Il Collegio di Everspring Hill

di Airesis
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Cecilia ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - 21 giorni ***



Capitolo 1
*** Prologo - Cecilia ***


27 Agosto 2163

Mi chiamo Cecilia e sono nata in Italia, in un paesino vicino a Pisa.
Sono nata nel 2149 tre anni dopo la fine della terza grande guerra e già al tempo la città di Pisa non esisteva più da anni. 
Sono nata in casa senza antibiotici, né alcun tipo di aiuto medico, di questi tempi nessuno sprecherebbe beni preziosi per far nascere una bambina qualunque, né i miei genitori erano sufficientemente ricchi per poterseli permettere.
Come conseguenza di ciò mia madre morì di parto e mio padre la seguì qualche anno dopo a causa di un'infezione banale. 
Sono entrata in orfanotrofio all'età di quattro anni. Non è stato facile all'inizio, ma mi ha insegnato molto: ho imparato ad ubbidire e a studiare e a fare sacrifici e oggi, giorno del mio quattordicesimo compleanno, i miei sacrifici saranno ricompensati.
Ci è stato detto da subito: coloro che si fossero distinti per i loro rendimento scolastico, avrebbero avuto il privilegio di studiare in un collegio privato in Inghilterra.
Io ho capito subito che quella era l'unica mia salvezza. Molti dei miei compagni erano forti, robusti e la loro pelle era scura, di un colore ambrato, in modo da resistere ai raggi del sole, ora che lo strato di ozono è così sottile.
Io invece sono sempre stata gracile e cagionevole di salute: i miei occhi sono azzurri, i miei capelli neri come la pece e la mia pelle è candida come la neve. Questo significa che non sono adatta a questo mondo in guerra.
Avevo quattro anni quando sono arrivata qui ma la maggior parte delle dinamiche mi sono state chiare solo dopo che sono cresciuta un po'. 
Ho capito una cosa fondamentale: in genere le femmine sono fisicamente inferiori ai maschi, che quindi le possono facilmente sopraffare (tanto più che spesso questi ultimi agiscono in gruppo). 
All'orfanotrofio nessuna ragazza gira da sola superati i 12 anni perché i ragazzi potrebbero "infastidirla", un simpatico eufemismo che da queste parti usano al posto della parola "violentare". Tuttavia ai ragazzi interessano le ragazze più matura, più sviluppate e belle, così quando al corso di scienze ho appreso che le ragazze molto in sovrappeso o molto magre sviluppano più tardi, ho smesso quasi del tutto di mangiare in modo da maturare il più tardi possibile e da essere poco attraente; di certo non avrei potuto ingrassare qui, non ci danno cibo a sufficienza neanche per mantenere il proprio peso corporeo.
Ho imparato a farmi amici tutti e nessuno, ad andare d'accordo con chiunque senza elargire mai la mia fiducia. Ho imparato a studiare freneticamente per ore, per giorni, per settimane, per mesi, attingendo a qualsiasi forma di materiale sia cartaceo che elettronico.
Devo ammettere che qualcosa nella mia natura devi avermi aiutato, poiché apprendere mi è sempre venuto piuttosto naturale, così come passare molto tempo seduta china sui libri o fare sacrifici: certo non posso dire di non aver sofferto o vacillato in questi anni, ma ne è valsa la pena per ottenere il risultato che oggi ho conseguito.
Non è stata una sorpresa per me quando alla cerimonia di chiusura dei corsi è stato fatto il mio nome, in qualità della ragazza che sarebbe andata al collegio in Inghilterra, ma di sicuro è stato un grande sollievo. 
Solo una ragazza e un ragazzo dell'ultima classe sono mandati in Inghilterra ogni anno e mai nessuno che avesse più di 14 anni, quindi questa era la mia unica chance di scappare da questo inferno e garantirmi un futuro. 
È vero, girano storie, quasi leggende sulla severità che il collegio esige, sulle norme molto restrittive e sugli orari categorici che le ragazze devono rispettare, tuttavia come ho già detto, ho imparato ad ubbidire e adattarmi e qualsiasi cosa mi aspetti lo supererò. 
Io oggi ho costruito le basi per il mio futuro.



