La Complainte de la Butte

di Evilcassy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Premiere Chapitre: Mon rêve épanoui ***
Capitolo 2: *** Deuxieme Chapitre: La Noyee ***
Capitolo 3: *** Troisieme Chapitre: Notre Vie ***
Capitolo 4: *** Quatrieme Chapitre: Imrpévu ***
Capitolo 5: *** Cinquieme Chapitre: Histoires ***
Capitolo 6: *** Sixième Chapitre: Mon Amour est dans Mon Reve. ***
Capitolo 7: *** Septieme Chapitre: L'apres Midi. ***
Capitolo 8: *** huitieme chapitre: Sortir ***
Capitolo 9: *** Neuvième Chapitre: le grand comedién ***
Capitolo 10: *** Dixieme Chapitre: Croix et Delice. ***
Capitolo 11: *** Onzieme Chapitre: Crying At the Discoteque ***
Capitolo 12: *** Douzieme Chapitre: Mon Grand Péché Radieux ***



Capitolo 1
*** Premiere Chapitre: Mon rêve épanoui ***


Complainte de la Butte

Complainte de la Butte.

 

Premiere Chapitre : Mon rêve épanoui

 

Parigi, 2004.

 

Seduto sul letto, la schiena contro la testiera lignea del letto, il ragazzo fissava i suoi piedi nudi, che spuntavano dalle lenzuola  stropicciate. Mosse le dita, come per testarne la sensibilità. Poi sospirò, gettando la testa castana all’indietro.

Un filo di luce filtrava dalla porta del bagno, attraversava il corridoio, e si gettava contro il muro della camera. Il ragazzo la fissò per qualche istante, attendendo che il filo di luce divenisse uno spicchio e che proiettasse quel’ombra così familiare. Quel’ombra che attendeva, e che allo stesso tempo, quasi, temeva.

Ci stava mettendo tanto, come al solito.

Perse lo sguardo alla finestra, in quella fetta di cielo notturno che la tenda verde non riusciva a coprire mai.

E che lui non voleva affatto coprire. Non gli piaceva il troppo buio, come non apprezzava la troppa luce, nella sua stanza. Perché il buio celava ai suoi occhi la bellezza di quel corpo, muscoloso e abbronzato, che si mescolava accanto a lui, tra le lenzuola.

Ma la luce era anche peggio, perché mostrava cosa realmente fosse: una mera illusione.

Sospirò nuovamente, gli occhi che vagavano tra la stoffa della tenda. Vedeva il palazzo di fronte, le finestre tutte buie, chiuse. Nessun altro amante malinconico su un letto vuoto, con cui scambiarsi qualche incoraggiamento.

Sentì la porta del bagno aprirsi cigolando, e non poté fare a meno di guardare l’ombra che, come aveva previsto, si stagliava contro la parete, per una frazione di secondo, prima che il click dell’interruttore facesse spegnere la lampadina.

 Un’ombra maschile, non molto alta, ma dai lineamenti ben marcati, muscolosi.

Udì i suoi passi scalzi sul pavimento e poi varcare la soglia della stanza da letto in penombra.

Incrociò le gambe, rizzandosi a sedere, cercando di cancellare qualsiasi espressione negativa dalla faccia. Che stupido che era, a costringersi nella parte dell’amante spensierato e soddisfatto della situazione. Eppure non poteva fare a meno. Lo vide raggiungere i suoi vestiti, gettati a terra a fianco del letto, e a raccoglierli, posandole sulle coperte aggrovigliate. Poi si sedette, dandogli la schiena, infilandosi uno ad uno, lentamente, gli indumenti.

“Vai di già Bankotsu?” chiese, avendo cura di inserire una nota di infantile dispiacere nella voce. Allungò un piede nella sua direzione, accarezzandogli la schiena, scostandogli la treccia di capelli corvini che gli scendeva tra le scapole. “Avevi detto che ti saresti fermato in città anche domani…”

Lui non reagì al contatto. Si infilò la maglietta e poi la camicia, abbottonandola. “Domattina dovrò svegliarmi presto, e non dovrò mostrare di aver avuto una serata movimentata. Si alzò per infilarsi il paio di stretti blue jeans che l’altro aveva apprezzato così tanto.

“Domani sera? Posso invitarti a cena?” domandò, fingendo indifferenza.

“Ho il volo domani pomeriggio.” Rispose Bankotsu.

“Ah. Torni presto a Lille, questa volta. E’ stata proprio una toccata e fuga.” Il tono acido della frase non riuscì proprio a trattenerlo.

L’altro sospirò, sedendosi nuovamente sul letto, vicino a lui. Lo coprì con le lenzuola, come se fosse un bambino riluttante ad andare a dormire. “Jakotsu…” sospirò nuovamente, alzando lo sguardo verso il suo volto.

Gli occhi, quei due opali iridescenti che lui non avrebbe mai smesso di ammirare, brillavano nella semioscurità. “Devo dirti una cosa.”

“Fai pure.” Disse il ragazzo castano, cercando disperatamente di darsi un tono noncurante. Quando Bankotsu usava quella frase, per lui significava qualcosa di tremendo. “C’entra la tua ragazza?”

Bankotsu annuì, distogliendo lo sguardo dall’altro. “Ti ho sempre detto che ti avrei fatto soffrire. Iniziò. “Eppure tu non hai smesso di cercarmi.”

“Beh, nemmeno tu l’hai fatto.” Si sforzò di allargare le sue labbra nel suo sorriso più genuino. Doveva ringraziare la penombra, o Bankotsu avrebbe notato che le sue labbra erano tirate nervosamente. “Avanti, spara, non lasciarmi sulle spine!”

“Mi sposo.”

Questa non se l’aspettava.

Aveva sempre creduto –sperato – che la ragazza di Bankotsu fosse una copertura, o che fosse una storiella passeggera, con cui riempire il tempo che era costretto a passare a Lille.

Non riuscì nemmeno a tenere il sorriso sforzato. “Ah.” Ripeté. “Così giovani?” si sforzò di parlare, cercando in tutti i modi di mantenere un tono neutro. “Senza convivere prima?” Non gli stava riuscendo bene.

“Quindi è… un addio?”

Bankotsu rispose che era meglio di si.

“Già, in effetti. E’ meglio così. Sai… il matrimonio è molto importante, è una cosa che… che ti cambia la vita. Ed è molto impegnativo… perciò… si, è meglio lasciar perdere le avventure. Decise di smettere di tentare di parlare. La voce gli tremava troppo.

L’altro si alzò, prendendo la giacca abbandonata su una poltrona ed infilandosela. Gli si avvicinò, sfiorandogli nuovamente la guancia pallida. “Mi dispiace, non volevo che finisse così. Sembra serio, e sincero. Come era sempre sembrato. Ma lo era mai stato davvero? 

“Non hai mai voluto che finisse in modo diverso. O che le cose si evolvessero” si, questo doveva almeno dirglielo. Si voltò di scatto verso il comodino, aprì il cassetto e ne estrasse un pacchetto di sigarette. Le lunghe dita affusolate lo aprirono e ne estrassero una. Se la infilò tra le labbra, poi prese dal cassetto anche l’accendino e l’accese. La fiammella illuminò per un istante anche il volto di Bankotsu, così vicino ora al suo. Sembrava che i suoi occhi fossero lucidi. Si tolse la sigaretta dalla bocca, espirando il fumo sulla sua faccia. Lo vide chiudere le palpebre e soffocare un colpo di tosse. Salutista com’era, aborriva il vizio del fumo, detestava l’odore di tabacco e non sopportava sentirlo su di lui. Per questo, quando lo veniva a trovare, Jakotsu si sforzava di non accenderne neanche una. E di arieggiare la casa, di cambiare le lenzuola. Di usare quel bagnoschiuma al muschio bianco che a lui dava il mal di testa, ma che a Bankotsu piaceva tanto.

E di cucinargli al quelle polpette alle verdure, tutte filamentose ed insapori, che lui doveva mangiare ad occhi chiusi per non vomitare.

Ma ora non aveva più importanza. Ora non occorreva più nessuno sforzo, nessun sacrificio da parte sua.

Quando la nuvola di fumo si dissolse dal suo viso, Bankotsu non si era mosso di un millimetro. Aveva solo aperto gli occhi. “Mi dispiace” ripeté. “Tu non sai quanto… avrei dovuto starti alla larga.”

Per quanto ora si sentisse in bilico sull’orlo del precipizio, Jakotsu ponderò i momenti che aveva passato insieme a lui. Quattro anni di incontri, prima assidui poi sempre più rari, anelati, sospirati. E sempre segreti.

Perché Bankotsu aveva una reputazione da difendere. Lui era un leader nello sport, lui era la medaglia d’oro della nazione agli ultimi mondiali di Karate. Lui aveva aperto una palestra, grande e famosa, a Parigi. Ed un’altra, sempre grande, nella sua città natale, Lille. Dove aveva anche una ragazza. Una fidanzata.

Jakotsu in tutti quegli anni l’aveva ammirato, capito, supportato. Aspettato. Si era comportato prima di tutto da amico, e poi da innamorato. C’era però da riconoscere che Bankotsu non aveva mai cercato di illuderlo. Gli aveva sempre detto la verità in faccia. Non nuda e cruda, questo era vero. Ma non l’aveva mai nascosta.

“Sei stato leale con me. A tuo modo.” Mormorò, un colpo alla sigaretta per far cadere la cenere. Per terra. Ma ora il disordine in camera non aveva importanza. Poi aspirò un’altra boccata.

Bankotsu gli spostò, con delicata forza, le dita e la sigaretta dalla bocca, e le sostituì con le sue labbra. Sembrò prendere in sé il veleno del fumo, a toglierlo, insieme al respiro, ai battiti del cuore e all’ultima illusione, da Jakotsu.

Un bacio d’addio.

Si staccò e si allontanò, camminando lentamente verso l’uscita. Sembrò quasi tentennare. Poi riprese decisione ed uscì dalla stanza. Pochi passi nel corridoio ed era giù uscito dall’ingresso, chiudendo la porta alle sue spalle.

Jakotsu chiuse gli occhi con decisione. Quel momento doveva tenerlo per sempre con sé, come monito alle relazioni future.

E sarà difficile che decida di averne una seria, dopo questa esperienza. Si disse. Si alzò e si diresse verso la finestra, aprendola un poco per fare uscire il fumo. La strada sotto casa era vuota. Alle due di un martedì notte (o di un mercoledì mattina, che dir si voglia), anche le grandi arterie della città erano vuote. Figurarsi una delle poche viuzze anonime di Montmartre.

Gli prese improvvisamente la foga di uscire, di distrarsi, di dimenticare.

Pensò di perdersi tra qualche locale a Pigalle, di conoscere un uomo – un uomo qualsiasi che lo trovasse almeno un poco attraente – e di portarlo in quella camera dove, solo mezz’ora prima, aveva gridato di piacere il nome del suo (ex) amante.

Ma poi desistette. Chi lo avrebbe aperto poi, il negozio, l’indomani mattina?

A proposito, doveva trovarsi un’assistente. Ormai iniziava ad avere un discreto giro di conoscenze, che lo trattenevano per ore fuori dal negozio per servizi fotografici di vario genere. Era meglio assumere qualcuno che stesse al banco e che svolgesse le mansioni più elementari.

Bene, ottima idea.

Domani avrebbe cercato subito. Avrebbe messo fuori un bel cartello.

 

Si staccò dalla finestra, e fissò il letto. Tra quei cuscini l’aveva baciato, accarezzato, amato. Che stupido idiota che era stato a sprecare tempo e giovinezza rincorrendo un sogno che scappava con fermezza da lui.

E adesso c’era ancora l’impronta del suo corpo sul materasso! E il suo odore sul cotone delle lenzuola! Se avesse controllato, probabilmente avrebbe trovato anche uno dei suoi lunghi, lucenti capelli neri su uno dei cuscini.

Spense la sigaretta con rabbia nel posacenere. Poi raccolse le lenzuola spiegazzate, tolse le federe dei cuscini e ne fece fagotto. Si diresse al bagno e gettò il tutto, con forza, dentro la lavatrice. Impostò il programma, riempì la vaschetta di detersivo e l’avviò.

Rimase per qualche istante incantato dall’oblò. Poi si diresse dentro la doccia.

I suoi vicini di casa non sarebbero stati contenti, ma questo era un problema secondario. Attese in un angolo del box che l’acqua calda scorresse, poi si tuffò completamente sotto il getto confortante.

 

Quasi sorrise, scuotendo la fradicia chioma ribelle. Suonava strano soffrire d’amore (Si, perché il suo era amore – quello di Bankotsu no, forse. Ma il suo lo era eccome!) a Parigi, la città dove ci si innamorava per antonomasia.

Gli venne in mente uno dei suoi film preferiti, ambientato proprio in quella città. Sotto l’acqua scrosciante, cantilenò a mezza voce il motivetto con cui si apriva la scena iniziale, una strofa che aveva sempre sentito sua:

There was a boy...
A very strange enchanted boy.
They say he wandered very far, very far
Over land and sea,
A little shy and sad of eye
But very wise was he.
And then one day,
One magic day, he passed my way.
And while we spoke of many things,
Fools and kings,
This he said to me,
"The greatest thing you'll ever learn
Is just to love and be loved in return."

 

C’erano ancora tante cose là fuori. Stolti e Re.

Tra le tante cose per cui valeva la pena vivere, ce n’era una in particolare: Le sorprese.

 

 

 

 

Arieccomi, prima del previsto!!!

In realtà non riuscivo a staccarmi completamente dalla storia che avevo appena terminato… Continuavo a pensarci, e nonostante avessi anche altri soggetti (sicuramente più interessanti di questo) da prendere in considerazione per scrivere, non ho potuto fare a meno di partorire questa…idiozia.

Questa FanFiction è da considerarsi uno Spin-Off di This Time Around. Sono gli anni di Kagura (e di Jakotsu! – Numi del Cielo, com’è OOC) in Francia.

Ciò vuol dire che non dovete per forza leggervi il mio precedente lavoro. Cercherò di rendere le due cose il più indipendenti possibili l’una dall’altra. Purtroppo temo che qualche collegamento tra le due sarà inevitabile, ma cercherò di circoscriverlo il più possibile

NOTE: il titolo deriva da una canzone della colonna sonora di MOULIN ROUGE! (uno dei miei film preferiti), così come il titolo del capitolo ne è un verso. Complainte de la Butte significa ‘la canzone malinconica del Colle (Montmartre)’, mentre il significato del nome del capitolo è “Il mio sogno svanisce”

Ed è proprio a Moulin Rouge che Jakotsu pensa sotto la doccia, canticchiando la prima strofa di Nature Boy, con cui si apre il film.

 

Spero di fare un buon lavoro.

Grazie intanto per aver letto almeno questo capitolo.

E.C.

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Deuxieme Chapitre: La Noyee ***


Complainte de la Butte

Complainte de la Butte.

 

Deuxieme Chapitre : La Noyee

 

Uscì dall’hotel, sul marciapiede, venendo investita dai raggi di un grande sole che scaldava la mattinata invernale di Parigi.

Si infilò gli occhiali scuri, questa volta più per proteggersi dalla luce che per protezione, e si incamminò, senza una meta precisa. Percorse a passi lenti, calmi, respirando tranquillamente la via, sino a trovarsi in  Place du Tertre.

Si mescolò  in mezzo al turbinio di turisti e di artisti di strada. Si lasciò coinvolgere dai loro lavori, dai sorrisi nei ritratti a carboncino che avevano appesi ai loro cavalletti, dalla musica di un trio di chitarristi. Ammirò una bancarella che vendeva chincaglierie artigianali e si lasciò convincere dalla giovane venditrice ad investire qualche spicciolo in un paio di orecchini fatti da una fila di piccole perline di vetro verdi.

Ou, madame, vous etes très Jolie!” l’adulò la ragazza. Kagura sorrise, ammirandosi allo specchietto che le porgeva per aiutarla ad infilarseli. “Merci!” ringraziò, riprendendo la passeggiata.

Non poteva fare a meno di continuare a guardarsi attorno, attraverso le lenti scure. On riusciva a smettere di temere di vedere spuntare una faccia familiare da qualche angolo della strada.

Ma smettila! Si rimproverò. Devi abituarti a considerarti libera! Il profumino di crepes le arrivò alle narici, stuzzicando il suo stomaco. Ora che ci pensava, non aveva fatto nemmeno colazione. Ne acquistò una ripiena di crema alla nocciola e si sedette su una panchina a mangiarla, guardando l’andirivieni davanti a sé.

Si frugò in tasca, come a controllare che le banconote che aveva con sé quella mattina fossero ancora al loro posto. Doveva usarle con estrema parsimonia.

Dopo aver pagato il documento falso e qualche abito la sera precedente, non le restava molto. Calcolò che avrebbe potuto permettersi quel piccolo e infimo hotel ancora per una settimana.

Doveva sbrigarsi al più presto a trovarsi un lavoro.

Le venne da ridere. Lei, di solito così meticolosa e precisa nella preparazione di un suo qualsiasi passo, aveva trascurato l’aspetto economico della sua nuova vita. Era troppo disperata per guardare al di là della scaletta dell’aereo.

Tutti commettiamo degli errori. Si confortò. Si domandò se qualcuno si fosse accorto della sua assenza. Erano passate ormai due giorni dalla sua scomparsa. Si domandò se avessero già trovato la sua auto, e se la sua denuncia aveva sortito qualche effetto. Chissà se avevano arrestato Naraku. A questo pensiero sospirò. “Gli uomini come lui riescono sempre a cavarsela. Si disse, accartocciando la confezione della crepes e gettandola nel cestino dei rifiuti a suo fianco.

Chissà cosa starà pensando ora Sesshomaru… Sospirò nuovamente, sentendo qualcosa dentro di sé farsi sempre più pesante ed occuparle i polmoni. La libertà aveva il retrogusto amarissimo del prezzo da pagare. E nel suo caso era l’unica persona che le aveva dato appoggio e comprensione.

E non solo.

Gli aveva detto che lo amava, prima di interrompere la conversazione e di consegnarsi all’oblio.

Lei lo amava? Davvero? Si ama uno che si abbandona? Lei non aveva altra scelta.

Davvero?

Scosse la testa con decisione, giocherellando con le maniche della giacca che lui le aveva comprato in una boutique dell’Hakurei. Un milione di anni prima. Lei non aveva altra scelta. Se fosse restata con lui, avrebbe dovuto continuamente guardarsi alle spalle. Non sarebbe riuscita a vivere tranquillamente, a passeggiare per la città, a godersi il sole e il cielo terso. E i suoi incubi l’avrebbero tormentata.

Ma Sesshomaru ora che pensava? La odiava? Le mancava? Voleva far gettare Naraku in cella a vita? O si era disinteressato alla questione, scrollandosi di dosso quel fardello di guai che si era portato in casa per chissà quale motivo?

 

Non doveva più affliggersi con questi dubbi. Ora lei era a Parigi – la più bella città del mondo! -  Ed era riuscita a concedersi questa seconda, preziosa, insostituibile, chance. Che non doveva sprecare per nulla al mondo. Ora lei aveva il cielo azzurro, il suono degli organetti nelle orecchie e il profumo di una città che aveva lottato per la propria libertà. Come lei.

Il peso scese dai polmoni allo stomaco.

Ma non c’era Sesshomaru.

La sera precedente (la sua prima notte libera! Quanto aveva sognato quel momento…) quando si era stesa tra le grezze lenzuola del letto dell’hotel, la mancanza del suo uomo l’aveva travolta come una gelida ondata improvvisa. Si era sentita sola e sperduta. Era rimasta avvolta nei dubbi, in preda ai brividi dell’incertezza. Aveva pianto a lungo. La libertà era diventata la sua croce e la sua delizia.

Trovava insopportabile persino la solitudine, la sua più cara amica durante la sua vita a Villa Onigumo.

Poi aveva aperto la borsa e aveva scoperto che, nella foga dei preparativi, aveva infilato tra i suoi pochi vestiti anche la maglia del pigiama di Sesshomaru. L’aveva annusata a pieni polmoni. Sapeva di lui! L’aveva indossata senza pensarci due volte e si era di nuovo stesa nel letto. Cullata dal suo profumo, come quando si svegliava al mattino al suo fianco, Kagura era finalmente scivolata in un sonno senza sogni né incubi.

 

Riprese il cammino, facendo scivolare lo sguardo di vetrina in vetrina.

Forse avrebbe dovuto chiamarlo e dirgli che era tutta una messa in scena, scusarsi per averla fatta e chiedergli di raggiungerla a Parigi.

No.

Questa cosa non aveva senso. Avrebbe vanificato completamente i suoi sforzi.

E poi aveva preso una decisione, no? E quando prendeva una decisione, lei non tornava mai indietro.

Coerenza, Kagura, coerenza. Le ripeteva sempre sua madre, quando la vedeva indecisa su ciò che doveva e quello che voleva fare.

Per ogni strada percorsa, c’era un dazio da pagare. Ed il suo era perdere la persona che amava.

 

Il suo sguardo amaranto si posò sulla vetrina di uno studio fotografico, “Vie Lumièrè”, apprezzando il gioco di parole, studiò le foto esposte. Un ragazzo dai capelli ribelli raccolti sulla testa, scivolò tra le foto esposte e la superficie di vetro, un foglio di carta in mano e il roto di nastro adesivo tra le labbra rosee. Posò il foglio contro il vetro e lo appese per gli angoli con un paio di puntine di scotch. Poi, senza alzare gli occhi verso di lei, volse le spalle e tornò verso il bancone, assorto nei suoi pensieri.

Kagura guardò incuriosita il foglio. Era bianco. Le venne da ridere. Picchiettò sul vetro per attirare l’attenzione del giovane, che si voltò incuriosito.

Il est blanc!” mormorò la donna, scandendo bene le parole.

Lui guardò il foglio e alzò gli occhi al cielo, battendosi la fronte con il palmo della mano, mentre un sorrisetto sbadato gli compariva. Si riavvicinò al vetro e girò il foglio, sempre attaccandolo allo stesso modo. Kagura notò i suoi lineamenti dolci, quasi femminili, e il piccola smorfia che avevano assunto le sue labbra, quasi imbarazzata. Quando finì, alzò gli occhi scuri, dal taglio quasi orientale, verso di lei, congiunse le mani davanti al viso e, con un accennato e scherzoso inchino mosse le labbra in un ringraziamento.

Lei guardò di nuovo il foglio: Recherche commise  (Cercasi Commessa) Avvisava.

Rimase inizialmente sorpresa. Aveva appena pensato di dover cercare assolutamente un lavoro, ed ecco che trovava quel cartello appeso. Quasi le venne da ridere. Doveva interpretarlo come un segno del destino?

“Aiutati che il ciel t’aiuta?” pensò, guardando la schiena del ragazzo andare verso il bancone e trafficare con vari oggetti, mettendo a posto qua e là.

Oh, beh, valeva la pena tentare, no? D’altronde, lei cosa aveva da perdere?

La mano si posò sulla maniglia della porta, e la spinse piano, quasi esitando. Il campanello d’entranta tentennò, un suono quasi fatato.

Il ragazzo, che nel frattempo era tornato dietro al bancone, alzò la testa castana di scatto e la guardò, accennando un sorriso.

Excuse moij’ai vu votre tableu…” iniziò Kagura, improvvisamente a corto di vocaboli in francese. Lui la studiò un secondo, assottigliando gli occhi in un’espressione concentrata Japonais, n’est pas??indovinò.

La donna rimase di sasso. Annuì.

“L’accento.” disse lui nella sua lingua, alzando le spalle. “Mio padre era di Osaka.” Aggiunse, sorridendo.

A Kagura scappò da ridere. Un’ulteriore prova che il mondo era incredibilmente piccolo. “Dicevo, ho visto il cartello alla vetrina e…”

Lui alzò di nuovo agli occhi al cielo. “Non dirmi che è ancora bianco! Io non so dove ho la testa oggi….!

“Oh, no, no!” lo interruppe la donna. “E’ solo che… beh, ecco, io stavo cercando lavoro quindi..

“AH!” esclamò il ragazzo, colpito. “Non mi aspettavo una risposta così presto. Accidenti, questo si che è record. Sei una fotografa?”

Kagura rise nuovamente, improvvisamente nervosa ed imbarazzata. “Beh, ho fatto un corso fotografico all’università – ma ormai sono passati un po’ di anni… facevo arte e…” cercò di spiegare, mentre capiva, parola dopo parola che non aveva proprio le credenziali adatte.

“Meglio così. Non mi ruberai il lavoro.” Cinguettò il ragazzo, interrompendola.

Lei lo fissò meravigliata. Aveva forse capito male?

“Ho bisogno subito di qualcuno da mettere al bancone, per prendere appuntamenti e semplicemente per sviluppare i rullini dei miliardi di turisti là fuori, mentre io sarò impegnato per dei servizi fuori negozio. Non sono una persona che rimugina molto sulle cose, e visto che hai abboccato come un pesce… Io mi chiamo Jakotsu. Gli porse la mano.

Kagura rimase letteralmente a bocca aperta. Davvero era stato così facile? No, impossibile, doveva esserci qualcosa sotto. Ma d’altronde, lei cosa aveva da perdere? Riuscì a riprendersi, sforzandosi a mantenere il proprio controllo. Deglutì, prima di sorridere e stringere la mano del ragazzo. Per poco non si tradì, presentandosi con il suo nome nuovo. Vesper notò lo sguardo perplesso di lui. “Genitori filobritannici…” spiegò timidamente.

Lui non sembrò farci caso.“E anche un po’ Hippies, immagino!”

 

Nella successiva mezz’ora Jakotsu le aveva mostrato lo sviluppo istantaneo delle foto, il programma del computer con cui prendere appuntamenti (Kagura si trattenne dal ridere: lo usava da dieci anni per gestire la sua agenda d’affari...) e il gestionale per i pagamenti. La istruì brevemente sugli articoli in vendita nel negozio, come cornici, poster della città o macchine fotografiche usa e getta. “Non sono più tanto di moda” confessò. “ma qualche volta capitano turisti disorganizzati.

Avevano parlato del compenso (una misera in confronto a quello a cui era abituata, ma doveva farselo bastare. Sorrise compiaciuta come se fosse stata  una somma considerevolmente alta) e della tipologia di contratto. Infine, si scambiarono i numeri di telefono e Kagura si fece fotocopiare il suo (falso) passaporto.

“Abiti molto lontano da qui?”

“Non tanto, il mio hotel è su Rue Bervic.”

Jakotsu storse il naso. “Hotel? Ti fai spennare come una turista qualunque?”

Lei alzò le spalle, centilenando il bicchiere di tisana alla menta che il suo nuovo datore di lavoro le aveva offerto. “Sono a Parigi da poco più di due giorni! Una cosa per volta…”

Il ragazzo si mangiucchiò l’unghia del pollice, pensieroso. “Hai intenzione di cercare un appartamento intero o ti basta una stanza?”

Rispose che sapeva a che livello astronomico fossero gli affitti parigini. “Mi basta una stanza, conosci qualcuno che le affitta?”

“Quanto deve essere grossa come stanza?”

Furono interrotti da una cliente tedesca che voleva acquistare un poster del Sacre-Coeur. I due si guardarono, poi Jakotsu, con un gesto cerimonioso, fece segno a Kagura di occuparsi della signora.

 

“Non ti aspettare molto, anche io sono in affitto, e posso permettermi solo questo buco.. E’ poco più di uno sgabuzzino… ma sei magra e dovresti starci.” Spiegò, un po’ imbarazzato, mentre salivano le strette e buie scale del palazzo. Arrivati al terzo piano, la donna cercò di nascondere il suo giramento di testa, mentre il ragazzo estraeva dallo zainetto un vistoso mazzo di chiavi, decorato con un portachiavi di peluche rosa.

Beh, almeno non doveva temere di essere finita tra le braccia di un maniaco. Si trovava con lui da nemmeno un giorno, e aveva capito che il suo capo non era interessato minimamente alle donne. Poco prima della chiusura era entrato in negozio un ragazzo biondo molto avvenente, che l’aveva fatto quasi sciogliere in lacrime. “Mondieu!! aveva squittito quando il cliente era uscito. “Per uno così avrei dato un braccio!”

Kagura era scoppiata a ridere. In effetti non era davvero male…

Lui l’aveva guardata storto. “Giù le mani” aveva sibilato. “L’ho visto prima io.” Quando la donna gli aveva fatto notare che il biondino si era congiunto ad una morettina che l’attendeva dall’altro lato della strada, Jakotsu l’aveva informata che non era poi così simpatica come le era sembrata inizialmente.

Il ragazzo aprì la porta di casa, ed entrò, presentando l’appartamento con il cerimonioso appellativo di “Chateau Jakò”.

 

Kagura si guardò attorno, entrando timidamente con il suo borsone in spalla. L’ingresso era su un corridoio giallo limone, al quale si affacciavano quattro porte. La porta davanti a sé conduceva ad una piccola sala dalle pareti lilla coperte interamente di fotografie o riproduzioni di quadri, dotata di un angolo cottura abbastanza scalcinato.

Vi entrò, curiosando sul mobilio, mentre il padrone di casa, alla finestra, ciarlava sulle abitudini dei suoi dirimpettai.

Contro una parete vi era divano verde, dall’aria datata e pieno di cuscini colorati e decorati, di fronte, su un piccolo mobile d’arte povera vi era un televisione e un lettore DVD. Dvd e libri e candele riempivano gli scaffali di una libreria in un angolo.

Jakotsu le mostrò la propria camera da letto. Non era molto grande, con pareti verdi, un armadio ad ante scorrevoli tappezzate di sticker, una scrivania ingombra di vestiti e volumi, ed un letto matrimoniale in ferro battuto, anche questo completamente sommerso da cuscini colorati dalle varie forme, uno diverso dall’altro.

“Adori i cuscini, vedo.” Notò la donna, ammirando comunque la fotografia di una scogliera al tramonto che campeggiava sulla testiera del letto.

Il ragazzo scoppiò a ridere. “E’ una delle mie ossessioni. Ne prendo in continuazione. Ne ho dovuto regalare un paio ad alcuni miei amici perché non sapevo più dove metterli!”

Il piccolo bagno azzurro era l’unico posto libero da fotografie o poster, ad eccezione di una polaroid infilata nell’angolo dello specchio.

Infine. Jakotsu si diresse verso l’unica porta chiusa. La guardò, imbarazzato, ormai certo di un rifiuto. “Beh, e qui c’è la camera degli ospiti…” Aprì la porta. “Anche se chiamarla camera è forse eccessivo.

Kagura vi tuffò la testa dentro. Vi era un letto singolo, di legno, coperto da un lenzuolo bianco, probabilmente per non fargli prendere polvere. Nella parete di fronte, un piccolo armadio con due ante. Lo spazio era talmente ridotto che calcolò che, per aprire le ante, doveva inginocchiarsi sul letto. Due mensole sulle pareti giallo chiaro completavano il mobilio.

La donna si voltò verso il ragazzo, appoggiato allo stipite della porta, che si mordicchiava il labbro inferiore.

“Non ho le parole per descrivere la tua casa. Disse, semplicemente.

Mignon?”  suggerì il ragazzo, torcendosi una ciocca di capelli castani sfuggiti alla forcina.

“Forse MARVEILLEUSE è il termine esatto…”

 

Aveva sempre desiderato una casa del genere. Colorata, caotica, piena di fotografie, di immagini. Ciò che aveva davanti era la realizzazione delle sue fantasie, dei suoi sogni. E poco le importava se per aprire l’armadio dovesse arrampicarsi sul letto o se non aveva molto spazio vitale nella sua stanzetta. Quel piccolo ed eccentrico appartamento per lei valeva molto di più della villa in cui aveva abitato sino a quel momento.

 

Jakotsu aveva cinguettato il suo accordo, e si era avviato canticchiando verso la cucina, dove aveva intenzione di stappare una bottiglia di un qualsiasi cosa per festeggiare l’evento.

Kagura si abbandonò sul materasso. “Fa che non sia un sogno” pregò. “Fa che tutto ciò sia reale…!” Sorrise ai raggi del sole che scompariva dietro ai tetti.

Si, il prezzo da pagare era stato alto, ma forse, giorno dopo giorno, le sarebbe stato meno doloroso.

Il padrone di casa aveva trovato un cartone di infimo vino da cucina “Non ho ancora fatto la spesa, questa settimana…. Si giustificò. La donna accettò comunque di buon grado il bicchiere, tracannandolo tutto d’un sorso dopo il cin-cin di rito, e seguendo Jakotsu nelle smorfie disgustate.

