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di vivis_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** C'è posta anche al tramonto ***
Capitolo 2: *** 2. Il gioco è cominciato ***
Capitolo 3: *** Scoperte ***
Capitolo 4: *** 4. Un pessimo medico ***
Capitolo 5: *** L'uomo che mi ha salvato ***



Capitolo 1
*** C'è posta anche al tramonto ***


1. C’è posta anche al tramonto
 


Il detective Greg Lestrade era uno di quegli individui classificabili come “sposati con il proprio lavoro”. Lui stesso ne era consapevole e, a dirla tutta, nemmeno gli dispiaceva. Anzi, ormai lo considerava il suo epiteto, specialmente da quando il suo matrimonio, quello vero, aveva visto la sua fine dopo una lenta agonia. Nonostante il suo innegabile amore per Scotland Yard, quel pomeriggio fu comunque compiaciuto del fatto di riuscire ad essere sulla via di casa prima che il tramonto potesse imbrattare la grigia tela del cielo londinese con le sue tinte infuocate.
«Buon pomeriggio Rajiv!» salutò una volta entrato nella portineria.
Un omino dalla pelle bronzea fece capolino da dietro la porta scricchiolante del suo gabbiotto.
«Buongiorno Signor Lestrade» ricambiò il saluto con un sorriso gentile. «È tornato presto, oggi Londra ha fatto la brava?».
«Così sembrerebbe, ma non abbassiamo mai la guardia» rispose il detective strizzando l’occhio. «C’è posta per me?» chiese infine.
Il portinaio di origini indiane annuì energicamente e si voltò verso la parete alla sua sinistra. Quel lato del gabbiotto era organizzato in tanti piccoli scompartimenti quanti erano gli appartamenti del palazzo, all’interno dei quali il buon Rajiv smistava meticolosamente la posta che arrivava. L’omino alzò l’indice verso l’alto e lo fece scorrere da destra verso sinistra, affilando lo sguardo.
«12, 13… eccolo! Interno 14.» esclamò.
A cause della sua bassa statura dovette alzarsi sulle punte per riuscire a girare la chiave e aprire lo sportello della cassetta della posta di Lestrade. Ancora in equilibrio sui piccoli piedi, estrasse un paio di buste da lettera, tre buste leggermente più grandi di cartoncino marrone, una due con il timbro della polizia metropolitana e una anonima, e una cartolina proveniente dalle Canarie. Compattò poi tutto il materiale in una pila ordinata e la porse al detective attraverso la piccola finestrella del gabbiotto.
Greg ringraziò Rajiv con un cenno del capo e lo congedò con un sorriso amichevole.
Una volta nel suo appartamento, appoggiò la posta sul tavolo della cucina e si diresse verso il bagno disseminando cappotto, cravatta e indumenti lungo il tragitto. Aveva deciso che si sarebbe premiato con una lunga, lunghissima doccia calda e nessuno lo avrebbe distratto dal suo obbiettivo.

-

All’interno delle mura del Diogenes Club l’unico rumore consentito è quello del ronzio delle laboriose menti degli intellettuali che, seduti dietro le pesanti scrivanie in noce, si tengono costantemente aggiornati sulle ultime notizie dal mondo  leggendo meticolosamente i quotidiani del giorno. L’unico locale in cui fosse consentito parlare era l’ufficio di colui il quale, più di una volta, si era autodefinito “la personificazione del Governo inglese”: il Signor Mycroft Holmes.  
Il maggiore dei fratelli Holmes estrasse una prima edizione de ‘I Dolori Del Giovane Werther’, rilegata in pelle scura, dallo scaffale della massiccia libreria a muro, tanto grande da occupare un’intera parete. Tutto in quella stanza profumava di antico, se non fosse per la quasi totale assenza di polvere, dovuta all’ossessiva cura che Mycroft aveva di quel posto, si sarebbe potuto pensare che quella stanza fosse stata chiusa a chiave nel pieno dell’età vittoriana e mai più riaperta.  
Il capo dei servizi segreti britannici aprì il libro, delicatamente, in un punto a caso della storia. Conosceva a memoria il contenuto di quel romanzo epistolare, non occorreva che ricominciasse dall’inizio.
“Dalle montagne invalicabili fino ai deserti che nessun piede ha mai calpestato, fino agli estremi lidi dell'oceano ignoto, alita lo spirito dell'eterno creatore e si compiace di ogni pulviscolo che lo percepisce e vive...” le parole dello scrittore tedesco erano gentilmente accarezzate da un fascio di luce aranciata proveniente dalla finestra alle sue spalle. La romantica combinazione conferì all’atmosfera un ulteriore velo di letterarietà che compiacque Mycroft, fino a farlo sorridere impercettibilmente. 
L’improvviso bussare nervoso proveniente dalla posta d’ingresso, lo costrinse a destarsi da quella piacevole sensazione a cui si stava lentamente abbandonando.
«Avanti» disse allora riponendo il libro nello scaffale.
«Signor Holmes, la prego di scusarmi il disturbo.» un uomo canuto fece il suo ingresso nello studio, visibilmente turbato.
«Figurati George, di che si tratta?» chiese pacatamente Holmes.
«Mi è appena stata consegnata questa da un uomo dall’aspetto davvero inquietante, si è raccomandato di consegnarla a lei il più presto possibile.» spiegò mostrando l’anonima busta in cartoncino marrone che teneva sotto braccio. «L’ho già fatta controllare da Bart e pare sia sicura, niente traccia di esplosivo o veleno.» proseguì l’uomo, riferendosi al vecchio cane poliziotto che se ne stava perennemente acciambellato su un grosso cuscino appena fuori dall’ingresso del primo corridoio del Club.
«Definisci “inquietante”, George» richiese allora Mycroft, insospettito dall’ombra di agitazione che percorreva il volto dell’altro uomo.
«La sua voce, Signor Holmes, era lucida follia.» deglutì rumorosamente.
«George, non ho tempo per le tue metafore. Sii chiaro.» disse quasi spazientito mentre prendeva la misteriosa busta tra le lunghe dita.
«Non lo so Signor Holmes, sembrava un pazzo in un momento di lucidità, pronto a ricadere da un momento all’altro nella più completa follia.» spiegò allora l’uomo.
Mycroft non seppe cosa rispondere, si limitò quindi a congedare George con un rapido cenno della mano. Non appena la porta si chiuse, si sedette sulla poltrona in pelle nera e appoggiò la pesante busta sulle sue ginocchia, pronto ad aprirla.

-

Molly Hooper sapeva benissimo che quel giorno il suo turno si sarebbe prolungato certamente oltre l’orario di cena. C’era stato un incidente sulla statale due giorni prima e un pullman di linea si era ribaltato, aumentando sensibilmente il numero delle perdite umane, il che poteva significare solo una cosa per la giovane patologa: una lista di autopsie infinita. Fu per quel motivo che, prima di iniziare, aveva deciso di passare per la caffetteria ed ora camminava per i corridoio dell’ospedale con un enorme bicchiere di cartone stracolmo di amaro liquido nero.
Spinse la pesante maniglia antipanico con il gomito ed entrò in obitorio, rinvigorita dalla scarica di energia provocatagli dalla caffeina. Gettò il bicchiere nel cestino appena dopo l’ingresso e si sedette alla piccola scrivania per riesaminare la lista delle vittime e capire quali autopsia sarebbero state prioritarie da eseguire.
Il sole si era oramai quasi tuffato del tutto nelle acque del Tamigi e il buio imminente costrinse Molly a pigiare anche l’ultimo interruttore per non dover sforzare troppo la vista e avere la visuale più chiara possibile durante il lungo lavoro. Le fredde luci a neon si riflessero sui tavoli operatori tirati a lucido, portando all’attenzione della donna un insolito elemento: una busta, anonima.
Molly sbatté le palpebre, perplessa. Aveva già ritirato tutte le analisi tossicologiche e le cartelle cliniche delle vittime, non aspettava altre buste. Dopo qualche attimo di titubanza, pensò di essersi dimenticata qualcosa in laboratorio e che qualche anima gentile gliel’avesse riportata e si diresse così, a passo svelto, verso il tavolo operatorio sul quale era stata adagiata. Con sua grande sorpresa non trovò alcun timbro dell’ospedale, ma si decise ad aprirla comunque, più per curiosità ormai.
Stacco la linguetta che teneva chiusa la busta e la capovolse per riversarne il contenuto sul tavolo. Ciò che Molly pensava fosse un plico di fogli, dato il peso della busta, si rivelò, inaspettatamente, essere un tablet, e anche parecchio costoso, constatò la giovane patologa. Con la coda dell’occhio vide un piccolo rettangolo bianco volteggiare in aria, quindi si voltò rapidamente e lo afferrò tra due dita appena prima che toccasse terra. Sul pezzettino di carta era riportata la parola “Accendimi” e quattro cifre: 2348.  La situazione iniziava a turbare Molly, tanto che decise di dare una seconda occhiata al tablet prima di seguire le istruzioni che le erano state lasciate. Dopo pochi interminabili secondi lo schermo s’illuminò e comparve un tastierino numerico al di sopra del quale lampeggiava la scritta “inserire codice di sblocco”. Senza nemmeno riflettere recuperò il pezzettino di carta dalla tasca del camice e digitò le quattro cifre scrittevi sopra, lasciano una sottile impronta di sudore freddo sulla superficie ancora intonsa.
Codice di sblocco corretto, benvenuto.
Lo schermo diventò completamente nero e dall’apparecchio elettronico usciva solo il respiro regolare di qualcuno dall’altro lato di quella che, ipotizzò Molly, doveva essere una webcam. Un sottile fascio di luce proveniente da una torcia illuminò improvvisamente i lineamenti contratti di un viso frastornato e spaesato, un viso che la giovane donna riconobbe all’istante.
Il panico prese possesso del suo corpo e le gambe furono le prime a cedere sotto il peso del mondo che pareva crollarle addosso. Si accasciò a terra abbandonando la schiena contro una gamba del tavolo da autopsia, si porto la mano sulla bocca per soffocare i violenti singhiozzi.
Non è lui, cercò di convincersi inutilmente.
Non appena riuscì a recuperare quel minimo di lucidità che le consentisse di formulare frasi di senso compiuto, sfilò il suo smartphone dalla tasca del camice e fece scorrere le dita a ritmo frenetico sullo schermo fino ad arrivare alla lista delle chiamate rapide, selezionare il numero della prima persona che le era passata per la testa e premere l’icona raffigurante la cornetta verde.
«Pronto?» rispose la voce maschile dall’altra parte del telefono.
«Greg! Greg è successa una cosa terribile!» cercò di spiegare nonostante l’iperventilazione.
«Santo cielo Molly, calmati, spiegami bene cosa sta succedendo.» dall’altro capo del telefono,
Lestrade era ancora avvolto nel suo morbido accappatoio bianco, ansioso, fino ad un momento prima, di poter schiacciare un pisolino.
«Ho ricevuto…» l’ennesimo singhiozzo troncò la sua frase sul nascere, prese allora un profondo respiro cercando di calmare gli spasmi che le attraversavano il petto. «Ho ricevuto una busta oggi in obitorio, non so chi l’abbia mandata ma… c’era dentro un tablet e… oddio Greg!» la sua frase venne di nuovo soffocata dai singhiozzi.
«Una busta anonima hai detto?» il detective lanciò un occhiata al tavolo della cucina, dove una ventina di minuti prima anche lui aveva appoggiato una busta senza mittente.
«Sì. Greg, io… io credo che abbiano rapito Sherlock e John.» riuscì a dire Molly Hooper nonostante il nodo che aveva alla gola le rendesse difficoltoso persino respirare.
«Molly mi stai spaventando, seriamente.» disse Lestrade scattando in piedi.
La giovane patologa spiegò a Lestrade l’immagine di Sherlock che si metteva a sedere, totalmente spaesato, mentre la flebile luce di una torcia illuminava lui e una figura umana ancora sdraiata per terra: il corpo di John.
«Oh Greg, e se John fosse morto?!» si disperò Molly ormai in preda ad una crisi nervosa.
«Non essere sciocca Molly, loro sono loro. Non devono, non possono non essere vivi entrambi. È semplicemente fuori discussione.» sentenziò l’uomo.
«Dobbiamo fare qualcosa Greg. Dobbiamo avvertire Mycroft.» strinse convulsamente il telefono, se non fosse stata così minuta, probabilmente avrebbe polverizzato lo schermo.
«Credo che non sia necessario.» rispose Lestrade dopo qualche attimo di silenzio.
«Ma cosa dici?! Perché non dovremmo avvertire il fratello di Sherlock.»
«Perché è appena entrato nella mia stanza, forzando la serratura. Penso che anche lui abbia ricevuto la nostra stessa busta.» annunciò. 

