si fosse
abbandonata ai suoi timori, io non sarei mai nato. Non sarei qui a
parlare con te, e lei avrebbe continuato la sua bigia quanto sicura esistenza. Con
qualche sicuro rimorso. Lei non ne aveva. Me l’ha detto in uno dei suoi ultimi
giorni: lei non aveva alcun rimorso, avrebbe rifatto tutto da capo.”
Kagura
posò una mano sulla sua, un contatto che apprezzò molto. “…e Bankotsu?”
“Sei
proprio curiosa, eh!” rise lui. “L’ho conosciuto quando
facevo il corso di fotografia e andavo ancora all’Università. Era un ex
compagno di scuola di Suikotsu, sai, il mio rivale.
Frequentavamo il corso insieme, e, sinceramente, avevo anche una mezza cotta
per lui. Mi piaceva quella sua personalità imprevedibile. Mi affascinava il
pericolo. Una sera Suikotsu lo invitò a mangiare una
pizza con noi del corso. Un colpo di fulmine, da parte mia. Lui era davvero
tutto quello che potessi desiderare: bellissimo,
forte, allegro, spontaneo e un amico leale. E un campione di arti marziali,
impegnato a prepararsi per le olimpiadi. Con la scusa del lavoro che dovevo
mostrare a conclusione del corso, gli proposi un servizio fotografico. Ho scattato una cinquantina di foto, in palestra mentre si
allenava. Poi ho scelto la più bella, quella in cui lui stava eseguendo un
esercizio, con i muscoli tesi nella penombra della palestra – l’ho chiamata Forza – e l’ho presentata. Beh, ho
ricevuto un sacco di lodi per quel mio scatto, davvero. E il servizio è
piaciuto tantissimo anche a lui. Mi ricordo che, per ringraziarlo, di quelle
foto ne feci un book e glielo diedi. Iniziò ad uscire con noi, tra un allenamento
e l’altro. A volte osavo addirittura sperare che uscisse con noi perché mi
trovava interessante. Ma mi sembrava impossibile. Era perennemente circondato
da ragazzine in fregola, che non aspettavano altro
che l’occasione buona per saltargli addosso. Occasioni che lui non si lasciava
di certo scappare.
Quando
mia madre morì, fu il primo a venirmi a trovare, e quello che mi stette più
vicino. Anche lui aveva perso sua madre da poco, mi capiva. Una sera, mentre
stavamo radunando le cose di mia madre da portare a qualche ente caritatevole,
ci baciammo. E da li nacque… tutto.”
Le
raccontò di come si sentiva bene con lui, ma anche di come lui avesse messo in
chiaro, sin da subito, che voleva tenere la loro relazione segreta. “Si
vergognava. E’ assurdo ma è così. Avrei dovuto capirlo
sin da subito che non sarebbe stata una cosa buona per me. Mi facevo bastare
quel poco che lui mi concedeva. Un vero idiota, eh?”
“Comprensibile”
alzò le spalle Kagura. Rimasero in silenzio per qualche secondo, con gli occhi
neri del ragazzo che saettavano da un lato all’altro della stanza, indecisi.
Poi si decise. “Ora che ti ho raccontato la mia storia, muoio di curiosità per sentire la tua.”
Lei
inizialmente girò la testa dall’altra parte, quasi risentita delle sue parole.
Sospirò, titubante, abbassando gli occhi sulla superficie lignea del tavolo.
Tamburellò con le dita. “La mia storia è molto diversa dalla tua.” Iniziò. “E non è affatto piacevole da ascoltare, ed è
difficile per me raccontarla.” Sospirò nuovamente,
appoggiando il mento sulle braccia. “Quando avrò finito, capirai perché non
voglio tenere il bambino.”
“Ti
ascolto.”
“La
mia famiglia era –è –molto ricca. Mio
padre era un imprenditore molto importante nel mio Paese, ha proprietario di un
colosso multinazionale. I miei genitori adoravano
letteralmente mio fratello, il loro erede.
Lo viziavano, gli davano ragione in tutto e per tutto. Ed io per loro…beh, ero
l’altra. Nemmeno io sono stata una
bambina cercata e voluta. Sono capitata. Ma per loro non aveva alcuna importanza.
Mio fratello era il loro orgoglio e niente e nessuno poteva abbatterlo. Già da
bambino era arrogante e saccente, insopportabile. Mi considerava la stregua di
un giocattolo, di una bambola, da vessare in ogni modo. E questo suo atteggiamento
peggiorò con l’età.”
Le
braccia della donna erano ora stesse sul tavolo, le nocche strette tra di loro,
bianche. “Lui mi considerava una sua proprietà, e ben presto le angherie di un
bambino viziato divennero i soprusi di un adolescente prepotente, e le
umiliazioni di un giovane violento e arrogante. La prima volta che mi mise le
mani addosso, io avevo quattordici anni e lui diciassette, riuscì a scappare e
corsi dai miei genitori. Loro non cedettero ad una parola di quello che gli
raccontai, ma, anzi, mi accusarono di cercare di rovinare mio fratello, di
provare un’invidia così forte nei suoi confronti da volerlo distruggere. Non
riuscì a sfuggirgli una seconda volta.”
Jakotsu
la guardò a bocca aperta, gli occhi spalancati dal terrore. “Non è possibile…”
“Oh,
invece lo era, lo era eccome. Come ti ho già detto,
mio fratello mi considerava una sua proprietà personale. Ben presto se ne
accorsero anche i miei genitori, ma non fecero nulla, per non creare uno
scandalo, gli chiesero, senza rimproverarlo, di smettere, e cercarono di
tenermi sotto controllo. Di sera mi chiudevano in camera mia, e nascondevano le
chiavi. Una soluzione semplice, no? Quando la situazione stava sfuggendo loro
di mano, e Naraku, mio fratello, era diventato ormai
abbastanza grande da poter definire questa sua ossessione pericolosa, mi
diedero il permesso di venire a studiare a Parigi. I mesi che passai qui sono stati i più belli della mia vita. Ma dovetti
tornare indietro, quando Naraku mi chiamò per
informarmi che i nostri genitori erano deceduti in un incidente con il loro
elicottero. Sprofondai nell’inferno più cupo. Senza mio padre e mia madre, Naraku non aveva freni alla sua ambizione. Mi costrinse ad
accettare un incarico in una delle aziende di famiglia, sotto sua stretta
sorveglianza. Strinse accordi con le più potenti associazioni mafiose della
nazione, e lui stesso divenne uno dei capi fondamentali. Costruiva il suo
impero scellerato sulle mie spalle, facendomi muovere come una marionetta a suo
piacimento, gettandomi tra le braccia di chi credeva utile per una
collaborazione.”
“E
non hai mai cercato di scappare?” il ragazzo era stupito. Mai e poi mai si
sarebbe aspettato un racconto simile.
“Oh,
si. Eccome. Ma, come ti dicevo, ero sotto stretta sorveglianza. L’illimitata
ambizione di Naraku, però, lo portò a voler stipulare
un accordo un un’altra importantissima azienda della
città. Come da copione, mandò me a fare le sue veci, a presentare l’accordo e a
cercare di sedurne il titolare. Cosa che, puntualmente accadde. Ma mio fratello
non aveva fatto bene i conti di chi si trovava davanti. Mi aveva spinto tra le
braccia di un uomo più intelligente e duro di lui; un uomo che non scendeva a
compromessi con nessuno, e che non avrebbe ceduto a alcun accordo, né a nessun
ricatto.”
“Sesshomaru?
Il tuo Leggendario Uomo?”
Kagura
annuì, le dita che si stringevano meno nervosamente tra di
loro, gli occhi che si velavano di malinconia. “Tra me e Sesshomaru nacque
quasi da subito un’intesa. Non credo si potesse
definire amore. Io avevo bisogno di evadere dalla mia realtà quotidiana, e a
lui piacevano le donne e le avventure. Era un appassionato di film di 007. Il
soprannome Vesper
viene da lui. Era il nome in codice che usavamo al telefono. Io lo chiamavo JamesBonde lui VesperLynd. Che
stupidaggine. Ma poi le cose crebbero. Io gli fornivo informazioni su come
ripararsi dai danni che il mancato accordo tra la sua azienda e la nostra gli
avrebbe portato. Diventammo assidui amanti, ci incontravamo ogni giovedì sera,
in segreto. Dovevo uscire di nascosto dalla siepe, per incontrarlo. Con lui
passavo le poche ore libere che potevo concedermi. Le ore in cui stavo bene. Ma
a mio fratello non sfuggirono i nostri incontri. E…
beh, ci tenne a ricordami, con i suoi metodi, che ero proprietà sua.”
Fu
Jakotsu ora a cercare la sua mano e a stringerla convulsamente.
“Ma
fu disattento, e sicuro di avermi sufficientemente ridotta ad uno stato
inoffensivo, ed io non avevo nulla da perdere. Riuscì a sfuggirgli. Calandomi
dalla finestra, ci credi? Dovetti ricorrere alle cure del pronto soccorso… E
dovetti chiamare Sesshomaru, perché il medico di turno si rifiutava di
dimettermi se non fossi stata accompagnata. Ero messa
abbastanza male: costole incrinate e dolori ovunque. Sesshomaru arrivò in un
battibaleno, e mi portò con sé. Credo che mi abbia davvero salvata. Mi ha
aiutato, confortato, ha cercato di tenermi al sicuro.”
“Bravo!”
esclamò il ragazzo. La storia di Kagura era terribile, provava rabbia al
pensiero che il suo feroce aguzzino altro non era che
suo fratello. Ma, allo stesso tempo, le invidiava quel’uomo che, dalle sue
parole, sembrava un principe azzurro uscito dalle fiabe.
“Passai
con lui un paio di settimane, nascosta a casa sua. Sapevo che mio fratello
cercava di stanarmi e che gli stava rendendo la vita impossibile, colpendo
illecitamente la sua azienda. Così decisi di agire. Mi avvalsi della
collaborazione del fratello di Sesshomaru – una testa calda diciassettenne- e
dei suoi amici, e penetrai all’interno della nostra azienda, nottetempo. Filmai
tutto ciò che poteva risultare compromettente. Compreso il racconto di quello
che avevo subito. I ragazzi consegnarono il filmato alla polizia. Spero che sia
andato a buon fine.”
“In
che senso, scusa? Non sai se…”
“No.
Era troppo pericoloso per me, restare dove ero. E avrei trascinato
ulteriormente nei guai Sesshomaru. Così finsi il mio suicidio. Gettai la mia
auto da una scogliera, con alcuni miei effetti personali all’interno,
quella sera stessa. La vita di Kagura Onigumo
finisce lì.
Poi
mi diressi verso un ricettatore che conoscevo, e che aveva reso dei servizi a
mio fratello, e mi feci dare dei documenti falsi. Si, esatto, il mio passaporto
è falso. Infine, il biglietto per Parigi e il primo volo al
mattino.”
Jakotsu
non trovava le parole. Ammirava la forza di volontà della donna, la sua
determinazione, la sua forza. Lui non ne sarebbe mai stato capace. “E’ tutto
incredibile” mormorò.
“Mi
dispiace di averti mentito sulla mia identità.”
Lui
alzò le spalle. “Figurati. Sarebbe stato meglio per te essere una spia russa,
che aver vissuto quella vita d’inferno.”
La
donna annuì, sorridendo tristemente. “Ma ora sono un’altra persona, sono
libera, e non permetterò che la mia vita venga
rovinata.” Il ragazzo l’abbracciò, accogliendo sulla sua spalla il suo pianto
liberatorio. La lasciò sfogare, accarezzandole la schiena.
“Tieni
il bambino, Kagura.”
“Potrebbe
essere il figlio di Naraku.”
“Non
sarebbe colpa di tuo figlio. E poi il padre potrebbe essere davvero Sesshomaru.” La fissò negli occhi gonfi di pianto. “Tu lo ami ancora. Hai
l’opportunità di avere una parte di lui sempre con te. E non è una fortuna che
capita a molti.”
La
donna scosse la testa. “Non posso. Non sarebbe giusto. Non voglio rischiare di
partorire il figlio di una violenza. Come potrei crescerlo?”
“Dagli una possibilità.” Insistette Jakotsu. “Appena nato
faremo il test di compatibilità genetica. Se la compatibilità tra te e il
bambino sarà solo del cinquanta per cento, allora il padre è l’uomo che ami.
Altrimenti…”
Lei
scosse di nuovo la testa. Lui la pregò. “Non meriti rimpianti, Kagura. E così
facendo li avresti. Concedigli una possibilità. Potrai darlo in adozione, se
non vorrai tenerlo, ma non toglierti la possibilità di avere una persona che ti
amerà davvero.”
“Non
è vero che i figli amano sempre i genitori. Io li ho odiati a morte.”
“E’
impossibile odiare una persona come te.” Un lampo di
incredulità balenò negli occhi della donna. “Hai tanto da insegnare, tanto da
dare. Kagura, concediti la possibilità di ricevere quello che meriti.”
La
vide interdetta, senza parole, abbassare di nuovo lo sguardo, stupita.
Di
certo non si aspettava quelle parole da uno semisconosciuto. Jakotsu fu lieto
che avevano avuto un seppur vago effetto. “Riflettici. Te ne prego. Non ti
chiedo di promettermi nulla. Ma pensaci bene.”
Alzando
gli occhi verso di lui, la donna annuì, l’ombra di un sorriso sulle labbra
scarlatte.
“Bene,
per ora può bastare, direi.” Annunciò il ragazzo, alzandosi in piedi.
“Scrolliamoci di dosso tutta questa mestosità…”
“Mestizia” lo corresse
lei, asciugandosi le guance. Lui alzò gli occhi al cielo. “…mestizia, così sia,
e infiliamoci qualcosa sotto i denti. Cosa avevi intenzione di cucinare prima?”
Lei
alzò le spalle. “Il frigo è vuoto, come sempre. Prima spostavo le pentole
giusto per fare qualcosa.”
L’altro,
sospirando, prese il telefono in mano, proponendo una pizza. “Gusti
particolari?” domandò, digitando il numero della pizzeria d’asporto all’angolo.
Ancora
seduta al tavolo, la donna fece un segno vago con la mano. “Doppia mozzarella e
acciughe”
“Bon Soir,
volevo ordinare una pizza con i funghi e una con doppia mozzarella e acciughe…”
“E
peperoni!”
“…Ci
aggiunga anche peperoni, s’il vousplait.”
“E
salsiccia!”
“Se
è possibile anche salsiccia…”
“Facci
aggiungere la rucola e i funghi…ti prego. E’ da un secolo che non li mangio”
“Va
bene, facciamo così: metta tutto quello che è possibile metterci. Salumi,
formaggi, cani, gatti… tutto quello che può. Come? Ah, no, è solo incinta. E ha
già iniziato con le voglie. Pensi un po’, è solo al primo mese… e… come? Ma come
si permette!” strillò, riagganciando con aria offesa
Kagura
gli rivolse uno sguardo incuriosito. “Quel cretino del pizzaiolo ha consigliato
A ME di stare attento, la prossima
volta!” spiegò, livido in volto dallo sdegno.
La
donna non ce la fece a rimanere seria. Scoppiò a ridere di gusto. “Non volevi
fare il donatore di seme?”
Jakotsu
incrociò le braccia risentito: non ci trovava nulla da
ridere.
Ok,
capitolo lungo e tedioso… Scusatemi per questi primi capitoli, erano necessari.
Ora cercherò di rendere la storia più interessante e meno pesante… Ho dovuto
inserire qualche spiegazione, direttametne da This Time Around, per chi non ha
letto la mia precedente Fic da cui è stato tratto il
personaggio di Kagura.
Scusasserolor signore…
Ad
ogni modo, ringrazio sentitamente le mie fedeli recensore. I commenti sono
vitali per me, e non disdegno mai critiche o suggerimenti. Apprezzo
sentitamente.
Grazie
e scusate ancora per questa palla che vi sto rifilando….
Capitolo 6 *** Sixième Chapitre: Mon Amour est dans Mon Reve. ***
La Complainte de la Butte
La Complainte de la Butte.
SixièmeChapitre : Mon amour estdansmonreve.
Premeva le labbra sulle sue disperatamente,
stringendosi a lui in una frenetica preghiera. La risposta che riceveva era il
muto consenso ad esaudire ogni sua richiesta, ogni suo desiderio. Sentiva il
calore delle sue mani, che le percorrevano la schiena con una lentezza quasi
esasperante, attraverso il tessuto lucido del vestito da sera che indossava. Doveva
essere il vino della cena appena consumata a farle girare la testa, o era la
sua sola presenza a farla sentire ad un palmo da terra?
La stanza era indefinita, avvolta nella penombra, i
rumori della festa selvaggia che si stava svolgendo sotto i loro piedi
penetravano a malapena dalle pareti di legno. Il mondo intero era oltre quella
porta, lontano migliaia di chilometri, con i suoi problemi, con il suo dolore e
il suo freddo.
Lui le lasciò libere le labbra per proseguire la
frenetica corsa della sua bocca sul collo, sulla sua spalla, sul suo petto,
mentre lei reclinava la testa, il nome dell’uomo che le sfuggiva, roco.
“Sesshomaru…”
Tuffò le mani tra i suoi capelli candidi, stringendolo
al petto, desiderando solamente il proseguimento quella deliziosa tortura.
L’uomo si sbarazzò della giacca e della cravatta, poi
la sollevò senza il minimo sforzo, con le sue gambe affusolatea cingergli la vita,
e l’adagiò sul letto, come se fosse fatta solo di fragile vetro.
I vestiti scivolarono di dosso uno dopo l’altro.
Le carezze esperte dell’uomo strapparono un altro
gemito alla donna. Lo vide sfoggiare un sorrisetto maliziosamente soddisfatto,
per poi tuffarsi di nuovo su di lei, per percorrere il suo corpo, il ventre
piatto con le labbra, sino ad arrivare ai seni, e alla bocca morbida.
“….Kagura…”
Nella semioscurità vide i suoi occhi serrarsi di
scatto, le labbra contrarsi in una smorfia di dolore malcelata. Si ritrasse
appena: con la mano aveva stretto troppo a sé il suo fianco dolorante. Nella
foga aveva dimenticato i segni che portava ancora sul corpo. Si fermò, sforzandosi
di mantenere il controllo: forse non era il caso…
La donna lo trattenne, le dita serrate all’avambraccio.
“Non smettere, ti prego.” Lo implorò, con la voce
rotta.
Sesshomaru cercò il suo sguardo e lo contemplò a
lungo, prima di ricominciare a baciarla, ancora, e di accarezzarla,
delicatamente, lasciando che la donna si stringesse, quasi a volersi fondere
con lui.
Fuori, il buio della notte fu squarciato dai fuochi
d’artificio della mezzanotte di Capodanno. Sesshomaru volse appena la testa
verso la finestra, prima di tornare a guardarla, le dita che si intrecciavano
tra le sue “Buon anno, Kagura.”
Lei gli rispose
con un sorriso. “Auguri, Sesshomaru”
Aprì gli occhi, feriti da un
raggio di luce che si insinuava nella tenda. Era già mattina? Che ore erano?
Cercò freneticamente l’orologio sulla sedia che usava da comodino, e se lo
portò davanti agli occhi. Ci mise qualche istante per focalizzare l’ora.
Le sei e
mezza. Ancora presto. Aveva un’ora
per cullarsi nei propri sogni.
Posò l’orologio e si posò il
cuscino sulla faccia.
Maledisse Morfeo per essersene già andato lontano. Sbuffando
più e più volte, volse la schiena alla luce, girandosi sul fianco opposto alla
finestra, stretta al cuscino come una bambina al suo orsacchiotto. Era questo
il momento in cui la malinconia tornava a bussarle dolorosamente al cuore. Si
sentiva il petto trafitto da mille spilli.
Quel sogno così coinvolgente…
era un ricordo. Era il ricordo di una passione indimenticabile, che aveva
lasciato il suo segno più profondo su di lei.
Si sfiorò il ventre. E se
fosse stato un segno? Se quel ricordo che le si era
palesato improvvisamente durante il sonno fosse stato un segno del suo stesso
corpo per indicarle la giusta provenienza della vita che stava crescendo dentro
di lei?
Ma che idiozie vado a pensare? Si sgridò. Quasi non si riconosceva: da quando aveva
scoperto di essere incinta era diventata tremendamente irrazionale. Non
riusciva più a ragionare a mente fredda, parlava, decideva, agiva
d’istinto.Dov’è finita la mia mente calcolatrice? E’ questo uno dei sintomi della
gravidanza? Rincretinirsi?
Si rizzò a sedere,
appoggiandosi contro la parete, ormai conscia che avrebbe passato quell’ora a
rimuginare sulla sua situazione.
Ormai doveva prendere una
decisione. Non poteva aspettare ancora.
O si o no. Scegli Kagura.
Testa o Croce. No, davvero,
una decisione così delicata non poteva essere presa in quel modo penoso.
Doveva… pensarci ancora su…
un po’… e…
Yaaaaaahnnnnn…
Come si sentiva stanca… La
gravidanza spossava… Risucchiava l’energia… e…
Beh. Ci avrebbe pensato dopo…
a colazione…
La neve sul davanzale scintillava come se fosse
composta da mille diamanti.