“A Parigi da due giorni, hai già trovato lavoro e casa.” Sospirò lui, aggiungendo altro vino ad entrambi i bicchieri. “Sei una ragazza estremamente fortunata”

La donna gettò lo sguardo fuori dalla finestra, temendo di non riuscire a nascondere nulla allo sguardo del ragazzo. Fortunata?  Beh, da poche ore si.

 

 

 

 

Ok. Ok. Ci sto provando ragazze. Faccio del mio meglio.  Grazie comunque a Kirarachan per la recensione, e a Rohchan e a PikkolaRin per avermi inserito nei preferiti (credo sia stata una scelta di fiducia, più che altro…spero di non deludervi…)

D’altronde, io non sono mai stata nemmeno a Parigi. Ma ieri ho comprato la guida per andarci, così, per non scrivere troppe scemenze. ^^’

Questi due capitoli sono stati puramente introduttivi… spero di riuscire a “rianimare” un po’ la situazione.

Se non si è notato, sono una fervida e convinta sostenitrice della frase “Sorridi alla Vita che la Vita sorriderà a Te. (o aiutati che il ciel t’aiuta, come volete)

La Noyee (l’annegata) è una musica tratta dal film francese “Il Meraviglioso Mondo di Amelie”, ambientato, appunto a MontMartre . Trovo che la colonna sonora sia spettacolare (anche il film non è male) e la sto ascoltando a ripetizione per avere l’ispirazione.

Per quanto riguardo le frasi in francese qua e là: Ho cercato di mettere quelle di significato intuitivo…. Così da non continuare a fare note su note di traduzione. Se notate errori grammaticali… beh, segnalatemeli pure. Ormai il francese lo utilizzo come conversazione, la scrittura non è il mio forte.

à la prochaine!!!!!

 

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Capitolo 3
*** Troisieme Chapitre: Notre Vie ***


Complainte de la Butte

Complainte de la Butte.

 

Troisieme Chapitre : Notre Vie

 

Fondamentalmente non aveva fatto nulla di così avventato, o stupido. Aveva seguito semplicemente il corso degli eventi e aveva fatto una proposta degna del suo modo d’essere.

Quindi, alla fine, nulla di così eclatante, per una persona che, come lui, era definito un vulcano pronto ad eruttare idee balzane; incomprensibili, impensabili e assurde dalla gente normale.

D’altronde, una volta Bankotsu non l’aveva associato alla parola Weird?

Ecco, ancora quel nome che compariva tra i suoi mille pensieri. Sbuffò, interrompendo a metà il “Saluto al sole”, unica posizione di Yoga che si era dato la pena di imparare, e che ripeteva tutte le mattine, per chissà quale motivo.

Non poteva farne a meno. Per quanto cercasse in ogni modo di controllare la mente e di focalizzare la sua concentrazione su precise situazioni, e di non lasciare il suo pensiero a vagare leggero come faceva di solito, alla fine quel dannato nome spuntava fuori da qualsiasi discorso cercasse di intraprendere, con sé stesso o con gli altri.

Per fortuna la sua nuova coinquilina non si era rivelata una gran chiacchierona ficcanaso, almeno in quei primi giorni di convivenza, quindi lui nei suoi sproloqui era riuscito ad evitare di incappare nel nome di Bankotsu tra una frase e l’altra. Ma non parlarne era buono per metabolizzare il tutto e passare al livello di oblio?

Pensando ad altro, ma Vesper stava ancora dormendo?

Raggiunse la porta della camera e bussò, picchiettando le dita ritmicamente. “Yu-hu!” cantilenò “Avanti, dormigliona, devi guadagnarti la pagnotta anche questa mattina!”

Sentì un mugolio sommesso provenire dalla stanza, poi, dopo pochi secondi, la donna aprì la porta e si presentò con i capelli arruffati e gli occhi gonfi, vestita solo di una maglietta sformata.

Uh-hu! Famme Fatale…!” la canzonò il ragazzo, mentre lei si dirigeva, ciondolando, verso il bagno, senza smettere di strofinarsi gli occhi. “Vuoi qualcosa da mangiare? C’è del pane tostato, yogurt, succo d’arancia scaduto solo da due giorni…”

“No, grazie, non ho per niente fame.” Bofonchiò, dirigendosi verso il lavello. La vide guardarsi disgustata allo specchio, poi prendere tra le dita la piccola polaroid infilata nella cornice. “Che carino.” Commentò. “Il tuo ragazzo?”

Jakotsu gliela tolse velocemente di mano. “No. E’ il mio ex… non-so-bene-come-qualificarlo” spiegò, in un tono scocciato da cui trapelava una punta d’amarezza.

La donna si stiracchiò. “Hai fatto male a lasciarlo. Era proprio carino.”

“E’ stata una decisione comune.” Sventolò l’immagine, indeciso se rinchiuderla in un cassetto o se distruggerla. “Più sua che mia, ma comunque…” La strappò con decisione in più pezzetti. “Non fare quella faccia. Mai avuto un inqualificabile?”

La donna rispose con una scrollata di spalle, prima di farlo uscire dal bagno invocando la privacy.

 

Come ogni mattina, lei aveva tentato di convincerlo a prendere la metro per recarsi al negozio. Questa volta oltre al suo dirigersi con finta nonchalance verso le gradinate della stazione sotto casa, aveva anche aggiunto una piccola e buffa moue, risultata come sempre inutile.

“Mezz’ora di camminata non ti farà altro che bene!” gli ripeté per l’ennesima volta, trascinandola via. “Con lo stipendio che prendi, non puoi permetterti una palestra.

“Devo ancora prenderlo lo stipendio” bofonchiò di risposta. Poi sbuffò, sconsolata, con lo sguardo di fuoco che vagava qua e là frenetico, come al solito. Jakotsu alzò gli occhi al cielo. “Oh, Vesper! Quando fai così non ti sopporto. Sembri una spia russa che teme di farsi riconoscere!”

“A proposito, posso chiederti di non chiamarmi più Vesper?”

“Allora sei davvero una spia russa? Come ti chiami, Tatiana?”

La donna sbuffò di nuovo. “No, non voglio più sentire questo nome. Chiamami Kagura, il mio nome vero, e facciamola finita.

Il ragazzo si grattò il mento, pensieroso. Effettivamente aveva notato un nome diverso sui documenti della donna, ma non ci aveva fatto poi così tanto caso. Lui non si formalizzava mai su queste cose burocratiche. “Vesper cos’è, un soprannome?”

Lei annuì, fingendo indifferenza, guardando la strada, cercando di evitare la gente che camminava in senso opposto.

Il ragazzo assunse un’aria risoluta. “Era il nomignolo che ti dava uno dei tuoi focosi uomini?”

Lei annuì di nuovo, sul viso l’espressione di chi non poteva dire altrimenti.

“Oh oh oh… E magari lo ripeteva rocamente nell’apice della passione… pronunciandolo così: Veeeespeeeer!”

“Ma smettila!” lo rimproverò lei, un po’ infastidita, colpendolo con le nocche sul braccio. “Si, era un soprannome datomi dal MIO Ex-non-so-come-qualificarlo. Contento?”

Halleluya!” esclamò lui. “finalmente conosco qualcosa della mia misteriosa coinquilina!”

“Potresti anche scoprire che sono una psicotica serial killer….

Jakotsu sorrise leggermente, divertito. “Beh, di certo non mi annoierei…” Arrivati al negozio, estrasse le chiavi del grosso lucchetto e aprì la serranda. “Ma raccontami un po’ del tuo Ex-non-so-come-qualificarlo…”

Lei lo precedette all’entrata, lapidandolo con un secco: “Non c’è nulla da raccontare. È passato e basta.”

Nuovamente, il ragazzo alzò gli occhi al cielo. Entrare in confidenza con quella testona gli sembrava, a volte, un’impresa quasi impossibile. Era curioso di sapere se avevano più punti in comune di quanti non si potesse notare al primo impatto.

Aveva il bisogno spasmodico di trovare qualcuno con cui condividere i suoi frenetici stati d’animo, o con cui confrontarsi. Non pensava di avere attorno qualcuno con cui parlare davvero. La gente che conosceva, i suoi amici, erano abituati a vederlo indossare una maschera, ed era etichettato come quello allegro, spensierato e stralunato, che squittiva e flirtava con ogni ragazzo carino che gli capitava sotto tiro. E lui non si sentiva a proprio agio a mostrarsi diversamente con loro. A volte temeva di deludere qualcuno, rivelando come si sentisse realmente.

Ma la sua nuova assistente non lo conosceva minimamente, e forse la loro coabitazione poteva risultare produttiva in più punti, oltre a quello professionale.

Si era stancato di tornare a casa e trovare l’appartamento vuoto, ma si sentiva troppo debole per tentare di cercare una relazione seria.

E Kagura, o Vesper, o Tatiana, qualsiasi nome essa avesse davvero, sembrava capitata sul suo sentiero per aiutarlo a guarire. Il caso, a volte…!

 

“Questa sera ti va di uscire?” domandò Jakotsu, dopo aver consultato la propria messaggeria del cellulare.

Lei alzò gli occhi dal programma di fotoritocco sul computer con cui stava prendendo confidenza.

“Oh, non preoccuparti, non è un appuntamento…” aggiunse ironico. “Dicevo… un giro in un locale, magari una cenetta veloce, un po’ di musica dal vivo…”

La donna alzò le spalle indecisa, prima di asserire.

“Perfetto! Andremo al locale di un mio amico. Ti piace la musica Jazz? A me non fa impazzire, ma giusto per passare una seratina tranquilla…”

Lei annuì, indifferente. “Basta che non andiamo in un posto tròp chic, non ho nulla da mettermi…”

 

Il locale era piccolo, ma arredato con gusto, in stile vintage, sottolineato dal quartetto jazz che suonava in un piccolo palco in un angolo.

Era pieno di gente, di cui gran parte coppie di vario genere, che sorseggiavano cocktail chiacchierando o ascoltando la musica.

Jakotsu salutò con voce squillante un paio di bei ragazzi, avendo poi cura di spettegolare su di loro con Kagura, che sembrava essere, finalmente, quasi a suo agio e si guardava attorno con la viva curiosità di chi si trova ad apprezzare un posto nuovo.

Si diressero al bancone, dove il proprietario, un uomo non molto alto, ma ben piantato, dalla testa avvolta in una bandana nera, era intento nella preparazione delle bibite.

Il ragazzo lo salutò allegramente, occupando uno degli sgabelli liberi e invitando Kagura a fare lo stesso con quello a suo fianco. “Lui è Renkotsu.” Spiegò. “E’ il proprietario del locale, ci conosciamo dai tempi dell’università. Prepara il Cosmopolitan migliore di tutta Montmartre.

Il proprietario alzò la testa dallo shaker che stava riempiendo, salutando i due con un sopracciglio alzato e un cenno scattante del capo.

“E’ un pò timido, all’inizio…” bisbigliò il ragazzo alla compagna, che annuì, non molto convinta.

“Avete intenzione di ordinare o solo di stare li a fissarmi?” sbottò il proprietario. Jakotsu sbuffò, alzando gli occhi al cielo. “Quando fai così sei insopportabile….” Disse prima di ordinare un Tequila Sunrise.

“Anche per me” aggiunse Kagura, dopo una breve scorsa al menù.

Mentre il barman preparava i cocktails, Jakotsu si mise a studiare con lo sguardo la sua coinquilina, seduta dritta sullo sgabello, le gambe elegantemente accavallate. Doveva ammetterlo anche lui, aveva che di affascinante, e il movimento lieve del suo collo, che faceva posare gli occhi rubino sulle facce degli altri avventori, le regalava un portamento elegante, nonostante i vestiti semplici che indossava. In quei pochi giorni Jakotsu l’aveva vista sempre intenta in una qualche attività, come se cercasse di tenersi occupata per porre un freno ai suoi pensieri, come cercava di fare lui, d’altronde. E l’ammissione di un suo ex disperso da qualche parte gli faceva presupporre che ciò fosse vero.

“Non mi hai raccontato nulla di te.” Chiese, con finta noncuranza. “Come mai sei venuta a Parigi?”

Lei rispose pronta, cercando di mascherarsi dietro un sorriso fintamente sereno. “Avevo deciso di cambiare la mia vita.”

“Dal tono che usi non doveva essere granché…” eppure non aveva l’aspetto di chi era passato attraverso grandi tribolazioni. Le mani, i capelli, e anche quella pelle diafana gli sembravano molto curati. Poi aveva l’abitudine di truccarsi in un modo molto leggero, puntando su un rossetto rubino, dello stesso colore dei suoi occhi, com’era di moda. Anche il suo modo di parlare, di camminare e di sedere gli suggerivano che non proveniva di certo dai sobborghi di una metropoli.

Un’ombra le passò veloce sul volto. “Si, non era granché.” Ammise. Renkotsu gli porse il loro cocktail, e lei recuperò un sorriso tirato e lo ringraziò.

“Di cosa ti occupavi? Mi hai detto che hai studiato arte…” incalzò lui, giocherellando con la cannuccia e le guarnizioni.

“Già, ma poi …sono stata costretta a cambiare. Sorseggiò il liquido colorato, in una smorfia d’apprezzamento. “Sai, i casi della vita… Lavoravo nell’azienda di famiglia.

Il ragazzo fece una smorfia di disapprovazione. “Lavoravi con i tuoi famigliari? Brutta situazione…” degustò anche lui il cocktail. “E poi così, di punto in bianco ti sei licenziata e sei partita per Parigi?”

Lei annuì, sorseggiando ancora il cocktail. “Proprio così. Volevo… riappropriarmi dei miei spazi.”

Anche Jakotsu prese un sorso della bevanda. “Ci vuole un discreto coraggio per fare certe scelte.

Di nuovo un’ombra passò sul volto pallido della donna, che annuì, guardando altrove.

Il ragazzo le lanciò un’occhiata complice e curiosa “E….il tuo ex-non-so-come-qualificarlo? Era da molto che stavate insieme?”

Lei sogghignò, alzando le spalle. “Non tanto. Però…abbiamo vissuto insieme per un certo periodo. Adorava la sua vita. Non avrebbe funzionato, anche se mi ha aiutato molto nei…momenti difficili.”

Jakotsu la fissò incredulo. “L’hai lasciato tu?”

“Praticamente…si, è stata una mia scelta.

“E lui era d’accordo?”

Kagura arricciò le labbra, indecisa. “Non credo. Ma non ne sono sicura. E’ un tipo…come dire… criptico.”

Il ragazzo fece segno di aver capito, perdendo lo sguardo nel bicchiere. Certe persone sputavano proprio in faccia alla fortuna.

Renkotsu spuntò dal retrobottega, un sorrisetto mellifluo sulle labbra sottili. Aveva una grossa busta in mano, che gettò sul bancone di fronte ai due. “Jakotsu, à toi!”esclamò.

Curioso, il ragazzo la prese e domandò cosa fosse, mentre l’apriva. “L’ultimo lavoro del tuo concorrente…”

Rispose il barman, incrociando le braccia, quasi con soddisfazione.

Jakotsu scoppiò a ridere. “Suikotsu?” Strappò la busta continuando a sorridere, spiegando a Kagura: “Siamo vecchi compagni d’università, abbiamo fatto anche il corso di fotografia insieme. Ma lui preferisce essere un fotografo…da gossip. Lavora per uno di quei giornaletti scandalistici, hai presente, no? E passa tutto il suo tempo a scattare foto sorridenti di personaggi più o meno famosi che…”

Il provino della copertina di giornale che si trovò in mano lo lasciò senza fiato. Boccheggiò per qualche istante come un pesce, prima di deglutire. “Ma guarda chi si vede!” mormorò, cercando di imitare un sorriso.

La foto, larga tutta la pagina, ritraeva Bankotsu, abbracciato alla sua ragazza, entrambi con sorrisi quasi più larghi della faccia. Alle loro spalle, gli Champés Elysées a fare da romantico sfondo, mentre il titolo, che campeggiava a mezza altezza, annunciava che “Dopo l’oro olimpico, le nozze”. Un’altra foto li ritraeva a passeggio, mano nella mano, sereni ed innamorati, in un parco. E poi ancora un bacio davanti al Sacre-Coeur.

L’attenzione di Renkotsu venne catturata da un cliente, mentre Kagura, incuriosita, gli si era avvicinata e fissava anche lei la pagina. “E’ il tuo “Ex-non-so-come-qualificarlo?” bisbigliò la donna nell’orecchio. Jakotsu, pallido come un morto, annuì impercettibilmente.

“Che figlio di puttana…”

La voce del ragazzo tremava sensibilmente.“Beh, lo sapevo che aveva la ragazza… e che si stava per sposare…e che…”

“Mi riferivo al tuo amico barman”

Inspiegabilmente Jakotsu rise. Nervosamente, ma comunque ad alta voce. “La simpatia non è il suo forte.” Fece scivolare nuovamente il foglio dentro alla busta. Prese un bel respiro ed esclamò, con voce squillante:  Hey, Renky!”

L’uomo gli rivolse uno sguardo gelido.

Mica male la prima pagina… Questa volta Suikotsu ha fatto centro! Mi costringi a congratularmi con lui.”

Dal fianco opposto quello cui si trovava Kagura, si affacciò un ragazzo dall’aria colpevole. “Non avevo intenzione di mostrati quelle foto…”

“E perché no? Tanto sotto casa ho un’edicola che non vede l’ora di esporre questo giornale…!” Jakotsu si volse verso la donna. “Kagura, questo è il mio acerrimo rivale, nonché autore delle foto in questione. Suikotsu, questa è la mia nuova assistente Kagura.

Lui parve sorpreso, mentre le stringeva la mano cordiale, con un sorriso gentile.

“Non ti lasciare incantare dai suoi modi affabili. In realtà Suikotsu è veramente uno stronzo. A volte sembra quasi un’altra persona. Lo chiamavamo Schizofrenico, all’Università.

L’altro fece un segno di impazienza. “Ognuno ha i suoi problemi, no?”

Jakotsu ordinò una vodka liscia, poi domandò, falsamente ingenuo:“Quando hai fatto il servizio? Sembra recente…”

“La settimana scorsa Bankotsu e la sua ragazza erano qui in città.  Rispose Suikotsu, prima di ordinare un Manhattan.

“…la settimana scorsa? Davvero? Erano qui insieme?” Per nascondere il suo stato d’animo Jakotsu quasi si infilò tutto il bicchiere in bocca, mentre Kagura lo guardò sospirando.

Anche Suikotsu sembrava imbarazzato, giocherellando con l’orlo del bicchiere, senza alzare lo sguardo verso gli altri due. “Beh, si. Una toccata e fuga. Lei, sai, è una giornalista famosa. Doveva fare qualche servizio sul turismo a Parigi, e lui è venuto per i suoi soliti affari con la palestra. Ne hanno approfittato per rendere pubblica la questione matrimoniale.

Jakotsu ordinò un Martini, che Renkotsu servì gongolando, sotto lo sguardo quasi disgustato di Kagura. “Quindi li conoscevi?” domandò la donna, intromettendosi.

Suikotsu alzò le spalle. “Beh, eravamo tutti quanti nello stesso giro di amicizie, anni fa. La fidanzata di Bankotsu però l’ho conosciuta la settimana scorsa. Ero ad un party del giornale per cui lavoro, lei mi si è avvicinata e mi ha chiesto se il giorno dopo potevo farlo io il servizio. Pensavo che fosse una buona opportunità e che…”

“C’era anche Bankotsu al party?” lo interruppe Jakotsu, dopo aver tracannato il Martini tutto d’un sorso.

“Oh, no. Era ad una cena con  dei suoi allievi della palestra. O, almeno, così mi ha detto lei…”

Jakotsu sbatté il bicchiere con violenza sul bancone. Il Barman gli voltò le spalle per nascondere la risata.

Suikotsu gettò uno sguardo verso Kagura, in cerca d’aiuto, che non poté far altro che alzare le spalle, con aria impotente.

Il ragazzo aprì il portafoglio e gettò un paio di banconote sul bancone. “Lascia che ti offra da bere, Suiky. Ce ne è per un altro giro.” Si alzò dallo sgabello, sforzandosi di sorridere. “Io vado a casa, Kagura. Ho un po’ sonno e domani ho l’agenda piena di impegni. Se vuoi restare…”

La donna rispose che anche lei si sentiva stanca. Si avviarono verso l’uscita, dopo aver salutato con un cenno Renkotsu, mentre l’altro rimaneva al bancone, il bicchiere mezzo vuoto, a mordicchiarsi il labbro inferiore.

 

Suikotsu lo sapeva?” domandò Kagura, appena fuori dal locale.

Jakotsu fece segno approssimativo con la mano. “Diciamo che non sono mai riuscito a nascondere tanto di avere una tremenda cotta per Bankotsu. In compenso lui riusciva a nascondere qualsiasi cosa. Sospirò. “Dannatamente criptico anche lui.”  Giocherellò con una ciocca di capelli. “Però quando eravamo insieme stavo bene. Credo che stessimo bene entrambi.

Ma lui…beh, non se la sentiva di rendere tutto pubblico. Diciamo che se ne vergognava terribilmente. In fondo…lui è un personaggio pubblico…una stella dello sport. E…beh, non siamo tutti uguali, no? Cosi non lo forzavo…”

Estrasse il pacchetto di sigarette dalla giacca e ne offri una a Kagura, che accettò volentieri. “Cercare di vivere una storia con qualcuno a cui tieni, mantenendo tutto in segreto è maledettamente difficile, ma anche abbastanza eccitante.”

“Ne ho qualche idea, a proposito.” Annuì la donna. “Per vedere il mio Ex-non-so-come-qualificarlo dovevo scavalcare la siepe, sai?”

A lui scappò una risatina. “Montecchi e Capuleti?”

“Più o meno.”

Sentirono la voce di Suikotsu chiamare il ragazzo, poi comparire dall’angolo.

“Volevo chiederti scusa. Io…. davvero, non avevo intenzione di ferirti. Non pensavo che Renkotsu ti facesse vedere le foto. L’altra sera le avevo con me…. Ed ero preso dalla foga…sai, la mia prima copertina... mi ha chiesto se gliele lasciavo, e io ho accettato.”

Jakotsu abbozzò un sorriso. “Non c’è problema, davvero. Sapevo già che si stava per sposare.”

I tre rimasero in silenzio, Kagura che fumava nervosamente, guardando prima uno e poi l’altro. Gettò il mozzicone di sigaretta a terra, fumato a metà, e lo pestò decisa, con aria disgustata. “Mi è venuto il mal di testa…” commentò, massaggiandosi la fronte.

Il ragazzo annuì, e la prese sottobraccio, girandosi verso la strada di casa. Stava per salutare Suikotsu, quando lui lo precedette con una domanda a bruciapelo. “Bankotsu non era a cena con i suoi allievi della palestra, vero? Era con te. O sbaglio?”

Jakotsu rimase un po’ in silenzio, indeciso su cosa rispondere. Girò la testa sopra la spalla, guardando l’altro con la coda dell’occhio. “Come ti dicevo, sapevo già che si stava per sposare.

“Prevedibile!” fu il commentò dell’altro, prima di tornare dentro al locale, scuotendo la testa.

 

Camminarono per qualche metro in silenzio, entrambi immersi nei propri pensieri. Poi improvvisamente Jakotsu si riprese. “Perché non andiamo a ballare a Les Folies de Pigalle? Scommetto che non ci sei mai stata!”

Lei lo guardò stupita, sgranando gli occhi rossi. “Ma sei impazzito?” Domandò. Lui fece segno di non capire, come se fosse stata la cosa più normale del mondo. “Ascolta, se tu hai intenzione di scordarti di Bankotsu andando a caccia di altri uomini fai pure, ma, sinceramente, non è il locale propriamente frequentato da uomini del mio target e… e poi chi aprirà il negozio domattina?”

Il ragazzo soffocò una risatina. Non pareva convinto. “Andiamo, Kagura… andiamo a divertirci…!” la pregò, cercando di adularla.

Lei sospirò, sconsolata. Gli mostrò i vestiti, speranzosa “Non sono proprio vestita nel modo corretto, non credi?”

“Oh, non preoccuparti. Dirò che sei lesbica!”

Hey!” protestò la donna, prima di sbiancare di colpo. “Io è meglio che vada a casa.”

Jakotsu scalpitò sul posto, come un bambino a cui viene tolta la gita al parco giochi. Poi la guardò preoccupato. Sembrava sull’orlo di uno svenimento.

Kagura si portò le mani alla bocca e fece appena in tempo a voltarsi dall’altra parte, che vomitò sull’asfalto la cena e il cocktail bevuto. Lui la guardò terrorizzato, prima di cercare di soccorrerla, porgendole disgustato un fazzoletto di carta.

Ok, me lo segno tra gli appunti. Tu non reggi l’alcool.”

La donna si pulì la bocca con il fazzoletto, riprendendo fiato. “Se non reggessi l’alcool non sarei arrivata a quest’età.” Mugugnò.  Alzò lentamente la testa dolorante. “Deve essermi bloccata la digestione, con questo freddo. E’ davvero meglio che vada a casa…”

“Altroché. Se aspettiamo ancora un po’ chissà cosa combinerai…” La prese sottobraccio, un’aria di compatimento dipinta sul volto. “Femme Fatale…

Lei gli tirò una debole botta sul braccio, sena riuscire a trattenere un sorrisetto stanco.

 

 

 

Scusate ragazze! Ultimamente sono ultra impegnata, e non riesco sempre ad aggiornare con frequenza…

Altro capitolo abbastanza introduttivo….

Grazie a chi recensisce e a chi mi ha inserito tra i suoi preferiti!!

Cercherò in tutti i modi di non deludervi!

Come sempre, suggerimenti e critiche costruttive sono sempre ben accette!!!!!

E.C.

 

 

 

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Capitolo 4
*** Quatrieme Chapitre: Imrpévu ***


Complainte de la Butte

Complainte de la Butte.

 

Quatrieme Chapitre : Imprévu

 

“C’è da ammirare la tua costanza. Per quanto la trovi inutile”. Esordì Kagura, entrando, come ogni mattina, nel salotto, dove Jakotsu stava ultimando la sua posizione yoga.

“Buongiorno anche a te, ma jolie.” Rispose lui, le mani giunte sotto il mento, gli occhi chiusi e l’aria ispirata, rivolto verso la finestra. “Finché non lo provi non potrai mai capire il beneficio della meditazione tibetana.

La donna si avvicinò verso l’angolo cottura. Aprì il frigo, gettandoci uno sguardo disgustato. Non le andava giù niente, al mattino. Si sentiva lo stomaco bloccato e avvertiva anche un leggero senso di nausea. Richiuse lo sportello dopo aver deciso di sforzarsi a mangiare solo una mela.

Jakotsu la raggiunse: “Stomaco in subbuglio anche questa mattina?” estrasse dal frigorifero un barattolo di yogurt, osservò positivamente colpito che la data di scadenza non era già passata e l’aprì, infilandosi un biscotto in bocca prima di appoggiarsi sul tavolo per continuare la colazione. “Fossi in te andrei a farmi visitare…”

Lei scosse la testa. “Non è nulla, non ho mai avuto una gran fame, alla mattina.”  Questo era vero. Solitamente sorseggiava solo una tazza di caffè, mentre si preparava per andare in ufficio. Probabilmente tutti quegli anni di alimentazione scorretta, di nervosismo e di rabbia le avevano corroso lo stomaco, ed ora ne pagava le conseguenze.

Beh, Parigi valeva ben una gastrite.

E una nausea tremenda, che la lasciava libera poche ore al giorno. “Secondo me è lo stress.” Disse, pelando il frutto.

Jakotsu le mostrò un palmo di lingua, imbiancata di yogurt. “Puoi dire tutto di me, ma non che sono un capo stressante.

Lei sorrise, dispettosa. “Infatti sto parlando del mio coinquilino.”  Lo puntò con il coltellino con cui stava sbucciando la mela: “E delle sue rumorose nottate brave che mi tolgono il sonno.

Il ragazzo ridacchiò malizioso, guardando il soffitto: “Si chiamava Jean-Claude, ed era il modello di biancheria intima a cui ho fatto il servizio fotografico due giorni fa.” Assaporò lo yogurt sul cucchiaino chiudendo gli occhi. “semplicemente delizioso

Masticando il suo frutto, Kagura scosse la testa, ridendo. La compagnia di quel ragazzo era davvero positiva per l’umore. Jakotsu era incredibilmente creativo e spontaneo, sempre carico di energia, anche se a volte un po’ esagerato nelle sue espressioni e nei suoi comportamenti. E poi si sentiva incredibilmente in empatia con il suo lato malinconico, che emergeva di tanto in tanto. Jakotsu era un personaggio dalle mille sfaccettature, che viveva indossando una maschera di risate e leggerezza per nascondere la propria insicurezza o i propri sentimenti.

E nessuno meglio di lei riusciva a capire quanto fosse pesante quella maschera da indossare.

“E tu, quando decidi di rimetterti in carreggiata?” Gli domandò a bruciapelo, continuando l’assalto allo yogurt.

“Presto” mentì la donna. In realtà non sentiva affatto il bisogno di avere un altro uomo, non si sentiva ancora pronta a sostituire Sesshomaru. Andare a letto con qualcun altro gli sarebbe sembrato un tradimento nei suoi confronti, anche se, di fatto, la loro storia doveva definirsi conclusa. Ma era così tremendamente difficile chiudere la porta al passato. A quasi un mese dal suo arrivo a Parigi, Kagura non si sentiva ancora al sicuro, e nei momenti di solitudine il passato tornava a tormentarla. Dolce come il miele se le saliva dal cuore il ricordo di quel’uomo che non riusciva a smettere di sentire suo, Fiele terribile quando a torturarla a bussava il fantasma terrorizzante di suo fratello Naraku.

Come ad intuire la sua bugia, Jakotsu cinguettò: “Chiodo scaccia chiodo. Fai come me, hai visto, come sono bravo a trovarmi compagnia?”

“Forse sei un po’ troppo bravo” borbottò lei, squadrandolo con il suo sguardo indagatore, dal sopracciglio alzato.

Lui la guardò un attimo interdetto, prima di scoppiare a ridere: “Ma per chi mi hai preso, per lo scemo della città? Kaguretta, so bene cosa c’è la fuori, in che guai potrei cacciarmi. Non mi crogiolo nell’autodistruzione, preferisco cautelarmi!” Sempre ridendo, terminò la sua colazione. “E con questo, non c’è nulla di male. Ti ho già detto, chiodo scaccia chiodo.”

“E come faccio a trovarmi un uomo se quelli che mi presenti tu sono tutti interessati a te?”

“Beh, devi imparare a cavartela da sola, no?”

Kagura sbuffò, tetra. “Non ne ho voglia.”

Jakotsu sospirò che non capiva come una persona non potesse perdere la libido. “Deve essere questa la vostra famosa sindrome premestruale. Concluse, rimettendo a posto le stoviglie da lui utilizzate e dirigendosi verso la porta.

La donna interruppe la sua parca colazione, fissando l’ultimo pezzo di mela rimasto. Le era sfuggito qualcosa, o no? Alzò gli occhi verso il calendario appeso in un angolo, stringendo gli occhi per mettere meglio a fuoco i numeri del mese. “Che giorno è oggi?”

“10febbraio.” Rispose il ragazzo. “Ho una marea di appuntamenti. Temo che non riusciremo nemmeno a pranzare insieme. E anche stasera dovrai chiudere il negozio da sola, farò tardino. Ti spiace?”

Assorta nei suoi calcoli, Kagura non afferrò tutta la frase. Jakotsu, alzando gli occhi al cielo ripeté, e lei annuì distrattamente, mentre gli occhi rubini tornavano di nuovo al calendario.

“Benissimo, ci vediamo stasera.” Salutò lui, uscendo canticchiando nella sala. Dopo aver sentito la porta d’ingresso chiudersi, Kagura si alzò e si avvicinò al lunario appeso.

Gennaio presentava anche una colonna del mese conclusivo dell’anno precedente.

Con la punta del dito la donna  passò in rassegna i giorni, sforzandosi di ricordare la data del suo ultimo menarca. Era esattamente a metà dicembre . Poi più nulla.

“Oh no….” Gemette, portandosi una mano alla fronte. Ci mancava solo questa. Contò di nuovo i giorni. Ma come poteva essere stata più stupida da non accorgersi di nulla? Da non tenere conto di questa mancanza?

