Lighter di HarleyHearts (/viewuser.php?uid=202408)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1. ***
capitolo 1
capitolo 1
Lighter
Capitolo 1
I
raggi, che filtravano dalla piccola finestra rettangolare
dell'appartamento, illuminavano l'ambiente di una dolce luce mattutina.
Nonostante fossero solo le 6:30 del mattino, si poteva udire
perfettamente il rumore frenetico del tipico traffico milanese.
I primi tempi in cui mi ero trasferita in quel piccolo trilocale,
insieme a mia sorella maggiore Lavinia, avevo faticato non poco a
prendere sonno.
Eravamo cresciute entrambe in un piccolo paesino di campagna, sperduto
tra il verde della provincia milanese, dove regnava una quiete perenne
sia di giorno che di notte.
Per questo, quando tre anni prima avevamo preso la decisione di
trasferirci nella capitale della moda, prendendo quell'appartamento in
zona Loreto, avevamo faticato entrambe ad abituarci al suo ritmo
incalzante e frenetico.
Le prime notti erano state un vero incubo, ma alla fine avevamo
imparato a conviverci.
Mi alzai dal letto a fatica, trascinandomi con passo pesante verso la
cucina/soggiorno.
Nell'aria aleggiava ancora l'odore di caffè appena macinato,
e
nel lavandino c'erano i resti di una colazione appena consumata,
sicuramente da mia sorella.
Lavinia, oltre ad essere più grande di me di ben dieci anni,
lavorava come medico in un ospedale della città e per
questo,
nonostante vivessimo insieme, ci vedevamo quasi esclusivamente di sera,
ma mai con frequenza.
Molto spesso capitava infatti che non ci vedessimo anche per un paio di
giorni, tanto i nostri orari erano incompatibili.
Trattenni malamente uno sbadiglio, mentre premevo il pulsantino per
azionare la macchinetta del caffè, per poi prendere la mia
tazza
in ceramica nera con su il simbolo di Batman dalla
credenza.
Era una delle mie tazze preferite, e me l'aveva regalata il mio
migliore amico Enrico un paio di Natali prima, insieme ad una
bellissima action figure
del Joker,
che faceva bella mostra su una delle mensole della mia cameretta.
Enrico Ferri era il mio migliore amico dai tempi della terza media, ed
eravamo veramente inseparabili.
Insieme alla nostra altra migliore amica, Elisa Roselli, formavamo il
magico trio.
Io e lui avevamo in comune una grandissima passione per il mondo dei
videogiochi e dei fumetti.
Eravamo entrambi due Nerd di prima categoria, e con la "N" maiuscola.
Elisa tollerava bene o male questa nostra passione, anche se lei non la
condivideva minimamente.
Diceva sempre che i suoi interessi erano altri, e che cose simili non
le sarebbero mai interessate.
Il trillo del telefonino attirò la mia attenzione
così, con una tazza di Bat-caffè
nella mano sinistra, risposi alla telefonata.
- Buon giorno, Chiara Chiaruccia. Come sta la mia ragazza preferita? -
Non riuscì a non trattenere un sorriso, riconoscendo la voce
del mio migliore amico.
- Assonnata - risposi, lanciando una rapida occhiata all'orologio
appeso al muro davanti a me - Te, Rico? -
- Bene, dai - lo sentì sospirare - Ti ho chiamata
perchè
al negozio di mia zia sono arrivati dei nuovi arrivi ieri sera, e tra
questa mattina e oggi pomeriggio dovrebbero arrivarne degli altri. Mi
ha detto di avvisarti prima, visto che oggi pomeriggio sei da lei -
Per potermi mantenere, e per poter guadagnare anche qualche soldo in
più, avevo iniziato due lavori part-time.
Uno come commessa in un negozio d'abbigliamento e l'altro, sempre come
commessa, ma nella libreria della zia materna di Enrico.
Sofia, la zia di Rico, gestiva una piccola libreria nei pressi di corso
Buenos Aires dove, sia io che il mio amico, andavamo a dare una mano
tre volte a settimana.
Quel posto era il mio piccolo antro incantato, e il buon 90% dei libri
che componevano la mia collezione li avevo presi proprio da lei.
Era una donna tanto cara; mi faceva sempre qualche sconto di favore
quando andavo lì a comperare qualche libro, e molte volte
capitava che insistesse nel non volermi far pagare.
Mi vedeva come parte della sua famiglia e le dispiaceva farmi pagare
tutti i libri che prendevo da lei, come a me dispiaceva quando si
impuntava nel non volermi far pagare. Su questo discutevamo tanto,
quasi ogni volta che andavo da lei in negozio.
Essendo la libreria di Sofia aperta anche fino a tardi, facevo i turni
serali il martedì, il giovedì e il
venerdì; mentre
lavoravo lì di pomeriggio solo di sabato.
Lavoravo come commessa nel negozio d'abbigliamento invece il
lunedì, il mercoledì e il venerdì di
pomeriggio, e
il sabato di mattina.
Dove trovassi il tempo per andare in Università, studiare ed
uscire con gli amici proprio non lo sapevo.
- Ok - dissi, prendendo un sorso di caffè macchiato - Questa
sera usciamo a bere qualcosa tutti e tre insieme? -
- Elisa non c'è - mi avvisò - Ha un appuntamento
questa sera - spiegò, poco dopo, cogliendomi impreparata.