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Capitolo 2
*** 2. Il gioco è cominciato ***


2. Il gioco è cominciato


Sherlock Holmes spalancò gli occhi verdi, spaesato.
Il buio che lo circondava era così fitto da sembrare un denso liquido nero, simile al petrolio.
Dove sono? Si chiese il genio senza ricevere la risposta immediata che si aspettava dalla sua fredda mente calcolatrice.
Cercò di mettersi seduto, ma non appena sollevò la testa dalla fredda superficie sulla quale era poggiata, una scossa di dolore gli attanagliò le tempie, sentendosi come se una lancia gli stesse trafiggendo il cervello da parte a parte. Riadagiò il capo al suolo e, cercando di muoversi il meno possibile, allargò i palmi per sondare lo spazio che lo circondava. Le lunghe dita tastarono un oggetto di forma cilindrica all’altezza del suo fianco destro e si avvolsero intorno a quest’ultimo, afferrandolo con cautela. Un volta sollevato, Sherlock chiuse il misterioso oggetto tra i due palmi capendo, finalmente, di cosa si trattasse. una torcia.  
Una volta individuato il tasto di accensione, lo premette senza ulteriori indugi.
Puntò il flebile fascio di luce verso destra, dove venne bloccato da una sagoma che riconobbe subito. Si trattava della manica di un cappotto nero, con un polsino in lana leggermente liso dal quale sbucava una piccola mano che giaceva immobile sul pavimento appiccicaticcio.
John.
Il consulente investigativo, l’unico al mondo, lasciò cadere la torcia e, puntellandosi sui gomiti, sollevò la schiena da terra cercando di ignorare una seconda e violenta fitta alla testa. Si sporse verso destra ma un violento capogiro lo colpì inaspettatamente facendolo letteralmente ricadere sul corpo inerte del suo amico e coinquilino.
«John?» lo chiamo con un filo di voce, era così vicino al suo viso da riuscire a scompigliargli i sottili capelli biondi ad ogni respiro che faceva.  «John, per l’amor del cielo, svegliati.» lo richiamò, quasi implorandolo, dopo qualche istante di preoccupante silenzio.
Non gli passo per la testa nemmeno per un secondo che potesse essere morto, la sua geniale mente si rifiutò persino di prenderlo in considerazione. Afferrò il cappotto dell’amico e lo scosse con impeto.
John schiuse gli occhi, lentamente, come se le sue palpebre pesassero come macigni. Le iridi blu del dottore schizzavano a destra e a sinistra, annaspando alla ricerca di spiegazioni.
Il genio tirò involontariamente un sospiro di sollievo, per poi ricomporsi, assumendo la sua tipica espressione da uomo-robot.
«Sherlock, grazie sei vi…» la frase del dottor Watson fu bruscamente interrotta da un rantolo di dolore. «Dio! La gamba, mi fa un male infernale!» disse a denti stretti per evitare di liberare un urlo di dolore che, probabilmente, avrebbe potuto far tremare le pareti.
«John, non ho tempo per i tuoi dolori psicosomatici, sto cercando di capire dove diavolo siamo finiti.» lo rimproverò Sherlock, che nel frattempo si era messo seduto a gambe incrociate, pronto a mettere alla prova le sue capacità deduttive. Aveva appena scartato tre delle cinque ipotesi che aveva formulato da quando si era svegliato, quando fu di nuovo interrotto.
«No, no, Sherlock non è psicosomatico» si sentirono le unghie del dottore stridere contro il pavimento. «Io… io credo di avere qualcosa nella gamba.» disse infine cercando di fare respiri profondi.
Sherlock sentì lo stomaco stingersi in una morsa e, senza nemmeno rendersene conto, stava già strisciando sulle ginocchia per raggiungere l’amico. Impugnò la torcia puntandola verso John.
«Dio santo…» le parole uscirono dalle labbra del genio come il sibilo di un serpente che si sente minacciato. C’era un lungo gancio metallico arrugginito impiantato nella coscia del suo migliore amico, l’unico amico che aveva, l’unica persona che aveva deciso di tenere al proprio fianco. Alla vista di quella tremenda ferita lo stomaco si strinse ulteriormente quasi volesse arrotolarsi su se stesso, ma non era senso di nausea, quello che provava. Era stato su decine e decine di scene del crimine, aveva esaminato cadaveri martoriati con le più macabre modalità, quindi al suo occhio esperto una ferita del genere equivaleva sì e no ad una sbucciatura al ginocchio dopo una caduta in bicicletta. Era panico quello che sentiva, panico e impotenza.
La scena che si trovava davanti era tutta sbagliata. Non era lui che si prendeva cura di John, era John che salvava la vita a lui, sempre. Era John che si preoccupava di ascoltare i suoi lamenti silenziosi, le sofferenze inespresse sapendo esattamente cosa fare per alleviarli. Era John l’eroe, non lui.
«Quanto è grave?» chiese allora John. Non aveva ancora avuto il coraggio di voltare il viso verso la fonte del suo dolore.
Sherlock sbatté le palpebre velocemente, cercando di scrollarsi di dosso l’ansia che tentava di celare dietro il viso pallido e che, di certo, non lo avrebbe aiutato a risolvere quella situazione. Non poteva essere un angelo custode come lo era John, ma decise che si sarebbe preso cura di lui.
Sherlock non era un eroe, aveva giurato a se stesso che non lo sarebbe mai diventato, ma per John avrebbe fatto un’eccezione. John era sempre stata l’eccezione.
Si avvicinò alla ferita. Affilò lo sguardo, notando come la quantità di sangue fosse stranamente esigua per una lesione di tale entità: ciò poteva significare solo una cosa.
«Hai un corpo esterno conficcato nella gamba destra. Dall’assenza di una emorragia venosa, deduco che possa essere penetrato tanto da riuscire ad intaccare l’arteria femorale ed ora, ironia della sorte, quel corpo esterno è l’unica cosa che ti impedirà di morire dissanguato.» il genio si schiarì la voce. «Quindi John per nessuna ragione al mondo devi estrarlo, perderesti…»
«Per l’amor del cielo Sherlock, sono un medico. So cosa succede se si perfora la stramaledetta arteria femorale!» esclamò il dottor Watson sull’orlo di una crisi isterica.
Sherlock si sforzò di mantenere un’espressione neutra, nonostante fosse stato colto di sorpresa dalla reazione dell’amico. Tornò ad esaminare la ferita, stando attento a non avvinarsi troppo, come se avesse paura di poter provare lo stesso dolore dell’amico.
«Scusa Sherlock io non…» sopirò passandosi una mano sul volto.  «Voglio solo uscire da qui.» disse esausto.
«Usciremo John.» sentenziò Holmes «Giuro che ti porterò fuori da questa maledetta cella frigorifera.»
Il biondo volse il viso verso l'amico, distraendosi per un attimo dal dolore.
«Una cella frigorifera? Sicuro?» chiese alzando un sopracciglio.
«L’ex cella frigorifera di un vecchio macellaio, venuto sfortunatamente a mancare qualche settimana fa, per essere precisi.»
«E da cosa hai dedotto il fatto che ci troviamo in una cella frigorifera di un vecchio macellaio ora deceduto?» chiese allora mimando il gesto delle virgolette. Il movimento delle braccia, seppur minimo, gli causò l’ennesima scarica di dolore che lo colpi come una pugnalata alla base della spina dorsale. Cercò di dissimulare la smorfia dolorante dietro un sorriso tirato, odiava vedere quella ruga di preoccupazione tra le rade sopracciglia di Sherlock.
«Semplice: c’è una serpentina che ricopre il soffitto dentro alla quale scorreva il del liquido refrigerante, quindi questo posto è stato concepito per rimanere al fresco. In secondo luogo ci sono quelle…» Sherlock sollevò la torcia illuminando due lunghe sbarre metalliche situate proprio sopra le loro teste, che attraversavano la cella da parte a parte. «Sono utilizzate per appendere grossi tagli di carne o carcasse di piccoli animali, grazie a dei ganci metallici. I ganci sono vecchi, sono stati utilizzati talmente tanto da aver quasi perso la loro forma uncinata per via del peso che dovevano reggere: ecco perché uno di essi ti ha trafitto la gamba quasi fosse un pugnale.» proseguì indugiando per qualche istante sulla ferita di John «Poi lui, il macellaio. Questa cella riparata manualmente in più punti, vedi quel nastro isolante sulla serpentina?»
John annuì.
«Bene, indica quanto ci tenesse al posto, ma gli mancavano i mezzi economici per poter comprare una cella frigorifera nuova. Il che, che già di per se potrebbe indicare una persona in età avanzata, probabilmente sola, ma la conferma mi arriva dal fatto che questo posto sia inutilizzato da almeno tre settimane, ma non è stata ripulita né sistemata, probabilmente è stata venduta all’asta. Un proprietario così scrupoloso non avrebbe mai venduto il posto in cui a lavorato per una vita senza nemmeno pulirla, quindi lo sfortunato titolare deve essere venuto a mancare senza lasciare eredi.» spiegò Sherlock, vomitando informazioni ad una velocità tale che persino John, nonostante tutto il tempo passato insieme, faticava a stargli dietro.
Il dottore schiuse leggermente le labbra. Erano cambiati tanto, lui e Sherlock, da quando erano diventati coinquilini: lui aveva imparato l’arte della Santa Pazienza e Sherlock aveva addirittura comprato un congelatore a parte per far si che le carote, di cui John andava ghiotto, non stessero vicine a parti di cadavere da utilizzare nei suoi esperimenti dalla dubbia scientificità. Aveva imparato ad apprezzare il suono del violino ad orari in cui qualsiasi rumore andrebbe vietato per legge e Sherlock quello delle dita che scrivono a ritmi forsennati su una tastiera, eppure lo stupore che il Dottor Watson provava ogni qualvolta il suo migliore amico si cimentasse nelle sue deduzioni era rimasto quasi immutato.
«Fantastico? Lo so.» disse il genio trattenendo a stento un sorriso compiaciuto.
Una risata sommessa vibrò nel petto di Watson.
Cambiato sì, ma non troppo, pensò con dolcezza fraterna. Ancora non aveva finito di formulare quel pensiero quando notò l’espressione del suo migliore amico cambiare in maniera repentina. Lo vide affilare lo sguardo glaciale fino a ridurre i suoi occhi a due sottili scorci di mare nordico.
«Che c’è?» gli chiese allora.
«C’è qualcosa su quella parete.» rispose impassibile.
«Qualcosa, tipo?»
Il genio ignorò completamente il suo amico e, sorpassandolo si diresse verso la parete di fondo.
«Sherlock, parlami!» esclamò il medico, frustrato.
«C’è una telecamera.» constatò il genio, parlando più per se stesso che non per rispondere alle richieste dell’amico.
«Una telecamera?!»
Sherlock illuminò l’apparecchio elettronico, fissato al muro con quattro viti, condividendo così la propria scoperta con John che, a fatica, riuscì a voltarsi. «Ci sta guardando.» disse infine abbassando la torcia.
«Che razza di psicopatico» fu l'unica cosa che il medico riuscì a commentare.
« Credo che sia più corretto definirlo un sadico o un voier » precisò Sherlock abbassando la loro fonte di luce.
«Sherlock, per l'amor del cielo, non mi sembra il momento più adatto per discutere su quale strana malattia mentale abbia il bastardo che ci ha messo qui dentro! »
«Suppongo che tu abbia ragione» Sherlock fece per tornare al fianco di John, quando incespicò in un misterioso oggetto appoggiato a terra.  Egli infilò allora la torcia sottobraccio e piegò le lunghe gambe, sollevando da terra una pesante busta in cartoncino spesso.
«Ma che diavolo è?» chiese il medico aggrottando le sopracciglia.
Sherlock prese posto accanto a John. Il tiepido contatto con la spalla dell’amico, innescò un piacevole contrasto con il freddo muro al quale poggiava la schiena, allentando per qualche istante la tensione muscolare del consulente investigativo. Per quel brave lasso di tempo la sua infallibile mente si ingannò, pensando di trovarsi altrove, tra le polverose e accoglienti pareti del 221B di Baker Street.
«Scopriamolo» sentenziò. Con le lunghe dita estrasse un tablet nuovo di zecca sul quale era appiccicato un post-it giallo, sul quale vi erano scritti i numeri “7-4-3-7”. Sotto lo sguardo vigile del suo coinquilino, pigiò il tasto di accensione e, insieme attesero.
 