Che la sua vita fosse stata finalmente sconvolta in quegli ultimi due mesi era vero; ma, dannazione, addirittura dimenticarsi della sua natura di donna era troppo!

Grattandosi la fronte, sentendosi improvvisamente senza forze, si sedette al tavolo. “Ah, smettila Kagura, di fare la stupida. E’ impossibile.” Anzi, no. In fondo, era anche vero che, nella fretta della sua fuga da Villa Onigumo, non era nelle condizioni di pensare a portare con sé la confezione di pillole anticoncezionali.  E quando lei e Sesshomaru avevano fatto l’amore non si erano di certo preoccupati di usare altre precauzioni.

La donna scosse la testa. No, non era possibile. Semplicemente lo stravolgimento delle sue abitudini aveva scombussolato il suo organismo. Le sarebbe tornato il ciclo da un momento all’altro, ne era sicura.

Si affrettò ad uscire di casa, quasi per lasciarsi alle spalle il dubbio, e percorse la strada per il negozio con più fretta del solito, quasi correndo.

 

Aveva la nausea da giorni.

Spesso le girava la testa.

Il ciclo non arrivava.

Ma perché diamine ci si doveva mettere in mezzo anche un problema simile? Kagura appoggiò i gomiti al bancone e si prese la testa tra le mani. Aveva voglia di piangere.

Era il suo destino vedere la libertà per cui aveva lottato scivolarle tra le mani non appena pensava non fosse più un’illusione?

Non poteva aver faticato così tanto per nulla, questa volta. Ma doveva comunque togliersi ogni dubbio. Doveva fare un test di gravidanza. Guardò l’orologio, che segnava mezzogiorno e mezzo. Avrebbe chiuso il negozio e avrebbe fatto un salto in farmacia.

Si rialzò da quella posizione non appena sentì la porta d’ingresso aprirsi.

Invece di un cliente entrò Jakotsu sorridendo, in mano un involucro. “Sono riuscito a liberarmi prima, ti ho portato qualcosa da metterci sotto i denti!” Appoggiò i pacchetti sul bancone. “Ho anche preso della frutta, nel caso non ti sentissi ancora molto bene…. Aggiunse, guardandola bene in volto. “In effetti, non hai per niente una gran cera.

Lei annuì, affermando che in effetti non si sentiva molto in forma. “Ma non è niente, non preoccuparti.”

“Dovresti farti vedere da un medico.” Gli consigliò nuovamente, prendendo d’assalto il proprio panino.

Kagura annuì nuovamente, mentre si dirigeva verso la vetrina e girava il cartellino nella scritta FERME’ – CLOSE. Ritornò al bancone, accorgendosi di aver fame. Prese un panino e iniziò a sbocconcellarlo, mentre l’altro le raccontava del servizio della mattina.

“Una coppia di americani ricchi sfondati, che vogliono tornare a casa dalla loro luna di miele con un book fotografico da catalogo. Evviva la spontaneità, dico, ma sai quanto riesco a spennarli?”

Raccontò che aveva passato la mattinata a fotografarli in giro per Montmartre, per poi riuscire a seminarli in un ristorantino tipico, non prima di una foto sul tavolo sulla strada. “… e ci manca ancora L’Ile, Place de la Concorde, La Tour e les Champes Elysées… tutto prima che cali la luce. A volte Parigi la detesto. E poi questi due… così sdolcinati che sembrano usciti da uno di quegli insulsi libri per adolescenti!”

“Così melensi da sembrare finti.” Asserì lei.

Il ragazzo annuì con foga. “E comunque potrebbero essere finti.” Confidò, abbassando il tono della voce come se potessero entrare da un momento all’altro e avvicinando il viso al suo. “La ricca è lei, è un’ereditiera. Carina, ma tanto oca… e il marito era il suo giardiniere. Con un fisico da dieci e lode. Ti pare una cosa un po’ costruita?”

Kagura scoppiò a ridere, dandogli della comare pettegola. Lui alzò le spalle. “Io ho detto solo un mio pensiero.”

La donna sospirò. La sua vita era perfetta, il pensiero di incrinare quel’equilibrio in cui era stata accompagnata dalle braccia della fortuna le stringeva il cuore.

Detestava gli imprevisti, erano così dannatamente difficili da gestire.

“Qualcosa non va?” domandò Jakotsu, masticando l’ultimo pezzo del panino. “Parlando dei due piccioncini ti ho ricordato il tuo Leggendario Uomo?”

Lei scosse la testa con forza. “Assolutamente. Era l’anti-sdolcinatezza per eccellenza. Fortunatamente.”

“Tu hai qualcosa che non va, ragazza mia. Credo sia davvero meglio che vada a farti visitare. Domani pomeriggio se vuoi ti accompagno.”

Kagura apprezzò l’interessamento del ragazzo, ma gli rispose che era adulta e vaccinata, e che sarebbe andata da sola. Sperando che il mio malessere non sia quello che temo.

“Come vuoi” alzò le spalle l’altro. Guardò l’orologio, sobbalzando sull’orario. “Vado, o l’amichetta di Paris Hilton avrò una crisi isterica e inizierà a strillare così sottile da sembrare ultrasuoni.

“Il che mi ricorderebbe qualcuno…” sorrise la donna, mentre lui, uscendo, le mostrava un palmo di lingua.

“Ci vediamo stasera, niaise

 

Richiuse la porta di casa alle sue spalle, rimanendo per un istante avvolta nel buio, quasi senza rendersene conto, tanto era immersa nei suoi pensieri. Sempre senza accendere la luce, si diresse verso la sala, guidata solo dalla luce dei lampioni che filtrava dalle tende tirate. Una volta arrivata presso il tavolo accese la luce, quindi vi appoggiò la borsa della spesa sul tavolo e la borsetta. L’apri e, lentamente ne estrasse la confezione comprata in farmacia. Era arrivato il momento della verità.

Sentiva una certa frenesia in corpo, quasi a volersi togliere il pensiero il prima possibile. Si diresse in bagno leggendo le istruzioni, concentrata, il cuore in subbuglio.

Prese lo stick tra le dita e seguì le istruzioni. Quindi, attese, davanti allo specchio. Studiò il proprio volto, il proprio fisico. La superficie riflettente la mostrava a mezzo busto. Si guardò il ventre piatto, cercando di immaginarselo arrotondato. Se lo sfiorò un paio di volte, sempre scuotendo la testa.

Sospirò più volte.

Lesse sulla confezione che il risultato era assolutamente affidabile. Cosa avrebbe fatto se quel test fosse risultato positivo?

Avrebbe compiuto trenta anni a giugno, non era di certo una ragazzina. Ma non si era mai immaginata madre, né sentiva il desiderio di un figlio. Forse perché aveva altri pensieri in testa.

Guardò lo stick.

Sembrava un alone. No, non era chiaro, sembrava una cosa sbiadita, quindi non era da prendere in considerazione.

L’alone si fece più scuro. E divenne una linea, netta. Blu.

Kagura si portò le mani sulle labbra, lasciando cadere il test, soffocando un grido. Sentì la gola bruciare e le lacrime pizzicarle gli occhi, per poi uscire prepotentemente, seguite dai singhiozzi.

Era incinta.

 

Tesooorooooo, sono a caaaasaaaa!” Cinguettò radioso Jakotsu, entrando dalla porta canticchiando. Kagura, ancora accasciata sotto il lavandino del bagno, se ne accorse a malapena. E adesso come avrebbe fatto a dirglielo? Sicuramente l’avrebbe licenziata, se non addirittura cacciata di casa. La sua vista fu annebbiata nuovamente dalle lacrime, che ripresero a scorrere, mentre cercava di soffocare i propri singhiozzi premendosi la mano sulla bocca.

“Gli americani mi hanno pagato subito, e in contanti!” lo sentì spiegare nel corridoio. “Ho preso una bottiglia di quel vino bianco che ti piace tanto, mi pare un’ottima occasione per festeggiare!” Lo sentì andare nella sua camera. “Ma dove sei finita, Kaguretta?” Infine la sua testa castana fece capolino nel bagno.

Kagura non riuscì nemmeno ad alzare lo sguardo da terra. Lui si avvicinò a lei, preoccupato. “Stai male? Sei svenuta?” gli chiese, scuotendola dolcemente.

Cercò di sforzarsi a smettere di piangere, senza riuscirci. Provò ad abbozzare una spiegazione, ma i singhiozzi le spezzavano il respiro e impedivano alla voce di uscire. Lui le fece segno di tacere, prendendola sottobraccio ed aiutandola ad alzarsi. “Forse hai avuto un calo di pressione. Dannazione, Kagura, ti avevo detto di andare da un medico!” La scortò sino al divano, dove la fece sedere e cercò invano di convincerla a sdraiarsi. Infine, il ragazzo notò lo stick di plastica che stava reggendo ancora in mano. “Che cos’è?”

Kagura inizialmente si ritrasse, stringendolo a sé, poi pensò che non avrebbe avuto senso nascondere la cosa e lasciò che lui glielo sfilasse di mano. Lo vide scrutarlo senza capire. Conscia che le sue parole avrebbero scatenato un inferno, ma ormai rassegnata a ciò, la donna cercò di trattenere i singhiozzi. “E’ un test di gravidanza.”

Jakotsu sgranò gli occhi, senza toglierli dalla linea blu. “E cosa dice?” domandò, già conoscendo la risposta.

La guardò, incredulo. “Sei incinta?”

Presa nuovamente dai singhiozzi, Kagura non poté far altro che annuire, tuffando il viso nelle mani.

Rimasero per qualche istante in silenzio, seduti l’uno a fianco dell’altro, interrotti solo dal pianto di Kagura. Poi il ragazzo le passò una mano sulle spalle e l’attirò a sé, appoggiando la testa contro la sua.

“E adesso?” domandò, con tono dispiaciuto. “Torni in Giappone?”

Lei tirò su con il naso, asciugandosi le lacrime con le maniche della maglia. “Non posso” mormorò. “E non è necessario.”

Jakotsu la guardò interdetto. “Ma aspetti un bambino, Kagura.” Sembrò ricordarle, con dolcezza. “…dovresti crescerlo con suo padre, non credi?”

La donna scosse la testa con decisione, sforzandosi di recuperare lucidità mentale.  Il ragazzo scosse la testa, portandosi le ginocchia al petto ed abbracciandole. “Guarda che è difficile crescere un figlio da sola. il tono pacato divenne improvvisamente cupo e malinconico “Maledettamente difficile. Te lo posso assicurare. Temi un suo rifiuto? Potrebbe anche non esserci. Potrebbe anche accettarlo e magari, addirittura esserne contento. Non vuoi almeno provare?”

La donna scosse la testa, alzandosi dal divano e dirigendosi verso la cucina. Sentiva lo sguardo del ragazzo seguirla. Prese tra le mani la bottiglia di vino che Jakotsu aveva appena portato in casa e la stappò, ne riempì un bicchiere e ne bevve un gran sorso.

“Ma cosa diavolo fai! L’alcol fa male al bambino!”

Lei si voltò verso di lui. Passato l’attimo di panico, di disorientamento, aveva riacquistato la sua determinazione. Sentiva la sua testa girare vorticosamente, ma non avrebbe ceduto al suo stato. “Non ha nessuna importanza, Jakotsu, perché io non crescerò nessun bambino.

Si guardarono, restando in silenzio.

“Domani pomeriggio andremo da un medico.” Decise il ragazzo.

“Non è necessario che tu venga, Jakotsu. Come ti dicevo oggi, sono adulta e vaccinata, e posso farcela da sola.

Lui scosse di nuovo la testa. “Voglio evitare che tu faccia delle sciocchezze avventate, di cui potresti pentirti.

Kagura rimase colpita dalle sue parole. Jakotsu era davvero una persona dai mille volti, e quello che le stava mostrando ora, era quello di un ragazzo maturo e determinato. Non riusciva ad afferrare bene il perché si stesse comportando in quel modo, perché sembrava interessato a lei e al suo stato. Non si rendeva conto che sarebbe stato un peso anche per lui?

“Jakotsu, io non posso né voglio tornare sui miei passi. Voglio restare qui, voglio continuare a vivere questa vita che mi sto costruendo. E’ la vita che desidero, e ho faticato parecchio, te lo posso garantire, per essere qui oggi. Non lascerò che una leggerezza distrugga tutto.

Lo vide sospirare mestamente. “Perché ti preoccupi per questo?” gli domandò.

Lui alzò gli occhi neri da terra e glieli puntò in faccia. “Perché dubito fortemente che tutto potrebbe tornare come prima, per te. E sinceramente, ho sempre creduto che i figli fossero una bella cosa, da avere.

“Non stiamo parlando di un bambolotto. Stiamo parlando di responsabilità, di esseri che ti prosciugano la tua linfa vitale, a cui devi dedicarti anima e corpo, a cui devi donare tutta la tua attenzione.”

Jakotsu alzò le spalle. “Per me non c’è problema, sai. Se hai bisogno di una mano – e so già che ne avrai bisogno, io sarò sempre e comunque qui.

Lei si stupì ulteriormente. “Mi conosci da appena un mese. Non sai nulla di me…”

“So quanto basta. So che tu hai sofferto.” Fu la risposta. “E’ una cosa che traspare da ogni fibra del tuo essere. Eppure, non sei una che si arrende facilmente, sei tenace e decisa. Non ci vuole un genio per capirlo. E sei una persona fondamentalmente molto sola. Tanto quanto me. Per questo ti capisco.”

“Tu non sei solo, hai un sacco di amici e…”

“Si può essere soli anche in mezzo alla folla. Anzi, ti dirò, è il tipo di solitudine più diffuso, e più letale. Sai, Kagura, io credo nel destino.” Gli occhi gli brillavano, ma non di malinconia o di pensieri tristi. Brillavano di speranza. “Il destino ha fatto in modo che io e te ci incontrassimo, qui a Parigi, nella città dei nostri sogni, in un momento in cui entrambi non avevamo nulla da perdere, in qui entrambi decidevamo di dare una svolta alle nostre vite. Siamo stati feriti entrambi, probabilmente in modalità diverse, abbiamo toccato entrambi il fondo. Non dirmi che non è vero. Però, Kaguretta… quando si raggiunge il fondo non si può far altro che darsi una bella spinta e risalire. Non è vero?”

La donna annuì, sentendosi d’accordo in tutta la linea. Era vero, la sequenza di eventi che l’avevano portata sino a quel punto aveva un che quasi di sovrannaturale.  Guardò nuovamente il ragazzo di fronte a sé, al suo volto senza maschere, e pensò di essere stata davvero fortunata ad averlo incontrato. Ma il suo cuore era  pesante, si sentiva tradita da sé stessa. Come poteva perdonarsi un errore così madornale? E poi c’era un’altra questione, ancora più tremenda, che la stava dilaniando. Vi era anche la possibilità che quel bambino non fosse di Sesshomaru, ma che… no, non ci voleva nemmeno pensare. Cercò di scacciare quel pensiero dalla sua testa, sottolineandolo con un cenno della mano. No, non poteva davvero tenere il bambino. L’indomani si sarebbe rivolta ad un medico, ne avrebbe parlato e avrebbe agito. Non avrebbe sopportato una cosa simile.

“Non…non sono pronta a fare la madre.”

“Oh, se è per questo nemmeno io ad essere il padre. Dirò che sono un semplice donatore di sperma.

Rimasero per un istante a guardarsi, prima di scoppiare entrambi a ridere.

 

Eccomi di nuovo!! Vi avviso, questa storia potrebbe procedere un po’ a rilento… ultimamente è un periodo un po’ incasinato per me…

Grazie per le recensioni, per i preferiti, grazie, grazie, grazie!!!!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** Cinquieme Chapitre: Histoires ***


Complainte de la Butte

La Complainte de la Butte.

 

Cinquieme Chapitre : Histoires.

 

 

Tu-tutum tu-tutum. Tu-tutum tu-tutum

Il ritmo della metropolitana veniva scandito dalle luci di emergenza che lampeggiavano a tratti al di là dei finestrini, squarciando il riflesso dei loro volti sui vetri.

Tu-tutum tu-tutum

Jakotsu ormai aveva rinunciato a tentare di far parlare Kagura e non poteva far altro che studiarne il riflesso cupo e stanco, le labbra rosse pizzicate nervosamente dai denti. Dalla sera precedente, qualsiasi risposta che otteneva non era più lunga di un semplice monosillabo. Aveva cercato di intavolare una conversazione già al mattino appena svegli, chiedendole se fosse riuscita a dormire la notte precedente, o come si sentisse. Di ritorno, aveva ricevuto solamente uno sguardo torvo attraverso le occhiaie vistose, che gli sembrava una risposta abbastanza esauriente.

Che cosa le starà passando per la testa, in questo momento? Si domandò per l’ennesima volta. Gli aveva ripetuto più volte che era inutile darsi pena per il bambino, che non l’avrebbe mai accettato e che non l’avrebbe tenuto. La sua determinazione e il occhi fiammeggianti l’avevano fatto desistere dai suoi propositi convincitivi.  Era soltanto riuscito a strapparle l’accordo di accompagnarla dal dottore, quel pomeriggio.

Kagura aveva scelto la dottoressa dopo una breve scorsa all’elenco telefonico. Questa o quella per lei non faceva la differenza, dato che aveva già preso la sua decisione.

Eppure… c’era qualcosa che gli sfuggiva. Qualcosa che non quadrava. Jakotsu non era di certo un genio, ma aveva il pregio di essere un grande osservatore. Era abituato a studiare le persone che lo circondavano, semplicemente osservandone i gesti e i modi di parlare. A volte gli capitava di farlo anche con la gente per strada. Il motivo vero e proprio non lo sapeva nemmeno lui, a dire il vero. Forse sentiva semplicemente il desiderio di incontrare una persona che stimolasse la sua curiosità e con cui condividere uno stato empatico, qualcuno che valesse davvero la pena conoscere. Quella donna era una sfinge dagli occhi enigmatici. E dura come la roccia. La persona più complessa che gli fosse mai capitato di incontrare.

Ah, glielo diceva sempre, sua madre, che sarebbe dovuto diventare uno psicologo… eppure la trovava una professione così noiosa da non prenderla mai davvero in considerazione.

Così, teneva la psicanalisi coatta come hobby, da fare nei momenti vuoti, come mentre mangiava un panino in un bar o mentre si trovava in una metropolitana. Sembrava strano, ma non era forse vero che la fotografia, cioè la sua professione, fosse l’hobby di milioni di persone?

Ecco, beh, d’altronde lui non era l’antiabitudinario per eccellenza? L’eclettico? L’imprevedibile?

Il Weird?

Oh, dannazione, ancora con questa storia. Si stava stancando del suo stato piagnucoloso. E isterico.

Piagn-isterico. Bel neologismo, in quale si identificava in quel momento. Piagn: perché non riusciva ancora a metabolizzare bene la sua “perdita” e sentiva sempre la sua mancanza, e Isterico perché non riusciva a sopportare tutto ciò.

Per fortuna che c’era Kagura, a ricordagli che i problemi erano ben altri, e che lo distraeva. Senza di lei a quest’ora sarebbe impazzito.

 

La metro si fermò ad una stazione. Gente che scendeva dal vagone, gente che saliva. La maggior parte di loro erano turisti. Tra un paio d’ore sarebbe stato l’orario di punta dei pendolari che uscivano dagli uffici. Sperò che la visita non durasse tanto. Se c’era una cosa che detestava era quella di dover prendere la metrò quando era affollata: lo irritava essere pressato come una sardina in scatola.

Mai una volta che gli capitasse di essere nello stesso vagone di una aitante squadra di rugby. O di un team di pompieri. Beh, quello sarebbe stato indubbiamente più interessante. Si lasciò sfuggire un sorrisetto sognante, lasciando la mente libera di costruirsi una fantasia. Quanto era probabile che la nazionale di Rugby dovesse prendere il metrò in maglietta e calzoncini? Con tanto di palla ovale in mano?

O che cinque bei pompieri smontassero dalla caserma con ancora indosso le loro divise, appena sporchi di fuliggine?

“La prossima fermata è la nostra” lo informò Kagura, dando un’occhiata al foglio degli appunti. “siamo in perfetto orario.”

Lui annuì, scendendo dalle nuvole. Quella era un’occasione per dimostrare di avere i piedi per terra, qualche volta.

 

 

“Non c’è bisogno di nessun controllo, né tanto meno di nessun esame, ho già deciso di non tenerlo, dottoressa. Il tono di Kagura era freddo, controllato, calmo. La frase stonava con l’ambiente circostante: L’ambulatorio in cui erano stati accolti era un inno alla gravidanza, con le pareti tappezzate di poster informativi e di foto di avanzamenti fetali. Jakotsu, sinceramente, li trovava un po’ inquietanti.

“Non prenda decisioni affrettate, Kagura.”, rispose il medico, invitandola ad accomodarsi sul lettino e a sollevarsi la maglia, mentre accendeva l’apparecchio per l’ecografia. “Prima di tutto controlliamo che effettivamente sia in corso una gravidanza, e di quanto è avanzata.

Kagura sembrava tesa e nervosa, mentre la dottoressa le spalmava il gel sul ventre. Il ragazzo le si sedette di fianco, cercando di sorriderle confortante, prendendole la mano. Era curioso. “Come le dicevo, secondo i miei calcoli, non dovrei essere a più di quattro settimane. Spiegò Kagura.

“Sta entrando nella quinta.” La corresse la dottoressa. Voltando verso di loro lo schermo dell’apparecchiatura e indicandogli un punto  “Eccolo qui.”

Sia Kagura che Jakotsu strizzarono gli occhi per cercare di vedere meglio. Non si riusciva a distinguere granché. La dottoressa ingrandì l’immagine. “E’ lungo già 2millimetri. Un vero gigante.”

“Ma… è brutto!” esclamò Jakotsu, deluso dalla foto sfuocata che vedeva sullo schermo. Si tappò subito la bocca con la mano, certo di aver detto qualcosa di terribilmente sbagliato, gettando lo sguardo allarmato verso la donna sul lettino. Lei non sembrava nemmeno essersene resa conto, assorta com’era dalle immagini.

La dottoressa, con uno sguardo trionfante, sicura di riuscire a calamitare ulteriormente la positiva reazione della paziente, premette un pulsante, e un rumore gracchiante e ritmico provenne dal macchinario.

Questo, signora, è il cuore del suo bambino.”

Rimasero entrambi in silenzio, mentre lei gli illustrava la posizione, spiegandogli quali rischi ci potevano essere sino all’ottava settimana, la più delicata, in cui si formava il sistema nervoso del feto.

Jakotsu accarezzò con un dito la guancia di Kagura, non sorprendendosi di trovarla umida. Era sicuro che avrebbe cambiato idea, quando si sarebbe davvero resa conto di aspettare un vero bambino.

Alla fine lei avrà qualcuno che l’amerà incondizionatamente pensò, con una fitta leggera di invidia.

Ripresa dall’iniziale stupore, la donna domandò se si potesse definire precisamente la data del concepimento.

La dottoressa si avvicinò al terminale, non prima di aver stampato un’immagine dell’ecografia, e inserì nel computer i dati che Kagura le forniva.

“Il concepimento è avvenuto tra il 27 dicembre e il 1° di Gennaio. Rispose, sicura. “Al massimo il 2, verso le prime ore del mattino”

Invece di mostrare qualsiasi segno di sollievo, Kagura si infilò una mano nei capelli, deglutendo faticosamente “Non c’è qualcosa di più preciso?” incalzò. Il ragazzo notò una nota di panico nella voce. Non si sarebbe messa ancora a piangere, vero?

La dottoressa alzò le braccia. “Ha solamente quattro giorni di dubbio…”

“Esiste un test del dna da effettuare subito?”

“Oh no, signora, mi dispiace. Il test può essere effettuato solo dopo la nascita del bambino.

Lo sguardo di Kagura scese sulla propria pancia, che pulì delicatamente dal gel con un fazzoletto di carta.

“Allora non posso proprio tenerlo.”

 

Kagura era sprofondata nuovamente nel suo mutismo. Non aveva parlato più parlato nella fase finale della visita, né tanto meno durante il tragitto verso casa.

Così Jakotsu decise di prendere in mano la situazione non appena chiusa la porta dell’appartamento alle sue spalle.

“Dunque… non sei così sicura che sia del tuo Leggendario Uomo?”

Lei annuì con noncuranza, fingendo di trovare interessante il contenuto del frigorifero e di pensare a cucinare la cena.

Il ragazzo si appoggiò alla parete, le braccia incrociate sul petto. “E’ pur sempre tuo figlio.” Mormorò, cercando di mantenere un tono calmo e confortante.

Kagura sbatté il vaso di sugo che aveva in mano sul tavolo, alzando gli occhi al cielo, furiosa. “Non è una cosa rilevante.” Sibilò, puntandogli addosso gli occhi infuocati. “Non è una cosa che ti riguarda, perciò, stanne fuori. Ho già preso la mia decisione, e non tornerò indietro.

Un silenzio pesante riempì la stanza, mentre lei tornava ad occuparsi dei fornelli, voltando le spalle al suo coinquilino appoggiato alla parete.

“Mia madre era sposata, quando rimase incinta. Disse il ragazzo.

“Mi fa piacere per lei, ha avuto qualche problema in meno.

Lui scosse la testa, sbuffando una risatina. “Non era sposata con mio padre, però.” Continuò. Notò, con piacere, che Kagura lo stava osservando con la coda dell’occhio. “Lei e mio padre erano colleghi. E mio padre aveva già famiglia in Giappone. Si trovava qui a Parigi per lavoro, doveva starci solo un anno. Però iniziò una relazione con mia madre. Lei stava portando avanti un matrimonio basato sulla reciproca indifferenza, trascinato semplicemente da qualche pseudo obbligo morale. Credo. In ogni modo, rimase incinta. Non credo che sapesse subito con certezza chi fosse il padre, ma comunque accettò il rischio. Era sposata da quasi dieci anni, e nonostante tutte le cure del mondo non era ancora riuscita ad avere figli. Forse pensava che non fosse tanto evidente da farlo notare al marito. Ma, disgraziatamente, i miei tratti orientali si notarono prepotentemente sin dalla nascita. Tra l’altro, sia mia madre che suo marito erano entrambi biondi, e io avevo questa zazzera nera come la pece! Se ne sarebbe accorto persino un cieco. Così suo marito l’abbandonò, proibendole addirittura il suo rientro a casa. Mio padre era disperato: di certo non poteva aspettarsi che la sua ‘avventura’ avesse questo effetto! Però per i primi tempi accettò di far vivere mia madre nel suo stesso appartamento. Lei sperava che sarebbe rimasto a Parigi, ma invece se ne tornò, senza battere ciglio, ad Osaka.  Il ragazzo si avvicinò ad una sedia del tavolo, la spostò e vi si sedette a cavalcioni.

“Così mia madre si ritrovò senza casa e con un pargolo strillante a carico. E senza lavoro, tra l’altro, perché quel bastardo del suo capo aveva fatto i salti mortali per licenziarla. Anche i miei nonni le avevano voltato inizialmente le spalle. Erano persone estremamente religiose, reputavano l’intera storia uno scandalo inqualificabile. Fummo ospiti a casa di vari suoi amici. Qualcuno di loro ne divenne anche amante, più per interesse economico che per altro. Si arrabattava con lavoretti occasionali, cercando di non farmi mancare nulla. Poi finalmente, i miei nonni decisero che avevano fatto penare la figliola abbastanza, e le permisero di tornare presso di loro.

Avevo 5anni, quando sbarcammo a Belle-Ile, il luogo d’origine di mia madre. E’ un’isoletta molto bella, in Bretagna, ma Souzon, il paese, è piccolo, e la gente mormorava alle spalle di mia madre. Lei oppose a tutti i pettegolezzi una stregua resistenza. E ce la fece a lungo. I miei nonni erano terribili, non facevano altro che rinfacciarle tutto il disagio che le causavamo. Non hanno mai mostrato qualche segno d’affetto nei miei confronti, e credo davvero che abbiano permesso a mia madre di tornare solo per renderle la vita un inferno. Quando dovetti iniziare le scuole superiori le chiesi di tornare a Parigi. Non ne potevo più di quel paesino piccolo, mormorante e insignificante. Ma non avevamo abbastanza soldi, mio nonno, tra l’altro, era anche morto da poco. Mi promise che, se avessi pazientato, sarei riuscito a frequentare l’Università a Parigi. Fece molti sacrifici, anche io lavoricchiavo a tempo perso, ma mantenne la promessa, e riuscì a scappare da quel posto. Sarò sempre grato a mia madre per quello che ha fatto per me. Anche se so di averle dato un dispiacere, abbandonando gli studi. Mi sarebbe piaciuto davvero riuscire a restituirle l’immenso favore che mi aveva fatto.

La donna l’osservava, appoggiata alla scalcinata cucina. Aveva lasciato perdere pentole e fornelli e aveva dedicato al ragazzo tutta la sua attenzione. “E non ce l’hai ancora fatta?”

Lui scosse la testa, sorridendo tristemente. “Mia madre si è ammalata  gravemente, ed è morta quattro anni fa. Sono solo riuscito a farle passare i suoi ultimi giorni qui a Parigi, la città che amava più di qualsiasi altro posto al mondo, e che aveva dovuto lasciare per me.

“Mi dispiace… mi dispiace davvero tanto…”sospirò, avvicinandosi e prendendo posto nella sedia accanto. “Tuo padre è mai più tornato?”

“Oh, si. Qualche volta. Veniva, ma poi andava. Poi veniva, e andava di nuovo.” Spiegò, sottolineando con un movimento della mano. “Pensavo di compiacerlo imparando il giapponese. Ma non è servito a nulla, se non a comprendere gli Anime in lingua originale. Quando mia madre si è ammalata è definitivamente sparito. Ho provato a contattarlo, ma si è reso irreperibile. Cercò di togliere il più possibile il tono grave della sua voce, che non aveva potuto fare a meno di assumere nel raccontare di sua madre.

“Quello che ti volevo dire, Kagura, è che se mia madre si fosse abbandonata ai suoi timori, io non sarei mai nato. Non sarei qui a parlare con te, e lei avrebbe continuato la sua bigia quanto sicura esistenza. Con qualche sicuro rimorso. Lei non ne aveva. Me l’ha detto in uno dei suoi ultimi giorni: lei non aveva alcun rimorso, avrebbe rifatto tutto da capo.

Kagura posò una mano sulla sua, un contatto che apprezzò molto. “…e Bankotsu?”

“Sei proprio curiosa, eh!” rise lui. “L’ho conosciuto quando facevo il corso di fotografia e andavo ancora all’Università. Era un ex compagno di scuola di Suikotsu, sai, il mio rivale. Frequentavamo il corso insieme, e, sinceramente, avevo anche una mezza cotta per lui. Mi piaceva quella sua personalità imprevedibile. Mi affascinava il pericolo. Una sera Suikotsu lo invitò a mangiare una pizza con noi del corso. Un colpo di fulmine, da parte mia. Lui era davvero tutto quello che potessi desiderare: bellissimo, forte, allegro, spontaneo e un amico leale. E un campione di arti marziali, impegnato a prepararsi per le olimpiadi. Con la scusa del lavoro che dovevo mostrare a conclusione del corso, gli proposi un servizio fotografico. Ho scattato una cinquantina di foto, in palestra mentre si allenava. Poi ho scelto la più bella, quella in cui lui stava eseguendo un esercizio, con i muscoli tesi nella penombra della palestra – l’ho chiamata Forza – e l’ho presentata. Beh, ho ricevuto un sacco di lodi per quel mio scatto, davvero. E il servizio è piaciuto tantissimo anche a lui. Mi ricordo che, per ringraziarlo, di quelle foto ne feci un book e glielo diedi. Iniziò ad uscire con noi, tra un allenamento e l’altro. A volte osavo addirittura sperare che uscisse con noi perché mi trovava interessante. Ma mi sembrava impossibile. Era perennemente circondato da ragazzine in fregola, che non aspettavano altro che l’occasione buona per saltargli addosso. Occasioni che lui non si lasciava di certo scappare.

Quando mia madre morì, fu il primo a venirmi a trovare, e quello che mi stette più vicino. Anche lui aveva perso sua madre da poco, mi capiva. Una sera, mentre stavamo radunando le cose di mia madre da portare a qualche ente caritatevole, ci baciammo. E da li nacque… tutto.”