Tutta quella luce penetrava persino dalle sue
palpebre! Si rigirò nel letto, infastidita, togliendo il viso dal petto del suo
uomo, e voltandogli le spalle.
Lo sentì muoversi contro la sua schiena, e un braccio
cingerle la vita.
Le sue labbra si appoggiarono sulla sua nuca,
solleticandogli la cute con il suo fiato caldo.
“…sei sveglia?”
“Mmmmm” rispose come
affermazione, stringendosi di più nell’abbraccio. “Mi da fastidio la luce…”
Sentì il volto di Sesshomaru accarezzarle la spalla
nuda e rabbrividì al contatto.
Aprì gli occhi completamente. “Non è mai successo
tutto questo. Non è vero?” Si voltò verso di lui, con il terrore di vederlo
sparire da un momento all’altro. Incontrò il suo sguardo d’oro, severo.
“Tu lo sai, vero?”
“L’avevo messo in conto. So che i bambini non nascono
sotto i cavoli, Kagura. Sinceramente, la cosa non mi meraviglia più di tanto”
Sfiorò la guancia con le dita. Al mattino era sempre
un po’ ispida dalla barba, a volte lui si strofinava apposta contro la sua
schiena, per darle fastidio. Ora la sentiva liscia e morbida sotto i suoi
polpastrelli. Decisamente quello non era un ricordo. E allora cos’era? “Mi
dispiace…io…”
Lui le premette un dito sulle labbra, facendole
delicatamentesegno
di tacere. “E’ ciò che ti meriti.”
“In che senso?”
“Non riuscirei mai a darti quello che vuoi, ma posso
aiutarti ad ottenerlo. Ti ho aiutata a scappare. Dalla tua fuga hai ottenuto la
libertà. E ora hai solo bisogno di ciò che ti è mancato per tutta la vita.”
Si sentiva un groppo in gola, le lacrime che le
pizzicavano gli occhi. Davvero Sesshomaru le stava dicendo quelle parole? Oh
no…era decisamente un sogno.
“… oltre alla libertà… cosa mi è mancato di più nella
vita? Affetto? Amore?”
“L’hai detto tu stessa.”
Kagura passò le dita tra una ciocca dei suoi capelli.
Al mattino erano sempre aggrovigliati, un tale gesto l’avrebbe infastidito,
nella realtà. Adesso erano seta tra le sue dita. Quella non era la realtà.
“… e tu? Non potresti darmi tu quello di cui ho
bisogno? Non mi ami nemmeno un pochino?”
Lui sospirò, accarezzandole il viso con il dorso della
mano. Con il pollice le delineò il contorno delle labbra rosse. Un gesto
abituale. Sesshomaru era sempre stato palesemente attratto dalle sue labbra. Le
sfiorava sempre, come se il suo tatto fosse il suo senso più sviluppato.
Dunque quella era la realtà?
“Devi trarre le tue conclusioni, Kagura.”
“…dovrei tornare?”
“No.” Mormorò,
facendo scivolare il lenzuolo sui suoi occhi.
Kagura lo tolse di scatto.
Non voleva lasciarlo andare, aveva ancora tante cose da dirgli e…
Luce.
Una piccola stanza colorata.
Parigi. La sua cameretta a Montmartre.
E una voce allegra dall’altro
lato della porta di legno.
“Kagurettaaaa!
Hey, bella addormentata, non chiamo il principe
perché direi ti ha baciato sin troppo!” lo sentì sogghignare.
Si alzò in piedi quasi di
scatto, mentre la testa le girava lievemente. Sentì lo stomaco contrarsi e la
nausea salirle sotto lo sterno. “Arrivo!” gridò. Girandosi per trovare i
vestiti, lo sguardo le cadde sulla borsetta abbandonata su una mensola. Quasi
senza rendersene conto, vi introdusse la mano, stringendo le dita su un piccolo
foglio di carta lucida. Lo estrasse e lo fissò.
Eccolo lì. Un fagiolino
pulsante. Lungo due millimetri, un gigante per le cinque settimane che aveva.
Si sfiorò la pancia, senza
smettere di guardare la foto dell’ecografia.
La prima foto di suo figlio…
… e non l’ultima.
Sorrise. Sentì la morsa al
cuore svanire.
Si, sarebbe stato difficile e
faticoso. E non sapeva nemmeno se ne poteva valerne la pena. Però non l’avrebbe
mai scoperto, se non ci avesse provato.
Si infilò velocemente i
pantaloni della tuta ed aprì la porta. Percorse il piccolo corridoio a piedi
scalzi, sorprendendo Jakotsu ai fornelli, che cercava di far scaldare l’acqua
per il tè. L’abbracciò e gli schioccò un bacio sulla guancia.
Lui la fissò stupito: “Hai
bevuto ancora?” domandò, inquisitore, con un sopracciglio alzato.
Kagura si avvicinò al
frigorifero e fissò la foto dell’ecografia alla superficie di metallo con una
calamita colorata, poi si voltò verso il coinquilino, che la guardava con gli
occhi sgranati e la bocca semiaperta dalla sorpresa.
“Jakie,
ho smesso di bere. Sai, fa male al bambino!”
Il ragazzo si mise a battere
le mani, fuori di sé dall’eccitazione. “Ottima decisione Kaguretta,
brava, brava ma petite!” L’abbracciò
di slancio, per poi allontanarsi e guardarla meglio. “Lo sapevo che dopo averlo
visto avresti cambiato idea.”
La donna spostò lo sguardo
verso la finestra. Nemmeno Jakotsu avrebbe potuto capire cosa le aveva fatto
cambiare idea.
D’altronde, non ne era sicura
nemmeno lei di cosa realmente fosse stato.
Et voilà.
Avevo l’ispirazione stasera.
Adesso – prometto -la storia prenderà un po’ di ritmo.
E’ che sono prolissa nelle introduzioni.
Grazie mille a Jekka e Mikamey per le recensioni!!!
La
donna storse le labbra disgustata,guardando schifata l’insalata variopinta che
aveva nel piatto.
“Cosa
c’è, non ti piace?” le domandò Jakotsu, con una nota di rammarico nella voce
limpida. Quella domenica il pranzo era toccato a lui, e si era messo di impegno
a preparare qualcosa che non facesse venire la nausea alla sua amica. Insalata,
uova e un bel pesce al cartoccio gli erano sembrati un lauto e saporito pasto
domenicale, l’unico che consumavano nella cucina dell’appartamento.
“Sento
strani sapori ovunque” rispose Kagura, sospirando. “Nella verdura c’è uno
strano sapore metallico…”
“Nella
Bibbia troveremo le risposte alle nostre domande.” Dichiarò
solennemente il ragazzo, alzandosi dalla sedia e avvicinandosi ad un libro
appoggiato al tavolino del salotto. Lo prese e lo alzò, con l’aria comicamente
cerimoniale, tornando verso la compagna, che non poteva non sorridere a quella
parodia sacerdotale che il suo amico recitava ogni volta che si avvicinava a
quella che aveva ribattezzato “La
Bibbia”.
Il
libro in questione non era una copia dell’Antico Testamento, bensì un minuzioso
manuale sulla gravidanza, scelto dopo un attento studio dei volumi presenti alla
libreria della FNAC in Place de la Bastille.
Jakotsu lo consultava non appena Kagura notava un qualche
nuovo cambiamento o un nuovo sintomo. Lei, d’altro canto, anche se aveva
accettato il suo stato, cercava di dimostrare il meno interesse possibile,
quasi un distacco innaturale dalla creatura che le cresceva in grembo, e che
sembrava darle di giorno in giorno fitte di timori e
di ripensamenti.
Ma
sulla Bibbia Jakotsu aveva letto che era una cosa normale, soprattutto nei
primi mesi della gravidanza. Era sicuro che la storia sarebbe cambiata per
presto e che la sua amica si sarebbe fatta travolgere dal suo stesso entusiasmo
e dalla sua positività.
Tornando
al tavolo, il ragazzo aprì il tomo e lo sfogliò, attento, mentre la donna
cercava di sbocconcellare qualcosa, nonostante il saporaccio.
“Ecco,
qua!” esclamò vittorioso il ragazzo, puntando l’indice in un punto preciso
della pagina. “Durante i primi mesi si possono presentare alterazione del gusto
e dell’olfatto.” Lesse
“Questo
è vero” asserì lei. “Non riesco più a sopportare il mio profumo preferito. Lo trovo
forte e nauseante. E invece annuserei di continuo il profumo del detersivo per
piatti. E’ inebriante, non credi?”
Lui
alzò le spalle “Sa di limone…”
La
donna allungò il collo verso il libro, chiedendo ulteriori informazioni.
“Anche
i cibi preferiti possono diventare immangiabili, e quelli che hanno sempre
disgustato risultare i più appetitosi.”
“C’est vrai!”
“E
poi dice che potresti avere dei movimenti muscolari inconsueti.”
Lei
lo fissò incuriosita, senza capire.
“Si,
cose che prima non riuscivi a fare. Sul libro descrive un piccolo test. Per
sapere se i tuoi muscoli si stanno alterando, prova a muovere le orecchie.”
La
vide appoggiare la forchetta nel piatto e assumere un’espressione concentrata.
Dopo qualche istante alzò gli occhi verso di lui, che si era nascosto dietro al
libro alzato per nascondere lo sforzo di non scoppiare a ridere.
“Idiota”
sibilò, fingendosi offesa, lanciandogli un chicco del mais dell’insalata.
Il
cellulare del ragazzo iniziò ad intonare insistentemente una vecchia canzone di
Cher. La donna squadrò il proprietario con un
sopracciglio alzato: “Quasi troppo gay per essere vero” commentò.
Con
il medio alzato a darle il proprio parere, Jakotsu si alzò dalla sedia e prese
il cellulare, uscendo dalla stanza.
Era
il numero di Suikotsu. Che strano. Che voleva ora quello Schizofrenico?
“ Allo?”
“Buongiorno, Jakotsu, tutto bene?”
dall’altro capo del telefono, la voce di Suikotsu gli giungeva serena.
“Non
c’è male, grazie. Stavamo finendo di mangiare.” Rispose, entrando nella propria
camera e chiudendo la porta alle sue spalle. Era sempre stato molto geloso
della propria privacy, e di solito una telefonata di Suikotsu non era di certo
per un argomento futile.
L’altro
ridacchiò “Ha smesso di vomitare la tua coinquilina?”
“Si.
Ma temo sia solo una cosa temporanea, ahimè.” La sera
del giorno in cui Kagura aveva deciso di tenere il bambino l’aveva praticamente
trascinata fuori di casa, ed arrivati al locale di Renkotsu, aveva dato
l’annuncio del lieto evento ai presenti al bancone, presentandosi anche come il
donatore di seme, tra l’estremo imbarazzo dell’amica e la giustificata
incredulità degli astanti. Tra cui figurava anche Suikotsu, nervoso(Che agli
occhi di Jakotsu risultava più affascinante) dopo una
giornata frenetica e quattro ore bloccato nel traffico autostradale.
“Ti disturbavo per chiederti se avevi un impegno oggi pomeriggio. Ci sarebbe un lavoro da
svolgere e mi servirebbe una mano.”
Jakotsu
alzò gli occhi al cielo, mugugnando. Aveva promesso a Kagura una bella
passeggiata rilassante, e la giornata era proprio adatta per sdraiarsi al sole
in un parco pubblico a fare commenti acidi in giapponese sui turisti di
passaggio.
“Si
tratta di un lavoro di un paio d’ore… è solo di un servizio a un nutrito gruppo
di facoltosi giapponesi in città per una conferenza. Devono realizzare una
brochure. Credo che gli serva da giustificativo, per dimostrare che hanno anche
lavorato, oltre che a passare dal CrazyHorse al MoulinRouge. Un paio di foto di gruppo, e qualche finta
stretta di mano…”
“…
e mi ingaggi come interprete o come fotografo?”
“Beh… un po’ uno e un po’ l’altro. Sai com’è…
faccio schifo con l’inglese, e di Giapponese conosco a malapena Connisciuà..”
“Konnichi – Wa” lo corresse Jakotsu. “Voglio anche che il mio nome fra i creditsdella Brochure.”
L’altro
asserì. “Non riesco a darti più di un
centinaio d’euro, però.” Ammise.“Nemmeno a me pagano granché.”
Jakotsu
fece spallucce. Poteva bastare, e ne avrebbe ricavato anche un po’ di
pubblicità per il suo negozio.
“Va
bene. A che ora ci troviamo?”
“Vieni
anche tu?” domandò a Kagura, dopo averle spiegato
l’improvviso ingaggio. Lei lo guardò minacciosa. “Stai scherzando vero?”
sibilò. “Secondo te, passerei inosservata IO ad un gruppo di ‘facoltosi giapponesi’?”
Il
ragazzo si grattò la testa, ammettendo la sua mancanza di tatto e l’eccessiva
noncuranza. “Hai perfettamente ragione… Ma se ci fosse
anche…?”
Lei
scacciò quel pensiero con un gesto infastidito della mano. “Non mi interessa.”
Mugugnò.
Jakotsu
cercò di arginare il problema. “Dopo ti mostrerò le foto. Se lui c’è, potremmo fermalo e…”
La
donna gi volse le spalle, sospirando esasperata, e lui non insistette oltre,
passandole però un braccio attorno alla vita e schioccandole un bacio sul
collo. “Scusa”.
Sfiorò
con la mano il ventre della ragazza. “Secondo me
inizia a spuntare qualcosa…”
“Tu
dici?”
Il
ragazzo annuì, invitandola ad alzarsi la maglietta. La studiò un attimo, poi la
fece appoggiare di profilo contro il muro, prese un pennarello nero dalla
libreria e segnò la leggera curva della pancia della donna sulla parete.
“Tu
sei fuori di testa…” nonostante cercasse di nasconderlo, Kagura ne era
piacevolmente sorpresa della sua ultima trovata. Jakotsu terminò il segno
datandolo.
“Et voilà. Ecco l’ottava settimana. Se
continui così alla quarantesima sarai una balena!”
Lei
gli rispose con un buffetto sul braccio. “Vorrei vedere te al mio posto…”
“… oh mondieu, no! Non oso pensare da dove uscirebbe!”
Anche
Kagura storse comicamente le labbra. “Oggi pomeriggio approfitterò del tuo abbandono per dipingere qualcosa en plein air. Mi sento particolarmente
ispirata.” Si avvicinò ad un angolo della saletta, e si armò del cavalletto
portatile, di una piccola tela e si infilò la tracolla contenente la cassetta
dei colori e dei pennelli. “Credo proprio che sceglierò il Canale Saint Martin
come soggetto. Ci andavo sempre ai tempi dell’Università, ma non ci sono ancora
tornata da quando sono qui!”
Jakotsu
approvò, rammaricandosi di non poterla accompagnare. “Cercherò di liberarmi il
prima possibile e di raggiungerti. Mi sento in colpa ad abbandonare una povera
donna in stato interessante”
“Fai
con comodo, non ti preoccupare. Ultimamente non mi capitano più i capogiri
tremendi di prima.” Lo salutò con un sorrisetto quasi
imbarazzato. “Sono incinta, non malata…”
Il
ragazzo le sorrise di rimando, schioccandole un bacio sulla guancia. Da quel
poco che conosceva Kagura, sapeva che si sentiva piacevolmente imbarazzata quando una persona dimostrava un genuino
interesse nei suoi confronti. Essere benvoluta,
coccolata e circondata da affetto e serenità era per lei una cosa nuova, che le
faceva un immenso piacere, ma che non riusciva a dimostrare.
Un passo per volta.
“Ci
vediamo alla Villette?”
Lei
annuì, convinta. “Aspetto un tuo segnale di fumo.” Disse, facendo cenno con la
testa in direzione del suo cellulare. Jakotsu la prendeva sempre in giro per
quel modello datato ed economico che aveva preso in offerta nel primo negozio
di elettronica che aveva incontrato nel tragitto dall’aeroporto all’hotel. Il
ragazzo diceva che era talmente antico da non riuscire ad inviare sms, ma solo segnali di fumo come i
pellerossa.
Con
un ultimo cenno della mano, il fotografo si infilò la giacca, prese la borsa
dell’attrezzatura ed uscì dall’appartamento.
“Solo
un gruppo di giapponesi poteva scegliere l’Hotel Hilton
di Parigi.” Commentò Jakotsu, in piedi su una scala a
pioli per controllare l’angolatura della luce. Suikotsu, che stava pulendo una
lente di un obbiettivo, lo guardò interrogativo. “Il Paris Hilton…” aggiunse, come
spiegazione. Suikotsu scosse la testa, tornando al suo lavoro.
“Dobbiamo
mettere una luce all’angolo là in fondo al tavolo.”Disse poi Jakotsu, diventando serio e
indicando il tavolo dove si sarebbero seduti gli oratori della conferenza.
“Questi specchi riflettono la luce più in alto. I signori seduti al tavolo
sarebbero tutti in ombra.”
L’altro
annuì, spostando il faretto dove gli indicava l’assistente. “Così va meglio?”
Incrociando
le braccia al petto, scrutando il tavolo concentrato, il ragazzo rispose
positivamente. Poi guardò l’orologio. “Ok, siamo
pronti per la farsa. Facciamoli entrare.” Scese dalla scala con un salto, tra
lo stupore del collega, poi, come se niente fosse, anzi, sentendosi compiaciuto
della reazione dell’altro alla sua ‘prodezza’.
Dopo
aver rimesso la scala al proprio posto, il ragazzo si avviò verso la hall dell’hotel per richiamare i partecipanti.
In
verità la conferenza si era tenuta il giorno prima, ma
gli organizzatori non avevano avuto la cura di chiamare un fotografo a immortalare
l’evento. Così, quella domenica pomeriggio, invece di lasciare i partecipanti
liberi di conoscere la città, avevano dovuto riunirsi per inscenare la
conferenza.
Passando
davanti ad uno specchio, Jakotsu gettò uno sguardo alla propria immagine, per
assicurarsi di essere in ordine. Alle sue spalle, in fondo alla sala e con già
la macchina fotografica a tracolla, Suikotsu, tranquillo e sereno, sembrava
fissarlo con la coda dell’occhio.
Ulteriore
punto all’ego di Jakotsu, che si sentì ulteriormente compiaciuto.
“Ti
ringrazio davvero tanto. Non sai come mi sei stato d’aiuto.” Lo ringraziò
Suikotsu, mentre radunavano l’attrezzatura, a lavoro ultimato. “Non sarei
riuscito a fargli capire una benemerita mazza…”
“Oh,
suvvia… non adularmi troppo sennò inizierò ad arrossire.”
Scherzò il diretto interessato. In verità adorava i complimenti, e il collega,
così di buon umore in quella giornata, ne sembrava particolarmente prodigo.
Pensò quasi di flirtare un po’ con lui, tanto per mandare il suo ego alle
stelle, ma gettò un’altra occhiata all’orologio e pensò a Kagura sulle rive del
Canal St.Martin. Chiuse la borsa e la porse a
Suikotsu. “Ora devo proprio andare.” Disse, permettendosi almeno di gettare
all’altro un’occhiata languida. Giusto per non lasciar nulla al caso.
“Oh.
Va bene.” Sembrava dispiaciuto. “Volevo offrirti un aperitivo…”
“Mi
piacerebbe davvero tanto, ma Kagura mi aspetta… se non hai nulla da fare, puoi
unirti a noi, se ne hai voglia…”
L’altro
fece un gesto di noncuranza con la mano. “Sarà per un’altra volta, non ci sono
problemi. Immagino che sarai impegnato anche a cena.”
“Per
farmi perdonare il pomeriggio a lavorare la portavo fuori a mangiare…” rispose,
avendo cura di assumere un’espressione costernata. “Sai… essere un donatore di
seme è dannatamente impegnativo…”
Suikotsu
scoppiò a ridere di gusto. “Che ne dici di domani sera? A LaCoupole a Montparnasse?”
Jakotsu
sgranò gli occhi, non riuscendo a credere alle proprie orecchie. Quello era un
appuntamento con la A
maiuscola! Da Suikotsu non si sarebbe aspettato una mossa così audace. Di
solito era il più timido del gruppo, escludendo ovviamente le sue giornate NO. E una cena a LaCoupole, poi!
Si
sforzò di mantenere il genere dicomportamento che Kagura avrebbe
definito dignitoso, lottando contro il sorriso stupito e compiaciuto che voleva
a tutti i costi allargarsi sulla sua faccia. Pur avendo una certa dimestichezza
con gli appuntamenti, gli risultava stranamente difficile trovare una delle sue
solite battute spiritose che facevano sempre colpo in questi casi. “Molto
volentieri.” Rispose solamente.
“Splendido!”
esclamò Suikotsu. “Allora prenoto per le 8 e mezza.” Infilò la pesante borsa
degli attrezzi nell’auto, senza guardarla. Cosi facendogli scivolò di mano e
cadde a terra. così Jakotsu si chinò verso di lui per aiutarlo. Si fermarono
uno di fronte all’altro, le facce separate da un palmo di centimetri.
Il
ragazzo si trovò improvvisamente spiazzato, con gli occhi persi in quelli
nocciola dell’altro. …e adesso? Non ci
starebbe male un bacio da film… no? Pensò. Lasciagli fare la prima mossa, Jackie…
vediamo cosa succede… Una volta tanto, fatti rincorrere…
“Allora
ci vediamo domani sera?” domandò meccanicamente Suikotsu, senza distogliere lo
sguardo.
