I love you. Isn't that enough?

di Clexa_XXX
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***



 
I love you. Isn't that enough?
 
 
 
 
Capitolo I
 
 Cene con gli amici e discussioni non troppo prolifiche.
 
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Era una calda Domenica di Settembre.
L'orologio segnava poco più delle undici e l'aria fresca di Chicago refrigerava l'afosità di quella sera di fine estate. La finestra del soggiorno spalancata sul terrazzino dell'appartamento non faceva che confermare quanto quel pomeriggio, come d'altronde quasi tutti i giorni da un mese a quella parte, fosse stato caldo. A quell'altezza, più o meno il quinto piano, un leggero venticello però faceva svolazzare la leggera tenda del salone.
Casa Griffin-Woods , così come in ogni circostanza, appariva grande e spaziosa. Accanto al muro quattro scaffali , dove più che altro si trovavano libri di Lexa di ogni forma e dimensione, componevano il semicerchio della stanza, nel quale, al centro, si trovava il divanetto a tre posti color panna e la piccola poltrona pouf, posta a terra, poco più avanti, sul tappeto bianco e nero.
Dall'altra parte della stanza, oltre a diverse mensole sparse qui e là, più che altro adornate da qualche foto e ricordo di viaggio, l'immancabile set da disegno di Clarke, che , nonostante avesse una stanza vera e propria da dedicare alla sua passione, era più che solita a lasciare le sue cose sparse per l'intera casa. Nell'angolo, oltre ad un'adorabile piantina dalle foglie verdi e brillanti, un orologio a pendolo dai motivi antichi. Da quelle parti, a qualche metro da terra, appesa alla parete, si trovava la foto del matrimonio. Era grande e circondata da una cornice dorata. Per il resto, le pareti erano abbellite da dipinti, qui e là, tutti opera della bionda, ovviamente.Al centro della stanza , appena sulla destra, il grande tavolo in legno era quella sera circondato da cinque persone, sei se un piccolo esserino di appena cinque mesi potesse essere contato.
Era una delle loro solite serate, quelle in cui si ritrovavano a bere e chiacchierare. Anni prima praticamente si ripetevano più volte a settimana, poi solo nei Week-end con l'aumento dei turni di lavoro. Ora che Octavia e Lincoln erano diventati genitori, quelle serate erano diventate oro puro. Non si vedevano, praticamente, da quasi due settimane.
Avevano mangiato molto bene, d'altronde aveva cucinato Lexa, anche se non troppo contenta di farlo, e soprattutto per un'intera squadra di calcio. Ma non era certo facile dire no al pasticcio di pollo della mora.
Per questo , ora, se ne stavano appollaiati ai loro posti, rigenerati da quell'aria fresca proveniente dall'esterno e con lo stomaco che brontolava.
Octavia , per l'appunto, stava seduta in avanti, all'estremità della sedia, fra le braccia un piccolo fagottino dalla pelle olivastra e gli occhi , solitamente color nocciola, chiusi. Gli accarezzava i capelli , ancora radi e di un colore scuro, cullandosi sul posto, ormai in un gesto automatico. Per oltre un'ora , dopo la poppata serale, aveva cercato di far addormentare il piccolo Thomas Forrest, ma solo da dieci minuti il bebè aveva smesso di emettere lamenti e si era effettivamente appisolato.
Al suo fianco suo marito Lincoln aveva un braccio intorno alla sua spalla, con un dito si sfiorava le punte dei capelli neri, legati in una coda alta.
“Credo siano 2 mesi che non facciamo una dormita che possa essere definita tale” commentò la donna, osservando il bambino con sguardo grave, anche se non poté fare a meno di lasciarsi sfuggire un dolce sorriso.
“Sembra che sappia perfettamente quando stiamo per andare a dormire. Praticamente scatta come una molla” aagiunse Lincoln, con un largo sorriso sulle labbra, ancora giocando con i capelli della moglie.
Clarke, dall'altra parte del tavolo, in una postura tutt'altro che corretta, sedeva di lato, con le gambe poste sopra alle ginocchia di Lexa, alla sua destra. Guardò il bambino con aria sognante “Ma guardate che faccino, come potreste non perdonarglielo?”
Octavia roteò gli occhi “Certo, Griff, facile parlare con una buona dormita alle spalle. Torneremo sulla cosa quando avrai sonno, le tue palpebre chiederanno pietà, ma questo faccino griderà come un pazzo”
Lexa sorrise sotto i baffi alla smorfia che fece Lincoln, in accordo con le parole di Octavia.
Anya , a capotavola, proprio accanto a suo cugino, modellò le labbra in un sorriso a labbra strette “Volete davvero dirmi che non c'è un bottone per spegnere quel bel marmocchio?”
“Se esistesse, Anya, Maggie l'avrebbe usato molto tempo fa con te” Lexa stuzzicò la sorella maggiore, rivolgendo uno sguardo di approvazione a Lincoln. La ragazza era leggermente distante dal tavolo, i gomiti appoggiati sulle gambe di Clarke, mentre le loro mani erano allacciate una all'altra. Il pollice di Lexa stuzzicava in piccoli movimenti l'unghia dell'indice di Clarke, prima sfiorandolo e poi accarezzandolo.
Lincoln, così in realtà come anche Clarke e Octavia, seguì Lexa in quella risata. Gli scherzi fra i tre erano all'ordine del gioco, anche se di solito, l'artefice ne era soprattutto Anya. Era lei , fra i tre, quella che prendeva di mira il cugino o la sorella minore.
“Molto divertente, piccola stronza” commentò Anya, alzando le spalle “Scusa tanto, se non sono io la preferita di mamma”
“Questo è vero” Lincoln intervenne e diede una pacca sulla spalla ad Anya “Qui l'unica cocca di zia Maggie sappiamo tutti essere Lexa”
Lexa scosse la testa, alle risate dei presenti che si moltiplicarono. Clarke , accanto a lei, la sfiorò con sguardo apprensivo, conoscendo a memoria l'espressione infastidita che colorò il viso della moglie.
“Clarke, vuoi davvero fare felice tua suocera?” continuò Anya, ridendo “Datevi da fare e rendetela nonna un'altra volta”
Lincoln alzò le braccia “Un nipote dalla nostra Lexie? Sarebbe un perfetto regalo di Natale, pensateci, non manca molto a Dicembre”
Clarke rise, così come Octavia. L'unica che non era molto divertita era la diretta interessata. Era abituata alle prese in giro per essere la “preferita” di Maggie, anche se non era affatto vero. Maggie era la madre biologica di Anya, sua madre adottiva e la zia di Lincoln e li aveva accuditi, amati e coccolati allo stesso modo fin dall'infanzia. L'unica differenza era che l'essere piuttosto chiusa e taciturna, aveva posto Lexa al centro delle preoccupazioni di Maggie, al contrario degli espansivi Anya e Lincoln.
“Fatela finita” tagliò corto Lexa, sentì gli occhi azzurri di Clarke addosso. Le accarezzò ancora la mano “Non è divertente”
“Scusa Lex, in realtà lo è”
Lexa socchiuse gli occhi “Sempre la stessa storia da quando abbiamo dieci anni. No, Linc, credimi, non lo è più”
Clarke rise ancora, piegando di lato la testa, le lasciò un piccolo bacio sulla guancia, all'angolo della bocca “Non lo è per te, perché sei tu quella presa in giro”
“Tu non dovresti stare dalla mia parte?” commentò Lexa, fingendosi infastidita. Clarke sorrise ancora, spingendola verso di sè e rafforzando la stretta delle loro mani, tirò fuori il labbro inferiore, in un espressione di tenerezza, per farsi perdonare. Lexa borbottò qualcosa sottovoce, scuotendo la testa.
“In salute e in malattia...” recità Octavia a quella scena, lanciando un'occhiata a Lincoln.
“Beh, non ricordo vengano citate le prese in giro da parte della sorella stronza” la interruppe Clarke, ricevendo una gomitata da Lexa, ma un segno di grande approvazione da Anya. La bionda le schiacciò l'occhio, appoggiando i gomiti sul tavolo davanti a lei “Finalmente, dopo nove anni, inizi a piacermi Clarke Griffin”
 
