Ku No Ichi - Una dei Nove

di Alex Wolf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Apparenza ***
Capitolo 2: *** Killer ***
Capitolo 3: *** Daimyo ***
Capitolo 4: *** Un pericoloso crescendo ***
Capitolo 5: *** Loto ***
Capitolo 6: *** AVVISO ***



Capitolo 1
*** Apparenza ***


Ku No Ichi - Una dei Nove


 
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"Un invisibile filo rosso collega coloro che sono destinati a incontrarsi, a prescindere dal tempo, luogo o circostanza. Il filo si può allungare o aggrovigliare, ma non si spezzerà."




I rumori si confondevano fra loro, creando onde diverse che andavano a incresparsi contro i suoi timpani. Erano suoni sordi, raramente raggiungevano note abbastanza alte da essere udite ad almeno 10 metri di distanza, ma lei era talmente vicina da non avere problemi a distinguerli uno per uno.
La maschera felina che indossava, il cappuccio che la riparava da sguardi indagatori non interferivano minimamente con il suo udito sviluppato. Era stata addestrata per prestare attenzione a tutto, i cinque sensi erano talmente tanto allenati che ormai era impossibile che qualcosa le passasse davanti senza che l'avesse già analizzata, anche solo per sbaglio.
Con gli occhi fissi in un punto ben preciso, seppe che era il momento per entrare in azione. Si tolse il mantello e abbandonò la maschera avvolgendola in esso per non sporcarla. Li nascose in un albero cavo e fece sparire il nascondiglio con delle fronde.
Si confuse fra la folla, sotto il cielo nero tinto del rosso delle lanterne.
Secondo i suoi informatori il soggetto che stava cercando aveva orari ben precisi e calcolati. Non sfiorava mai il ritardo ed ogni sera era usuale coricarsi con qualche donna nel quartiere a luci rosse. In quanto kunoichi, non era insolito che le affidassero missioni in cui era importante sapersi mischiare con la gente.
Tramite l'educazione che aveva ricevuto sin da bambina, aveva imparato a sfruttare il suo lato femminile a proprio vantaggio, l'arte della seduzione non aveva segreti per lei. Non per altro era anche la sua tecnica più raffinata: nessun'uomo, nessun bersaglio era mai uscito vivo dopo un loro incontro.
Si sedette fuori da un elegante sala da tè che antecedeva le camere matrimoniali del bordello più elegante della città, il volto truccato con maestria ben in vista, il lungo kimono estivo che la fasciava con eleganza. I colori pallidi del verde acqua e dell'oro, abbelliti dall'argento e dai motivi di fiori di ciliegio rendevano la sua figura simile a quella di una divinità. Non era strano che le concedessero di mettersi in mostra li, in quanto come bella donna portava i clienti a entrare.
La collaborazione con la matrona della casa di piacere andava avanti da tempo, e nessuna dei due si era mai lamentata di nulla.
La kunoichi attraeva le proprie prede all'interno di quella ragnatela profumata di incenso e oppio, e i guadagni andavano alla proprietaria come ringraziamento. Da quando il loro contratto era stato firmato, il bordello aveva aumentato le sue entrate di molto.
Prese in mano una tazza da tè e la portò alle labbra rosse, gli occhi felini sbirciavano i passanti oltre il fumo che saliva verso l'alto. Non vedeva nessuno di interessante, solo mucchi di uomini talmente ubriachi da non riuscire a reggersi in piedi; prostitute gracchianti che si strusciavano su chiunque. E poi gemiti, risate, rumori e tintinnii di bicchieri di saké che riempivano l'aria infestandola di vita.
Sospirò, annoiata. Perché era scesa in strada un'ora prima del necessario? Conosceva già a memoria quel luogo, non aveva bisogno di analizzarlo ancora. SI maledisse, ignorando ogni uomo che passava e richiedeva i suoi servigi. Era ben poco disposta a offrirglieli. Sebbene fosse li per una missione, era una bella donna e non si sarebbe di certo accontentata di uno qualunque, sporco e rozzo. Lei puntava più in alto, dove la vista era migliore la vita comoda.
Si domandò quanto ancora la sua preda ci avrebbe messo per raggiungere quel punto di strada. Era impaziente, voleva finire il lavoro il prima possibile.
Sventolò il tessen un paio di volte, nascondendo il corpo in ferro verso di lei. Il ventaglio muoveva folate di vento tiepido abbastanza da rinfrescarla, che portava con se odori decisi, musiche allegre e gemiti soffocati. E poi eccolo li.
Si accingeva a camminare come un sovrano fra i plebei. I lunghi capelli scuri legati una coda alta conferivano al suo volto angoli marcati e seducenti, gli occhi neri che ballavano sulle curve delle donne le portarono alla mente l'idea che quella sera lui fosse in cerca di giochi non proprio casti.
Sorrise, la donna. Si prospettava una nottata movimentata.
Come richiamata da una forza maggiore, si alzò lasciando che il kimono le cadesse oltre i piedi e creasse un'aura attorno a lei. Chiuse il ventaglio con un colpo secco e silenzioso e lo posizionò all'interno di una manica larga, poi incrociando le braccia nascose le mani agli occhi.
Mentre avanzava in direzione della preda le sue dita si muovevano veloci, analizzavano tutte le armi pronte all'uso. La prima cosa che i polpastrelli sfiorarono furono le cinghie di pelle sottile connesse ai neko-te, poi una fiala di veleno e infine due semplici kunai.
«Donna», si fermò in mezzo alla strada, «questa sera voglio passarla con te.» L'uomo che l'aveva fermata era proprio chi desiderava che fosse.
Si ergeva su di lei con la sua figura alta e allenata, e i profondi occhi neri carichi di malizia. Teneva una mano sulla sua yari, l'altra era posta in direzione del corpo della finta prostituta. Esaminando la pelle con velocità e senza tralasciare nulla la kunoichi non ebbe difficoltà a capire che quello che gli avevano detto su di lui era vero. Si trovava davanti ad un mercenario: sui palmi la pelle era visibilmente più ruvida e rovinata segno che ricorreva alla spada la maggior parte del proprio tempo, aveva cicatrici da taglio delle più svariate misure che si ramificavano sulle braccia, e doveva essere anche un amante formidabile combattuto fra tutte le donne del quartiere a luci rosse viste le occhiate che le stavano lanciando. Le si presentava l'occasione perfetta per rimanere sola con lui.
«E io, che ci guadagno?» Sapeva che nei suoi occhi stava brillando una luce abbagliante, perché si rifletté anche nel sorriso della preda ignara.
«Una notte con me, e un lauto compenso» affermò quello, lasciando una sacca di monete a sventolarle davanti agli occhi truccati. Lei sorrise, avvicinandosi al corpo di lui. Poggiò le mani sul suo petto facendole scendere fino a sfiorare il cavallo dei suoi pantaloni. Era silenziosa, e sapeva che quel movimento era ben nascosto dalle lunghe maniche de suo abito. Adorava giocare sporco.
«Andiamo, mio signore.» Lo prese per mano conducendolo verso la morte.