Le raccontò di come si sentiva bene con lui, ma anche di come lui avesse messo in chiaro, sin da subito, che voleva tenere la loro relazione segreta. “Si vergognava. E’ assurdo ma è così. Avrei dovuto capirlo sin da subito che non sarebbe stata una cosa buona per me. Mi facevo bastare quel poco che lui mi concedeva. Un vero idiota, eh?”

“Comprensibile” alzò le spalle Kagura. Rimasero in silenzio per qualche secondo, con gli occhi neri del ragazzo che saettavano da un lato all’altro della stanza, indecisi. Poi si decise. “Ora che ti ho raccontato la mia storia, muoio di curiosità per sentire la tua.

Lei inizialmente girò la testa dall’altra parte, quasi risentita delle sue parole. Sospirò, titubante, abbassando gli occhi sulla superficie lignea del tavolo. Tamburellò con le dita. “La mia storia è molto diversa dalla tua. Iniziò. “E non è affatto piacevole da ascoltare, ed è difficile per me raccontarla. Sospirò nuovamente, appoggiando il mento sulle braccia. “Quando avrò finito, capirai perché non voglio tenere il bambino.

“Ti ascolto.”

“La mia famiglia era –è –molto ricca. Mio padre era un imprenditore molto importante nel mio Paese, ha proprietario di un colosso multinazionale. I miei genitori adoravano letteralmente mio fratello, il loro erede. Lo viziavano, gli davano ragione in tutto e per tutto. Ed io per loro…beh, ero l’altra. Nemmeno io sono stata una bambina cercata e voluta. Sono capitata. Ma per loro non aveva alcuna importanza. Mio fratello era il loro orgoglio e niente e nessuno poteva abbatterlo. Già da bambino era arrogante e saccente, insopportabile. Mi considerava la stregua di un giocattolo, di una bambola, da vessare in ogni modo. E questo suo atteggiamento peggiorò con l’età.

Le braccia della donna erano ora stesse sul tavolo, le nocche strette tra di loro, bianche. “Lui mi considerava una sua proprietà, e ben presto le angherie di un bambino viziato divennero i soprusi di un adolescente prepotente, e le umiliazioni di un giovane violento e arrogante. La prima volta che mi mise le mani addosso, io avevo quattordici anni e lui diciassette, riuscì a scappare e corsi dai miei genitori. Loro non cedettero ad una parola di quello che gli raccontai, ma, anzi, mi accusarono di cercare di rovinare mio fratello, di provare un’invidia così forte nei suoi confronti da volerlo distruggere. Non riuscì a sfuggirgli una seconda volta.”

Jakotsu la guardò a bocca aperta, gli occhi spalancati dal terrore. “Non è possibile…”

“Oh, invece lo era, lo era eccome. Come ti ho già detto, mio fratello mi considerava una sua proprietà personale. Ben presto se ne accorsero anche i miei genitori, ma non fecero nulla, per non creare uno scandalo, gli chiesero, senza rimproverarlo, di smettere, e cercarono di tenermi sotto controllo. Di sera mi chiudevano in camera mia, e nascondevano le chiavi. Una soluzione semplice, no? Quando la situazione stava sfuggendo loro di mano, e Naraku, mio fratello, era diventato ormai abbastanza grande da poter definire questa sua ossessione pericolosa, mi diedero il permesso di venire a studiare a Parigi. I mesi che passai qui sono stati i più belli della mia vita. Ma dovetti tornare indietro, quando Naraku mi chiamò per informarmi che i nostri genitori erano deceduti in un incidente con il loro elicottero. Sprofondai nell’inferno più cupo. Senza mio padre e mia madre, Naraku non aveva freni alla sua ambizione. Mi costrinse ad accettare un incarico in una delle aziende di famiglia, sotto sua stretta sorveglianza. Strinse accordi con le più potenti associazioni mafiose della nazione, e lui stesso divenne uno dei capi fondamentali. Costruiva il suo impero scellerato sulle mie spalle, facendomi muovere come una marionetta a suo piacimento, gettandomi tra le braccia di chi credeva utile per una collaborazione.

“E non hai mai cercato di scappare?” il ragazzo era stupito. Mai e poi mai si sarebbe aspettato un racconto simile.

“Oh, si. Eccome. Ma, come ti dicevo, ero sotto stretta sorveglianza. L’illimitata ambizione di Naraku, però, lo portò a voler stipulare un accordo un un’altra importantissima azienda della città. Come da copione, mandò me a fare le sue veci, a presentare l’accordo e a cercare di sedurne il titolare. Cosa che, puntualmente accadde. Ma mio fratello non aveva fatto bene i conti di chi si trovava davanti. Mi aveva spinto tra le braccia di un uomo più intelligente e duro di lui; un uomo che non scendeva a compromessi con nessuno, e che non avrebbe ceduto a alcun accordo, né a nessun ricatto.

“Sesshomaru? Il tuo Leggendario Uomo?”

Kagura annuì, le dita che si stringevano meno nervosamente tra di loro, gli occhi che si velavano di malinconia. “Tra me e Sesshomaru nacque quasi da subito un’intesa. Non credo si potesse definire amore. Io avevo bisogno di evadere dalla mia realtà quotidiana, e a lui piacevano le donne e le avventure. Era un appassionato di film di 007. Il soprannome Vesper viene da lui. Era il nome in codice che usavamo al telefono. Io lo chiamavo James Bond e lui Vesper Lynd. Che stupidaggine. Ma poi le cose crebbero. Io gli fornivo informazioni su come ripararsi dai danni che il mancato accordo tra la sua azienda e la nostra gli avrebbe portato. Diventammo assidui amanti, ci incontravamo ogni giovedì sera, in segreto. Dovevo uscire di nascosto dalla siepe, per incontrarlo. Con lui passavo le poche ore libere che potevo concedermi. Le ore in cui stavo bene. Ma a mio fratello non sfuggirono i nostri incontri. E… beh, ci tenne a ricordami, con i suoi metodi, che ero proprietà sua.”

Fu Jakotsu ora a cercare la sua mano e a stringerla convulsamente.

“Ma fu disattento, e sicuro di avermi sufficientemente ridotta ad uno stato inoffensivo, ed io non avevo nulla da perdere. Riuscì a sfuggirgli. Calandomi dalla finestra, ci credi? Dovetti ricorrere alle cure del pronto soccorso… E dovetti chiamare Sesshomaru, perché il medico di turno si rifiutava di dimettermi se non fossi stata accompagnata. Ero messa abbastanza male: costole incrinate e dolori ovunque. Sesshomaru arrivò in un battibaleno, e mi portò con sé. Credo che mi abbia davvero salvata. Mi ha aiutato, confortato, ha cercato di tenermi al sicuro.

“Bravo!” esclamò il ragazzo. La storia di Kagura era terribile, provava rabbia al pensiero che il suo feroce aguzzino altro non era che suo fratello. Ma, allo stesso tempo, le invidiava quel’uomo che, dalle sue parole, sembrava un principe azzurro uscito dalle fiabe.

“Passai con lui un paio di settimane, nascosta a casa sua. Sapevo che mio fratello cercava di stanarmi e che gli stava rendendo la vita impossibile, colpendo illecitamente la sua azienda. Così decisi di agire. Mi avvalsi della collaborazione del fratello di Sesshomaru – una testa calda diciassettenne- e dei suoi amici, e penetrai all’interno della nostra azienda, nottetempo. Filmai tutto ciò che poteva risultare compromettente. Compreso il racconto di quello che avevo subito. I ragazzi consegnarono il filmato alla polizia. Spero che sia andato a buon fine.”

“In che senso, scusa? Non sai se…”

“No. Era troppo pericoloso per me, restare dove ero. E avrei trascinato ulteriormente nei guai Sesshomaru. Così finsi il mio suicidio. Gettai la mia auto da una scogliera, con alcuni miei effetti personali all’interno, quella sera stessa. La vita di Kagura Onigumo finisce lì.

Poi mi diressi verso un ricettatore che conoscevo, e che aveva reso dei servizi a mio fratello, e mi feci dare dei documenti falsi. Si, esatto, il mio passaporto è falso. Infine, il biglietto per Parigi e il primo volo al mattino.”

 

Jakotsu non trovava le parole. Ammirava la forza di volontà della donna, la sua determinazione, la sua forza. Lui non ne sarebbe mai stato capace. “E’ tutto incredibile” mormorò.

“Mi dispiace di averti mentito sulla mia identità.

Lui alzò le spalle. “Figurati. Sarebbe stato meglio per te essere una spia russa, che aver vissuto quella vita d’inferno.

La donna annuì, sorridendo tristemente. “Ma ora sono un’altra persona, sono libera, e non permetterò che la mia vita venga rovinata.” Il ragazzo l’abbracciò, accogliendo sulla sua spalla il suo pianto liberatorio. La lasciò sfogare, accarezzandole la schiena.

“Tieni il bambino, Kagura.”

“Potrebbe essere il figlio di Naraku.”

“Non sarebbe colpa di tuo figlio. E poi il padre potrebbe essere davvero Sesshomaru. La fissò negli occhi gonfi di pianto. “Tu lo ami ancora. Hai l’opportunità di avere una parte di lui sempre con te. E non è una fortuna che capita a molti.”

La donna scosse la testa. “Non posso. Non sarebbe giusto. Non voglio rischiare di partorire il figlio di una violenza. Come potrei crescerlo?”

Dagli una possibilità.” Insistette Jakotsu. “Appena nato faremo il test di compatibilità genetica. Se la compatibilità tra te e il bambino sarà solo del cinquanta per cento, allora il padre è l’uomo che ami. Altrimenti…”

Lei scosse di nuovo la testa. Lui la pregò. “Non meriti rimpianti, Kagura. E così facendo li avresti. Concedigli una possibilità. Potrai darlo in adozione, se non vorrai tenerlo, ma non toglierti la possibilità di avere una persona che ti amerà davvero.

“Non è vero che i figli amano sempre i genitori. Io li ho odiati a morte.”

“E’ impossibile odiare una persona come te. Un lampo di incredulità balenò negli occhi della donna. “Hai tanto da insegnare, tanto da dare. Kagura, concediti la possibilità di ricevere quello che meriti.

La vide interdetta, senza parole, abbassare di nuovo lo sguardo, stupita.

Di certo non si aspettava quelle parole da uno semisconosciuto. Jakotsu fu lieto che avevano avuto un seppur vago effetto. “Riflettici. Te ne prego. Non ti chiedo di promettermi nulla. Ma pensaci bene.”

Alzando gli occhi verso di lui, la donna annuì, l’ombra di un sorriso sulle labbra scarlatte.

“Bene, per ora può bastare, direi.” Annunciò il ragazzo, alzandosi in piedi. “Scrolliamoci di dosso tutta questa mestosità…”

Mestizia” lo corresse lei, asciugandosi le guance. Lui alzò gli occhi al cielo. “…mestizia, così sia, e infiliamoci qualcosa sotto i denti. Cosa avevi intenzione di cucinare prima?”

Lei alzò le spalle. “Il frigo è vuoto, come sempre. Prima spostavo le pentole giusto per fare qualcosa.

L’altro, sospirando, prese il telefono in mano, proponendo una pizza. “Gusti particolari?” domandò, digitando il numero della pizzeria d’asporto all’angolo.

Ancora seduta al tavolo, la donna fece un segno vago con la mano. “Doppia mozzarella e acciughe”

Bon Soir, volevo ordinare una pizza con i funghi e una con doppia mozzarella e acciughe…”

“E peperoni!”

“…Ci aggiunga anche peperoni, s’il vous plait.

“E salsiccia!”

“Se è possibile anche salsiccia…”

“Facci aggiungere la rucola e i funghi…ti prego. E’ da un secolo che non li mangio”

“Va bene, facciamo così: metta tutto quello che è possibile metterci. Salumi, formaggi, cani, gatti… tutto quello che può. Come? Ah, no, è solo incinta. E ha già iniziato con le voglie. Pensi un po’, è solo al primo mese… e… come? Ma come si permette!” strillò, riagganciando con aria offesa

Kagura gli rivolse uno sguardo incuriosito. “Quel cretino del pizzaiolo ha consigliato A ME di stare attento, la prossima volta!” spiegò, livido in volto dallo sdegno.

La donna non ce la fece a rimanere seria. Scoppiò a ridere di gusto. “Non volevi fare il donatore di seme?”

Jakotsu incrociò le braccia risentito: non ci trovava nulla da ridere.

 

 

Ok, capitolo lungo e tedioso… Scusatemi per questi primi capitoli, erano necessari. Ora cercherò di rendere la storia più interessante e meno pesante… Ho dovuto inserire qualche spiegazione, direttametne da This Time Around, per chi non ha letto la mia precedente Fic da cui è stato tratto il personaggio di Kagura.

Scusassero lor signore…

Ad ogni modo, ringrazio sentitamente le mie fedeli recensore. I commenti sono vitali per me, e non disdegno mai critiche o suggerimenti. Apprezzo sentitamente.

Grazie e scusate ancora per questa palla che vi sto rifilando….

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** Sixième Chapitre: Mon Amour est dans Mon Reve. ***


La Complainte de la Butte

La Complainte de la Butte.

 

Sixième Chapitre : Mon amour est dans mon reve.

 

Premeva le labbra sulle sue disperatamente, stringendosi a lui in una frenetica preghiera. La risposta che riceveva era il muto consenso ad esaudire ogni sua richiesta, ogni suo desiderio. Sentiva il calore delle sue mani, che le percorrevano la schiena con una lentezza quasi esasperante, attraverso il tessuto lucido del vestito da sera che indossava. Doveva essere il vino della cena appena consumata a farle girare la testa, o era la sua sola presenza a farla sentire ad un palmo da terra?

La stanza era indefinita, avvolta nella penombra, i rumori della festa selvaggia che si stava svolgendo sotto i loro piedi penetravano a malapena dalle pareti di legno. Il mondo intero era oltre quella porta, lontano migliaia di chilometri, con i suoi problemi, con il suo dolore e il suo freddo.

Lui le lasciò libere le labbra per proseguire la frenetica corsa della sua bocca sul collo, sulla sua spalla, sul suo petto, mentre lei reclinava la testa, il nome dell’uomo che le sfuggiva, roco.

“Sesshomaru…”

Tuffò le mani tra i suoi capelli candidi, stringendolo al petto, desiderando solamente il proseguimento quella deliziosa tortura.

L’uomo si sbarazzò della giacca e della cravatta, poi la sollevò senza il minimo sforzo, con le sue gambe affusolate  a cingergli la vita, e l’adagiò sul letto, come se fosse fatta solo di fragile vetro.

I vestiti scivolarono di dosso uno dopo l’altro.

Le carezze esperte dell’uomo strapparono un altro gemito alla donna. Lo vide sfoggiare un sorrisetto maliziosamente soddisfatto, per poi tuffarsi di nuovo su di lei, per percorrere il suo corpo, il ventre piatto con le labbra, sino ad arrivare ai seni, e alla bocca morbida. “….Kagura…”

Nella semioscurità vide i suoi occhi serrarsi di scatto, le labbra contrarsi in una smorfia di dolore malcelata. Si ritrasse appena: con la mano aveva stretto troppo a sé il suo fianco dolorante. Nella foga aveva dimenticato i segni che portava ancora sul corpo. Si fermò, sforzandosi di mantenere il controllo: forse non era il caso…

La donna lo trattenne, le dita serrate all’avambraccio. “Non smettere, ti prego. Lo implorò, con la voce rotta.

Sesshomaru cercò il suo sguardo e lo contemplò a lungo, prima di ricominciare a baciarla, ancora, e di accarezzarla, delicatamente, lasciando che la donna si stringesse, quasi a volersi fondere con lui.

Fuori, il buio della notte fu squarciato dai fuochi d’artificio della mezzanotte di Capodanno. Sesshomaru volse appena la testa verso la finestra, prima di tornare a guardarla, le dita che si intrecciavano tra le sue “Buon anno, Kagura.

 Lei gli rispose con un sorriso. “Auguri, Sesshomaru”

 

Aprì gli occhi, feriti da un raggio di luce che si insinuava nella tenda. Era già mattina? Che ore erano? Cercò freneticamente l’orologio sulla sedia che usava da comodino, e se lo portò davanti agli occhi. Ci mise qualche istante per focalizzare l’ora.

Le sei e mezza. Ancora presto. Aveva un’ora per cullarsi nei propri sogni.

Posò l’orologio e si posò il cuscino sulla faccia.

Maledisse Morfeo per essersene già andato lontano. Sbuffando più e più volte, volse la schiena alla luce, girandosi sul fianco opposto alla finestra, stretta al cuscino come una bambina al suo orsacchiotto. Era questo il momento in cui la malinconia tornava a bussarle dolorosamente al cuore. Si sentiva il petto trafitto da mille spilli.

Quel sogno così coinvolgente… era un ricordo. Era il ricordo di una passione indimenticabile, che aveva lasciato il suo segno più profondo su di lei.

Si sfiorò il ventre. E se fosse stato un segno? Se quel ricordo che le si era palesato improvvisamente durante il sonno fosse stato un segno del suo stesso corpo per indicarle la giusta provenienza della vita che stava crescendo dentro di lei?

Ma che idiozie vado a pensare? Si sgridò. Quasi non si riconosceva: da quando aveva scoperto di essere incinta era diventata tremendamente irrazionale. Non riusciva più a ragionare a mente fredda, parlava, decideva, agiva d’istinto.  Dov’è finita la mia mente calcolatrice? E’ questo uno dei sintomi della gravidanza? Rincretinirsi?

Si rizzò a sedere, appoggiandosi contro la parete, ormai conscia che avrebbe passato quell’ora a rimuginare sulla sua situazione.

Ormai doveva prendere una decisione. Non poteva aspettare ancora.

O si o no. Scegli Kagura.

Testa o Croce. No, davvero, una decisione così delicata non poteva essere presa in quel modo penoso.

Doveva… pensarci ancora su… un po’… e…

Yaaaaaahnnnnn

Come si sentiva stanca… La gravidanza spossava… Risucchiava l’energia… e…

Beh. Ci avrebbe pensato dopo… a colazione…

 

La neve sul davanzale scintillava come se fosse composta da mille diamanti.

Tutta quella luce penetrava persino dalle sue palpebre! Si rigirò nel letto, infastidita, togliendo il viso dal petto del suo uomo, e voltandogli le spalle.

Lo sentì muoversi contro la sua schiena, e un braccio cingerle la vita.

Le sue labbra si appoggiarono sulla sua nuca, solleticandogli la cute con il suo fiato caldo.

“…sei sveglia?”

Mmmmm” rispose come affermazione, stringendosi di più nell’abbraccio. “Mi da fastidio la luce…”

Sentì il volto di Sesshomaru accarezzarle la spalla nuda e rabbrividì al contatto.

Aprì gli occhi completamente. “Non è mai successo tutto questo. Non è vero?” Si voltò verso di lui, con il terrore di vederlo sparire da un momento all’altro. Incontrò il suo sguardo d’oro, severo.

“Tu lo sai, vero?”

“L’avevo messo in conto. So che i bambini non nascono sotto i cavoli, Kagura. Sinceramente, la cosa non mi meraviglia più di tanto”

Sfiorò la guancia con le dita. Al mattino era sempre un po’ ispida dalla barba, a volte lui si strofinava apposta contro la sua schiena, per darle fastidio. Ora la sentiva liscia e morbida sotto i suoi polpastrelli. Decisamente quello non era un ricordo. E allora cos’era? “Mi dispiace…io…”

Lui le premette un dito sulle labbra, facendole delicatamente  segno di tacere. “E’ ciò che ti meriti.”

“In che senso?”

“Non riuscirei mai a darti quello che vuoi, ma posso aiutarti ad ottenerlo. Ti ho aiutata a scappare. Dalla tua fuga hai ottenuto la libertà. E ora hai solo bisogno di ciò che ti è mancato per tutta la vita.

Si sentiva un groppo in gola, le lacrime che le pizzicavano gli occhi. Davvero Sesshomaru le stava dicendo quelle parole? Oh no…era decisamente un sogno.

“… oltre alla libertà… cosa mi è mancato di più nella vita? Affetto? Amore?”

“L’hai detto tu stessa.”

Kagura passò le dita tra una ciocca dei suoi capelli. Al mattino erano sempre aggrovigliati, un tale gesto l’avrebbe infastidito, nella realtà. Adesso erano seta tra le sue dita. Quella non era la realtà.

“… e tu? Non potresti darmi tu quello di cui ho bisogno? Non mi ami nemmeno un pochino?”

Lui sospirò, accarezzandole il viso con il dorso della mano. Con il pollice le delineò il contorno delle labbra rosse. Un gesto abituale. Sesshomaru era sempre stato palesemente attratto dalle sue labbra. Le sfiorava sempre, come se il suo tatto fosse il suo senso più sviluppato.

Dunque quella era la realtà?

“Devi trarre le tue conclusioni, Kagura.”

“…dovrei tornare?”

“No.”  Mormorò, facendo scivolare il lenzuolo sui suoi occhi.

Kagura lo tolse di scatto. Non voleva lasciarlo andare, aveva ancora tante cose da dirgli e…

Luce.

Una piccola stanza colorata.

Parigi. La sua cameretta a Montmartre.

E una voce allegra dall’altro lato della porta di legno.

Kagurettaaaa! Hey, bella addormentata, non chiamo il principe perché direi ti ha baciato sin troppo!” lo sentì sogghignare.

Si alzò in piedi quasi di scatto, mentre la testa le girava lievemente. Sentì lo stomaco contrarsi e la nausea salirle sotto lo sterno. “Arrivo!” gridò. Girandosi per trovare i vestiti, lo sguardo le cadde sulla borsetta abbandonata su una mensola. Quasi senza rendersene conto, vi introdusse la mano, stringendo le dita su un piccolo foglio di carta lucida. Lo estrasse e lo fissò.

Eccolo lì. Un fagiolino pulsante. Lungo due millimetri, un gigante per le cinque settimane che aveva.

Si sfiorò la pancia, senza smettere di guardare la foto dell’ecografia.

La prima foto di suo figlio…

 

… e non l’ultima.

Sorrise. Sentì la morsa al cuore svanire.

Si, sarebbe stato difficile e faticoso. E non sapeva nemmeno se ne poteva valerne la pena. Però non l’avrebbe mai scoperto, se non ci avesse provato.

Si infilò velocemente i pantaloni della tuta ed aprì la porta. Percorse il piccolo corridoio a piedi scalzi, sorprendendo Jakotsu ai fornelli, che cercava di far scaldare l’acqua per il tè. L’abbracciò e gli schioccò un bacio sulla guancia.

Lui la fissò stupito: “Hai bevuto ancora?” domandò, inquisitore, con un sopracciglio alzato.

Kagura si avvicinò al frigorifero e fissò la foto dell’ecografia alla superficie di metallo con una calamita colorata, poi si voltò verso il coinquilino, che la guardava con gli occhi sgranati e la bocca semiaperta dalla sorpresa.

Jakie, ho smesso di bere. Sai, fa male al bambino!”

Il ragazzo si mise a battere le mani, fuori di sé dall’eccitazione. “Ottima decisione Kaguretta, brava, brava ma petite!” L’abbracciò di slancio, per poi allontanarsi e guardarla meglio. “Lo sapevo che dopo averlo visto avresti cambiato idea.

La donna spostò lo sguardo verso la finestra. Nemmeno Jakotsu avrebbe potuto capire cosa le aveva fatto cambiare idea.

D’altronde, non ne era sicura nemmeno lei di cosa realmente fosse stato.

 

Et voilà.

Avevo l’ispirazione stasera.

Adesso – prometto -  la storia prenderà un po’ di ritmo.

E’ che sono prolissa nelle introduzioni.

Grazie mille a Jekka e Mikamey per le recensioni!!!

 

E.C.

 

 

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Capitolo 7
*** Septieme Chapitre: L'apres Midi. ***


La Complainte de la Butte

La Complainte de la Butte.

 

Septieme Chapitre : L’Apres midi.

 

La donna storse le labbra disgustata,  guardando schifata l’insalata variopinta che aveva nel piatto.

“Cosa c’è, non ti piace?” le domandò Jakotsu, con una nota di rammarico nella voce limpida. Quella domenica il pranzo era toccato a lui, e si era messo di impegno a preparare qualcosa che non facesse venire la nausea alla sua amica. Insalata, uova e un bel pesce al cartoccio gli erano sembrati un lauto e saporito pasto domenicale, l’unico che consumavano nella cucina dell’appartamento.

“Sento strani sapori ovunque” rispose Kagura, sospirando. “Nella verdura c’è uno strano sapore metallico…”

“Nella Bibbia troveremo le risposte alle nostre domande. Dichiarò solennemente il ragazzo, alzandosi dalla sedia e avvicinandosi ad un libro appoggiato al tavolino del salotto. Lo prese e lo alzò, con l’aria comicamente cerimoniale, tornando verso la compagna, che non poteva non sorridere a quella parodia sacerdotale che il suo amico recitava ogni volta che si avvicinava a quella che aveva ribattezzato “La Bibbia”.

Il libro in questione non era una copia dell’Antico Testamento, bensì un minuzioso manuale sulla gravidanza, scelto dopo un attento studio dei volumi presenti alla libreria della FNAC in Place de la Bastille. Jakotsu lo consultava non appena Kagura notava un qualche nuovo cambiamento o un nuovo sintomo. Lei, d’altro canto, anche se aveva accettato il suo stato, cercava di dimostrare il meno interesse possibile, quasi un distacco innaturale dalla creatura che le cresceva in grembo, e che sembrava darle di giorno in giorno fitte di timori e di ripensamenti.

Ma sulla Bibbia Jakotsu aveva letto che era una cosa normale, soprattutto nei primi mesi della gravidanza. Era sicuro che la storia sarebbe cambiata per presto e che la sua amica si sarebbe fatta travolgere dal suo stesso entusiasmo e dalla sua positività.

Tornando al tavolo, il ragazzo aprì il tomo e lo sfogliò, attento, mentre la donna cercava di sbocconcellare qualcosa, nonostante il saporaccio.

“Ecco, qua!” esclamò vittorioso il ragazzo, puntando l’indice in un punto preciso della pagina. “Durante i primi mesi si possono presentare alterazione del gusto e dell’olfatto. Lesse

“Questo è vero” asserì lei. “Non riesco più a sopportare il mio profumo preferito. Lo trovo forte e nauseante. E invece annuserei di continuo il profumo del detersivo per piatti. E’ inebriante, non credi?”

Lui alzò le spalle “Sa di limone…”

La donna allungò il collo verso il libro, chiedendo ulteriori informazioni.

“Anche i cibi preferiti possono diventare immangiabili, e quelli che hanno sempre disgustato risultare i più appetitosi.

C’est vrai!

“E poi dice che potresti avere dei movimenti muscolari inconsueti.

Lei lo fissò incuriosita, senza capire.

“Si, cose che prima non riuscivi a fare. Sul libro descrive un piccolo test. Per sapere se i tuoi muscoli si stanno alterando, prova a muovere le orecchie.

La vide appoggiare la forchetta nel piatto e assumere un’espressione concentrata. Dopo qualche istante alzò gli occhi verso di lui, che si era nascosto dietro al libro alzato per nascondere lo sforzo di non scoppiare a ridere.

“Idiota” sibilò, fingendosi offesa, lanciandogli un chicco del mais dell’insalata.

Il cellulare del ragazzo iniziò ad intonare insistentemente una vecchia canzone di Cher. La donna squadrò il proprietario con un sopracciglio alzato: “Quasi troppo gay per essere vero” commentò.

Con il medio alzato a darle il proprio parere, Jakotsu si alzò dalla sedia e prese il cellulare, uscendo dalla stanza.

Era il numero di Suikotsu. Che strano. Che voleva ora quello Schizofrenico?

Allo?”

Buongiorno, Jakotsu, tutto bene?” dall’altro capo del telefono, la voce di Suikotsu gli giungeva serena.

“Non c’è male, grazie. Stavamo finendo di mangiare.” Rispose, entrando nella propria camera e chiudendo la porta alle sue spalle. Era sempre stato molto geloso della propria privacy, e di solito una telefonata di Suikotsu non era di certo per un argomento futile.

L’altro ridacchiò “Ha smesso di vomitare la tua coinquilina?”

“Si. Ma temo sia solo una cosa temporanea, ahimè. La sera del giorno in cui Kagura aveva deciso di tenere il bambino l’aveva praticamente trascinata fuori di casa, ed arrivati al locale di Renkotsu, aveva dato l’annuncio del lieto evento ai presenti al bancone, presentandosi anche come il donatore di seme, tra l’estremo imbarazzo dell’amica e la giustificata incredulità degli astanti. Tra cui figurava anche Suikotsu, nervoso(Che agli occhi di Jakotsu risultava più affascinante) dopo una giornata frenetica e quattro ore bloccato nel traffico autostradale.

Ti disturbavo per chiederti se avevi un impegno oggi pomeriggio. Ci sarebbe un lavoro da svolgere e mi servirebbe una mano.

Jakotsu alzò gli occhi al cielo, mugugnando. Aveva promesso a Kagura una bella passeggiata rilassante, e la giornata era proprio adatta per sdraiarsi al sole in un parco pubblico a fare commenti acidi in giapponese sui turisti di passaggio.

“Si tratta di un lavoro di un paio d’ore… è solo di un servizio a un nutrito gruppo di facoltosi giapponesi in città per una conferenza. Devono realizzare una brochure. Credo che gli serva da giustificativo, per dimostrare che hanno anche lavorato, oltre che a passare dal Crazy Horse al Moulin Rouge. Un paio di foto di gruppo, e qualche finta stretta di mano…”

“… e mi ingaggi come interprete o come fotografo?”

Beh… un po’ uno e un po’ l’altro. Sai com’è… faccio schifo con l’inglese, e di Giapponese conosco a malapena Connisciuà..

KonnichiWa” lo corresse Jakotsu. “Voglio anche che il mio nome fra i credits della Brochure.

L’altro asserì. “Non riesco a darti più di un centinaio d’euro, però. Ammise.  “Nemmeno a me pagano granché.”

Jakotsu fece spallucce. Poteva bastare, e ne avrebbe ricavato anche un po’ di pubblicità per il suo negozio.

“Va bene. A che ora ci troviamo?”

 

“Vieni anche tu?” domandò a Kagura, dopo averle spiegato l’improvviso ingaggio. Lei lo guardò minacciosa. “Stai scherzando vero?” sibilò. “Secondo te, passerei inosservata IO ad un gruppo di ‘facoltosi giapponesi’?”

Il ragazzo si grattò la testa, ammettendo la sua mancanza di tatto e l’eccessiva noncuranza. “Hai perfettamente ragione… Ma se ci fosse anche…?”

Lei scacciò quel pensiero con un gesto infastidito della mano. “Non mi interessa.” Mugugnò.

Jakotsu cercò di arginare il problema. “Dopo ti mostrerò le foto. Se lui c’è, potremmo fermalo e…”

La donna gi volse le spalle, sospirando esasperata, e lui non insistette oltre, passandole però un braccio attorno alla vita e schioccandole un bacio sul collo. “Scusa”.

Sfiorò con la mano il ventre della ragazza. “Secondo me inizia a spuntare qualcosa…”

“Tu dici?”

Il ragazzo annuì, invitandola ad alzarsi la maglietta. La studiò un attimo, poi la fece appoggiare di profilo contro il muro, prese un pennarello nero dalla libreria e segnò la leggera curva della pancia della donna sulla parete.

“Tu sei fuori di testa…” nonostante cercasse di nasconderlo, Kagura ne era piacevolmente sorpresa della sua ultima trovata. Jakotsu terminò il segno datandolo.

Et voilà. Ecco l’ottava settimana. Se continui così alla quarantesima sarai una balena!”

Lei gli rispose con un buffetto sul braccio. “Vorrei vedere te al mio posto…”

“… oh mon dieu, no! Non oso pensare da dove uscirebbe!”

Anche Kagura storse comicamente le labbra. “Oggi pomeriggio approfitterò del tuo abbandono per dipingere qualcosa en plein air. Mi sento particolarmente ispirata.” Si avvicinò ad un angolo della saletta, e si armò del cavalletto portatile, di una piccola tela e si infilò la tracolla contenente la cassetta dei colori e dei pennelli. “Credo proprio che sceglierò il Canale Saint Martin come soggetto. Ci andavo sempre ai tempi dell’Università, ma non ci sono ancora tornata da quando sono qui!”