Inserire codice di sblocco:
***7
Codice di sblocco corretto, benvenuto.
 
Sulla schermata iniziale vi era solo un file: un video.
Sherlock scambiò una breve occhiata con il suo migliore amico, il quale annui debolmente a mo’ di incoraggiamento. Ancora faticava a capire perché, nonostante la sua mente capisse tutto nel giro di pochi attimi, egli ricercasse sempre approvazione di John. Gli dava sicurezza, come se un cenno del capo o una pacca sulla spalla potessero renderlo invincibile.
Senza ulteriori indugi, fecero partire il video. Sullo schermo vi era il profilo nero di un comune manichino, uno di quelli che si vedono nelle vetrine di quel genere di negozi che Sherlock evitava come la peste. Per qualche secondo vi fu solo un ronzio elettronico, poi una voce metallica, palesemente distorta, fuoriuscì dalle casse del tablet disperdendosi nello spazio circostante sottoforma di piccole vibrazioni.
 
Sherlock Holmes, mio caro Sherlock.
Perdonami la confidenza, ma ormai ti ho studiato così tanto e so così tante cose su di te che è come se ti conoscessi da una vita.
Ma non divaghiamo, veniamo al dunque.
Sei in gabbia, Sherlock Holmes. Strano, vero? Essere quello che viene catturato.
Lo so, lo so penserai che io sia uno di quelli che ce l’ha a morte con te perché sbatti in gattabuia quelli cattivi come me, ma non è così Sherlock, io ti ammiro. E proprio perché ti ammiro, voglio darti la possibilità di farti venire a prendere da quell’incapace di Lestrade e da quel presuntuoso pallone gonfiato di tuo fratello. Le regole sono semplici: se risolvi l’indovinello, capirai dove ti trovi e a quel punto io non impedirò a nessuno di venirti a recuperare.
L’indovinello è questo:
 
Ci sono due fratelli: uno mangia tanto quanto gli viene dato, ma non è mai sazio. Il secondo va via e non torna mai, e non sarebbe mai potuto esistere se non ci fosse stato l’altro. Il primo dei due distrusse la casa di Prospero e Miranda, di Otello e di Giulio Cesare. Ma è dove nacque il padre di questi ultimi che a noi interessa, un posto dove da sempre vive l’acerrimo nemico del fratello distruttore.
 
Spero sia degno di stuzzicare la tua brillante mente, ma ora ti devo lasciare. Se i miei calcoli sono esatti, non dovrebbero restarti più di 10 ore di aria, quindi sarà il caso che io ti lasci riflettere.
 
The game is on, Sherlock.




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Buonsalve a tutti,
non ho voluto scrivere nulla né prima né dopo ill primo capitolo perchè volevo che esntraste direttaemente nell'atmofera della storia senza troppi preamboli. Mi fa un immenso piacere vedere che ha stuzzicato la curiosità dei "miei" primi lettori, spero solo di non aver deluso le vostre aspettative ora che anche i due protagonisti principali sono entrati in gioco (o nel gioco). 
Vi mando un bacio grande e ringrazio tutti coloro che hanno letto e recensito lo scorso capitolo,

Vivi
xx

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Capitolo 3
*** Scoperte ***


3. Scoperte

 

«Mi pare ovvio che in qualche modo c’entri Shakespeare» sentenziò Sherlock.
«Conosci Shakespeare?» chiese Watson, ormai troppo distratto dal dolore per poter nascondere la punta di stupore nella sua voce.
«Chi non conosce Wallace Shakespeare?» il genio inarcò il sopracciglio. «la poca fiducia che riponi nelle mie conoscenze quasi mi offende.»
«Sherlock, non sapevi che la terra girasse intorno al sole. E comunque è William Shakespeare.» precisò John.
«Per l’amor del cielo John, il nome non è fondamentale. È conoscere il proprio nemico, quello che conta.»
John sbatté le palpebre perplesso. «E in che modo Shakespeare sarebbe tuo nemico.»
«Non Shakespeare… Mycroft!» il genio fece una breve pausa durante la quale i lineamenti del suo viso di porcellana si contorsero in una smorfia infastidita dovuta ad una serie di ricordi che in quel momento stavano attraversando il suo brillante cervello. «Lui e la sua ridicola ossessione per la letteratura mi hanno perseguitato per tutta l’adolescenza. Ma dovevo studiare e capire di cosa andava blaterando prima di poter dimostrare di essere migliore di lui anche in quello che era a lui più congeniale.»
John trattenne a stento un sorriso incredulo, faticava a capacitarsi di come da una mente tanto prodigiosa potessero scaturire ragionamenti tanto infantili. Ma lui era Sherlock: se sceglievi lui, sceglievi tutto il pacchetto. John lo aveva scelto la prima volta che aveva messo piede al 221B e ogni minuto che passava era sempre più convito che non si sarebbe mai pentito di quella scelta.
«Per Dio! Odio gli indovinelli, li ho sempre odiati. Mi irritano!» nel momento esatto in cui il video era terminato, Sherlock aveva adagiato il tablet in grembo al suo amico e da quell’istante non aveva smesso un secondo di camminare nervosamente avanti e indietro con lo sguardo incollato al terreno, come se sperasse di trovare la soluzione all’enigma su quel pavimento sudicio.
​Si leggeva il panico in qualsiasi movimento facesse, chiunque lo conoscesse avrebbe fatto fatica a riconoscerlo. John decise che non avrebbe sopportato quella situazione un solo minuto di più. Non poteva vedere il genio del suo migliore amico svanire, sommerso da una situazione tanto umana. Gli afferrò la parte inferiore del cappotto con la poca forza che riuscì a racimolare. Il movimento brusco innescò un rantolo di dolore che, questa volta, non riuscì trattenere. Strinse il lembo di feltro tirandolo debolmente verso di sé.
«Sherlock, ti prego, siediti qui accanto a me e calmati.» lo implorò, sentendosi esausto.
Il consulente investigativo afferrò il polso del suo coinquilino, indeciso se spingerlo via bruscamente o se ascoltare le sue preghiere. Stava per liberarsi della presa di Watson, quando incontrò le sue iridi grigie, flebilmente illuminate dalla luce della torcia che rifletteva sul pavimento, e vi lesse dentro quanto egli avesse bisogno di lui, quanto la sua lucidità fosse ormai l’unica sicurezza a cui aggrapparsi. Sherlock lasciò cadere la torcia e l’immagine di quegli occhi contornati da profondi solchi violacei scomparve nel buio. Si prese il viso tra le mani e si massaggiò le tempie fino a recuperare il pieno controllo della sua mente e tornò lentamente a sedersi di fianco a John, ma quella volta cercò volontariamente il contatto con la sua spalla.
John lasciò ciondolare la testa fino a quando non incontrò il tessuto quasi ruvido del Belstaff del suo coinquilino, per poi accoccolarsi sulla sua spalla. Sherlock serrò la mascella, facendo gonfiare leggermente le guancie spigolose. Era ormai un riflesso incondizionato che il genio aveva sviluppato come reazione ad ogni contatto fisico, seguito, il più delle volte, dall’impulso di i scappare il più lontano possibile da chi lo aveva toccato. Ma invece di scattare in piedi fingendo indifferenza, come avrebbe fatto con chiunque altro, Sherlock Holmes chiuse gli occhi. Dietro le palpebre la sua mente proiettò le immagini di un ricordo non troppo lontano.