- Come un appuntamento? Con chi? - chiesi, curiosa.
La nostra amica non mi aveva detto niente. Che strano.
- Con la sua compagna di Università. Ti ricordi la famosa
bionda
e gnocca? Alla fine ha ceduto al suo intenso corteggiamento. Quando ci
si mette, Elisa è capace di far capitolare chiunque -
Conobbi Elisa il primo anno di superiori, e già da allora
affermava di essere omosessuale convinta.
I nostri vecchi compagni non la vedevano di buon occhio all'epoca,
troppo ottusi ed arretrati per comprendere che persona meravigliosa
avevano in classe, ma a me non era mai importato.
Non era l'orientamento sessuale a fare una persona, ma purtroppo questo
in molti non riuscivano a comprenderlo.
Sapevo che Eli da un paio di mesi aveva iniziato a fare una corte
spietata ad una sua compagna di corsi, la famosa bionda, ma
quest'ultima
sembrava non volerne sapere della mia amica.
Sembrava.
- Ma dai! - esclamai sorpresa, e felice allo stesso tempo per lei -
Allora domani resoconto dettagliato - lo avvisai, con un sorriso sulle
labbra.
- Ovvio, tesoro - lo sentì ridacchiare - Facciamo serata
maratone e schifezze? Ti faccio provare quel videogioco di cui ti
parlavo l'altro giorno in negozio -
La proposta era allettante, non potevo negarlo.
- Va bene. Approfittiamo dell'assenza di Eli brontolona per nerdare
pesantemente -
Tendenzialmente facevamo sempre così: quando Eli non c'era,
ci dedicavamo alle nostre piccole maratone nerd.
Una volta avevamo provato ad invitarla, ma non aveva fatto altro che
brontolare per tutta la sera e da lì si è sempre
rifiutata di partecipare una seconda volta.
Da qui il soprannome "Eli brontolona".
Seppur Eli non condividesse le nostre stesse passioni, non ci aveva mai
giudicati, a differenza di molte altre persone nel corso delle nostre
vite.
Avere queste passioni mi aveva creato non pochi problemi, soprattutto
durante le medie e tutti gli anni delle scuole superiori.
Viviamo in una società in cui, se hai delle preferenze
differenti dalla maggior parte della popolazione, vieni immediatamente
additato come "strano" e "diverso". Che tristezza.
- È meglio se ti lascio, Rico. Devo prepararmi per andare a
lavoro. Ci vediamo oggi pomeriggio da tua zia -
- Va bene, Chiaruccia. A dopo -
Salutato Enrico molto velocemente, e finita la tazza di
caffè, mi precipitai in camera per prepararmi e andare a
lavoro.
Lavoravo al "Florida's beach" da un paio di anni, più o meno
da quando mi ero trasferita.
Era un piccolo negozietto, distante cinque minuti di metro da casa mia,
che vendeva principalmente abbigliamento maschile, ma ne possedeva
anche di femminile.
Ero stata assunta grazie ad un'amica di Lavinia, che caso volesse
essere la sorella della proprietaria del Florida's, alla disperata
ricerca di una nuova giovane commessa.
La paga non era un gran che, ma a me andava bene così.
Insieme a quello che mi dava Sofia per il lavoro in libreria, riuscivo
a pagarmi la retta dell'Università.
Per le bollette, purtroppo, facevo un po' fatica a pagare sempre la mia
parte, e molto spesso interveniva mia sorella.
Cercavo di pesarle il meno possibile, ma certe volte era dure; davvero
molto dura.
Ero stata anche tentata di cercare un altro lavoro, ma di adatti alla
mia situazione e ai miei orari era difficile trovarne.
Dovunque andassi, cercavano sempre persone con un'esperienza lavorativa
alle spalle o che parlassero mille lingue differenti, compreso elfico e
dothraki.
Non sia mai che a Thranduil venga la pazza idea di andare a comprarsi
un paio di scarpe da ginnastica, e non ci sia una commessa che non
parli la sua lingua. Giammai!
Anche gli elfi hanno diritto a fare acquisti al di fuori della Terra di
Mezzo.
Indossata la divisa del negozio, composta da un pantalone nero e una
t-shirt del medesimo colore con su il variopinto logo del negozio,
legai i lunghi capelli castani in una coda alta e fissai il ciuffo
laterale con una mollettina.
Avevo maledetto innumerevoli volte quell'idea malsana di ritagliarmi il
ciuffo, che mi contornava il lato sinistro del volto; era
già la
seconda volte che avevo fatto lo stesso errore e, molto probabilmente,
in futuro ce ne sarebbe stata una terza.
Presi al volo la giacca di jeans, e la borsa di tela con le chiavi di
casa al suo interno.
Mentre uscivo dall'appartamento e chiudevo la porta in legno chiaro,
incrociai la mia vicina di casa che stava appena rientrando.
La signora Rosalia era una vecchia e simpatica donna, dal sorriso
contagioso e dall'incredibile bontà.
Fin dai primi tempi in cui io e Lavi ci eravamo trasferite
là, era sempre stata molto gentile con noi.
Mi ricordo ancora lo stupore che ci colse, quando Rosalia venne a
bussare alla nostra porta con tra le mani una teglia rotonda di torta
al cioccolato.