Jakotsu approvò, rammaricandosi di non poterla accompagnare. “Cercherò di liberarmi il prima possibile e di raggiungerti. Mi sento in colpa ad abbandonare una povera donna in stato interessante”

“Fai con comodo, non ti preoccupare. Ultimamente non mi capitano più i capogiri tremendi di prima. Lo salutò con un sorrisetto quasi imbarazzato. “Sono incinta, non malata…”

Il ragazzo le sorrise di rimando, schioccandole un bacio sulla guancia. Da quel poco che conosceva Kagura, sapeva che si sentiva piacevolmente imbarazzata quando una persona dimostrava un genuino interesse nei suoi confronti. Essere benvoluta, coccolata e circondata da affetto e serenità era per lei una cosa nuova, che le faceva un immenso piacere, ma che non riusciva a dimostrare.

Un passo per volta.

“Ci vediamo alla Villette?”

Lei annuì, convinta. “Aspetto un tuo segnale di fumo.” Disse, facendo cenno con la testa in direzione del suo cellulare. Jakotsu la prendeva sempre in giro per quel modello datato ed economico che aveva preso in offerta nel primo negozio di elettronica che aveva incontrato nel tragitto dall’aeroporto all’hotel. Il ragazzo diceva che era talmente antico da non riuscire ad inviare sms, ma solo segnali di fumo come i pellerossa.

Con un ultimo cenno della mano, il fotografo si infilò la giacca, prese la borsa dell’attrezzatura ed uscì dall’appartamento.

 

“Solo un gruppo di giapponesi poteva scegliere l’Hotel Hilton di Parigi. Commentò Jakotsu, in piedi su una scala a pioli per controllare l’angolatura della luce. Suikotsu, che stava pulendo una lente di un obbiettivo, lo guardò interrogativo. “Il Paris Hilton…” aggiunse, come spiegazione. Suikotsu scosse la testa, tornando al suo lavoro.

“Dobbiamo mettere una luce all’angolo là in fondo al tavolo.  Disse poi Jakotsu, diventando serio e indicando il tavolo dove si sarebbero seduti gli oratori della conferenza. “Questi specchi riflettono la luce più in alto. I signori seduti al tavolo sarebbero tutti in ombra.

L’altro annuì, spostando il faretto dove gli indicava l’assistente. “Così va meglio?”

Incrociando le braccia al petto, scrutando il tavolo concentrato, il ragazzo rispose positivamente. Poi guardò l’orologio. “Ok, siamo pronti per la farsa. Facciamoli entrare.” Scese dalla scala con un salto, tra lo stupore del collega, poi, come se niente fosse, anzi, sentendosi compiaciuto della reazione dell’altro alla sua ‘prodezza’.

Dopo aver rimesso la scala al proprio posto, il ragazzo si avviò verso la hall dell’hotel per richiamare i partecipanti.

In verità la conferenza si era tenuta il giorno prima, ma gli organizzatori non avevano avuto la cura di chiamare un fotografo a immortalare l’evento. Così, quella domenica pomeriggio, invece di lasciare i partecipanti liberi di conoscere la città, avevano dovuto riunirsi per inscenare la conferenza.

Passando davanti ad uno specchio, Jakotsu gettò uno sguardo alla propria immagine, per assicurarsi di essere in ordine. Alle sue spalle, in fondo alla sala e con già la macchina fotografica a tracolla, Suikotsu, tranquillo e sereno, sembrava fissarlo con la coda dell’occhio.

Ulteriore punto all’ego di Jakotsu, che si sentì ulteriormente compiaciuto.

 

“Ti ringrazio davvero tanto. Non sai come mi sei stato d’aiuto.” Lo ringraziò Suikotsu, mentre radunavano l’attrezzatura, a lavoro ultimato. “Non sarei riuscito a fargli capire una benemerita mazza…”

“Oh, suvvia… non adularmi troppo sennò inizierò ad arrossire. Scherzò il diretto interessato. In verità adorava i complimenti, e il collega, così di buon umore in quella giornata, ne sembrava particolarmente prodigo. Pensò quasi di flirtare un po’ con lui, tanto per mandare il suo ego alle stelle, ma gettò un’altra occhiata all’orologio e pensò a Kagura sulle rive del Canal St.Martin. Chiuse la borsa e la porse a Suikotsu. “Ora devo proprio andare.” Disse, permettendosi almeno di gettare all’altro un’occhiata languida. Giusto per non lasciar nulla al caso.

“Oh. Va bene.” Sembrava dispiaciuto. “Volevo offrirti un aperitivo…”

“Mi piacerebbe davvero tanto, ma Kagura mi aspetta… se non hai nulla da fare, puoi unirti a noi, se ne hai voglia…”

L’altro fece un gesto di noncuranza con la mano. “Sarà per un’altra volta, non ci sono problemi. Immagino che sarai impegnato anche a cena.”

“Per farmi perdonare il pomeriggio a lavorare la portavo fuori a mangiare…” rispose, avendo cura di assumere un’espressione costernata. “Sai… essere un donatore di seme è dannatamente impegnativo…”

Suikotsu scoppiò a ridere di gusto. “Che ne dici di domani sera? A La Coupole a Montparnasse?”

Jakotsu sgranò gli occhi, non riuscendo a credere alle proprie orecchie. Quello era un appuntamento con la A maiuscola! Da Suikotsu non si sarebbe aspettato una mossa così audace. Di solito era il più timido del gruppo, escludendo ovviamente le sue giornate NO. E una cena a La Coupole, poi!

Si sforzò di mantenere il genere di  comportamento che Kagura avrebbe definito dignitoso, lottando contro il sorriso stupito e compiaciuto che voleva a tutti i costi allargarsi sulla sua faccia. Pur avendo una certa dimestichezza con gli appuntamenti, gli risultava stranamente difficile trovare una delle sue solite battute spiritose che facevano sempre colpo in questi casi. “Molto volentieri. Rispose solamente.

“Splendido!” esclamò Suikotsu. “Allora prenoto per le 8 e mezza.” Infilò la pesante borsa degli attrezzi nell’auto, senza guardarla. Cosi facendogli scivolò di mano e cadde a terra. così Jakotsu si chinò verso di lui per aiutarlo. Si fermarono uno di fronte all’altro, le facce separate da un palmo di centimetri.

Il ragazzo si trovò improvvisamente spiazzato, con gli occhi persi in quelli nocciola dell’altro. …e adesso? Non ci starebbe male un bacio da film… no? Pensò. Lasciagli fare la prima mossa, Jackie… vediamo cosa succede… Una volta tanto, fatti rincorrere…

“Allora ci vediamo domani sera?” domandò meccanicamente Suikotsu, senza distogliere lo sguardo.

Cosa che invece fece il ragazzo, annuendo e guardando altrove. “Non tarderò…”

Lo salutò dopo averlo aiutato con la borsa; poi girò i tacchi e puntò dritto verso l’entrata della metropolitana. Si sentiva scioccamente soddisfatto del pomeriggio appena trascorso: aveva qualche euro in più nelle tasche, aveva svolto il lavoro molto bene (al di là dei complimenti del collega lo sapeva già da sé) e aveva ricevuto una richiesta d’appuntamento.

Non male.

E non vedeva l’ora di raccontare tutto a Kagura. A proposito, aveva captato delle informazioni che le avrebbero interessata, ne era sicuro.

 

“Io ho una cosa che tu non hai. Che cos’è?” Esordì, come saluto, sbucando alle spalle della donna, che stava giusto rifinendo la piccola tela, sulla riva del canale. Lei inizialmente trasalì, avendo almeno la prontezza di riflessi di togliere il pennello dal dipinto.

“Cretino” sibilò, voltandosi verso di lui e punendolo con una riga di pittura verde sul naso. “Di sicuro non è il cervello!”

Ridacchiando e cercando di pulirsi con il dorso della mano, il ragazzo le porse un piccolo pacchettino di carta. “Direttamente da Debauve et Gallais, che a mio parere è la migliore cioccolateria di Parigi.

Ritrovato improvvisamente sorriso e buonumore, Kagura lo perdonò immediatamente, applaudendo alla bella idea dell’amico, per poi togliergli l’involucro di mano, aprirlo e infilarsi in bocca una deliziosa pralina al cacao e crema. L’assaporò mugugnando di piacere. “Il cioccolato non cambia assolutamente sapore…!” commentò. “E’… poesia! Mangerei solo queste cose…”

Anche il ragazzo se ne infilò in bocca uno, sedendosi sull’erba di fianco al cavalletto. “L’ottavo giorno Dio inventò il cacao…”  Poi guardò il dipinto in fase di completamento. Ritraeva il corso del canale, con i suoi sentieri verdi che lo costeggiavano, una coppietta su una panchina in lontananza che si sbaciucchiava e un bambino che fissava serio la ruota della propria bicicletta, temendo di averla bucata. Si congratulò, mostrando il suo solito entusiasmo. “Se ti va, potremmo venderlo in negozio! Che ne dici?”

“Era giusto quello che volevo proporti.” Asserì lei, mentre, con il pennellino sottile, decorava l’angolo in basso del dipinto con quella che sembrava una stellina rossa con quattro lunghe punte e altre quattro, quelle diagonali, più piccole. Vedendo lo sguardo incuriosito del ragazzo, spiegò: “E’ la mia firma. Una rosa dei venti. L’ho sempre messa in ogni mio lavoro.”

“Potrei farne qualcun altro… sarebbero tutti diversi, così i nostri clienti sarebbero sicuri di non avere un dipinto di serie!” aggiunse, alzandosi per guardare il quadro da più lontano, sorridendo soddisfatta mentre si godeva un altro cioccolatino.

“Sarebbe un’ottima idea…!” Jakotsu ne era davvero entusiasta.  “Ho tantissime cose da raccontarti.” Sorrise malizioso “Vuoi la parte privata o quella lavorativa?”

“Raccontami prima quella lavorativa… altrimenti se inizi a ciarlare sulla tua vita privata si farà notte, e ti scorderai di raccontarmi il resto.

Lui incrociò le gambe, giocherellando con le dita e cercando di mantenere l’aria più naturale ed innocente del mondo. Non riusciva a prevedere la reazione di Kagura, e quindi era meglio dare un taglio più leggero al racconto.

“Dunque, prima di tutto: il facchino dell’Hilton ha due occhi verdi che sembrano dipinti. E due chiappe che parlano.”

Iniziò a raccontarle di come quei noiosi giapponesi dovessero essere diretti come se fossero stati su un palcoscenico. “più gli chiedevo di essere naturali e più sembravano delle statue. I manichini della Galleria Lafayette sono più espressivi.

“Temo che sia proprio un’impostazione nipponica. Dubito lo facessero apposta a non sembrare naturali…” commentò lei, finendo, con estremo disappunto, la scatola di cioccolatini.

“Comunque, Suikotsu mi ringraziava in continuazione. Mi ha addirittura fatto i complimenti!” Annuì all’espressione stupita della donna. “Proprio così. IN-CRO-YA-BLE”

Indugiò sulla noia di dover organizzare le luci della stanza, sull’inadeguatezza del faretto che avevano a loro disposizione e sulla continua richiesta di precisione da parte del Presidente della conferenza.

“Poi, mentre c’era un attimo di stasi perché era cambiata la luce e io stavo cambiando gli obbiettivi, sono incappato in un discorso di una decina di loro. Sospirò. “Credo stessero parlando proprio di te. Il tuo cognome è Onigumo, vero?”

Lei annuì. La vide lottare contro se stessa, incerta se voler ascoltare il resto della storia o meno.

“Bene. Pare che in Giappone sia scoppiato il putiferio a causa tua. Ho sentito che hanno arrestato tuo fratello, e che un paio di giorni fa c’è stata la prima udienza del processo a suo carico. Con lui hanno arrestato praticamente tutti i suoi “soci”, e tanta altra gente è sotto inchiesta. Poi qualcuno ha fatto un commento su di te… abbastanza pesante… e…”

“Quale commento?”

Lui tentennò. “Beh, ha detto che Naraku, tuo fratello, era giustificato a saltarti addosso… vista la tua … diciamo avvenenza e il tuo essere… diciamo disinibita.

Kagura scosse la testa profondamente schifata.

“Si, hai perfettamente ragione. Non so cosa mi abbia trattenuto dal dirgli qualcosa. Comunque, non so se lo conosci, ma quel personaggio credo risponda al nome di Morisawa.

“Certo che lo conosco, quel viscido figlio di puttana…ci sono dovuta anche finire a letto un paio di anni fa.”

Jakotsu provò ribrezzo, al ricordo di quell’uomo calvo e pingue.“Ad ogni modo… dopo che Morisawa ha fatto questo spiacevole commento, un altro si è meravigliato comunque di come si fosse trovato coinvolto nella faccenda Sesshomaru No Taisho, tanto da non venire a questa conferenza.”

Kagura sembrò trattenere il respiro.

“Da quello che ho capito lui stesso ha fornito materiale per il processo, e, oltre a dover presenziare in quanto tutore di uno dei testimoni chiave – il suo famoso fratellino testacalda di cui mi hai raccontato, immagino.- è lui stesso testimone contro l’imputato per quello… che ti ha fatto. Uno dei più importanti. La vostra relazione ha suscitato molto scalpore. E comunque, si, ti credono tutti morta. In questo hai fatto un successone. Ti hanno anche organizzato un funerale, sai?”

Il cenno di smetterla di Kagura lo interruppe. “Non voglio sapere oltre.” Decretò. “Smettila di raccontarmi queste cose. Sai bene che non tornerò mai indietro.”

“Va bene. Mi sono intromesso troppo, scusami. Passiamo dunque alla parte privata?” raccolto il consenso assoluto della donna, Jakotsu roteò gli occhi al cielo, ridacchiando. “Suikotsu mi ha chiesto un appuntamento…!” Guardò l’espressione attonita della donna, la bocca spalancata dallo stupore. “Domani sera, a La Coupole!Questo si che si chiama appuntamento! Questo si che è da cavalieri!”

“Non ci posso credere!” esclamò, sinceramente colpita.

“Nemmeno io! è assurdo! Non avrei mai pensato di piacere a Suikotsu…!”di prese le guance porpora tra le mani. “Ora il mio problema è trovare qualcosa da mettere domani sera…”

La donna però non sembrava molto convinta. “E se invece volesse fare spionaggio industriale?”

Lui sbuffò: “E smettila di vedere complotti in ogni dove, Kaguretta! E’ semplicemente affascinato dalla mia bellezza, interessato alla mia arte e…”

“…arrapato dal tuo sedere…” terminò lei, ironica.

“Continua ad essere così acida e morirai zitella.

Lei si indicò la pancia “Che è conveniente, visti i risultati. Ho già dato.”

 

 

 

Ciao Ragazze! Eccomi di nuovo…

Allora: i Locali che leggete in questo capitolo (libreria Fnac, ristorante La Coupole, e Debauve et Gallais) esistono davvero. Ringrazio la guida di Parigi della DeAgostini (Baedeker) per l’informazione.

Alla prossima!!!

 

E.C.

 

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Capitolo 8
*** huitieme chapitre: Sortir ***


La Complainte de la Butte.

Huitieme Chapitre: Sortir.

Saltellava da un piede all’altro come se fosse su un pavimento di carboni ardenti,  gettando sconsolati sguardi all’interno dell’armadio.  “Non ho nulla da mettermi…” piagnucolò per l’ennesima volta.

Kagura alzò gli occhi al cielo, prima di spingerlo via dal guardaroba, e tuffandosi in mezzo ai numerosi capi d’abbigliamento appesi. Dopo pochi minuti di studio dei vestiti, prese un paio di grucce e li gettò sul letto, sbrigativa.

“Pantaloni bianchi. Sicuramente. Sono quelli che ti stanno meglio. A te lascio la decisione sulla camicia. “ decretò.

“Dici?” Jakotsu sembrava perplesso.  “Come se fosse cosa da poco… Non so cosa mettermi sopra… La camicia nera di seta?”

“Così sembreresti Tony Manero…

“Azzurra?”

“Marinaio in libera uscita”

“Rossa?”

“Non ti ci vedo, Compagno Jakotsu.”

Il ragazzo sembrava ormai sull’orlo di una crisi isterica. “Vedi che non ho nulla da mettermi?”

Lei si meravigliò ulteriormente del nervosismo del ragazzo: era tutto il giorno che andava avanti e indietro dal negozio guardando l’orologio ogni dieci minuti. Avevano chiuso con un quarto d’ora d’anticipo perché lui doveva prepararsi,  e arrivato a casa si era barricato in bagno, cercando in tutti i modi di rubarle la crema idratante, impazzendo nel constatare che aveva finito il suo profumo preferito e quasi scoppiando a piangere alla rottura della spazzola per capelli.

“Te l’ho già detto che sei quasi troppo gay per essere vero?”

“Ho già predetto che morirai zitella?”

“Jackie, per la miseria, hai un appuntamento con una persona che conosci da anni e anni, non con Johnny Depp!” esclamò, additando il poster che il ragazzo aveva affisso alla parete e che venerava come un’immagine sacra.

Ma lo stato d’ansia non accennava a diminuire.  “Ma è diverso!” piagnucolò. “E se mi vestissi in un modo che non gli piacesse? E se l’appuntamento andasse male? Se parlassi a vanvera? Se dicessi cose stupide e se mi comportassi in un modo che tu non definiresti dignitoso? ”

Per l’ennesima volta della giornata, a Kagura non rimase altro da fare che sospirare esasperata. “Non esci con Hannibal Lecter!”

“Parli cosi perché non l’hai mai visto arrabbiato.” Mugugnò l’altro. “E tra l’altro è molto più carino…

Kagura, dopo aver dato un’altra occhiata all’interno dell’armadio, sospirò:  “ Vada per la camicia nera, ma niente pantaloni bianchi. Infilati questo paio di jeans, che sarai pure a tuo agio.”

Il sorriso tornò sulle labbra del ragazzo. “Con il cravattino bianco?”

“Dovrai passare sul mio cadavere per uscire da questa stanza.”

Ridendo all’affermazione, il ragazzo si decise a infilarsi i jeans. “Tu questa sera cosa farai?”

“Che tu ci creda o no, stasera esco.” Rispose lei, senza nascondere una punta di soddisfazione.

Lui la guardò sorpreso. “Non mi dire che hai un appuntamento pure tu!”

Tsk! Ma secondo la tua testolina…! Stasera parteciperò ad una mostra di sculture di bronzo. Ho adocchiato il volantino ieri mentre andavo a dipingere.”

“Magari, chissà… incontrerai pure l’uomo della tua vita.”

“Certo, lo scultore del bronzo. Mi ha sempre affascinato come metallo, sai.” rispose ironicamente, guardandosi allo specchio fingendo un’aria trasognata.

Lui ridacchiò: “meglio di un uomo che sembra uscito dall’età del bronzo, no?”

“Mah. Tra quello e il blasonato principe azzurro che tutte sembrano cercare non saprei chi scegliere.”

 

La mostra di sculture di bronzo si era rivelata una noia mortale.  Persino per un’anima così sensibile all’arte com’era Kagura. Quelle figure filamentose e contorte sembravano esprimere tutt’altri concetti rispetto a quelli esposti sulle targhette dei titoli.

“Frammento della solitudine” lesse in uno, per poi studiare perplessa la scultura: una mezza sfera dal centro dipinto di rosso.  Provò a cambiare prospettiva di vista, ma il risultato della sua interpretazione non cambiò. Gettò uno sguardo veloce agli altri partecipanti alla mostra, quattro o cinque personaggi con i medesimi sguardi perplessi, mentre lo scultore, un sosia male interpretato di Andy Warhol, spiegava con enfasi la propria arte ad una ragazza che annuiva con aria non troppo convinta.

La donna si trovò ad invidiare il suo amico, e cercò di immaginarsi l’andazzo dell’appuntamento.  Fissò l’orologio. Le dieci e mezzo. A quell’ora dovevano già aver finito di cenare, o per lo meno essere al dolce.

Si era messa d’accordo con Jakotsu di farle da ancora di salvataggio se gli avvenimenti avessero preso una piega tragica: ad un suo squillo sul cellulare, lei l’avrebbe chiamato fingendo allarme per un malore improvviso e richiedendo il suo aiuto.

Frugò nella borsetta fiorata e controllò il cellulare. Nessun messaggio, nessuno squillo. Allora le cose stavano andando per il verso giusto. E bravo Jackie. Pensò, con una punta di orgoglio. Forse Jakotsu sarebbe riuscito finalmente a dimenticare la precedente storia. Per quanto si sforzasse a negare l’evidenza, ormai Kagura lo conosceva troppo bene.  Ma presto le cose avrebbero preso una piega diversa.

E lei, quando sarebbe riuscita a dimenticare Sesshomaru?

Sospirò, sfiorandosi inconsapevolmente il ventre. Forse, una volta partorito, sarebbe stata assorbita talmente tanto dal nuovo arrivato che non avrebbe più avuto tempo per pensare a lui.

O forse, ancora meglio, sarebbe riuscita ad incontrare l’uomo della sua vita. Parigi era grande, il mondo era immenso, e c’erano tanti pesci nel mare; tanto per utilizzare uno dei motti di Jakotsu.

Beh, non l’avrebbe trovato di certo in quel vernissage semideserto.

Uscì dalla minuscola galleria che ospitava l’evento, indecisa sul da farsi. Era da sola, di sera, e di certo mettersi a bighellonare tra le vie di Montmartre non era di certo la scelta più sensata.

Il suono di un messaggio arrivato sul cellulare la fece trasalire.

“Qui tutto benissimo! Non aspettarmi in piedi, probabilmente farò mooolto tardi. Tutto bene a te, ma cherie?”

La donna sorrise, e si affrettò a rispondere:  Anche qui tutto bene. La mostra è uno schifo. Faccio due passi e poi credo che tornerò a casa. Non osare tornare prima dell’alba!

Mentre inviava il messaggio, però, si rese conto di non avere assolutamente voglia di rientrare: stare a casa da sola la rendeva preda della malinconia e di pensieri tristi. Guardandosi attorno, ponderò l’idea di sedersi in un qualche locale, di bere un cocktail analcolico fissando i presenti e di trarne spunto per qualche disegno. Certo, non avrebbe disdetto nemmeno un po’ di compagnia. Stranamente quella sera aveva voglia di chiacchierare, e non solo con il suo coinquilino. Si rese conto che, clienti a parte, erano quasi due settimane che parlava solo con lui, e anche i contatti con le altre persone che Jakotsu le aveva presentato erano molto sporadici.

Quindi, giusto per avere qualche probabilità di trovare qualcuno con cui scambiare due parole, decise di dirigersi verso il locale di Renkotsu.

 

Ad onor del vero, Renkotsu non le andava affatto giù. Le sembrava viscido ed opportunista, e non si sforzava di celare la sua irritazione quando Jakotsu era presente. Come poteva essere simpatico un uomo che non sopportava una forza della natura come era il suo amico?

Tuttavia, quello era l’unico posto dove aveva qualche possibilità di incontrare qualcuno di conosciuto. Entrò nel locale e si sedette al solito posto, sul bancone, notando la poca gente presente.  Oltre ad un paio di coppiette, abituali clienti del locale, e un gruppetto di mezza dozzina di uomini in libera uscita, vi era solo una ragazza dai corti capelli a caschetto, neri, che fissava sconsolata il suo bicchiere mezzo vuoto. Anche lei era appoggiata al bancone, giusto un paio di metri lontana da lei. Nessuno della solita compagnia di Jakotsu.

Renkotsu le fece un cenno di saluto. “Sedotta ed abbandonata?” Le domandò, ironico.

Kagura si sforzò di sorridere. “Oggi serata libera.” Rispose, ordinando un cocktail alla frutta, analcolico.

“E il tuo cavalier servente dov’è stasera?”

Alzò le spalle, fingendo noncuranza. “Una cena.”

Lui fissò la ragazza mora, che si trovava davanti a sé, e le disse, in tono di scherno: “Mi dispiace, Yura, ma pare che stasera tu sia davvero l’unica sfortunata in giro.”

Lei gli rispose con un sospiro. A Kagura fece un po’ pena. Doveva avere poco più di vent’anni, carina, con un bel fisico asciutto e curato. Indossava un abitino nero e corto. Forse era reduce da un appuntamento finito male. Non trovando nulla di meglio da fare, cambiò sgabello e si sedette in quello vicino al suo. 

Salutò. Lei alzò a malapena la testa, mugugnando un saluto.

“Non ti ho mai vista da queste parti.” Disse Kagura, non riuscendo a trovare nessun’altro argomento migliore per intavolare una conversazione. D’altronde lei non è che ne avesse una grande esperienza, di conversazioni informali e di conoscenza nei bar. Ma, su imitazione inconsapevole del suo compagno, si era ripromessa di diventare un po’ più aperta ed amichevole nei confronti della gente che la circondava. E di sorridere più spesso. D’altronde, era un periodo in cui l’ottimismo e la positività potevano davvero influenzare la sua vita.

“E’ da un sacco che non ci passo” rispose lei, segnando l’orlo del bicchiere con l’unghia laccata. “Da quando mi sono messa con Hiten, uno stronzo che frequentava altri locali.”

“Finita male, eh?”

“Mi ha mollata per un’altra. Peggio di così…” sospirò la ragazza. “E il bastardo non ha nemmeno avuto le palle di venirmelo a dire in faccia. Mi ha dato appuntamento per stasera in un ristorante, e ha mandato suo fratello Manten, brutto come la paura, a fare da ambasciatore, che tra l’altro si è offerto di sostituirlo.”

E… non hai pensato che il suo amico potesse dirti una bugia?”

Yura scosse la testa. “L’ho chiamato, dopo. Era con lei e mi ha risposto scocciato. E mi ha offerto suo fratello come sostituto. Come se fossi merce di scambio, capisci? Merce di scambio senza senso estetico, tra l’altro.”

Fils de putaine…

“Lo puoi ben dire.”

Renkotsu allungò a Kagura l’ordinazione. “Vedo che avete già fatto amicizia.” Ridacchiò. “Forse tu non sai con chi stai parlando, Yura.”

La ragazza gli prestò attenzione.

“Lei è Kagura, e probabilmente tu sei l’unica di tutta Parigi, o quantomeno di tutta Montmartre a non sapere che è la nuova assistente e coinquilina di Jakotsu.” L’uomo si sfiorò la pancia. “E futura madre del suo pargolo, a quanto pare”

Kagura lo guardò con odio, mentre Yura la fissava allibita. “Quindi Jakotsu non è gay?” sembrava quasi offesa.

“Se così non fosse, allora avrei anche dei dubbi sulla rotondità del globo terrestre” rispose. “E per quanto riguarda il bambino, stai tranquilla:  non c’è stata nessuna generosa donazione. E’ stato concepito con metodo tradizionale, ricorrendo all’attrezzo da lavoro di un altro esponente della razza maschile.”

Lo sguardo che le restituì la ragazza fu sorprendentemente compassionevole. “Anche tu sei incappata in un altro stronzo?”

Beh… non proprio. Ma è una storia tediosa e complicata.”

Yura sembrava aver riacquistato un po’ di tranquillità e anche il suo morale sembrava essersi sollevato. “Sai, a me piaceva tanto Jakotsu, ma quando ho provato a fare il primo passo, beh, lui è scoppiato a ridere e mi ha fatto notare di non essere attratto dalle donne.”

“Io sinceramente non so come faccia.”si intromise Renkotsu, mantenendo lo sguardo ipnotizzato sulla scollatura generosa della ragazza. “E comunque eri l’unica a non averlo notato.”

Kagura pensò che non notare le preferenze di Jakotsu significava essere sordi e ciechi contemporaneamente.

“E poi abbiamo litigato perché non gli piaceva il taglio che gli ho fatto.” Aggiunse la ragazza, quasi mortificata. “Sai, ero la sua parrucchiera. E anche quella del barman qui presente.”

Renkotsu mostrò fiero la pelata sotto la bandana nera, e Kagura ripensò alla zazzera ribelle dell’amico. Forse Yura non era solo beatamente ingenua, ma anche abbastanza inaffidabile come pettineuse.

Tuttavia, finse interesse per il suo mestiere, così da togliere dalla piazza un argomento che si prospettava abbastanza imbarazzante.

Lei si complimentò per come erano pettinati e ben curati i suoi capelli, e la invitò nel salone di bellezza dove lavorava.  La donna finse di prendere in considerazione l’invito, ma comunque di rimandarlo a breve termine per impegni maggiori.

Parlarono per il resto della serata del più e del meno, e poi fecero anche parte della strada di ritorno insieme.

Prima di salutarsi Yura la pregò di salutare Jakotsu e di chiedergli infinitamente scusa per il taglio di capelli.

Tornando nell’appartamento deserto, Kagura si sentiva orgogliosa di sé stessa e contenta, tutto sommato, per la serata trascorsa. La sua nuova conoscenza era un po’ pesante, questo era vero, ma comunque aveva dimostrato a sé stessa di poter essere una persona più aperta di quello che credeva di essere.

Pensò di informare subito Jakotsu, ma il fatto di non trovarlo in casa le fece intuire che un suo messaggio sarebbe stato di disturbo, e quindi si ripromise di riparlarne con lui la mattinata seguente. Sempre che si presenti in negozio. Pensò sorridendo e trovandosi ad invidiarlo per l’ennesima volta. Si coricò sul suo lettino, scoprendosi improvvisamente stanca. Si accarezzò il ventre, come buonanotte, e si addormentò, per la prima volta dopo mesi, senza dedicare un ultimo pensiero a Sesshomaru.

 

“Bon Jour!” Esclamò Jakotsu, spalancando la porta del negozio, in quel momento fortunatamente deserto, e saltellando dietro al bancone, dalla sua amica, schioccandole un bacio sulla guancia. “Ti sono mancato? Hai avuto paura a dormire tutta sola?”

Gli rispose che aveva dormito come un sasso, e che a malapena aveva sentito la sveglia suonare. “Allora, com’è andata?”

Jakotsu alzò gli occhi al cielo, mordicchiandosi il labbro inferiore con aria elettrizzata e sognante. “MA-GNI-FI-QUE!” sorrise con aria ebete, sedendosi su uno degli sgabelli. “Prima di tutto, la cena: splendida, ottima. A base di pesce. E HA PAGATO LUI! Non me l’aspettavo! Meglio così comunque, per pagare la cena che abbiamo consumato avrei dovuto vendere un rene. Poi siamo andati a bere un cocktail. Abbiamo evitato Renkotsu e i suoi commentini acidi e siamo andati in un wine bar lì vicino. Un locale piccolo, ma molto accogliente. Abbiamo continuato a parlare un po’ di tutto, soprattutto – e qui tu storcerai il naso – di lavoro.  

Giuro di aver mantenuto un comportamento dignitoso. Poi il discorso è, disgraziatamente, caduto su Bankotsu. Ho cercato di fingere noncuranza, ma quando Suikotsu mi ha detto che avrebbe fatto il servizio matrimoniale per poco non collassavo a terra. Lui l’ha notato, e mi ha spinto a continuare l’argomento.”

“Stai scherzando, vero? Hai parlato del tuo ex al primo appuntamento con un altro? Ma che ti passa per la testa, Jackie! Lo so persino io che è la prima cosa da evitare!”

“Si, lo so, lo so. Ma lui insisteva! Io ho edulcorato molto la cosa. Però… più parlavo e più si arrabbiava.. . non con me, ma con Bankotsu! E mi ha detto che gli era insopportabile il pensiero che lui mi avesse fatto soffrire così tanto.”

“E quindi?”

“E quindi non sono più riuscito a resistere e mi sono letteralmente spalmato su di lui!”

Prevedibile. Kagura non poté fare a meno di ridere. “Meno male che volevi aspettare che facesse lui la prima mossa. Che fine ha fatto la preda che c’è in te?”

“Non esiste. Sono un predatore, non c’è niente da fare. E comunque, Suikotsu non si tirava indietro, anzi! Allora mi ha detto che era meglio andare a bere qualcosa a casa sua. Ha aggiunto di avere una bottiglia di vino italiano che mi avrebbe fatto impazzire.”

Oh… adesso si dice vino italiano?” commentò la donna.

“Beh, c’era anche il vino italiano. Però quello che mi ha fatto impazzire è stato qualcos’altro.” Ridacchiò malizioso. “Nella scala da 1 a 10 gli do un bel 9 come voto. Focoso come piace a me.”

Furono interrotti da un cliente che chiedeva uno dei piccoli poster sui tetti parigini esposti in vetrina. Kagura provvide a servirlo, mentre l’altro fingeva di trafficare con il computer con aria impegnata.