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Nella camera di Lexa e Clarke, la luce accesa della abajur illuminava il letto matrimoniale, nel quale il piccolo Thomas era sdraiato a pancia all'aria. Questa volta gli occhi erano spalancati, osservavano il soffitto, mentre i pugnetti chiusi si muovevano avanti e indietro. Un sorriso gli colorò le labbra, quando Clarke , seduta accanto a lui, si portò le mani davanti agli occhi e poi le scostò, di scatto, facendo la linguaccia.
La bionda sorrise a sua volta a quella reazione, portò una mano al pancino del bambino, muovendo le dita per fargli il solletico. Il piccolo rise di gusto, muovendo i pugni ancora una volta, ma più energicamente.
Clarke lo osservò ancora. Era diventata “zia” da ormai cinque mesi e non passava giorno in cui non si innamorasse un po' di più di quell'adorabile pargoletto. Le erano sempre piaciuti i bambini, ma negli ultimi mesi sentiva sempre un sorriso spontaneo, quando ne vedeva uno. E anche un po' di invidia, in effetti.
D'un tratto il telefono di Octavia, che si trovava alle sue spalle, alle prese con pannoloni e salviettine, squillò, facendola sbuffare sonoramente.
“Puoi cambiarlo tu, Clarke? Sto cercando il d-dannato cellulare e...” le chiese Octavia, era intenta a rovistare dentro la sua borsa, così piena di cose, da renderle quell'operazione impossibile. Imprecò appena, poi, finché non riuscì a trovarlo e a tirarlo fuori.
Clarke annuì, ovviamente, mettendosi in piedi davanti a Thomas. Sentì i passi di Octavia, uscire dalla stanza alle sue spalle e si voltò, per prendere il borsone nel quale la sua amica doveva aver lasciato i pannoloni. Lì trovò , poco dopo, ritornando ad accarezzare il bambino che, nel vederla di nuovo, rise ancora di gusto.
“Vieni con la zia Clarke, forza” sospirò, tirandolo verso di sé per le gambine con estrema delicatezza. Thomas emise un piccolo gemito e si portò le manine alla bocca, mentre Clarke gli slacciava i lacci laterali del pannolino. Effettuò tutte le operazioni necessarie, prima con le salviettine umidificate e poi con il nuovo pannolone, con estrema disinvoltura. Ricordava ancora la prima volta in cui Octavia le aveva insegnato, in realtà anche lei un po' impacciata, cercando di farle capire quale fosse la parte posteriore e quella anteriore. In quel mesi, però, aveva fatto pratica e si definiva una zia eccezionale. La migliore , visto la concorrenza: Anya... che beh, era Anya, Bellamy e Raven che abitavano rispettivamente a New York e a San Francisco, e Lexa. Non sapeva bene come definire Lexa, perché , in realtà, non era mai stata una grande amante dei bambini. Di sicuro gli voleva bene, era il figlio di Lincoln, una delle persone più importanti della sua vita, ma non si era mai davvero relazionata con lui. L'aveva tenuto in braccio soltanto una volta probabilmente, per circa cinque minuti e poi l'aveva subito restituito a Clarke, non appena aveva potuto. Era come si sentisse a disagio, in realtà. Ed era strano, perché aldilà della corazza esteriore che Lexa costruiva, era la persona più dolce che Clarke conoscesse la mondo.
Una volta finito, Clarke si sedette ancora una volta sul letto, questa volta prendendo fra le braccia il piccolo Thomas. Lo tirò su per la ascelle, poi appoggiandolo sulle sue ginocchia. Il bambino teneva ancora le mani alla bocca, ma questa volta succhiandosi avidamente il pollice destro. Clarke gli accarezzò dolcemente la testa, lasciandovi anche un piccolo bacio “ Sei l'ometto più bello dell'intera Chicago, sai?” sussurrò piano, al suo orecchio “E non lo dico solo perché sono la tua zia preferita”
Restò ad osservare le semplici mosse del bambino per diversi minuti. E , per l'ennesima volta, lo realizzò.
Le sarebbe piaciuto più di ogni altra cosa, diventare mamma.Era sempre stato nei suoi piani, ma ora.. beh, ne sentiva quasi il bisogno fisico. In fondo, aveva quasi ventisette anni
In quel momento, Octavia rientrò nella stanza, prendendola alla sprovvista. Clarke quasi sobbalzò, immersa nei suoi pensieri, stava ancora accarezzando Thomas, mordendosi il labbro inferiore con gli incisivi.
“Era l'ospedale. Mi hanno cambiato il turno, domani” Octavia le si sedette accanto, scostandosi i capelli dal viso. Erano al primo anno da specializzande, in uno degli ospedali di Chicago ed era piuttosto faticoso. Per tutti gli anni precedenti di duro studio avevano creduto che la parte peggiore fosse passata, una volta sul campo. Beh, lavorare effettivamente in ospedale era decisamente più stancante. Più eccitante , certo, ma decisamente molto più provante della pura e semplice teoria.
Clarke annuì piano, ancora avvolta in quei pensieri. Octavia sorrise, accarezzò il piedino nudo del figlio, che si muoveva qui e là, ogni tanto. Osservò l'amica, tirando su con il naso “Dovresti chiederlo a Lexa. Dovreste parlarne”
“Come?” chiese Clarke, presa alla sprovvista.
“Di avere un bambino. Di adottarne uno” rispose Octavia, alzando un sopracciglio, come se fosse ovvio. La bionda non provò neanche a negare, semplicemente si limitò ad un piccolo sorriso, non stupendosi di come la sua migliore amica le leggesse nel pensiero. Si leccò le labbra, alzando lo sguardo verso la porta, da dove provenivano i rumori delle altre stanze, in cui Lexa, Anya e Lincoln ancora si trovavano.
Mai come in quel momento, Clarke sentì il desiderio di farlo davvero. Non ne aveva mai avuto il coraggio, perché se n'era sentita sempre un po' impaurita. Il lavoro, le spese, il sentirsi sempre un po' piccoli e impreparati.
Ma ora, Lexa lavorava da quasi un anno per un giornale, piccolo e poco conosciuto, ma del quale era praticamente una delle articoliste di punta . Clarke , invece, era una specializzanda, certo, ma aveva una paga per lo meno. Erano sposate da quasi due anni, si conoscevano da nove. Poteva essere il momento giusto, doveva esserlo.
“Penso che lo farò” rispose all'amica e un sorriso le nacque sulla labbra. Sentì il petto gonfiarsi da quell'eccitazione “Gliene parlerò”
Octavia sorrise entusiasta, avvicinandosi accarezzò Thomas, così come Clarke stava continuando a fare. Poi le schiacciò l'occhio, dandole una leggera gomitata “Non vedo l'ora di diventare zia, Griff”
 
 
 
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Clarke e Lexa si erano conosciute al College “Polis” di Chicago. Il primo anno, il primo giorno, si erano viste di sfuggita, fuori dalle loro camere del dormitorio, che si trovavano a poche porte di distanza. Lexa aveva un singola, Clarke una tripla, insieme alle sue migliori amiche, Octavia e Raven.
Era stato come un colpo di fulmine, il modo in cui i loro occhi si erano inevitabilmente scontrati, rifiutati in primo momento, ma cercati in quello immediatamente successivo.
Avevano scoperto , poi, nei giorni seguenti che frequentavano lo stesso corso di fotografia. Il destino, forse, ci aveva messo la zampino. Fatto sta che avevano iniziato ad uscire di lì a poco. Si erano scambiate il loro primo bacio davanti ad un film in bianco e nero, in un vecchio cinema all'aperto, al loro primo vero appuntamento. E, da quel momento, non si erano più lasciate. Erano divenute inseparabili, nonostante fossero diverse e provenissero da due città differenti come Chicago e New York. Nonostante Lexa fosse sempre stata taciturna , mentre Clarke parlasse sempre un po' troppo. Nonostante Lexa fosse maniacalmente ordinata, mentre Clarke in completo disastro.
Passavano le serate davanti a Netflix o passeggiando al lago, che si trovava appena fuori dal campus. Lexa lavorava in un cinema per aiutare Maggie a pagarle il college e Clarke spesso le faceva compagnia dietro al bancone, quasi facendola licenziare, quando la corrompeva per ottenere popcorn e caramelle gommose all'arancia gratis. La parte migliore delle loro serate , però, era il sushi. Lexa ne era sempre stata una grande fan e l'aveva fatto scoprire all'altra, che , sebbene fosse un po' scettica sul nascere, se n'era completamente innamorata. Così, anche a tarda notte, spesso si ritrovavano a cercare un ristorante, piccolo o grande che fosse, che potesse saziare i loro appetiti.
Per il loro primo Natale, Clarke aveva regalato un piccolo maialino di peluches rosa a Lexa, mentre Lexa le aveva preso un set da disegno completo, spendendo metà dei suoi risparmi.
Nel Marzo Clarke aveva conosciuto Maggie, la madre adottiva di Lexa, e aveva visitato la loro libreria a gestione familiare da generazioni, in cui la mora aveva imparato ad amare la letteratura e aveva passato metà della sua infanzia. Due mesi dopo, all'inizio della pausa estiva, era stata la mora a raggiungere New York e conoscere Abby Griffin e Marc , il patrigno di Clarke. La donna non era stata particolarmente entusiasta di quel rapporto, anche se con il tempo Marc era riuscito a convincerla ad apprezzare la fidanzata della figlia.
La loro prima gita, sempre quell'estate, era stata con la macchina con la macchina di Abby, concessa con non poche difficoltà, con la quale erano arrivate fino alla California. Si erano fermate vicino a Long Beach, in una camera d'albergo decisamente scadente, con un solo letto singolo, che comunque era bastato alle due.
Litigavano spesso, era una caratteristica del loro rapporto, nonostante fossero piccole dispute, dati da due caratteri fondamentalmente molto orgogliosi.Quasi sempre quelle liti iniziavano e finivano qualche minuto dopo, con baci e carezze a sancire la pace.
L'unico vero e proprio periodo nero fu al terzo anno. I voti di Lexa erano insipiegabilmente calati e come risposta la ragazza si era immersa nei libri. Cosa che , inevitabilmente aveva tolto molto tempo al tempo insieme. Un 'incomprensione aveva tirato l'altra e le due a fine Maggio, avevano definitivamente rotto. Una decisione che aveva ferito entrambe, presa da Clarke, ma che aveva portato Lexa, due mesi dopo, a riavvicinarsi alla vecchia fiamma del liceo, Costia.
Ma , naturalmente, non ci era voluto molto, prima che le due facessero pace e tornassero insieme, per non lasciarsi più.
Dopo la laurea, si erano trasferite a Chicago, nello stesso appartamento, in periferia, dove Clarke aveva inziato la scuola di medicina, mentre Lexa una scuola per giornalisti. Non era certo una reggia, ma negli anni l'avevano resa speciale, aggiungendovi particolari che l'aveva resa completamente loro. Inoltre Clarke aveva iniziato a vedere i suoi quadri, Lexa a lavorare in una tavola calda in periferia per arrotondare le spese.
Due anni dopo, dopo cinque anni dal loro primo bacio, Lexa le aveva chiesto di sposarla, Clarke aveva detto sì. Lexa era diventata una giornalista, proprio come aveva sempre desiderato, Clarke un chirurgo, come sua madre.
Il loro rapporto , in tutti quegli anni, non era cambiato di una virgola. Litigavano, ma bastava un sorriso per perdonarsi. Bastava uno sguardo, per capire quello che l'altra stava pensando.Anche con la madre di Clarke, le cose si erano più o meno sistemate. Si poteva dire che Lexa quasi stesse simpatica ad Abby.
Non c'era nulla, nei loro pensieri, o in quella dei loro amici, che potesse far pensare ad un mondo in cui Lexa e Clarke non stessero insieme.
 