Ancora non capiva come John lo avesse convinto a guardare “I’m A Celebrity Get Me Out Of Here”[1], eppure era lì, seduto sul divano a gambe incrociate. Accanto a lui, il suo migliore amico che tentava di spiegare chi fossero i protagonisti del reality.
«Vedi quella è Rebecca Andlington, ha vinto il bronzo nel nuoto alle Olimpiadi» diceva indicando una bionda con le spalle larghe.
«Oh e quello è Bennet Miller, recitava in una serie crime. “Delitti in Paradiso” credo si chiamasse. La signora Hudson ne va matta.» aveva poi detto puntando l’indice contro un altro sconosciuto intento a cercare di rompere una noce di cocco con un grosso sasso.
«Che titolo stupido» aveva commentato allora il genio. «il paradiso non esiste.»
Il medico si era limitato ad alzare gli occhi al cielo. Il turno in ambulatorio era stato sfiancante quel giorno, infatti non passò molto tempo prima che le palpebre iniziassero a pesare come incudini. Alle 22’30 John fu costretto ad arrendersi al potere seduttivo di Morfeo, crollando, letteralmente, addormentato con la fronte contro la vestaglia di raso blu del suo coinquilino. Anche quella volta i muscoli di Sherlock si irrigidirono automaticamente, trasformando i suo corpo in un unico blocco di marmo. L’unica cosa che fu in grado di fare, fu ruotare le proprie iridi glaciali verso il viso rilassato di John, come se sperasse di poterlo scansare con un’occhiata.
Per la prima volta notò come le sopracciglia di John fossero curiosamente folte per essere così chiare. Percorse con lo sguardo l’irregolare curva della sua guancia, fino a giungere alle labbra sottili, leggermente schiuse. La piccola fessura tra il labbro superiore e quello inferiore scompariva e riappariva seguendo il ritmo lento e regolare dei suoi respiri. Ne contò quindici prima di rendersi conto si come il suo petto fosse invaso da un morbido tempore che dal centro si irradiava per tutto il corpo. Fu come se il suo cuore, o qualsiasi altra cosa dimorasse nella sua cassa toracica, si stesse sciogliendo come roccia nelle viscere della terra. Per la prima volta provò l’irrefrenabile impulso di voler accarezzare il viso di qualcuno. La sua mano destra era attraversata da piccole scosse che la facevano contrarre quasi impercettibilmente. La sollevò con cautela, facendo attenzione a non compiere movimenti troppo bruschi, che avrebbero potuto svegliare John, e la portò verso il volto dell’amico. Sentì una forza magnetica percorrergli le dita, come fossero delle affusolate calamite bianche. I suoi polpastrelli fremevano curiosi, quasi affamati, di sfiorare delicatamente quella pelle che, colpita dal riflesso bluastro della TV, sembrava ora così liscia e opaca, come un vaso in terracotta.
Le dita del genio si trovavano ormai ad un respiro di distanza dalla gota sporgente di Watson quando questi si mosse infossando ancora di più il viso tra la spalla del suo migliore amico e lo schienale del divano.
Sembra quasi che voglia infilarsi sotto il mio braccio, aveva pensato.
Sherlock si sentì improvvisamente sopraffatto da tutte quelle nuove sensazioni, che ancora faticava a comprendere. Ritrasse le dita, raggomitolandole nel pugno pallido e si scansò bruscamente lasciando così ricadere John a peso morto sul divano.


«Il fuoco.»
La voce del dottor Watson era flebile, ma fu su sufficiente per catapultare Sherlock di nuovo nella realtà.
«Cosa hai detto?» chiese schiarendosi la voce, mentre quel ricordo ancora rendeva Sherlock inquieto.
«Il fuoco è il primo fratello.»

-

«Okay, grazie.» il detective Lestrade chiuse la chiamata e scaraventò il telefono contro la parete del suo ufficio. Incapaci, ecco cosa siete! Fu quello che realmente avrebbe voluto dire alla squadra mobile che, insieme ad altre dodici, stava setacciando tutti i quartieri di Londra alla ricerca di Sherlock Holmes e John Watson.
Dove sto sbagliando? Continuava a chiedersi passando la mano ormai costantemente inumidita da sudore freddo tra i capelli brizzolati. Camminava avanti e indietro senza sosta buttando, di tanto in tanto, un occhiata verso il tablet appoggiato sulla scrivania per cogliere tempestivamente qualsiasi suggerimento potesse venire dai due ostaggi. Le parole del direttore della polizia metropolitana gli ronzavano in testa, fastidiose come zanzare nelle orecchie. Se si dovesse arrivare a negoziare con il rapinatore ricordatevi che la priorità è Holmes, se deve esserci un danno collaterale sarà necessario sacrificare il dottore, tutto chiaro? Holmes ci serve. Lestrade avrebbe voluto obbiettare, ma sapeva che ai piani alti non avrebbero capito. Quella mandria di burocrati non avrebbe saputo guardare oltre il loro naso incipriato, la loro ottusità era tale da non accorgersi del fatto che John servisse a Sherlock tanto quando Sherlock servisse a Scotland Yard.
Il cigolio metallico della porta del suo ufficio interruppe il continuo frusciare dei documenti e delle cartelle che Lestrade stava lanciando in aria, in preda alla disperazione più nera.
​«Greg?» la voce di Molly Hooper era ormai rotta dai numerosi pianti, che continuavano a susseguirsi con intervalli sempre più brevi. Gli occhi da cerbiatto erano cerchiati di rosso e dallo chignon realizzato attorcigliando gli spessi capelli color miele attorno ad una matita,spuntavano  alcuni ciuffi ribelli che le lambivano il colletto del camicie che, nella fretta di raggiungere la centrale, non si era ancora tolta.
«Mi sento perso, Molly.» disse il detective sospirando. «Senza di lui, senza loro io… sono perso.»
Prese il tablet tra le mani e si mise e abbassò lo sguardo su di esso, senza però prestare davvero attenzione a quello che stava guardando.
“Il fuoco?”
“Sì, Sherlock è un indovinello per bambini: il fuoco mangia la legna, finche gli dai legna lui magia”
“E il secondo?”
“Il fumo. Non c’è fumo se non c’è…”
“Fuoco”

Lestrade non capiva cosa di cosa stessero discutendo, ma da quando avevano trovato anche loro un tablet, non facevo altro che blaterare riguardo a indovinelli, fratelli e Shekespeare. Gli sembrava di guardare una pellicola cinematografica logora, dove i discorsi degli attori venivano distorti tanto da farli apparire sconclusionati e senza senso.
«Greg…» la giovane patologa di schiarì la voce per renderla più ferma.
«Non riesco a non pensare a come l’unica persona che potrebbe mettermi sulla strada giusta, che potrebbe dirmi in cosa sto sbagliando, sia rinchiusa chissà dove e che l’unica persona che avrebbe saputo come aiutarmi per trovarlo è rinchiuso insieme a lui.» disse tutto d’un fiato. Tirò un calcio alla sedia dietro alla sua scrivania.
«Per l’amor del cielo Greg! Così non aiuti nessuno.» lo rimproverò con un tono tanto deciso da suonare strano persino a se stessa.
L’uomo si immobilizzò per qualche secondo, per poi lasciarsi cadere per terra.
«Hai ragione Molly.» disse portandosi le ginocchia al petto.
La ragazza si inginocchiò di fronte al detective. Posò le piccole mani sulle ginocchia di Lestrade che, sentendosi sempre più impotente, alzò il capo.
«Non devi sminuirti così, Greg. So che li troverai.» si forzò di regalargli un sorriso rassicurante.
«Se anche dovessi trovarli, potrei non riuscire a salvarli.»
«Cosa vuoi dire?»
«Ai piani alti sono pronti a sacrificare John, in caso di negoziazione. A loro interessa solo Sherlock.»
«Questo non succederà, perché li porterai a casa entrambi. Sani e salvi.»
«E se dovesse succedere?»
«Non lo permetterai, lo so che non lo permetterai.» sentenziò Molly, sfiorando la guancia di Greg con il pollice sottile, facendo sfumare così la lacrima che gli rigava la guancia.
Lestrade si mise in ginocchio avvolse timidamente le braccia intorno alla vita della giovane donna. Lei si abbandonò sulla sua spalla e affondò il viso nel colletto della camicia di lui. Dopo pochi istanti Greg la sentì mentre cercava di reprimere i singhiozzi, strinse leggermente l’abbraccio attirandola a sé fino quando non riuscì ad appoggiare il mento sulla morbida curva della sua spalla. «Grazie Molly, per la fiducia che hai sempre in tutti noi.» le sussurrò, improvvisamente rinvigorito da quell’abbraccio. Lei non rispose, si limitò ad aggrapparsi alla giacca gessata del detective e lasciare che quel suo ennesimo pianto si consumasse tra le braccia di un amico.