30 Settembre 2163

Il giorno del mio quattordicesimo compleanno non ho ricevuto alcuna torta, ma ho ottenuto il regalo che più importante che potessi ricevere nella vita. Ne sono orgogliosa, perché quel biglietto di non ritorno per l'Inghilterra l'ho conquistato grazie alle mie sole forze. 
Hanno impiegato tre giorni prima di venire a prenderci: prima è arrivato il pullman per il ragazzo, credo che il suo nome fosse Dario o Davide, non lo ricordo più.
Poi è arrivato il mio momento; ho messo le mie poche cose un una borsa di plastica e sono salita a bordo. Già alcune ragazze mi avevano preceduto, cinque nello specifico tutte orfane provenienti da altri paesi, da altri orfanotrofi. 
Il viaggio è stato lungo e perlopiù silenzioso; siamo partiti e ci siamo fermati molte volte proseguendo di giorno e di notte e sostando per brevi periodi solo raccogliere altre ragazze e per andare in bagno...se così lo vogliamo chiamare. 
Abbiamo mangiato, dormito, osservato, ascoltato sempre su quel bus. Ad ogni sosta saliva un'altra ragazza e poi ripartiva. 
Il primo posto di blocco l'abbiamo trovato all'imbocco del canale che passa sotto la manica. 
I soldati ci hanno fatto scendere, ci hanno perquisite, hanno frugato nei nostri bagagli e poi ci hanno fatto ripartire. Non credo abbiano preso qualcosa, poiché nessuna di noi possedeva qualcosa che valesse la pena prendere e che non le fosse già stata tolta all'arrivo in orfanotrofio.
Il resto del viaggio è stato rapido e silenzioso. 
Dalla parte opposta del tunnel ci aspettava il secondo posto di blocco, poi il viaggio riprese ancora nella notte per le strade deserte.
Durante tutto il viaggio non abbiamo mai visto molta gente, il mezzo si era sempre tenuto lontano dalle città, inoltrandosi in paesaggi verdeggianti e incolti a causa dell'abbandono dovuto alla gerra.
Anche l'Inghilterra non si mostrò molto diversa: per un tratto seguimmo la costa, dopodiché ci inoltrammo nell'entroterra dove la vegetazione si è fatta verde e sana grazie alla pace precaria di quegli anni. 
Il collegio apparve all'improvviso: svoltammo per aggirare una collina ed eccolo là in cima a quel colle verde nell'aria piovosa dell'Inghilterra.
Doveva essere un castello in passato o qualcosa del genere, da che sono nata non ricordo di aver visto nulla di più vecchio di una decina d'anni, poiché i bombardamenti hanno distrutto quasi tutto.
E ora ecco là un castello con i suoi antichi echi cavallereschi. 
Era la prima volta che vedevo un castello e come me molte delle mie compagne di viaggio: le più si affannavano per arrivare ai finestrini, guardando eccitate fuori ed emettendo esclamazioni in lingue diverse che io perlopiù non capivo
Ci misero un po' per rendersi conto di non capirsi fra di loro e solo allora cominciarono a parlare in inglese, la nostra lingua ufficiale, ma io non mi fece prendere come loro dall'eccitazione, io pensavo.
Riflettevo sulle voci che avevo sentito e cominciavo a farmi delle domande: non è il tipo di domande che ti spaventa, ma quel genere che ti fa perdere nei pensieri ed isolare dal resto del mondo.
Quando l'autobus si fermò, fui tra le ultime ascendere; preferii lasciare correre avanti tutte le ragazzine entusiaste e irrequieta che non vedevano l'ora di mettere il naso fuori per poter dare un'occhiata. Mi attardai indietro con le compagne più lente e quando fui scesa le porte si chiudono si chiusero alle mie spalle e il mezzo ripartì senza che nessuno ci salutassimo, nonostante avessimo passato insieme circa un mese. 
Fu allora che la vide per la prima volta la direttrice, se ne stava lì impettita con la sua camicia rosso fiammante e l,a gonna a tubini nera, i capelli raccolti e il trucco in ordine. Ci sorrise con garbo e ci diede un tiepido benvenuto, per affidarci poi alla schiera di donne alle sue spalle.
Erano tutte vestite come lei, la differenza stava solo nel colore delle camicie, bianche e rosa, e nell'acconciatura.
Ci condussero all'interno: ci fecero lavare, ci pensarono, ci misurarono e ci fecero un'infinità di testa compresa di analisi del sangue e delle urine. Dopodiché ci diedero da mangiare ci fornirono delle camicie da notte e ci accompagnarono ai nostri letti. 
Ero molto stanca e mi addormentai quasi subito sebbene fossi in un luogo nuovo, sconosciuto, circondata da sconosciute, in un paese che non conoscevo.