 
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Erano quasi le due, quando , finito di sparecchiare e di riordinare la casa, Clarke poté finalmente infilarsi sotto le coperte, dal suo lato del letto, il sinistro. Sentiva ogni fibra del suo corpo tesa, mentre seduta con la schiena contro la spalliera, infilava le dita fra le ciocche dei capelli, a creare una lunga treccia. L'aveva fatta e risfatta almeno tre volte, ma almeno questo la aiutava a calmare i nervi. Eppure non vedeva l'ora di parlare con Lexa, di esprimerle finalmente quel desiderio, di condividere quella gioia con lei.
Lexa era sotto la doccia, Clarke poteva sentire l'acqua scrociare a terra. Di solito ci metteva almeno mezz'ora, perché per la mora la doccia era quasi un'ossessione. Era una sorta di oasi felice, dove si rilassava, dove abbandonava ogni stress della giornata trascorsa. Glielo ripeteva sempre, quando erano in ritardo e lei ci impiegava un'eternità.
Quella sera , però, in una tortura lenta e dolorosa, Lexa uscì dal bagno in meno di un quarto d'ora. Si presentò nella camera da letto con solo un'asciugamano bianco legato all'altezza petto, i capelli mori legati in una coda bassa. Clarke ancora stava cercando le parole giuste che avrebbe voluto usare, quando la vide e deglutì nervosamente.
Lexa le rivolse uno sguardo distratto, stupendosi di quella reazione, ma non indagando. Aprì il cassettone, prendendovi la biancheria e poi ne aprì un'altro, dove si trovava una semplice t-shirt bianca e dei lunghi pantaloni a quadrettoni, che utilizzava come pigiama.
“Mi hanno cambiato il turno all'ospedale con quello di Octavia, domani mattina sono libera” disse Clarke, giusto per riempire quel silenzio, mentre Lexa lasciava cadere a terra l'asciugamano. La bionda osservò le curve del suo corpo nudo, che conosceva a memoria, non smettendosi di mordersi il labbro inferiore.
Lexa , dopo aver allacciato il reggiseno, si voltò nella sua direzione, ora solo in intimo “Starò attenta a non svegliarti” le rispose, rivolgendole un sorriso. Lexa non sorrideva a tutti, anzi, di solito era difficile guadagnarsi un suo sorriso, ma per Clarke era diverso. Sorridere a Clarke, per Lexa, era totalmente una storia diversa... semplicemente, era naturale.
Clarke annuì. Osservò ancora il corpo della donna, mentre infilava gli ultimi indumenti e si scioglieva la coda, lasciando i capelli mossi liberi sulle spalle. Ancora non le tolse gli occhi di dosso, quando si infilò sotto le coperte con un piccolo balzello, al suo fianco.
“Era davvero tanto che non ci vedevamo come ai vecchi tempi” Clarke parlò in automatico, mentre allungava il braccio nella sua direzione. Le sfiorò il dorso della mano, con la punta dell'indice. Lexa annuì, stringendo le dita di Clarke “ Octavia e Linc sono sempre molto occupati”
“Beh, hanno un figlio” considerò Clarke, cercando , in qualche modo, di pronunciare quella parola. Figlio. La guardò, nei suoi occhi verdi, ma Lexa non sembrava nemmeno aver sentito. Si era avvicinata e con le labbra le aveva sfiorato il collo, con estrema lentezza. Le lasciò un bacio, che quasi sembrò un succhiotto, ma poi salì lentamente, lasciando una scia umida di piccoli baci, fino al suo orecchio.
Clarke sentì il suo autocontrollo vacillare, quando l'odore del bagnoschiuma preferito di Lexa le invase le narici e l'altra si lasciò andare ad un sospiro, al suo orecchio. Ma avrebbero dovuto rimandare il sesso a dopo, almeno a dopo che lei le avesse parlato, come si era prefissata poco prima.
Le labbra di Lexa si era spostate lungo la mascella, ora alle sue labbra, rilasciandole un casto bacio a stampo. Clarke ansimò appena, quando una delle mani della mora le sfiorò la coscia.
“Lex'...” sospirò, cercando ancora di mantenere il controllo. Ma la ragazza non la ascoltò ancora o , almeno, prese quello come un gemito di piacere. Perché nell'istante successivo rese quel bacio più profondo, permettendo alle loro lingue di toccarsi e alla mano di entrare all'interno dei suoi pantaloni. Le dita di Lexa si muovevano con lentezza, ma , come la solito, con estrema maestria. La sfiorava, appena, ma la faceva impazzire ad ogni minimo tocco.
Lexa fece poi pressione sul braccio sinistro, per permettersi di alzarsi e salire a cavalcioni su Clarke. Quello fu il campanello di allarme per la bionda, per decidersi a fermarsi, prima che accadesse l'inevitable.
“No, Lexa, aspetta...” mormorò, allontanando le loro bocche da quel bacio.
Lexa la guardò leggermente confusa. Si rimise al suo posto, ma non le lasciò la mano “Va tutto bene?” domandò, aggrottando le sopracciglia.
“S-sì” rispose subito la ragazza “D-devo solo parlarti di una cosa importante”
Lexa non sembrò rilassarsi affatto. Abozzò un sorriso, però, nonostante le sue spalle rimasero tese “Devo preoccuparmi?” domandò.
Clarke prese un sospiro a pieni polmoni. Strinse la mano di Lexa, le rivolse uno sguardo veloce, disegnando piccoli semicerchi sul suo palmo.
“No,è una cosa...” prese una pausa “...bella”
Questa volta Lexa sembrò davvero incuriosita “Di cosa si tratta?”
Clarke osservò la ragazza negli occhi. Quegli occhi verdi di cui si era pazzamente innamorata quando aveva diciotto anni e che ancora non riusciva a guardare senza sentirsi maledettamente fortunata. Perché quegli occhi, guardavano lei, come non guardavano nessun altro al mondo. Si sentì subito meglio a quel pensiero, nulla poteva davvero andare storto, pensò. Non con Lexa. Prese finalmente il coraggio di parlare, con decisione.
“Stavo pensando che stiamo insieme da tanto tempo, siamo sposate ci amiamo e... ” disse, con una velocità così elevata da poter distinguere le parole a malapena “... E che potremmo pensare a ...” deglutì, vide Lexa stringere le labbra, forse capì proprio in quel momento, in quei tre secondi precedenti, cosa volesse dire “ ...ad avere un bambino”
Lexa rimase in silenzio, semplicemente. Lasciò la presa sulla mano di Clarke con uno scatto, questa volta fu lei a deglutire.
“So che è un passo importante, che è una cosa grande, insomma... diventare genitori” continuò Clarke, non ottendendo una vera e propria reazione dall'altra “Ma siamo sposate da due anni, stiamo insieme da otto e potremmo passare allo step successivo. Vorrei davvero, davvero... essere mamma, insieme a te”
Lexa deglutì ancora. Si sistemò leggermente sul posto, sbattè le palpebre, ma non aprì bocca. I capelli mori le ricadevano in maniera disordinata davanti al viso, che era diventato di un colorito roseo. Passarono lunghi istanti. Clarke sentì il petto stringersi a quella reazione “Non dici nulla?”
“Non ne abbiamo mai parlato, Clarke”
“Ne stiamo parlando adesso”
“Ora non conta, se li vuoi nell'immediato futuro” il tono di Lexa sembrò duro. La distanza fra le due , in quel momento, era di qualche centimetro, così in contrasto con la vicinanza di qualche secondo prima.
Clarke si grattò la testa. Tutto il nervosismo positivo accomulato prima, era diventato negativo. Non era più accompagnato da eccitazione, l'eccitazione di condividere quel desiderio enorme e bellissimo con la donna della sua vita. Era diventato frustrazione, quasi rabbia, per quell'indifferenza, quel muro che Lexa aveva costruito non appena le aveva detto quelle parole.
Passarono minuti interminabili, senza che nessuna delle due dicesse nulla.
“Puoi dire qualcosa o vuoi giocare tutta la notte al gioco del silenzio, Lexa?” chiese, ora Clarke spazientita.
Lexa incrociò le braccia al petto, strinse la mascella “Cosa dovrei dirti?”
“Cosa ne pensi, magari. Perché ti sei irrigidita così, solo al pensiero di avere un figlio con me”
La mora scosse la testa vistosamente. Si stava raggomitando sempre più su sé stessa, con le ginocchia raccolte e vicine al petto. Clarke aspettò invano una sua risposta, che non arrivò, Lexa sembrava completamente nel panico, completamente fuori di sé. Raramente Clarke l'aveva vista così.
Provò ad avvicinarsi, le posò una mano sulla spalla. Non doveva innervosirsi o avrebbe peggiorato quella situazione.
“Lex', lo capisco che è un passo importante. Però pensa ad un bambino, nostro, nostro figlio” le accarezzò la guancia e la sentì respirare più affannosamente “ Siamo giovani e ...”
“No, non è il momento giusto” mormorò Lexa , alla fine, interrompendo le parole di Clarke. Sembrava lo ripetesse a sé stessa, oltre che all'altra.
“Perchè, no?”
“Perché nessuna delle due ha un vero lavoro, ad esempio. Tu sei una specializzanda, io lavoro in un giornale che potrebbe chiudere da un momento all'altro, dato il numero di lettori all'attivo. Un bambino costa un patrimonio e non abbiamo tutti quei soldi. P-perché non abbiamo una casa o … u-un'auto adeguata. E poi...”
Clarke sentì la rabbia davvero divamparle all'interno , adesso. Era tornata la Lexa di sempre, quella razionale, quella che lascia spazio soltanto alla testa. Non sembrava più spaventata, come poco prima, sembrava soltanto decisa.
“Sono stronzate” Clarke si portò in piedi, al bordo del letto. Doveva camminare, quando si sentiva nervosa, non riusciva a stare ferma “Sono stronzate”
“Non sono affatto stronzate” la corresse
“Sì, invece, lo sono!” Clarke le puntò il dito, in tono grave “Sono solo le stronzate di una codarda! Hai paura!”
Lexa alzò il tono della voce, un po' troppo per i suoi standard “Non ho affatto paura, Clarke. Sono realista. Potremmo entrambe perdere il lavoro e a quel punto, cosa faresti? Lasceresti tuo figlio morire di fame?”
Clarke strinse gli occhi. Le veniva da piangere. Questa era una delle poche volte da quando la conosceva in cui non riusciva a non odiare Lexa e la sua dannata razionalità. O la sua codardia. Lexa nascondeva la paura, cercando di camuffarla, di renderla un qualcosa di razionale “Nessuna delle due perderà il lavoro”
“Non puoi saperlo questo”
“E tu puoi? Puoi dire che finiremo senza un soldo? No, non puoi” Clarke si morse la lingua, camminò ancora avanti e indietro “Questa è solo una scusa. Non vuoi avere un figlio, perché non lo ammetti semplicemente. Dimmi la vera ragione per cui non lo vuoi”
Lexa non rispose, rimase in silenzio qualche secondo. Nella casa gli unici rumori erano quelli dell'orologio a pendolo che , in salone, rintoccava ogni secondo, uno dopo l'altro, costantemente.
“Ti stai comportando da bambina viziata” fu l'unica risposta di Lexa. Fredda, distante, fissava un punto davanti a sé, senza incontrare lo sguardo di Clarke “Come sempre”
Da bambina viziata. Quella era la scusa per eccellenza di Lexa, finire ogni discussione a suo favore, semplicemente dicendole che si comportava da bambina viziata.
“E tu da stronza. Tutto come al solito, a quanto pare” Clarke questa volta cercò di innervosirla, di ferirla, come aveva fatto lei, con quel dannato commento. Come aveva fatto lei da quando avevano iniziato a parlare.
“Non dovrei comportarmi da stronza, se tu non battessi i piedi ogni volta che qualcuno ti dice di no” Lexa alzò un sopracciglio “ E , tra l'altro, non ti ho detto di no. Ti ho detto non ora”
“E quando, per la precisione?” domandò, stringendo i denti.
Lexa ci pensò. Sembrò indecisa, come se non si aspettasse quella domanda “Fra qualche anno”
In quel momento, ogni singola parte del corpo di Clarke semplicemente esplose. La rabbia la fece quasi gridare, avrebbe gridato se non fossero state ormai le tre “Qualche anno” mormorò tra sé e sé, mentre guardava Lexa, che ancora però la ignorava bellamente. Gli occhi verdi erano infatti fissi sulla coperta, sulle sue dita, sullo specchio... ma mai, avevano incontrato i suoi.
Clarke prese il cuscino, in uno scatto di rabbia “Vaffanculo, Lexa. Vaffanculo” ringhiò, prima di uscire dalla stanza, a passi pesanti. Sbattè la porta dietro di sé, fregandosene dell'orario. Lexa non rispose nemmeno, o almeno, Clarke non la sentì dire nulla.
La bionda attraversò il soggiorno buio a piedi nudi, il freddo di Settembre iniziava a farsi sentire. Si lasciò cadere sul divano, gli occhi le bruciavano dalle lacrime di rabbia, che però non volle lasciar scappare. Aspettò qualche minuto, prima di chiudere gli occhi, in cuor suo sperò che Lexa ci ripensasse e le venisse a chiedere scusa. Che potessero festeggiare insieme quella decisione, che potessero fare l'amore, come avrebbero dovuto. Ma Lexa non arrivò. E Clarke si addormentò, alla fine, sconsolata, con la faccia immersa nel cuscino.