«Capo villaggio», il richiamo lo portò ad alzare le palpebre. Oltre il fumo della sua pipa gli occhi del capo villaggio si poggiarono contro i corpi degli jonin presenti davanti a lui. Erano tutti molto giovani, ma tanto esperti che l'età passava in secondo piano. E lui, bè, si fidava di loro. Tutti loro.
Lasciò uscire il fumo dalle labbra un'ultima volta prima di poggiare la pipa e concentrarsi. Capendo che l'anziano era disposto ad ascoltare, la sentinella schiarì la voce e iniziò: «Saggio anziano, è successo un'altra volta. Abbiamo trovato il cadavere di un uomo poco fuori città, nel quartiere a luci rosse. Anche questo soggetto presenta graffi sulla schiena, e gli sono stati cavati gli occhi. »
«Mhh...» Fuori dalla finestra ruggì un tuono. Attirato dal rumore della pioggia che iniziava a battere sui vetri l'uomo si alzò e si affacciò liberando lo sguardo sui tetti delle case di Kakunodate. Erano solo un ammasso di forme differenti, che prendevano vita alla luce dei fulmini. «Capisco.» Silenzio. «La squadra dei Nove cosa dice?»
«Non sono ancora riusciti a prendere l'assassino» affermò l'uomo.
«Che sia un ninja traditore che tenta d'inviare un messaggio al Capo Villaggio?» chiese Makoto, incrociando le braccia al petto. «Nah, non credo.» Katashi si grattò la fronte. «Sta dando troppo nell'occhio, un ninja che vuole lanciare un messaggio solo a noi porterebbe i cadaveri davanti alla nostra porta e non li lascerebbe nel luogo dell'assassinio, dove tutti possono vederli», si guardò attorno, «questa, almeno, è una mia supposizione.»
Il saggio anziano voltò il corpo nella loro direzione, congiungendo le mani dietro la schiena. Si sentiva vecchio ormai, stanco e appesantito da tutto il lavoro che gli gravava sulle spalle.
L'ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento era un assassino a piede libero per il suo villaggio.
«Già, lo credo anche io» affermò Chiyo, «ma questo non toglie che potrebbe iniziare a lasciarli in giro proprio perché vuole che la gente li veda. Perché vuole che inizi ad avere paura e dubitare di noi. Allora, sarebbe un grande problema.»
«Questo di certo non migliora le cose.» Mamoru spostò il lungo bastoncino che teneva fra le labbra da una parte all'altra, con la stessa calma di sempre.
L'ennesimo lampo illuminò a giorno la stanza in cui si erano riuniti, donando ai volti dei presenti sfaccettature diverse dal solito. Alcuni visi rimasero immobili totalmente indifferenti, senza espressioni, in altri si poteva leggere la curiosità scritta in faccia e in altri ancora il nervosismo.
Non era mai capitato che a Kakunodate ci fosse qualcuno così bravo da nascondersi persino alla squadra dei Nove. Anche il capo villaggio, sebbene lo tenesse nascosto, iniziava a sentirsi turbato da quelle rivelazioni. Un killer nella loro cittadina era qualcosa di inaudito.
Asuma attirò l'attenzione di tutti poggiandosi malamente al muro. Le larghe spalle scontrarono la parete imponendo un suono sordo e prolungato nella stanza piena di ninja. «Questo assassino, il modo in cui uccide, dovrebbero farci capire qualcosa sul suo modus operandi. Ragioniamo.»
Calò il silenzio, rotto solo dai respiri dei jonin presenti. Non era mai capitato che i jonin del villaggio di Kakunodate dovessero ragionare per ben tre settimane per riuscire ad arrivare a una conclusione. Ma quella sera, sembrava che qualcosa cominciasse finalmente a girare. Quella notte, forse, sarebbero arrivati ad avere una risposta.
«Abbandona i cadaveri sul luogo dell'assassinio, quasi sempre nei dintorni del quartiere rosso. La maggior parte delle volte cava loro gli occhi ma non vi è mai tracce di sangue ne sul corpo ne nelle zone circostanti. Ci sono solo segni di graffi sulla schiena. Si dimostra...»
«E' preciso» intervenne improvvisamente Chiyo. Asuma le sorrise, annuendo.
«Questo vuol dire che quello che fa è calcolato», intervenne Makoto.
«Lascia le cose così perché sa che le troveremo. Vuole mettere in mostra il suo operato.» Da dietro la maschera, il vecchio anziano intravide un sorrisetto sulle labbra di Katashi. «Ciò singifica che è stato addestrato. E' un sicario.»

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Capitolo 2
*** Killer ***


Ku No Ichi – Una dei nove  





Asciugò il sangue dell’uomo sopra la propria veste, gettata malamente poco lontano dal futon. Tagli rossi e scuri macchiarono la stoffa pregiata, inumidendola, allargandosi quasi a volere evidenziare il fatto che il lavoro era stato completato. Quello che non riuscì a togliersi dalle mani venne assorbito dal resto del vestiario dell’uomo, che poi venne bruciato senza lasciare traccia.
Le sue braccia, dita, ventre e gambe tornarono al pallore usuale che era abituata a vedere una volta che si fu lavata completamente. Era una tecnica che ormai era solita utilizzare dopo ogni assassinio: uno sfizio che sua madre, capo del Clan Mochizuki, le aveva sempre sconsigliato di sfamare. Ma, dopo uno scontro con un tipo del genere l’unica cosa che alla kunoichi era passata per la testa era stato un bel bagno; guarda caso, il bordello offriva in ogni stanza quel servizio. Si era fatta portare acqua calda, bollente, prima di uccidere l’uomo, in modo che pensassero fosse per lui e dopo aver compiuto la sua missione vi si era immersa. La temperatura, a quel punto, si era rivelata perfetta.
Si accarezzò il lungo e superficiale taglio che il mercenario le aveva fatto sulla pancia. Si era rivelato un osso più duro del previsto. Non aveva esitato a colpirla con la sua spada, ed era stato tanto veloce che all’inizio lei neppure aveva avuto il tempo di rendersene conto. Con il filo della lama le aveva tagliato il ventre, un graffio di poco conto, portandola a fare qualche passo indietro. Aveva finto di mancare di fiato, lui le si era avvicinato: allora si era alzata, aveva stretto gli occhi e gli aveva rifilato un pugno in pieno volto così forte da farlo svenire. Poi, si era poggiata sull’allenato petto nudo e aveva premuto i polsi contro i bicipiti. Le unghie dei neko-te non erano servite a infliggere lesioni mortali come durante le altre missioni, avevano solo punto leggermente la pelle abbronzata costellata di cicatrici. Il sangue dell’uomo le era finito sui palmi, sui polsi che successivamente lui aveva stretto in una presa ferrea e dolorosa. Con un colpo di reni aveva ribaltato la situazione.
Si era ritrovata stesa sotto quel corpo imponente che ombreggiava ogni cosa attorno a loro. Le aveva portato le braccia sopra la testa, quasi divertito dal fatto di essere preda di una kunoichi, e l’aveva penetrata con violenza più e più volte ridendo, stringendo ancora la mano sui suoi polsi stretti. Le aveva fatto male, come mai nessuno dei suoi avversari prima d’ora. Ma era stata in grado di sopportare tutto quello, sebbene non l’aveva mai calcolato nel suo piano originale. Poi, quando lui si era bloccato improvvisamente ed era uscito per non fecondarla, lei aveva reagito.
Aveva alzato una gamba con tanto slancio da farsi male da sola quando aveva raggiunto il suo obbiettivo. Lui si era afflosciato da un lato e lei aveva ripreso il controllo di tutto. Con un gesto veloce dei neko-te gli aveva trafitto la gola, profondamente. Il sangue era zampillato copioso sul pavimento e contro di lei; i rantoli del mercenario l’avevano accompagnato.
Inconsciamente, gli occhi scuri di lei si poggiarono sugli aloni viola che iniziavano a comparirle sulla pelle dei polsi, poi passarono alle dita: non si era resa conto di non essersi levata nemmeno gli artigli insanguinati. Uscì dalla vasca, asciugandosi e iniziò a slacciare le piccole cinghie dal polso. Il cinturino di cuoio tintinnò un poco a contatto con la prima unghia di metallo.
Bussarono. Lei si fermò, lasciando che la coda dell’occhio scivolasse sull’uscio socchiuso. Gli occhi della figura nascosta nell’ombra accennarono a un inchino, mentre si faceva avanti.
La matrona del Drago di Giada entrò silenziosa, tenendo fra le braccia abiti puliti. La kunoichi non si sentiva in minimo imbarazzo di fronte a lei, pur essendo nuda. Aveva imparato a non scomporsi mai, in nessuna occasione; dal canto suo, la donna si trovava davanti giovani nude ogni sera e non provava alcun sentimento in proposito. Ai cadaveri, invece, doveva ancora farci l’abitudine. La ragazza posò le armi sul davanzale della finestra.
«Grazie.»
«E’ un piacere.»
«Il tuo compenso è su quel tavolo.» Aveva una voce tanto calma e incolore che pareva provenire da qualcuno che non aveva mai provato emozioni. Simile a quella un prigioniero recluso in un posto lontano, da solo e ormai rassegnato al suo destino.
Per un attimo la matrona si ritrovò scossa da brividi, poi annuì, prese il sacchetto e uscì in silenzio. C’era tensione nell’aria che aleggiava in quella stanza ormai vuota.
Il cielo fuori si stava scurendo. Grandi nubi plumbee andavano a nascondere le stelle e di tanto in tanto qualche tuono squarciava la tranquillità. Nascosta nell’ombra tagliata dai fulmini la kunoichi iniziò a vestirsi. Scivolò nelle morbide stoffe di un lungo kimono rosa e bianco, arricchito da decorazioni di crisantemi. La matrona l’aiutò a sistemarlo e le acconciò i capelli con cura, sebbene la giovane percepisse la paura che aleggiava nel corpo della donna. Si truccò e poi alzò, come se nulla fosse mai accaduto.
Lanciando uno sguardo al cadavere dell’uomo, si ritrovò ad alzare le sopracciglia. Non represse la smorfia di indignazione che le salì alle labbra. Sdraiato per terra, nudo, sembrava un misero verme. Una descrizione che riproduceva quello che era stato in vita alla perfezione.
Aprì la porta della stanza e con l’accenno di un saluto alla sua ultima vittima sparì nella notte.
Sia lei che la matrona sapevano che sarebbe tornata molto presto; che non avrebbe esitato a ucciderla se questa volta si fosse fatta scappare di bocca qualcosa sul suo conto.
La kunoichi era al corrente che la stavano cercando per tutto il Villaggio di Kakunodate, era l’unico pensiero che le ronzava per la testa mentre scivolava nel buio oltre le scala, usciva in strada e si perdeva nel mare di gente. La caccia era aperta e questa volta lei non era solo il carnefice ma anche la preda, si ripeteva silenziosamente. Eppure, non si sarebbe fatta prendere così facilmente: era una componente del clan Mochizuki, le avevano insegnato a trovare sempre una via di fuga. Anche se questa era la morte. Doveva proteggere il clan e l’onore che portava da generazioni, non si poteva permettere di infangarlo facendosi scovare. Era un suo dovere.
Camminò silenziosamente fra le strade sterrate, alla luce delle lanterne variopinte attaccate fuori dai bordelli e dai negozietti che vendevano alcool e cibarie. In un certo senso non le dispiaceva trovarsi in quel luogo, perché a quell’ora tutto sembra riflettersi sulla realtà che la circondava con tanta intensità da annebbiarla. Era quasi rilassante. Si. Lo era. Finché un giovane uomo non la scontrò con la spalla e fu cacciata fuori dai suoi sogni a occhi aperti.
Lo osservò con sguardo indagatore, senza dimenticarsi di sorridere e nascondere poi metà del viso dietro il proprio ventaglio per poi andarsene.
Guardandosi attorno si assicurò che nessuno la seguisse prima di lasciare il quartiere rosso e nascondersi nelle tenebre. Scovò la maschera e il mantello, diventando finalmente un tutt’uno con la notte.