1 Ottobre 2163


La sveglia questa mattina è stata alle sette. 
Da oggi tutte le mattine la sveglia sarà alle sette. 
Ai piedi del nostro letto abbiamo trovato una divise pulite di un colore a metà tra il grigio e l'azzurro e un paio di scarpe nere con un accenno ti tacco largo.
Mi sono vestita e pettinata e solo allora ho notato quel particolare: in fondo ad ogni letto è inciso un nome nel legno, sul mio era Constance.
Non ero stata l'unica a notarlo: come al solito la maggior parte delle mie compagne fu presa da agitazione e paura, mentre io mantenni la calma.
Sono abituata ad obbedire, a non far vedere che ho paura; sapevo che presto sarebbe arrivata una risposta, a prescindere che essa ci sarebbe piaciuto meno.
Una ragazza più grande con una divisa rossa ci venne a prendere e ci condusse alla mensa. 
Ci fece sedere ad un tavolo vuoto circondate da altre ragazze con divide di colori diversi che sedevano in silenzio in attesa di qualcosa. Qualcuna ci lanciò un'occhiata di sfuggita, ma nessuna si voltò nella sua direzione.
 Non appena ci fummo sedute la preside si alzò dal suo posto, al centro del tavolo in disparte e leggermente sopraelevato rispetto a quelli di noi ragazze e parlò ad alta voce in modo che tutte potessimo sentire. 
Ci diede nuovamente il benvenuto nella nostra nuova casa e ci informò sull'organizzazione e gli orari: 
- La scuola comprende 7 classi 1 per ogni anno, ognuna della quale consta di circa 20 studentesse, distinguibili dalle altre per il colore della divisa.
- Gli orari sono rigidi e rigorosi: sveglia alle 7, colazione dalle 7:45 alle 8:45, lezione dalle 9 alle 13:45, pranzo dalle 14 alle 14:45, attività fisica dalle 15 alle 16, un po' di tempo libero e poi cena dalle 20 alle 20:45 e coprifuoco alle 23.
- Le lezioni si tengono ogni giorno per sei giorni alla settimana con un giorno di riposo. Una classe a turno ogni settimana e esonerata dalle lezioni per occuparsi della scuola: pulizie, la viaggio della biancheria, cucina.
- Non si parla durante le lezioni, non si parla durante l'attività fisica, non si parla durante i pasti.
- Colei che in ogni classe eccelle nello studio e/o nello e non riceve reclami riceverà un nastro rosso da mettere sulla divisa e avrà diritto a dei privilegi.

Ci augurò buona fortuna e tornò a sedersi. 
Mi parve di vedere qualcuno dalle tre alle ragazze della mia classe piangere altre bisbigliare qualcosa rapidamente per il timore di essere sentita.
Io rimasi immobile davanti al mio pasto per alcuni minuti mentre il mio cervello elaboravano informazioni e cercava di assimilare il più velocemente possibile per trovare una soluzione. Credo che a un certo punto una parte di me cominciò strillare fortissimo nella mia testa, ma io rimasi ferma, silenziosa. Ho imparato ad obbedire e sopravvivere e lo farò anche questa volta.