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Angolo Autrice:
 
Eccoci qui. Prima di tutto vi ringrazio, per essere giunti fino a qui, alla fine del primo di quattro capitoli di questa piccola cosina che , un giorno, è piombata nella mia mente e non se n'è mai andata. L'idea di Clarke e Lexa mamme è assolutamente adorabile ( E prima o poi, lo esplorerò a dovere!) , ma prima di fare questo “passo”, ho voluto esaminare un po' il prima. Come si è arrivati a ciò. Abbastanza traumatico, no? Soprattutto per la nostra Lexuccia. Pensate stia esagerando? O la sua paura è giustificata? Fatemi sapere nelle recensioni, naturalmente! Vedremo un po', come la cosa si evolverà nei prossimi capitoli.
Per il resto, ho da anticiparvi che mi sono divertita molto a creare , negli ultimi tempi, questo “mondo” clexa. Insomma, un sacco di background dei personaggi, della loro storia, ma anche di chi li circonda ( Ho in mente piccoli racconti di Baby!Clarke e Baby!Lexa , ma anche della relazione Lincoln-Octavia … e di alcune ancora a sorpresa, che non posso svelarvi ancora u.u. Ma anche , appunto, raccontini fluff tutti clexa...che non vedo l'ora di scrivere). Per ora, ho provato ad iniziare con questa mini long, per vedere un po' come affacciarmi a questo mondo che sto provando a creare e per capire anche cosa ne pensano gli altri.
Bene, pippone a parte, posso ancora ringraziarvi e chiedere di lasciarmi una piccola recensione, magari per farmi sapere cosa ne pensate. Ve ne sarei molto grata.
Al prossimo capitolo!
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


I love you. Isn't that enough?

 
Capitolo II
 
Lexa prova a rimediare con del sushi. Non va troppo bene.
 
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Incurante di tutto quello che era successo quella notte, la sveglia suonò ugualmente puntuale, alle sei e trenta.
Lexa la percepì come una sirena lontana, quasi come parte del sogno confuso e inconcludente che in quel momento le stava riempendo la testa. Si era addormentata soltanto un'ora prima e anche da allora , comunque, era stato un sonno terribile. Sentiva , vagamente, bambini gridare in lontananza e la voce di Clarke, forse, confusa tra altre mille.
Nel corso della notte, più volte, aveva avuto la sensazione che Clarke fosse tornata lì con lei. Aveva quasi percepito il suo corpo caldo contro la schiena, le sue mani che le stringevano i fianchi, come succedeva molte volte, il suo profumo che l'avvolgeva. Ma non era mai stato reale, Clarke era sempre rimasta in soggiorno e Lexa lì, da sola, nel letto freddo e vuoto.
E vi si trovava anche alle sei, quando Lexa quasi diede un pugno alla sveglia, per spegnerla. Nell'istante successivo, allungò d'istinto il braccio per sfiorare Clarke e trovarla addormentata nella sua porzione di letto, ma le sue dita non toccarono nulla che non fosse il gelido lenzuolo.
Lexa sospirò, rigirandosi fra le coperte e strofinandosi gli occhi gonfi. Avrebbe desiderato che quello della sera precedente fosse stato soltanto un brutto incubo. Uno di quelli in cui ti risvegli ringraziando che non fosse reale. Eppure, per sua sfortuna, nulla di tutto quello che ricordava era stato frutto della sua immaginazione.
Con estrema lentezza Lexa scivolò fuori dal letto, indossando le ciabatte per raggiungere il bagno. Si infilò sotto la doccia per cercare di svegliarsi, sotto l'acqua congelata, ma quando ve ne uscì, il risultato fu il medesimo di quando era entrata. Era a pezzi.
Si vestì velocemente e si trucco appena, essendo in estremo ritardo per il lavoro e poi uscì dalla camera, finalmente. La casa era al buio, ovviamente, a parte qualche luce proveniente dall'esterno, attraverso le finestre del salone.
Lexa lanciò un'occhiata a Clarke, sul divano. Era a pancia in giù, il viso spalmato sul cuscino e i capelli biondi, disordinati, a coprirle gli occhi. Solo la bocca per ben visibile, mezza aperta.
Lexa sospirò. Clarke era bellissima e avrebbe voluto avvicinarsi, per lasciarle un leggero bacio sulle labbra. Ma non osò, si mantenne a debita distanza, anche quando preparò le ultime cose, che le avrebbero permesso di uscire.
Era una situazione terribile. E Clarke non voleva... capire. Non l'avrebbe mai fatto, Lexa la conosceva e sapeva che era troppo coinvolta nel suo desiderio di diventare mamma, utilizzando troppo il cuore, per comprendere le ragioni del suo rifiuto. Lo aveva sempre fatto e lei amava quel suo lato, quell'adorabile amore e dedizione con cui Clarke metteva il cuore in ogni cosa. Ma in quella situazione doveva capire. Doveva farlo, doveva crescere semplicemente.
Lexa prese le chiavi di casa con un sospiro e si infilò il cappotto, rivolgendo un ultimo sguardo alla bionda. Represse ancora una volta l'istinto di avvicinarsi e rivolgere una carezza. Con un nuovo sospiro,decise che avrebbe provato a fare pace con sua moglie in serata. Si sarebbe inventata qualcosa. Quella giornata avrebbe sicuramente aiutato entrambe a chiarirsi le idee.
Lexa uscì di casa, ormai in estremo ritardo per il lavoro, cosa che l'avrebbe fatta rimanere imbottigliata nel traffico di Chicago con l'auto. Scese di corsa le scale del palazzo, strinse il cappotto , infine, mentre si immergeva fra le strade trafficate della città.
 