-

Sherlock mise la torcia a terra, appoggiandola alla parete della cella frigorifera, in modo tale che il sottile cono di luce potesse espandersi fino a riuscire ad illuminare buona parte dello spazio circostante. Iniziava a fare caldo, troppo, secondo i suoi calcoli. Si passò il dorso della mano sul labbro umido di sudore. Non potevano essere chiusi li dentro da più di due ore, anche se non poteva sapere quanto tempo avessero realmente passato addormentati, ma in ogni caso, se il tempo a loro disposizione fosse stato davvero di dieci ore, l’ossigeno stava diminuendo davvero troppo velocemente. Si sfilò velocemente il Belstaff blu scuro e lo appese ad uno dei ganci per carne rimasti appesi alle aste di metallo.
Watson sorrise dolcemente del vedere come Sherlock si rifugiasse nelle piccole, poche certezze che aveva quando si sentiva sotto pressione. La cura meticolosa per quel cappotto, la musica del suo violino, controllare quello che scriveva John sul suo blog credendo che lui non se ne accorgesse… lo aiutavano a pensare, ad aprire le porte del suo palazzo mentale.
«John?»
«Dimmi Sherlock.»
«Perché, prima, eri sollevato dal fatto di vedermi vivo?» chiese il genio sistemandosi il colletto della camicia grigia come se stesse fosse impegnato in una tranquilla conversazione davanti ad una fetta di apple pie di Speedy’s. «Insomma, perché non avrei dovuto esserlo?»
«Quando sono rientrato a Baker Street, ti ho trovato steso sul pavimento, ho gridato il tuo nome ma non rispondevi e io…» la voce del dottore tremò leggermente «ho pensato che ti fossi sentito male o che… che avessi ritrovato la siringa che ti avevo nascosto e che…» gli mancò il fiato per concludere la frase. Non capì se ciò fosse dovuto all’aria troppo pesante o al ricordo del suo migliore amico con il volto che affondava nei decori orientalegganti del tappeto del salotto, accanto ad un macchia di tè ancora caldo.
Immagini frammentarie iniziarono ad affluire alla mente di Sherlock come sangue che torna a scorrere velocemente in un braccio una volta rimosso un laccio emostatico. La kettle che fischiava, il sapore leggermente salato sulle labbra, i capogiri, il buio.
«GHB[2]. Sul bordo della mia tazza, ne ho riconosciuto il sapore.» disse Sherlock inclinando leggermente la testa, quasi stesse rivivendo di nuovo le violente vertigini causate da quella sostanza.
«Ti hanno drogato?»
«Già, credo abbia utilizzato anche qualche altra droga da stupro, flunitrazepam [3] probabilmente, il GHB da solo raramente causa perdite di coscienza così prolungate.» «Potrebbe indicare un lavoro in campo farmaceutico.»
Sherlock congiunse le mani e le portò sotto il mento. Chiuse gli occhi.
«Eppure c’è qualcosa che non torna, perché ha drogato solo me?» quando si erano seduti fianco a fianco per la prima volta da quando si erano svegliati, Sherlock aveva notato il sottile rivolo di sangue che imbrattava i sottili capelli di John per poi scendere dietro l’orecchio, percorrendo tutto il profilo del collo. «Quelle sostanze sono facilmente rimediabili, anche per chi non bazzica nell’ambiente medico, averbbe potuto procurarsi facilmente una dose sufficiente a drogare entrambi.» i suoi occhi glaciali si spalancarono improvvisamente. «A meno che…» la sua deduzione sfumò nell’aria densa, rimanendo momentaneamente incompleta.
Il panico lo colpì come un pugno in mezzo allo sterno. Sentì lo stomaco attorcigliarsi su se stesso in una morsa quasi dolorosa. Questo cambia tutto, questo complica tutto, pensò una volta che il suo cervello ebbe completato silenziosamente il suo ragionamento.
«A meno che?» chiese John preoccupato da quella sottile riga che ancora, una volta, era apparsa tra le sopracciglia del suo amico.
«A meno che tu non sia un danno collaterale.» rispose asciugandosi nervosamente la fronte imperlata da un velo di sudore.
«Cosa vorresti dire?» Watson sentì il suo cuore fermarsi per un nanosecondo per poi iniziare a battere all’impazzata.
«Voglio dire che non avresti dovuto essere qui. Ora.» il genio fece una pausa e si sedette di fronte al dottore. «Pensaci, anche il video era indirizzato solo a me.» spiegò appoggiando l’indice su uno dei bottoni della camicia. « Deve aver studiato le nostre abitudini, per potersi intrufolare a casa nostra con l’intenzione di rapire soltanto me, dopo avermi drogato. Evidentemente non aveva previsto un tuo rientro anticipato e ha dovuto arrangiarsi diversamente. A giudicare dal tipo di contusione, deve averti colpito con un oggetto spigoloso, probabilmente il posacenere che abbiamo sulla mensola all’ingresso.» proseguì Holmes, mordendosi l’interno del labbro di tanto in tanto.
Watson schiuse leggermente le labbra, terrorizzato dall’ipotesi di essere giunto alla conclusione corretta.
Se dieci ore di ossigeno erano state pensate per Sherlock…
«Ciò significa che, se la dea bendata è dalla nostra parte, non ci restano più di quattro ore di ossigeno.» concluse Sherlock Holmes, all’unisono con i pensieri di John Watson. 



Note:
[1] Reality Show inglese, simile a “L’isola dei Famosi”
[2] Acido gamma-idrossibutirrato, farmaco utilizzato per il trattamento dell'insonnia e della depressione clinica, viene anche catalogato come droga da stupro e ha effetti simili all'alcol.
[3] Comunemete conosciuto come Rohypnol, è anch'esso citato tra ledrogheda stupro.


_____________________________

Salve a tutti,
chiedo umilmente perdono pe il ritardo ma (oltre ad essere stata per un periodo in Inghilterra) ho avuto problemi con l'editor di EFP che, nell'ultima settimana, ha deciso di non collaborare. Ancora devo capire che problemi abbia la tecnologia con me. 
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi ringrazio in anticipo,


xx
Vivi

 

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Capitolo 4
*** 4. Un pessimo medico ***


4.  Anime belle, anime coraggiose.

 

Sherlock premette la punta delle dita contro le tempie imperlate di sudore.

«Okay John, dobbiamo rimanere lucidi. Farsi prendere dal panico sarebbe deleterio.» disse poi congiungendo le mani sotto al mento. Per quanto sapesse che il suo amico non avrebbe mai ammesso il suo vero stato d’animo, per non farlo preoccupare. John lo faceva tutte le volte, credendo che Sherlock non si accorgesse del fatto che sbattesse due volte le palpebre quando mentiva sul suo stato d’animo.

«Io non sono in panico» protestò debolmente il dottore.

Sherlock inclinò la testa facendo capire all’amico come mentire sarebbe stato inutile.

«Ok, forse un pochino.» ammise infine John. Sherlock giurò di aver sentito un rantolo sommesso proveniente dai suoi polmoni, sperò che si trattasse dell’ennesimo lamento di dolore e non il primo dei sintomi della mancanza di ossigeno.

Il genio sentì lo stomaco fare una capovolta. Ignorò la sensazione di nausea e si inginocchiò di fianco all’amico e prese il viso tra le lunghe dita pallide. La sfumatura azzurrina della luce della torcia rendeva i contorni di quella scena ancora più indistinti, quasi spettrali. Quella volta non si ritrasse da quel contatto, non provò alcun istinto di fuga. Al contrario, ogni istante che passava sentiva sempre di più i suoi palmi modellarsi sulle guancie di John, adattandosi prima alle sporgenze degli zigomi e poi anche alla più sottile delle rughe, quasi ne volessero diventare parte integrante. In un lasso di tempo che entrambi non avrebbero saputo quantificare, la distanza tra i loro volti si era quasi annullata. Se i ricchi corvini di Sherlock non fossero stati incollati alla fronte per via del sudore, probabilmente avrebbero sfiorato la fronte di John.

«Ti porterò fuori da qui, John. Hai capito?» sentenziò Sherlock riempiendo l’esigua distanza rimasta con il suo respiro tiepido. Sentì l’amico annuire debolmente. I suoi occhi grigi, normalmente così espressivi da non avere alcun segreto per Sherlock, erano ora vacui, ridotti a due sfere di vetro opaco.

«Gesù, John! Scotti!» Sherlock strabuzzò gli occhi, essendosi reso conto solo in quel momento del contrasto tra la temperatura delle proprie mani e quella del viso di Watson.

Un lampo di razionalità scosse il cervello di Sherlock. Egli ritrasse velocemente le mani, ancora una volta sopraffatto da come quella vicinanza fosse in grado di fargli dimenticare per un attimo dove si trovasse davvero. Con la punta delle dita scostò i ricci scuri da un lato della fronte, facendoli aderire ancora di più alla pelle umida.

«Sarà il caldo.» John alzò leggermente la mano insegno di noncuranza.

«Dopo questa risposta dovrei presumere che tu sia davvero un pessimo medico, ma dato che ho avuto l’onore di vederti in azione in più occasioni, questa ipotesi mi sembra a dir poco ridicola. Deduco quindi che tu non voglia ammettere di avere la febbre. » Sherlock cercò disperatamente di dissimulare l’angoscia che lo logorava dall’interno dietro la cadenza misurata delle sue deduzioni.

«Sherlock, mi hai promesso che usciremo da qui…» inspirò di nuovo e di nuovo a quel lieve rantolo arrivò alle orecchie del suo migliore amico. «Ma per uscire da qui dobbiamo risolvere quel maledetto indovinello. Quindi ora le mie condizioni non sono una priorità, dobbiamo riflettere.» concluse infine, abbandonando il capo contro la parete metallica.

Certo che sono una priorità, avrebbe voluto rispondere, ma capì come, in quel momento, protestare sarebbe stato solo uno spreco di energie.

«Riflettiamo» disse allora il genio mentre sentiva le guance ribollire. Schiarì la voce, rendendosi conto che, probabilmente, se fossero stati alla luce del sole, si sarebbero visti i suoi celeberrimi zigomi tingersi di rosso.

«Allora, tutti i personaggi che ha citato fanno parti di opere che in qualche modo hanno a che fare Italia. » constatò John, che sembrava aver racimolato un po’ di energia. «Prospero era Duca di Milano, Othello era il ‘moro di Venezia’ e, beh, Giulio Cesare è chiaramente ambientata a Roma.»

«Roma!» il volto di Sherlock sembrò illuminarsi. «Roma è stata distrutta da un incendio ed è attraversata da un fiume»

«Perché il Tevere dovrebbe essere rilevante?»

«Il nemico del primo fratello, John. L’acqua è nemico del fuoco.»

Il silenzio calò per qualche secondo. «Pensi che ci abbiano portato a Roma?» chiese il dottore incredulo.

L’entusiasmo di Sherlock per la sua precedente deduzione scemò in un battito di ciglio, troppo facile, troppo ovvio.

«No, John, ovvio che no. Siamo fuori strada.» rispose a voce così bassa che persino John faticò a capire.

«Perché ‘ovvio’?»

«Perché prima, quando ho esaminato la cella, ho notato due prese per la corrente ed entrambe avevano la forma di quelle che usiamo qui nel Regno Unito. In Italia le prese sono formate da tre fori circolari a uguale distanza» spiego il consulente investigativo con precisione, disegnando nell’aria le forme che stava descrivendo.

«Come diavolo fai a… lascia perdere. Conosci 200 tipi di cenere di tabacco, perché non dovresti sapere anche come sono fatte le prese della corrente di mezzo mondo?» chiese Watson con un tono che sapeva di casa.

«243, mio caro Watson» rispose Sherlock inarcando l’angolo delle labbra.

Entrambi si lasciarono andare all’unisono in una risata che più che mai stonava con la situazione che stavano vivendo. Sherlock rivide per qualche istante il John di sempre, quello che si arrabbiava con lui per la sua mancanza di sensibilità, ma che due minuti dopo il litigio si alzava per preparare una tazza di te per entrambi.

Il consulente investigativo sentì gli angoli interni dei suoi occhi pizzicare. Inspirò profondamente ricacciando quelle lacrime da dove erano venute, ancora prima che potessero vedere la luce.

 

-

 

Il nome 'Violet Holmes' lampeggiava quasi minaccioso sullo schermo del telefono. Mycroft guadò il telefono vibrare sul ripiano lucido della sua scrivania fino a quando il nome di sua madre non fu sostituito dalla scritta: 3 missed calls.

“Mycroft perché sulla tua rubrica sono rinominata con nome e cognome?” gli aveva chiesto durante una di quelle noiose ed interminabili cene di Natale durante le quale lui e suo fratello venivano costretti alla convivenza forzata nel delizioso cottage dei loro genitori.

“Perchè tutti nella mia rubrica sono rinominati per nome e cognome, madre cara” aveva allora risposto con il suo tipico sorriso ingessato. “perché tu dovresti fare eccezione in qualche modo?” aveva chiesto infine.

“Perché sono la tua mamma, Mycroft caro” sua madre aveva migliorato la sua imitazione più di quanto ci tenesse ad ammettere, non avrebbe mai dubitato del fatto che la tendenza sua e di Sherlock alla melodrammaticità fosse stata ereditata proprio da Violet.