Quando il cliente uscì, Jakotsu le domandò come mai non avesse ancora esposto il suo dipinto sul Canal Saint Martin.

“Veramente l’abbiamo esposto ieri, suonato.” Fece finta di rimproverarlo, colpendolo gentilmente sulla fronte con il palmo della mano. “L’ho solamente già venduto. Stamattina, dieci minuti dopo l’apertura. Se tu fossi stato in orario avresti partecipato al mio piccolo trionfo personale.”

Lui la fissò a bocca spalancata. “Così presto? Kaguretta, sei un genio!” L’abbracciò con trasporto. “Te l’avevo detto che quello era un piccolo capolavoro!”

Kagura ne fu estremamente compiaciuta, arrossendo sino alla radice dei capelli. “Beh, era solo una turista tedesca che non voleva portarsi a casa il solito poster” ammise, con falsa modestia.

Ma Jakotsu non ne voleva sentir ragioni. “Devi farne subito un altro. Se hai l’ispirazione vai pure, ti lascio la giornata libera.” L’abbracciò di nuovo, facendo una piroetta. “Diventeremo ricchi e famosi Kaguretta!”

Lei si staccò dall’abbraccio quasi a forza, frastornata. “L’unica cosa che ho adesso è la nausea…

 

 

 

 

 

E.C.

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Capitolo 9
*** Neuvième Chapitre: le grand comedién ***


La Complainte de la Butte.

 Neuvième Chapitre: le grand comedién

Oh yes I'm the great pretender (ooh ooh ooh)
Pretending I'm doing well (ooh ooh ooh)
My need is such
I pretend too much
I'm lonely but no-one can tell

Non riusciva a non cantare,  mentre ascoltava le canzoni dei Queen, anche se stava finendo di ultimare un delicato ritocco a Photoshop. Ormai conosceva quel Greatest Hits a memoria, e poteva abbinare ogni canzone a un qualche suo momento della sua vita. 

I Want it All  e We Will Rock You erano la sua colonna sonora del suo arrivo a Parigi, con la testa piena di sogni, di buone intenzioni e di ottimismo.

Who Wants to Live Forever  gli ricordava gli ultimi giorni con sua madre, e The Show Must Go On l’accompagnava fuori dal cimitero, a funerale finito.

Bohemian Rapsody per i tempi dell’Università, e sulle note di Innuendo gli tornavano in mente gli incontri clandestini con Bankotsu. Chissà perché, poi. Forse a causa di quell’assolo di chitarra che suonava alle sue orecchie così liberatorio ed energico.

The Great Pretender, la canzone che lo stereo suonava in quel momento, calzava perfettamente alla suo stato d’animo di quel giorno.

Suikotsu, che finiva di sbucciarsi un kiwi sul lavandino dell’angolo cottura, si voltò verso di lui, fissandolo sorridendo mentre il ragazzo imbracciava il mouse del computer come microfono e dondolava la testa a ritmo della musica. Sull’acuto di Freddy Mercury gli si avvicinò, tuffando le dita tra i capelli ribelli per fargli reclinare la testa all’indietro, verso di lui, e stampandogli un bacio sulle labbra. “Dovresti cantare più spesso, sai? Hai una bella voce.”

Jakotsu gli restituì il sorriso, arrossendo lievemente.  E adesso penserà che vado in brodo di giuggiole ogni qualvolta mi fa un complimento. Pensò. “Se continuo a distrarmi così, però, non riuscirò mai a finire questa foto.”

“E’ un modo carino per dirmi: lasciami in pace?”

Il ragazzo alzò una spalla con aria vaga, cercando di stuzzicarlo. “Prendila come vuoi…

Suikotsu si lasciò cadere sul divano,  e per un po’ lo fissò in silenzio, mentre lavorava. Conscio dei suoi occhi puntati su di sé, Jakotsu fece di tutto per rimanere concentrato sul programma, ignorandolo.

Dopo pochi minuti di silenzio, rotti solo dalla musica suonata dallo stereo, Suikotsu gli domandò se quella sera sarebbe andato a dormire a casa sua.

Jakotsu storse il naso: “Domani Kagura ha la visita di controllo, al mattino presto, e mi piacerebbe esserci. Se venissi a dormire chez toi rischierei di tardare, domattina.”

“E allora rimango a dormire qui anche stanotte?”

“Così facendo però Kagura non dormirebbe, non si riposerebbe e domattina sembrerebbe uno zombie.”

Suikotsu gli si avvicinò e si mise in ginocchio davanti a lui, guardandolo negli occhi, serio: “C’è qualcosa che non va, Jackie?”

L’altro gli sorrise e prese a picchiettare l’indice sulla sua fronte. “Perché? E’ una cosa che ti innervosisce?” ridacchiò.

“Sei irritante quando fai così” cercò di togliere il dito del ragazzo dalla sua fronte, senza riuscirci: quando voleva Jakotsu sapeva essere veloce e letale, nei suoi dispetti. “Perché vuoi farmi innervosire?”

“Perché mi piace il tuo lato oscuro e selvaggio, Schizofrenico!”

Finalmente l’altro riuscì a bloccargli entrambe le mani, attirandolo a sé. “Idiota” bisbigliò, coprendo un sorriso. “Non svegliare il can che dorme, Jackie.”

Il ragazzo si morse le labbra per non ridere: bastava così poco, a volte, per trasformare l’umore di Suikotsu da tranquillo e sereno a iracondo e furioso. Gli negò le labbra, per provocarlo ulteriormente, voltando la testa morbidamente di lato, ormai sicuro di averlo in pugno. Ma invece di avere un qualche scatto impulsivo e passionale, l’altro scosse semplicemente la testa, divertito. “Sei proprio strano.”

Weird.

Jakotsu si incupì, ma cercò di non darlo a vedere.

“Perché mai dovrei innervosirmi dei tuoi dispetti?” Suikotsu continuava a guardarlo sorridendo, le mani tra le sue. “Quando sono con te è l’ultima cosa al mondo che mi viene in mente di fare.”

Jakotsu sorrise malizioso: “L’avevo notato” disse, meritandosi un buffetto sulla guancia dall’altro.

“Sul serio. Mi fai sentire sereno, contento.”  Finalmente guadagnò le sue labbra. “Felice.” Gli baciò una guancia, lasciandogli le mani e attirandolo a sé. “Appagato.”

Jakotsu lo lasciò fare, abbandonandosi all’abbraccio del ragazzo. Aveva quasi voglia di piangere. Si sentiva il Re degli Stupidi.  Lui e Suikotsu stavano insieme da quasi un mese, ed invece di essere su una nuvola paradisiaca, si sentiva di giorno in giorno meno interessato, più apatico.

Nonostante i suoi capricci,  le sue bizze e i suoi sbalzi d’umore, Suikotsu sembrava tranquillo e sereno, e si mostrava sempre disponibile nei suoi confronti, e non sembrava pesargli la sua convivenza e il suo rapporto con Kagura: anzi! Dopo una iniziale e reciproca freddezza conoscitiva, i due sembravano andare d’amore e d’accordo.

Kagura pensava che fosse davvero ottimo per lui. “E’ carino, gentile, e sembra molto preso da te.” Erano state le sue testuali parole d’approvazione.

Jakotsu sospirò. La sua amica aveva perfettamente ragione: Suikotsu era un uomo d’oro.

E allora perché non riusciva a tuffarsi completamente nella loro storia? Si stava facendo trasportare dal flusso degli eventi. Forse succede così i primi tempi cercò di convincersi per l’ennesima volta. Soprattutto dopo un’esperienza come la mia. Sono solo sentimentalmente traumatizzato.

Il rumore della chiave nella toppa e della serratura che si apriva gli fece staccare improvvisamente. Kagura entrò, cavalletto sottobraccio, e quando li vide si arrestò, con la faccia mortificata. “Ops. Scusate, esco subito” disse, facendo cenno di indietreggiare. Poi però cambiò idea. “Devo andare prima in bagno. Ma voi fate come se non ci fossi!” gridò, dirigendosi verso la toilette, continuando a portare il cavalletto di legno con sé.

Suikotsu sospirò. “Che tempismo… fine momento magico.” Jakotsu alzò le spalle, dandogli un buffetto sulla guancia. Era colpevolmente sollevato dall’entrata di Kagura. Tornò a concentrarsi nuovamente sul computer e sul suo lavoro lasciato a metà.

La donna riemerse dal bagno dopo pochi minuti, con l’inseparabile cavalletto comicamente trascinato. Approfittando delle spalle che le dava Suikotsu, mormorò all’amico un “Mi dispiace” accorato, dirigendosi verso la porta. Quasi allarmato, il ragazzo scosse la testa, facendole cenno di restare. “Non devi affaticarti troppo Kaguretta, e poi oggi c’è freschino fuori.”

La donna gli restituì uno sguardo interrogativo, ma appoggiò gli attrezzi ed entrò in salotto. “Si, in effetti… ormai se ne è andata anche la luce giusta.” Si avvicinò a Jakotsu, e con un cenno gli chiese se qualcosa non andasse. Forse aveva notato qualche ombra scura sulla sua faccia?

Lui scosse la testa. Poi le fece segno che ne avrebbero parlato dopo.

“Ho chiesto a Yura di venire a cena da noi, vi spiace?” domandò, mettendosi comoda sul divano, sotto lo sguardo terrorizzato di Jakotsu, che si toccò involontariamente la zazzera castana. “Così non faccio la terza incomoda con voi piccioncini.”

“Sei proprio un elemento di disturbo insopportabile”  La canzonò Suikotsu, sedendosi al suo fianco. “Pensavamo infatti di chiuderti in bagno, mentre noi ci concedevamo una cena a base di cibo cinese, consumata a lume di candela e con musica lounge di sottofondo.”

“E osereste negarmi il riso con pollo e boccioli di bamboo?”

“Certo che no. Te lo facevamo passare dalla fessura sotto la porta.” Rise l’altro, gettando un’occhiata a Jakotsu, come a cogliere una sfumatura di sorriso sul suo volto. Ma il ragazzo pareva serio e concentrato sul proprio lavoro, e non sembrava assolutamente degnarli di un briciolo di attenzione. Anche Kagura notò questo atteggiamento, davvero insolito per il suo amico, che era solito abbandonare qualsiasi cosa pur di farsi una risata o per una battuta, ma per non far impensierire Suikotsu fece finta di nulla, e brontolò su quanto i due fossero crudeli nei confronti di una povera fanciulla in stato interessante.

“A proposito di stato interessante, Jackie mi ha detto che domani avrai la visita.”

Kagura annuì, non riuscendo a trattenere un sorriso. “Dovremmo già vederne il sesso.”

“Cosa preferiresti, maschio o femmina?” domandò Suikotsu, interessato.

Preferirebbe sapere chi è il padre, piuttosto. Pensò Jakotsu, sollevando un sopracciglio e lasciandosi scappare un lieve sbuffo.

La donna alzò le spalle, indecisa. “Sinceramente non ho molte preferenze in merito.” Ponderò le due situazioni, e le definì di poca differenza. “Forse femmina…

“Hai ragione. Se fosse maschio si sentirebbe solo, qui dentro!” commentò il ragazzo al computer, con una risatina, mentre gli altri due gli davano dello stupido e gli tiravano un paio di cuscini.

Il campanello trillante annunciò l’arrivo di Yura. Jakotsu scattò in piedi, e per poco non rovesciò il computer portatile a terra.

“Presto, Suikotsu, prendi un berretto e nascondiamoci i capelli, prima che quella pazza ci faccia sembrare due mohicani!” strillò Jakotsu, correndo comicamente verso la propria camera da letto.

 

“Si può sapere che ti prende?”

Kagura l’aveva acchiappato in corridoio e l’aveva trascinato, con una forza quasi sovraumana per il suo corpo e il suo stato, dentro al bagno, chiudendo la porta a chiave per evitare qualsiasi fuga improvvisa.

Jakotsu fece finta di essere sorpreso e si indicò con aria innocente.

“Ti conosco abbastanza per riuscire a capire quando c’è qualcosa che ti rogna.” Lo sguardo della donna era piantato nella sua faccia, a pochi millimetri, alzandosi sulle punte dei piedi per studiare meglio la sua espressione, che in quel momento era di terrore puro. “Tu e Suikotsu avete litigato, forse?”

Impaurito, senza difese né vie di fuga, il ragazzo fu costretto a scuotere con forza la testa castana. Alcune ciocche di capelli scapparono dalla forcina e si liberarono, ribelli, sulla sua testa.

“Allora hai conosciuto qualcun altro?”

Anche questa volta negò, la chioma che continuava a sfuggirgli dall’acconciatura.

“Dì un po’: non si tratterà mica di Bankotsu, vero?” Il tono minaccioso di Kagura gli faceva gelare il sangue nelle vene. Se quelli erano gli ormoni della gravidanza, allora c’era da sperare in un parto prematuro: continuando così non sarebbe arrivato vivo a Settembre.

No… davvero… è che…

Dall’altra parte della porta, Yura chiese se andasse tutto bene, prima di proporsi per andare alla rosticceria cinese all’angolo a prendere la cena.  Entrambi acconsentirono.

“E’ che...?”

Jakotsu allargò le braccia, sconfitto. “Non lo so… è che… che diamine… non so neppure più io cosa voglio. Mi piace un lato di Suikotsu che non vuole più farmi vedere. Adoro il suo lato oscuro… ma lui dice che io lo rendo sereno e che di arrabbiarsi quando ci sono nei paraggi è l’ultima cosa che gli viene in mente di fare”

“Dormo nella camera accanto, me ne sono accorta.” Kagura gli scoccò uno sguardo di fuoco, sembrando trattenersi dal picchiarlo selvaggiamente. Girò la chiave nella toppa, aprendo la porta. “Dovresti parlargliene, davvero. Sono sicura che discutendone troverete una soluzione.”

Uscirono in corridoio, con la donna che vestiva un sorriso confortante indirizzato a Suikotsu, che stava apparecchiando la tavola. Guardò Jakotsu con un sopracciglio alzato, per poi scoppiare a ridere. Lui, un po’ irritato, gli domandò che ci fosse di così divertente. Poi si guardò allo specchio del corridoio: “Oh mio dio!! Sembro una gorgone… Kagura, guarda come mi hai conciato, tu e le tue stupide paranoie!” strillò, indispettito, mentre si infilava le mani nei capelli.

Yura scelse proprio quel momento per aprire la porta, e nel vederlo così indaffarato, le si dipinse sul volto un’espressione estasiata. Gettò l’involucro della rosticceria verso Kagura, che lo afferrò al volo per pura fortuna, e poi si avventò sul ragazzo, trillando che ci avrebbe pensato lei a sistemare il tutto. Per tutta risposta, lui si gettò terrorizzato verso la camera, cercando di barricarsi al suo interno. La ragazza non demordeva, continuando a spingere la porta, mentre dall’altra parte Jakotsu chiedeva soccorso agli altri due, che invece si guardavano perplessi, indecisi se mettersi a ridere o a piangere.

“Interveniamo?” domandò Suikotsu, guardando la ragazza che batteva, in forza, l’altro, riuscendo a spalancare la porta ed ad entrare nella camera, da dove iniziarono a provenire rumori di lotta ed insulti di vario tipo e in varie lingue.

Kagura alzò le spalle. “Io non posso. Sono incinta.” Cinguettò, accarezzandosi la pancia per sottolinearlo.

“Cominci ad usare questa scusa un po’ troppo spesso, per i miei gusti…

 

“Dai, lasciami dormire…” mugugnò, scansandosi quasi infastidito.

Lui sembrò sorpreso, ma non insistette, abbandonandosi fra i cuscini. “Credevo che nel tuo invito a dormire qui ci fosse implicito anche dell’altro.” Rispose, con tono acido. “Scusa se ho pensato male… eh!”

Jakotsu avvertì una fetta di senso di colpa. Non aveva senso trattarlo male e cercare di essere freddo e distaccato. Così facendo l’avrebbe solo fatto soffrire, e di certo lui non aveva fatto nulla per meritarselo. Si puntellò sui gomiti,  voltandosi verso l’altro. “Mi dispiace” mormorò. Forse aveva ragione Kagura, dovevano parlarne. Ma come fare? Non era mai stato un asso nei discorsi, né tantomeno ad esporre problemi o a discutere soluzioni. Non sapeva nemmeno da che parte iniziare.

“C’è qualcosa che non va?” domandò Suikotsu, appoggiando la schiena contro la testiera del letto e guardandolo preoccupato.

Jakotsu sospirò, facendo un cenno vago con la mano. “E’ una cosa strana, e temo sia proprio colpa mia.”

L’altro lo invitò a parlarne, mettendolo ancora più a disagio. Si coricò supino, con le braccia incrociate dietro la testa, cercando di trovare le parole adatte per affrontare il discorso senza offenderlo o ferirlo. “Temo che mi piaccia solo un lato di te.”  Si pentì subito di aver detto quella frase, come sempre era stato troppo diretto e per niente sensibile. Le parole erano uscite fuori dalla sua bocca prima che riuscisse ad elaborarle. E, dall’espressione ferita di Suikotsu, avevano proprio fatto centro. Si alzò a sedere anche lui, chiedendogli scusa. “Non volevo ferirti. E’che mi è sempre piaciuto il lato di te che non ami mostrare alla gente comune. Il tuo lato imprevedibile, nervoso. Sono uno stronzo, lo so, ma non posso fare a meno di preferirlo al tuo essere sempre così dolce e disponibile.”

Suikotsu ascoltò in silenzio, torturandosi il labbro inferiore con i denti. “Lotto contro i miei scatti d’ira da quando ne ho memoria, cerco di fare in modo di contenermi e di essere un persona normale… e poi tu mi dici che non ti piace affatto tutto ciò? Sai che fatica faccio? Il mio psicologo si è comprato l’appartamento con i miei soldi. E quando finalmente credo di esserci riuscito, ecco che spunta uno stronzetto incontentabile che preferisce la liason dangereuse ad un rapporto vero.” Fece per alzarsi, ma Jakotsu lo trattenne, domandandogli ancora scusa.

“Io ho paura, davvero, di lanciarmi in una storia seria. Sono terrorizzato dall’idea di vedere calpestati ancora una volta i miei sentimenti. Suikotsu, scusami, ti prego.”

Lui gli rivolse uno sguardo gelido “Pensi ancora a lui?”

“A Bankotsu?” Il ragazzo annuì, temendo che la sua espressione parlasse più delle sue labbra. “Si. No. Forse. E’ che… Bankotsu è sempre stata la mia ossessione irraggiungibile. La persona che ho amato, per cui ho fatto tanti piccoli sacrifici, primo fra tutti la mia dignità, per cui mi sono illuso e per cui non valevo così tanto. Non posso fare a meno di chiedermi cosa ho sbagliato, perché non sono riuscito a farlo restare con me, e se provasse qualcosa nei miei confronti. Tutte queste cose, che non potrò mai sapere, mi tormentano e irretiscono la mia capacità di affezionarmi alle persone.”

“Non mi pare che non ti sia affezionato alla tua coinquilina.”

“Con lei è diverso. Prima di tutto, perché non potrei mai innamorarmi di Kagura. Secondo, perché lei è una di quelle poche persone che hanno tutto la mia stima e la mia fiducia. Il destino ci ha fatto incontrare, in un modo stranissimo, in una situazione assurda, in un momento in cui avevamo entrambi bisogno di qualcuno. Lei è tutt’altra cosa.”

Suikotsu rimase silenzioso, sembrava indeciso se andarsene o meno. Stringeva le lenzuola tra le nocche, dando la schiena a Jakotsu.

Ecco, abbandonato la seconda volta sullo stesso letto. Ormai sta diventando una fastidiosa abitudine pensò, volgendo lo sguardo fuori dalla finestra. Nessuna luce accesa, nel palazzo di fronte, nessuna situazione da spiare, nessuna faccia confortante. Kagura probabilmente nell’altra stanza era nel mondo dei sogni, e non se la sentiva di svegliarla solo per raccontarle del suo fallimento con una persona per cui poteva essere importante.

Inaspettatamente, Suikotsu non si mosse per alzarsi. Dopo pochi istanti si allungò sul letto, verso di lui, attirandolo a sé. Sembrava a dir poco furioso, quasi trasfigurato. Il cuore di Jakotsu gli balzò in gola per l’inattesa reazione.

“Ti prometto che ti farò dimenticare la tua storia con Bankotsu.” Sussurrò, roco. Sul viso gli si allargò un sorriso indecifrabile, quasi inquietante. “E festeggeremo questo evento alla grande. Il prossimo mese, ti porterò ad una festa indimenticabile, vedrai Jackie.” Promise, avvicinandosi.

 

“Trovo che sia più che comprensibile una sua reazione del genere.” Commentò Kagura, dopo aver ascoltato il discorso (che comunque aveva afferrato per lo più a spezzoni la sera precedente, con l’orecchio appoggiato alla parete della sua camera), mentre scendeva alla fermata della metropolitana. “Cosa avresti fatto tu nei suoi panni?”

Jakotsu piegò la testa di lato, mentre una smorfia pensierosa gli si disegnava sul volto. “Si, forse avrei fatto così anche io.” Chiocciò. “C’è da dire che da arrabbiato Suiky è davvero un portento!” aggiunse, alzando il pollice in segno di promozione, mentre la donna alzava gli occhi al cielo ed emetteva un lamento esasperato.

“L’unica cosa che non riesco a decifrare è la festa di cui ha parlato. Da dove salterà fuori? Chissà cosa avrà voluto dire.” Aprì la porta dell’ambulatorio, e salutò la segretaria della dottoressa, che li fece accomodare direttamente nella sala delle visite.

“Non sto più nella pelle…” mormorò Jakotsu, sorridendo. Anche Kagura si lasciò sfuggire un mezzo sorriso, ed ammise di essere curiosa.

“Solamente curiosa? Andiamo, Kaguretta, oggi sapremo di che colore prendere il fiocco!” cinguettò l’altro. “Sai quanti negozi d’infanzia ho notato in giro?”

Lei emise uno sbuffo divertito. “Li ho notati anche io.”

La dottoressa entrò, salutandoli cordialmente. “Sono contenta di rivederla ancora, signora.”

“Signorina” la corresse Jakotsu, meritandosi una gomitata da parte dell’amica. “Non credo che questa cosa abbia molta rilevanza, no?”sbottò, coricandosi sul lettino e alzandosi la maglietta come indicato dalla dottoressa, che rimase per un istante a studiarne le forme arrotondate

“Eh, già. Ha messo su una bella pancetta.” Se ne compiacque, accendendo la macchina per l’ecografia e spalmandole il gel. “Vediamo quanto è cresciuto questo gigante. Dovremmo essere già entrati alla tredicesima settimana, vero?”

Kagura annuì, iniziando a sentirsi agitata.  Ogni volta che pensava alla visita di controllo, temeva di trovare qualcosa di anomalo nel bambino, e la sera prima aveva faticato a prendere sonno anche per quel motivo, oltre che per i suoi rumorosi vicini di camera. “Credo di iniziare a sentirlo muoversi” annuì, pensando a quando, in un pomeriggio lavorativo, quella piccola vita l’aveva sorpresa, reclamato attenzione agitandosi dentro di lei.

Jakotsu lanciò uno strillo indignato, domandandogli perché non gliel’avesse detto subito. La dottoressa si lanciò scappare un risolino divertito, mentre accendeva il monitor.

Questa volta il fagiolino era diventato più grande, non si faceva fatica a trovarlo. Ed ecco che si vedevano le braccia e le gambe (o, come si lasciò scappare Jakotsu, le zampine), e la sua testolina fare capolino da dietro il cordone ombelicale.

“Sembra in forma” ammise Kagura, emozionata. “E’ cresciuto molto, no?”

Altrochè, Signorina. Se continua così avrà un bel pupattolone. E’ in forma smagliante, tra l’altro. Certo, per esserne sicuri al cento per cento dovremo fare analisi più accurate, ma così, di prima vista, posso assicurarle che sta procedendo tutto per il meglio.”

“E si riesce già a vedere se è maschio o femmina?” domandò impaziente Jakotsu, saltellando su un piede solo per l’entusiasmo.

La dottoressa fece una smorfia per indicare che era un po’ difficile. “E’ ancora un po’ prestino” aggiunse, notando l’espressione dispiaciuta del ragazzo. “Ma alla prossima visita sono sicura che vedremo qualcosa di più.” Lo rabbonì, prima di fargli ascoltare nuovamente il rumore del cuoricino del piccolo. I due si guardarono, scambiandosi un sorriso.

“E adesso passiamo agli esami del sangue.” Gli interruppe, prendendo l’occorrente per il prelievo.

Jakotsu impallidì. “Deve proprio usare quell’ago?” balbettò.

“Jackie, il sangue non ha facoltà di teletrasportarsi nelle provette.” lo canzonò l’amica, alzandosi la manica.

“Ma quell’ago è ENORME.” Protestò lui. “Non ne può usare uno più piccolo?”

“Guardi che questo è l’ago più piccolo e innocente che ci sia.” Spiegò la dottoressa, divertita. “E le posso assicurare che non lo userò contro di lei.”

“Ci può scommettere: io non mi faccio infilzare da cosi così lunghi e duri come quello.”

“Avrei pensato il contrario.” Commentò ironica Kagura.

 

“Quindi. Se fosse maschio, che ne dici di André? O Remi?” erano appena entrati in uno scompartimento della metrò abbastanza sgombro, riuscendo anche ad accaparrarsi due posti a sedere vicini.

Kagura alzò gli occhi al cielo. “E questi da dove saltano fuori?”

“Beh, André, l’amato di Lady Oscar!” rispose, come se fosse una cosa ovvia. “Era così affascinante con quel ciuffo sugli occhi!”

“Era guercio” puntualizzò lei. “E gli sparano.”

“Si, ma prima di morire si fa Lady Oscar! L’unica femmina che sia stata in grado di procurarmi qualche dubbio circa la mia natura.”

“E Remi da dove salta fuori?” domandò, fingendo esasperazione. “Oh, no… non mi dire…

“SI!! Il Dolce Remi, quello di Senza Famiglia! Ha segnato la mia infanzia…

“Pensa un po’, credevo che tu fossi caduto dal seggiolone, invece. Comunque, scordatelo, è troppo deprimente.”

“Ma nooo! Era pieno di speranza.”

“Speranza un corno” strillò lei. “E’ morta più gente in una sola puntata che in tutta la durata della peste bubbonica seicentesca!”

Jakotsu mise il broncio, incrociando le braccia al petto. Lei lo guardò, ridendo, e lo carezzò, prendendolo un po’ in giro. Si sentiva euforica, e non riusciva a nasconderlo. “Ti prometto che, se si trattasse di un maschietto, lo chiamerò Jacques” Il ragazzo la fissò interrogativa. “Perché sembra il tuo nome in francese”

“Sciocchina” sibilò lui, cercando di nascondere il proprio rossore. “Non vedo l’ora che queste due settimane passino per sapere chi sarà il nuovo arrivato. E se fosse femmina? Che ne dici di un bel Marianne?”

“Ma ce l’hai con la Rivoluzione, tu?”

“Avevo un debole per Lady Oscar, te l’ho già detto!” sospirò, appoggiando poggiando il mento al seggiolino vuoto di fronte al loro. “Colette? Chantal?”

Kagura fece una smorfia di disapprovazione. Non aveva ancora pensato ad un singolo nome. “Vorrei un nome carino e originale. Ma non so ancora quale.”

Cunegonde è abbastanza originale per te?”

 

“Ma sei sicura che sia un essere umano?” Yura fissava il fotogramma dell’ecografia senza capire. Alzando gli occhi al cielo, Jakotsu gliela sfilò di mano e la girò nel verso giusto. “Certo che a guardarlo sottosopra fa un altro effetto di sicuro.”

La ragazza ora ci si raccapezzava meglio. “! Guarda che zampettine carine!” pigolò.

“Ma non sono zampettine! Sono manine. E piedini!” la corresse Jakotsu, indispettito.

“Beh, sembrano zampettine di insetto, non trovi?”

Questa volta fu Kagura a roteare gli occhi all’insù e ad intervenire, strappandole la foto dalle mani, per attaccarla, al posto dell’altra, sul frigorifero. “Un po’ di rispetto. Non è ancora nato, o nata, e già discutete sul suo lato estetico. Vorrei aver visto voi, quando eravate a tredici settimane di gestazione.”

Il ragazzo rise: “Secondo me a Yura erano già spuntate le tette. Deve essere stato semplice scoprire che era femmina.”

“Idiota.” Sibilò lei, mettendosi inconsapevolmente a posto il decolté. “In ogni caso, Kagura, quand’è il prossimo controllo?”

“Tra due settimane avrò il risultato degli esami, se tutto va bene sino al prossimo mese posso stare tranquilla.”

La ragazza sospirò serena. “Che carina…” cinguettò. “Ma, scusate la domanda. Dove lo metterete il bambino?”

Gli altri due si scambiarono uno sguardo interrogativo. “In che senso?” chiese Jakotsu. “nel forno?”

“Ma no, sciocco! Voglio dire… questo appartamento è così piccolo per due persone… figurarsi per tre.”

Il silenzio scese nella casa, mentre i due si guardavano intorno, spaesati, e Yura li fissava, senza credere alle proprie orecchie. “Non ditemi che non ci avevate ancora pensato…

Jakotsu si grattò nervosamente la nuca, Kagura si torturò le dita, mordicchiandosi il labbro inferiore. “Beh, sai… è successo così in fretta, e abbiamo avuto così tante cose a cui pensare che…

“Non ci posso credere.”

“Però ha ragione.” Ammise Jakotsu. “Gli spazi saranno un problema da gestire. Dobbiamo trovarci un altro appartamento, Kaguretta.”

La donna sospirò, annuendo.

Oh… ma è un peccato!” piagnucolò la ragazza. “Ho sempre visto Jackie sempre così legato a questo appartamento, colorato da lui… con tutti questi cuscini… sarà un trauma per te lasciarlo!”

Kagura mostrò segni di disagio, uscendo dalla stanza, mentre il ragazzo fissava Yura come se volesse riempirla di botte. “Embè, cosa c’è? Mi dispiace davvero!”

La raggiunse nella sua camera, dove si era rifugiata, seduta sul letto con un’espressione smarrita. Si sedette al suo fianco, cingendole le spalle con il braccio. “Suvvia, Kaguretta, che hai adesso?”

“Non voglio che tu lasci questo appartamento per colpa mia.” Le vide gli occhi inumidirsi. “E’ il tuo Chateau Jakò, piccolo, colorato ed eccentrico come piace a te. E io ho rovinato tutto.”

“Ma scherzi Kagura?” rise il ragazzo, abbracciandola. “Chateau Jakò è ovunque io vada. Certo, ormai abito in questo appartamento da sei anni, mi dispiace un po’ lasciarlo, ma traslocheremo in una casa più grande, per la miseria! Cercheremo qui vicino, così non prenderemo il metrò per andare al negozio, e lo coloreremo tale e quale a questo, così non soffriremo di nostalgia. Avrai una camera più grande, magari grande abbastanza per infilarci anche il lettino del piccolo e un armadio più spazioso di questo. E magari con pareti più spesse, così tu non sarai svegliata dai miei rumori e io non sarò svegliata dal pianto del bambino. Kaguretta, direi che non andrà tanto male, no?”

Ma la donna non smetteva di piangere. “Ti sto costringendo a cambiare la tua vita e le tue abitudini per me. Sono solo un peso, un ostacolo alla tua storia con Suikotsu e ai tuoi progetti. Sono così mortificata…

“No, sei così stupida. Kaguretta, se non facessi queste cose volentieri, ti rispedirei al mittente con un bel calcio nelle chiappe. Dai, smettila con questo piagnisteo…

La reazione di Kagura peggiorò. “Sono sicura che sia una femmina” disse, tra un singhiozzo e l’altro, mentre anche Yura, incuriosita e un po’ preoccupata di aver combinato un disastro, faceva capolino dalla porta. “E che avrà una marea di problemi. Sarà sempre in pericolo, io sarò una madre possessiva ed apprensiva e la terrò chiusa in casa, così poi lei si ribellerà, uscirà di notte calandosi dalla finestra e scapperà con il primo ubriacone che incontrerà, che la metterà incinta a sedici anni e l’abbandonerà.” Scoppiò in un pianto disperato. “Così io sarò nonna a quarantasei anni!”

Jakotsu e Yura si scambiarono uno sguardo basito. Entrambi si strinsero le spalle, senza sapere bene cosa fare. “Gli ormoni?” suggerì la ragazza.