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Quella mattina Clarke si svegliò verso le nove.
Aprì gli occhi lentamente, le braccia intorno al suo cuscino e metà del corpo al di fuori del divano. Le ci volle qualche minuto ad abituare gli occhi a quella luce, minuti in cui restò immobile, in quella posizione, senza muovere un muscolo. Sbuffò sonoramente, quando si ricordò di tutti i fatti di quella notte, motivo per cui ora si trovava lì e non nel suo letto. Provò a muoversi, alla fine, ma sentì una fitta alla schiena e successivamente al collo, segno che i postumi di quella nottata sul divano si sarebbero fatto sentire a lungo.
Incapace di muoversi, Clarke restò in quella posizione ancora per diverso tempo. Ascoltò quel silenzio, dato dalla casa vuota, ma allo stesso tempo sentiva un gran chiasso provenire dalla sua testa. Non riusciva a smettere di pensarci, a smettere di sentirsi amareggiata e triste per la reazione di Lexa. La ragazza doveva essere già al lavoro. Quella mattina, come le aveva promesso, aveva fatto attenzione a non svegliarla. Probabilmente era stato più facile del previsto, visto che non avevano nemmeno condiviso il letto.
A lungo andare, la luce del mattino colpì Clarke dritta sugli occhi, così, alla fine, fu costretta ad alzarsi. Si diresse a passo lento verso la cucina, a piedi nudi, percorrendo le mattonelle fredde. Tirò fuori la polvere del caffè dalla mensola, la unì all'acqua nella macchinetta e la mise sul fuoco. Nel frattempo, si appoggiò al bancone della cucina, non aspettando altro di poter beneficiare di quel caffè. Si massaggiò il collo in più punti, per cercare di attutire quel dolore sordo e incessante. Anche la schiena le duoleva, praticamente ad ogni minimo movimento.
Nell'attesa, la mente di Clarke divagò, senza il suo permesso. Pensò a Lexa, pensò ai suoi occhi verdi, che la sera precedente non l'avevano guardata nemmeno una volta. E naturalmente, fu invasa , di nuovo, da quella rabbia.
Non riusciva a capacitarsi di come non avesse nemmeno voluto ammettere la sua paura, una paura che avrebbero potuto affrontare insieme, come avevano sempre fatto. Ma no, per Lexa era molto più facile rintanarsi nelle sue dannate convinzioni, piuttosto che affrontare la realtà. Nella sua razionalità esasperata.
Il caffè iniziò a ribollire e ciò attirò l'attenzione della ragazza. Si voltò, controllando che fosse pronto e quando se ne accertò, spense il fuoco. Poi, versò la bevanda con estrema attenzione nella sua tazza preferita.
Stava ancora sorseggiando il caffè bollente, quando controllò il cellulare, sperando che Lexa le avesse perlomeno lasciato un messaggio. Quella mattina se n'era andata senza svegliarla, forse al lavoro aveva pensato a quel litigio, alle sue parole, forse ci aveva ripensato. Ma, come sempre, credere che Alexandra Woods potesse ritornare sui propri passi era veramente da pazzi.
E infatti, Clarke non trovò messaggi di sua moglie, quando sbloccò il suo Iphone. Solo uno da parte di Octavia, delle otto del mattino, che le chiedeva come fosse andata con Lexa.
Clarke sospirò, ribloccando il cellulare e facendolo scivolare sul tavolo, davanti a lei. Non rispose alla sua amica, non ne avrebbe avuto le forze.
Finì il suo caffè, sorseggiandolo piano, ma non si sentì per niente meglio. Il dolore al collo e alla schiena non era migliorato, aveva ancora sonno e la rabbia era tutto tranne che scomparsa. In più, non aveva molto da fare quel giorno, cosa che non avrebbe certo aiutato la sua causa. Non aveva nulla con cui riempirsi la testa e smettere di rimuginare continuamente gli stessi pensieri.
Provò, quindi, l'ultima possibilità di salvezza. La più drastica, che aveva calmato i suoi nervi in molte situazioni, anche peggiori di quella. Dipingere, poteva essere la soluzione. Così, riempì nuovamente la tazzina di caffè e si trasferì nella camera accanto, quella riservata alla pittura.
Quando si erano trasferite lì, Clarke si era subito innamorata di quella stanza. Aveva un vista a dir poco incredibile, era il punto migliore in cui osservare i grattacieli di Chicago e il suo Skyline. Soprattutto al tramonto, quando tutto si tingeva di rosa e arancione. Purtroppo , però, era troppo piccola per farla diventare la loro camera da letto, così Lexa aveva avuto la brillante idea di renderla semplicemente la stanza di Clarke. La sua stanza, dove fare la cosa che amava fare di più: dipingere.
Così l'avevano arredata insieme , mettendovi un piccolo armadio a lato, un cavalletto e uno sgabello proprio davanti alla finestra. Clarke passava metà delle giornate guardandovi fuori e l'altra metà dipingendo quello che vi aveva visto.
Spesso, però, Clarke vi disegnava soltanto Lexa. I suoi occhi verdi, che la guardavano dipingere e che , colpiti dalla flebile luce del sole, erano ancora più luminosi e meravigliosi di quanto Clarke potesse anche solo provare a riprodurre. Era sempre quello il problema di dipingere Lexa. La ragazza era sempre più bella di quanto Clarke potesse dipingere su un pezzo di carta.
Anche quella mattina, Clarke si avvicinò allo sgabello e si sedette, osservando i raggi del sole che , timidiamente, toccavano la tela e il suo viso. Poggiò la tazza di caffè lì accanto e prese il pennello fra le dita. Lo immerse nel colore e poi lo riportò sulla tela immacolata, in una semplice e lunga linea. Tracciò una striscia di colore, poi un'altra e un'altra ancora, a dare forma all'immagine, che poteva osservare fuori dalla finestra. Qualche secondo dopo , però, si fermò. Dannazione, era rimasta a fissare il vuoto un'altra volta.
Con un gesto di stizza, Clarke riappoggiò il pennello nella tavolozza, mettendosi in piedi e tirò indietro la massa di capelli biondi, che le era finita davanti agli occhi.
Neanche la pittura sembrava aiutare.
Ormai sconsolata, Clarke abbandonò la stanza, riportandosi nel salone, lasciandosi cadere nel divano. Accese il televisore, cambiando canale, rapidamente, troppo nervosa e impaziente per cercare un programma che davvero le interessasse. Si fermò su un vecchio film in bianco e nero, uno di quelli che in realtà a lei non piacevano affatto, ma che , scendendo a compromessi con Lexa, aveva visto più di una volta. Di solito, la mora accondiscendeva a vedere qualche commedia romantica con Hugh Grant e la volta successiva era Clarke a dover guardare con lei uno dei film in bianco e nero, che tanto le piacevano. Di solito erano compromessi equi, a cui dovevano arrivare per non litigare e per cui Clarke non era poi così dispiaciuta. In fondo, anche se i film non erano poi così interessanti, era sempre una serata in cui poteva stare fra le braccia di Lexa, accoccolata al suo petto, mangiando popcorn e ridendo insieme a lei, ad ogni faccia buffa o attore con i lunghi baffi. Cosa che di solito le faceva scoppiare a ridere entrambe.
In quel momento Lexa non si trovava lì, però. Eppure Clarke non cambiò canale. Osservò lo schermo per un po', poi, in un gesto automatico prese il suo quadernino rosso, apoggiato sul tavolo, non lontano da lei. Lo aprì al primo foglio bianco, nel quale si trovava anche una matita e , senza quasi accorgersene, iniziò a disegnare. Era una cosa che faceva fin da bambina, fin da quando era piccolissima in realtà, e , anche se se crescendo aveva iniziato anche a dipingere, farlo con una semplice matita e un foglio bianco, restava una delle sue cose preferite.
Clarke tracciò semplici linee curve, ora leggere, ora marcate, a formare quello che era l'immagine che si era creata nella sua testa. Come molto spesso le capitava, la bionda non pensò neanche a quello che sarebbe stato il prodotto finale, si lasciò semplicemente trasportare da quell'istinto. Lasciò che la matita scivolasse sul foglio, creando , lentamente e a piccoli step, l'immagine totale.
Quando ebbe terminato , circa un'ora dopo, Clarke si ritrovò a guardare quello schizzo, lei stessa incredula, di quello che aveva creato, fino ad allora non rendendosi conto di come davvero sarebbe potuto apparire.
Sul foglio era ritratta Clarke, seduta sul letto, la schiena contro la spalliera. Aveva il viso sorridente, il braccio a stringere una bambina, seduta tra le sue gambe e sostenuta dal suo tocco. La piccola aveva qualche ciuffo sulla fronte, le gote arrossate e gli occhi spalancati. Tendeva le braccia verso l'alto, verso Lexa che, inginocchiata davanti a lei, acchiappava le sue manine e le sorrideva a sua volta.
Clarke strinse i denti, a quell'immagine. Appariva chiara, perfetta, ai suoi occhi. Così reale per lei, eppure così lontana per Lexa, che fino a quel giorno, non aveva neppure pensato all'eventualità di avere un bambino. E che ne era spaventata.
Clarke la conosceva bene, poteva dire di conoscerla bene, dopo nove anni. Conosceva i suoi occhi e non l'avrebbe potuta ingannare. Lexa aveva paura e il fatto che non volesse ammetterlo, nemmeno con lei, la feriva. Perché, non poteva dirle la verità? Era normale avere paura, sarebbe stato strano non averne, in effetti.
Ma per Lexa era sempre stato così, era sempre stata una codarda. E non perché provava paura, ma perché , ogni volta che la sentiva crescere, la mascherava con qualcos altro. Lexa aveva sempre avuto paura di avere paura.
Clarke strinse i pugni, chiudendo il quaderno con uno scatto. Il televisore ancora trasmetteva il film in bianco e nero. La ragazza si sentì , nuovamente, immersa in tutte quelle sensazioni. Chiuse gli occhi rassegnata, quel giorno , probabilmente, non se ne sarebbe liberata in alcun modo.
 