“Assolutamente scortese da parte tua, Mycroft, paragonare nostra madre a qualsiasi altro dei tuoi contatti” irruppe la profonda voce di suo fratello Sherlock, che, in quel momento, se ne stava seduto scompostamente sulla poltrona blu al lato del caminetto rigirando tra le lunghe dita da musicista un calice di spumante ancora intonso.

“Almeno lui ha memorizzato il mio numero, Sherlock caro” intervenne Mrs Holmes mentre sistemava accuratamente alcuni piatti nel lavastoviglie, prima che il fratello maggiore potesse controbattere.

L'espressione provocatoria dia Sherlock era così stata essere gradualmente sostituita da una smorfia simile ad un broncio. Aveva poi appoggiato il calice sul tavolino in vetro e aveva incrociato le braccia al petto, come un bambino a cui avevano appena tolto di mano un gioco con cui si stava divertendo. Mycroft aveva inarcato le sopracciglia in un'espressione di profonda soddisfazione.

 

Lo schermo dello smartphone si illuminò di nuovo facendo riemergere Mycroft dai suoi pensieri. Questa volta il nome di sua madre era affiancato da una piccola icona a forma di busta. Egli abbassò il capo chiudendosi l'attaccatura del naso tra il pollice e l'indice e, dopo aver preso un profondo respiro, allungò l'altra mano per prendere il telefono.

 

Violet Holmes:“Mycroft, perchè ignori le mie chiamate? È successo qualcosa oppure Sherlock ti ha di nuovo rubato il telefono? Se è così, WILLIAM SHERLOCK SCOTT HOMES RIDAI IL TELEFONO A TUO FRATELLO, ORA!

Mamma.”

 

Un sorriso amaro apparve fugace sul viso teso dell'uomo di ghiaccio. Sapeva che, non se avesse ignorato anche quel messaggio, sua madre avrebbe seriamente iniziato ad insospettirsi. Dopotutto le capacità deduttive sue e di sue fratello non potevano essere venute fuori dal nulla. Infilò l'indice del colletto della camicia, allentandosi il nodo della cravatta e, finalmente, fece scorrere il pollice sul touchscreen per sbloccare lo schermo.

 

You: “Sono in riunione ora. Questione di sicurezza nazionale.

MH”
 

Sua madre non lo aveva mai obbligato a fare nulla, non gli aveva mai scaricato addosso nessun genere di aspettativa e, nei limiti della legalità, non gli aveva mai impedito nulla.

Gli aveva fatto promettere solo due cose: di non mentirgli mai, a meno che non si trattasse del suo lavoro, e di prendersi cura di suo fratello Sherlock.

Le circostanze in cui quella promessa era stata fatta erano state, quantomeno, bizzarre, anche se non troppo per gli standard della famiglia Holmes. Fu il giorno della laurea di Sherlock, quando il neolaureato dai ricci bruni era chiuso a chiave nel bagno degli ospiti, rifiutandosi di partecipare alla sua stessa festa di laurea, ed entrambi si erano trovati nel corridoio del secondo piano nel disperato tentativo di convincerlo ad uscire.

Mycroft lanciò un occhiata al tablet che giaceva sulla sua scrivania, lo prese tra le mani. Le immagini sgranate ritraevano i due coinquilini del 221b di Baker Street seduti uno accanto all'altro, spalla contro spalla, il biondo con lo sguardo fisso davanti a se il moro con lo sguardo fisso sul viso del suo migliore amico. Non riusciva a distinguere i lineamenti del fratello ma non fu difficile immaginare la curva delle sue labbra ridotta ad una sottile fessura pallida, la fronte corrucciata dal terrore di perdere la persona per cui aveva deciso di morire e ,soprattutto, tornare a vivere.

Dopo essersi assicurato del fatto che nessuno si stesse avvicinando alla porta del suo ufficio, Mycroft Holmes si concesse un sospiro pieno di angoscia, lasciò, per qualche attimo, che la paura si agitasse all'interno del suo petto. Si concesse un impercettibile momento di umanità.

Il telefono vibrò di nuovo.

 

Violet Holmes: “Okay Myc. Ma, mi raccomando, fatti sentire.

Mamma.”

 

Il maggiore dei fratelli Holmes sbatté le palpebre ricacciando tutte le emozioni in quella specie di vaso di Pandora in cui le teneva prigioniere. Indossò la sua maschera di diplomazia e tornò a vestire i panni dell'incarnazione del governo inglese. Avrebbe trovato Sherlock, con qualsiasi mezzo, legale o illegale che fosse.

Aveva appena mentito a sua Madre, rompere in un giorno due promesse fatte all'unica persona che lo aveva sempre e che sempre lo avrebbe amato incondizionatamente sarebbe stato troppo da sopportare, anche per l'Uomo Di Ghiaccio. 

-

 

Le palpebre pesavano come macigni e calavano sugli occhi grigi del dottor Watson ogni qualvolta i brividi della febbre, partendo dalla base della colonna vertebrale, lo attraversavano facendolo tremare fino alle viscere.

Il suo capo ciondolava a destra e a sinistra come se il collo, nonostante la massiccia muscolatura forgiata dall’addestramento e dall’esperienza militare, non fosse abbastanza forte per sostenerne in peso. Rimanere completamente lucido stava diventando sempre più difficile, tanto che in alcuni momenti si trovava a fissare il buio mentre nel suo cervello le immagini reali, i ricordi passati, gli eventi mai verificatisi iniziavano a mescolarsi tra di loro, diventando uno parte dell’altro, formando un concentrato di confusione affascinante e terribile allo stesso tempo.

Sherlock si piegò sulle ginocchia, aveva perso il conto di quante volte lo aveva fatto da quando i sintomi della febbre avevano iniziato ad acutizzarsi. Allungò la mano umida di sudore e raddrizzò il capo dell’amico sorreggendolo dalla nuca, quel gesto gli ricordò quello delle infermiere nel reparto maternità del Bart’s quando prendevano in braccio i neonati. Nella sua mente il paragone suonò quasi divertente, ma la tenerezza di quell’immagine si dissolse lentamente fino a trasformarsi in un’immagine tanto angosciosa quanto la realtà che stava vivendo. La verità lo colpì come un treno in corsa.

Si trovava poi in una situazione tanto differente?

Il suo sguardo sostò sull’espressione vacua dell’amico rendendosi conto di quanto fosse indifeso, inerme, come un bambino, incapace di affrontare da solo gli ostacoli e i pericoli che il mondo riserva solo alle anime belle e a quelle coraggiose.

«John, cerca di stare sveglio» lo richiamò Sherlock con un’inaspettata dolcezza.

«Sono sveglio, sono sveglio» farfugliò John.

«I tuoi lettori impazziranno quando racconterai questa storia in quel tuo blog.» Sherlock cercava di comportarsi normalmente, cercando in tutti i modi di mantenere vigile l’amico.

«I nostri lettori» lo corresse John «sei tu la star.» l’angolo sinistro delle sue labbra si tese leggermente.

«Ogni Batman ha il suo Robin»

«Hai rubato i miei fumetti dal mio cassetto del comodino?»

«Oh, John. Davvero non te ne sei mai accorto?» disse Sherlock con una leggera risata.

«E tutte quelle volte che mi prendevi in giro perché dicevi che i supereroi erano “una stupida invenzione per creduloni”?» chiese incredulo il medico.

«Ehm… potrei aver mentito. Contavo sul fatto che non te ne saresti accorto.»

«Oh, ecco le tue frecciatine, Sherlock, iniziavano a mancarmi.»

Un lampo di senso di colpa fece sobbalzare lo stomaco di Sherlock, ma, dopo pochi istanti, si rese conto di come lui, se si fosse trovato nella stessa situazione di John, avrebbe voluto che chiunque si trovasse al suo capezzale si fosse comportato nella maniera più naturale possibile. Gli sarebbe stato più facile credere che tutto si sarebbe sistemato, che tutto sarebbe tornato al suo posto.

Sentì la mano di Watson strisciare sul ruvido pavimento con un rumore lento, simile ad un rantolo silenzioso. Sherlock rimase immobile, anche quando la mano di John raggiunse la sua. Percepì la debole stretta ancorarsi intorno al suo mignolo e al suo anulare con tutta l’energia che gli era rimasta.

«Comunque hai ragione Sherlock, penso che questa avventura riscuoterà persino più successo di quella base militare di Baskerville.» la poca convinzione con cui il medico pronunciò quelle parole fu disarmante per Sherlock.

Per qualche attimo di sorprese a pensare a come fosse la sua vita prima di conoscere John, ma i suoi ricordi erano così sfocati e oscuri che quasi dubitò di aver avuto una vita prima di quel fatidico incontro in quel laboratorio del Bart’s, che puzzava costantemente di cloro e naftalina. Eppure tra quella nebbia scura egli riconobbe il mostro che era stato e che sarebbe tornato ad essere senza di Lui: un’accozzaglia di pensieri negativi avvolti in un involucro di pelle dalle fattezze umane.

«Vero» lo assecondò Holmes «anche se penso che la storia di quella volta in cui abbiamo inseguito quel ladro a King’s Cross ma siamo saliti sul treno sbagliato invece che su quello su cui era salito il delinquente»

«Oh si, quella è stata davvero divertente. Abbiamo anche preso la multa per non aver fatto il biglietto.»

«Dio quando avrei voluto tirare un pugno in faccia a quel controllore»

John si schiarì la voce, trattenendo una risata.

«In realtà lo hai fatto, Sherlock. Due volte» precisò il medico.

«Oh beh era un insopportabile scorbutico» disse Sherlock facendo spallucce.

Le loro risa iniziarono a spargersi nell’aria densa fino a quando non si trasformarono in violenti colpi di tosse. Non gli rimaneva molto ossigeno, per un ora e mezza, forse anche meno.

«Ancora fatico a capire come abbiamo fatto a confondere un intercity per Liverpool con un treno locale tutto cigolante diretto a Birmingham.» Watson, con un filo di voce, ruppe il silenzio.

«Non lo so, ma hai avuto una bella idea quando hai proposto di fermarci a Stratford Upon Avon nel ritorno, non avevo mai visto la villa di Shakespear…» non appena terminò di pronunciare il nome del famoso artista, trasformatosi in attore di quella terribile vicenda, il cuore del consulente investigativo si fermò. La sua mente fu scossa da un’improvvisa scarica di adrenalina, aveva appena completato il puzzle. Strinse la mano fredda di John e, spalancando quegli occhi che avrebbero fatto invidia a quelli di una tigre siberiana, si voltò di scatto verso di Lui. Lo udì tossire di nuovo.

Non ti arrendere John” pensò Sherlock “ho capito dove siamo”.