“La depressione dovrebbe essere post parto, non pre!” Poi staccò le mani dagli occhi bagnati e rossi della donna. “Calarsi dalla finestra? Ma chi ti ha messo incinta, Indiana Jones?”

 

 

Rieccomi con il mio aggiornamento seriale. A vous madame!  Grazie alle mie ‘solite’ e preziose recensore, non abbandonatemi in mezzo alla tastiera del mio Acer nuovo!

 

Tic tac, momento di stupidità: Sto tentando di introdurre, con scarsi risultati, la mia (dolce?) metà al magico mondo dei manga, ed in particolare di Inuyasha. Quando gli ho raccontato che Inuyasha, in quanto mezzo demone, per una notte al mese si trasforma in umano lui ha constatato che non sarei mai potuto andare d’accordo con uno come lui.

“Perché, scusa?”

“Beh, lui una volta al mese si trasforma in umano. E tu una volta al mese non sei umana.”

Ho impiegato qualche secondo per afferrare il senso reale della frase e il velato riferimento che comportava. Quando l’ho capito ho invocato il Vicodin del Dr House e una Colt.

E che dire quando su Cultoon (canale di Sky)è passata la puntata dove c’era quell’emanazione in costume adamitico di Narakulo senza faccia che andava a rubarla ad altri? (oddio, mi sfugge il nome ora come ora…)Si è messo a cantare la canzone di Elio e le storie Tese “Tutto nudo e senza il cacchio” – anche perché in una scena si vedeva che non era solo la faccia a mancargli.

Eeeehhhh. Mollo tutto e scappo a Parigi anche io.

E.C.

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Capitolo 10
*** Dixieme Chapitre: Croix et Delice. ***


La Complainte de la Butte.

Dixieme Chapitre:

Moonlight, turn your face to the moonlight

Let your memory lead you,

Open up enter in.

If you find there

The meaning of what happiness is

Then a new life

Will begin.

 

Qualche sera prima, annoiata, aveva scovato nell’immensa collezione di DVD del suo coinquilino, la registrazione di CATS. L’aveva infilata nel lettore, curiosa di vedere quel musical di cui aveva tanto sentito parlare, e di cui conosceva solamente Memory, la canzone più famosa.

Ne era rimasta letteralmente ammaliata. Aveva trovato le musiche stupende, le parole sublimi, le coreografia meravigliose. Cosi si era fatta scaricare la colonna sonora e l’aveva inserita, in ripetizione, nella musica di sottofondo che ascoltava in negozio. In poche ore d’ascolto, la sapeva praticamente a memoria, e canticchiava in continuazione, mimando le gesta degli interpreti quando era da sola.

Non sapeva se fosse merito della musica o del bel tempo fuori dalla vetrina del negozio, oppure degli ormoni in circolazione, o tutte quante queste cose messe insieme, ma quel giorno si sentiva davvero in forma. La nausea sembrava averla abbandonata, e l’appetito si era prepotentemente impadronito di lei. La scorta personale di yogurt alla frutta di Jakotsu era stata spazzolata in poche ore. Ma era sicura che il suo amico avrebbe capito, e poi, comunque, glieli avrebbe ricomprati quella sera stessa.  E poi aveva anche venduto un altro dei suoi quadri: La cupola del Sacre Coeur illuminata dal sole del tramonto.

Specchiandosi in una vetrinetta, che stava pulendo dalle ditate di un cliente appena uscito, si trovò davvero bella. La pelle del viso era più luminosa e fresca. Non aveva nemmeno più l’ombra di una singola occhiaia, e anche i capelli erano più brillanti. E poi c’era la pancia, che stava prepotentemente spuntando e che giorno in giorno le regalava la sorpresa di un vestito più stretto. Due giorni prima, per mancanza d’altro, si era dovuta infilare una camicia di Jakotsu. E l’inquilino della panciotta tonda non faceva altro che scalciare e attirare la sua attenzione. “Se sei un maschietto, sarai di sicuro un calciatore. O forse un Rugbista. Cos’era, una spallata quella che mi hai dato prima?”  gli disse. Già un paio di clienti le avevano fatto gli auguri e si erano complimentati per il suo stato interessante.

Se solo Sesshomaru mi vedesse ora… pensò, sospirando. Poi si riscosse: bando alla mestizia! Quel pomeriggio l’esserino nella sua pancia avrebbe avuto finalmente un sesso e, forse, anche un nome.  “Finalmente la smetteremo di fare i misteriosi, eh?” Aggiunse, accarezzandosi il ventre.

Jakotsu entrò baldanzoso dalla porta, squittendo un “Ciao Tesoro!” decisamente allegro. Splendida cosa, e anche abbastanza rara, essere entrambi di buon umore nello stesso momento.

“Ma ciao, cara” rispose Kagura con un sorriso. “Ho una buona e una cattiva notizia per te. La buona è che mi sento davvero in forma strepitosa. La cattiva è che i tuoi preziosi yogurt con lo zero per cento di grassi sono misteriosamente scomparsi”

Il ragazzo spalancò la bocca più che poteva “Tutti?” Si gettò verso il piccolo frigobar nel retrobottega per controllare di persona, emettendo un sibilo scontento. “Ne hai mangiati CINQUE in un colpo solo??”

Lei annuì, colpevole. “una buona cosa che io abbia appetito, no?”

“MA!Il gusto fragola era il mio preferito!”

“Anche quello del bambino! Dovevi sentirlo, si muoveva tutto contento!” Batté una mano sulla spalla dell’amico, che continuava a guardarla contrariato, borbottando qualcosa sulla sua dieta interrotta.

“Jackie, smettila con questo piagnisteo o mi verrà il mal di testa. E sai cosa mi succede quando ho il mal di testa, vero?”

“Sbagli candeggio al bucato e mi rovini la sciarpa di Hermès.”

La donna rise di gusto. “Bravo, vedo che hai imparato la lezione.” Prese la borsetta e si avviò verso l’uscita. “Fai il bravo in mia assenza, mi raccomando.”

“Sicura di non volermi con te, questa volta?” gli domandò, sentendosi in colpa, il ragazzo, mordicchiandosi il labbro inferiore.

Lei scosse la testa, sorridendo dolcemente. “Devi fare un book fotografico molto importante. E non puoi perderlo, calcolando le spese che dovremo affrontare. Non c’è problema per me andare da sola”

“Promettimi che ti farai scrivere il sesso del bambino su un foglietto che apriremo solo quando saremo insieme…

Kagura gli concesse questa libertà. “Farò anche spesa, nel frattempo. Preferenze per la cena? Ci sarà anche Suikotsu?”

Il ragazzo storse la bocca, arrabbiato. “L’uomo dei misteri? Non so proprio dove sia, anzi una mezza idea ce l’ho. Ieri sera mi ha detto che oggi sarebbe andato a fare un servizio fuori città e che sarebbe tornato domani, ma si è rifiutato di dirmi dove andava e per cosa.”

“Strano da parte sua. Di solito ti racconta vita, morte e miracoli dei suoi servizi. Temi che ti abbia rubato della clientela?”

“Assolutamente no. Sono strasicuro che sia andato a Lille da una nostra conoscenza”

La donna se ne stupì, e domandò all’amico se non credesse di essere un po’ paranoico, a volte. Jakotsu, come risposta, scrollò la testa. “Ho naso per certe cose: sono sicuro che oggi avevano i provini per le foto di nozze.”

“E quando sarebbe il matrimonio, scusa?”

“Sabato 3 Luglio. I provini è sempre giusto farli un po’ in anticipo.” Spiegò, sospirando, non riuscendo a nascondere una smorfia sconsolata. “Ho letto che il suo allenatore è molto preoccupato per le gare perché il matrimonio potrebbe togliergli concentrazione dagli allenamenti. Bankotsu punta alla medaglia d’oro, ed è il favorito per le Olimpiadi di Atene. Dal canto mio, spero che si spacchi un piede mentre sale sul tatami al primo incontro.”

“Comprensibile” commentò Kagura, prima di congedarsi e uscire dal negozio.

 

“Ed ora… suspance

Jakotsu sembrava vibrare sulla sedia della cucina, con le mani attorcigliate tra di loro che gli sorreggevano il mento. Non smetteva di fissare la donna che gli sventolava davanti al naso una busta.

“Non sai quanto sono stata tentata di leggere, ma mi sono trattenuta, posso assicurartelo. La dottoressa ha visto che gli esami sono perfetti, il bimbo è sano come un pesce e anche a me va tutto bene. Manca solo questa parte.”

“E’ una cosa sicura?”

“Certamente, al cento per cento. Vuoi aprirla tu?”

“No, no ti prego, dimmi tu! Ma sbrigati, non sto più nella pelle!”

Kagura accondiscese, aprendo la busta lentamente, senza staccare gli occhi dal ragazzo. Sarebbe meglio sapere chi è il padre, e non il sesso. Pensò, cercando di nascondere la sua agitazione. Ad ogni modo, per quanto si sforzasse di essere realistica e di mantenere un certo distacco dalla creatura che stava crescendo dentro di lei, in quei mesi non riusciva a non parlare alla propria pancia e a immaginarsi il bambino. D’altronde, lui o lei non aveva colpa alcuna.

Si schiarì la voce con un colpetto di tosse, spiegando il foglio e cercando la riga esatta tra i risultati degli esami.

Quando lesse la lettera nella casellina, il cuore le mancò di un battito. Le salirono le lacrime agli occhi, e si morse le labbra, passando il foglio di carta a Jakotsu, che la guardava pendendo dalle sue labbra. “Sta per nascere Madamigella Oscar, Jackie”

“Una bambina?”

Lei annuì e il ragazzo, dopo uno strillo acuto ed entusiasta, gli si lanciò al collo, abbracciandola. “E’ una bimba, Kagura! Ci sarà una Kagurettina in giro per casa tra un po’!” Saltellò, tenendole le mani. “Non sei contenta?”

“Anche se so che avrà una vita più dura e più amara di quella di un uomo…” la donna sospirò, non riuscendo a trattenere un sorriso. “…sono contenta di non causare la nascita di un esponente di una razza infame com’è quella maschile.”

Jakotsu incrociò le braccia al petto, offeso. Lei gli tirò un buffetto sulla guancia. “Stavo davvero parlando di maschi veri, Jackie…

Lui le mostrò un palmo di lingua, poi si avventò sul cellulare, per scrivere un messaggio a Suikotsu. “Ora dovremo trovare anche un nome.”

Ah, già, è vero. Il problema nome. Lo sguardo di Kagura cadde su un giornale gettato in un angolo della cucina: “E’ meglio se troviamo prima casa…

 

 

La pancia dell’agente immobiliare era molto più sporgente di quella di Kagura, e il riporto che sfoggiava sembrava essere passato sotto le grinfie di una Yura particolarmente ispirata.

Per questo, durante i tre appartamenti precedentemente visitati, non erano riusciti a concentrarsi sugli immobili, bensì seguitavano a tirarsi gomitatine e occhiatine e a scoppiare a ridere, nascondendosi la faccia con i depliant dell’agenzia.

“Questo appartamento è stato per anni l’atelier di un pittore e di sua moglie stilista…” iniziò a spiegare il venditore, camminando con aria ispirata per il corridoio del palazzo che portava all’appartamento.

Kagura guardò l’amico “Buona credenziale questa, eh?”

“Immagino che il ruolo di moglie stilista tocchi a me, giusto?” risposte l’altro, con un buffo gemito esasperato. “Mi dolgono le ginocchia!”

Quando entrarono nell’appartamento entrambi ne furono favorevolmente impressionati. Era fornito da una soggiorno di comode dimensioni, illuminato da un’ampia porta finestra che dava su un piccolo balconcino.

La cucina era molto piccola, ma le due stanze da letto erano entrambe matrimoniali. Un bagno e un piccolo studio, grande quasi quanto la camera attuale di Kagura, completavano l’appartamento. “Direi che questo non è male, vero?” apprezzò Kagura.

Jakotsu notò che tutte le pareti erano bianche. “Un po’ strano da parte di una coppia di artisti. Per caso il padrone non lascia colorare le pareti?”

L’uomo si tolse gli occhiali tondi. Sembrava sudare imbarazzato, pulendosi le lenti con un panno estratto dal taschino della giacca. “Oh, no, sono state imbiancate dopo che i precedenti inquilini l’hanno lasciato.”

“Come mai se ne sono andati? Avevano un appartamento a MontMartre, così bello, all’ultimo piano, luminoso e con un affitto così accessibile, non vedo motivi  per andarsene…” incalzò il ragazzo, guardandosi attorno.

Il disagio dell’agente immobiliare era quasi imbarazzante. “Beh, ecco… Divergenze inconciliabili. Possiamo riassumerlo così.”

“Oh, hanno divorziato. Mi dispiace!” esclamò la donna, rapita dal balconcino. Già si vedeva, con i suoi attrezzi, a dipingere sul suo piccolo terrazzino fiorito. Per fortuna che la statistica dei divorzi in Francia era così alta!

“A dire la verità non è proprio finita nei migliori dei modi.” Tossicchiò l’agente, infilandosi di nuovo gli occhiali e fissando ostinatamente un punto imprecisato del pavimento. “Per essere sinceri, la stilista ha trovato il marito pittore a letto con una delle sue modelle, ha sparato ad entrambi ed ha utilizzato il loro sangue per decorare l’appartamento. Non è stata una visione fantastica quella che si sono trovati davanti i poliziotti.”

Kagura e Jakotsu si guardarono con occhi sbarrati.  Rimasero immobili per un paio di secondi, poi la donna notava che il balconcino era troppo piccolo per essere comodo come atelier, e Jakotsu trovava un difetto nella vasca da bagno.

“E poi sento qualcosa… come delle vibrazioni negative, non è vero, Kaguretta?”

“Si, esatto. Anche io mi sento con il fiato sul collo.”

 

Kagura sembrava aver gettato la spugna, per quel giorno. “Non troveremo mai l’appartamento perfetto. Non ci sarà nessun altro Chateau Jakò.

“Oh, suvvia, stiamo cercando da un solo giorno. Di appartamenti a MontMartre ce ne sono a bizzeffe, vedrai che ne troveremo uno che non sia stato una scena del crimine.”

“O che non abbia un bagno con la doccia sopra il water”

“E senza finestre ad un metro da quella della vicina sguaiata e cicciona.”

Entrambi sospirarono, all’unisono. “Il cerchio si stringe…” commentò il ragazzo. Si abbandonò sul divano con la posta in mano. Scartò i volantini pubblicitari, storse il naso a vedere una bolletta, constatò con piacere nell’apprendere di un piccolo versamento da parte di un cliente sul suo conto corrente ed infine aprì una busta. “Arriva da Belle-Ile” spiegò. La lesse velocemente, poi roteò gli occhi al cielo ed imprecò.

Kagura gli domandò cosa avesse.

“I miei inquilini del negozio di Belle Ile chiudono l’attività: mi hanno appena mandato la disdetta dell’affitto.” Notando lo sguardo interrogativo della donna, a Jakotsu venne il dubbio di non avergliene mai parlato. “A Souzon, il paese di Belle Ile da dove provengono i miei nonni, ho ancora la loro casa e il negozio sottosante – sai, loro avevano una piccola drogheria.  L’appartamento – anzi, gli appartamenti, ho ereditato anche quello della sorella di mia nonna, quella vecchia vipera che sapeva di marcio quando era ancora in vita – li do in affitto per le vacanze estive, e il negozio con l’attività di droghieri l’avevano in gestione una coppia del posto. Che palle. Soldi in meno. Proprio ora!”

Sentì Kagura sedersi di fianco a lui e cingergli le spalle con un braccio. “Su, piccolo Jackie, troverai un altro affittuario, non disperare.” Gli schioccò un bacio sulla guancia. Lui le rispose con un timido sorriso: “Hai ragione, farò esporre il cartello e vedrai che qualcuno avrà una buona idea per aprire un negozio.” Sfregò la mano sulla pancia della donna, ridendo. “Sono sicuro che la pupattola ci porterà fortuna, non è vero?”

Il cellulare del ragazzo attirò la sua attenzione e lui, squittendo, già dimentico della preoccupazione di pochi istanti prima, l’afferrò al volo, rispondendo alla chiamata di Suikotsu.

Rimasta sola, la donna si interrogò sul proprio futuro, domandandosi per l’ennesima volta se la strada che stava percorrendo fosse quella giusta. Aveva la responsabilità di una bambina sulle spalle, già nell’occhio del ciclone ancor prima di nascere. Se fosse rimasta in Giappone, vivendo sempre con il terrore di essere scoperta? E se la sua denuncia, il suo video, avessero davvero sortito un effetto bomba come aveva sentito Jakotsu alla conferenza? Sesshomaru sarebbe rimasto con lei? Ma a che prezzo? E che peso sarebbero state per lui? Sospirò per l’ennesima volta: Sesshomaru avrebbe accettato una figlia che poteva non essere sua?  Detestava avere la testa affollata di domande a cui non riusciva a trovare risposta. Si accarezzò il ventre “Tu lo sai già chi è il tuo papà?” domandò. Il calcio ben assestato che le inferì la bambina poteva prenderla come una risposta positiva?

 

Buona Pasqua a tutti!!!

Ringrazio, come sempre, Mikamey per la recensione. Sono sempre ben accette, così come le critiche, purchè siano costruttive!

E.C.

 

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Capitolo 11
*** Onzieme Chapitre: Crying At the Discoteque ***


La Complainte de la Butte.

Onzieme Chapitre: Crying at the discoteque.

“Finalmente scopro la tua sorpresa!” Esclamò Jakotsu salendo sulla Citroen C4 di Suikotsu con l’aria di chi sta morendo dalla curiosità: “Sei molto bravo a fare il misterioso sai?” 

Suikotsu alzò solo un sopracciglio, inserendo la marcia. Avevano cenato in un ristorante greco vicino alla Gare de Lyon, e ora stavano  percorrendo Quai de la Rapee, in direzione del centro.

“Almeno dimmi in che quartiere si trova.” Pungolò il ragazzo, trovando il sorrisetto comparso sul volto dell’altro tutt’altro che rassicurante.

Marais. Sarò magnanimo e ti dirò pure la strada: Rue du Bourg-Abbé.” Jakotsu ci pensò un attimo, grattandosi il mento. “Les Bains-Douches!” esclamò, infine.

“Bravo!”

Uau! È da un sacco che non ci vado! Bravo Suiky, hai avuto davvero una bella idea!” scrocchiò le dita, come per prepararsi ad una serata movimentata. “Il massimo sarebbe che ci sia anche un tavolo prenotato per noi…” abbozzò.

L’altro annuì. “Esattamente. Dovremo però dividerlo con dei miei vecchi amici, ti scoccia?”

Jakotsu alzò le spalle “Non mi da affatto fastidio, sono contento che mi porti un locale così trendy!” ridacchiò, voltandosi verso l’altro, mordicchiandosi l’unghia del pollice tra il civettuolo e il giocoso. “E il dopo party a casa tua?”

“Se ne avrai voglia” tagliò corto Suikotsu, cercando di arginare il traffico cittadino.

 

“Per favore, evitiamo i soliti squittii acuti che solo tu sai fare” raccomandò, entrando nel locale. “Sai bene quanto mi infastidiscono in pubblico.” Jakotsu storse le labbra, scontento. “So bene di dovermi comportare in modo ‘civile’”

Aprì la porta dell’ingrasso, gettandosi sorridente in mezzo alla gente già presente nella discoteca. Salutò con un cenno della mano una sua vecchia fiamma, senza soffermarsi in convenevoli inutili, con Suikotsu al suo fianco. L’altro si guardava continuamente intorno, guidandolo verso i tavoli a bordo pista.

Hey, ma guarda chi c’è, Mukotsu!” esclamò, agitando le braccia nel vedere uno dei membri della compagnia che meno si prestavano alla vita notturna.

Dall’espressione ebete con cui rispose l’altro, sembrava sorpreso di vederlo tanto quanto lui. Anzi, sembrava addirittura agghiacciato dal notare che si stavano avvicinando a lui. E a suo fianco, con la stessa identica espressione di stupore e terrore, spiccava l’imponente figura di Ginkotsu, ex giocatore di Rugby ritiratosi prematuramente a causa dei troppi infortuni

“Ragazzi, che facce! Sembra non siate affatto contenti di vedermi!” pigolò, cercando di nascondere un certo nervosismo che la reazione dei suoi amici gli aveva creato. Qualcosa non andava. Di certo Mukotsu era sempre sulle sue, un tipo taciturno e riservato, ma Ginkotsu era uno dei suoi amici “storici” uno dei primi che aveva incontrato a Parigi, e non era mai capitato nulla tra di loro che potesse shockarlo tanto.

“Jackie, cosa diavolo ci fai qui?” domandò l’ex rugbista , stringendo convulsamente il bicchiere di cocktail che aveva in mano.

“Beh, perché? C’è la mia foto fuori dal locale con il divieto d’entrata?” rispose piccato. Mukotsu scosse la testa e si battè la mano sulla fronte. “Se ci fosse sarebbe un’ottima cosa per te.”

Jakotsu sbuffò spazientito, guardandosi attorno alla ricerca del proprio ragazzo, che pareva essersi dileguato.“Ma insomma! Si può sapere che cosa…

Sentì che qualcuno chiamava Suikotsu, urlando il suo nome al di sopra della musica assordante. Jakotsu pensò di aver sentito la voce di Renkotsu, ma doveva essersi sbagliato di certo: non lasciava mai il suo locale, a parte per rarissime e specialissime occasioni.

E poi lo vide.

Arrampicarsi sulle spalle dell’altissimo Kyokotsu, ex cestita del Paris Basket Racing, e alzare le braccia al cielo, ebbro di felicità e di vino, che dondolava la testa a ritmo di musica, mentre qualcuno gli porgeva una bottiglia, che lui si infilava tra le labbra. Lui, il suo tormento. La sua delizia perduta, la croce che non voleva sapere di abbandonarlo nonostante i suoi sforzi: Bankotsu.

Jakotsu si sentì mancare, la bocca che diventava asciutta, l’aria che non entrava nei polmoni. Ginkotsu gli si avvicinò, guardandolo incredulo: “Non dirmi che non lo sapevi… Non posso credere che Suikotsu ti abbia portato qui senza dirtelo.”

Il ragazzo strizzò gli occhi, cercando di darsi disperatamente un contegno e di calmare il battito irregolare e doloroso del suo cuore. “Che stasera ci fosse anche Bankotsu?”

“Beh, si.” Intervenne Mukotsu, guardandolo penosamente. “E’ il suo addio al celibato”

Jakotsu desiderò ardentemente che la terra gli si aprisse sotto i piedi. Si sentì trascinare di lato, e dalla forza ne dedusse che fosse Ginkotsu. Non riuscì comunque a staccare gli occhi da Bankotsu, che nel frattempo aveva visto Suikotsu e si era sporto, rischiando di rovinare a terra per dargli un cinque, mentre Renkotsu in piedi su un tavolo, riprendeva il tutto con una piccola fotocamera digitale.

L’amico cercò di riscuoterlo “Bankotsu ha invitato tutti noi, ma ha evitato di dirti qualcosa per evitare che tu… beh… insomma… sappiamo tutti quanto tu ne abbia sofferto. Non capisco perché Suikotsu ti abbia portato qui”

“Perché è un figlio di puttana della peggior specie” mormorò di risposta il ragazzo, lo sguardo vuoto.

“Sei venuto in auto con lui?” Jakotsu annuì, lanciando un’occhiata al campione di judo ancora inerpicato sulle spalle di Kyukotsu. “Jackie, ti chiamo un taxi?” si offrì Ginkotsu, il cellulare in mano. Il ragazzo scosse la testa. “Faccio io. Dopo aver ridotto quello che posso chiamare ex ragazzo in una larva sanguinante.” Ringhiò, cercando furiosamente Suikotsu con lo sguardo.

E i suoi occhi si incrociarono con quelli neri e profondi, dal disegno allungato e ipnotizzante di Bankotsu. Vide la sua bocca schiudersi dalla sorpresa e bloccarsi, una mano a mezz’aria, come se fosse diventato improvvisamente una statua.

Alzò appena la mano in cenno di saluto, sentendosi la faccia in fiamme, prima di girare le spalle e correre verso il bagno. Quasi sfondò la porta d’ingresso, spintonando un ragazzo che stava uscendo e gettandosi dentro uno dei bagni. Lo chiuse a chiave e si sedette sulla tazza, la testa tra le mani.

Aveva voglia di urlare, di fare una sceneggiata, di prendere a calci Suikotsu per la bella sorpresa, di sfogare la rabbia e l’umiliazione a pugni sulla sua faccia.

Ma poi pensò che non ne valeva la pena, farsi compatire dagli altri con una pagliacciata simile. Sarebbe uscito dal bagno e si sarebbe diretto immediatamente all’uscita, scomparendo con grande dignità. E con Suikotsu ci avrebbe fatto i conti il giorno dopo.

Il flusso dei suoi pensieri vendicativi venne interrotto da un picchiettare alla porta. “E’ occupato!” esclamò, scocciato.

“Sono io, aprimi” gli rispose la voce del suo ragazzo (o come lo definiva pochi minuti prima), attutita dalla porta e dal rumore.

Jakotsu aprì la porta, con lo sforzo immane per rimanere calmo. Prese un bel respiro, appoggiandosi allo stipite con le mani incrociate dietro la schiena, fissandolo: “Devo ringraziarti proprio: è una sorpresa che non mi sarei mai aspettato da te.”

L’altro centilenò il suo cocktail con aria seccata: “Smettila di fare il bambino e vieni fuori.”

“No, pezzo di merda, io VADO fuori. Di qui.” Puntualizzò Jakotsu, dirigendosi verso la porta. Suikotsu lo trattenne. “Sbaglio o eri tu quello a cui piaceva il mio lato stronzo?”

Il ragazzo si voltò verso di lui trapassandolo con uno sguardo carico di rancore: “Un conto è essere stronzi. Un conto è giocare con i sentimenti delle persone” sibilò, scandendo bene le parole per sottolinearne il significato. Tolse la presa sul suo braccio con uno strattone deciso, e fece per dirigersi nuovamente verso la porta, ma l’altro gli si parò davanti. “Mi ci hai portato te a questo. Credi che non lo notassi il tuo continuo pensare a Bankotsu? Sono anni che lo vedo prenderti in giro mentre tu speravi che ricambiasse i tuoi sentimenti. L’hanno notato tutti, tranne te. Dovevi vedere che gongolate faceva Renkotsu, quando Bankotsu entrava nel suo locale con una qualche bella ragazza, e che ti salutava a malapena, mentre tu avresti voluto morire.” Jakotsu deglutì furiosamente. “Quello che io e Bankotsu abbiamo passato insieme tu non lo puoi nemmeno immaginare. Lui è…

“Lo vedi! Lo giustifichi ancora! Nonostante tutto, ti schieri dalla sua parte. E’ ridicolo! Io sto solo cercando di farti aprire gli occhi sulla persona che ti ha rovinato la vita per quattro anni.”

Il groppo che il ragazzo aveva in gola non voleva saperne di sciogliersi. Deglutì nuovamente, sentendosi gli occhi pizzicare. “Non è umiliandomi davanti a tutti i miei amici che mi aiuti.” Mormorò infine, riuscendo a infilarsi tra l’altro e lo stipite della porta, guadagnando la libertà. Decise di dirigersi verso l’uscita, ma lo sguardo gli cadde nuovamente sul tavolo della festa, tra le persone che ballavano e si divertivano, scattando foto ricordo e alzando i cocktail per brindare. Bankotsu, in piedi sul tavolo, autografava tra gli applausi generali il decolleté ben fornito di una disinibita ragazza dai neri capelli a caschetto, che lui riconobbe senza esitare come Yura. Sospirò ancora, premendosi le dita sugli occhi e cercando di calmarsi.

“Credi davvero che gli importi qualcosa di te?” Suikotsu l’aveva raggiunto, e lo tormentava nuovamente.

Forse aveva ragione, ma non gli diede la soddisfazione di essere d’accordo con lui. Gli sibilò di andare a farsi fottere, prima di dirigersi verso il bancone del bar. Non avrebbe fatto a vedere a nessuno quello che stava provando in quel momento. Non avrebbe permesso a nessuno di prenderlo in giro, di deriderlo, di ferirlo nuovamente, né avrebbe dato la soddisfazione a Bankotsu di vederlo fuggire con la coda tra le gambe. Contro delle persone come lui, che si credevano gli dei del mondo e di poter giocare con le persone come se fossero soldatini di plastica, l’indifferenza era la migliore arma.

Appoggiò i gomiti sulla superficie lignea del bancone, sorridendo al barista. “Mi prepari un mojito ben carico, mon amì?”

 

Kagura aveva sonno. Sbadigliò nuovamente stiracchiandosi e gettando un’occhiata all’orologio. Le undici passate. Era davvero ora di andare a dormire, altrimenti il giorno dopo non sarebbe riuscita a svegliarsi presto, come era nei suoi propositi. Si alzò dal divano, scrollandosi di dosso la marea di cuscini, con un po’ di difficoltà: quel pancione cominciava davvero a pesare e la schiena ne risentiva. Chiuse la finestra dell’angolo cottura, controllò quella che dava sul salottino e notò che il computer portatile di Jakotsu era ancora acceso e connesso ad internet. Quel ragazzo avrebbe perso la testa, se non ce l’avesse avuta attaccata al collo. Scrollò il mouse per togliere lo screen saver e spegnerlo, ma si fermò un attimo, pensando di poter approfittare per dare un’occhiata qua e là a quello che succedeva nel mondo.

Anzi. Nel proprio paese d’origine.

In cinque mesi che si trovava a Parigi, Kagura aveva vinto tutte le tentazioni possibili di ricercare, sui quotidiani Online giapponesi, notizie riguardo alla “vicenda” di cui era, se così si poteva dire, passiva protagonista.

Cercò di trattenersi, scrocchiandosi le dita indecisa, ma poi pensò che ormai era trascorso troppo tempo, e che sicuramente i giornali nipponici avevano altre notizie sensazionali da sbattere in prima pagina. Si convinse che non le avrebbe dato fastidio, spiluccare notizie qua e la. D’altronde, era sempre buona cosa essere informati di tutti i fatti nel mondo, no?

Con questa decisione, si collegò al sito dell’Asahi Shinbun. In prima pagina, una notizia riguardo all’ennesimo caso suicidio di gruppo tra adolescenti. Sospirò sollevata: la vita in Giappone aveva ripreso il suo scorrere normale, senza eclatanti stravolgimenti. Oh, una nuova idol, che carina!

Scorse tutta la pagina, senza trovar traccia di nessuna notizia recente sul Gruppo Ragno o su Naraku Onigumo. Una punta di delusione si mischiò al sollievo: quindi tutto il suo penare, i suoi sforzi, i suoi rischi, erano stati la notizia della settimana, per poi cadere nell’oblio?

Beh, pazienza. Sperava soltanto che Naraku avesse avuto quello che si meritava. Almeno in piccola parte. Continuò a navigare sul sito, apprendendo di vari fatti di cronaca, inaugurazioni, show televisivi di successo, affari interni.

Uno spot pubblicitario prometteva tariffe bassissime per viaggi da Tokyo, Osaka e Kyoto verso destinazioni europee. Quasi senza rendersene conto, curiosò sulla tratta Tokyo – Parigi, scoprendo che aveva fatto pagare all’ignaro fratello di Sesshomaru, Inuyasha, qualcosa in più rispetto alle offerte. “Lo svantaggio delle partenze precipitose” sentenziò tra sé e sé. Cliccò vari link, sempre giapponesi, su vari argomenti, sino a che non si trovò su un forum femminile.

Navigò tra i vari post insulsi su cellulite e colore di capelli, sino ad arrivare alla sezione dedicata alla maternità. Scopri con piacere altre donne che si consigliavano a vicenda e si sostenevano moralmente durante la gravidanza. Fu sollevata dal notare molte madri single, che avevano fatto anche formato un nutrito gruppo. Lesse le loro vicende, trovandosi sorprendentemente rasserenata dal non essere sola in una condizione particolarmente dura. Certo, nessuna di loro aveva la fortuna di trovarsi a Parigi e di dividere la casa con un pazzo ragazzo d’oro.

Una sezione del forum era completamente dedicata ai fatti di cronaca che più avevano colpito le utenti. Vi entrò così, per curiosità.