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Quella fu una giornata terribile e non solo perché era Lunedì.
Come previsto, Lexa rimase imbottigliata nel traffico, accomulando una mezz'ora di ritardo in ufficio. Il signor Lewis, il suo capo e direttore del giornale, le rifilò una ramanzina di quasi dieci minuti. E se c'era una cosa che Lexa odiava erano le ramanzine.
Quando si liberò di quella paranoia e si poté mettere al lavoro, non aveva nemmeno preso un dannato caffè e la stanchezza, unita a tutti i pensieri che ancora le frullavano nella testa dalla sera precedente, le permisero di fare poco e nulla. Avrebbe dovuto fare turni extra per tutta la settimana, per recuperare tutto quel lavoro arretrato.
Quando uscì dall'ufficio alle cinque, la testa le faceva così male da scoppiarle. Controllò il cellulare, mentre rientrava in auto, ma non c'erano né chiamate né messaggi. Segno chiaro che Clarke fosse ancora incazzata con lei.
Lexa si passò una mano sulla fronte, osservando la sua immagine nello specchietto retrovisore. I capelli mori erano arruffati e due occhiaie marcavano pesantemente i suoi occhi verdi.
Sbuffò. Non era assolutamente pronta a litigare di nuovo con Clarke. Aveva bisogno di una pausa, fra un'inferno e l'altro. Nella lista delle cose che più la irritavano al mondo, al primo posto, c'era sicuramente litigare con Clarke Griffin. Non solo perché era , chiaramente, innamorata di lei in un modo che , molti anni prima, avrebbe definito senza speranze, ma anche perché Clarke , oltre ad essere la persona migliore che conoscesse, poteva anche essere la più irritante dell'interno universo. Lexa non sapeva bene se le due cose potessero essere collegate in qualche modo, ma nessuno nell'universo poteva renderla nervosa come faceva biondina. Era come litigare con una bambina di dodici anni, che sbatte i piedi ogni volta che le cose non vanno nel verso che vorrebbe.
Litigare con Clarke le faceva sempre salire un senso di nausea e un macigno, alla bocca dello stomaco. Anche qui, cosa che non accadeva con nessun'altra persona al mondo.
Presa dalla paura di dover ripetere ancora quella lite, Lexa mise in moto l'auto, dirigendosi dalla parte opposta a quella di casa. Guidò per dieci minuti, poi si fermò ad una piccola tavola calda, parcheggiò l'auto e prese un caffè da portar via. Si ritrovò a sorseggiare la bevanda in auto, osservando un punto indistinto davanti ai suoi occhi.
Non aveva ancora pensato alla sorpresa per Clarke. Forse delle rose, ma sarebbe stato stupido. E sdolcinato. E avrebbe ammesso le sue colpe, cosa che non era assolutamente nelle sue intenzioni. Controllò ancora il cellulare, zero notifiche. Nulla, non si era fatta sentire.
Lexa ripose il cellulare nella tasca dei jeans con un'altro sospiro, accese il motore della macchina e appoggiò il caffè bollente nel sedile passeggero. Decise che sarebbe passata da Anya, prima di fare ritorno a casa. Doveva calmarsi, schiarirsi le idee, prima di incontrare di nuovo Clarke.
Si diresse quindi verso la biblioteca di famiglia, nella quale Anya lavorava da alcuni anni. Non aveva voluto frequentare il college, da sempre allergica a qualunque tipo di studio, e così, aveva inizato a lavorare lì. Non era il suo lavoro dei sogni, ma , nonostante le sue lamentele, Lexa era sicura che quel posto le piacesse molto.
Parcheggiò sul retro, prese il caffè e uscì dall'auto, camminando sul marciapiede, per raggiungere l'ingresso principale.
Era Lunedì e la ragazza era praticamente sicura che quel giorno Maggie non lavorava, quindi ci sarebbe stata sicuramente Anya al bancone.
Quando entrò nel locale, il profumo di libri usati che aveva caratterizzato la sua infanzia, la inebriò. Lexa sorrise involontariamente, guardandosi intorno. Aveva trascorso così tanto tempo in quel posto, che lo conosceva a memoria. Ogni sfumatura, ogni piccolo particolare. Al contrario di Anya e Lincoln, Maggie non l'aveva mai dovuta costringere a rimanere lì, fra gli scaffali impolverati, a leggere un vecchio libro. Anzi. Quando usciva da scuola, non aspettava altro che fare i suoi compiti e poi rifugiarsi lì, fra le parole di qualche scrittore inglese o francese, magari. Le piaceva la letteratura horror, i gialli, ma soprattutto l'avventura. Aveva sempre preferito di gran lunga i libri alle persone. Loro non parlavano, non la costringevano a farlo a sua volta.
E dire, però, che la libreria di famiglia le ricordava anche il suo bacio, dato , quasi per sbaglio, ad una ragazzina qualche anno più grande, quando aveva quattordici anni. Lexa lo ricordava con un sorriso, ogni volta, per quanto doveva essere sembrata impacciata. Si chiamava Sally, se non ricordava troppo male.
“Guarda chi si vede” la voce di Anya la sorprese. Lexa ruotò su sé stessa e la vide, seduta a terra, fra le gambe una scatola di cartone stracolmo di libri. Li stava classificando, probabilmente, inserendovi il codice e infilandolo nello scaffale nell'ordine designato.
“Ehi” la salutò, avvicinandosi. Aveva ancora il caffè bollente stretto nella mano destra. Si sedette al suo fianco, lasciandosi andare ad un sospiro piuttosto rumoroso.
Anya le rivolse un'occhiata grave, continuando comunque il suo lavoro “Non troppo entusiasmo, Lexa, sto lavorando e potresti distrarmi”
La mora scosse la testa , facendole intendere che non era dell'umore per rispondere alle sue provocazioni. Appoggiò la schiena contro uno degli scaffali e incrociò le gambe. Prese un sorso di caffè “Credimi, è stata un giornata di merda”
“Oh, povera la nostra Lexy, cosa ti è successo di così terribile?” la prese in giro la sorella, in falsetto e con un piccolo ghigno sulle labbra. Attaccò al bordo del libro un'etichetta, osservando il lavoro soddisfatta, lo ripose nello scaffale. Lexa osservò distrattamente che si trattava di una vecchissima copia di Pride and Prejudice.
“Sono rimasta nel traffico per quasi un'ora, sono arrivata in ritardo al lavoro, ho un sacco di lavoro arretrato per i prossimi giorni, mi scoppia la testa...” Lexa si incupì, puntò lo sguardo sul cartone del caffè, sfiorandolo con il pollice “...E ho litigato con Clarke”
Anya fece una smorfia, in quel momento comprendo il motivo di quella brutta cera. Sapeva bene l'nfluenza che la bionda aveva sull'umore della sorella minore. Per quanto gli altri inconveniente della giornata potessero averla turbata, Lexa aveva quella faccia terribile, probabilmente solo per il litigio con Clarke. Anya roteò gli occhi “Oh andiamo” allungò il braccio, dandole una piccola pacca sulla spalla “Tu e la tua biondina farete pace. Come sempre”
Lexa non sembrò sollevata. Prese un'altro sorso di caffè “Questa volta non è una cazzata, Anya”
Anya alzò lo sguardo, puntandolo su quello pensieroso e abbattuto della sorella minore. Mosse la mascella a destra, poi, chiedendosi perché gli innamorati dovessero fare così tanti drammi. Conosceva lei e Clarke e avevano sempre messo a posto ogni discussione, anche le peggiori. Non c'era da preoccuparsi. Però, vedere così Lexa non le piaceva affatto. In fondo, era sempre la sua sorellina.
Si spostò , quindi, mettendosi seduta più vicino a lei. Le diede un piccolo pugno contro la spalla “Qual è il dramma?”
Lexa si leccò le labbra, prendendo un sospiro, quasi prese il coraggio per iniziare a parlare “ Ieri sera mi ha … chiesto di avere un figlio” disse semplicemente e Anya rimase con la bocca socchiusa. Okay, decisamente non se lo aspettava. Lexa la guardò di soppiatto, non stupita dalla sua reazione, perché sapeva che era stata anche la sua, la sera precedente.
“Cazzo, l'ha presa sul serio la storia di fare felice sua suocera”
Lexa annuì “Già” si morse la lingua, aveva quasi finito il suo caffè. Ne avrebbe avuto bisogno di almeno altri cinque, in realtà “E quando le ho fatto notare che non è il momento giusto, ha dato di matto. Non le ho detto di no, le ho solo fatto notare che non è il momento adatto” imprecò Lexa, prese l'ultimo sorso di caffè, poi lo poggiò a terra energicamente “ Insomma, lei è una cazzo di specializzanda, potrebbero licenziarla o chissà cos'altro. E lo stesso vale per me con il giornale, è un miracolo che ancora non l'abbiano ancora chiuso, in realtà. I figli hanno bisogno di uno stipendio fisso, un posto di lavoro sicuro e poi tutto il resto, la casa, la macchina e il fatto che ...”
“Te la stai facendo sotto, eh?” la interruppe Anya, piegando la testa di lato. Lexa la guardò negli occhi, per un attimo, incrociando il suo sguardo si sentì come bruciata. Lo stomaco le si rivoltò come un calzino e la sua reazioni fu di scattare in piedi, come una molla. “No! Non me la sto facendo sotto, affatto” Lexa alzò le braccia, gesticolando vistosamente. Possibile che nessuno usasse per un attimo il cervello? Nessuno che vedesse la cosa impossibile, come la vedeva lei? “Sono soltanto realista. Una delle due, in una coppia, deve esserlo. E Clarke , decisamente, non può ricoprire questo ruolo”
Anya si sistemò i capelli dietro all'orecchio. Lexa pensò fosse in procinto di dirle qualcosa che non le sarebbe piaciuto, perché strinse le labbre “ Il lavoro è importante, ma tu e Clarke lo avete. Diventerà un medico e tu troverai un giornale decente, quel bambino navigherà nell'oro da qualche anno”
“Non puoi esserne sicura”
“Puoi essere sicura di qualcosa, nella vita?” le chiese retoricamente, si mise in piedi, poggiandole ancora una mano sulla spalla “Senti, Lex', se davvero lo fai per questo, dovresti pensarci. Penso che se lo vuoi davveri davvero, il vostro lavoro non sia davvero un problema. O la casa o l'auto o qualsiasi altro” osservò Lexa fare una smorfia di disapprovazione e rannicchiarsi sul posto “Se invece il motivo fosse un altro, dovresti parlarne con Clarke. E smetterla di fartela addosso. Un bambino non ti ucciderà , ti toglierà il sonno e il sesso, ma sono quasi sicura che resterai tutta intera”
Lexa osservò il pavimento, ancora le parole di Anya, che si aggiungevano a quelle di Clarke, che rimbombavano nella sua testa. Non riusciva a credere di essere l'unica, a vedere quelle come difficoltà effettive. Era così strano? No, non lo era. Non lo era affatto. Volere un bambino, quando sarebbe stata assolutamente sicura di poterlo mantenere. Era semplicemente responsabile.
Incrociò le braccia, stringendosi poi nel suo cappotto scuro “Non sono stronzate, Anya, non lo sono affatto. Il problema non sono io. Avremo un figlio tra qualche anno e la questione è chiusa” tagliò corto, con voce decisa “Clarke può sbattere i piedi quanto vuole questa volta, so di aver ragione”
Anya scosse la testa, mentre la vide allontanarsi verso la porta in cui poco prima era entrata. Sua sorella era impossibile da muovere, quando rimaneva impantanata nelle sue dannate convinzioni “Dove stai andando?”
“A prendere del sushi” Lexa si aggiustò il cappotto, ancora con tono grave. Era decisamente infastidita dal fatto che sua sorella non concordasse con lei, ma anzi, desse ragione a Clarke “Così magari Clarke la smetterà di portare il broncio”
Anya la osservò uscire, senza alcun dubbio nervosamente, richiudendo la porta della libreria dietro di sé. Qualcosa le diceva che il sushi non avrebbe risolto un bel niente.
 