Se c’era una cosa che piaceva a Katashi erano i suoi libri: un intruglio di parole scritte a caso, contenuti quasi prettamente erotici e titoli idioti. E nessuno riusciva a capire perché quell’uomo se li portasse ovunque. Ne aveva sempre uno nascosto nella tasca del giubbino quando si metteva a pattugliare il paese, pronto a essere tirato fuori nei momenti meno indicati.
Makoto lo fissava di traverso, mentre cercava di tenere a freno la voglia matta di tirargli un pugno. «Ti sembra questo il momento giusto per leggere? Ti vorrei ricordare che c’è un assassino a piede libero da scovare» borbottò, puntandogli un dito al petto. Il jonin lo ignorò, girando concentrato una nuova pagina. «E tu faresti parte dei Nove, incredibile!» Lanciò le mani in aria e sbuffò ancora.
Con lo sguardo ancora concentrato sul suo amato racconto, il ninja sospirò. «Non ci vedo niente di male a leggere un po’.»
«Di la verità: tu credi che stasera non lo troveremo, non è forse così?»
«Esattamente.» Chiuse il racconto con un colpo secco e silenzioso, grattandosi poi la fronte con fare annoiato.
Makoto sapeva bene quanto la mente di Katashi fosse ben allenata e, sebbene ogni tanto i suoi comportamenti lasciassero a desiderare, non stentò a credere che dietro a quell’affermazione ci fosse una teoria elaborata nei minimi dettagli. Dopo tutto, si trattava della supposizione di un ex capo squadra; qualcuno che aveva lavorato con l’ingegno e la forza bruta sui campi di battaglia per un lungo tempo. Aveva rubato, ucciso innocenti in nome di qualcun altro: era stato un sicario, perciò capiva bene la mentalità della persona con cui adesso tutti loro avevano a che fare. Qualche volta, Makoto, non riusciva a capacitarsene; ma la realtà non poteva essere cambiata. Katashi era stato quello e il suo passato aveva strisciato sulla sua pelle lasciando segni indelebili.
Con un peso in più sullo stomaco, allontanando il volto da quello dell’amico concentrato nuovamente a leggere, il ninja moro alzò gli occhi al cielo poggiandosi al tronco dell’albero che li stava sorreggendo. Non c’erano più molte stelle ormai, la maggior parte erano state mangiate dalle nuvole di burrasca; le tenebre che stavano abbracciando il villaggio erano così dense che si poteva tagliarle con il coltello. E l’aria fredda, carica di elettricità sembrava voler annunciare solo e soltanto un’imminente tempesta. Ma che altro ci si poteva aspettare? Ormai l’inverno aveva ritardato anche troppo il proprio arrivo.
Un fruscio di foglie attirò la loro attenzione, portandoli a voltarsi. Mamoru si mostrò a loro con il solito sguardo annoiato, incrociò le braccia e spostò il bastoncino che teneva sempre in bocca da una arte all’altra delle labbra.
«Sono stati trovati altri due corpi.» Katashi affilò lo sguardo.
«Ha agito due volte questa notte?» Nelle sue parole c’era qualcosa di troppo avventato, veloce. Era come se neppure lui si potesse capacitarsi del fatto che quella sera un essere umano avesse potuto uccidere due persone a sangue freddo. Come se si fosse dimenticato che anche lui, una volta, aveva fatto di peggio.
Mamoru annuì, sbuffando fuori aria con fare annoiato.
«Questa cosa puzza. Comincio a pensare che farci impazzire sia la priorità di questo assassino.» Makoto poggiò una mano sotto il mento accarezzando la pelle bronzea con area cruciata.
«Dobbiamo ispezionare i corpi, non c’è tempo da perdere.»
«Si stanno già attrezzando per portarli quì, credo non ci vorrà molto.»
Prendendo un bel respiro, il jonin dai capelli d’onice proferì una semplice parola: «No.» Il vento sfiorò i suoi vestiti facendoli increspare. «Voglio esaminare le scene del crimine e i corpi, senza che niente venga mosso da dove si trova.»
Mamoru alzò un sopracciglio, dubbioso. «Di un po’ la verità, Katashi, tu vuoi solo entrare nei bordelli, non è così?»
«Pervertito» commentò Makoto.
«No, non è così» ribatté allora il terzo. Poi, accarezzandosi la testa sospirò: «Bè, non sarebbe male vedere qualche bella ragazza già che ci siamo.» I due ninja caddero a terra nel sentire quelle parole.
La strada per l’Asaken (赤線, letteralmente "linea-rossa", era così che veniva chiamato il quartiere a luci rosse nel Giappone feudale) non era molta da percorrere. I tre ninja del gruppo dei Nove non vi misero che pochi minuti per raggiungere il luogo in cui era stato commesso il primo omicidio.
Vestivano gli abiti della gente comune per non dare nell’occhio e saziavano i loro occhi con i corpi delle donne che li salutavano o che ammiccavano provocatorie. Alcune volte si fermavano davanti a qualche porta e, fingendosi indecisi, proseguivano.
«Santo cielo» esclamò Katashi non appena i suoi piedi si fermarono sulla soglia di quella che gli era sembrata una stanza qualunque, all’inizio.
«Hai visto?» Makoto si distanziò dal cadavere per raggiungere il nuovo venuto. «Pare che questo poveraccio sia incappato nell’ira di un Oni.»
«Già» ammise l’uomo, con voce vellutata come il vento.
Si ritrovava davanti a una scena sanguinaria e priva di tatto. Quello che restava del cadavere non era nulla più che un intruglio di sangue, budella e pezzi di pelle sbrindellata. Al volto, appena riconoscibile, erano stati cavati gli occhi.
Rinsavendosi, riuscendo a togliere la visuale da quel poveretto e a incentrarla sul compagno Katashi tirò un sospiro di sollievo. Si gratto una guancia, quasi fosse annoiato e chiese: «Dov’è Mamoru?» Essendo rimasto leggermente più indietro rispetto agli altri a causa di una ferita arrecatagli alla coscia in un combattimento recente, e in più concentrato su quello spettacolo agghiacciante, si era accorto solo in quell’istante dell’assenza dell’amico.
«Interroga la matrona del locale, al piano di sotto.»
«Capisco.» Si accucciò a terra in cerca di qualche indizio, ma in mezzo a quella confusione era impossibile trovarne qualcuno. In più, la puzza che la carne di quell’uomo emanava gli dava il volta stomaco ora che non indossava la divisa che gli copriva il viso. «Andiamocene, anche se volessimo ormai c’è poco da trovare in un luogo del genere. Prima, però, assicurati che ripuliscano tutto come se nulla fosse successo.»
«Certo.» Si lasciarono alle spalle il primo bordello con tanta velocità che persino loro si stupirono di quell’azione.
Avevano ancora l’aroma nauseabondo del cadavere che gli infestava le narici e speravano vivamente che il prossimo non puzzasse così tanto.