-
Salve a tutti, 
vi rubo giusto per dirvi che per dirvi che questo che avete appena letto, è il penultimo capitolo di questa faniction.
Lo so, non è lunghissima, ma è tutto intenzionale. Volevo creare qualcosa di... "concentrato": qualcosa di non troppo lungo ma carico a livello emotivo. Spero che l'ultimo capitolo non vi deluda. 
Nel frattempo vi ringrazio tanto per tutti i complimenti e il supporto che mi state facendo\dando. 

xx
Vivi

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Capitolo 5
*** L'uomo che mi ha salvato ***


5. L'uomo che mi ha salvato



Sherlock si assicurò che John fosse ben appoggiato alla parete della cella frigorifera. Si sfilò la pashmina blu e gliela sistemò dietro la nuca, lo guardò raccomandandogli silenziosamente di rimanere cosciente. I brividi della febbre erano diventati tanto violenti che, per quanto John si sforzasse di nasconderlo, le sue labbra tremavano ormai in maniera costante. Se se fosse stato vero il fatto che Shelock non avesse un cuore, allora cos’era quel tonfo che sentiva nella cassa toracica ogni volta che John chiudeva gli occhi? Cos’era quella stretta quasi dolorosa in mezzo al petto che quella sensazione di impotenza gli causava?

La mancanza di ossigeno aveva iniziato a compromettere il suo equilibrio, tanto che quando si piegò però recuperare la torcia, fu costretto ad appoggiare un ginocchio a terra per non cadere. Un volta di nuovo in piedi, infilò la torcia sottobraccio e procedette a tentoni finché le lunghe dita affusolate non incontrarono il pesante tessuto del suo Belstaff. Quando lo sfilò dal gancio e se lo mise in spalla gli sembrò più pesante che mai, ma non si curò della sua fatica, sperò solo che non fosse troppo pesante per John. Avvolse il cappotto intorno alle spalle dell’amico, gli passò velocemente le dita tra i capelli sottili prima di issarsi sulle proprie ginocchia nel tentativo di alzarsi.

«Sherlock, dove… » cercò di chiedere il medico.

Il consulente detective alzò l’indice per tranquillizzare il suo migliore amico affinché non si sforzasse di parlare. Senza dire una parola si diresse con passo lento e barcollante verso la parete di fondo.

«Siamo a Stratford Upon Avon. Il padre di quei personaggi è il loro autore: William Shakespeare e Shakespeare è nato a Stratford» disse puntando il dito verso la webcam «L’ho risolto, figlio di puttana!» esclamò il consulente investigativo con più energia di quella che avrebbe dovuto spendere, trovandosi obbligato a sorreggersi alla parete. Continuò a fissare quella webcam in cagnesco finché non sentì John muoversi alle sue spalle. Si voltò di scatto ignorando l’ennesimo violento capogiro.

«John, cerca di non…» la sua frase fu interrotta da un urlo di dolore che fece tremare le pareti.

L’immagine di John con il gancio metallico nella mano mentre si accasciava a terra contorcendosi dal dolore lo paralizzò per qualche attimo, tutto sembrava così irreale. Non percepiva più nessun movimento del proprio corpo come se fosse fluttuando una grossa ampolla piena di liquido scuro. Ecco come si sentiva: come un pesce rosso in una ampolla di vetro: inutile, mentre le immagini del mondo gli sfilavano davanti in maniera distorta. L’urlo straziante fu seguito da un silenzio che gli gelò il sangue nelle vene.

« John!»

Fu un grido tanto intenso che quasi gli parve provenire da un’altra persona.

Sherlock si gettò al fianco dell’amico e vide come dalla ferita alla gamba, ormai aperta, zampillasse del denso liquido scarlatto. Sherlock Holmes agì d’istinto e prese la sciarpa che giaceva a pochi centimetri da lui e la premette contro la fonte dell’emorragia.

«Cosa ti è saltato in mente?! Perché lo hai fatto?!» chiese Sherlock ancora spiazzato dal folle gesto di John.

«Sherlock, era la cosa più logica e giusta da fare.» rispose Watson con una pacatezza innaturale.

«No che non lo è! Perché dovrebbe avere senso? Ti stai suicidando!» disse Sherlock ormai in preda al panico. Non aveva mai perso il controllo delle sue emozioni, mai, eppure in quel momento nemmeno si rese conto dei sue sottili fiumi salati che scorrevano sul profilo spigoloso dei suoi zigomi

«Vedi ma non osservi, Sherlock Holmes.» quella frase fu sufficiente ad ammutolire il Sherlock. «C’è una lucina vicino alla webcam, che lampeggia ogni 10 minuti. Ho contato quante volte ha lampeggiato e, nonostante credo di essermene persa qualcuna, credo che non ci rimanga più di un’ora di ossigeno.» proseguì il medico.

«Questo lo so anche io John ma continuo a non vedere il punto.»

«Se anche Lestrade si fosse messo in moto in questo momento, Stratford dista due ore da Londra» il silenzio calò di nuovo, più pesante di prima. «Sto salvando l’Inghilterra, sto salvando il mondo, sto salvando te

Sherlock si sorprese a negare l’evidenza, non aveva intenzione ascoltare Watson. Perché aveva smesso di crederci, perché gli stava facendo questo? Perché dopo aver salvato così tante vite si stava rifiutando di salvare la propria?

«Tu non sei lucido; sei tu l’unico che deve essere salvato.» si passò la mano sul viso per eliminare la fastidiosa sensazione che le prime lacrime rapprese gli provocavano. Le dita imbrattare di sangue lasciarono un marchio rosso che percorreva tutto il profilo dello zigomo e che gli fece desiderare di riuscire piangere di nuovo, per poterlo lavare via. «Io ti salverò» sentenziò una volta preso un respiro profondo. «Devo… devo solo capire come fermare l’emorragia, devo trovare un modo.»

Chiuse gli occhi.
 

Doveva esserci qualcosa nel suo palazzo mentale che avrebbe potuto aiutarlo. Dietro alle sue palpebre iniziarono a prendere forma i corridoi, le arcate in legno e i pesanti mobili in mogano che ornavano il palazzo mentale. Sapeva di dover agire velocemente, così si mise a correre lungo il sottile corridoio fino alla stanza dove aveva riposto tutte le informazioni di carattere medico che John gli forniva ogni tanto durante i loro casi ma trovò la porta sbarrata. Al lato della porta una figura sottile se ne stava appoggiata all’elaborato stipite con un ghigno impertinente stampato sul viso imbrattato di sporcizia. Ancora lui, Jim Moriarty.

«Oh Sherlock, Sherlock.» i capelli unti gli ricadevano sulla fronte nascondendo lo sguardo da folle. «Più passi del tempo insieme a John più diventi… deludente.»

Sherlock lo ignorò completamente e si avventò con tutte le sue forze contro quella dannata porta, senza però riuscire smuoverla.

«Povero Sherly, devo spiegarti io come funziona il tuo palazzo mentale?» disse di nuovo la sua nemesi. «Non sei abbastanza lucido per poterlo utilizzare. Dio, quanto sei diventato sentimentale.» concluse pronunciando l’ultima parola con disprezzo.

Il consulente detective continuò a dare spallate alla porta cercando di non ascoltare quelle parole velenose. Smettila Sherlock, disse una voce lontana. Smise di lottare contro lo spesso strato di legno e si voltò verso Moriarty.

«Cosa hai detto?» gli chiese con il fiato corto.

«Io, nulla, questa volta.» rispose alzando le mani.

Smettila Sherlock. Alzò gli occhi capendo, questa volta, che la voce veniva da fuori.

«John…» sussurrò tra sé.

«Corri da John, Sherlock. Vai e divertiti ad essere… umano.»
 

Riaprì gli occhi.

«Smettila Sherlock.» disse di nuovo John afferrandogli il polso con la poca forza che gli era rimasta.

« Sherlock è di te che il mondo ha bisogno.»

Il consulente investigativo sentì un nodo alla gola che si stringeva sempre di più ogni qualvolta tentasse di replicare. «Con due polmoni in meno in questo posto ti rimarrà abbastanza ossigeno per sopravvivere fino all’arrivo di Greg» spiegò John mentre una sottile lacrima scivolò dall’angolo dell'occhio.

«Non lascerò che tu muoia per salvare me.» riuscì a dire a fatica Sherlock.

«Che ipocrita che sei.» sorrise debolmente. «Tu per me lo hai fatto.»

Quella fu la pugnalata definitiva. Sentì uno squarcio aprirsi in mezzo al petto e, di colpo, si sentì vuoto. Vuoto, come se avessero raschiato via qualsiasi cosa vi fosse all’interno del suo corpo. Prese la mano di Watson e la portò al viso e ne fece combaciare il dorso con la propria guancia sorprendendosi di come si incastrassero perfettamente.

«Ascoltami bene, tu non te ne andrai, ok?» senza nemmeno accorgersene posò la mano dell’amico sulla morbida superficie delle proprie labbra e vi scoccò un bacio. «Ora, devi fingere che io sia la tua vita, per cui devi aggrapparti a me, stringimi la mano più forte che puoi e non osare lasciarmi andare, hai capito?» sentì le dita di John stringersi intorno alle sue.

«Sempre il solito modesto, eh?» rispose con una leggera risata.

Sherlock prese il viso di John tra le mani e si avvicinò fino a che le loro fronti non si toccarono.

«Tu sei la parte più umana di me, John. Senza di te io sono solo un sociopatico iperattivo e…» la sua voce si spezzò mentre sentiva gli occhi bruciare, preannunciando l’arrivo delle lacrime. «Io non voglio tornare ad essere un mostro John, io ho bisog…» a quella seconda interruzione seguì un pianto improvviso e violento, come un tuono nel bel mezzo di una notte placida.

John sollevò leggermente il capo e seguì la scia del fiato caldo fino alla sua fonte. Le labbra loro labbra si sfiorarono prima quasi per caso, poi si cercarono fino ad unirsi senza lasciare alcuno spazio. Non fu un bacio appassionato, durò solo pochi attimi. Le labbra non si mossero nemmeno, come se in quella posizione, le une a contatto con le altre, avessero trovato il loro posto nel mondo, finalmente. Per quei pochi secondi dimenticarono tutto, dimenticarono il sudicio pavimento su quale erano sdraiati, dimenticarono il dolore, la telecamera, gli indovinelli, tutto. C’erano solo loro due in quel momento, solo loro due contro il resto del mondo.

Quando le loro labbra si separarono, Sherlock mise John in posizione seduta, lasciando che si accoccolasse contro il suo petto. Il medico alzò gli occhi e con un ultimo sforzo sollevò il braccio e posò la mano sulla guancia di Sherlock.

«Tu non sei un mostro, Sherlock. Non lo sei mai stato.» gli disse accarezzandogli lo zigomo con il pollice. «Tu sei… l’essere umano più umano che io abbia mai conosciuto».

Sherlock glielo aveva già sentito dire, ma fu come se lo avesse fatto per la prima volta. Perché questa volta glielo stava dicendo guardandolo negli occhi. Glielo disse mentre il cielo grigio di Londra si tuffava in due scorci di mare nordico, scambiandosi messaggi silenziosi.