 
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Lexa rientrò a casa che erano appena passate le sette. Chiuse la porta dietro di sé, poi si sfilò la borsa a tracolla e , insieme al cappotto, l'appese all'appendiabiti lì accanto.
Nell'appartamento sembrava essere calato un silenzio tombale, non si poteva udire nemmeno il vociare della radio o della televisione accese. Il che era strano, considerato che difficilmente Clarke amava il silenzio, ragione per cui si circondava di qualche rumore, anche quando , in realtà, era impegnata in ben altre attività.
“Clarke?” chiamò Lexa, superando il piccolo corriodio d'ingresso e girando a destra, verso il soggiorno. Nessuno rispose. Era strano che se ne fosse già andata, il suo turno sarebbe iniziato la mattina seguente. Forse l'aveva cambiato, per evitarla. Quel pensiero le fece stringere lo stomaco. Ma non era quello che anche lei aveva fatto, quel pomeriggio? “Clarke?” chiamò di nuovo e questa volta, un rumore provenne dalla loro camera da letto. Lexa alzò gli occhi e la vide fare capolino dalla porta, incrociando il suo sguardo, ma senza che lei dicesse una sola parola.
“Ehi” la salutò lei per prima, allora, alzando la mano “Ho fatto tardi, ma avevo del lavoro arretrato in ufficio” mentì, non voleva dirle che aveva bisogno di calmare i nervi, prima di rivederla, dopo quella litigata.
Clarke annuì, non aggiungendo altro, sparì di nuovo dentro la stanza. Lexa sospirò pesantemente, appoggiando il vassoio del sushi sul tavolo lì accanto e raggiugendo lei stessa la camera da letto.
Le cose non sarebbero state facili, ne era sicura.
Quando Lexa entrò nella stanza, Clarke stava piegando alcune magliette appena lavate, riponendole in due cassettoni. Portava degli short grigi dai bordini bianchi e una vecchia maglia degli Artick Monkeys nera e bianca. I capelli biondi erano ancora umidi all'altezza delle punte, segno che non doveva aver finito una doccia da molto.
Lexa si avvicinò a lei, cautamente, arrivando a sfiorarle la schiena con il palmo della mano. La ragazza accucciata a terra, si irrigiì subito a quel contatto
“Sei ancora arrabbiata con me?”
Ok, forse la domanda non fu delle più azzeccate. Clarke si spostò di lato, rivolgendole uno sguardo eloquente. Ovviamente era ancora arrabbiata con lei.
“Oh andiamo” sospirò Lexa, spostandosi appena. Continuava a vedere quella storia come assurda. Era il modo in cui si comportava ad essere assurdo, in realtà “Possiamo fare pace? Ho preso il sushi. Il tuo preferito. Che ne dici di cenare davanti alla tv?”
Clarke prese un'altra maglietta fra le mani, le spalle le si irrigidirono, come se ogni parola dell'altra la innervosisse maggiormente “Non ho molta fame”
“Tu non rifiuti mai il sushi” le fece notare Lexa, ancora una volta si riavvicinò a lei. Era inevitabile, soprattutto cercando di fare pace. La loro attrazione era sempre stata impressionante, difficilmente, trovandosi vicine, le due riuscivano a non toccarsi. Anche solo piccoli tocchi, semplici carezze. Erano come calamite di poli opposti.
Clarke ancora una volta non rispose. Quei silenzi forzati iniziavano a diventare esasperanti per Lexa. Quasi preferiva quando le gridava in faccia. La frustrazione di Lexa cominciò a diventare rabbia, come ogni volta, quando non riusciva a mantenere il controllo o ad uscire da una situazione come quella.
“Hai intenzione di non parlarmi per il resto dei tuoi giorni?” le chiese, avvicinandosi a lei, questa volta, si appoggiò al cassettone alla quale Clarke stava lavorando, richiudendolo e piazzandosi praticamente davanti al suo viso.
“Forse” rispose Clarke, con tono schietto, stringendo le labbra “Almeno finché tu continuerai ad evitarmi rientrando tardi dal lavoro” sospirò “E pensando che del cazzo di sushi possa semplicemente bastare a zittirmi e a fare pace”
“Non ho fatto tardi per ...”
“Non hai mai lavoro arretrato il Lunedi, Lexa”
Lexa deglutì. La guardò negli occhi, senza parole, praticamente un'ammissione di colpe. Mentire a Clarke era davvero difficile, lo era sempre stato “Sono stata da Anya, volevo calmarmi per non tornare a casa e litigare di nuovo” confessò, stringendo la mascella.
Clarke alzò un sopracciglio a quella confessione, quasi non gliene importasse, quasi fosse ovvio e sapesse già tutto. Si tirò in piedi, aggiustandosi qualche ciuffo di capelli biondi dietro le orecchie, ancora nervosamente. Provò a superare la mora, che però le afferrò il braccio, tirandola a sé. Il suo corpo si strinse automaticamente a quello di Lexa, che era sempre stata più alta di lei di almeno due spanne. La mora le sfiorò la mano, con la punta delle dita “Mi dispiace per ieri sera. Odio litigare con te” le sussurrò Lexa e si abbassò appena, sfiorandole una guancia. Clarke la guardò negli occhi, non riuscendo a scostarsi, nonostante la rabbia che ancora provava nei suoi confronti, il contatto con il suo corpo l'aveva calmata, come in vano aveva provato di fare in tutta la giornata.
“Sai cosa non riesco a sopportare?” Clarke si morse la lingua, non abbandonando mai gli occhi di Lexa “Che tu non riesca a dire la verità alla persona che dici di amare più al mondo. Potresti dirmi ciò che provi veramente, che non ti senti pronta ad avere un figlio. Perché lo capirei, perché potremmo affrontarlo insieme, come abbiamo sempre affrontato qualsiasi cosa. Avremmo trovato una soluzione, ma non ti fidi di me, a quanto pare, non ti fidi di noi
Lexa sentì il cuore stringersi. Si sentì colpita, perchè , per un attimo, pensò che nelle parole di Clarke si sarebbe potuta celare un fondo di verità. Non le piaceva affatto ammettere di avere paura. Ma ,soprattutto, aveva la consapevolezza di aver ferito Clarke. E ferire Clarke, sapere di farla soffrire, era la cosa peggiore che la sua mente potesse concepire.
Ma poi , la parte più razionale di lei le ripeté che la paura non era nulla, che non fosse portato da ragioni razionali. Forse ne era stata un po' spaventata, ma solo all'inizio, e comunque, solo perché aveva valutato quelle variabili, quelle condizioni che nella loro vita non erano ancora ideali per diventare genitori.
“Non ho paura di avere un figlio” ripete Lexa, sussurrando, cercò di apparire più decisa di quanto non fosse.
“Smetti di pensare. Smettila per un attimo, fallo per me” Clarke aveva la voce rotta dal pianto. Sentiva ancora il corpo di Lexa, contro il suo “Ti amo, questo non è abbastanza?”
Lexa socchiuse gli occhi “Non puoi smettere di pensare, se stai progettando di diventare genitore, Clarke. Questo fa capire che non sei pronto”
“Crescere un bambino non si basa solo sui fatti o sulla razionalità!”
“Beh, di certo, quando avrà fame avrà bisogno di fatti. Di cibo. Che si compra con i soldi… quindi”
Clarke si scostò da lei, con uno sbuffo sonoro, così che lasciasse le presa su di lei. Si portò le mani al viso, incredula, sedendosi sul bordo del letto, ancora una volta. Non riusciva proprio a concepire il modo di pensare della ragazza.
Lexa sospirò con lei, strofinò i palmi delle mani sui jeans, nervosa, non sapeva davvero come gestire quella situazione. Avrebbe voluto rendere felice Clarke, lasciare libero quella picccolissima parte della sua mente, che le diceva che , forse, ci avrebbero potuto provare. Avrebbe potuto pensarci seriamente, non escluderlo a priori. Ma provare non è abbastanza, quando in ballo c'è una cosa importante come un figlio, non è così?
Lexa si accucciò, a ginocchioni, per raggiungere la stessa altezza dell'altra “Clarke, ti amo anche io, sai che ti amo. Ma a volte l'amore non basta. Prova a pensare, un attimo, razionalmente, mettendo da parte la tua voglia di diventare mamma. Pensaci”
“Io ho pensato. E vedo solo che tu” le puntò il dito, toccandole la spalla in maniera profondamente risentita “... tu , come sempre, metti sempre la testa davanti ai sentimenti. Come hai sempre fatto, da quando ti conosco, a qualsiasi costo” le disse, poi si alzò in piedi, non permettendole di aggiungere più una parola, perché uscì dalla stanza, proprio come la notte precedente, sbattendo la porta dietro di sé.
Lexa strizzò gli occhi, prese un respiro profondo, lasciandosi cadere a terra, con la schiena contro il letto e la testa fra le ginocchia.
 