3 Ottobre 2162

Ci è stato tolto tutto quello che possediamo e a ognuna di noi è stato fornito un kit standard così composto: tre divise pulite del nostro colore (grigio azzurre), tre divise pulite per l'attività fisica (maglietta a maniche corte del colore della divisa e pantaloncini neri), due paia di scarpe uno per l'attività fisica e uno per le attività normali, tre asciugamani di misure diverse, tre paia di mutande, tre reggiseni, tre paia di calze, tre paia di calzini e due golfini neri e una mantella per la pioggia. A questi si aggiungeva un pad su cui scrivere, studiare, esercitarsi e leggere e un set mensile composto da un quaderno a pagine bianche, una matita a mine con 10 mine, una gomma e una scatola di caramelle dure tonde.
Ci hanno tolto anche il nostro nome, il mio ora è Constance: è come un numero, scritto su tutte le mie cose e anche sul mio letto.
L'unica cosa che ancora mi è rimasto di personale è il pasto, basato sulle mie esigenze specifiche definite dagli esami medici. È vietato lasciare qualcosa nel piatto, ma vista la mia malnutrizione imposta per le prime settimane saranno indulgenti in modo che il mio corpo si riabitui. 

Nella mia vita ho imparato ad ubbidire perché ribellarsi è inutile, peggiora soltanto la situazione. Se voglio sopravvivere, dovrò Constance,  dovrò essere ubbidiente e dovrò stringere i denti.
Il 1 ottobre 2163 Cecilia, nata il 27 agosto 2149, è morta o almeno così sarà ritenuta.
Io ubbidisco, ma non dimentico e non mi arrendo: so sopportare e chinare la testa, ma questo non mi impedisce di resistere. 
Probabilmente d'ora in avanti tutto ciò che diremo e scriveremo sarà controllato e dal momento che tutte le mie forze saranno incentrate sul sopportare, non ne avrò altre per mantenere un diario   segreto, rischiando di rendere vani tutti i miei sforzi. Quindi seppellisco qui queste mie scarne memorie, insieme all'unica foto che possiedo dei miei genitori e me insieme, di modo che quando arriverà la stanchezza e la speranza sembrerà scomparsa, questo mi aiuti ad andare avanti.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - 21 giorni ***


Arrivai a Everspring Hill una sera d'inverno. 
Ho letto che un tempo l'inverno era un periodo molto freddo e che a volte dal cielo al posto della pioggia cadevano fiocchi di ghiaccio che coprivano tutto con un manto bianco. Quella sera però lo schermo sul cruscotto mostrava una temperatura di 15 gradi centigradi.
Isabel, che si era occupata di me durante il viaggio, continuava a parlarmi con fare rassicurante, ma io non l'ascoltavo: non riuscivo a pensare a nulla a causa della terribile ansia di trovarmi lì.
Sapevo già di non essere come le altre ragazze: loro erano emerse tra centinaia di loro coetanee, facendosi strada con le unghie per guadagnarsi quel posto, mentre io avevo scavalcato il sistema e mi trovavo davanti a quel portone senza nessun merito.
Espirai lentamente sentendo il mezzo rallentare.
Forse dovrei fare un passo indietro.
Il 28 gennaio 2167 arrivai a Everspring Hill dopo aver attraversato lo stretto lembo di mare che separa l'Irlanda dalla Gran Bretagna.
Solo un anno e tre mesi prima i miei genitori erano morti nel crollo della basa militare di Armagh e io avevo passato i successivi cinque mesi in un letto di ospedale a riprendermi dal trauma fisico. Da quello emotivo nn ero mai guarita.
Da quel letto avevo sentito parlare il generale O'Neil del mio futuro con il primario di neurologia. Fino alla fine avevo sperato di essere rimandata alla città blindata di Cardiff. Quando avevo 8 anni vi avevamo passato qualche mese durante un periodo di tensione tra il comando militare e mio padre, non mi disse mai cosa fosse accaduto, ma so che era in disaccordo su qualche decisione, il reparto scientifico e quello operativo erano spesso in conflitto.
Mi piaceva Cardiff, mi piaceva passare del tempo con bambini della mia età, ma mia madre piangeva ogni giorno e alla fine siamo tornati ad Armagh.
Alla fine il generale O'Neil mandò Isabell a parlarmi: lei mi disse che in virtù del mio QI e dell'egregio lavoro che i miei genitori avevano svolto per il governo, sarei stata accettata al Collegio di Everspring Hill, nonostante i miei sedici anni e il fatto che il semestre fosse già iniziato.
Ecco perché quella sera d'inverno varcai la soglia del silenzioso collegio accompagnata da Isabel. Avrei voluto voltarmi indietro e scappare, ma non lo feci, come mossa da una forza invisibile.
Non avevo nulla con me, sapevo che qualsiasi cosa avessi portato mi sarebbe stata tolta.
Dal momento in cui incontrai la preside ogni cosa attorno a me rallentò e la mia mente si fece confusa e annebbiata.
Ricordo  vagamente aghi e mani e voci distante a cui obbedii automaticamente fino a che, senza sapere come, mi ritrovai seduta al tavolo della mensa in mezzo a un centinaio di ragazze vestite uguale a me.
Non so cosa si ruppe a quel punto nella mia teste e mi accorsi che stavo piangendo. Le lacrime scorrevano silenziose e irrefrenabili lungo le mie guance. Cercai di fare qualcosa per frenarle, ma ogni tentativo non fece che peggiorare la situazione: pian piano comincia a singhiozzare sempre più forte, fino che a malapena riuscivo a respirare tra i sussulti.
Quando finalmente svenni fu solo un sollievo.