Oltre ad essere gentile e cordiale come poche persone al mondo, era
anche molto loquace.
Molto spesso si fermava a parlare con me e mia sorella, e ci invitava
quasi sempre a prendere una tazza di the al limone in sua compagnia; un
invito che accettavamo più che volentieri.
Rosalia era una persona deliziosa, tanto dolce ma purtroppo anche tanto
sola.
Aveva perso il marito quasi sette anni prima, in un terribile incidente
stradale, e i suoi unici figli non andavano mai a trovarla.
Molto probabilmente non si sentivano nemmeno via telefono.
L'anziana donna aveva cercato di riempire il vuoto che aveva dentro con
i suoi piccoli cuccioli di Welsh Corgi, Briciola e Cannella, ma
purtroppo un vuoto come il suo era quasi impossibile da colmare.
In tutto il palazzo Rosalia era ben voluta da tutti, ed io e mia
sorella eravamo quasi diventate una sorta di figlie adottive.
- Buon giorno, Rosa. Come stai? - la salutai cordiale, con un lieve
cenno della mano, mentre sistemavo il mazzetto di chiavi nuovamente
all'interno della borsa di tela.
- Buon giorno, Chiara. Io tutto bene, grazie. Te invece? Come mai sei
già sveglia, cara? - chiese la donna dai capelli nivei,
avvicinandosi con passo tremolante.
Mi sistemai una ciocca del ciuffo, sfuggita alla molletta, dietro
all'orecchio.
- Devo andare a lavoro. Mi hanno aggiunto un turno di sabato mattina,
da un paio di settimane - le spiegai - Te, invece? Come mai
così
mattiniera oggi? -
- È appena venuto quel ragazzo così gentile, del
quarto
piano, a prendere le mie cagnoline, per far fare loro una passeggiata
al parco. È così gentile, ed è anche
carino -
aggiunse, con fare complice, regalandomi un simpatico occhiolino - Ed
è pure single! -
Ridacchiai leggera per l'imbarazzo, con le gote colorate di un lieve
rosa.
- Non mi interessano certe cose, Rosa, ma grazie lo stesso - la
ringraziai, prima di salutarla augurandole un buon proseguimento di
giornata.
Sarei rimasta molto volentieri a parlare ancora con lei, ma dovevo
correre per andare a prendere la metro, se no sarei arrivata in ritardo
in negozio e dovevo ovviamente evitarlo.
Riuscì a salire sul vagone della metro per un soffio, tanto
da
dovermi chinare lievemente in avanti per la fatica della corsa fatta.
Per un attimo, credetti pure di essermi giocata un polmone.
Quel giorno a lavorare con me c'era anche un'altra commessa; una
ragazza poco più grande di me di nome Stefania.
Era una tipa silenziosa, che parlava davvero di rado, ma sotto sotto
non era malaccio.
Quando arrivai al "Florida's Beach", la mia collega aveva
già
aperto e la trovai intenta a ripiegare alcune magliette su uno scaffale.
Essendo arrivata con qualche minuto d'anticipo, sulla strada mi ero
fermata in un bar vicino in cui andavo ogni sabato mattina per prendere
i caffè, e ne avevo presi due d'asporto. Uno macchiato per
me,
ed uno normale per la mia collega dai tinti capelli rossi.
Per me la giornata non iniziava prima del secondo caffè.
Ero una di quelle persone fortemente dipendenti dalla caffeina, e senza
faticavo a vivere.
- Buon giorno, Stefy - la salutai, con un sorriso sulle labbra,
appoggiando entrambi i bicchierini di carta sul bancone nero e lucido
della cassa.
- Ti ho preso il caffè. Nero e senza zucchero; come piace a
te -
- Grazie, Chiara. Sei un tesoro - mi ringraziò, ricambiando
il mio sorriso di poco prima, mentre si avvicinava.
Le porsi il suo bicchierino, e presi a versare una bustina di zucchero
nel mio.
Il Florida's non era molto grande come negozio, ma aveva una bella
atmosfera. I muri erano di uno scuro nero, con su diverse stampe
floreali e foto appese qua e là, e l'unica luce proveniente
nella stanza veniva dalle luci al neon appese al soffitto.
Fortunatamente la mattinata in negozio passò molto veloce,
tra
la visita di un paio di clienti e la riorganizzazione del magazzino.
Verso mezzogiorno e mezzo ritornai a casa, e pranzai con un tramezzino
al pollo comprato per strada.
Anche se la libreria di Sofia apriva alle tre in punto, mi sarei dovuta
recare lì almeno un'ora prima dell'apertura per aiutarla con
gli
scatoloni dei nuovi arrivi.
Sospirai, buttandomi per un secondo sul divano foderato in stoffa nel
piccolo soggiorno, con gli occhi fissi sul televisore spento.
Mi ricordavo ancora la lunga litigata che avevo fatto con Lavinia per
far sì che ne prendessimo uno.
Lei sulle prime non era intenzionata a prenderlo perché
sosteneva che potevamo fare tutto via computer, senza l'ausilio di uno
"stupido televisore", ma non mi ero mai trovata d'accordo con il suo
pensiero.
Alla fine, dopo mesi di suppliche pre-trasloco, ero riuscita a
convincerla.
Ero una che puntava molto sull'esasperazione delle persone.