Cosa
che invece fece il ragazzo, annuendo e guardando altrove. “Non tarderò…”
Lo
salutò dopo averlo aiutato con la borsa; poi girò i tacchi e puntò dritto verso
l’entrata della metropolitana. Si sentiva scioccamente soddisfatto del
pomeriggio appena trascorso: aveva qualche euro in più nelle tasche, aveva
svolto il lavoro molto bene (al di là dei complimenti del collega lo sapeva già
da sé) e aveva ricevuto una richiesta d’appuntamento.
Non
male.
E
non vedeva l’ora di raccontare tutto a Kagura. A proposito, aveva captato delle
informazioni che le avrebbero interessata, ne era
sicuro.
“Io
ho una cosa che tu non hai. Che cos’è?” Esordì, come
saluto, sbucando alle spalle della donna, che stava giusto rifinendo la piccola
tela, sulla riva del canale. Lei inizialmente trasalì, avendo almeno la
prontezza di riflessi di togliere il pennello dal dipinto.
“Cretino”
sibilò, voltandosi verso di lui e punendolo con una riga di pittura verde sul
naso. “Di sicuro non è il cervello!”
Ridacchiando
e cercando di pulirsi con il dorso della mano, il ragazzo le porse un piccolo
pacchettino di carta. “Direttamente da DebauveetGallais, che a mio parere
è la migliore cioccolateria di Parigi.”
Ritrovato
improvvisamente sorriso e buonumore, Kagura lo perdonò immediatamente,
applaudendo alla bella idea dell’amico, per poi togliergli l’involucro di mano,
aprirlo e infilarsi in bocca una deliziosa pralina al cacao e crema. L’assaporò
mugugnando di piacere. “Il cioccolato non cambia assolutamente sapore…!”
commentò. “E’… poesia! Mangerei solo queste cose…”
Anche
il ragazzo se ne infilò in bocca uno, sedendosi sull’erba di fianco al
cavalletto. “L’ottavo giorno Dio inventò il cacao…”Poi guardò il dipinto in fase di
completamento. Ritraeva il corso del canale, con i suoi sentieri verdi che lo
costeggiavano, una coppietta su una panchina in lontananza che si sbaciucchiava
e un bambino che fissava serio la ruota della propria bicicletta, temendo di
averla bucata. Si congratulò, mostrando il suo solito entusiasmo. “Se ti va,
potremmo venderlo in negozio! Che ne dici?”
“Era
giusto quello che volevo proporti.” Asserì lei, mentre, con il pennellino
sottile, decorava l’angolo in basso del dipinto con quella che sembrava una
stellina rossa con quattro lunghe punte e altre quattro, quelle diagonali, più
piccole. Vedendo lo sguardo incuriosito del ragazzo, spiegò: “E’ la mia firma.
Una rosa dei venti. L’ho sempre messa in ogni mio lavoro.”
“Potrei
farne qualcun altro… sarebbero tutti diversi, così i nostri clienti sarebbero
sicuri di non avere un dipinto di serie!” aggiunse, alzandosi per guardare il
quadro da più lontano, sorridendo soddisfatta mentre
si godeva un altro cioccolatino.
“Sarebbe
un’ottima idea…!” Jakotsu ne era davvero entusiasta. “Ho tantissime cose da raccontarti.” Sorrise
malizioso “Vuoi la parte privata o quella lavorativa?”
“Raccontami
prima quella lavorativa… altrimenti se inizi a ciarlare sulla tua vita privata
si farà notte, e ti scorderai di raccontarmi il resto.”
Lui
incrociò le gambe, giocherellando con le dita e cercando di mantenere l’aria
più naturale ed innocente del mondo. Non riusciva a prevedere la reazione di
Kagura, e quindi era meglio dare un taglio più leggero al racconto.
“Dunque,
prima di tutto: il facchino dell’Hilton ha due occhi
verdi che sembrano dipinti. E due chiappe che parlano.”
Iniziò
a raccontarle di come quei noiosi
giapponesi dovessero essere diretti come se fossero
stati su un palcoscenico. “più gli chiedevo di essere
naturali e più sembravano delle statue. I manichini della Galleria Lafayette sono più espressivi.”
“Temo
che sia proprio un’impostazione nipponica. Dubito lo facessero
apposta a non sembrare naturali…” commentò lei, finendo, con estremo
disappunto, la scatola di cioccolatini.
“Comunque,
Suikotsu mi ringraziava in continuazione. Mi ha addirittura fatto i
complimenti!” Annuì all’espressione stupita della donna. “Proprio così.
IN-CRO-YA-BLE”
Indugiò
sulla noia di dover organizzare le luci della stanza, sull’inadeguatezza del
faretto che avevano a loro disposizione e sulla continua richiesta di
precisione da parte del Presidente della conferenza.
“Poi,
mentre c’era un attimo di stasi perché era cambiata la luce e io stavo
cambiando gli obbiettivi, sono incappato in un discorso di una decina di loro.” Sospirò. “Credo stessero parlando
proprio di te. Il tuo cognome è Onigumo, vero?”
Lei
annuì. La vide lottare contro se stessa, incerta se voler ascoltare il resto
della storia o meno.
“Bene.
Pare che in Giappone sia scoppiato il putiferio a causa tua. Ho sentito che
hanno arrestato tuo fratello, e che un paio di giorni fa c’è stata la prima
udienza del processo a suo carico. Con lui hanno arrestato praticamente tutti i
suoi “soci”, e tanta altra gente è sotto inchiesta. Poi qualcuno ha fatto un
commento su di te… abbastanza pesante… e…”
“Quale
commento?”
Lui
tentennò. “Beh, ha detto che Naraku, tuo fratello,
era giustificato a saltarti addosso… vista la tua … diciamo avvenenza e il tuo essere… diciamo disinibita.”
Kagura
scosse la testa profondamente schifata.
“Si,
hai perfettamente ragione. Non so cosa mi abbia trattenuto dal dirgli qualcosa.
Comunque, non so se lo conosci, ma quel personaggio credo risponda al nome di Morisawa.”
“Certo
che lo conosco, quel viscido figlio di puttana…ci sono dovuta
anche finire a letto un paio di anni fa.”
Jakotsu
provò ribrezzo, al ricordo di quell’uomo calvo e
pingue.“Ad ogni modo… dopo che Morisawa ha fatto
questo spiacevole commento, un altro si è meravigliato comunque di come si fosse trovato coinvolto nella faccenda Sesshomaru No Taisho,
tanto da non venire a questa conferenza.”
Kagura
sembrò trattenere il respiro.
“Da
quello che ho capito lui stesso ha fornito materiale per il processo, e, oltre
a dover presenziare in quanto tutore di uno dei testimoni
chiave – il suo famoso fratellino testacalda
di cui mi hai raccontato, immagino.- è lui stesso testimone contro l’imputato
per quello… che ti ha fatto. Uno dei più importanti. La vostra relazione ha
suscitato molto scalpore. E comunque, si, ti credono tutti
morta. In questo hai fatto un successone. Ti
hanno anche organizzato un funerale, sai?”
Il
cenno di smetterla di Kagura lo interruppe. “Non voglio sapere oltre.” Decretò.
“Smettila di raccontarmi queste cose. Sai bene che non tornerò mai indietro.”
“Va
bene. Mi sono intromesso troppo, scusami. Passiamo dunque alla parte privata?”
raccolto il consenso assoluto della donna, Jakotsu roteò gli occhi al cielo,
ridacchiando. “Suikotsu mi ha chiesto un appuntamento…!” Guardò l’espressione
attonita della donna, la bocca spalancata dallo stupore. “Domani sera, a LaCoupole!Questo
si che si chiama appuntamento! Questo si che è da
cavalieri!”
“Non
ci posso credere!” esclamò, sinceramente colpita.
“Nemmeno
io! è assurdo! Non avrei mai pensato di piacere a
Suikotsu…!”di prese le guance porpora tra le mani. “Ora il mio problema è
trovare qualcosa da mettere domani sera…”
La
donna però non sembrava molto convinta. “E se invece volesse fare spionaggio
industriale?”
Lui
sbuffò: “E smettila di vedere complotti in ogni dove, Kaguretta!
E’ semplicemente affascinato dalla mia bellezza, interessato alla mia arte e…”
“…arrapato
dal tuo sedere…” terminò lei, ironica.
“Continua
ad essere così acida e morirai zitella.”
Lei
si indicò la pancia “Che è conveniente, visti i
risultati. Ho già dato.”
Ciao
Ragazze! Eccomi di nuovo…
Allora:
i Locali che leggete in questo capitolo (libreria Fnac,
ristorante La Coupole, eDebauveetGallais) esistono davvero. Ringrazio la guida di Parigi
della DeAgostini (Baedeker) per l’informazione.
Saltellava da un
piede all’altro come se fosse su un pavimento di carboni ardenti, gettando sconsolati sguardi all’interno
dell’armadio.“Non ho nulla da mettermi…” piagnucolò per l’ennesima volta.
Kagura alzò gli occhi al cielo, prima
di spingerlo via dal guardaroba, e tuffandosi in mezzo ai numerosi capi
d’abbigliamento appesi. Dopo pochi minuti di studio dei vestiti, prese un paio
di grucce e li gettò sul letto, sbrigativa.
“Pantaloni
bianchi. Sicuramente. Sono quelli che ti stanno meglio. A te lascio la
decisione sulla camicia. “ decretò.
“Dici?” Jakotsu sembrava perplesso.“Come se fosse cosa da poco… Non so cosa
mettermi sopra… La camicia nera di seta?”
“Così sembreresti
Tony Manero…”
“Azzurra?”
“Marinaio in
libera uscita”
“Rossa?”
“Non ti ci vedo, Compagno Jakotsu.”
Il ragazzo
sembrava ormai sull’orlo di una crisi isterica. “Vedi che non ho nulla da
mettermi?”
Lei si meravigliò
ulteriormente del nervosismo del ragazzo: era tutto il giorno che andava avanti
e indietro dal negozio guardando l’orologio ogni dieci minuti. Avevano chiuso
con un quarto d’ora d’anticipo perché lui doveva
prepararsi,e arrivato a casa si era
barricato in bagno, cercando in tutti i modi di rubarle la crema idratante, impazzendo
nel constatare che aveva finito il suo profumo preferito e quasi scoppiando a
piangere alla rottura della spazzola per capelli.
“Te l’ho già detto
che sei quasi troppo gay per essere vero?”
“Ho già predetto
che morirai zitella?”
“Jackie, per la miseria,
hai un appuntamento con una persona che conosci da anni e anni, non con Johnny
Depp!” esclamò, additando il poster che il ragazzo aveva affisso alla parete e
che venerava come un’immagine sacra.
Ma lo stato d’ansia
non accennava a diminuire.“Ma è
diverso!” piagnucolò. “E se mi vestissi in un modo che non gli piacesse? E se
l’appuntamento andasse male? Se parlassi a vanvera? Se dicessi cose stupide e
se mi comportassi in un modo che tu non definiresti dignitoso? ”
Per l’ennesima
volta della giornata, a Kagura non rimase altro da
fare che sospirare esasperata. “Non esci con HannibalLecter!”
“Parli cosi perché
non l’hai mai visto arrabbiato.” Mugugnò l’altro. “E tra l’altro è molto più carino…”
Kagura, dopo aver dato un’altra
occhiata all’interno dell’armadio, sospirò:“ Vada per la camicia nera, ma niente pantaloni bianchi. Infilati questo
paio di jeans, che sarai pure a tuo agio.”
Il sorriso tornò
sulle labbra del ragazzo. “Con il cravattino bianco?”
“Dovrai passare
sul mio cadavere per uscire da questa stanza.”
Ridendo
all’affermazione, il ragazzo si decise a infilarsi i jeans. “Tu questa sera
cosa farai?”
“Che tu ci creda o
no, stasera esco.” Rispose lei, senza nascondere una punta di soddisfazione.
Lui la guardò
sorpreso. “Non mi dire che hai un appuntamento pure tu!”
“Tsk! Ma secondo la tua testolina…!
Stasera parteciperò ad una mostra di sculture di bronzo. Ho adocchiato il
volantino ieri mentre andavo a dipingere.”
“Magari, chissà… incontrerai pure l’uomo della tua vita.”
“Certo, lo scultore
del bronzo. Mi ha sempre affascinato come metallo, sai.” rispose ironicamente,
guardandosi allo specchio fingendo un’aria trasognata.
Lui ridacchiò:
“meglio di un uomo che sembra uscito dall’età del bronzo, no?”
“Mah. Tra quello e
il blasonato principe azzurro che tutte sembrano cercare non saprei chi
scegliere.”
La mostra di
sculture di bronzo si era rivelata una noia mortale.Persino per un’anima così sensibile all’arte
com’era Kagura. Quelle figure filamentose e contorte
sembravano esprimere tutt’altri concetti rispetto a quelli esposti sulle
targhette dei titoli.
“Frammento della
solitudine” lesse in uno, per poi studiare perplessa la scultura: una mezza
sfera dal centro dipinto di rosso.Provò
a cambiare prospettiva di vista, ma il risultato della sua interpretazione non
cambiò. Gettò uno sguardo veloce agli altri partecipanti alla mostra, quattro o
cinque personaggi con i medesimi sguardi perplessi, mentre lo scultore, un
sosia male interpretato di Andy Warhol, spiegava con enfasi la propria arte ad
una ragazza che annuiva con aria non troppo convinta.
La donna si trovò
ad invidiare il suo amico, e cercò di immaginarsi l’andazzo
dell’appuntamento.Fissò l’orologio. Le
dieci e mezzo. A quell’ora dovevano già aver finito di cenare, o per lo meno
essere al dolce.
Si era messa
d’accordo con Jakotsu di farle da ancora di
salvataggio se gli avvenimenti avessero preso una piega tragica: ad un suo
squillo sul cellulare, lei l’avrebbe chiamato fingendo allarme per un malore
improvviso e richiedendo il suo aiuto.
Frugò nella
borsetta fiorata e controllò il cellulare. Nessun messaggio, nessuno squillo.
Allora le cose stavano andando per il verso giusto. E bravo Jackie. Pensò, con una punta di orgoglio. Forse Jakotsu sarebbe riuscito finalmente a dimenticare la
precedente storia. Per quanto si sforzasse a negare l’evidenza, ormai Kagura lo conosceva troppo bene.Ma presto le cose avrebbero preso una piega
diversa.
E lei, quando
sarebbe riuscita a dimenticare Sesshomaru?
Sospirò,
sfiorandosi inconsapevolmente il ventre. Forse, una volta partorito, sarebbe
stata assorbita talmente tanto dal nuovo arrivato che non avrebbe più avuto
tempo per pensare a lui.
O forse, ancora
meglio, sarebbe riuscita ad incontrare l’uomo della sua vita. Parigi era
grande, il mondo era immenso, e c’erano tanti pesci nel mare; tanto per
utilizzare uno dei motti di Jakotsu.
Beh, non l’avrebbe
trovato di certo in quel vernissage
semideserto.
Uscì dalla
minuscola galleria che ospitava l’evento, indecisa sul da farsi. Era da sola,
di sera, e di certo mettersi a bighellonare tra le vie di Montmartre non era di
certo la scelta più sensata.
Il suono di un
messaggio arrivato sul cellulare la fece trasalire.
“Qui
tutto benissimo! Non aspettarmi in piedi, probabilmente farò mooolto tardi. Tutto bene a te, ma cherie?”
La donna sorrise,
e si affrettò a rispondere: Anche qui tutto bene. La mostra è uno schifo.
Faccio due passi e poi credo che tornerò a casa. Non osare tornare prima
dell’alba!
Mentre inviava il
messaggio, però, si rese conto di non avere assolutamente voglia di rientrare:
stare a casa da sola la rendeva preda della malinconia e di pensieri tristi.
Guardandosi attorno, ponderò l’idea di sedersi in un qualche locale, di bere un
cocktail analcolico fissando i presenti e di trarne spunto per qualche disegno.
Certo, non avrebbe disdetto nemmeno un po’ di compagnia. Stranamente quella
sera aveva voglia di chiacchierare, e non solo con il suo coinquilino. Si rese
conto che, clienti a parte, erano quasi due settimane che parlava solo con lui,
e anche i contatti con le altre persone che Jakotsu
le aveva presentato erano molto sporadici.
Quindi, giusto per
avere qualche probabilità di trovare qualcuno con cui scambiare due parole,
decise di dirigersi verso il locale di Renkotsu.
Ad onor del vero, Renkotsu non le andava affatto giù. Le sembrava viscido ed
opportunista, e non si sforzava di celare la sua irritazione quando Jakotsu era presente. Come poteva essere simpatico un uomo
che non sopportava una forza della natura come era il suo amico?
Tuttavia, quello
era l’unico posto dove aveva qualche possibilità di incontrare qualcuno di
conosciuto. Entrò nel locale e si sedette al solito posto, sul bancone, notando
la poca gente presente.Oltre ad un paio
di coppiette, abituali clienti del locale, e un gruppetto di mezza dozzina di
uomini in libera uscita, vi era solo una ragazza dai corti capelli a caschetto,
neri, che fissava sconsolata il suo bicchiere mezzo vuoto. Anche lei era
appoggiata al bancone, giusto un paio di metri lontana da lei. Nessuno della
solita compagnia di Jakotsu.
Renkotsu le fece un cenno di saluto.
“Sedotta ed abbandonata?” Le domandò, ironico.
Kagura si sforzò di sorridere. “Oggi
serata libera.” Rispose, ordinando un cocktail alla frutta, analcolico.
“E il tuo cavalier servente dov’è stasera?”
Alzò le spalle,
fingendo noncuranza. “Una cena.”
Lui fissò la
ragazza mora, che si trovava davanti a sé, e le disse, in tono di scherno: “Mi
dispiace, Yura, ma pare che stasera tu sia davvero
l’unica sfortunata in giro.”
Lei gli rispose
con un sospiro. A Kagura fece un po’ pena. Doveva
avere poco più di vent’anni, carina, con un bel fisico asciutto e curato.
Indossava un abitino nero e corto. Forse era reduce da un appuntamento finito
male. Non trovando nulla di meglio da fare, cambiò sgabello e si sedette in
quello vicino al suo.
Salutò. Lei alzò a
malapena la testa, mugugnando un saluto.
“Non ti ho mai
vista da queste parti.” Disse Kagura, non riuscendo a
trovare nessun’altro argomento migliore per intavolare una conversazione.
D’altronde lei non è che ne avesse una grande esperienza, di conversazioni
informali e di conoscenza nei bar. Ma, su imitazione inconsapevole del suo
compagno, si era ripromessa di diventare un po’ più aperta ed amichevole nei
confronti della gente che la circondava. E di sorridere più spesso. D’altronde,
era un periodo in cui l’ottimismo e la positività potevano davvero influenzare
la sua vita.
“E’ da un sacco
che non ci passo” rispose lei, segnando l’orlo del bicchiere con l’unghia
laccata. “Da quando mi sono messa con Hiten, uno stronzo che frequentava altri locali.”
“Finita male, eh?”
“Mi ha mollata per
un’altra. Peggio di così…” sospirò la ragazza. “E il bastardo non ha nemmeno avuto le palle
di venirmelo a dire in faccia. Mi ha dato appuntamento per stasera in un
ristorante, e ha mandato suo fratello Manten, brutto
come la paura, a fare da ambasciatore, che tra l’altro si è offerto di
sostituirlo.”
“E… non hai pensato che il suo amico potesse dirti una
bugia?”
Yura scosse la testa. “L’ho chiamato,
dopo. Era con lei e mi ha risposto
scocciato. E mi ha offerto suo fratello come sostituto. Come se fossi merce di
scambio, capisci? Merce di scambio senza senso estetico, tra l’altro.”
“Fils de putaine…”
“Lo puoi ben
dire.”
Renkotsu allungò a Kagura
l’ordinazione. “Vedo che avete già fatto amicizia.” Ridacchiò. “Forse tu non
sai con chi stai parlando, Yura.”
La ragazza gli
prestò attenzione.
“Lei è Kagura, e probabilmente tu sei l’unica di tutta Parigi, o
quantomeno di tutta Montmartre a non sapere che è la nuova assistente e
coinquilina di Jakotsu.” L’uomo si sfiorò la pancia.
“E futura madre del suo pargolo, a quanto pare”
Kagura lo guardò con odio, mentre Yura la fissava allibita. “Quindi Jakotsu
non è gay?” sembrava quasi offesa.
“Se così non
fosse, allora avrei anche dei dubbi sulla rotondità del globo terrestre”
rispose. “E per quanto riguarda il bambino, stai tranquilla:non c’è stata nessuna generosa donazione. E’
stato concepito con metodo tradizionale, ricorrendo all’attrezzo da lavoro di
un altro esponente della razza maschile.”
Lo sguardo che le
restituì la ragazza fu sorprendentemente compassionevole. “Anche tu sei
incappata in un altro stronzo?”
“Beh… non proprio. Ma è una storia tediosa e complicata.”