«Questo è messo meglio, non trovate?» Mamoru fece qualche passo in avanti curvandosi sul cadavere riverso a terra. «Almeno non odora come l’altro» sdrammatizzò il jonin, indicando con un dito i lunghi tagli che attraversavano il petto dell’uomo per poi analizzarli.
Non doveva avere più di trent’anni, pensò Katashi, e viste le molte ferite che gli costellavano la pelle era stato un mercenario. Sul petto erano ordinatamente posti cinque tagli, che però non avevano sanguinato tanto da sporcare il cadavere e il futon.
Accarezzandosi il volto Katashi sospirò. C’erano troppe cose che non tornavano in quella stanza. Tutto era troppo in ordine, e sebbene le mani dell’uomo fossero sporche di sangue il ninja era certo non fosse suo.
«Noti qualcosa di strano?» sussurrò Makoto affiancandosi.
«Guarda il cadavere, il disordine lasciato sul futon» bisbigliò Katashi, girovagando con gli occhi nei punti che lui stesso indicava, «e adesso, invece, nota come tutto il resto sembra non sia stato toccato. Persino gli abiti dell’uomo sono piegati con maestria e messi in una parte della stanza.» Il jonin si mosse, con passo silenzioso. Le assi scricchiolavano un poco sotto il suo peso, creando un rumore fastidioso.
Intanto, dalle altre camere giungevano gemiti di eccitazione. Katashi cercò di non dargli peso, sebbene non potesse non pensare che una notte di passione sarebbe piaciuta anche lui.
«Direi che, anche per questo, c’è poco da fare. D’ora in poi metteremo uomini sotto copertura in ogni bordello del quartiere» iniziò a elencare il giovane, l’amico che l’ascoltava attentamente, «cose del genere non devono più ripetersi.»
«Non ci faremo prendere in giro ancora» asserì Mamoru. «Ora però, torniamo a casa e riferiamo tutto all’Anziano.» Prese Makoto per una manica e lo condusse nel corridoio principale, non prima di aver riservato un ultima occhiata alla scena. Katashi, dal canto suo, decise di fermarsi in quella stanza più a lungo.
Era così diversa rispetto a quella precedente: meno cruenta. Tutti i particolari che la componevano non erano lasciati al caso. Troppo disordine attorno al futon, troppo ordine accanto alle pareti.
Si accucciò vicino alla porta e abbassandosi quasi fino a toccare il pavimento con il mento scandagliò il luogo dell’omicidio con fare pignolo. Sotto la finestra, piccola e praticamente invisibile da notare senza che la luce la colpisse, c’era qualcosa che brillava. Il jonin rimasto scattò verso di essa, raccogliendo l’oggetto con fare curioso. Non si trattava d’altro che una piccola pietra lucente, trasparente e ben intagliata; una rarità a quei tempi, che solo le figlie di ricche famiglie potevano permettersi d’indossare.
Socchiuse le labbra: che l’omicida fosse una donna? Scosse il capo. Impossibile, quante probabilità c’erano che fosse così? Una su un milione, probabilmente. Certo, esistevano le kunoichi, ma a quanto ne sapeva Katashi erano poche e usavano per di più veleni, un esempio era la sua collega, mentre sulla scena di quel crimine c’erano sangue e graffi.
Con ancora in testa quel pensiero martellante si avviò al piano sottostante. Rigirò fra le dita la pietra lucente, mentre attraversava l’atrio e usciva in strada. Era un gemma così ben fatta che per un attimo pensò di rivenderla. Dopo tutto, una volta trovato l’assassino di quella cosa non se ne sarebbe più fatto nulla, tanto valeva rivenderla subito. Ci avrebbe fatto dei bei soldi, si sarebbe potuto permettere le migliori puttane e i migliori servizi che i bordelli offrivano.
E con la testa fra le nubi, concentrato sul pensiero della valuta di quel piccolo tesoro non si accorse che tra la folla c’era una persona che non notava dove i piedi e la fantasia la stavano trasportando.
Si scontrarono lievemente, ma quel contatto bastò per metterlo in allerta. Rizzò le spalle e irrigidì i muscoli. Lei aprì il suo ventaglio velocemente, nascondendo la maggior parte dei tratti del volto alla sua visuale, tranne gli occhi. Occhi emblematici e tanto scuri da far paura; risaltati da un trucco pesante e al tempo stesso aggraziato; profondi come i pozzi che si trovavano fuori città, che la sera avvolti nel buio sembravano non avere una fine.
Il jonin non arretrò nemmeno quando lei, adornata dalla sua bellezza serafica, sorrise con lo sguardo tagliando la figura dell’uomo in due e poi se ne andò. Si limitò a guardarla sparire tra la folla, a memorizzare il motivo del suo kimono pallido e l’intricata acconciatura dei capelli corvini, il luccichio del prezioso fermacapelli.
Rifletté, prima di riprendere il cammino, che era la prima volta che gli capitava di ritrovarsi faccia a faccia con una donna che l’aveva fatto sentire tanto a disagio. Ma, forse, era una cosa normale pensare ciò: quegli occhi, loro erano la causa di quell’emozione tanto strana.
Katashi si fuse alla folla che lo abbracciava con i suoi colori vivaci e i gemiti che promettevano piacere. Giocando con il piccolo diamante, portandoselo innanzi al viso più volte e analizzando come la luce accarezzava il materiale al jonin vennero in mente per qualche bizzarro motivo gli ornamenti della gesha. Si girò. Veloce, quasi da pensare di averla ripresa nel suo campo visivo. Invece lei era già scomparsa.
Troppo tardi, si disse, correndo verso casa.

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Capitolo 3
*** Daimyo ***


Daimyo


Piccola Annotazione Iniziale:Ricordo che questa storia è coperta da copyright.©
La storia è ambientata più o meno nel periodo Ashikaga o Muromachi (1333 - 1573); nonostante Ashikaga Yoshimitsu fece cessare lo scisma nel 1393 proclamandosi Shōgun e dando al paese un periodo di pace, il secondo Shogunato giapponese non mantenne mai l'effettivo governo sul paese e subì un lento declino, segnato dal crescente potere dei daimyo, i signori locali.
Dal 1467 al 1568 il caos politico del paese diede vita a infinite battaglie, che costituiscono l'era Sengoku (Stati combattenti). Nel 1573 l'ultimo Shogun Ashikaga fu deposto da Oda Nobunaga.