Mi risvegliai nel silenzio dell'infermeria.
Qualcuno mi aveva adagiato su un lettino e mi aveva messo addosso un coperta leggera. Fu un immenso sollievo trovarmi in quel luogo tranquillo e solitario, lontano da cento facce mute che respiravano all'unisono.
Mi portai una manca alla fronte: sentivo la testa girare e pulsare fastidiosamente.
- Sei la ragazza nuova, vero?- 
Mi voltai sentendo qualcuno parlare.
Nel letto vicino al mio era seduta una ragazza pallida, con la schiena poggiata alla testiera e il Pad in mano. Anche da quella posizione capivo che doveva esser piuttosto alta, dal metro e settanta in su, decisamente esile e con meravigliosi capelli neri lunghissimi. Nel suo volto intravidi dei lineamenti inusuali, qualcosa di orientale nel taglio dei suoi occhi e delle sue labbra.
Rimasi a fissarla incantata, incapace di proferire parola. 
Lei spense il Pad e lo poggiò sul comodino, poi si voltò verso di me.
- Sei la ragazza nuova?- mi chiese di nuovo.
Annuii.
- Capisco.- disse, mettendosi a sedere sull'orlo del materasso - Ho sentito raccontare delle storie su di te, dicono che vieni dall'Irlanda e che hai perso i genitori da poco, è vero?-
Annuii di nuovo.
Lei si alzò e solo allora mi accorsi che aveva la flebo attaccata al braccio. Afferrò il palo con attaccata la sacca e lo trascinò vicino al mio letto.
- È ferro. - disse sedendosi ai miei piedi - Il mio intestino non lo assorbe, provocandomi un certo grado di anemia.-
- Parlava in tono monotono e pacato, senza che alcuna espressione apparisse sul suo volto.
- Che nome ti hanno dato?- mi chiese ancora.
- Iris.- sussurrai.
Lei annuì piano.
- È un nome grazioso, ma non è il tuo, lo so. Come ti chiamavi prima?-
- Agnes.- risposi in un mormorio.
- E sai come sei riuscita a entrare qui, Agnes, nonostante tu abbia 16 anni e il semestre sia già iniziato?-
- Ho un QI di 187...- sussurrai esitante.
- Questo è un bene. - constatò lei - così capirai quello che ti sto per dire: tu non sei come noi, non sei abituata a una vita priva di affetti e piena di sacrifici. Le ragazze saranno cattive con te, come lo sono fra di loro; non puoi fidarti di quello che ti dicono e nn puoi contare sul loro aiuto, tutto quello a cui tengono è distinguersi per ottenere una raccomandazione speciale dalle insegnanti e soprattutto il fiocco rosso.-
Nel pronunciare quelle parole si toccò il nastro scarlatto che spuntava da sotto il colletto.
- So che così sembra terribile.- continuò - Ma imparerai. Devi tenere duro per 21 giorni: da qualche parte ho letto che dopo 21 giorni che si fa una cosa, questa diventa un'abitudine. La rigida rutine ti aiuterà, te lo assicuro.-
Non trovai le parole per rispondere, sentii solo salire di nuovo le lacrime.
- No, non devi piangere, se vedono che sei debole faranno di tutto per spezzarti.-
Si mise una mano in tasca e prese un sacchetto di caramelle. Con delicatezza lo aprì e prese una caramella dura, verde e tonda della dimensione di una moneta da 20 centesimi e me la porse.
- Attieniti alle regole, Agnes.- mi disse - Adattati, conformate a tutte le altre, ma non scordarti il tuo nome, da dove vieni, la tua storia. Un giorno te ne andrai da qui e allora potrai tornare a essere Agnes.-
Rimise a posto le caramelle, poi si alzò e tornò al suo letto.
Io rimasi ferma, con la caramella in mano e gli occhi fissi su di lei.
- Sono caramelle alla frutta.- disse, sdraiandosi - Io non ho mai mangiato della frutta vera, tranne una mela una volta. Quelle verdi sono alla mela.-
La guardai, poi guardai la caramella e me la misi in bocca: era vero, sapeva di mela.
- Ora dormi, Iris.- riprese lei riaccendendo il Pad - Questa notte potrai restare qui in infermeria, ma da domani dovrai stare nel dormitorio con le altre. Buonanotte.-
- Buonanotte.- mormorai.
Le palpebre si fecero pesanti sui miei occhi e, ancor prima che me ne accorgessi, scivolai nel sonno.