Yura sembrava aver riacquistato un
po’ di tranquillità e anche il suo morale sembrava essersi sollevato. “Sai, a
me piaceva tanto Jakotsu, ma quando ho provato a fare
il primo passo, beh, lui è scoppiato a ridere e mi ha fatto notare di non
essere attratto dalle donne.”
“Io sinceramente
non so come faccia.”si intromise Renkotsu, mantenendo
lo sguardo ipnotizzato sulla scollatura generosa della ragazza. “E comunque eri
l’unica a non averlo notato.”
Kagura pensò che non notare le
preferenze di Jakotsu significava essere sordi e
ciechi contemporaneamente.
“E poi abbiamo
litigato perché non gli piaceva il taglio che gli ho fatto.” Aggiunse la
ragazza, quasi mortificata. “Sai, ero la sua parrucchiera. E anche quella del
barman qui presente.”
Renkotsu mostrò fiero la pelata sotto la
bandana nera, e Kagura ripensò alla zazzera ribelle
dell’amico. Forse Yura non era solo beatamente
ingenua, ma anche abbastanza inaffidabile come pettineuse.
Tuttavia, finse
interesse per il suo mestiere, così da togliere dalla piazza un argomento che
si prospettava abbastanza imbarazzante.
Lei si complimentò
per come erano pettinati e ben curati i suoi capelli, e la invitò nel salone di
bellezza dove lavorava.La donna finse
di prendere in considerazione l’invito, ma comunque di rimandarlo a breve
termine per impegni maggiori.
Parlarono per il
resto della serata del più e del meno, e poi fecero anche parte della strada di
ritorno insieme.
Prima di salutarsi
Yura la pregò di salutare Jakotsu
e di chiedergli infinitamente scusa per il taglio di capelli.
Tornando
nell’appartamento deserto, Kagura si sentiva
orgogliosa di sé stessa e contenta, tutto sommato, per la serata trascorsa. La
sua nuova conoscenza era un po’ pesante, questo era vero, ma comunque aveva
dimostrato a sé stessa di poter essere una persona più aperta di quello che
credeva di essere.
Pensò di informare
subito Jakotsu, ma il fatto di non trovarlo in casa
le fece intuire che un suo messaggio sarebbe stato di disturbo, e quindi si
ripromise di riparlarne con lui la mattinata seguente. Sempre che si presenti in negozio. Pensò sorridendo e trovandosi ad
invidiarlo per l’ennesima volta. Si coricò sul suo lettino, scoprendosi
improvvisamente stanca. Si accarezzò il ventre, come buonanotte, e si
addormentò, per la prima volta dopo mesi, senza dedicare un ultimo pensiero a Sesshomaru.
“Bon Jour!”
Esclamò Jakotsu, spalancando la porta del negozio, in
quel momento fortunatamente deserto, e saltellando dietro al bancone, dalla sua
amica, schioccandole un bacio sulla guancia. “Ti sono mancato? Hai avuto paura
a dormire tutta sola?”
Gli rispose che
aveva dormito come un sasso, e che a malapena aveva sentito la sveglia suonare.
“Allora, com’è andata?”
Jakotsu alzò gli occhi al cielo,
mordicchiandosi il labbro inferiore con aria elettrizzata e sognante.
“MA-GNI-FI-QUE!” sorrise con aria ebete, sedendosi su uno degli sgabelli.
“Prima di tutto, la cena: splendida, ottima. A base di pesce. E HA PAGATO LUI!
Non me l’aspettavo! Meglio così comunque, per pagare la cena che abbiamo
consumato avrei dovuto vendere un rene. Poi siamo andati a bere un cocktail.
Abbiamo evitato Renkotsu e i suoi commentini
acidi e siamo andati in un wine bar lì vicino. Un locale piccolo, ma molto
accogliente. Abbiamo continuato a parlare un po’ di tutto, soprattutto – e qui
tu storcerai il naso – di lavoro.
Giuro di aver mantenuto
un comportamento dignitoso. Poi il
discorso è, disgraziatamente, caduto su Bankotsu. Ho
cercato di fingere noncuranza, ma quando Suikotsu mi
ha detto che avrebbe fatto il servizio matrimoniale per poco non collassavo a
terra. Lui l’ha notato, e mi ha spinto a continuare l’argomento.”
“Stai scherzando,
vero? Hai parlato del tuo ex al primo appuntamento con un altro? Ma che ti
passa per la testa, Jackie! Lo so persino io che è la prima cosa da evitare!”
“Si, lo so, lo so.
Ma lui insisteva! Io ho edulcorato molto la cosa. Però…
più parlavo e più si arrabbiava.. . non con me, ma con Bankotsu!
E mi ha detto che gli era insopportabile il pensiero che lui mi avesse fatto
soffrire così tanto.”
“E quindi?”
“E quindi non sono
più riuscito a resistere e mi sono letteralmente spalmato su di lui!”
Prevedibile. Kagura non poté fare a meno di ridere. “Meno male che
volevi aspettare che facesse lui la
prima mossa. Che fine ha fatto la preda che c’è in te?”
“Non esiste. Sono
un predatore, non c’è niente da fare. E comunque, Suikotsu
non si tirava indietro, anzi! Allora mi ha detto che era meglio andare a bere
qualcosa a casa sua. Ha aggiunto di avere una bottiglia di vino italiano che mi
avrebbe fatto impazzire.”
“Oh… adesso si dice vino
italiano?” commentò la donna.
“Beh, c’era anche
il vino italiano. Però quello che mi ha fatto impazzire è stato qualcos’altro.”
Ridacchiò malizioso. “Nella scala da 1 a 10 gli do un bel 9 come voto. Focoso
come piace a me.”
Furono interrotti
da un cliente che chiedeva uno dei piccoli poster sui tetti parigini esposti in
vetrina. Kagura provvide a servirlo, mentre l’altro
fingeva di trafficare con il computer con aria impegnata.
Quando il cliente
uscì, Jakotsu le domandò come mai non avesse ancora
esposto il suo dipinto sul Canal Saint Martin.
“Veramente
l’abbiamo esposto ieri, suonato.” Fece finta di rimproverarlo, colpendolo
gentilmente sulla fronte con il palmo della mano. “L’ho solamente già venduto.
Stamattina, dieci minuti dopo l’apertura. Se tu fossi stato in orario avresti
partecipato al mio piccolo trionfo personale.”
Lui la fissò a
bocca spalancata. “Così presto? Kaguretta, sei un
genio!” L’abbracciò con trasporto. “Te l’avevo detto che quello era un piccolo
capolavoro!”
Kagura ne fu estremamente compiaciuta,
arrossendo sino alla radice dei capelli. “Beh, era solo una turista tedesca che
non voleva portarsi a casa il solito poster” ammise, con falsa modestia.
Ma Jakotsu
non ne voleva sentir ragioni. “Devi farne subito un altro. Se hai l’ispirazione
vai pure, ti lascio la giornata libera.” L’abbracciò di nuovo, facendo una
piroetta. “Diventeremo ricchi e famosi Kaguretta!”
Lei si staccò dall’abbraccio
quasi a forza, frastornata. “L’unica cosa che ho adesso è la nausea…”
Capitolo 9 *** Neuvième Chapitre: le grand comedién ***
La Complainte
de la Butte.
NeuvièmeChapitre: le grand comedién
Oh yes I'm the great pretender (ooh ooh ooh)
Pretending I'm doing well (ooh ooh ooh)
My need is such
I pretend too much
I'm lonely but no-one can tell
Non
riusciva a non cantare,mentre ascoltava
le canzoni dei Queen, anche se stava finendo di ultimare un delicato ritocco a
Photoshop. Ormai conosceva quel GreatestHits a memoria, e poteva abbinare ogni canzone a un qualche
suo momento della sua vita.
I WantitAlle We Will Rock You erano la sua colonna sonora del suo arrivo a
Parigi, con la testa piena di sogni, di buone intenzioni e di ottimismo.
WhoWantsto Live Forevergli ricordava gli ultimi giorni con sua
madre, e The Show Must
Go On l’accompagnava fuori dal cimitero, a funerale finito.
BohemianRapsody
per i tempi dell’Università, e sulle note di Innuendogli tornavano in mente gli incontri clandestini con Bankotsu. Chissà perché, poi. Forse a causa di quell’assolo
di chitarra che suonava alle sue orecchie così liberatorio ed energico.
The Great Pretender,
la canzone che lo stereo suonava in quel momento, calzava perfettamente alla
suo stato d’animo di quel giorno.
Suikotsu,
che finiva di sbucciarsi un kiwi sul lavandino dell’angolo cottura, si voltò
verso di lui, fissandolo sorridendo mentre il ragazzo imbracciava il mouse del
computer come microfono e dondolava la testa a ritmo della musica. Sull’acuto
di FreddyMercury gli si
avvicinò, tuffando le dita tra i capelli ribelli per fargli reclinare la testa
all’indietro, verso di lui, e stampandogli un bacio sulle labbra. “Dovresti
cantare più spesso, sai? Hai una bella voce.”
Jakotsu
gli restituì il sorriso, arrossendo lievemente.E adesso penserà che vado in brodo
di giuggiole ogni qualvolta mi fa un complimento. Pensò. “Se continuo a
distrarmi così, però, non riuscirò mai a finire questa foto.”
“E’
un modo carino per dirmi: lasciami in pace?”
Il
ragazzo alzò una spalla con aria vaga, cercando di stuzzicarlo. “Prendila come vuoi…”
Suikotsu
si lasciò cadere sul divano,e per un
po’ lo fissò in silenzio, mentre lavorava. Conscio dei suoi occhi puntati su di
sé, Jakotsu fece di tutto per rimanere concentrato
sul programma, ignorandolo.
Dopo
pochi minuti di silenzio, rotti solo dalla musica suonata dallo stereo, Suikotsu gli domandò se quella sera sarebbe andato a
dormire a casa sua.
Jakotsu
storse il naso: “Domani Kagura ha la visita di
controllo, al mattino presto, e mi piacerebbe esserci. Se venissi a dormire cheztoi
rischierei di tardare, domattina.”
“E
allora rimango a dormire qui anche stanotte?”
“Così
facendo però Kagura non dormirebbe, non si
riposerebbe e domattina sembrerebbe uno zombie.”
Suikotsu
gli si avvicinò e si mise in ginocchio davanti a lui, guardandolo negli occhi,
serio: “C’è qualcosa che non va, Jackie?”
L’altro
gli sorrise e prese a picchiettare l’indice sulla sua fronte. “Perché? E’ una
cosa che ti innervosisce?” ridacchiò.
“Sei
irritante quando fai così” cercò di togliere il dito del ragazzo dalla sua
fronte, senza riuscirci: quando voleva Jakotsu sapeva
essere veloce e letale, nei suoi dispetti. “Perché vuoi farmi innervosire?”
“Perché
mi piace il tuo lato oscuro e selvaggio, Schizofrenico!”
Finalmente
l’altro riuscì a bloccargli entrambe le mani, attirandolo a sé. “Idiota”
bisbigliò, coprendo un sorriso. “Non svegliare il can che dorme, Jackie.”
Il
ragazzo si morse le labbra per non ridere: bastava così poco, a volte, per
trasformare l’umore di Suikotsu da tranquillo e
sereno a iracondo e furioso. Gli negò le labbra, per provocarlo ulteriormente,
voltando la testa morbidamente di lato, ormai sicuro di averlo in pugno. Ma
invece di avere un qualche scatto impulsivo e passionale, l’altro scosse
semplicemente la testa, divertito. “Sei proprio strano.”
Weird.
Jakotsu
si incupì, ma cercò di non darlo a vedere.
“Perché
mai dovrei innervosirmi dei tuoi dispetti?” Suikotsu
continuava a guardarlo sorridendo, le mani tra le sue. “Quando sono con te è
l’ultima cosa al mondo che mi viene in mente di fare.”
Jakotsu
sorrise malizioso: “L’avevo notato” disse, meritandosi un buffetto sulla
guancia dall’altro.
“Sul
serio. Mi fai sentire sereno, contento.”Finalmente guadagnò le sue labbra. “Felice.” Gli baciò una guancia,
lasciandogli le mani e attirandolo a sé. “Appagato.”
Jakotsu
lo lasciò fare, abbandonandosi all’abbraccio del ragazzo. Aveva quasi voglia di
piangere. Si sentiva il Re degli Stupidi.Lui e Suikotsu stavano insieme da quasi un
mese, ed invece di essere su una nuvola paradisiaca, si sentiva di giorno in
giorno meno interessato, più apatico.
Nonostante
i suoi capricci,le sue bizze e i suoi
sbalzi d’umore, Suikotsu sembrava tranquillo e
sereno, e si mostrava sempre disponibile nei suoi confronti, e non sembrava
pesargli la sua convivenza e il suo rapporto con Kagura:
anzi! Dopo una iniziale e reciproca freddezza conoscitiva, i due sembravano
andare d’amore e d’accordo.
Kagura
pensava che fosse davvero ottimo per lui. “E’ carino, gentile, e sembra molto
preso da te.” Erano state le sue testuali parole d’approvazione.
Jakotsu
sospirò. La sua amica aveva perfettamente ragione: Suikotsu
era un uomo d’oro.
E
allora perché non riusciva a tuffarsi completamente nella loro storia? Si stava
facendo trasportare dal flusso degli eventi. Forse succede così i primi tempi cercò di convincersi per
l’ennesima volta. Soprattutto dopo
un’esperienza come la mia. Sono solo sentimentalmente traumatizzato.
Il
rumore della chiave nella toppa e della serratura che si apriva gli fece
staccare improvvisamente. Kagura entrò, cavalletto
sottobraccio, e quando li vide si arrestò, con la faccia mortificata. “Ops. Scusate, esco subito” disse, facendo cenno di
indietreggiare. Poi però cambiò idea. “Devo andare prima in bagno. Ma voi fate
come se non ci fossi!” gridò, dirigendosi verso la toilette, continuando a
portare il cavalletto di legno con sé.
Suikotsu
sospirò. “Che tempismo… fine momento magico.” Jakotsu alzò le spalle, dandogli un buffetto sulla guancia.
Era colpevolmente sollevato dall’entrata di Kagura.
Tornò a concentrarsi nuovamente sul computer e sul suo lavoro lasciato a metà.
La
donna riemerse dal bagno dopo pochi minuti, con l’inseparabile cavalletto
comicamente trascinato. Approfittando delle spalle che le dava Suikotsu, mormorò all’amico un “Mi dispiace” accorato,
dirigendosi verso la porta. Quasi allarmato, il ragazzo scosse la testa,
facendole cenno di restare. “Non devi affaticarti troppo Kaguretta,
e poi oggi c’è freschino fuori.”
La
donna gli restituì uno sguardo interrogativo, ma appoggiò gli attrezzi ed entrò
in salotto. “Si, in effetti… ormai se ne è andata
anche la luce giusta.” Si avvicinò a Jakotsu, e con
un cenno gli chiese se qualcosa non andasse. Forse aveva notato qualche ombra
scura sulla sua faccia?
Lui
scosse la testa. Poi le fece segno che ne avrebbero parlato dopo.
“Ho
chiesto a Yura di venire a cena da noi, vi spiace?”
domandò, mettendosi comoda sul divano, sotto lo sguardo terrorizzato di Jakotsu, che si toccò involontariamente la zazzera castana.
“Così non faccio la terza incomoda con voi piccioncini.”
“Sei
proprio un elemento di disturbo insopportabile”La canzonò Suikotsu, sedendosi al suo fianco. “Pensavamo
infatti di chiuderti in bagno, mentre noi ci concedevamo una cena a base di
cibo cinese, consumata a lume di candela e con musica lounge
di sottofondo.”
“E
osereste negarmi il riso con pollo e boccioli di bamboo?”
“Certo
che no. Te lo facevamo passare dalla fessura sotto la porta.” Rise l’altro,
gettando un’occhiata a Jakotsu, come a cogliere una
sfumatura di sorriso sul suo volto. Ma il ragazzo pareva serio e concentrato
sul proprio lavoro, e non sembrava assolutamente degnarli di un briciolo di
attenzione. Anche Kagura notò questo atteggiamento,
davvero insolito per il suo amico, che era solito abbandonare qualsiasi cosa
pur di farsi una risata o per una battuta, ma per non far impensierire Suikotsu fece finta di nulla, e brontolò su quanto i due
fossero crudeli nei confronti di una povera fanciulla in stato interessante.
“A
proposito di stato interessante, Jackie mi ha detto che domani avrai la
visita.”
Kagura
annuì, non riuscendo a trattenere un sorriso. “Dovremmo già vederne il sesso.”
“Cosa
preferiresti, maschio o femmina?” domandò Suikotsu,
interessato.
Preferirebbe sapere chi
è il padre, piuttosto. Pensò Jakotsu,
sollevando un sopracciglio e lasciandosi scappare un lieve sbuffo.
La
donna alzò le spalle, indecisa. “Sinceramente non ho molte preferenze in
merito.” Ponderò le due situazioni, e le definì di poca differenza. “Forse femmina…”
“Hai
ragione. Se fosse maschio si sentirebbe solo, qui dentro!” commentò il ragazzo
al computer, con una risatina, mentre gli altri due gli davano dello stupido e
gli tiravano un paio di cuscini.
Il
campanello trillante annunciò l’arrivo di Yura. Jakotsu scattò in piedi, e per poco non rovesciò il
computer portatile a terra.
“Presto,
Suikotsu, prendi un berretto e nascondiamoci i
capelli, prima che quella pazza ci faccia sembrare due mohicani!”
strillò Jakotsu, correndo comicamente verso la
propria camera da letto.
“Si
può sapere che ti prende?”
Kagura
l’aveva acchiappato in corridoio e l’aveva trascinato, con una forza quasi
sovraumana per il suo corpo e il suo stato, dentro al bagno, chiudendo la porta
a chiave per evitare qualsiasi fuga improvvisa.
Jakotsu
fece finta di essere sorpreso e si indicò con aria innocente.
“Ti
conosco abbastanza per riuscire a capire quando c’è qualcosa che ti rogna.” Lo
sguardo della donna era piantato nella sua faccia, a pochi millimetri, alzandosi
sulle punte dei piedi per studiare meglio la sua espressione, che in quel momento
era di terrore puro. “Tu e Suikotsu avete litigato,
forse?”
Impaurito,
senza difese né vie di fuga, il ragazzo fu costretto a scuotere con forza la
testa castana. Alcune ciocche di capelli scapparono dalla forcina e si
liberarono, ribelli, sulla sua testa.
“Allora
hai conosciuto qualcun altro?”
Anche
questa volta negò, la chioma che continuava a sfuggirgli dall’acconciatura.
“Dì
un po’: non si tratterà mica di Bankotsu, vero?” Il tono minaccioso di Kagura gli faceva gelare il sangue nelle vene. Se quelli
erano gli ormoni della gravidanza, allora c’era da sperare in un parto
prematuro: continuando così non sarebbe arrivato vivo a Settembre.
“No…davvero… è che…”
Dall’altra
parte della porta, Yura chiese se andasse tutto bene,
prima di proporsi per andare alla rosticceria cinese all’angolo a prendere la
cena.Entrambi acconsentirono.
“E’
che...?”
Jakotsu
allargò le braccia, sconfitto. “Non lo so… è che… che diamine… non so neppure
più io cosa voglio. Mi piace un lato di Suikotsu che
non vuole più farmi vedere. Adoro il suo lato oscuro…
ma lui dice che io lo rendo sereno e che di arrabbiarsi quando ci sono nei
paraggi è l’ultima cosa che gli viene in mente di fare”
“Dormo
nella camera accanto, me ne sono accorta.”
Kagura gli scoccò uno sguardo di fuoco, sembrando
trattenersi dal picchiarlo selvaggiamente. Girò la chiave nella toppa, aprendo
la porta. “Dovresti parlargliene, davvero. Sono sicura che discutendone
troverete una soluzione.”
Uscirono
in corridoio, con la donna che vestiva un sorriso confortante indirizzato a Suikotsu, che stava apparecchiando la tavola. Guardò Jakotsu con un sopracciglio alzato, per poi scoppiare a
ridere. Lui, un po’ irritato, gli domandò che ci fosse di così divertente. Poi
si guardò allo specchio del corridoio: “Oh mio dio!! Sembro una gorgone…Kagura, guarda come mi
hai conciato, tu e le tue stupide paranoie!” strillò, indispettito, mentre si
infilava le mani nei capelli.
Yura
scelse proprio quel momento per aprire la porta, e nel vederlo così
indaffarato, le si dipinse sul volto un’espressione estasiata. Gettò
l’involucro della rosticceria verso Kagura, che lo
afferrò al volo per pura fortuna, e poi si avventò sul ragazzo, trillando che
ci avrebbe pensato lei a sistemare il tutto. Per tutta risposta, lui si gettò
terrorizzato verso la camera, cercando di barricarsi al suo interno. La ragazza
non demordeva, continuando a spingere la porta, mentre dall’altra parte Jakotsu chiedeva soccorso agli altri due, che invece si
guardavano perplessi, indecisi se mettersi a ridere o a piangere.
“Interveniamo?”
domandò Suikotsu, guardando la ragazza che batteva,
in forza, l’altro, riuscendo a spalancare la porta ed ad entrare nella camera,
da dove iniziarono a provenire rumori di lotta ed insulti di vario tipo e in
varie lingue.