Per la seconda volta nella giornata andai a cambiarmi, dopo una rapida
doccia, e mi diedi una sistemata alquanto frettolosa.
Mi tolsi la divisa del Florida's e la buttai malamente sulla sedia
della scrivania, insieme agli altri vestiti lì
momentaneamente
appoggiati.
Presi un jeans sbiadito e leggermente largo, a causa degli anni di
usura, ed una maglietta semplice bianca.
Al negozio di Sofia non c'era l'obbligo di divisa, così sia
io
che Enrico potevamo andare con indosso i vestiti di tutti i giorni.
I capelli li legai ancora in una coda alta, per una questione di
comodità e di praticità.
Mentre osservavo il mio riflesso nello specchio, spostai una ciocca di
capelli castani da davanti agli occhi scuri e me la rigirai tra le dita.
Non mi piaceva molto il mio colore naturale; lo trovavo fin troppo
banale ed ordinario, quasi spento.
Insieme al mio incarnato cadaverico, poi, stonava proprio.
Forse un giorno mi sarei decisa una volta per tutte, e li avrei
finalmente tinti.
Finito di prepararmi, e prese le ultime cose che mi servivano,
uscì sul pianerottolo di casa.
La porta dell'appartamento della mia vicina era aperta e, a qualche
metro di distanza, la trovai intenta a parlare con qualcuno.
Era un ragazzo, più o meno della mia stessa età,
che
teneva ancora al guinzaglio i piccoli Corgi della signora Rosalia.
Doveva essere il famoso ragazzo del quarto piano.
Era molto alto, con un fisico asciutto ed atletico.
I capelli, leggermente più lunghi rispetto alla norma, gli
ricadevano morbidi sulle spalle in tante piccole onde corvine, e la
mascella era contornata da un leggero strato di barba ben curata.
Era davvero un bellissimo ragazzo, ma bello sul serio.
Ma non bello come un modello in una campagna pubblicitaria dello
shampoo, assolutamente no.
Quello era il tipo di ragazzo che sognavi in sella ad un destriero dal
manto scuro come la notte, nelle veci di un affascinante guerriero
vichingo, proveniente dalle inospitali e fredde terre del nord, di
ritorno da una battuta di caccia al cinghiale.
- Oh ciao, Chiara - esordì Rosa, notando la mia presenza e
voltandosi nella mia direzione insieme al ragazzo.
- Lei è la ragazza di cui ti stavo parlando, caro - la
sentì dire, rivolta al corvino - Vieni Chiara,
così ti
faccio conoscere questo giovanotto -
Poteva la mia vecchia vicina di casa improvvisarsi Cupido in quella
situazione?
A quanto pare sì, dall'ampio sorriso che vidi fare capolinio
sul viso della donna.
- Ti voglio presentare Steven, vive al quarto piano, ed è
lui il
ragazzo tanto gentile che porta a spasso Briciola e Cannella quasi ogni
giorno. Lei è Chiara, la mia carissima vicina di casa; ti ho
già parlato di lei un paio di volte -
In tutta quella situazione, mi sentivo incredibilmente a disagio, e
avere gli occhi azzurri del corvino puntati addosso non
aiutava per niente.
Steven mi porse una mano, con un luminoso sorriso stampato in volto -
Piacere di conoscerti - lo sentì affermare, con un forte
accento
inglese.
Bello e pure straniero? Stavo male.
Con le guance ancora imporporate, risposi alla sua stretta di mano
mormorando un - Il piacere è mio -
A primo impatto, Steven mi sembrò subito una bella persona.
Un ragazzo cordiale ed educato; qualità praticamente estinte
nella maggior parte dei miei coetanei.
Sfortunatamente non rimasi molto a parlare con loro, dovendo correre in
libreria e non avendo molto tempo a disposizione.
Per fortuna il negozio di Sofia si trovava proprio in Porta Venezia,
una zona praticamente attaccata a Loreto, così impiegai
davvero
pochi minuti per arrivare.
Il negozio di Sofia era il mio piccolo antro di paradiso.
Non era una libreria dalle ampie dimensioni, ma rimaneva lo stesso ben
fornita; con gli scaffali colmi di libri, che coprivano per intero
tutte le pareti presenti, ed alcune librerie di dimensioni
più
ridotte sparse in più punti del negozio.
Le luci al neon bianche, poste sul soffitto, erano spente e l'intera
stanza era illuminata dalla luce naturale del sole, proveniente dalle
ampie e pulite vetrine all'entrata.
La zia di Enrico era già dietro al bancone in legno chiaro,
munita di occhiali da lettura in ferro sottile ed elenco di fogli nella
mano destra, su cui stava scarabocchiando con una biro blu qualcosa a
me sconosciuto.
L'indomabile cascata di ricci castani era stata rinchiusa in una
crocchia disordinata, ad un lato della testa, mentre gli occhi scuri
scrutavano con aria critica i foglie pinzati.
Quando entrai, il campanello collegato alla porta d'ingresso
annunciò il mio arrivo, e Sofia alzò fulminea gli
occhi
verso di me.
La vidi aprirsi in un ampio sorriso materno - Ciao, Chiara! - mi
salutò, avvicinandosi per poi abbracciarmi con energia -
Come
stai? - chiese poco dopo, gentile.