La grande residenza dei Mochizuki si poteva riconoscere da metri di distanza a occhio nudo. Era una grande abitazione recintata, il cui interno era recluso agli occhi dei viandanti da mura alte e un possente portone di spesso legno; gli alberi che fiorivano al suo interno coloravano la cima di quei muri con colori vivaci (il rosa dei ciliegi, il bianco dei peschi) e inondavano l'aria con correnti di profumi dolcissimi.
Nel punto in cui si trovava, la Kunoichi riusciva a scorgere l'engawa e la moltitudine di piccole lanterne che la madre aveva fatto accendere in giardino per aiutarla a non sbagliare strada. Sembravano un insieme di lucciole, li, solo per lei. Risplendevano pallide contrastando i fulmini gialli che si ramificavano nell'immensità del buio.
Con un abile salto la giovane atterrò prima sulla sommità della recinzione e successivamente sulla strada che conduceva alla residenza. In lontananza, ancora immerso nell'abbraccio della notte morente, udì il suono della piccola fontanella di bambù che le dava il ben tornato e le bocche delle carpe che mordicchiavano la superfice dell'acqua in cerca di cibo e ossigeno.
La ragazza non si fermò che per un fuggevole sorriso e poi corse dentro la dimora, scampando a un'improvvisa versa che si scontrò con violenza sul verde manto dove giacevano i fiori tanto amati della madre.
Si tolse le scarpe lasciandole fuori dalla dimora, gettò gli abiti lontani e sciolse i capelli poggiando i vari accessori sopra un piccolo comodino.
Dannazione, pensò notando allo specchio che la sua pelle era rimasta macchiata più del previsto a causa della presa dell'uomo. I suoi polsi erano divenuti viola, sembrava che qualcuno le avesse appoggiato sulla pelle delle bucce di susina e, se provava a toccare gli ematomi, dolevano terribilmente. Cosa avrebbe raccontato a suo padre se li avesse visti? Non poteva certo dirgli che l'uomo che aveva ucciso, quello stesso essere che suo padre le aveva ordinato di far fuori, prima di morire l'aveva stuprata e ferita. Si sarebbe sentita dire che non era in grado di portare a termine il proprio lavoro, oppure che era una delusione per l'intera famiglia.
Ungendo gli ematomi con una crema pregò che l'indomani quelle tumefazioni sarebbero quanto meno affievolite di tono.
Infilò la casacca da notte e iniziò a spazzolare i capelli, mentre le sue orecchie udivano il rumore di passi farsi più forte e vicino. Fino a fermarsi innanzi alla porta della sua camera.
«Chi è che ha deciso di disturbare a quest'ora tarda di notte?» domandò con voce tagliente, quasi fosse colpa del nuovo venuto se lei era ancora in piedi. Sperava vivamente che non si trattasse di un domestico, o di uno dei loro figli; non li aveva mai sopportati molto quei ragazzini.
«Mi spiace, mia signora» sussurrò una voce dal corridoio, «ho sentito dei rumori e ho pensato vi foste sentita male.» Era solo una semplice guardia. La giovane tirò un sospiro di sollievo.
Si alzò, stirando accuratamente con le mani la stoffa pregiata che ricopriva il suo corpo e poi fece scivolare la porta verso sinistra. Innanzi a lei, nel semi buio stava inginocchiato un uomo dai capelli corvini e l'elsa di una spada più rossa del sangue. L'ombra che si allungava alle sue spalle ricordava alla ragazza quella di un demone, ricurva e densa.
L'uomo alzò lo sguardo sulla giovane, incontrando i suoi occhi serafini, e lo riabbassò subito dopo. «Mi spiace di averla disturbata, mia signora.»
Lei sospirò come per far intendere che la sua vista la stava stufando e, per marcare con più solidità quell'affermazione, sventolò la mano nella direzione da cui l'uomo era arrivato. «Voglio riposarmi come si deve, la bellezza non si mantiene con il solo pensiero» aggiunse infine, rintanandosi nuovamente nella propria stanza.
Il giorno dopo sembrò salutarla più per dovere che per piacere. La luce si poggiò sui tatami come volesse fargli una carezza e si allungò fino a risalire sulla superfice del fusuma.
Nascosta dalle coperte del futon la giovane si voltò a pancia in su, poggiò un braccio sulla fronte e respirò a pieni polmoni. Al leggero materasso aveva fatto l'abitudine da anni, perciò la schiena non poteva dolere per quel motivo. Probabilmente, pensò, la sera prima quel mercenario non doveva solo averle inferto ferite sui polsi; ma lei, non voleva saperne di ciò che le marcava la pelle sotto le spalle. Avrebbe resistito finché ogni cosa non sarebbe andata per il meglio e il dolore non sarebbe scomparso del tutto.
Si alzò e si vestì con uno degli splendidi kimoni che il padre le aveva portato dal suo ultimo viaggio. Si trattava di un lungo abito dai colori che rimandavano alla primavera: verde acqua, perla, rosa; splendidi disegni di gru e fiori di ciliegio adornavano il tutto. Chiamò una serva dalla quale si fece acconciare i capelli e sistemare il trucco, poi s'incamminò verso la stanza del tè.
La madre l'aspettava, seduta con la schiena dritta e una tazza di tè fumane fra le mani ben curate. Ogni volta che incrociava i suoi occhi grandi e freddi la ragazza non poteva far a meno di chiedersi quanto fosse scura l'anima della genitrice; quante persone erano state vittime delle sue movenze prima di essere uccise, a sangue freddo? Sarebbe stata anche lei una di queste? Era anche lei una sua pedina? Ma più provava a trovare una risposta, più l'incertezza le copriva le spalle come una coperta.
«Onorevole Madre» sussurrò rispettosa, chinando il capo. Com'era interessante il pavimento in confronto al famigliare che le sostava innanzi. Rialzò la testa, poggiò le mani sulle ginocchia piegate e disse: «L'incarico che mi avete affidato ieri, Onorevole Madre, è stato portato a termine con successo.»
«Non come speravo, devo supporre» obiettò immediatamente la donna, sorseggiando con calma apparente il proprio tè caldo.
La giovane nascose un moto d'incertezza nella stretta che racchiuse un pezzo di tessuto soffice all'interno della propria mano.
«Una delle mie sentinelle ha notato strani aloni sui tuoi polsi questa mattina. A quanto pare», poggiò la tazzina sul piccolo vassoio rialzato e accarezzò graziosamente il proprio abito con le mani, «sei stata incauta.»
La Kunoichi abbassò lo sguardo, subito dopo aver incrociato quello della madre. Si sentiva tremendamente imbarazzata per la poca attenzione che aveva riposto nei dettagli mentre si stava preparando, nell'essersi esposta incautamente a quell'unica domestica che l'aveva aiutata. Avrebbe dovuto stare più attenta. Si ripromise di esserlo in futuro.
Dopo un intenso e breve silenzio, la genitrice le versò del tè e riprese la propria tazza. «Tutta via, hai portato a termine il tuo incarico come ti era stato richiesto. Sei più vicina al tuo obiettivo di quanto tu non creda, figlia mia.»
La ragazza sentì il cuore scaldarsi un poco.



҉



Il sole splendeva leggero sulla casa dell'anziano. Con le prime luci dell'alba la vita era tornata ad affollare la piccola aia che possedeva. Le galline raspavano placidamente a terra, sorvegliate da una coppia di gatti rossi ora svegli ora sonnecchianti.

Un piccolo rumore fece sollevare una palpebra al Capo Villaggio. «L'estate è sbocciata splendidamente, non trovi, Ryuu?»
«Si.» Il giovane prese posto accanto al vecchio e si mise ad osservare il panorama. «Si sta davvero bene qui, nonno.»
Kukunodate era bella in qualsiasi periodo dell'anno, anche se il giovane la preferiva in primavera, quando gli alberi di ciliegio sbocciavano e coloravano le strade lungo il fiume di rosa, imperversavano profumi intensi e il caldo non era troppo afoso da far si che la gente si chiudesse in casa in cerca di fresco.
«Hai riposato bene?»
«Come sempre, quando vengo qui» sorrise il giovane, adagiando fra le mani dell'anziano parente una tazza di tè. «Spero sia venuto decentemente, questa volta» sussurrò l'ultima frase con fare imbarazzato, velocemente. Il Capo Villaggio l'osservò, portando lentamente un sorso alle labbra. Ryuu rimase col fiato sospeso. «Allora?» chiese, coltivando silenziosamente una speranza.
Il vecchio sorrise, delle piccole rughe si ramificarono attorno ai suoi occhi. «E' tremendo.» Il giovane gettò la testa verso il basso, sconsolato. «Oh, ma non perderti d'animo nipote mio» si affrettò ad aggiungere «fra qualche giorno dovrai pensare solo ad essere un buon Daimyo per Kukunodate. Avrai al tuo fianco una ragazza meravigliosa, che penserà a te e ti darà molti eredi. La figlia di Kenshin è un bocciolo appena fiorito. Si sì, diventerà davvero una splendida donna.»
Ryuu chiuse gli occhi. Cercava in continuazione di immaginare che aspetto avesse quella giovane di cui suo nonno cantava le lodi e, ogni volta, gli passava sotto le palpebre l'immagine di una ragazza diversa; poteva assomigliare alla figlia del pescivendolo, alla moglie del contadino che abitava loro vicino oppure, ancora, a una mercante straniera proveniente da oltre mare (viaggiando verso Kukunodate ne aveva viste molte sulla costa, alcune con la pelle scura come la notte e altre dai capelli del colore del sole).
«Non dubito di una sola delle tue parole, caro nonno» sorrise. Successivamente, voltandosi verso l'engawa e scorgendovi una figura di spalle scosse il capo e avvicinò le labbra all'orecchio del parente. «Ma è necessario che le tue guardie del corpo siano affidate a me, adesso?»
«Si.» Il vecchio accese una lunga e sottile pipa. «Da questo pomeriggio diventerai il nuovo Signore di Kukunodate, la Squadra dei Nove è al tuo servizio», l'uomo affilò lo sguardo oscurandosi d'un tratto, «e con loro ti sono caduti sulle spalle tutti i segreti che si aggirano nel nostro villaggio.» Allungò una mano verso il collo del nipote e lo avvicinò bruscamente al proprio volto. «Non spifferare questi segreti a nessuno, nemmeno alla tua futura moglie, altrimenti scoppierebbe il caos. Ci siamo capiti?»
Ryuu annuì.
Da dietro la leggera porta sulla quale era appoggiato, Katashi aprì gli occhi e sospirò pensieroso. Sarebbe stato in grado, Ryuu, di gestire un intero villaggio in continua evoluzione?
Alzando lo sguardo verso il cielo, ancora tinto di arancio, il ninja pregò che tutto andasse bene. Sia per il nipote del Saggio Anziano che per lui, in quanto sua futura guardia del corpo.