Kagura
alzò le spalle. “Io non posso. Sono incinta.” Cinguettò, accarezzandosi la
pancia per sottolinearlo.
“Cominci
ad usare questa scusa un po’ troppo spesso, per i miei gusti…”
“Dai,
lasciami dormire…” mugugnò, scansandosi quasi
infastidito.
Lui
sembrò sorpreso, ma non insistette, abbandonandosi fra i cuscini. “Credevo che
nel tuo invito a dormire qui ci fosse implicito anche dell’altro.” Rispose, con
tono acido. “Scusa se ho pensato male… eh!”
Jakotsu
avvertì una fetta di senso di colpa. Non aveva senso trattarlo male e cercare
di essere freddo e distaccato. Così facendo l’avrebbe solo fatto soffrire, e di
certo lui non aveva fatto nulla per meritarselo. Si puntellò sui gomiti,voltandosi verso l’altro. “Mi dispiace”
mormorò. Forse aveva ragione Kagura, dovevano
parlarne. Ma come fare? Non era mai stato un asso nei discorsi, né tantomeno ad
esporre problemi o a discutere soluzioni. Non sapeva nemmeno da che parte
iniziare.
“C’è
qualcosa che non va?” domandò Suikotsu, appoggiando
la schiena contro la testiera del letto e guardandolo preoccupato.
Jakotsu
sospirò, facendo un cenno vago con la mano. “E’ una cosa strana, e temo sia
proprio colpa mia.”
L’altro
lo invitò a parlarne, mettendolo ancora più a disagio. Si coricò supino, con le
braccia incrociate dietro la testa, cercando di trovare le parole adatte per
affrontare il discorso senza offenderlo o ferirlo. “Temo che mi piaccia solo un
lato di te.”Si pentì subito di aver
detto quella frase, come sempre era stato troppo diretto e per niente
sensibile. Le parole erano uscite fuori dalla sua bocca prima che riuscisse ad
elaborarle. E, dall’espressione ferita di Suikotsu,
avevano proprio fatto centro. Si alzò a sedere anche lui, chiedendogli scusa.
“Non volevo ferirti. E’che mi è sempre piaciuto il lato di te che non ami
mostrare alla gente comune. Il tuo lato imprevedibile, nervoso. Sono uno
stronzo, lo so, ma non posso fare a meno di preferirlo al tuo essere sempre
così dolce e disponibile.”
Suikotsu
ascoltò in silenzio, torturandosi il labbro inferiore con i denti. “Lotto
contro i miei scatti d’ira da quando ne ho memoria, cerco di fare in modo di
contenermi e di essere un persona normale… e poi tu
mi dici che non ti piace affatto tutto ciò? Sai che fatica faccio? Il mio
psicologo si è comprato l’appartamento con i miei soldi. E quando finalmente
credo di esserci riuscito, ecco che spunta uno stronzetto incontentabile che preferisce la liasondangereuse ad un rapporto vero.” Fece
per alzarsi, ma Jakotsu lo trattenne, domandandogli
ancora scusa.
“Io
ho paura, davvero, di lanciarmi in una storia seria. Sono terrorizzato
dall’idea di vedere calpestati ancora una volta i miei sentimenti. Suikotsu, scusami, ti prego.”
Lui
gli rivolse uno sguardo gelido “Pensi ancora a lui?”
“A
Bankotsu?” Il ragazzo annuì, temendo che la sua
espressione parlasse più delle sue labbra. “Si. No. Forse. E’ che…Bankotsu è sempre stata la
mia ossessione irraggiungibile. La persona che ho amato, per cui ho fatto tanti
piccoli sacrifici, primo fra tutti la mia dignità, per cui mi sono illuso e per
cui non valevo così tanto. Non posso fare a meno di chiedermi cosa ho
sbagliato, perché non sono riuscito a farlo restare con me, e se provasse
qualcosa nei miei confronti. Tutte queste cose, che non potrò mai sapere, mi
tormentano e irretiscono la mia capacità di affezionarmi alle persone.”
“Non
mi pare che non ti sia affezionato alla tua coinquilina.”
“Con
lei è diverso. Prima di tutto, perché non potrei mai innamorarmi di Kagura. Secondo, perché lei è una di quelle poche persone
che hanno tutto la mia stima e la mia fiducia. Il destino ci ha fatto
incontrare, in un modo stranissimo, in una situazione assurda, in un momento in
cui avevamo entrambi bisogno di qualcuno. Lei è tutt’altra cosa.”
Suikotsu
rimase silenzioso, sembrava indeciso se andarsene o meno. Stringeva le lenzuola
tra le nocche, dando la schiena a Jakotsu.
Ecco, abbandonato la
seconda volta sullo stesso letto. Ormai sta diventando una fastidiosa abitudine
pensò,
volgendo lo sguardo fuori dalla finestra. Nessuna luce accesa, nel palazzo di
fronte, nessuna situazione da spiare, nessuna faccia confortante. Kagura probabilmente nell’altra stanza era nel mondo dei
sogni, e non se la sentiva di svegliarla solo per raccontarle del suo
fallimento con una persona per cui poteva essere importante.
Inaspettatamente,
Suikotsu non si mosse per alzarsi. Dopo pochi istanti
si allungò sul letto, verso di lui, attirandolo a sé. Sembrava a dir poco
furioso, quasi trasfigurato. Il cuore di Jakotsu gli
balzò in gola per l’inattesa reazione.
“Ti
prometto che ti farò dimenticare la tua storia con Bankotsu.”
Sussurrò, roco. Sul viso gli si allargò un sorriso indecifrabile, quasi
inquietante. “E festeggeremo questo evento alla grande. Il prossimo mese, ti
porterò ad una festa indimenticabile, vedrai Jackie.” Promise, avvicinandosi.
“Trovo
che sia più che comprensibile una sua reazione del genere.” Commentò Kagura, dopo aver ascoltato il discorso (che comunque aveva
afferrato per lo più a spezzoni la sera precedente, con l’orecchio appoggiato
alla parete della sua camera), mentre scendeva alla fermata della
metropolitana. “Cosa avresti fatto tu nei suoi panni?”
Jakotsu
piegò la testa di lato, mentre una smorfia pensierosa gli si disegnava sul
volto. “Si, forse avrei fatto così anche io.” Chiocciò. “C’è da dire che da
arrabbiato Suiky è davvero un portento!” aggiunse,
alzando il pollice in segno di promozione, mentre la donna alzava gli occhi al
cielo ed emetteva un lamento esasperato.
“L’unica
cosa che non riesco a decifrare è la festa di cui ha parlato. Da dove salterà
fuori? Chissà cosa avrà voluto dire.” Aprì la porta dell’ambulatorio, e salutò
la segretaria della dottoressa, che li fece accomodare direttamente nella sala
delle visite.
“Non
sto più nella pelle…” mormorò Jakotsu,
sorridendo. Anche Kagura si lasciò sfuggire un mezzo
sorriso, ed ammise di essere curiosa.
“Solamente
curiosa? Andiamo, Kaguretta, oggi sapremo di che
colore prendere il fiocco!” cinguettò l’altro. “Sai quanti negozi d’infanzia ho
notato in giro?”
Lei
emise uno sbuffo divertito. “Li ho notati anche io.”
La
dottoressa entrò, salutandoli cordialmente. “Sono contenta di rivederla ancora,
signora.”
“Signorina”
la corresse Jakotsu, meritandosi una gomitata da
parte dell’amica. “Non credo che questa cosa abbia molta rilevanza, no?”sbottò,
coricandosi sul lettino e alzandosi la maglietta come indicato dalla
dottoressa, che rimase per un istante a studiarne le forme arrotondate
“Eh,
già. Ha messo su una bella pancetta.” Se ne compiacque, accendendo la macchina
per l’ecografia e spalmandole il gel. “Vediamo quanto è cresciuto questo
gigante. Dovremmo essere già entrati alla tredicesima settimana, vero?”
Kagura
annuì, iniziando a sentirsi agitata.Ogni volta che pensava alla visita di controllo, temeva di trovare
qualcosa di anomalo nel bambino, e la sera prima aveva faticato a prendere
sonno anche per quel motivo, oltre che per i suoi rumorosi vicini di camera.
“Credo di iniziare a sentirlo muoversi” annuì, pensando a quando, in un
pomeriggio lavorativo, quella piccola vita l’aveva sorpresa, reclamato
attenzione agitandosi dentro di lei.
Jakotsu
lanciò uno strillo indignato, domandandogli perché non gliel’avesse detto
subito. La dottoressa si lanciò scappare un risolino divertito, mentre
accendeva il monitor.
Questa
volta il fagiolino era diventato più grande, non si faceva fatica a trovarlo.
Ed ecco che si vedevano le braccia e le gambe (o, come si lasciò scappare Jakotsu, le zampine), e la sua testolina fare capolino da
dietro il cordone ombelicale.
“Sembra
in forma” ammise Kagura, emozionata. “E’ cresciuto
molto, no?”
“Altrochè, Signorina.
Se continua così avrà un bel pupattolone. E’ in forma
smagliante, tra l’altro. Certo, per esserne sicuri al cento per cento dovremo
fare analisi più accurate, ma così, di prima vista, posso assicurarle che sta
procedendo tutto per il meglio.”
“E
si riesce già a vedere se è maschio o femmina?” domandò impaziente Jakotsu, saltellando su un piede solo per l’entusiasmo.
La
dottoressa fece una smorfia per indicare che era un po’ difficile. “E’ ancora
un po’ prestino” aggiunse, notando l’espressione dispiaciuta del ragazzo. “Ma
alla prossima visita sono sicura che vedremo qualcosa di più.” Lo rabbonì,
prima di fargli ascoltare nuovamente il rumore del cuoricino del piccolo. I due
si guardarono, scambiandosi un sorriso.
“E
adesso passiamo agli esami del sangue.” Gli interruppe, prendendo l’occorrente
per il prelievo.
Jakotsu
impallidì. “Deve proprio usare quell’ago?” balbettò.
“Jackie,
il sangue non ha facoltà di teletrasportarsi nelle provette.” lo canzonò
l’amica, alzandosi la manica.
“Ma
quell’ago è ENORME.” Protestò lui. “Non ne può usare uno più piccolo?”
“Guardi
che questo è l’ago più piccolo e innocente che ci sia.” Spiegò la dottoressa,
divertita. “E le posso assicurare che non lo userò contro di lei.”
“Ci
può scommettere: io non mi faccio infilzare da cosi così lunghi e duri come quello.”
“Avrei
pensato il contrario.” Commentò ironica Kagura.
“Quindi.
Se fosse maschio, che ne dici di André? O Remi?” erano appena entrati in uno
scompartimento della metrò abbastanza sgombro, riuscendo anche ad accaparrarsi
due posti a sedere vicini.
Kagura
alzò gli occhi al cielo. “E questi da dove saltano fuori?”
“Beh,
André, l’amato di Lady Oscar!” rispose, come se fosse una cosa ovvia. “Era così
affascinante con quel ciuffo sugli occhi!”
“Era
guercio” puntualizzò lei. “E gli sparano.”
“Si,
ma prima di morire si fa Lady Oscar! L’unica femmina che sia stata in grado di
procurarmi qualche dubbio circa la mia natura.”
“E
Remi da dove salta fuori?” domandò, fingendo esasperazione. “Oh, no… non mi dire…”
“SI!!
Il Dolce Remi, quello di Senza Famiglia! Ha segnato la mia infanzia…”
“Pensa
un po’, credevo che tu fossi caduto dal seggiolone, invece. Comunque,
scordatelo, è troppo deprimente.”
“Ma
nooo! Era pieno di speranza.”
“Speranza
un corno” strillò lei. “E’ morta più gente in una sola puntata che in tutta la
durata della peste bubbonica seicentesca!”
Jakotsu
mise il broncio, incrociando le braccia al petto. Lei lo guardò, ridendo, e lo
carezzò, prendendolo un po’ in giro. Si sentiva euforica, e non riusciva a
nasconderlo. “Ti prometto che, se si trattasse di un maschietto, lo chiamerò
Jacques” Il ragazzo la fissò interrogativa. “Perché sembra il tuo nome in francese”
“Sciocchina”
sibilò lui, cercando di nascondere il proprio rossore. “Non vedo l’ora che
queste due settimane passino per sapere chi sarà il nuovo arrivato. E se fosse
femmina? Che ne dici di un bel Marianne?”
“Ma
ce l’hai con la Rivoluzione, tu?”
“Avevo
un debole per Lady Oscar, te l’ho già detto!” sospirò, appoggiando poggiando il
mento al seggiolino vuoto di fronte al loro. “Colette? Chantal?”
Kagura
fece una smorfia di disapprovazione. Non aveva ancora pensato ad un singolo
nome. “Vorrei un nome carino e originale. Ma non so ancora quale.”
“Cunegonde è
abbastanza originale per te?”
“Ma
sei sicura che sia un essere umano?” Yura fissava il
fotogramma dell’ecografia senza capire. Alzando gli occhi al cielo, Jakotsu gliela sfilò di mano e la girò nel verso giusto. “Certo
che a guardarlo sottosopra fa un altro effetto di sicuro.”
La
ragazza ora ci si raccapezzava meglio. “Tò! Guarda che
zampettine carine!” pigolò.
“Ma
non sono zampettine! Sono manine. E piedini!” la
corresse Jakotsu, indispettito.
“Beh,
sembrano zampettine di insetto, non trovi?”
Questa
volta fu Kagura a roteare gli occhi all’insù e ad
intervenire, strappandole la foto dalle mani, per attaccarla, al posto dell’altra,
sul frigorifero. “Un po’ di rispetto. Non è ancora nato, o nata, e già
discutete sul suo lato estetico. Vorrei aver visto voi, quando eravate a
tredici settimane di gestazione.”
Il
ragazzo rise: “Secondo me a Yura erano già spuntate
le tette. Deve essere stato semplice scoprire che era femmina.”
“Idiota.”
Sibilò lei, mettendosi inconsapevolmente a posto il decolté. “In ogni caso, Kagura, quand’è il prossimo controllo?”
“Tra
due settimane avrò il risultato degli esami, se tutto va bene sino al prossimo
mese posso stare tranquilla.”
La
ragazza sospirò serena. “Che carina…” cinguettò. “Ma,
scusate la domanda. Dove lo metterete il bambino?”
Gli
altri due si scambiarono uno sguardo interrogativo. “In che senso?” chiese Jakotsu. “nel forno?”
“Ma
no, sciocco! Voglio dire… questo appartamento è così
piccolo per due persone… figurarsi per tre.”
Il
silenzio scese nella casa, mentre i due si guardavano intorno, spaesati, e Yura li fissava, senza credere alle proprie orecchie. “Non
ditemi che non ci avevate ancora pensato…”
Jakotsu
si grattò nervosamente la nuca, Kagura si torturò le
dita, mordicchiandosi il labbro inferiore. “Beh, sai…
è successo così in fretta, e abbiamo avuto così tante cose a cui pensare che…”
“Non
ci posso credere.”
“Però
ha ragione.” Ammise Jakotsu. “Gli spazi saranno un
problema da gestire. Dobbiamo trovarci un altro appartamento, Kaguretta.”
La
donna sospirò, annuendo.
“Oh… ma è un peccato!” piagnucolò la ragazza. “Ho sempre
visto Jackie sempre così legato a questo appartamento, colorato da lui… con tutti questi cuscini…
sarà un trauma per te lasciarlo!”
Kagura
mostrò segni di disagio, uscendo dalla stanza, mentre il ragazzo fissava Yura come se volesse riempirla di botte. “Embè, cosa c’è? Mi dispiace davvero!”
La
raggiunse nella sua camera, dove si era rifugiata, seduta sul letto con un’espressione
smarrita. Si sedette al suo fianco, cingendole le spalle con il braccio. “Suvvia,
Kaguretta, che hai adesso?”
“Non
voglio che tu lasci questo appartamento per colpa mia.” Le vide gli occhi
inumidirsi. “E’ il tuo ChateauJakò,
piccolo, colorato ed eccentrico come piace a te. E io ho rovinato tutto.”
“Ma
scherzi Kagura?” rise il ragazzo, abbracciandola. “ChateauJakò è
ovunque io vada. Certo, ormai abito in questo appartamento da sei anni, mi
dispiace un po’ lasciarlo, ma traslocheremo in una casa più grande, per la
miseria! Cercheremo qui vicino, così non prenderemo il metrò per andare al
negozio, e lo coloreremo tale e quale a questo, così non soffriremo di
nostalgia. Avrai una camera più grande, magari grande abbastanza per infilarci
anche il lettino del piccolo e un armadio più spazioso di questo. E magari con
pareti più spesse, così tu non sarai svegliata dai miei rumori e io non sarò svegliata
dal pianto del bambino. Kaguretta, direi che non
andrà tanto male, no?”
Ma
la donna non smetteva di piangere. “Ti sto costringendo a cambiare la tua vita
e le tue abitudini per me. Sono solo un peso, un ostacolo alla tua storia con Suikotsu e ai tuoi progetti. Sono così mortificata…”
“No,
sei così stupida. Kaguretta, se non facessi queste
cose volentieri, ti rispedirei al mittente con un bel calcio nelle chiappe.
Dai, smettila con questo piagnisteo…”
La
reazione di Kagura peggiorò. “Sono sicura che sia una
femmina” disse, tra un singhiozzo e l’altro, mentre anche Yura,
incuriosita e un po’ preoccupata di aver combinato un disastro, faceva capolino
dalla porta. “E che avrà una marea di problemi. Sarà sempre in pericolo, io
sarò una madre possessiva ed apprensiva e la terrò chiusa in casa, così poi lei
si ribellerà, uscirà di notte calandosi dalla finestra e scapperà con il primo
ubriacone che incontrerà, che la metterà incinta a sedici anni e l’abbandonerà.”
Scoppiò in un pianto disperato. “Così io sarò nonna a quarantasei anni!”
Jakotsu
e Yura si scambiarono uno sguardo basito. Entrambi si
strinsero le spalle, senza sapere bene cosa fare. “Gli ormoni?” suggerì la
ragazza.
“La
depressione dovrebbe essere post parto, non pre!” Poi
staccò le mani dagli occhi bagnati e rossi della donna. “Calarsi dalla
finestra? Ma chi ti ha messo incinta, Indiana Jones?”
Rieccomi con il mio aggiornamento
seriale. A vous madame!Grazie alle mie ‘solite’ e preziose
recensore, non abbandonatemi in mezzo alla tastiera del mio Acer nuovo!
Tic tac, momento di stupidità:
Sto tentando di introdurre, con scarsi risultati, la mia (dolce?) metà al
magico mondo dei manga, ed in particolare di Inuyasha. Quando gli ho raccontato
che Inuyasha, in quanto mezzo demone, per una notte al mese si trasforma in
umano lui ha constatato che non sarei mai potuto andare d’accordo con uno come
lui.
“Perché, scusa?”
“Beh, lui una volta al mese si
trasforma in umano. E tu una volta al mese non sei umana.”
Ho impiegato qualche secondo per
afferrare il senso reale della frase e il velato riferimento che comportava.
Quando l’ho capito ho invocato il Vicodin del Dr
House e una Colt.
E che dire quando su Cultoon (canale di Sky)è passata la puntata dove c’era
quell’emanazione in costume adamitico di Narakulo
senza faccia che andava a rubarla ad altri? (oddio, mi sfugge il nome ora come
ora…)Si è messo a cantare la canzone di Elio e le storie Tese “Tutto nudo e
senza il cacchio” – anche perché in una scena si vedeva che non era solo la
faccia a mancargli.
Capitolo 10 *** Dixieme Chapitre: Croix et Delice. ***
La Complainte
de la Butte.
DixiemeChapitre:
Moonlight, turn your face to the moonlight
Let your memory lead you,
Open up enter in.
If you find there
The meaning of what happiness is
Then a new life
Will begin.
Qualche sera prima, annoiata, aveva
scovato nell’immensa collezione di DVD del suo coinquilino, la registrazione di
CATS. L’aveva infilata nel lettore, curiosa di vedere quel musical di cui aveva
tanto sentito parlare, e di cui conosceva solamente Memory, la canzone più famosa.
Ne era rimasta letteralmente ammaliata.
Aveva trovato le musiche stupende, le parole sublimi, le coreografia
meravigliose. Cosi si era fatta scaricare la colonna sonora e l’aveva inserita,
in ripetizione, nella musica di sottofondo che ascoltava in negozio. In poche
ore d’ascolto, la sapeva praticamente a memoria, e canticchiava in
continuazione, mimando le gesta degli interpreti quando era da sola.
Non sapeva se fosse merito della musica
o del bel tempo fuori dalla vetrina del negozio, oppure degli ormoni in
circolazione, o tutte quante queste cose messe insieme, ma quel giorno si
sentiva davvero in forma. La nausea sembrava averla abbandonata, e l’appetito
si era prepotentemente impadronito di lei. La scorta personale di yogurt alla frutta
di Jakotsu era stata spazzolata in poche ore. Ma era
sicura che il suo amico avrebbe capito, e poi, comunque, glieli avrebbe
ricomprati quella sera stessa. E poi
aveva anche venduto un altro dei suoi quadri: La cupola del Sacre Coeur illuminata dal sole del tramonto.