- Bene - ricambiai il sorriso - Te, invece? -
La donna si lasciò sfuggire una smorfia, che andò
ad incresparle le labbra sottili.
Ok, c'era qualcosa che non andava.
- Io bene... - rispose - Ma sono lievemente preoccupata per mio nipote
- confessò, facendo impensierire anche me.
- Perché? Cosa è successo a Rico? -
- Non so come dirlo... - iniziò a parlare, incrociando le
braccia sotto al seno formoso - È da quando è
arrivato
che lo vedo strano. Ora è fuori sul retro a fumare; a me non
ha
voluto dire niente, nemmeno mezza parola, magari con te sarà
diverso... -
Sapere che il mio migliore amico non stava bene, mi fece correre sul
retro del negozio.
La porta sul retro, che dava su un piccolo vicolo da dove facevamo
entrare la merce in arrivo, era lievemente socchiusa.
La aprì e trovai subito Enrico, appoggiato al muro vicino,
intento a fumarsi una sigaretta.
Dai mozziconi ancora fumanti a terra, dedussi che fosse già
alla quarta di fila.
Non stava per niente bene.
Non appena si accorse della mia presenza, mi fece un sorriso tirato;
forzato.
Quello era il segno che la situazione era più grave del
previsto, insieme alle numerose sigarette fumate fin troppo velocemente
per il nervosismo.
- Che è successo? - chiesi, togliendogli il pacchetto di
mano.
Quel pazzo era già pronto ad accendersi una quinta sigaretta
davanti a me e, nonostante fossi anch'io una fumatrice, avevo deciso di
fermarlo; stava davvero esagerando.
Ci mise un po' a darmi una risposta, ma quando lo fece sgranai gli
occhi.
- Marika -
Bastò quel nome, per farmi capire.
- Raccontami tutto -
|
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Capitolo 2 *** Capitolo 2. ***
capitolo 2
Capitolo 2
Marika
Silvestri era stata una nostra compagna di classe alle superiori, per
due anni scolastici; più precisamente il secondo ed il terzo.
Era una ragazza incredibilmente silenziosa e dolce.
Il classico tipo di ragazza di cui ti innamori non appena ci scambi due parole.
Di statura era molto piccola, e lievemente in carne, con un grazioso
caschetto di ricci biondi e due grandi occhi scuri, che trasmettevano
tutta la sua dolcezza attraverso le lunghe ciglia chiare.
Ai tempi della scuola, Enrico sembrava non vedere nemmeno la bionda,
nonostante fosse palese che a lei lui piacesse tanto, e che io stessa
glielo avessi fatto notare svariate volte; cercando di andare in favore
della ragazza.
La situazione si era completamente ribaltata un paio di anni prima,
quando l'aveva ritrovata dietro al bancone del suo negozio di
videogiochi di fiducia, con al collo lo stemma degli Stark di Game of Thrones.
Era stato letteralmente amore a seconda vista, per lui.
Purtroppo Marika sembrava non essere più minimamente interessata
al mio amico corvino. Erano ormai due anni che Enrico le provava tutte
per convincere Marika ad uscire con lui, ma la ragazza aveva rifiutato
ogni singola volta.
Sul retro della libreria di Sofia, seduti entrambi sul bordo di un
marciapiede, attendevo che Enrico mi raccontasse cosa fosse successo di
tanto grave da ridurlo in quello stato.
Mi ero vista costretta a confiscargli il pacchetto di sigarette, mettendomelo in borsa, per impedire che ne prendesse altre.
- Mi racconti cosa è successo? - gli chiesi, appoggiando una mano sul braccio coperto dalla felpa scura.
- Si è messa insieme a Luigi Stecco - ringhiò quasi,
passandosi una mano sugli occhi - Capisci? Stecco! Quello è la
peggior testa di cazzo che possa esistere sulla faccia della Terra, e
lei ci si è andata a mettere insieme! -
Luigi Steccardi, conosciuto da tutti come Luigi Stecco, era un ragazzo
che aveva frequentato il nostro stesso liceo, ma in una sezione diversa
dalla nostra; la D, se non mi ricordavo male.
Non aveva mai avuto una bella fama, nemmeno tra i suoi amici. Era il
classico ragazzo che, mentre stava con una ragazza, se ne faceva altre
mille alle spalle della poverina.
Non era un bell'elemento, e faticavo a credere che Marika si fosse messa insieme ad un ragazzo simile.
Era forse impazzita?
- Mi dispiace, Rico -
Il mio amico stava proprio male, e potevo capirlo, così mi strinsi maggiormente a lui per dargli conforto.
Il suo cuore era a pezzi, e il suo animo furioso.
Enrico aveva sempre disprezzato Stecco, come me ed Elisa d'altro canto,
e sapere che la ragazza di cui era innamorato si era messa con lui lo
aveva proprio distrutto.
Gli misi un braccio intorno alle spalle, e lui in automatico appoggiò la testa sulla mia.
Era una cosa che facevamo sempre, quando uno dei due era giù di morale, senza secondi fini o altro.
Molto spesso ci eravamo sentiti dire che era impossibile che un ragazzo
ed una ragazza, entrambi etero, potessero essere amici; questo non era
affatto vero.
Era stupido pensare a priori che un'amicizia simile potesse essere
impossibile, quanto era stupido pensare che ci dovesse essere per forza
un "secondo fine".