 

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Capitolo 4
*** Un pericoloso crescendo ***


Un Pericoloso Crescendo



空の
(vuoto)
 
 

Le strade di Kukunodate erano affollate come non mai quel mattino d’estate.
Il sole batteva raggiante su ogni cosa, accompagnato da una fresca brezza che alleggeriva l’atmosfera carica di curiosità e tensione. Un piccolo palco rialzato era stato posto davanti alla residenza del nuovo Capo Villaggio, che da li a poco si sarebbe mostrato al popolo.
La Kunoichi, seduta elegantemente su una panca posta di lato all’altare si sventolò il volto con un ventaglio dai colori pastello. Non aveva potuto portare il suo tessen e la cosa la turbava parecchio, ma in pubblico –di giorno- era sconsigliabile mostrarlo specialmente dopo tutta quelle serie di assassinii che si erano consumati nel quartiere a luci rosse. Tutta via, non avendolo con se la donna non poteva che sentirti turbata e annoiata: attorno a lei nulla brillava attirando la sua attenzione come avrebbero potuto fare le lamine dell’arma che adorava tanto.
Un’ombra proiettata in una lunga linea retta a terra proveniente da destra destò molte occhiate, compresa la sua. La giovane affilò svelta lo sguardo e, cercando di non farlo sembrare un gesto troppo usuale, rimase in attesa. Di cosa, non lo sapeva nemmeno lei. La sagoma che spuntava da dietro la porta scorrevole non era niente di che, se non un amalgamato nero con una forma precisa, eppure la Kunoichi sentiva che c’era qualcosa di più nascosto alla semplice vista; l’istinto le diceva di allontanarsi mentre la madre, sedutale accanto, le intimava di ricomporsi e atteggiarsi a nobildonna quale era.
Pensando a tutte le possibili ipotesi la ragazza si ricompose e riprese a sventolare davanti al viso un semplice ventaglio.
Appena il sole fece capolino da sopra la chioma di un albero, un giovane uomo uscì dalla casa e si mostrò al popolo. Era alto ed indossava un lungo kimono dai colori scuri; portava i capelli lunghi legati in una coda, gli occhi neri spiccavano sul viso marmoreo dai tratti ben definiti.  Era bello. Somigliava alla luna, tanto sembrava innalzarsi sopra gli altri con i semplici gesti che componeva con le mani parlando.
Un tocco leggero sulla spalla le fece perdere la concentrazione sul soggetto che aveva innanzi, si voltò. La madre le stava osservando serafica, mentre si sventolava con il proprio ventaglio. Le si avvicinò un poco e, stando ben attenta a nascondere le labbra alla vista dei presenti, le disse: «Osservalo bene, figlia mia, quello è il nipote del Capo Villaggio di Kukunodate, porta il nome di Ryuu.»  Silenzio. Un folata di fresco vento. Un fruscio di foglie. «E’ il tuo promesso sposo.»
Il respiro le si mozzò a metà della gola. Così era lui. Incredibile il poco tempo con cui quella donna era riuscita a trovare un sostituto all’ultimo uomo che l’aveva chiesta in sposa. Per lo meno, si disse, quello che le stava davanti era una visione più dolce per gli occhi di quanto non fosse stato l’ultimo.
Sorrise calcolatrice, sarebbe stata una sfida notevole quella a cui la metteva davanti la madre. Incrociando le dita sperò di riuscire a portarla a termine.
Mentre il ragazzo, affiancato dall’anziano parente, iniziava a parlare (aveva una voce profonda che infondeva sicurezza) la giovane provò come se un lungo e freddo getto d’acqua le stesse solcando la spina dorsale. S’irrigidì, tentando di non darlo troppo a vedere, tenendo d’occhio quello che la circondava. Lo strano presentimento di poco prima le si era nuovamente insediato nelle ossa. Socchiuse le palpebre.
Qualcuno, ne era certa, la stava studiando di nascosto; e quel qualcuno doveva essere anche un tipo molto bravo a scegliere luoghi d’appostamento, in quanto le risultò difficile individuarlo visivamente o anche solo udirlo.
Difficile ma non impossibile.
Lo trovò silenziosamente seduto su una panchina poco lontana da lei, dove pochi minuti prima era sicura aver visto un’anziana. Teneva le mani rispettivamente dietro la testa come se si stesse godendo il sole caldo senza badare alla parole di Ryuu, le gambe erano incrociate e le palpebre semichiuse per imbrogliare i presenti facendo pensare che dormisse. Eppure, lei riusciva a vere le sue iridi fissarla intensamente senza smettere un secondo.
Distolse lo sguardo. 
 


҉
 


Si stava annoiando. Nonostante la giornata fosse iniziata bene e nessuno avesse attentato alla vita del suo nuovo padrone, lui si stava annoiando irrimediabilmente.
Se ne stava seduto furi, sull’engawa, con una gamba a penzoloni e le braccia incrociate al petto dalle quali spuntava una katana. Fra i suoi capelli il vento giocava divertito, spostandoli adesso un po’ a destra ora un po’ a sinistra; era una bella sensazione. Il sole gli baciava il viso pallido riscaldandolo.
Dalla stanza a cui stava facendo da sentinella arrivavano le voci sommesse del Vecchio, Ryuu e Kenshin, il proprietario della maggior parte delle imprese del villaggio. Ogni tanto gli arrivava una risata all’orecchio.
«Katashi.» L’uomo si voltò immediatamente, mettendosi in ginocchio come segno di rispetto.
«Mia Signora» salutò educatamente, senza guardare negli occhi la vecchia proprietaria della casa. Osservò solo i ricami del suo kimono rosso, memorizzandoli per qualsiasi evenienza. Era vitale che lui si ricordasse ogni di ogni cosa, persino la più stupida.
«Quei buoni a nulla di mio marito e mio nipote sono in questa stanza?» domandò con voce alta, come se fosse una provocazione volontaria.
La guardia mantenne un sorriso nascosto. Non era nuovo che la Signora tenesse un comportamento simile, quasi fosse lei la testa della famiglia; e non aveva tutti i torti a pensarlo,  dopotutto l’intera casa negli ultimi tempi si reggeva sulle sue spalle in quanto il marito si era lievemente ammalato.
 «Si, mia Signora» rispose tranquillamente lui.
«Perfetto.» Senza mostrare segni di vecchiaia, la donna s'inginocchiò con facilità di fronte alla porta scorrevole e l’aprì un poco chiedendo permesso, poi sparì anch’essa all’interno.
Mentre il ninja si prendeva pochi minuti per pensare a cosa stessero discutendo i suoi padroni gli balzarono nella mente gli occhi della prostituta incontrata la notte passata. Il loro taglio, la luce felina che vi splendeva all’interno. Il modo in cui il suo corpo si muoveva silenzioso e veloce tra la folla, senza scontrarne nessun’altro.
Ripensò al kimono estivo che indossava, ai ricami pregiati che vi erano incisi sopra; chissà quant’era costato quel capo alla matrona del suo bordello. Quell’ultimo ragionamento mise in moto un piccolo meccanismo fino ad allora alienato nel suo cervello.
Avrebbe dovuto aspettare la sera, però, per discuterne con gli altri.
«Katashi!» Una mano forte gli picchiò in testa, costringendolo ad alzarsi in piedi con velocità. «Rispondi quando ti chiamo» ringhiò Chiyo.
Se ne stava in piedi con le braccia incrociate a gonfiarle il seno prosperoso; era sempre un piacere per i suoi occhi vederla stare in quella posizione.
Gli occhi scuri lo incatenarono in una morsa ferrea. «Ha chiesto la Signora se puoi andare a scortare la moglie e la figlia del nobile Katashi.»
Lui si alzò, sorridendole. «Certamente.»
 
Abbassò il capo in una muta riverenza quando la futura sposa del suo nuovo padrone gli passò davanti. L’engawa non scricchiolò ne emise alcun altro suono sotto il suo peso; la stoffa dell’abito che portava sembrava finissima ai suoi occhi e le calzava a pennello.
Katashi non avrebbe mai pensato che da quel momento, la sua intera vita sarebbe diventata un pericoloso crescendo.
 
 
 

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Capitolo 5
*** Loto ***


 Loto



“Domandare non costa che un istante d’imbarazzo, non domandare è essere imbarazzati per tutta la vita.”
Antico proverbio giapponese.