La mattina successiva, quando mi sveglia al suono degli altoparlanti, la ragazza dai capelli scuri era scomparsa.
Feci un respiro profondo: 21 giorni aveva detto e razionalmente pensai che non avesse molto senso, ma decisi di crederci. Dovevo crederci, per sopravvivere. 
Andai a lavarmi e vestirmi e mi unii allo sciame dei ragazze uguali a me per la colazione.
La lezione mi entusiasmò subito, ma mi resi conto subito di essere più avanti delle altre e compresi in un attimo che a loro questo non piaceva.
Non ci misero molto tuttavia a rifarsi: durante l'ora di ginnasta caddi così tante volte da riempirmi di lividi e al ventesimo minuto svenni.
Quello fu il mio primo giorno, prima che il tempo cominciasse a susseguirsi senza tregua né respiro: la sveglia, la colazione, le lezioni, il pranzo, l'attività fisica, il riposo, la cena, lo studio, la notte e poi di nuovo da capo.
Provai a conoscere le altre ragazze, a stringere un qualsiasi tipo di legame, ma fu tutto inutile: mi isolarono e cominciarono una sorta di battaglia psicologica per spezzarmi. Era una guerra di sguardi, parole apparentemente innoque buttate lì al momento giusto e un terribile isolamento.
Nel tentativo di restare a galla per quei maledetti 21 giorni comincia a passare il mio tempo libero esplorando il castello; tra il personale e le studentesse non arrivavamo a duecento anime, eppure quella struttura era immensa, avrebbe potuto accogliere tranquillamente un migliaio di soldati con tutta l'attrezzatura da campo. Molte ale erano chiuse o abbandonate, dandogli un che di sinistro e angosciante: mi metteva una terribile soggezione.
Ogni tanto la ragazza dai capelli neri mi passava accanto, silenziosa e solitaria nella sua elegante bellezza. Lei era la perfezione, il modello da raggiungere e in un certo senso temevo che se fossi caduta l'avrei delusa e non volevo farlo.
Poi purtroppo arrivò il diciottesimo giorno: era dall'ora della colazione che sentivo gli occhi della capoclasse su di me. L'avevo vista rivolgere complici sorrisi alla ragazze della sua cerchia, ma cercai di non farci caso, ero abituato a quella violenza silenziosa.
Solo quando arrivò l'ora delle docce capii cosa stesse tramando.
Ero sotto l'acqua corrente quando aprì di scatto la tenda e mi trascinò fuori, nuda e bagnata. Provai a coprirmi e strillare ma lei mi tenne per le braccia, ignorando i miei lamenti.
- Vedete.- disse, mentre le altre ridevano - Vedete i lividi, le sbucciature? Ora sono per la sua incapacità, ma presto se li farà da sola e, se siamo fortunate, ci farà il favore di ammazzarsi.-
Poi mi tirò di nuovo sotto la doccia e mi lanciò un sorriso storto.
- Adesso non hai nulla da dire maestrina? Ora che non c'è nessuna insegnate a proteggerti hai paura?-
Tremavo nell'angolo della doccia, cercando di coprirmi e di trattenere le lacrime, che tuttavia mi scorrevano copiose lungo le guance.
Sei sola.- mi disse - Ed è solo questione di tempo prima che crolli.-
Rimasi immobile in quel cantuccio per una buona mezz'ora prima di trovare la forza di alzarmi.