Specchiandosi in una vetrinetta, che
stava pulendo dalle ditate di un cliente appena uscito, si trovò davvero bella.
La pelle del viso era più luminosa e fresca. Non aveva nemmeno più l’ombra di
una singola occhiaia, e anche i capelli erano più brillanti. E poi c’era la
pancia, che stava prepotentemente spuntando e che giorno in giorno le regalava
la sorpresa di un vestito più stretto. Due giorni prima, per mancanza d’altro,
si era dovuta infilare una camicia di Jakotsu. E
l’inquilino della panciotta tonda non faceva altro
che scalciare e attirare la sua attenzione. “Se sei un maschietto, sarai di
sicuro un calciatore. O forse un Rugbista. Cos’era, una spallata quella che mi
hai dato prima?”gli disse. Già un paio
di clienti le avevano fatto gli auguri e si erano complimentati per il suo
stato interessante.
Se
solo Sesshomaru mi vedesse ora… pensò,
sospirando. Poi si riscosse: bando alla mestizia! Quel pomeriggio l’esserino nella sua pancia avrebbe avuto finalmente un sesso
e, forse, anche un nome. “Finalmente la
smetteremo di fare i misteriosi, eh?” Aggiunse, accarezzandosi il ventre.
Jakotsu entrò
baldanzoso dalla porta, squittendo un “Ciao Tesoro!” decisamente allegro.
Splendida cosa, e anche abbastanza rara, essere entrambi di buon umore nello
stesso momento.
“Ma ciao, cara” rispose Kagura con un sorriso. “Ho
una buona e una cattiva notizia per te. La buona è che mi sento davvero in
forma strepitosa. La cattiva è che i tuoi preziosi yogurt con lo zero per cento
di grassi sono misteriosamente scomparsi”
Il ragazzo spalancò la bocca più che
poteva “Tutti?” Si gettò verso il
piccolo frigobar nel retrobottega per controllare di persona, emettendo un
sibilo scontento. “Ne hai mangiati CINQUE in un colpo solo??”
Lei annuì, colpevole. “una buona cosa
che io abbia appetito, no?”
“MA!Il gusto fragola era il mio
preferito!”
“Anche quello del bambino! Dovevi sentirlo,
si muoveva tutto contento!” Batté una mano sulla spalla dell’amico, che
continuava a guardarla contrariato, borbottando qualcosa sulla sua dieta
interrotta.
“Jackie,
smettila con questo piagnisteo o mi verrà il mal di testa. E sai cosa mi
succede quando ho il mal di testa, vero?”
“Sbagli
candeggio al bucato e mi rovini la sciarpa di Hermès.”
La
donna rise di gusto. “Bravo, vedo che hai imparato la lezione.” Prese la
borsetta e si avviò verso l’uscita. “Fai il bravo in mia assenza, mi
raccomando.”
“Sicura
di non volermi con te, questa volta?” gli domandò, sentendosi in colpa, il
ragazzo, mordicchiandosi il labbro inferiore.
Lei
scosse la testa, sorridendo dolcemente. “Devi fare un book fotografico molto
importante. E non puoi perderlo, calcolando le spese che dovremo affrontare.
Non c’è problema per me andare da sola”
“Promettimi
che ti farai scrivere il sesso del bambino su un foglietto che apriremo solo
quando saremo insieme…”
Kagura
gli concesse questa libertà. “Farò anche spesa, nel frattempo. Preferenze per
la cena? Ci sarà anche Suikotsu?”
Il
ragazzo storse la bocca, arrabbiato. “L’uomo dei misteri? Non so proprio dove
sia, anzi una mezza idea ce l’ho. Ieri sera mi ha detto che oggi sarebbe andato
a fare un servizio fuori città e che sarebbe tornato domani, ma si è rifiutato
di dirmi dove andava e per cosa.”
“Strano
da parte sua. Di solito ti racconta vita, morte e miracoli dei suoi servizi.
Temi che ti abbia rubato della clientela?”
“Assolutamente
no. Sono strasicuro che sia andato a Lille da una nostra conoscenza”
La
donna se ne stupì, e domandò all’amico se non credesse di essere un po’
paranoico, a volte. Jakotsu, come risposta, scrollò
la testa. “Ho naso per certe cose: sono sicuro che oggi avevano i provini per
le foto di nozze.”
“E
quando sarebbe il matrimonio, scusa?”
“Sabato
3 Luglio. I provini è sempre giusto farli un po’ in anticipo.” Spiegò,
sospirando, non riuscendo a nascondere una smorfia sconsolata. “Ho letto che il
suo allenatore è molto preoccupato per le gare perché il matrimonio potrebbe
togliergli concentrazione dagli allenamenti. Bankotsu
punta alla medaglia d’oro, ed è il favorito per le Olimpiadi di Atene. Dal
canto mio, spero che si spacchi un piede mentre sale sul tatami al primo incontro.”
“Comprensibile”
commentò Kagura, prima di congedarsi e uscire dal negozio.
“Ed
ora… suspance…”
Jakotsu
sembrava vibrare sulla sedia della cucina, con le mani attorcigliate tra di
loro che gli sorreggevano il mento. Non smetteva di fissare la donna che gli
sventolava davanti al naso una busta.
“Non
sai quanto sono stata tentata di leggere, ma mi sono trattenuta, posso
assicurartelo. La dottoressa ha visto che gli esami sono perfetti, il bimbo è
sano come un pesce e anche a me va tutto bene. Manca solo questa parte.”
“E’
una cosa sicura?”
“Certamente,
al cento per cento. Vuoi aprirla tu?”
“No,
no ti prego, dimmi tu! Ma sbrigati, non sto più nella pelle!”
Kagura
accondiscese, aprendo la busta lentamente, senza staccare gli occhi dal
ragazzo. Sarebbe meglio sapere chi è il
padre, e non il sesso. Pensò, cercando di nascondere la sua agitazione. Ad
ogni modo, per quanto si sforzasse di essere realistica e di mantenere un certo
distacco dalla creatura che stava crescendo dentro di lei, in quei mesi non
riusciva a non parlare alla propria pancia e a immaginarsi il bambino. D’altronde,
lui o lei non aveva colpa alcuna.
Si
schiarì la voce con un colpetto di tosse, spiegando il foglio e cercando la
riga esatta tra i risultati degli esami.
Quando
lesse la lettera nella casellina, il cuore le mancò di un battito. Le salirono
le lacrime agli occhi, e si morse le labbra, passando il foglio di carta a Jakotsu, che la guardava pendendo dalle sue labbra. “Sta
per nascere Madamigella Oscar, Jackie”
“Una
bambina?”
Lei
annuì e il ragazzo, dopo uno strillo acuto ed entusiasta, gli si lanciò al
collo, abbracciandola. “E’ una bimba, Kagura! Ci sarà
una Kagurettina in giro per casa tra un po’!” Saltellò,
tenendole le mani. “Non sei contenta?”
“Anche
se so che avrà una vita più dura e più amara di quella di un uomo…” la donna sospirò, non riuscendo a trattenere un
sorriso. “…sono contenta di non causare la nascita di
un esponente di una razza infame com’è quella maschile.”
Jakotsu
incrociò le braccia al petto, offeso. Lei gli tirò un buffetto sulla guancia.
“Stavo davvero parlando di maschi veri, Jackie…”
Lui
le mostrò un palmo di lingua, poi si avventò sul cellulare, per scrivere un
messaggio a Suikotsu. “Ora dovremo trovare anche un
nome.”
Ah,
già, è vero. Il problema nome. Lo sguardo di Kagura
cadde su un giornale gettato in un angolo della cucina: “E’ meglio se troviamo
prima casa…”
La
pancia dell’agente immobiliare era molto più sporgente di quella di Kagura, e il riporto che sfoggiava sembrava essere passato
sotto le grinfie di una Yura particolarmente
ispirata.
Per
questo, durante i tre appartamenti precedentemente visitati, non erano riusciti
a concentrarsi sugli immobili, bensì seguitavano a tirarsi gomitatine
e occhiatine e a scoppiare a ridere, nascondendosi la faccia con i depliant
dell’agenzia.
“Questo
appartamento è stato per anni l’atelier di un pittore e di sua moglie stilista…” iniziò a spiegare il venditore, camminando con
aria ispirata per il corridoio del palazzo che portava all’appartamento.
“Immagino
che il ruolo di moglie stilista tocchi a me, giusto?” risposte l’altro, con un
buffo gemito esasperato. “Mi dolgono le ginocchia!”
Quando
entrarono nell’appartamento entrambi ne furono favorevolmente impressionati.
Era fornito da una soggiorno di comode dimensioni, illuminato da un’ampia porta
finestra che dava su un piccolo balconcino.
La
cucina era molto piccola, ma le due stanze da letto erano entrambe
matrimoniali. Un bagno e un piccolo studio, grande quasi quanto la camera
attuale di Kagura, completavano l’appartamento.
“Direi che questo non è male, vero?” apprezzò Kagura.
Jakotsu
notò che tutte le pareti erano bianche. “Un po’ strano da parte di una coppia
di artisti. Per caso il padrone non lascia colorare le pareti?”
L’uomo
si tolse gli occhiali tondi. Sembrava sudare imbarazzato, pulendosi le lenti
con un panno estratto dal taschino della giacca. “Oh, no, sono state imbiancate
dopo che i precedenti inquilini l’hanno lasciato.”
“Come
mai se ne sono andati? Avevano un appartamento a MontMartre,
così bello, all’ultimo piano, luminoso e con un affitto così accessibile, non
vedo motiviper andarsene…”
incalzò il ragazzo, guardandosi attorno.
Il
disagio dell’agente immobiliare era quasi imbarazzante. “Beh, ecco… Divergenze inconciliabili. Possiamo riassumerlo
così.”
“Oh,
hanno divorziato. Mi dispiace!” esclamò la donna, rapita dal balconcino. Già si
vedeva, con i suoi attrezzi, a dipingere sul suo piccolo terrazzino fiorito.
Per fortuna che la statistica dei divorzi in Francia era così alta!
“A
dire la verità non è proprio finita nei migliori dei modi.” Tossicchiò
l’agente, infilandosi di nuovo gli occhiali e fissando ostinatamente un punto
imprecisato del pavimento. “Per essere sinceri, la stilista ha trovato il
marito pittore a letto con una delle sue modelle, ha sparato ad entrambi ed ha
utilizzato il loro sangue per decorare l’appartamento. Non è stata una visione
fantastica quella che si sono trovati davanti i poliziotti.”
Kagura
e Jakotsu si guardarono con occhi sbarrati.Rimasero immobili per un paio di secondi, poi
la donna notava che il balconcino era troppo piccolo per essere comodo come
atelier, e Jakotsu trovava un difetto nella vasca da
bagno.
“E
poi sento qualcosa… come delle vibrazioni negative,
non è vero, Kaguretta?”
“Si,
esatto. Anche io mi sento con il fiato sul collo.”
Kagura
sembrava aver gettato la spugna, per quel giorno. “Non troveremo mai
l’appartamento perfetto. Non ci sarà nessun altro ChateauJakò.”
“Oh,
suvvia, stiamo cercando da un solo giorno. Di appartamenti a MontMartre ce ne sono a bizzeffe, vedrai che ne troveremo
uno che non sia stato una scena del crimine.”
“O
che non abbia un bagno con la doccia sopra il water”
“E
senza finestre ad un metro da quella della vicina sguaiata e cicciona.”
Entrambi
sospirarono, all’unisono. “Il cerchio si stringe…”
commentò il ragazzo. Si abbandonò sul divano con la posta in mano. Scartò i
volantini pubblicitari, storse il naso a vedere una bolletta, constatò con
piacere nell’apprendere di un piccolo versamento da parte di un cliente sul suo
conto corrente ed infine aprì una busta. “Arriva da Belle-Ile”
spiegò. La lesse velocemente, poi roteò gli occhi al cielo ed imprecò.
Kagura
gli domandò cosa avesse.
“I
miei inquilini del negozio di Belle Ile chiudono
l’attività: mi hanno appena mandato la disdetta dell’affitto.” Notando lo
sguardo interrogativo della donna, a Jakotsu venne il
dubbio di non avergliene mai parlato. “A Souzon, il
paese di Belle Ile da dove provengono i miei nonni,
ho ancora la loro casa e il negozio sottosante – sai, loro avevano una piccola
drogheria.L’appartamento – anzi, gli
appartamenti, ho ereditato anche quello della sorella di mia nonna, quella
vecchia vipera che sapeva di marcio quando era ancora in vita – li do in
affitto per le vacanze estive, e il negozio con l’attività di droghieri
l’avevano in gestione una coppia del posto. Che palle. Soldi in meno. Proprio
ora!”
Sentì
Kagura sedersi di fianco a lui e cingergli le spalle
con un braccio. “Su, piccolo Jackie, troverai un altro affittuario, non
disperare.” Gli schioccò un bacio sulla guancia. Lui le rispose con un timido
sorriso: “Hai ragione, farò esporre il cartello e vedrai che qualcuno avrà una
buona idea per aprire un negozio.” Sfregò la mano sulla pancia della donna,
ridendo. “Sono sicuro che la pupattola ci porterà fortuna, non è vero?”
Il
cellulare del ragazzo attirò la sua attenzione e lui, squittendo, già dimentico
della preoccupazione di pochi istanti prima, l’afferrò al volo, rispondendo
alla chiamata di Suikotsu.
Rimasta
sola, la donna si interrogò sul proprio futuro, domandandosi per l’ennesima
volta se la strada che stava percorrendo fosse quella giusta. Aveva la
responsabilità di una bambina sulle spalle, già nell’occhio del ciclone ancor
prima di nascere. Se fosse rimasta in Giappone, vivendo sempre con il terrore
di essere scoperta? E se la sua denuncia, il suo video, avessero davvero
sortito un effetto bomba come aveva sentito Jakotsu
alla conferenza? Sesshomaru sarebbe rimasto con lei?
Ma a che prezzo? E che peso sarebbero state per lui? Sospirò per l’ennesima
volta: Sesshomaru avrebbe accettato una figlia che
poteva non essere sua? Detestava avere
la testa affollata di domande a cui non riusciva a trovare risposta. Si
accarezzò il ventre “Tu lo sai già chi è il tuo papà?” domandò. Il calcio ben
assestato che le inferì la bambina poteva prenderla come una risposta positiva?
Buona
Pasqua a tutti!!!
Ringrazio,
come sempre, Mikamey per la recensione. Sono sempre
ben accette, così come le critiche, purchè siano costruttive!
Capitolo 11 *** Onzieme Chapitre: Crying At the Discoteque ***
La Complainte
de la Butte.
OnziemeChapitre: Crying at the discoteque.
“Finalmente
scopro la tua sorpresa!” Esclamò Jakotsu salendo
sulla Citroen C4 di Suikotsu con l’aria di chi sta
morendo dalla curiosità: “Sei molto bravo a fare il misterioso sai?”
Suikotsu alzò solo un sopracciglio,
inserendo la marcia. Avevano cenato in un ristorante greco vicino alla Gare de Lyon, e ora stavano percorrendo
Quai de la Rapee, in
direzione del centro.
“Almeno dimmi in
che quartiere si trova.” Pungolò il ragazzo, trovando il sorrisetto comparso
sul volto dell’altro tutt’altro che rassicurante.
“Marais. Sarò magnanimo e ti dirò pure la strada: Rue duBourg-Abbé.” Jakotsu ci pensò un attimo, grattandosi il mento. “LesBains-Douches!”
esclamò, infine.
“Bravo!”
“Uau! È da un sacco che non ci vado! Bravo Suiky, hai avuto davvero una bella idea!” scrocchiò le
dita, come per prepararsi ad una serata movimentata. “Il massimo sarebbe che ci
sia anche un tavolo prenotato per noi…” abbozzò.
L’altro annuì.
“Esattamente. Dovremo però dividerlo con dei miei vecchi amici, ti scoccia?”
Jakotsu alzò le spalle “Non mi da
affatto fastidio, sono contento che mi porti un locale così trendy!” ridacchiò,
voltandosi verso l’altro, mordicchiandosi l’unghia del pollice tra il
civettuolo e il giocoso. “E il dopo party a casa tua?”
“Se ne avrai
voglia” tagliò corto Suikotsu, cercando di arginare
il traffico cittadino.
“Per favore,
evitiamo i soliti squittii acuti che solo tu sai fare” raccomandò, entrando nel
locale. “Sai bene quanto mi infastidiscono in pubblico.” Jakotsu
storse le labbra, scontento. “So bene di dovermi comportare in modo ‘civile’”
Aprì la porta
dell’ingrasso, gettandosi sorridente in mezzo alla gente già presente nella
discoteca. Salutò con un cenno della mano una sua vecchia fiamma, senza soffermarsi
in convenevoli inutili, con Suikotsu al suo fianco.
L’altro si guardava continuamente intorno, guidandolo verso i tavoli a bordo
pista.
“Hey, ma guarda chi c’è, Mukotsu!”
esclamò, agitando le braccia nel vedere uno dei membri della compagnia che meno
si prestavano alla vita notturna.
Dall’espressione
ebete con cui rispose l’altro, sembrava sorpreso di vederlo tanto quanto lui.
Anzi, sembrava addirittura agghiacciato dal notare che si stavano avvicinando a
lui. E a suo fianco, con la stessa identica espressione di stupore e terrore, spiccava
l’imponente figura di Ginkotsu, ex giocatore di Rugby
ritiratosi prematuramente a causa dei troppi infortuni
“Ragazzi, che
facce! Sembra non siate affatto contenti di vedermi!” pigolò, cercando di
nascondere un certo nervosismo che la reazione dei suoi amici gli aveva creato.
Qualcosa non andava. Di certo Mukotsu era sempre
sulle sue, un tipo taciturno e riservato, ma Ginkotsu
era uno dei suoi amici “storici” uno dei primi che aveva incontrato a Parigi, e
non era mai capitato nulla tra di loro che potesse shockarlo tanto.
“Jackie, cosa
diavolo ci fai qui?” domandò l’ex rugbista , stringendo convulsamente il bicchiere
di cocktail che aveva in mano.
“Beh, perché? C’è
la mia foto fuori dal locale con il divieto d’entrata?” rispose piccato. Mukotsu scosse la testa e si battè
la mano sulla fronte. “Se ci fosse sarebbe un’ottima cosa per te.”
Jakotsu sbuffò spazientito, guardandosi
attorno alla ricerca del proprio ragazzo, che pareva essersi dileguato.“Ma
insomma! Si può sapere che cosa…”
Sentì che qualcuno
chiamava Suikotsu, urlando il suo nome al di sopra
della musica assordante. Jakotsu pensò di aver
sentito la voce di Renkotsu, ma doveva essersi
sbagliato di certo: non lasciava mai il suo locale, a parte per rarissime e
specialissime occasioni.
E poi lo vide.
Arrampicarsi sulle
spalle dell’altissimo Kyokotsu, ex cestita del Paris Basket Racing, e alzare le braccia al cielo, ebbro di
felicità e di vino, che dondolava la testa a ritmo di musica, mentre qualcuno
gli porgeva una bottiglia, che lui si infilava tra le labbra. Lui, il suo
tormento. La sua delizia perduta, la croce che non voleva sapere di
abbandonarlo nonostante i suoi sforzi: Bankotsu.
Jakotsu si sentì mancare, la bocca che
diventava asciutta, l’aria che non entrava nei polmoni. Ginkotsu
gli si avvicinò, guardandolo incredulo: “Non dirmi che non lo sapevi… Non posso credere che Suikotsu
ti abbia portato qui senza dirtelo.”
Il ragazzo strizzò
gli occhi, cercando di darsi disperatamente un contegno e di calmare il battito
irregolare e doloroso del suo cuore. “Che stasera ci fosse anche Bankotsu?”
“Beh, si.”
Intervenne Mukotsu, guardandolo penosamente. “E’ il
suo addio al celibato”
Jakotsu desiderò ardentemente che la
terra gli si aprisse sotto i piedi. Si sentì trascinare di lato, e dalla forza
ne dedusse che fosse Ginkotsu. Non riuscì comunque a
staccare gli occhi da Bankotsu, che nel frattempo
aveva visto Suikotsu e si era sporto, rischiando di
rovinare a terra per dargli un cinque, mentre Renkotsu
in piedi su un tavolo, riprendeva il tutto con una piccola fotocamera digitale.
L’amico cercò di
riscuoterlo “Bankotsu ha invitato tutti noi, ma ha
evitato di dirti qualcosa per evitare che tu…beh…insomma… sappiamo tutti
quanto tu ne abbia sofferto. Non capisco perché Suikotsu
ti abbia portato qui”
“Perché è un
figlio di puttana della peggior specie” mormorò di risposta il ragazzo, lo
sguardo vuoto.
“Sei venuto in
auto con lui?” Jakotsu annuì, lanciando un’occhiata
al campione di judo ancora inerpicato sulle spalle di Kyukotsu.
“Jackie, ti chiamo un taxi?” si offrì Ginkotsu, il
cellulare in mano. Il ragazzo scosse la testa. “Faccio io. Dopo aver ridotto
quello che posso chiamare ex ragazzo in una larva sanguinante.” Ringhiò,
cercando furiosamente Suikotsu con lo sguardo.