 

 
 
Ogni cosa all’interno di quella stanza le dava sui nervi. Sebbene davanti a lei era seduta la padrona di casa in quel luogo, o almeno così pensava la Kunoichi, non sembrava mai esserci stata una donna.
Certo, tutto era ben pulito ma spoglio; non vi era un fiore o un dipinto che potessero rallegrare un’ambiente tanto cupo e freddo. La poca luce che entrava dalla porta scorrevole e si gettava a terra sul tatami sembrava non aver voglia di riscaldare nulla, era presente li solo perché non poteva fare altrimenti.
«Vostra figlia è una ragazza molto bella» stava intanto dicendo l’anziana, mentre una giovane donna serviva il tè. «Ha degli occhi molto seducenti.»
Fingendosi imbarazzata la ninja si coprì il volto con il ventaglio. Ogni minimo gesto era importante in quella messa in scena, anche il più piccolo sbaglio poteva rivelarsi fatale per lei d’ora in avanti.
«La ringrazio» intervenne subito la madre, carezzando la mano libera della prole. 
La giovane frugò velocemente negli occhi della genitrice ma non vi trovò l’ombra di un sentimento; vide solo un luce brillante e nient’altro. Quello che sua madre mostrava non era altro che l’ombra di un sentimento che non provava.
In un certo senso, la kunoichi l’ammirava. La madre riusciva a fingere  naturalmente ogni cosa e la gente pendeva inevitabilmente dalle sue labbra cariche di menzogne. Ogni tanto, la giovane ragazza si domandava se non avesse mai provato rimorso: non è semplice mentire per l’intera vita, ma molto probabilmente quando uno è abituato alle menzogne queste diventano parte di se e non si può più fare a meno di adoperarle.  Anche lei aspirava a diventale una tale creatura? Un essere che manipola, uccide e mente perché le viene ordinato, perché prova piacere nel farlo? Rabbrividì.
La padrona di casa sorrise alla giovane che l’affiancò. Le mise una mano sulla spalla e guardò le proprie ospiti con una vera scintilla negli occhi e disse: «Lei è Chiyo, una mia fedele servitrice. E’ come una figlia per me.»
«E’ molto bella» mormorò la giovane dama, parlando per la prima volta da quando aveva messo piede nella casa del futuro sposo. Le sorrise.
Chiyo, pur essendo vestita in modo umile rispetto a loro, sfoggiava la sua bellezza in modo meraviglioso. Il suo tutto: dal lungo collo, al seno prosperoso, alla linea sinuosa dei fianchi che lei possedeva la rendeva agli occhi della kunoichi la creatura più sensuale che avesse mai visto. Nemmeno nel quartiere a luci rosse, abbondante di ragazze splendide, aveva mai trovato un simile soggetto. La spaventava. Sarebbe dovuta stare attenta a come si comportava in sua presenza.
«Grazie, mia signora.» La giovane serva abbassò leggermente la testa in segno di rispetto.
La madre della kunoichi s’intromise quasi di prepotenza nella conversazione. «Chiyo rimarrà qui con mia figlia, o verrà con voi in campagna?»
Internamente una scintilla scattò nel petto della giovane nobile. Anche la genitrice temeva quella donna prosperosa e questo significava che la sua intuizione non era del tutto errata.
«Resterà in questa casa, con vostra figlia. Non potrei augurarle compagnia migliore di questa giovane ragazza» sorrise amabilmente la vecchietta, dando un pizzico sul naso di Chiyo. La mora sorrise d’stinto guardandola con gentilezza.
Nascosta dietro uno sguardo imbarazzato, la kunoichi tenne costantemente sotto controllo quella serva messa in evidenza più del dovuto.
Passò qualche altro tempo fra chiacchiere e complimenti, un tempo che alla giovane nobile pareva interminabile, finché la porta alla sua sinistra non si aprì e l’ombra di un’altra giovane cameriera si allungò sul tatami. Annunciò l’oro alla padrona di casa e con gentilezza l’accompagnò assieme a Chiyo dal nuovo Capo Villaggio.
Il silenzio accerchiò i corpi delle due donne rimaste sole. Era così bello, così calmo attorno a loro. La kunoichi non poteva fare a meno che adorare tutto ciò.
Come se danzasse la madre le si pose davanti e le porse una tazza di te fumante. Tra le lunghe maniche dell’abito la giovane intravide il scintillio di un piccolo kunai.
«Quella ragazza non mi piace» sussurrò velocemente, portandosi la tazza di te alla bocca. «Vedi di non fare passi falsi in sua presenza, a quanto ne sappiamo la squadra dei nove è al diretto servizio del capo villaggio; d’ora in poi vivrai nella tana del leone.»
Lei annuì, odorando il tè che aveva in mano. Il rumore del sangue le offuscò l’udito. Correva veloce e senza freni nel suo corpo, era come un allarme. C’era qualcosa di diverso rispetto a prima in quella bevanda.
Senza far capire alla genitrice lo sconcerto che le stava corrodendo la mente, poggiò la tazzina di lato e la lasciò; questa, essendo ubicata in malo modo, cadde rovesciando il proprio contenuto sul tatami.
«Che sbadata» disse, fintamente amareggiata, «farò sì che sia Chiyo a occuparsi delle pulizie.» L’insegnante che aveva davanti sorrise dietro una nuvola di vapore.
 
Poggiò il piede fasciato sull’engawa e subito l’aria fresca le colpì il viso con una carezza. La dolcezza dei profumi che si spandeva dal giardino le volteggiava attorno riempiendole piacevolmente il naso. Il sole, splendente, si riversava nel laghetto poco lontano da lei illuminando le increspature formate dal vento; le ricordò un foglio d’oro adagiato a terra.
Davanti a loro stava una guardia che si era presentata con fretta  senza guardarla negli occhi, come forma di rispetto. Aveva un portamento fiero e un’andatura non troppo veloce; a dire il vero camminava con le gambe molli, come se fosse annoiato o aspettasse che qualcuno lo attaccasse alle spalle.  
Teneva i lunghi capelli legati in una coda alta da un nastro pallido, sul fianco una spada batteva contro lo stivale che indossava e, sull’elsa dove aveva appoggiata la mano la giovane kunoichi intravide sulla pelle dell’uomo vari segni più chiari. Probabilmente risalenti a episodi di difesa.
Nascondendo le mani all’interno della maniche a farfalla, la giovane si avvicinò un poco a quella schiena che da vicino sembrava troppo grande. Imponente. «Signor Katashi» iniziò «sono lieta di conoscervi.» Non fece quella mossa per cortesia, bensì pensò che mostrarsi amichevole e docile agli occhi di tutti –perché c’erano altre guardie nel giardino a sorvegliare il perimetro- potesse essere un vantaggio iniziale; chi è di rango inferiore accetta più volentieri un nuovo capo se esso si dimostra aperto a loro, lei questo lo sapeva benissimo.
L’uomo, fino ad allora rimasto muto e retto con la testa, si voltò e le sorrise. «Il piacere è mio, mia signora» la frase andò via via scemando d’intensità quando incrociò gli occhi di lei. E così fece anche il respiro della donna che, però, non diede a vedere la sua sorpresa.
Lei quegli occhi li aveva già visti, sebbene solo una misera volta e di fretta. Aveva già incontrato uno sguardo così scuro e lucente al tempo stesso, la sera dell’omicidio del mercenario.  
Impallidì, sperando che lui non avesse una buona memoria. Certo, quella sera era vistosamente truccata e indossava abiti diversi e molto appariscenti, il suo viso era coperto per metà dal ventaglio ma nessuno meglio di lei poteva sapere che anche solo un misero dettaglio può fare la differenza.
Si affrettò a coprire il volto con le maniche fingendosi imbarazzata per la lunga occhiata intercorsa fra loro. Katashi parve riprendersi e si voltò rizzando la schiena.
Dannazione.
«Quanto dista la stanza dove ci attendono?» La voce della madre interruppe il silenzio palpabile, andando a colmarlo con un tono quasi prepotente. «Detesto chiederlo, ma ho avuto problemi alle gambe e camminare mi viene faticoso» aggiunse.
La kunoichi trovò la verità in quel tentativo di cambio d’argomento. Ricordava ancora bene la sera in cui era accorsa nella camera della madre sebbene le fosse stato orinato di restare nelle sue stanze. Era piccola, smaniosa di passare più tempo possibile a scoprire e vogliosa di sapere, come ogni bambino dovrebbe essere. Ricordò il sangue che colava dalle gambe della genitrice, piene di tagli e rovinate in eterno. Cosa le avesse causato quelle cicatrici non lo scoprì mai; nessuno ne fece parola l’indomani e tutti i servi vennero licenziati, o almeno la maggior parte, quelli con la lingua troppo lunga, e ne arrivarono altri. La kunoichi, allora ancora troppo piccola persino per addestrarsi, perse la sua balia e vide scemare la vita negli occhi della madre sempre di più, giorno per giorno finché non iniziò a insegnarle quello che sapeva sull’antico segreto e arte che si tramandava nella loro famiglia.
In modo indifferente, si avvicinò alla genitrice e le porse un braccio in un gesto di silenzioso affetto. Sebbene quella donna l’avesse promessa in sposa a uno sconosciuto, le avesse insegnato a combattere e impartito di uccidere a proprio piacimento per un gioco sadico che ancora non riusciva a comprendere, le voleva bene.  Era l’unica persona al mondo a cui non avrebbe mai voltato le spalle. La famiglia non si tradisce.
Mordere la mano che l’aveva nutrita e cresciuta, no, non se ne parlava proprio. Erano una cosa che le faceva accapponare la pelle per il ribrezzo.
«Grazie» sussurrò la donna, senza perdere il tocco d’autorità che tendeva a portarsi dietro come un’ombra. Eppure, per qualche secondo il cuore della giovane pompò più velocemente, felice.
 