Quasi cadde dalla sedia, vedendo il primo post, il più visitato e il più scritto, dedicato completamente a sé: Kagura Onigumo. La ragazza che aveva aperto il thread sosteneva di averla conosciuta, in quanto era una delle segretarie della Feder Inc, e sosteneva che era una persona taciturna e riservata,  perennemente scortata da suo fratello o da uno dei suoi uomini, e he le aveva sempre dato l’idea di essere molto sola. Oltre che a mostrare più anni di quanti ne avesse in realtà (e questo la rese meno simpatica agli occhi di Kagura). Ma mai avrebbe immaginato quello che si nascondeva sotto.

Un’altra aggiungeva rammarico per una vicenda che si era conclusa così drammaticamente, e sperava che “No Taisho faccia davvero sbattere quel bastardo in galera a vita”

Tanti altri thread parlavano della sua storia, le dedicavano pensieri e immagini. Si sentì quasi commossa. C’era chi si scambiava notizie riguardo alla sua relazione con Sesshomaru no Taisho.

“Lui non ha rilasciato dichiarazioni” commentava una. “Ma ieri sera su uno giornale di gossip ho letto che stavano per celebrare le loro nozze in segreto.”

Kagura scoppiò a ridere. Questa era davvero buona! Fece per risponderle, ma si trattenne. Continuò a scorrere i vari post, sorridendo mestamente. Una utente puntualizzava che, dopo lo scandalo Onigumo, la percentuale di donne che denunciavano episodi di violenza si era duplicata. Questa notizia, seppur infondata, rese orgogliosa la donna. La sua vicenda aveva lasciato un’impronta decisiva ed importante.

 

La testa di Jakotsu dondolava sul bicchiere ormai vuoto di Cosmopolitan. Si sentiva uno straccio, ma aveva ancora la forza necessaria per tenersi in piedi e per non voltarsi verso la pista. Più di una volta Ginkotsu e Kyukotsu erano venuti a tentare di trascinarlo nella mischia, o quantomeno di farlo smettere di bere in un angolo da solo, ma lui li aveva scacciati in malo modo.

Suikotsu aveva tentato di avvicinarsi, ma come se avesse percepito che avrebbe solo peggiorato le cose, era tornato al tavolo. O in pista, chissà.

Ordinò ancora un altro cocktail, un Long Island, che praticamente trangugiò. Il barista, Jerome, gli fece notare che era il decimo che si scolava. Lui gli rispose che era già tanto se non si gettava in gola una bottiglia di vodka intera, per poi darle fuoco.

“Guarda che se sei troppo ubriaco la security ti lancia fuori senza pietà” l’avvisò l’altro, riprendendo il bicchiere vuoto. “Ormai sei sull’orlo del coma etilico…

Jakotsu fece spallucce. Poi guardò l’orologio, mettendoci un intero minuto per focalizzare bene l’ora. Le tre passate. Era stato quattro ore fermo allo stesso bancone a bere e a rimuginare sulle sue disastrose relazioni interpersonali.

A quell’ora Kagura stava sicuramente dormendo, con il suo pancione scalciante. Sorrise al pensiero, e decise che era decisamente tempo di levare l’ancora. Mosse un passo e per poco non rovinò a terra. Dannazione come girava la testa. Cercò di riprendersi, scuotendosi, ma non fece che peggiorare la situazione. Camminò lentamente, con una mano appoggiata sul bancone, e barcollò sino all’uscita. Le scale furono disastrosamente difficili da percorrere.

Varcata la porta, l’aria gelida lo colpì in pieno, e con quella anche la consapevolezza di essere appiedato. Frugò in tasca alla ricerca del cellulare. Trovò invece il pacchetto di sigarette, e se ne infilò una tra le labbra. L’accese dopo vari e ilari tentativi, e poi proseguì con la ricerca del telefonino.

Se la memoria non lo tradiva, aveva memorizzato il numero di telefono del servizio taxi.

“Ah, eccolo!” esultò, rischiando di far cadere la sigaretta. Farfugliò qualcosa alla voce meccanica e nell’interrompere la conversazione, chiudendo il telefono, si ustionò il palmo della mano con la sigaretta. Strillò, lasciando cadere tutto quello che aveva in mano, strizzando gli occhi sulla vescichetta che si era già formata. Sbuffò, sentendosi incredibilmente depresso e mediocre, mentre scivolava a terra cercando il cellulare. Ovviamente la batteria e il relativo sportellino si erano staccati. Dannazione. Li raccolse, faticando per stare in equilibrio, e cercò di rimetterli a posto, senza successo.

Sentì gli occhi pizzicare. Ma in che cavolo di stato si era ridotto? “Sono una merda” singhiozzò.

Qualcosa di caldo gli scivolò sulle spalle, mentre una voce profonda lo rassicurava. “Non sei una merda, sei solo molto ubriaco.”

Il qualcosa di caldo era una giacca di pelle. E il suo profumo l’avrebbe riconosciuto tra mille, così come la voce che l’aveva rincuorato. Non osava alzare la testa per paura che non fosse vero. Un paio di mani gli sfilarono gentilmente il cellulare smontato tra le dita, e lo rimisero a posto in un attimo. Poi gli circondarono le spalle e lo alzarono.

Jackie… sei davvero un guaio” gli sussurrò, con una nota tristemente divertita nella voce.

Il ragazzo si voltò, desiderando avere solamente la conferma che fosse davvero lui. Se lo ritrovò davanti, i capelli ancora legati nella solita treccia corvina, qualche ciocca che scappava via dopo la serata frenetica. Un piccolo sorriso gli stendeva le labbra, e gli occhi neri sembravano volerlo inghiottire. “Bankotsu...” sussurrò.

“Mi dispiace che sia andata a finire così. Davvero. Non sapevo nemmeno che tu e Suikotsu stavate insieme, non me l’ha detto. Non so cosa gli sia passato per la testa…

Jakotsu distolse lo sguardo da lui, strizzando gli occhi per non far notare le lacrime che cercavano di uscire prepotentemente. “Non importa, davvero.” Minimizzò, cercando di sorridere. “Sono rimasto sorpreso, tutto qua.”

Un taxi si fermò proprio davanti al locale. Jakotsu lo indicò come il proprio. Provò a muovere un altro passo, ma rovinò a terra. Prontamente, l’altro lo rialzò. “Tu non vai da nessuna parte da solo in queste condizioni!” esclamò preoccupato. Si guardò intorno, forse alla ricerca di qualcuno di conosciuto, o forse per accertarsi che non ci fossero paparazzi o chissà che altro di compromettente. “Ti accompagno io” sentenziò alla fine. Jakotsu sentì la felicità balzare nel suo petto. E anche dell’altro. Fu solo grazie ai propri riflessi pronti che Bankotsu evitò il conato di vomito del ragazzo.

 

Kagura fu svegliata dal rumore di chiavi nella toppa della porta. Si era addormentata sul divano, tra i cuscini, il pc portatile ancora acceso e connesso ad internet, aperto sulla pagina del forum giapponese a cui si era appassionata. Guardò l’orario, erano quasi le quattro. Ne dedusse che la serata doveva aver preso una piega alquanto strana, se Jakotsu non l’aveva passata interamente a casa del suo ragazzo. Chiuse velocemente la pagina di Explorer e si alzò faticosamente, dirigendosi verso il corridoio. Cosa strana, le sembrava di sentire bisbigliare una voce sconosciuta, insieme ad alcuni monosillabi farfugliati che dovevano provenire da Jakotsu. La porta si aprì piano e con somma sorpresa Kagura si trovò davanti ad una scena davvero pietosa. Accese la luce per vederci meglio.

Jakotsu, semisventuto era letteralmente sulle spalle di un bel ragazzo che Kagura non riconobbe immediatamente. Il ragazzo trasalì a vederla, rischiando di far ribaltare l’amico. La donna gli fece segno di entrare e chiuse la porta.

“Che diavolo è successo?” domandò, mentre il ragazzo adagiava l’altro a terra, contro il muro. Poi lo guardò meglio. L’aveva già visto da qualche parte, ma non ricordava dove. Non era tra gli amici di Jakotsu… Oh! Era…

Bankotsu?”

Kagura, immagino.” Rispose lui. “Suikotsu mi aveva parlato di te e Jackie…E anche lui, prima di addormentarsi sul taxi. Ma non pensavo che tu fossi ancora in piedi a quest’ora…” Lo sguardo del ragazzo cadde sulla pancia, e lo distolse subito, arrossendo.

La donna rimase a bocca aperta. “ma cosa diavolo è successo?” domandò nuovamente, con più veemenza. “Doveva uscire insieme a Suikotsu e…

“Beh, l’ha portato alla mia festa di addio al celibato, senza dirglielo.” Spiegò brevemente. “E come puoi vedere, lui non l’ha presa benissimo.”

Jakotsu si lasciò cadere di lato, russando. Bankotsu lo riprese sulle spalle, dirigendosi verso la camera da letto, borbottandogli che a peso morto pesava un quintale.

Kagura li seguì shockata: mai si sarebbe aspettata un tiro mancino simile da Suikotsu, non le sembrava il tipo. Evidentemente Bankotsu si era sbagliato, non poteva essere.

Adagiando il ragazzo sul letto l’atleta le spiegò come si era svolta la serata, con lui preso dai suoi amici, osannato e tirato a destra e a manca e Jakotsu al bancone che beveva tutto quello che poteva capitargli a tiro. Da solo. E incazzato come un drago. “Fortunatamente sono riuscito ad uscire con una scusa e l’ho preso in tempo per evitare che vagabondasse da solo per Parigi. In queste condizioni.” Kagura lo svesti parzialmente, scuotendo la testa. “Povero Jackie.” Mormorò, coprendolo con il lenzuolo e schioccandogli un bacio sulla fronte imperlata di sudore. L’odore di alcool la nauseò.

Uscirono dalla camera senza chiudere la porta. Bankotsu lo guardò un’ultima volta, preoccupato. “Suikotsu lo ammazzo domani.” Promise.

La donna piegò la testa di lato. Forse Bankotsu non aveva di certo il coraggio di vivere alla luce del sole il suo rapporto con Jakotsu, ma chi poteva giurare che non provasse qualcosa di profondo per lui?

“Vuoi dormire qui?” gli domandò, quasi senza rendersene conto. Nemmeno lui sembrava molto in forma, e non sembrava aver molta voglia di tornare a gozzovigliare. Lui la guardò sorpreso. “Grazie, ma non preoccuparti. Troverò un hotel qui vicino. Sai, avevo programmato di far baldoria tutta notte e prendere il treno delle Sei per Lille. Abbiamo appuntamento con il Wedding Planner a pranzo, e Abi, la mia ragazza, mi ucciderà se non sarò presente.”

“Oh. Senza dormire?”

Lui scrollò le spalle. “non dormo molto. Al contrario di Jakotsu.”

Tornò a fissarlo sorridendo a sentirlo russare.

“Dai, davvero. Un paio d’ore sul divano. E’ il minimo che posso darti come ringraziamento per avermi riportato a casa il mio capo sano e salvo.” Scherzò lei, insistendo.

Lui annuì, piano. “Ma mi sveglierò prestissimo, probabilmente non ci saluteremo neanche. Ti prego, se Jackie non si ricorda nulla, non raccontarglielo. Finirebbe per illudersi, lo conosco.”

Kagura annuì, in effetti le sembrava la soluzione migliore. Notò le occhiate di sottecchi che Bankotsu lanciava alla sua pancia e le scappò da ridere: “Non preoccuparti, non è di Jakotsu.”

Lui arrossì nuovamente. “Non avevo molti dubbi a riguardo.” Rise. “E’ maschio o femmina?”

“Una bambina. Puoi toccare la pancia, se vuoi. Jackie sostiene che porti fortuna.”

Il ragazzo le restituì un sorriso triste, mentre appoggiava il palmo sul ventre e lo accarezzava piano. “Me ne serve molta. E se lo dice Jackie, allora non può che essere vero.”

 

Eccomi!!

Les Bains Douches esiste davvero, nella via indicata.

Crying at the discoteque è una canzone degli Alcazar degli anni 90

Non preoccupatevi, aggiornerò al più presto anche l’altra Fic.

Buon Weekend!

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 12
*** Douzieme Chapitre: Mon Grand Péché Radieux ***


La Complainte de la Butte.

Douzieme Chapitre: Mon Grand péché radieux

Jakotsu si svegliò semplicemente perché aveva troppo mal di testa per stare a letto. E per andare in bagno. La luce che filtrava dalla finestra ferì i suoi occhi, acuendo il suo malessere. Sembrava che la testa gli stesse per scoppiare, mentre lo stomaco gli bruciava terribilmente. La gola riarsa sembrava punta da mille spilli. La sera prima aveva decisamente esagerato, anche se al momento i suoi ricordi sembravano vaghi e confusi. Si ricordava, certo, che Suikotsu l’aveva portato, a sua insaputa, alla festa di addio al celibato di Bankotsu. Ma non di più. Forse avevano litigato? Chi l’aveva portato a casa? Frugò nella sua memoria, ma al momento il sogno e i ricordi si accavallavano l’uno con l’altro, formando una massa di immagini incomprensibile.

Si alzò ciondolando dal letto, scoprendo di essersi attorcigliato il lenzuolo addosso. Si districò con non poca fatica, cercando di tenere gli occhi il più possibile chiusi, per non permettere alla luce di dargli ulteriore fastidio.

Poi, scivolando e inciampando in ogni cosa, riuscì ad andare in bagno.

Il suo secondo bisogno impellente era quello di un’aspirina e di un bicchiere d’acqua fresca. Si era sciacquato un po’ la faccia, e, trovando il proprio alito assolutamente rivoltante, era addirittura riuscito a lavarsi i denti.

Ma ora era proprio il momento di una bella aspirina. Il suo corpo non chiedeva altro. Sempre a tentoni raggiunse la cucina nella penombra delle tende tirate. Frugò furiosamente nella dispensa dove teneva i medicinali d’emergenza, scoprendo una barretta di cioccolato al latte, probabilmente la riserva calorica di Kagura, e l’ultima aspirina effervescente. Riempì il bicchiere sino all’orlo, e si abbandonò sulla sedia, aspettando che la compressa finisse di sciogliersi.

“Qua ci vuole della morfina.” Gemette, sconsolato.

“Sono contenta di vederti di nuovo nel mondo dei vivi!” esclamò una voce, all’entrata della stanza. Kagura, due vistose occhiaie scure attorno gli occhi rubini, aveva fatto il suo ingresso, nel suo misero pigiama a fiori, che non riusciva a coprire la pancia. “Un’altra scena pietosa del genere e ti faccio fare una brutta fine.”

Jakotsu rispose con un singhiozzo, prima di tracannare il contenuto del bicchiere in un sol botto. “Avevo le mie ragioni, e tu non immagini quanto siano valide.”

Lei rispose con un sopracciglio alzato, prima di dirigersi verso il frigorifero, dove ne estrasse la bottiglia di latte, meravigliandosi che non fosse ancora scaduto.

Il ragazzo poggiò i gomiti sulla tavola e vi sostenne il volto. Cercò di concentrarsi sul termine della serata precedente.

“Sino a cosa ricordi?” gli domandò Kagura, aprendo le tende, mentre l’altro singhiozzava e gemeva alla vista della luce, come nemmeno il Conte Dracula sarebbe stato in grado di fare.

“Dunque: ero al bancone. Bevevo come una spugna: e fin qui ci siamo. Poi…” si grattò la testa, pensieroso. “non mi ricordo più quanto, sono uscito. Era fresco. E poi… è arrivato il taxi.”

“E sei arrivato a casa!” concluse la donna. Ma lui, improvvisamente, aveva assunto un’aria tutt’altro che sollevava. Si sorreggeva la fronte con una mano, al massimo della concentrazione, le labbra increspate. “Non ero da solo sul taxi.”

“Ah no?”

Lui scosse la testa. Poi saltò sulla sedia, come se il ricordo l’avesse punto dal vivo. “Bankotsu!” strillò. “mi ha accompagnato a casa lui! Oh mio dio! Ora ricordo… ero seduto sul marciapiede… il cellulare si era smontato… mi ha accompagnato qui!” Si alzò in piedi, in preda ad un’agitazione irrefrenabile, torcendosi le mani, passandosele fra i capelli.

“Si, ti ha accompagnato lui. Ti ha portato sino a letto.”

“Nel senso che…

“Nel senso che eri praticamente svenuto, puzzavi d’alcol da far schifo e lui ti ha portato sulle spalle sulle scale e poi ti ha adagiato sul materasso. E io ti ho spogliato.” Spiegò sbrigativamente. “Era molto preoccupato, e anche io lo ero. Sembravi sull’orlo del coma etilico.”

Ma Jakotsu sembrava non starla più ad ascoltare. Era incredulo, a metà tra l’euforico e il disperato. Si accasciò ancora sulla sedia, in completo subbuglio. “E dopo se ne è andato?”

La donna si mordicchiò il labbro inferiore, indecisa se raccontargli o meno la verità. Decise che una notizia in più non avrebbe peggiorato poi di tanto le cose. “Gli ho offerto il divano per dormire, e lui, dopo qualche tentennamento, ha accettato.”

“Vuoi dire che ha dormito qui?” squittì il ragazzo, guardando il divano, straripante di cuscini ammonticchiati, come se fosse la reliquia di un qualche santo miracoloso.

“Un paio d’ore. Aveva il treno alle 6.00 per Lille.”

Lui… lui mi ha portato a casa… ha lasciato la sua festa… per ME! Ed è rimasto a dormire QUI, sul mio DIVANO!” strillò nuovamente.

E poi la montagna di cuscini sul divano esplose.

Kagura e Jakotsu strillarono, abbracciandosi spaventati, mentre tra i colorati guanciali compariva niente di meno che la figura di Bankotsu, ancora vestito, dall’aria completamente spaesata e sorpresa.

I tre si guardarono per un lungo istante, senza capire, poi l’atleta scese dal divano con un salto. “Che ore sono?” domandò freneticamente, cercando le scarpe sotto al mobilio.

Jakotsu stava nuovamente collassando, completamente in balia delle sue palpitazioni in eccesso, e fu Kagura, dopo lo sbalordimento iniziare, ad indicare l’orologio a muro dell’angolo cottura. “Le 9 in punto.”

Bankotsu si prese la faccia tra le mani, gemendo. “Sono morto…  Corse verso il divano e iniziò a frugare furiosamente tra i cuscini, sino a trovare il proprio cellulare. Cercò frettolosamente un numero e lo chiamò. “Mi uccide, questa volta mi uccide davvero.”  Kagura lo fermò, impedendogli la conversazione togliendogli il cellulare di mano. “C’è un TGV ad ogni ora, in un’ora sarai a Lille. A che ora hai l’appuntamento con il Wedding Planner?”

Che…? Il Wedding Planner?” gemette Jakotsu. Bankotsu gli rivolse uno sguardo colpevole. “Per i preparativi della cerimonia. Avevamo un appuntamento a mezzogiorno per alcuni dettagli e…

Il ragazzo annuì, sperando di trovarsi dentro ad un incubo.

Kagura guardò i due. Poi ordinò a Bankotsu di prendere il portatile del suo coinquilino e di controllare gli orari, mentre lei faceva una capatina ad ‘incipriarsi il naso’. Jakotsu diede il suo consenso, annuendo lievemente, mentre la donna spariva nel corridoio.

“Stai meglio?” domandò l’atleta, mentre attendeva che il computer si accendesse. L’altro fece un segno approssimativo con la mano, deglutendo faticosamente. Aveva bisogno di altra acqua. O forse di un calmante, a giudicare dalla reazione cardiaca che stava avendo. “Ti…de-devo rin-ringraziare.” Balbettò, fuori controllo.

Lo schermo del computer domandò la password d’accesso, e il ragazzo fu costretto ad avvicinarsi all’altro, che si era chinato leggermente per fargli spazio, per digitare la parola d’accesso. Si sfiorarono appena, e i loro occhi si incontrarono per un solo istante. Bankotsu si voltò immediatamente verso lo schermo. “Avrei dovuto lasciarti per strada? Non fare mai più una cosa del genere, Jackie. E’ una cosa stupida.”

“Avrei dovuto allora partecipare alla tua festa?” rispose piccato l’altro.

“Assolutamente. Forse avresti dovuto andartene. “

“Si, in effetti ho notato che la mia presenza ti ha infastidito.” Sbottò ironico, ricordandosi dell’audace autografo fatto a Yura. Sembrava aver ripreso il controllo di sé, o quantomeno, di buona parte delle sue facoltà mentali.

Bankotsu scosse la testa corvina. “Non volevo assolutamente dire che mi hai dato fastidio. E’ piuttosto il contrario. Non avrei voluto che tu vedessi.” Gli sfiorò la mano. “Che diavolo è preso a quell’idiota a cui ti sei messo insieme…

“Stai parlando del mio nuovo EX.” Jakotsu si afflosciò a terra, al suo fianco, sedendosi con le gambe incrociate. “Me lo merito. Suikotsu si stava comportando in una maniera egregia con me. Era dolce, era premuroso, cercava sempre di accontentarmi: un ragazzo d’oro. Ma l’ho spinto io a fare questo. Mi facevo sempre vedere da lui annoiato, apatico, insofferente. Tutti i suoi sforzi non erano sufficienti a farmi dimenticare di te.” Bankotsu sembrò sorpreso dalla confessione. “Sei la mia stupida ossessione, Bank. E ci vorrà ancora del tempo prima che riesca a liberarmene. Credimi, ci ho provato. Con altri, con Suikotsu, soprattutto. Ci stavo lavorando. E forse mi mancava poco per riuscirci. Ma poi quel cretino ha fatto questa enorme cazzata, e io ora temo di essere d’accapo.”

Incredibilmente, Bankotsu aveva allungato una mano verso la guancia del ragazzo seduto di fianco a sé, sfiorandola delicatamente. “Jackie…” mormorò. Ma Jakotsu voltò la faccia di scatto, dall’altra parte. “Guarda quei maledetti orari del treno, e poi vai via, per favore.”

Kagura, vestitasi, rientrò nella stanza, gettando un’occhiata all’amico per domandargli se andasse tutto bene, ricevendo in risposta un lieve sorriso.

“Avevi ragione, Kagura. C’è un treno ad ogni ora. Prenderò quello delle dieci e mezza.” Concluse il ragazzo, alzandosi.

“Posso usare il bagno?”

La donna annuì, recuperando la propria borsetta e la giacca dall’appendipanni. “Inizialmente oggi avevo intenzione di lavoricchiare un po’ all’aperto, ma ormai si è fatto tardi. Credo che mi farò una bella passeggiata salutare al cimitero. Porto i tuoi saluti a Alphonsine Duplessis e Dalida?

“E soprattutto a La Goulue, se non ti spiace. Se aspetti un attimo ti accompagno.”

Lei lo fissò un attimo, studiandolo. “Forse è meglio che dormi ancora un po’. Non è tanto lontano, posso farcela tranquillamente da sola.” Guardò il corridoio, per assicurarsi che non stesse arrivando nessuno. “Se vi lascio un po’ da soli, mi prometti che non farai stupidaggini?”

“Dubito fortemente che il nostro ospite vorrebbe.”

Gli diede un buffetto sulla guancia, e un bacio sulla fronte. “Quando se ne è andato,invece di andare a dormire, mandami un messaggio, ci incontriamo e facciamo insieme un giro in centro, che ne dici? Andiamo a vederci qualche studente in libera uscita al Quartier Latin?”

Il ragazzo annuì divertito. “Sei un tesoro, lo sai?” Squittì, schioccandole un gran bacio sulla guancia. In quel momento Bankotsu uscì dal bagno, e Kagura ne approfittò per salutarlo, augurandogli in bocca al lupo, per poi uscire.

 

Quandò Jakotsu chiuse la porta, si sentì incredibilmente a disagio a stare da solo con Bankotsu. Si grattò la testa nervoso, domandandogli se desiderasse qualcosa. L’altro scosse la testa. “Vado subito. Devo raggiungere la Gare du nord, ci metterò una mezz’ora buona e non mi conviene perdere anche questo treno, ne va della mia salute.”

Il ragazzo annuì vigorosamente, lo sguardo piantato a terra. Bankotsu raccolse la sua giacca da terra, si allacciò le scarpe e si diresse verso la porta. Jakotsu lo accompagnò. L’atleta varcò la porta senza dire nulla, poi si voltò di scatto, la bocca semiaperta come per aver bisogno di dire qualcosa. Sembrava aver perso le parole. “mi dispiace.” Sussurrò alla fine.

Jakotsu non poté fare a meno di sorridere tristemente. “Non preoccuparti. Ormai ci sono praticamente abituato.”

“Mi dispiace di tutto Jackie. Di averti illuso, anche se non era una mia intenzione. Di averti fatto soffrire. Io avrei dovuto starti lontano.”

“L’hai già detto.” Mormorò l’altro, ripensando alla loro ultima, penosa conversazione la notte in cui l’aveva lasciato.

“Sei una persona speciale. Meriteresti qualcuno che ti ami davvero e che faccia di tutto per te, non uno stronzo confuso e indeciso.”

Il ragazzo lo fissò sorpreso. Mai gli aveva fatto un discorso del genere. Forse non era lui che stava peggio. Forse fingere di essere qualcosa che non era, nascondere la propria natura e i propri sentimenti, era ancora peggio che essere lasciati. “Se sei confuso ed indeciso, perché allora ti sposi?” la domanda gli uscì spontanea, prima che lui riuscisse a fare alcunché per fermarla. Si ne pentì subito, tuffando nuovamente lo sguardo a terra.

Ma Bankotsu sospirò solamente. “Lei è una brava persona. Carina, in gamba. Gli uomini fanno la fila per lei. Ti piacerebbe, ne sono sicuro. Se non fosse la mia futura moglie, è ovvio.”

“Un piccolo particolare, non trovi?” Sbuffò. “E io? Cosa sono?”

“Tu sei il mio grande peccato radioso.”

Jakotsu scoppiò a ridere. “Verlaine? Da quando in qua citi Verlaine?”

“Da quando abbiamo guardato Eclisse Totale, ricordi? Uno dei pochi film che abbiamo visto insieme.”

“Già, soprattutto uno dei pochi che abbiamo visto sino alla fine. La storia mi aveva preso molto.”

Anche Bankotsu scoppiò a ridere. “A chi la vuoi raccontare? L’hai voluto vedere solo per Leonardo DiCaprio.”

Jakotsu ammise che un pochino era vero, appoggiandosi allo stipite della porta. Entrambi tornarono seri. “Quindi ora devi andare?”

Bankotsu annuì, chiudendo gli occhi.

“In bocca al lupo, allora.” Sospirò il ragazzo, facendo per chiudere la porta lentamente. Ma l’altro lo fermò. Lo fissò un attimo, prima di avvicinarsi e di premere le proprie labbra alle sue. Jakotsu sentì le ginocchia farsi molli a quel contatto, mentre le mani di Bankotsu scivolavano sulle guance, trattenendolo delicatamente a sé.

Si staccarono un istante, che sembrò togliere il respiro ad entrambi. “Devo andare…” bisbigliò Bankotsu, senza però muoversi di un passo.

Jakotsu scosse la testa. “C’è un TGV ad ogni ora…”, lo supplicò con lo sguardo. Aveva bisogno di lui, anche se sapeva che era sbagliato, che avrebbe riaperto una ferita che aveva appena smesso di sanguinare.

“Devo andare Jackie.” Ripeté, più a sé stesso che al ragazzo che aveva davanti.

Bank, ti prego. Anche solo per un’ora, per dieci minuti. Anche solo per parlare, o per fissare fuori dalla finestra, o i quadri di Kagura. Ma resta qui con me. Non te l’ho mai chiesto, non ti ho mai pregato di farlo, prima d’ora.”

Bankotsu si avvicinò di nuovo, facendolo arretrare all’interno dell’appartamento. “Ci pentiremo entrambi di questo” sospirò, prima di chiudere la porta alle sue spalle e baciarlo nuovamente.

 

Il sole splendeva alto nel cielo, e l’aria calda di inizio giugno iniziava a farsi sentire. Kagura si sventolò con un pezzo di carta, guardandosi attorno seduta sulla panchina all’entrata del metrò. Jakotsu, la sorprese alle spalle, facendola trasalire, mentre lui la derideva, meritandosi un colpo sul braccio e sulla spalla. Entrarono nella galleria della metropolitana, prendendo per un soffio il treno per il centro città. Nonostante la penombra, il ragazzo non si tolse gli occhiali da sole.

Kagura trovò un posto per sedersi, e lui si posizionò a suo fianco. “Allora?” domandò la donna.

“Allora cosa?” Lei lo guardò con un sopracciglio alzato, e lui alzò le spalle. “E’ partito. Tutto qui.”

“Come ti senti?”

“Beh, un po’ a pezzi ma… è anche colpa dell’alcol di ieri sera.” Si sforzò di sorridere.

Rimasero in silenzio sino alla fermata Cluny – La Sorbonne, dopo aver cambiato linea. Si diressero, parlando del più e del mondo, verso Rue Mazarin, piena di gente, turisti e studenti. Kagura ne indicò un paio all’amico, con un cenno del capo, e uno di loro sorrise pure di rimando al ragazzo, mentre lui sembrava su un altro pianeta.

Hei, ma dico, hai visto cosa ti sei lasciato scappare?” domandò Kagura tirandolo per una manica. Poi alzò gli occhi al cielo. “Ho fatto male a lasciarvi da soli, vero? Cosa ti ha detto?”

“Oh, nulla, nulla. Non è successo niente di che. Ha bevuto un bicchiere d’acqua e se ne è andato subito.” Disse velocemente. “Toh, c’è un tavolo libero a La Grouette, ci fermiamo per un gelato?”

Kagura lo strattonò per una manica, fissandolo truce. “Jakotsu, giurami che non hai fatto nessuna stronzata.”

“Non ho fatto nessuna stronzata, te lo giuro!”

“Non ti credo”

Il ragazzo rimase in silenzio, puntando lo sguardo a terra, dietro alle lenti scure. “Non ne abbiamo potuto fare a meno.”

La donna si mise le mani fra i capelli, arrabbiata. “Ma sei stupido? Dopo tutto quello che hai passato, ci caschi nuovamente? Jakotsu, cosa c’è in quella tua testolina masochista? Hai fatto sesso con lui per ringraziarlo di averti portato a casa?”

Questa volta fu il ragazzo a replicare ad alta voce: “Lui non può fare a meno di me, tanto quanto io non posso fare a meno di lui!”

“Infatti lui si sta sposando con un’altra. DONNA.”

Il ragazzo si pizzicò il naso aggiustandosi gli occhiali. Sembrava sul punto di scoppiare. “Pensi che non lo sappia. Io sono una cosa diversa.”

“Diversa, ma non abbastanza importante da essere l’unica.” Ribatté duramente Kagura, i pugni puntati sui fianchi. Vedendo lo sconcerto dell’amico lo prese nuovamente sottobraccio, sospirando. Forse era stata troppo dura con lui, non se lo meritava, stava di sicuro già male per conto suo. “Andiamo a La Grouette, prima che ci rubino il tavolino.”

 

 

Ciao Ragazze!!!

Un paio di note prima di lasciarvi:

1)       Alphonsine Duplessis= celebre cortigiana, meglio conosciuta come Dama delle Camelie, narrata nel libro omonimo di Alexandre Dumas figlio, e ripresa  nella Traviata di Verdi.  Dalida= cantante francese, morta suicida. Nota per aver avuto una storia con il cantate italiano Tenco, anch’egli morto suicida. La Goulue= Ballerina di CanCan al Moulin Rouge! Ritratta anche da ToulouseLutrec. Tutte e tre questi personaggi sono ospiti fissi (per non dire inquilini) del cimitero di MontMartre.

2)       Eclisse Totale – Poeti dall’Inferno, è un film del 1995, con protagonisti David Thewlis (Ovvero il Prof. Lupin nei film di Harry Potter) e Leonardo DiCaprio (che a quell’epoca era da acquolina in bocca), che interpretavano i poeti maledetti Paul Verlaine e Arthur Rimbaud e la loro tormentata storia d’amore (si, avete capito bene…). Il Titolo, Mon Grand Péché Radieux (mio grande peccato radioso) è tratto dalla poesia Laeti et Errabundi, di Paul Verlaine, dedicata appunto a Rimbaud, ed è la frase con cui si conclude il film.

 

Grazie Mikamey e Jekka ancora per leggermi e supportarmi!!!

E.C.

 

 

 

 

 

 

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