E i suoi occhi si
incrociarono con quelli neri e profondi, dal disegno allungato e ipnotizzante
di Bankotsu. Vide la sua bocca schiudersi dalla
sorpresa e bloccarsi, una mano a mezz’aria, come se fosse diventato
improvvisamente una statua.
Alzò appena la
mano in cenno di saluto, sentendosi la faccia in fiamme, prima di girare le
spalle e correre verso il bagno. Quasi sfondò la porta d’ingresso, spintonando
un ragazzo che stava uscendo e gettandosi dentro uno dei bagni. Lo chiuse a
chiave e si sedette sulla tazza, la testa tra le mani.
Aveva voglia di
urlare, di fare una sceneggiata, di prendere a calci Suikotsu
per la bella sorpresa, di sfogare la rabbia e l’umiliazione a pugni sulla sua
faccia.
Ma poi pensò che
non ne valeva la pena, farsi compatire dagli altri con una pagliacciata simile.
Sarebbe uscito dal bagno e si sarebbe diretto immediatamente all’uscita,
scomparendo con grande dignità. E con Suikotsu ci
avrebbe fatto i conti il giorno dopo.
Il flusso dei suoi
pensieri vendicativi venne interrotto da un picchiettare alla porta. “E’
occupato!” esclamò, scocciato.
“Sono io, aprimi”
gli rispose la voce del suo ragazzo (o come lo definiva pochi minuti prima),
attutita dalla porta e dal rumore.
Jakotsu aprì la porta, con lo sforzo
immane per rimanere calmo. Prese un bel respiro, appoggiandosi allo stipite con
le mani incrociate dietro la schiena, fissandolo: “Devo ringraziarti proprio: è
una sorpresa che non mi sarei mai aspettato da te.”
L’altro centilenò il suo cocktail con aria seccata: “Smettila di
fare il bambino e vieni fuori.”
“No, pezzo di
merda, io VADO fuori. Di qui.” Puntualizzò Jakotsu, dirigendosi
verso la porta. Suikotsu lo trattenne. “Sbaglio o eri
tu quello a cui piaceva il mio lato stronzo?”
Il ragazzo si
voltò verso di lui trapassandolo con uno sguardo carico di rancore: “Un conto è
essere stronzi. Un conto è giocare con i sentimenti delle persone” sibilò,
scandendo bene le parole per sottolinearne il significato. Tolse la presa sul
suo braccio con uno strattone deciso, e fece per dirigersi nuovamente verso la
porta, ma l’altro gli si parò davanti. “Mi ci hai portato te a questo. Credi
che non lo notassi il tuo continuo pensare a Bankotsu?
Sono anni che lo vedo prenderti in giro mentre tu speravi che ricambiasse i
tuoi sentimenti. L’hanno notato tutti, tranne te. Dovevi vedere che gongolate
faceva Renkotsu, quando Bankotsu
entrava nel suo locale con una qualche bella ragazza, e che ti salutava a
malapena, mentre tu avresti voluto morire.” Jakotsu
deglutì furiosamente. “Quello che io e Bankotsu
abbiamo passato insieme tu non lo puoi nemmeno immaginare. Lui è…”
“Lo vedi! Lo
giustifichi ancora! Nonostante tutto, ti schieri dalla sua parte. E’ ridicolo!
Io sto solo cercando di farti aprire gli occhi sulla persona che ti ha rovinato
la vita per quattro anni.”
Il groppo che il
ragazzo aveva in gola non voleva saperne di sciogliersi. Deglutì nuovamente,
sentendosi gli occhi pizzicare. “Non è umiliandomi davanti a tutti i miei amici
che mi aiuti.” Mormorò infine, riuscendo a infilarsi tra l’altro e lo stipite
della porta, guadagnando la libertà. Decise di dirigersi verso l’uscita, ma lo
sguardo gli cadde nuovamente sul tavolo della festa, tra le persone che
ballavano e si divertivano, scattando foto ricordo e alzando i cocktail per
brindare. Bankotsu, in piedi sul tavolo, autografava
tra gli applausi generali il decolleté ben fornito di una disinibita ragazza
dai neri capelli a caschetto, che lui riconobbe senza esitare come Yura. Sospirò ancora, premendosi le dita sugli occhi e
cercando di calmarsi.
“Credi davvero che
gli importi qualcosa di te?” Suikotsu l’aveva
raggiunto, e lo tormentava nuovamente.
Forse aveva
ragione, ma non gli diede la soddisfazione di essere d’accordo con lui. Gli
sibilò di andare a farsi fottere, prima di dirigersi verso il bancone del bar.
Non avrebbe fatto a vedere a nessuno quello che stava provando in quel momento.
Non avrebbe permesso a nessuno di prenderlo in giro, di deriderlo, di ferirlo
nuovamente, né avrebbe dato la soddisfazione a Bankotsu
di vederlo fuggire con la coda tra le gambe. Contro delle persone come lui, che
si credevano gli dei del mondo e di poter giocare con le persone come se
fossero soldatini di plastica, l’indifferenza era la migliore arma.
Appoggiò i gomiti
sulla superficie lignea del bancone, sorridendo al barista. “Mi prepari un mojito ben carico, monamì?”
Kagura aveva sonno. Sbadigliò
nuovamente stiracchiandosi e gettando un’occhiata all’orologio. Le undici
passate. Era davvero ora di andare a dormire, altrimenti il giorno dopo non
sarebbe riuscita a svegliarsi presto, come era nei suoi propositi. Si alzò dal
divano, scrollandosi di dosso la marea di cuscini, con un po’ di difficoltà:
quel pancione cominciava davvero a pesare e la schiena ne risentiva. Chiuse la
finestra dell’angolo cottura, controllò quella che dava sul salottino e notò
che il computer portatile di Jakotsu era ancora
acceso e connesso ad internet. Quel ragazzo avrebbe perso la testa, se non ce
l’avesse avuta attaccata al collo. Scrollò il mouse per togliere lo screensaver e spegnerlo, ma si
fermò un attimo, pensando di poter approfittare per dare un’occhiata qua e là a
quello che succedeva nel mondo.
Anzi. Nel proprio
paese d’origine.
In cinque mesi che
si trovava a Parigi, Kagura aveva vinto tutte le
tentazioni possibili di ricercare, sui quotidiani Online giapponesi, notizie
riguardo alla “vicenda” di cui era, se così si poteva dire, passiva
protagonista.
Cercò di
trattenersi, scrocchiandosi le dita indecisa, ma poi pensò che ormai era
trascorso troppo tempo, e che sicuramente i giornali nipponici avevano altre
notizie sensazionali da sbattere in prima pagina. Si convinse che non le
avrebbe dato fastidio, spiluccare notizie qua e la. D’altronde, era sempre
buona cosa essere informati di tutti i fatti nel mondo, no?
Con questa
decisione, si collegò al sito dell’AsahiShinbun. In prima pagina, una notizia riguardo
all’ennesimo caso suicidio di gruppo tra adolescenti. Sospirò sollevata: la
vita in Giappone aveva ripreso il suo scorrere normale, senza eclatanti
stravolgimenti. Oh, una nuova idol, che carina!
Scorse tutta la
pagina, senza trovar traccia di nessuna notizia recente sul Gruppo Ragno o su NarakuOnigumo. Una punta di
delusione si mischiò al sollievo: quindi tutto il suo penare, i suoi sforzi, i
suoi rischi, erano stati la notizia della settimana, per poi cadere nell’oblio?
Beh, pazienza.
Sperava soltanto che Naraku avesse avuto quello che
si meritava. Almeno in piccola parte. Continuò a navigare sul sito, apprendendo
di vari fatti di cronaca, inaugurazioni, show televisivi di successo, affari
interni.
Uno spot pubblicitario
prometteva tariffe bassissime per viaggi da Tokyo, Osaka e Kyoto verso
destinazioni europee. Quasi senza rendersene conto, curiosò sulla tratta Tokyo –
Parigi, scoprendo che aveva fatto pagare all’ignaro fratello di Sesshomaru, Inuyasha, qualcosa in più rispetto alle
offerte. “Lo svantaggio delle partenze precipitose” sentenziò tra sé e sé.
Cliccò vari link, sempre giapponesi, su vari argomenti, sino a che non si trovò
su un forum femminile.
Navigò tra i vari
post insulsi su cellulite e colore di capelli, sino ad arrivare alla sezione
dedicata alla maternità. Scopri con piacere altre donne che si consigliavano a
vicenda e si sostenevano moralmente durante la gravidanza. Fu sollevata dal
notare molte madri single, che avevano fatto anche formato un nutrito gruppo.
Lesse le loro vicende, trovandosi sorprendentemente rasserenata dal non essere
sola in una condizione particolarmente dura. Certo, nessuna di loro aveva la
fortuna di trovarsi a Parigi e di dividere la casa con un pazzo ragazzo d’oro.
Una sezione del
forum era completamente dedicata ai fatti di cronaca che più avevano colpito le
utenti. Vi entrò così, per curiosità.
Quasi cadde dalla
sedia, vedendo il primo post, il più visitato e il più scritto, dedicato
completamente a sé: KaguraOnigumo. La
ragazza che aveva aperto il thread sosteneva di
averla conosciuta, in quanto era una delle segretarie della FederInc, e sosteneva che era una persona taciturna e riservata,
perennemente scortata da suo fratello o
da uno dei suoi uomini, e he le aveva sempre dato l’idea
di essere molto sola. Oltre che a mostrare più anni di quanti ne avesse in
realtà (e questo la rese meno simpatica agli occhi di Kagura).
Ma mai avrebbe immaginato quello che si nascondeva sotto.
Un’altra
aggiungeva rammarico per una vicenda che si era conclusa così drammaticamente,
e sperava che “No Taisho
faccia davvero sbattere quel bastardo in galera a vita”
Tanti altri thread parlavano della sua storia, le dedicavano pensieri e
immagini. Si sentì quasi commossa. C’era chi si scambiava notizie riguardo alla
sua relazione con Sesshomaru no Taisho.
“Lui
non ha rilasciato dichiarazioni” commentava
una. “Ma ieri sera su uno giornale di
gossip ho letto che stavano per celebrare le loro nozze in segreto.”
Kagura scoppiò a ridere. Questa era
davvero buona! Fece per risponderle, ma si trattenne. Continuò a scorrere i
vari post, sorridendo mestamente. Una utente puntualizzava che, dopo lo
scandalo Onigumo, la percentuale di donne che
denunciavano episodi di violenza si era duplicata. Questa notizia, seppur
infondata, rese orgogliosa la donna. La sua vicenda aveva lasciato un’impronta
decisiva ed importante.
La testa di Jakotsu dondolava sul bicchiere ormai vuoto di Cosmopolitan. Si sentiva uno straccio, ma aveva ancora la
forza necessaria per tenersi in piedi e per non voltarsi verso la pista. Più di
una volta Ginkotsu e Kyukotsu
erano venuti a tentare di trascinarlo nella mischia, o quantomeno di farlo
smettere di bere in un angolo da solo, ma lui li aveva scacciati in malo modo.
Suikotsu aveva tentato di avvicinarsi, ma
come se avesse percepito che avrebbe solo peggiorato le cose, era tornato al
tavolo. O in pista, chissà.
Ordinò ancora un
altro cocktail, un Long Island, che praticamente trangugiò. Il barista, Jerome,
gli fece notare che era il decimo che si scolava. Lui gli rispose che era già
tanto se non si gettava in gola una bottiglia di vodka intera, per poi darle
fuoco.
“Guarda che se sei
troppo ubriaco la security ti lancia fuori senza pietà” l’avvisò l’altro,
riprendendo il bicchiere vuoto. “Ormai sei sull’orlo del coma etilico…”
Jakotsu fece spallucce. Poi guardò l’orologio,
mettendoci un intero minuto per focalizzare bene l’ora. Le tre passate. Era
stato quattro ore fermo allo stesso bancone a bere e a rimuginare sulle sue
disastrose relazioni interpersonali.
A quell’ora Kagura stava sicuramente dormendo, con il suo pancione
scalciante. Sorrise al pensiero, e decise che era decisamente tempo di levare l’ancora.
Mosse un passo e per poco non rovinò a terra. Dannazione come girava la testa.
Cercò di riprendersi, scuotendosi, ma non fece che peggiorare la situazione.
Camminò lentamente, con una mano appoggiata sul bancone, e barcollò sino all’uscita.
Le scale furono disastrosamente difficili da percorrere.
Varcata la porta,
l’aria gelida lo colpì in pieno, e con quella anche la consapevolezza di essere
appiedato. Frugò in tasca alla ricerca del cellulare. Trovò invece il pacchetto
di sigarette, e se ne infilò una tra le labbra. L’accese dopo vari e ilari
tentativi, e poi proseguì con la ricerca del telefonino.
Se la memoria non
lo tradiva, aveva memorizzato il numero di telefono del servizio taxi.
“Ah, eccolo!”
esultò, rischiando di far cadere la sigaretta. Farfugliò qualcosa alla voce
meccanica e nell’interrompere la conversazione, chiudendo il telefono, si
ustionò il palmo della mano con la sigaretta. Strillò, lasciando cadere tutto
quello che aveva in mano, strizzando gli occhi sulla vescichetta che si era già
formata. Sbuffò, sentendosi incredibilmente depresso e mediocre, mentre
scivolava a terra cercando il cellulare. Ovviamente la batteria e il relativo
sportellino si erano staccati. Dannazione. Li raccolse, faticando per stare in
equilibrio, e cercò di rimetterli a posto, senza successo.
Sentì gli occhi
pizzicare. Ma in che cavolo di stato si era ridotto? “Sono una merda”
singhiozzò.
Qualcosa di caldo
gli scivolò sulle spalle, mentre una voce profonda lo rassicurava. “Non sei una
merda, sei solo molto ubriaco.”
Il qualcosa di
caldo era una giacca di pelle. E il suo profumo l’avrebbe riconosciuto tra
mille, così come la voce che l’aveva rincuorato. Non osava alzare la testa per
paura che non fosse vero. Un paio di mani gli sfilarono gentilmente il
cellulare smontato tra le dita, e lo rimisero a posto in un attimo. Poi gli
circondarono le spalle e lo alzarono.
“Jackie… sei davvero un guaio” gli sussurrò, con una nota
tristemente divertita nella voce.
Il ragazzo si
voltò, desiderando avere solamente la conferma che fosse davvero lui. Se lo
ritrovò davanti, i capelli ancora legati nella solita treccia corvina, qualche
ciocca che scappava via dopo la serata frenetica. Un piccolo sorriso gli
stendeva le labbra, e gli occhi neri sembravano volerlo inghiottire. “Bankotsu...” sussurrò.
“Mi dispiace che
sia andata a finire così. Davvero. Non sapevo nemmeno che tu e Suikotsu stavate insieme, non me l’ha detto. Non so cosa
gli sia passato per la testa…”
Jakotsu distolse lo sguardo da lui,
strizzando gli occhi per non far notare le lacrime che cercavano di uscire
prepotentemente. “Non importa, davvero.” Minimizzò, cercando di sorridere. “Sono
rimasto sorpreso, tutto qua.”
Un taxi si fermò
proprio davanti al locale. Jakotsu lo indicò come il
proprio. Provò a muovere un altro passo, ma rovinò a terra. Prontamente, l’altro
lo rialzò. “Tu non vai da nessuna parte da solo in queste condizioni!” esclamò
preoccupato. Si guardò intorno, forse alla ricerca di qualcuno di conosciuto, o
forse per accertarsi che non ci fossero paparazzi o chissà che altro di
compromettente. “Ti accompagno io” sentenziò alla fine. Jakotsu
sentì la felicità balzare nel suo petto. E anche dell’altro. Fu solo grazie ai
propri riflessi pronti che Bankotsu evitò il conato
di vomito del ragazzo.
Kagura fu svegliata dal rumore di
chiavi nella toppa della porta. Si era addormentata sul divano, tra i cuscini,
il pc portatile ancora acceso e connesso ad internet,
aperto sulla pagina del forum giapponese a cui si era appassionata. Guardò l’orario,
erano quasi le quattro. Ne dedusse che la serata doveva aver preso una piega
alquanto strana, se Jakotsu non l’aveva passata
interamente a casa del suo ragazzo. Chiuse velocemente la pagina di Explorer e
si alzò faticosamente, dirigendosi verso il corridoio. Cosa strana, le sembrava
di sentire bisbigliare una voce sconosciuta, insieme ad alcuni monosillabi
farfugliati che dovevano provenire da Jakotsu. La
porta si aprì piano e con somma sorpresa Kagura si
trovò davanti ad una scena davvero pietosa. Accese la luce per vederci meglio.
Jakotsu, semisventuto
era letteralmente sulle spalle di un bel ragazzo che Kagura
non riconobbe immediatamente. Il ragazzo trasalì a vederla, rischiando di far
ribaltare l’amico. La donna gli fece segno di entrare e chiuse la porta.
“Che diavolo è
successo?” domandò, mentre il ragazzo adagiava l’altro a terra, contro il muro.
Poi lo guardò meglio. L’aveva già visto da qualche parte, ma non ricordava
dove. Non era tra gli amici di Jakotsu… Oh! Era…
“Bankotsu?”
“Kagura, immagino.” Rispose lui. “Suikotsu
mi aveva parlato di te e Jackie…E anche lui, prima di
addormentarsi sul taxi. Ma non pensavo che tu fossi ancora in piedi a quest’ora…”
Lo sguardo del ragazzo cadde sulla pancia, e lo distolse subito, arrossendo.
La donna rimase a
bocca aperta. “ma cosa diavolo è successo?” domandò nuovamente, con più
veemenza. “Doveva uscire insieme a Suikotsue…”
“Beh, l’ha portato
alla mia festa di addio al celibato, senza dirglielo.” Spiegò brevemente. “E
come puoi vedere, lui non l’ha presa benissimo.”
Jakotsu si lasciò cadere di lato,
russando. Bankotsu lo riprese sulle spalle,
dirigendosi verso la camera da letto, borbottandogli che a peso morto pesava un
quintale.
Kagura li seguì shockata: mai si
sarebbe aspettata un tiro mancino simile da Suikotsu,
non le sembrava il tipo. Evidentemente Bankotsu si
era sbagliato, non poteva essere.
Adagiando il
ragazzo sul letto l’atleta le spiegò come si era svolta la serata, con lui
preso dai suoi amici, osannato e tirato a destra e a manca e Jakotsu al bancone che beveva tutto quello che poteva
capitargli a tiro. Da solo. E incazzato come un drago. “Fortunatamente sono
riuscito ad uscire con una scusa e l’ho preso in tempo per evitare che
vagabondasse da solo per Parigi. In queste condizioni.” Kagura
lo svesti parzialmente, scuotendo la testa. “Povero Jackie.” Mormorò,
coprendolo con il lenzuolo e schioccandogli un bacio sulla fronte imperlata di
sudore. L’odore di alcool la nauseò.
Uscirono dalla
camera senza chiudere la porta. Bankotsu lo guardò un’ultima
volta, preoccupato. “Suikotsu lo ammazzo domani.” Promise.
La donna piegò la
testa di lato. Forse Bankotsu non aveva di certo il
coraggio di vivere alla luce del sole il suo rapporto con Jakotsu,
ma chi poteva giurare che non provasse qualcosa di profondo per lui?
“Vuoi dormire qui?”
gli domandò, quasi senza rendersene conto. Nemmeno lui sembrava molto in forma,
e non sembrava aver molta voglia di tornare a gozzovigliare. Lui la guardò
sorpreso. “Grazie, ma non preoccuparti. Troverò un hotel qui vicino. Sai, avevo
programmato di far baldoria tutta notte e prendere il treno delle Sei per Lille.
Abbiamo appuntamento con il WeddingPlanner a pranzo, e Abi, la mia ragazza, mi ucciderà se non
sarò presente.”
“Oh. Senza
dormire?”
Lui scrollò le
spalle. “non dormo molto. Al contrario di Jakotsu.”
Tornò a fissarlo
sorridendo a sentirlo russare.
“Dai, davvero. Un paio
d’ore sul divano. E’ il minimo che posso darti come ringraziamento per avermi
riportato a casa il mio capo sano e salvo.” Scherzò lei, insistendo.
Lui annuì, piano. “Ma
mi sveglierò prestissimo, probabilmente non ci saluteremo neanche. Ti prego, se
Jackie non si ricorda nulla, non raccontarglielo. Finirebbe per illudersi, lo
conosco.”
Kagura annuì, in effetti le sembrava la
soluzione migliore. Notò le occhiate di sottecchi che Bankotsu
lanciava alla sua pancia e le scappò da ridere: “Non preoccuparti, non è di Jakotsu.”
Lui arrossì
nuovamente. “Non avevo molti dubbi a riguardo.” Rise. “E’ maschio o femmina?”
“Una bambina. Puoi
toccare la pancia, se vuoi. Jackie sostiene che porti fortuna.”
Il ragazzo le
restituì un sorriso triste, mentre appoggiava il palmo sul ventre e lo
accarezzava piano. “Me ne serve molta. E se lo dice Jackie, allora non può che
essere vero.”
Eccomi!!
LesBainsDouches esiste davvero, nella via indicata.