Ryuu, il dragone, sostava davanti a lei con un apparente sorriso di cortesia stampato sul viso. Negli occhi brillava la classica scintilla d’imbarazzo che tutti i giovani provano davanti a una nuova conoscenza; un leggero barlume mosso da varie domande ed emozioni che si contendono il trono in un intricato gioco di pensieri, supposizioni e idee. Restava comunque molto virile.
Teneva la schiena eretta e ciò permetteva alla fievole luce che entrava di colpire i suoi tratti migliori come le larghe spalle coperte dal kimono scuro che lo fasciava, i lineamenti decisi della mascella e gli zigomi alti. Era bello. Sorrise compiaciuta. Almeno non mi stuferò di guardarlo.
L’anziano seduto accanto a lui le sorride, mostrandole la dentatura che iniziava a diradarsi. «Kenshin» iniziò, voltandosi di scatto verso il padre «tua figlia è proprio una principessa.» Il padre rise, carezzando dolcemente la mano della kunoichi.
Nei suoi occhi neri come la pece la ragazza intravide un leggero lampo d’orgoglio e vanto. «Cosa vi avevo detto? La mia bambina è la più bella e la più regale fra le tutte le nobile in età da marito.» Le sue dita callose intente ad accarezzarle l’attaccatura del polso le infondevano calore e sicurezza a tal punto che, quando si ritrovò senza quel contatto, le parve che l’aria in quella stanza fosse diventata  gelida oltre ogni limite. Nascose le mani nelle larghe maniche a farfalla.
«Prima abbiamo parlato molto» affermò la vecchia padrona di casa, interrompendo il leggero silenzio, «e vostra figlia si è dimostrata cordiale ed educata oltre ogni mia aspettativa.» Poi si voltò verso il nipote e gli puntò addosso uno sguardo severo. «E’ la sposa migliore che tu potessi desiderare, Ryuu.»
Lui la guardò sorridendole e annuì. «Non dubito delle vostre parole, nonna.» Si alzò imponendo la propria figura su tutti i presenti nella stanza. La sua ombra oscurava il poco sole in quella camera e copriva ogni cosa come un’immensa coperta densa e catramosa.
La kunoichi fissò Ryuu per quello che le parve essere un secolo, studiò i suoi lineamenti alla perfezione e il modo in cui i suoi muscoli si muovevano e reagivano agli impulsi che lui comandava. Nel vederlo dalla sua angolazione, seduta, lui pareva imponente e invincibile. Ma è solo un uomo, non sono immortali.
«Mia signora, perché non mi accompagnate a fare una passeggiata? Vi mostrerò i giardini, se la cosa vi aggrada.» Stava innanzi a lei con la mano tesa, leggermente tremante per lo sforzo.
Gli sorrise e accettò, stringendo un muto patto che ben presto l’avrebbe incatenata. Mentre uscivano dalla stanza gli occhi dei parenti erano pressanti sulle loro spalle, presenze antipatiche e che creavano solo disturbo. Lei non era una persona in cerca d’attenzioni, al contrario tendeva a restare il più possibile nell’ombra e non dare nell’occhio. Le sue mani erano sporche di sangue, non innocente ma pur sempre sangue, ed era meglio che le persone –specialmente gli abitanti del villaggio-  non la vedessero. C’era sempre la possibilità che qualche uomo frequentatore del quartiere rosse la riconoscesse.
Finalmente la porta alle loro spalle scorse e il fardello visivo cessò. Tirò un leggero sospiro di sollievo.
«Mia signora» sorrise il nuovo Capo Villaggio «mi segua.» Senza sfiorarsi s’incamminarono.
Non le sfuggirono le figure appostate sugli alberi e sul tetto che, silenziosamente, si mossero con loro.
 
 


Nella luce pomeridiana il viso della donna che aveva di fianco brillava splendente. Piccoli ciuffi di capelli neri le cadevano dall’acconciatura con accuratezza. Le incorniciavano il viso lungo e delicato, brillante di giovinezza.  L’ombrello decorato che reggeva fra le mani, all’apparenza morbide, volteggiava e girava dolcemente mosso dalle sue dita lunghe e curate.
Con eleganza la figlia di Kenshin si abbassò ad accarezzare una carpa rossa. Sorrideva in modo così semplice che Ryuu si sentì quasi un intruso. Troppo alto. Troppo scuro. Troppo privo di vita. Troppo spaventato da quello che avrebbe dovuto rappresentare d’ora in avanti per quella creatura innocente.
«Perché non provate a nutrire le carpe, mio Signore?» lo richiamò lei, porgendogli il palmo aperto ricoperto di briciole di pane.
Ryuu alzò un sopracciglio. «E quelle dove…?» domandò sorpreso.
Lei sorrise furba, i suoi occhi neri luccicarono di felicità. «Porto sempre un sacchettino di pane dentro le mie maniche, così quando trovo un laghetto nutro i pesci. Lo trovo davvero rilassante» gli confidò, nascondendo una risata infantile.
Ryuu allungò una mano e aspettò che la giovane gli riempisse la mano di briciole. Si avvicinò assieme a lei alla riva del laghetto e, seguendo il suo esempio, si accucciò. Con movimenti aggraziati la giovane increspò l’acqua richiamando l’attenzione dei pesci poi gettò le briciole. Le bocche delle carpe ingoiavano cibo e acqua senza differenza, ed erano talmente tante che sembrò che nello stagno stessero prendendo vita non uno ma circa trenta mulinelli contemporaneamente.
Il ragazzo rise quando, troppo concentrata a sorridere e prendersi gioco degli animali, la ragazza si lamentò di aver sporcato il proprio abito come una fanciulla. L’aiutò ad alzarsi e le propose di aiutarla a pulirlo.
«No» ripose prontamente lei, distanziandosi da lui di qualche passo. Quando si riprese dallo scatto, respirò a fondo e aggiunse: «No grazie, mio Signore. Non vorrei mai che il vostro bel kimono si macchi.» Stringeva la manica con una mano, stretta.
«Mi permetta almeno di chiederle di»
«Sto bene, non si preoccupi, mio Signore» lo interruppe lei. Un nuovo sorriso andò a curvarle le labbra. «Purtroppo, non sono una ragazza molto attenta in questi casi. Mi vogliate scusare, la mia infantilità di tanto in tanto esce a galla» mormorò con lo sguardo rivolto verso l’acqua. «Sono desolata, mio Signore.»
«Va bene così.» Il Capo Villaggio si accarezzò i lunghi capelli scuri. Osservò le proprie mani grandi e aperte, le chiuse e alzò il mento nella direzione della giovane muta, arrossita. «Dammi del tu, mia Signora, te ne prego» si fece forza «e chiamami Ryuu. Presto saremo sposati e, mi farebbe piacere che tu mi chiamassi con il mio nome, mia Signora.» Fece qualche passo in avanti. Più avanzava più la distanza fra loro si accorciava. Lei era così bella, si disse, mentre era intenta ad analizzarlo con quegli occhi grandi da cerbiatto. Aveva proprio l’aspetto di una boccata d’aria fresca.
«Te ne prego, mia Signora» sussurrò ancora.
Lei si morse visibilmente una guancia, dopo di che la lasciò andare ed espirò. «Ren. Vorrei che anche voi mi chiamaste per nome, mio Signore Ryuu.»
«Loto» mormorò sorridente lui, venuto a conoscenza del nome della nuova compagna. «E’ un nome meraviglioso, adatto a una bellezza come te.» Lei sorrise imbarazzata, abbassando lo sguardo a terra, rossa in viso.
Era bellissima, si disse il ragazzo, degna di portare un nome tanto elegante come quello. Bellezze come Ren si vedevano raramente; molto probabilmente fiorivano ogni cent’anni, come il fiore di cui portava il nome.
Chissà se l’avrebbe paragonata ad un fiore senza spine se l’avesse conosciuta davvero? Forse gli sarebbe parsa più il filo che collega il loto al fondo degli stagni in cui fiorisce, una pericolosa arma che asfissia fino a condurre ad una morte lenta e tortuosa.
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 6
*** AVVISO ***


VOLEVO AVVISARE CHE CON EFP MI STO TROVANDO DAVVERO MALE!
PERCIO', LA STORIA CHE STATE LEGGENDO VERRA' TRASCRITTA NON PIU' QUI' MA SU WATTAPAD -SOTTO LO STESSO NOME - .
MI SPIACE MOLTO,
 
ISIL.

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