Rimasi a lungo sdraiata sull'erba del parco del castello quel pomeriggio: mi piaceva il calore dei raggi del sole invernali, emanavano il giusto tepore per riscaldare le ossa e non bruciavano la pelle.
Dentro di me mi ero arresa: aveva compreso che non sopravvissuta al collegio di Everspring Hill. Isabel era stata carina con me cercando di rassicurarmi con le sue menzogne, ma ora sapevo che non sarei mai tornata alla base militare di Amargh. Non sana di mente almeno.
Senti un fruscio accanto a me un rumore leggero come della dell'erba che si piega.
La ragazza dai capelli scuri si sedette accanto a me e per la prima volta da quella notte in infermeria mi parlò con quel suo tono pacato e inespressivo.
- Mi spiace. Temo di non avere buoni consigli da darti.- disse.
Mi girai sul fianco per poterla guardare.
- Perché sei gentile con me?- domandai sull'orlo delle lacrime - Io non posso fare nulla per me, figurati per te...-
Lei si strinse appena nelle spalle.
- Mi trovavo in infermeria quel giorno e mi è sembrato giusto essere gentile con te. Tutto qui. Siamo esseri umani, non bestie come ci vogliono far credere in questo posto.-
Siamo solo numeri.- risposi scoraggiata - Ci danno dei nomi piuttosto che delle cifre, ma alla fine siamo solo numeri per loro.
Lei mi guardò e per una frazione di secondo un'ombra di malinconia passò sul suo volto.
Lo so.- disse - È per questo che dobbiamo ricordarci che non lo siamo.-
Non so perché ma quel velo di tristezza nei suoi occhi mosse qualcosa in me: fu come se in un istante di chiarezza riuscissi a vedere il dolore che celava dentro di sé.
Mi misi in ginocchio di scatto.
- Ascolta.- dissi, prendendole la mano - Tu sei sempre sola, ti ho visto in giro...e anche io lo sono. Forse...forse non è tanto, ma potremmo ricordarci insieme che siamo persone...potresti insegnarmi a stare qui e io...io...
Cosa potevo fare per lei che non potesse far da sola? E così dissi l'unica cosa che mi venne in mente e probabilmente la più stupida.
- Io posso dirti a che gusto sono le caramelle!
Lei mi guardò stupita, come si guarda una cosa bizzarra e del tutto inaspettata.
Ma i suoi occhiali continuavano a cadere sulla mia mano che teneva la sua, come fosse qualcosa di assolutamente assurdo.
- Io...credo di poterlo fare...- sussurrò come inebetita.
Per la prima volta da quando ero a Everspring Hill provai una sensazione di leggerezza nel petto. Senza pensarci le gettai le braccia al collo e l'abbracciai. 
- Grazie.- sussurrai.
Lentamente le sue braccia si strinsero attorno a me in modo un po' goffo e incerto.
- Oh.- esclamai d'un tratto, lasciandola andare - Aspetta, come ti chiami? non me lo hai detto.-
- È vero.- rispose lei, tornando alla sua composta serietà - Mi chiamo Cecilia, ma qui mi chiamano Constance.-

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