 

-Non andartene.

-Devo.

-Mi mancherai John.

-Anche tu Sherlock.

 

«Ti ricordi il nostro primo caso, Sherlock?» chiese continuando a disegnare linee curve sulla pallida pelle di Sherlock.

«Certo.» annuì accarezzando a sua volta la guancia dell’amico. La sua pelle sembrava così sottile ora, come se una pressione troppo decisa avrebbe potuto strapparla. Restò meravigliato dalla lucidità con cui John stava affrontando quella conversazione. Aveva sentito parlare di come molte persone, in punto di… prima di... andarsene avessero un picco di lucidità al quale seguiva una totale e definitiva perdita di conoscenza. Scosse la testa, non voleva ancora arrendersi all’evidenza.

«Mi hai chiesto “se stessi morendo, se ti stessero uccidendo, cosa diresti nei tuoi ultimi secondi di vita?”» disse John deciso a non voler staccare lo sguardo dal quel viso incorniciato da ricci corvini. Sherlock annuì invitandolo a proseguire.

John sbatté lentamente le palpebre. «Grazie, Sherlock.»

Sherlock sentì il tocco di John sempre più leggero fino a quando non sentì la mano scivolare a peso morto. Gli occhi di John si chiusero lentamente. Nella stanza in quel momento batteva un solo cuore.

Il consulente detective prese tra il corpo esanime di quello che era stato il compagno della suo nuova vita e lo strinse forte a sé come se avesse paura che potesse sbriciolarsi, scivolandogli tra le dita come sabbia. Scusa John, non sono riuscito a salvarti. Sentiva quella frase rimbombare nell’aria densa, senza nemmeno rendersi conto del fatto che quelle provenivano dalla sua stesa bocca.

-

Lestrade arrivò quasi due ore e venti minuti dopo, trovò il suo consulente ancora seduto contro la parete della cella frigorifera con in grembo il corpo esanime dell’unica persona per cui lui avesse provato dei sentimenti genuini, umani. «Non l’ho salvato Greg.» continuava a farfugliare mentre cullava John, come se stesse cercando di farlo addormentare. Ci vollero tre uomini alti un metro e ottanta per riuscire a dividere Sherlock da John. Quando le sue mani lasciarono il corpo esanime dell’amico si sentì come una bambola di pezza cui avevano tolto l’imbottatura. Sì sentiva svuotato di qualsiasi energia vitale, la nuova ondata di ossigeno che aveva accompagnato l’arrivo della polizia sembrò non fargli alcun effetto. Gli sembrò di non aver più dei polmoni per respirare, di non aver più delle gambe che potessero reggere il suo peso. Eppure sentiva di avere ancora un cervello per pensare, un cervello che pulsava dolorosamente ricordandogli quanto tutto quello che aveva appena vissuto fosse successo davvero.

Greg gli avvolse le braccia intorno alla via e lo sollevò, ma nel momento stesso in cui sembrava essere riuscito a sistemarlo in posizione eretta, il genio gli crollò letteralmente tra le braccia. L’ispettore lo strinse a se con forza, sentiva il suo torace espandersi e restringersi irregolarmente contro il suo. Gli appoggiò la mano sui ricci e lasciò che le lacrime rigassero anche le sue guance, unendosi a lui in quell’atroce pianto silenzioso.

-

Sherlock passò la punta dell’indice sul profilo dello scatolone, gli sembrò di essersi reso conto solo in quel momento di quanto il cartone fosse un materiale sgradevole al tatto. Indugiò ancora qualche secondo su quel ciglio ruvido prima di lasciare che le proprie mani affondassero nel morbido contenuto della scatola. Ma come diavolo facevano a piacerti? Pensò Sherlock mentre sollevava in aria uno di quegli assurdi maglioni a righe che quasi erano diventati l’epiteto di John.
 

«Harry passerà a prendere le cose John domani mattina.»

«Va bene, Mrs Hudson.»

«Sherlock?»

«Mh?»

«Come stai?»

«Credo che il nostro taxi diretto alla chiesa St Mary-le-Strand sia arrivato.»
 

Se lo portò al cuore e vi affondò il viso, sentì il profumo di schiuma da barba solleticargli le narici. La sua schiuma da barba. Inspirò profondamente lasciando che ogni singola nota di quella fresca fragranza lo invadesse, dandogli l’illusione, per qualche istante, che riuscisse a colmare parte di quel vuoto che gli appesantiva il petto.

Un lacrima solitaria gli rigò la guancia, costringendolo ad usare il polsino della camicia per asciugarsi. La rigida stoffa inamidata gli ricordò come non si fosse ancora cambiato dal funerale, che si era concluso più di quattro ore prima. Il ricordo di quella dannata, inutile e decisamente troppo appariscente cerimonia militare lo irritò a tal punto che iniziò a stringere i pugni attorno a quella lana soffice, fino a far sbiancare le nocche. Gli era stato chiesto di fare un discorso e lui aveva accettato solo per evitare eventuali discussioni con chi avrebbe comunque insistito per farglielo fare. Ma quando si era trovato davanti a tutte quelle persone che, con i visi arrossati, lo fissavano aspettandosi chissà quale discorso gli unici suoni che uscirono dalla sua bocca furono dei balbettii senza senso fra i quali si riuscirono a distinguere solo le parole ‘Perdonami John’. Ancora una volta si era sentito incapace, impotente e deludente. Sì, sentiva di aver deluso John, nuovamente. Quel pensiero lo aveva sopraffatto tanto che, senza aggiungere alcunché, aveva girato i tacchi, percorso la navata laterale della chiesa in fretta e furia e aveva atteso la fine della funzione seduto sulle gradinate del sagrato.

Scosse la testa respirando un’altra boccata di quel fresco profumo, cercando di memorizzarne anche la più lieve sfumatura. Si alzò in piedi, ignorando la violenta vertigine che lo scosse, e si diresse in salotto deciso a nascondere quell’orrendo maglione nella credenza del tè. Harry si presenterà con gli effetti di almeno mezza bottiglia di Gin in corpo, pensò il consulente investigativo girando la chiave del vecchio sportello, di certo non si accorgerà della mancanza di un unico, insignificante, orrendo maglione a righe che ancora profuma della presenza di John. Rimosse tutte le scatole di tè dallo scaffale, in modo tale che non potessero intaccare il profumo di John, e vi ripose il maglione ripiegato con cura.

Il genio si voltò verso destra lasciando che un particolare oggetto catturasse la propria attenzione e allargasse la già enorme voragine che sentiva nel petto. Il computer di John era ancora attaccato al cavo dell’alimentazione, nessuno lo aveva spostato da quel giorno. Sherlock pigiò il tasto di invio lasciando un’impronta ovale nel sottile strato di polvere. Per tutta risposta lo schermo si illuminò mettendo in evidenza lo spazio vuoto in cui avrebbe dovuto inserire la password, per la prima volta dopo quasi quarantotto ore le gli angoli della sua bocca si tesero verso l’alto quando si scoprì che la password era ancora “Sherlockfattigliaffarituoi”. La schermata che si aprì fu quella del famoso blog che li aveva resi un fenomeno della rete, in cima alla quale torreggiava, scritto a grandi lettere, il nome del suo migliore amico. Per un attimo (e per la prima volta) si sentì terribilmente in colpa per il fatto di voler invadere la privacy di John.

Oh per l’amor del cielo, Sherlock, hai sempre ficcato il naso nelle mie cose, non dirmi che ti stai facendo scrupoli ora che non sono più lì per rimproverarti. Sentì la voce di John rimbombare in testa. sorrise di nuovo rendendosi conto di quanto avesse ragione. Come sempre, John aveva ragione.

La pagina era aperta sulle bozze, in cima alla lista dei titoli spiccava la scritta in grassetto “TO THE MAN WHO SAVED ME TWICE”.

«Oh, John quanto vorrei che fossi qui per impedirmi di farlo.» sussurrò tra sé mentre la mano stretta attorno al mouse cliccava il tasto sinistro, aprendo finalmente il link.

 

Sapete? La vita militare si fonda sulla fiducia nei propri compagni di divisa. È un elemento assolutamente imprescindibile, tanto da essere, molto spesso, dato per scontato.

Poi una pallottola ti trapassa la spalla, il processo di guarigione della ferita arriva al suo termine e con esso anche la tua carriera militare. All’improvviso ti ritrovi solo, a bighellonare per le strade di Londra senza nessuno che si porti la mano rigida alla fronte per salutarti, tutti sembrano stare bene nella loro bolla di normalità e ti rendi conto di non essere altro che lo spettro di uomo pieno di incubi e che deve appoggiarsi ad un bastone perché la propria mente si è inceppata.

Ad un tratto arriva un “Afghanistan o Iraq?” e la tua vita ritorna ad essere una frenetica corsa contro un nemico, una corsa su due gambe sane, per giunta. Lo spettro riprende ad essere carne viva, animata da una perenne scarica di adrenalina. Ad un tratto io, il Capitano John H. Watson, sono di nuovo vivo e non sono solo.

Ma non fu l’unica volta in cui Sherlock Holmes mi riportò in vita, no. Anche il suo ritorno dopo la… caduta fu una rinascita. Forse ancora più rinvigorente della prima. Per quanto si sia meritato quei due pugni ben assestati, che gli ho tirato quando ha deciso di risbucare come un margherita dopo due anni di completo silenzio, due anni in cui credevo si essere tornato ad essere uno spettro pieno di incubi, quella volta senza possibilità di cura, il mio cuore scoppiò di gioia senza nemmeno darmi il tempo di rendermi conto di non essere nel bel mezzo di un’allucinazione.

Ora vi starete chiedendo dove voglio andare a parare. Bene, farò subito chiarezza.

Voglio che chiunque sappia che Sherlock è stato la mia salvezza, è la mia salvezza. Nonostante lui si consideri un antieroe, una persone che nessuno dovrebbe avere la disgrazia di incontrare, io non sono mai stato così grato a Dio o chiunque ci sia lassù per avermi permesso di incappare in un eroe come lo è Sherlock Holmes.

E, Sherlock, se stai leggendo questo post (perché sei riuscito ad hackerare il mio computer per l’ennesima volta) arrenditi all’idea di essere considerato un angelo custode da qualcuno. Spero solo di riuscire a restituirti il favore un giorno. Ti voglio bene, Sherlock, e grazie di tutto.

John H. Watson.

 

Lesse quel post tre volte di fila, mentre le lacrime gli bagnavano il colletto della camicia. Ne assaporò ogni lettera, indugiando su ogni singola parola immaginando l’espressione che avrebbe avuto John se gli avesse detto tutto di persona.

Strinse ulteriormente il mouse e fece scorrere la piccola freccia bianca fino alla scritta “nuovo post”. Non sapeva perché lo stesse facendo, ma sentiva che non avrebbe voluto essere in nessun altro posto mentre sotto la dicitura ‘titolo’ digitava:
 

LOCKED IN.

How John Watson saved my life

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