Era un pensiero tremendamente sessista, se uno ci pensava bene.
I maschi dovevano avere amici maschi, e le femmine dovevano avere amiche femmine.
Perchè un ragazzo non poteva voler bene ad una ragazza, senza
essere accusato di provare qualcosa per lei o di non essere etero, e
vice versa?
Perchè, se entrambi i sessi dovevano avere gli stessi diritti, due ragazzi di sesso opposto non potevano essere amici?
Era un pensiero stupido, da menti limitate e retrogradi.
Il rapporto che avevo con Enrico, ed anche con Elisa, era qualcosa di meraviglioso che non avrei scambiato con niente al mondo.
- Me le dai le mie sigarette ora, Chia' ? -
- Assolutamente no - risposi con calma, battendogli una mano sulla
schiena per farlo alzare da terra - Andiamo dentro, che è
meglio. Tua zia era preoccupata, e noi abbiamo del lavoro da fare -
Lui annuì un paio di volte con la testa, prima di alzarsi,
battendo le mani sulle gambe coperte dai jeans per togliersi eventuali
residui di polvere.
Quando rientrammo in negozio, Sofia era ancora dietro al bancone con in
mano il fascicolo di fogli pinzati, e ci lanciò una rapida
occhiata da sopra gli occhiali da vista.
Fortunatamente non fece alcuna domanda, e ci indicò
semplicemente alcuni scatoloni marroni messi in pila che dovevamo
sistemare sugli scaffali.
Enrico andò a prendere un taglierino da sotto il bancone della
cassa, mentre io mi avvicinavo ad uno degli scatoloni in fondo al
negozio.
Lui mi raggiunse poco dopo, ed iniziammo ad aprire uno scatolone dietro l'altro.
Dopo un'ora e mezza, e due scatoloni e mezzo dopo, Enrico mi chiese se mi fosse successo qualcosa quel giorno.
- Perchè? - chiesi confusa, guardandolo con un paio di romanzi tra le braccia.
Prima di rispondere, scrollò un paio di volte le spalle - Non lo
so. Chiamalo intuito, ma mi sembra che hai una faccia... diversa -
Scossi il capo - No, non mi è successo niente - risposi d'istinto.
Dopo aver parlato, non seppi il perchè, mi venne in mente il volto del ragazzo del quarto piano: Steven.
- Ho conosciuto il ragazzo che porta a spasso i cani di Rosa - rivelai,
sovrappensiero, riponendo l'ennesimo libro ed aprendo l'ennesimo
scatolone.
- E ti piace - aggiunse lui, con un sorrisone sul volto, dandomi una simpatica gomitata.
Gli lanciai un'occhiataccia - Lo conosco da nemmeno un paio d'ore, e c'ho scambiato davvero due parole contate -
- Ma ti piace -
Questa volta non risposi subito.
Carino era carino, ma mi piaceva?
Non sapevo ancora dirlo, mi sembrava troppo presto.
Il sorriso sulle labbra di Enrico mi inquietava non poco.
- Non lo so - risposi, frettolosamente - E togliti quel sorriso dalla faccia. Per quanto ami il Joker, mi stai inquietando non poco - lo avvisai, puntandogli un libro contro come arma.
Si poteva uccidere qualcuno con un romanzo rosa?
Forse con una copia de "Il Signore degli Anelli" sì, ma con il libricino che stringevo tra le mani ne dubitavo fortemente.
- Non ci ho parlato molto, come ti ho già detto, ma mi è
parso un ragazzo carino. Dall'accento mi è sembrato straniero;
inglese, probabilmente - ripresi a parlare, sotto lo sguardo indagatore
e curioso del mio migliore amico.
Per mia immensa fortuna, dopo quel piccolo scambio di battute,
cambiammo discorso e non parlammo più del ragazzo che abitava al
quarto piano.
Le ore in negozio passarono tra una sistemata agli scaffali e uno spacchettamento di scatoloni nuovi.
Stranamente non arrivarono molti clienti, ma Sofia non sembrò
scossa dalla cosa; e la cosa non fece che insospettirmi lievemente.
Io ed Enrico uscimmo dalla libreria che erano già le 8:20 di
sera e, sulla strada di casa, ci fermammo in un mini-market vicino per
comperare alcune schifezze da mangiare quella sera.
Tornammo nel mio appartamento con le braccia colme di buste, e tra le
mani una cassetta di birre ed una di lattine di Coca-cola zero.
Non potevamo di certo andare avanti con le sole birre; un po' di bibite zuccherine ci sarebbero sicuramente servite.
Lavinia non era ancora tornata a casa, e molto probabilmente lo avrebbe fatto nel giro di un paio di ore.
Appoggiammo le buste e le cassette sul tavolo da pranzo in vetro opaco
e, dopo essermi munita di apri-bottiglie, ne stappai una di birra per
me ed una per Rico.
- Vuoi parlarne? - chiesi, dando un piccolo sorso alla bottiglia che stringevo tra le dita.
Enrico si lasciò sfuggire una piccola smorfia, mista ad un
sorrisetto amaro - Volevo quantomeno iniziare a bere, prima
-ridacchiò, dando a sua volta un sorso di birra, molto
più lungo rispetto al mio.