Crying at the discoteque
è una canzone degli Alcazar degli anni 90
Non preoccupatevi,
aggiornerò al più presto anche l’altra Fic.
Capitolo 12 *** Douzieme Chapitre: Mon Grand Péché Radieux ***
La Complainte
de la Butte.
DouziemeChapitre: MonGrandpéchéradieux
Jakotsu si svegliò
semplicemente perché aveva troppo mal di testa per stare a letto. E per andare
in bagno. La luce che filtrava dalla finestra ferì i suoi occhi, acuendo il suo
malessere. Sembrava che la testa gli stesse per scoppiare, mentre lo stomaco
gli bruciava terribilmente. La gola riarsa sembrava punta da mille spilli. La
sera prima aveva decisamente esagerato, anche se al momento i suoi ricordi
sembravano vaghi e confusi. Si ricordava, certo, che Suikotsu
l’aveva portato, a sua insaputa, alla festa di addio al celibato di Bankotsu. Ma non di più. Forse avevano litigato? Chi
l’aveva portato a casa? Frugò nella sua memoria, ma al momento il sogno e i
ricordi si accavallavano l’uno con l’altro, formando una massa di immagini
incomprensibile.
Si alzò ciondolando dal letto, scoprendo
di essersi attorcigliato il lenzuolo addosso. Si districò con non poca fatica,
cercando di tenere gli occhi il più possibile chiusi, per non permettere alla luce
di dargli ulteriore fastidio.
Poi, scivolando e inciampando in ogni
cosa, riuscì ad andare in bagno.
Il suo secondo bisogno impellente era
quello di un’aspirina e di un bicchiere d’acqua fresca. Si era sciacquato un
po’ la faccia, e, trovando il proprio alito assolutamente rivoltante, era
addirittura riuscito a lavarsi i denti.
Ma ora era proprio il momento di una
bella aspirina. Il suo corpo non chiedeva altro. Sempre a tentoni raggiunse la
cucina nella penombra delle tende tirate. Frugò furiosamente nella dispensa
dove teneva i medicinali d’emergenza, scoprendo una barretta di cioccolato al
latte, probabilmente la riserva calorica di Kagura, e
l’ultima aspirina effervescente. Riempì il bicchiere sino all’orlo, e si
abbandonò sulla sedia, aspettando che la compressa finisse di sciogliersi.
“Qua ci vuole della morfina.” Gemette,
sconsolato.
“Sono contenta di vederti di nuovo nel
mondo dei vivi!” esclamò una voce, all’entrata della stanza. Kagura, due vistose occhiaie scure attorno gli occhi
rubini, aveva fatto il suo ingresso, nel suo misero pigiama a fiori, che non
riusciva a coprire la pancia. “Un’altra scena pietosa del genere e ti faccio
fare una brutta fine.”
Jakotsu rispose con un
singhiozzo, prima di tracannare il contenuto del bicchiere in un sol botto.
“Avevo le mie ragioni, e tu non immagini quanto siano valide.”
Lei rispose con un sopracciglio alzato,
prima di dirigersi verso il frigorifero, dove ne estrasse la bottiglia di
latte, meravigliandosi che non fosse ancora scaduto.
Il ragazzo poggiò i gomiti sulla tavola
e vi sostenne il volto. Cercò di concentrarsi sul termine della serata
precedente.
“Sino a cosa ricordi?” gli domandò Kagura, aprendo le tende, mentre l’altro singhiozzava e
gemeva alla vista della luce, come nemmeno il Conte Dracula sarebbe stato in
grado di fare.
“Dunque: ero al bancone. Bevevo come una
spugna: e fin qui ci siamo. Poi…” si grattò la testa,
pensieroso. “non mi ricordo più quanto, sono uscito. Era fresco. E poi… è arrivato il taxi.”
“E sei arrivato a casa!” concluse la
donna. Ma lui, improvvisamente, aveva assunto un’aria tutt’altro che sollevava.
Si sorreggeva la fronte con una mano, al massimo della concentrazione, le
labbra increspate. “Non ero da solo sul taxi.”
“Ah no?”
Lui scosse la testa. Poi saltò sulla
sedia, come se il ricordo l’avesse punto dal vivo. “Bankotsu!”
strillò. “mi ha accompagnato a casa lui! Oh mio dio! Ora ricordo…
ero seduto sul marciapiede… il cellulare si era smontato… mi ha accompagnato qui!” Si alzò in piedi, in
preda ad un’agitazione irrefrenabile, torcendosi le mani, passandosele fra i
capelli.
“Si, ti ha accompagnato lui. Ti ha
portato sino a letto.”
“Nel senso che…”
“Nel senso che eri praticamente svenuto,
puzzavi d’alcol da far schifo e lui ti ha portato sulle spalle sulle scale e
poi ti ha adagiato sul materasso. E io ti ho spogliato.” Spiegò
sbrigativamente. “Era molto preoccupato, e anche io lo ero. Sembravi sull’orlo
del coma etilico.”
Ma Jakotsu
sembrava non starla più ad ascoltare. Era incredulo, a metà tra l’euforico e il
disperato. Si accasciò ancora sulla sedia, in completo subbuglio. “E dopo se ne
è andato?”
La donna si mordicchiò il labbro
inferiore, indecisa se raccontargli o meno la verità. Decise che una notizia in
più non avrebbe peggiorato poi di tanto le cose. “Gli ho offerto il divano per
dormire, e lui, dopo qualche tentennamento, ha accettato.”
“Vuoi dire che ha dormito qui?” squittì
il ragazzo, guardando il divano, straripante di cuscini ammonticchiati, come se
fosse la reliquia di un qualche santo miracoloso.
“Un paio d’ore. Aveva il treno alle 6.00
per Lille.”
“Lui… lui mi ha portato a casa… ha
lasciato la sua festa… per ME! Ed è rimasto a dormire
QUI, sul mio DIVANO!” strillò nuovamente.
E
poi la montagna di cuscini sul divano esplose.
Kagura e Jakotsu strillarono, abbracciandosi spaventati, mentre tra
i colorati guanciali compariva niente di meno che la figura di Bankotsu, ancora vestito, dall’aria completamente spaesata
e sorpresa.
I
tre si guardarono per un lungo istante, senza capire, poi l’atleta scese dal
divano con un salto. “Che ore sono?” domandò freneticamente, cercando le scarpe
sotto al mobilio.
Jakotsu stava
nuovamente collassando, completamente in balia delle sue palpitazioni in
eccesso, e fu Kagura, dopo lo sbalordimento iniziare,
ad indicare l’orologio a muro dell’angolo cottura. “Le 9 in punto.”
Bankotsu si prese la
faccia tra le mani, gemendo. “Sono morto…”Corse verso il divano e iniziò a frugare
furiosamente tra i cuscini, sino a trovare il proprio cellulare. Cercò
frettolosamente un numero e lo chiamò. “Mi uccide, questa volta mi uccide
davvero.”Kagura
lo fermò, impedendogli la conversazione togliendogli il cellulare di mano. “C’è
un TGV ad ogni ora, in un’ora sarai a Lille. A che ora hai l’appuntamento con
il WeddingPlanner?”
“Che…? Il Wedding
Planner?” gemetteJakotsu. Bankotsu gli rivolse uno
sguardo colpevole. “Per i preparativi della cerimonia. Avevamo un appuntamento
a mezzogiorno per alcuni dettagli e…”
Il
ragazzo annuì, sperando di trovarsi dentro ad un incubo.
Kagura guardò i due.
Poi ordinò a Bankotsu di prendere il portatile del
suo coinquilino e di controllare gli orari, mentre lei faceva una capatina ad
‘incipriarsi il naso’. Jakotsu diede il suo consenso,
annuendo lievemente, mentre la donna spariva nel corridoio.
“Stai
meglio?” domandò l’atleta, mentre attendeva che il computer si accendesse.
L’altro fece un segno approssimativo con la mano, deglutendo faticosamente.
Aveva bisogno di altra acqua. O forse di un calmante, a giudicare dalla
reazione cardiaca che stava avendo. “Ti…de-devorin-ringraziare.” Balbettò, fuori controllo.
Lo
schermo del computer domandò la password d’accesso, e il ragazzo fu costretto
ad avvicinarsi all’altro, che si era chinato leggermente per fargli spazio, per
digitare la parola d’accesso. Si sfiorarono appena, e i loro occhi si
incontrarono per un solo istante. Bankotsu si voltò
immediatamente verso lo schermo. “Avrei dovuto lasciarti per strada? Non fare
mai più una cosa del genere, Jackie. E’ una cosa stupida.”
“Avrei
dovuto allora partecipare alla tua festa?” rispose piccato l’altro.
“Assolutamente.
Forse avresti dovuto andartene. “
“Si,
in effetti ho notato che la mia presenza ti ha infastidito.” Sbottò ironico,
ricordandosi dell’audace autografo fatto a Yura.
Sembrava aver ripreso il controllo di sé, o quantomeno, di buona parte delle
sue facoltà mentali.
Bankotsu scosse la testa
corvina. “Non volevo assolutamente dire che mi hai dato fastidio. E’ piuttosto
il contrario. Non avrei voluto che tu vedessi.” Gli sfiorò la mano. “Che
diavolo è preso a quell’idiota a cui ti sei messo insieme…”
“Stai
parlando del mio nuovo EX.” Jakotsu si afflosciò a
terra, al suo fianco, sedendosi con le gambe incrociate. “Me lo merito. Suikotsu si stava comportando in una maniera egregia con
me. Era dolce, era premuroso, cercava sempre di accontentarmi: un ragazzo
d’oro. Ma l’ho spinto io a fare questo. Mi facevo sempre vedere da lui
annoiato, apatico, insofferente. Tutti i suoi sforzi non erano sufficienti a
farmi dimenticare di te.” Bankotsu sembrò sorpreso
dalla confessione. “Sei la mia stupida ossessione, Bank.
E ci vorrà ancora del tempo prima che riesca a liberarmene. Credimi, ci ho
provato. Con altri, con Suikotsu, soprattutto. Ci
stavo lavorando. E forse mi mancava
poco per riuscirci. Ma poi quel cretino ha fatto questa enorme cazzata, e io
ora temo di essere d’accapo.”
Incredibilmente,
Bankotsu aveva allungato una mano verso la guancia
del ragazzo seduto di fianco a sé, sfiorandola delicatamente. “Jackie…” mormorò. Ma Jakotsu
voltò la faccia di scatto, dall’altra parte. “Guarda quei maledetti orari del
treno, e poi vai via, per favore.”
Kagura, vestitasi,
rientrò nella stanza, gettando un’occhiata all’amico per domandargli se andasse
tutto bene, ricevendo in risposta un lieve sorriso.
“Avevi
ragione, Kagura. C’è un treno ad ogni ora. Prenderò
quello delle dieci e mezza.” Concluse il ragazzo, alzandosi.
“Posso
usare il bagno?”
La
donna annuì, recuperando la propria borsetta e la giacca dall’appendipanni. “Inizialmente oggi avevo intenzione di
lavoricchiare un po’ all’aperto, ma ormai si è fatto tardi. Credo che mi farò
una bella passeggiata salutare al cimitero. Porto i tuoi saluti a AlphonsineDuplessis e Dalida?
“E
soprattutto a La Goulue, se non ti spiace. Se aspetti
un attimo ti accompagno.”
Lei
lo fissò un attimo, studiandolo. “Forse è meglio che dormi ancora un po’. Non è
tanto lontano, posso farcela tranquillamente da sola.” Guardò il corridoio, per
assicurarsi che non stesse arrivando nessuno. “Se vi lascio un po’ da soli, mi
prometti che non farai stupidaggini?”
“Dubito
fortemente che il nostro ospite vorrebbe.”
Gli
diede un buffetto sulla guancia, e un bacio sulla fronte. “Quando se ne è
andato,invece di andare a dormire, mandami un messaggio, ci incontriamo e
facciamo insieme un giro in centro, che ne dici? Andiamo a vederci qualche
studente in libera uscita al Quartier Latin?”
Il
ragazzo annuì divertito. “Sei un tesoro, lo sai?” Squittì, schioccandole un
gran bacio sulla guancia. In quel momento Bankotsu
uscì dal bagno, e Kagura ne approfittò per salutarlo,
augurandogli in bocca al lupo, per poi uscire.
QuandòJakotsu chiuse la porta, si sentì incredibilmente a disagio
a stare da solo con Bankotsu. Si grattò la testa
nervoso, domandandogli se desiderasse qualcosa. L’altro scosse la testa. “Vado
subito. Devo raggiungere la Gare du nord, ci metterò
una mezz’ora buona e non mi conviene perdere anche questo treno, ne va della
mia salute.”
Il
ragazzo annuì vigorosamente, lo sguardo piantato a terra. Bankotsu
raccolse la sua giacca da terra, si allacciò le scarpe e si diresse verso la
porta. Jakotsu lo accompagnò. L’atleta varcò la porta
senza dire nulla, poi si voltò di scatto, la bocca semiaperta come per aver
bisogno di dire qualcosa. Sembrava aver perso le parole. “mi dispiace.”
Sussurrò alla fine.
Jakotsu non poté fare a
meno di sorridere tristemente. “Non preoccuparti. Ormai ci sono praticamente
abituato.”
“Mi
dispiace di tutto Jackie. Di averti illuso, anche se non era una mia
intenzione. Di averti fatto soffrire. Io avrei dovuto starti lontano.”
“L’hai
già detto.” Mormorò l’altro, ripensando alla loro ultima, penosa conversazione
la notte in cui l’aveva lasciato.
“Sei
una persona speciale. Meriteresti qualcuno che ti ami davvero e che faccia di
tutto per te, non uno stronzo confuso e indeciso.”
Il
ragazzo lo fissò sorpreso. Mai gli aveva fatto un discorso del genere. Forse
non era lui che stava peggio. Forse fingere di essere qualcosa che non era,
nascondere la propria natura e i propri sentimenti, era ancora peggio che
essere lasciati. “Se sei confuso ed indeciso, perché allora ti sposi?” la
domanda gli uscì spontanea, prima che lui riuscisse a fare alcunché per
fermarla. Si ne pentì subito, tuffando nuovamente lo sguardo a terra.
Ma
Bankotsu sospirò solamente. “Lei è una brava persona.
Carina, in gamba. Gli uomini fanno la fila per lei. Ti piacerebbe, ne sono
sicuro. Se non fosse la mia futura moglie, è ovvio.”
“Un
piccolo particolare, non trovi?” Sbuffò. “E io? Cosa sono?”
“Tu
sei il mio grande peccato radioso.”
Jakotsu scoppiò a
ridere. “Verlaine? Da quando in qua citi Verlaine?”
“Da
quando abbiamo guardato Eclisse Totale,
ricordi? Uno dei pochi film che abbiamo visto insieme.”
“Già,
soprattutto uno dei pochi che abbiamo visto sino alla fine. La storia mi aveva
preso molto.”
Anche
Bankotsu scoppiò a ridere. “A chi la vuoi raccontare?
L’hai voluto vedere solo per Leonardo DiCaprio.”
Jakotsu ammise che un
pochino era vero, appoggiandosi allo stipite della porta. Entrambi tornarono
seri. “Quindi ora devi andare?”
Bankotsu annuì,
chiudendo gli occhi.
“In
bocca al lupo, allora.” Sospirò il ragazzo, facendo per chiudere la porta
lentamente. Ma l’altro lo fermò. Lo fissò un attimo, prima di avvicinarsi e di
premere le proprie labbra alle sue. Jakotsu sentì le
ginocchia farsi molli a quel contatto, mentre le mani di Bankotsu
scivolavano sulle guance, trattenendolo delicatamente a sé.
Si
staccarono un istante, che sembrò togliere il respiro ad entrambi. “Devo andare…” bisbigliò Bankotsu,
senza però muoversi di un passo.
Jakotsu scosse la
testa. “C’è un TGV ad ogni ora…”, lo supplicò con lo sguardo. Aveva bisogno di
lui, anche se sapeva che era sbagliato, che avrebbe riaperto una ferita che
aveva appena smesso di sanguinare.
“Devo
andare Jackie.” Ripeté, più a sé stesso che al ragazzo che aveva davanti.
“Bank, ti prego. Anche solo per un’ora, per dieci minuti.
Anche solo per parlare, o per fissare fuori dalla finestra, o i quadri di Kagura. Ma resta qui con me. Non te l’ho mai chiesto, non
ti ho mai pregato di farlo, prima d’ora.”
Bankotsu si avvicinò di
nuovo, facendolo arretrare all’interno dell’appartamento. “Ci pentiremo
entrambi di questo” sospirò, prima di chiudere la porta alle sue spalle e
baciarlo nuovamente.
Il
sole splendeva alto nel cielo, e l’aria calda di inizio giugno iniziava a farsi
sentire. Kagura si sventolò con un pezzo di carta,
guardandosi attorno seduta sulla panchina all’entrata del metrò. Jakotsu, la sorprese alle spalle, facendola trasalire,
mentre lui la derideva, meritandosi un colpo sul braccio e sulla spalla.
Entrarono nella galleria della metropolitana, prendendo per un soffio il treno
per il centro città. Nonostante la penombra, il ragazzo non si tolse gli
occhiali da sole.
Kagura trovò un posto
per sedersi, e lui si posizionò a suo fianco. “Allora?” domandò la donna.
“Allora
cosa?” Lei lo guardò con un sopracciglio alzato, e lui alzò le spalle. “E’
partito. Tutto qui.”
“Come
ti senti?”
“Beh,
un po’ a pezzi ma… è anche colpa dell’alcol di ieri
sera.” Si sforzò di sorridere.
Rimasero
in silenzio sino alla fermata Cluny – La Sorbonne,
dopo aver cambiato linea. Si diressero, parlando del più e del mondo, verso Rue
Mazarin, piena di gente, turisti e studenti. Kagura ne indicò un paio all’amico, con un cenno del capo,
e uno di loro sorrise pure di rimando al ragazzo, mentre lui sembrava su un
altro pianeta.
“Hei, ma dico, hai visto cosa ti sei lasciato scappare?”
domandò Kagura tirandolo per una manica. Poi alzò gli
occhi al cielo. “Ho fatto male a lasciarvi da soli, vero? Cosa ti ha detto?”
“Oh,
nulla, nulla. Non è successo niente di che. Ha bevuto un bicchiere d’acqua e se
ne è andato subito.” Disse velocemente. “Toh, c’è un tavolo libero a La Grouette, ci fermiamo per un gelato?”
Kagura lo strattonò
per una manica, fissandolo truce. “Jakotsu, giurami
che non hai fatto nessuna stronzata.”
“Non
ho fatto nessuna stronzata, te lo giuro!”
“Non
ti credo”
Il
ragazzo rimase in silenzio, puntando lo sguardo a terra, dietro alle lenti
scure. “Non ne abbiamo potuto fare a meno.”
La
donna si mise le mani fra i capelli, arrabbiata. “Ma sei stupido? Dopo tutto quello
che hai passato, ci caschi nuovamente? Jakotsu, cosa
c’è in quella tua testolina masochista? Hai fatto sesso con lui per
ringraziarlo di averti portato a casa?”
Questa
volta fu il ragazzo a replicare ad alta voce: “Lui non può fare a meno di me,
tanto quanto io non posso fare a meno di lui!”
“Infatti
lui si sta sposando con un’altra. DONNA.”
Il
ragazzo si pizzicò il naso aggiustandosi gli occhiali. Sembrava sul punto di
scoppiare. “Pensi che non lo sappia. Io sono una cosa diversa.”
“Diversa,
ma non abbastanza importante da essere l’unica.” Ribatté duramente Kagura, i pugni puntati sui fianchi. Vedendo lo sconcerto
dell’amico lo prese nuovamente sottobraccio, sospirando. Forse era stata troppo
dura con lui, non se lo meritava, stava di sicuro già male per conto suo.
“Andiamo a La Grouette, prima che ci rubino il
tavolino.”
Ciao Ragazze!!!
Un paio di note prima di lasciarvi:
1)AlphonsineDuplessis= celebre cortigiana, meglio conosciuta come Dama
delle Camelie, narrata nel libro omonimo di Alexandre Dumas figlio, e ripresa nella Traviata di Verdi.Dalida= cantante
francese, morta suicida. Nota per aver avuto una storia con il cantate italiano
Tenco, anch’egli morto suicida. La Goulue= Ballerina
di CanCan al MoulinRouge! Ritratta anche da Toulouse
– Lutrec. Tutte e tre questi personaggi sono ospiti
fissi (per non dire inquilini) del cimitero di MontMartre.
2)Eclisse Totale – Poeti dall’Inferno, è un film del
1995, con protagonisti David Thewlis (Ovvero il Prof.
Lupin nei film di Harry Potter) e Leonardo DiCaprio
(che a quell’epoca era da acquolina in bocca), che interpretavano i poeti
maledetti Paul Verlaine e Arthur Rimbaud e la loro tormentata storia d’amore
(si, avete capito bene…). Il Titolo, MonGrandPéchéRadieux (mio grande peccato radioso) è tratto dalla
poesia LaetietErrabundi, di Paul Verlaine, dedicata appunto a Rimbaud, ed
è la frase con cui si conclude il film.
Grazie Mikamey e Jekka ancora per
leggermi e supportarmi!!!