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Clarke strinse gli occhi, ricacciando le lacrime all'interno, mentre si appoggiava al tavolo del salone, quasi senza forze. Per tutto il giorno si era ripromessa di restare calma, di non aggravare la situazione con Lexa, perché probabilmente, solo con la calma sarebbe riuscita a convincerla.
Ma poi aveva fallito, quando se l'era ritrovata davanti, con quella scusa banale del lavoro arretrato e le sue dannate convinzioni, non aveva potuto evitare di volerle gridare in faccia tutta la rabbia che tratteneva nel petto.
Ora la rabbia in parte si era trasformata in lacrime, che minacciavano di uscire dai suoi grandi occhi azzurri. Ma , un'altra parte, quella rabbia ancora le rombava nel petto e le impediva di pensare razionalmente e trovare la soluzione più saggia.
Ora, voleva seguire solo la soluzione che più avrebbe infastidito Lexa.
Quando Clarke sentì i suoi passi, giungere dalla camera da letto, si gettò sul divano, incrociando le gambe e prendendo fra le mani il telecomando e accendendo la tv. Lexa entrò nel salone e la vide, sbuffò sonoramente, visto che Clarke con il pollice aveva alzato il volume, non rivolgendole il minimo sguardo.
Lexa si scostò qualche ciuffo di capelli dalla fronte, prima di sedersi alla destra della bionda e sospirare ancora “Clarke” mormorò Lexa, con una mano si sfiorò la fronte, spostandosi sul ciglio del divano, per avvicinarsi meglio a Clarke e con le dita, sfiorarle le ginocchia.
Clarke continuò ad ignorarla ancora fissando la tv. Non la stava davvero osservando, ma rifiutava di darla vinta a Lexa e voltare la testa nella sua direzione.
“Sai, dovremmo fare pace e mangiare il nostro sushi” continuò Lexa, parlando con più calma possibile. Non ottenne comunque una risposta, così alzò il braccio verso il viso di Clarke. Lentamente il suo indice le sfiorò la guancia, percorrendone il perimetro del viso per qualche millimetro, ma non fece in tempo ad arrivare ad accarezzare i capelli biondi, che Clarke si scostò con freddezza. Lexa strinse le labbra “Clarke, è stata una giornata d'inferno, per favore“
Clarke rimase immobile, nonostante nello stomaco sentì un nodo stringersi maggiormente. Una parte di sé avrebbe semplicemente voluto abbracciare Lexa il più forte possibile. Avrebbe voluto sentire le sue braccia stringerla, come solo lei sapeva fare, e lenire quel senso di tristezza che non riusciva a far sparire in alcun modo. Ma dall'altro lato, Clarke ricordava a sé stessa che la causa della sua tristezza era proprio Lexa. Lexa e la sua dannata codardaggine.
“D'accordo, fa come ti pare allora. Continua con questa sceneggiata da ragazzina” Lexa si alzò di scatto dal divano, strinse i pugni dalla rabbia, mentre non toglieva gli occhi da lei “Sono stufa di correrti dietro. Non parlarmi se non vuoi, questa storia inizia a diventare assurda”
Clarke sentì , a sua volta, il sangue ribollirle nelle vene. Il comportamento arrogante di Lexa le aveva fatto perdere ogni briciolo di autocontrollo che l'aveva fatta rimanere lì, immobile. Questa volta la guardò, ma fu uno sguardo che letteralmente la fulminò“Sai, non ho intenzione di fare niente. Di non dire niente. Come hai fatto tu con me, ieri sera”
Lexa sorrise appena, un sorriso sarcastico ovviamente, portandosi le mani ai fianchi “Un comportamento molto maturo, complimenti. Continua a ricattarmi, come se avessimo dodici anni”
Clarke strinse gli occhi “ E quanto è maturo non riuscire ammettere di avere paura? Mh, Lexa?”
Lexa deglutì e sbarrò gli occhi, Clarke colse chiaramente per un attimo l'esitazione nei suoi occhi. Nell'attimo dopo, però, era già tutto sparito. Lexa strinse le labbra, scuotendo appena la testa “Non ho paura” ribadì, con voce ferma, sicura di sè “Questa è solo quello che dici tu per convincerti che la tua idea di avere un bambino sia giusta. Se tu iniziassi a pensare anche un momento a quello che ti ho detto, capiresti che ho ragione”
“E tu l'hai fatto? Hai cercato di valutare quello che ti ho detto io?” Clarke chiuse la bocca, in quegli istanti, mentre aspettava una risposta da parte della moglie. Digrignò i denti, quando la vide riabbassare lo sguardo ancora una volta, l'ennesima “No, infatti. Sei troppo piena di te, come sempre, per credere di aver sbagliato a reagire così, vero?”
“Non c'era bisogno di valutare quello che hai detto, Clarke”
“Ah no?” Clarke trattenne il respiro, inclinando appena il capo.
“No. Perché è chiaro che non siamo pronte ad avere un bambino! Tu per prima non lo sei, ma non riesci a vederlo. Forse potrai farlo, quando finalmente crescerai! Come puoi pensare di essere pronta ad avere un bambino, quando la vera bambina qui sei tu?” quasi gridò Lexa “ A volte mi sembra di essere sposata con una bambina di dieci anni!”
Seguirono secondi di silenzio. Nessuna delle due parlò. Lexa rimase immobile, gli occhi ancora puntati a terra si alzarono timidamente verso Clarke. La bionda mi morse l'interno della guancia così forte da sentire il retrogusto del sangue sulla lingua. Non riusciva nemmeno a pensare che davvero Lexa avesse detto quelle cose. Che avesse quella considerazione di lei.
Fu colta da nuova rabbia e sentì le mani pruderle. Avrebbe voluto colpire Lexa, spingerla. Avrebbe voluto girdarle così forte. Ma decise di non fare niente. Non avrebbe dato a Lexa il previlegio di sopportare una scenata e poi sentirsi in pace con sé stessa. Avrebbe dovuto sopportare cose ben peggiori.
Perciò Clarke deglutì, tirandosi su con il naso “Perfetto. Se è quello che pensi, non dovremmo nemmeno discuterne” disse, con voce bassa, prima di lasciare la stanza.
Lexa la osservò sparire dalla sua visuale, senza più dire una parola.

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Angolo Autrice:
 
Eccoci qui. Secondo capitolo di questa mini-long, che spero possiate apprezzare, quanto il primo.
Allora, avevo questo secondo capitolo già pronto, ma non riuscivo a pubblicarlo perché non mi convinceva troppo l'ultima parte... la litigata, ecco. L'ho aggiustata, spero che possa essere realistica e seguire più o meno i pensieri delle due protagoniste. Ecco, vorrei che fossero ben chiari, per capire anche le loro motivazioni, giuste o sbagliate che siano. Per quanto riguarda la mia opinione sulla questione, direi che la otterrete alla fine xD
Anyway capitolo che ritengo interessante ( E infinitamente lungo... chiedo perdono, so essere così prolissa...). Come era ipotizzabile, Lexa ha cercato di rimediare, ma non vuole certo cambiare la sua opinione... lo stesso vale per Clarke. EHHHH, bel problema.
Ho poi cercato di mostrarvi un pezzettino del passato di Lexa, almeno come lo immagino nella mia mente e spero che questa Lexuzzia super nerd, amante dei libri vi piaccia, almeno quanto piace a me. Nei prossimi capitoli esploreremo anche il passato di Clarke, vedrete, anche se spero di dedicare intere storie a questo argomento nei prossimi mesi.
E nulla, il terzo capitolo è già scritto in parte, esiste uno “scheletro” di esso, con dialoghi e avvenimenti, mancano descrizioni e particolari, poi sarà pronto. Indicativamente, prossimo Giovedì dovrebbe essere pronto.
Infine, vi ringrazio come sempre immensamente del supporto. Di tutte e cinque le ragazze che mi hanno lasciato una recensione, di chi mi ha fatto complimenti e di chi ha aggiunto la storia alle preferite/seguite. Apprezzo davvero moltissimo il vostro supporto.Spero possiate trovare il tempo di lasciarmi ancora vostre opinioni e pareri nelle recensioni...
A presto!

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