- Come hai scoperto che Marika si è messa con Stecco? -
- Me l'ha detto lui - ringhiò quasi, sedendosi sul divano
insieme a me - Su Facebook! Lo stronzo me l'ha scritto su Facebook;
l'ha fatto apposta -
- Su questo non ci sono dubbi - risposi, con una lieve nota amara nella
voce - Pensi che si sia messo con lei solo per... farti un dispetto? -
osai chiedere.
- Spero con tutto il cuore di no - sospirò - Se è
arrivato a fare una cosa simile, solo per antipatia, giuro che vado a
spaccargli la faccia -
Presi un sorso dalla bottiglia - Per quanto la visione di te che meni
Stecco non dispiaccia affatto, mi sembra doveroso ricordarti che la
violenza non è mai la risposta a niente... -
Enrico mi lanciò un'occhiata.
- Ma? - mi incitò a continuare.
- Ma... se mai vi doveste ritrovare faccia a faccia da qualche parte,
ed io fossi nei paraggi, potrei fare dietro front e far finta di niente
-
- Che ragazza cattiva - rise di gusto, contagiando anche me.
- Lo so - risposi, con finta modestia - Ma non dirlo al mio Grillo Parlante - ridacchiai.
- Parli di Elisa o di tua sorella? -
- Forse entrambe - scrollai lievemente le spalle, con un sorriso sulle labbra, mentre mi alzavo in piedi.
Appoggiai la bottiglia di birra sul tavolino davanti al divano, e mi avvicinai al mobiletto della TV.
- Ti va di giocare al tuo videogioco, o preferisci uno dei miei? -
Lo vidi scuotere lievemente la testa, prima di prendere un altro sorso di birra.
Per rifiutare una partita alla Play, Enrico era messo ancora più male di quello che immaginavo.
Quando uno dei due stava veramente male, e con il morale talmente
giù da arrivare all'Inferno, c'era una sola cosa che poteva
tirarci su.
- Vado a prendere il cofanetto della prima stagione di "The Big Bang Theory" -
Eravamo all'inizio del secondo episodio, quando sentimmo il rumore della serratura della porta che scattava.
Feci in tempo a pigiare il tasto "pausa" del telecomando, per vedere il volto stanco di mia sorella varcare la soglia.
Avevo una brutta sensazione.
- Ciao, Lavi - la salutammo in coro io ed Enrico, ricevendo come risposta un mogio "Ciao, ragazzi".
- Brutta giornata? - le chiesi.
Prima di darmi una risposta, Lavinia si passò una mano tra i ricci scuri sistemandoseli velocemente.
- Orrenda - sospirò - Quelle sono birre? - chiese subito dopo, indicando con la testa le bottiglie sul tavolino.
Annuimmo entrambi, e le lanciammo uno sguardo perplesso.
- Ce ne sono altre? - la sentì chiedere, mentre si avvicinava al frigo sotto il mio sguardo confuso.
- Sì - esitai - Ma tu odi le birre - le ricordai, stranita.
Se c'era una cosa che Lavinia odiava, con tutto il cuore, erano le
birre, in particolar modo quelle chiare; perciò era
incredibilmente strano che ci chiedesse se ce ne fossero delle altre.
Era assurdo, per me.
- Ho bisogno di qualcosa di alcolico - si giustificò, buttando la borsa in angolo e sfilandosi la giacca scura.
- Avrei preferito qualcosa di un pelino più forte, ma vedrò di accontentarmi - aggiunse poco dopo.
Aprì il frigorifero e ne tirò fuori una bottiglia nuova di birra, sotto il mio sguardo sempre più confuso.
- È andata così male la giornata? - le chiesi, con voce leggermente preoccupata.
- Ho lasciato Giulio - rivelò, dopo alcuni secondi di silenzio.
Sospirò pesantemente, mentre si sedeva alla mia sinistra sul divano.
- Che è successo? -
Lavinia non mi aveva mai parlato molto della sua relazione con Giulio,
seppur sapessi che si frequentavano da poco più di un anno e che
avevano studiato nella stessa Università.
Mia sorella era sempre stata molto riservata sulla propria vita privata, e rivelava sempre l'essenziale all'epoca.
Da quel poco che mi aveva raccontato però, pensavo che la storia con il suo collega dottore stesse andando bene.
Non dico alla grande, ma in maniera tranquilla e normale.
Sembrava.
- Ho scoperto che aveva un'altra ragazza -
Al mio fianco Enrico parve strozzarsi con la birra che stava
sorseggiando, mentre io dovetti trattenere i conati di vomito che mi
colpirono la bocca dello stomaco.
Esisteva una sola cosa che disgustava a livelli inimmaginabili tutti i presenti in quell'appartamento: i tradimenti.
Il tradimento era una tra le azioni più ignobili che un essere umano poteva compiere.
- Te l'avevo detto io che dovevamo comprare anche la tequila, Chiaruccia -
ANGOLO DELLA SUPER SCIMMIA:
Ci sarebbero un milione di cose che vorrei scrivere in questo momento,
ma so già che mi limiterò a dirne solo alcune e neanche
quelle che vorrei dire veramente.
Ci tengo a precisare una cosina molto veloce: se siete qui per una
storia smielata che vede solo ed unicamente i due "protagonisti" Chiara
e Steven, cascate malissimo. Primo perchè questa non sarà
una storia dolcina e smielata, come molte altre presenti online, e
secondo perchè ci tengo a dare spazio anche agli altri
personaggi della storia.
Ci saranno capitoli ""noiosi"", di transizione, che serviranno
principalmente a dare un'idea generale su alcune cose che verranno poi
riprese più avanti nel corso della storia.
(Vi avverto già: il prossimo capitolo rientra in questa categoria)
Io spero vivamente che questo capitolo vi sia piaciuto, e spero continuerete a seguire questa storia :)
bacini zuccherosi a tutti
- Harley
link dove potete trovarmi ;3
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Capitolo 3 *** Capitolo 3. ***
capitolo 3
|!| AVVISO: Per farmi perdonare della lunga assenza pubblicherò i capitoli 3-4-5 insieme |!|
Capitolo 3
La
prima cosa che sentì non appena mi svegliai, con incredibile
lentezza, fu il consueto rumore del traffico cittadino; come ogni
giorno, da quando abitavo a Milano.
Mi addormentavo con il suono frenetico delle autovetture, che andavano
avanti e indietro senza sosta, e quando riaprivo gli occhi era ancora
lì, a farmi una perenne e non richiesta compagnia.
Una perenne presenza che, in qualche strano modo, riusciva a suo modo a tranquillizzarmi numerose volte.
La domenica era il giorno che più odiavo della settimana, e il
motivo era uno solo: il tradizionale pranzo della domenica a casa
Mirosi.
La perfetta e fedele rappresentazione dell'Inferno cristiano, in terra.
Il ritrovo di tutte quelle sgradevoli creature, presenti in ogni
famiglia, che noi tutti vorremmo evitare come la peste e non vedere mai: i parenti.
Ai miei genitori non bastavano le classiche vacanze festive per poter
rivedere i volti di gente, con il Demonio in corpo, e la falsità di una banconota da 3 euro; volevano di
più!
Per questo nacque la tradizione del pranzo della domenica, e sia io che
mia sorella eravamo fortemente tentate di inventare qualche scusa per
non andarci.
Anche una delle più assurde, se fosse stato necessario.
"Scusa, mamma. Oggi non possiamo venire perchè... Lavinia
è stata rapita da un Dio sociopatico, con manie di grandezza e
un buffo elmo con delle corna dorate(1). Ci dispiace"
"Scusa mamma, ma non possiamo proprio venire oggi... è il 5
novembre e dobbiamo aiutare V a far saltare in aria il Parlamento(2)"
"Mamma perdonami, ma... Io sono Batman! Shhhhh(3)"
Sarebbero andate tutte bene, come scuse, se l'ultima non l'avessi
già usata una settimana prima, e non avessi ricevuto in risposta
un delizioso "Ma non sta' a spara' cazzate" dalla mia dolce genitrice.
Erano da poco le sette del mattino, quando decisi di alzarmi finalmente
dal letto, scalciando via il piumone insieme al lenzuolo.
La sera prima Enrico si era fermato a dormire a casa nostra, ed infatti
lo trovai ancora appisolato sul divano del soggiorno, con un braccio a
penzoloni che toccava il pavimento, e l'altro sotto al guanciale.
Presi due tazza di ceramica dalla credenza, e le posizionai sotto il getto della macchinetta del caffè.
Non appena l'azionai, lei iniziò a produrre un rumore
prolungato e fastidioso, che fece mugugnare infastidito Rico ed
imprecare un insulto sottovoce. Se fosse diretto a me o alla
macchinetta non lo capì mai.
- Sveglia, Bell'Addormentato! Il sole è alto, i piccioni
cinguettano, e il caffè è pronto - lo informai, prendendo
una delle tazza ed appoggiandola sul tavolino del salotto,
perfettamente davanti alla sua faccia.
- Sembri uno di quei post che condividono le vecchie su Facebook -
brontolò il corvino, stropicciandosi gli occhi verdi ancora
assonnati - Mi metti l'ansia -
Mi feci scappare un risolino divertito.
- Ora che me l'hai fatto notare, passerò tutta la giornata a
taggarti in post simili e a mandarti un milione di messaggini su
Whattsapp - risi, mentre andavo a prendere la bottiglia del latte nel
frigo.
Nonostante odiassi macchiare il caffè con il latte freddo, e
preferissi di gran lunga quello caldo, decisi di fare un'eccezione
quella mattina.
Ero troppo pigra per andare a riscaldarlo nel microonde, come ero solita fare quasi sempre prima di allora.
- Ti prego no, Chiara - pigolò quasi, disperato.
Se facesse finta o meno, non lo capì.
Mi sentivo particolarmente sadica quel giorno; sicuramente la colpa era del pranzo.
- Di che parlate, voi due? - chiese, un'assonnata Lavinia, facendo la sua comparsa.
Si era appena svegliata anche lei, si vedeva dagli occhi ancora
impastati dal sonno e, dettaglio più importante, portava gli
occhiali da vista.
Più della birra, mia sorella odiava un'altra cosa: gli occhiali da vista.
Affermava quasi sempre che le stavano male, che le erano scomodi e che preferiva di gran lunga mettersi le lenti a contatto.
Persino in casa preferiva mettersele, ed era un evento assai raro
vederla con un paio indosso, appoggiati sul naso. Un qualcosa che aveva
dell'incredibile.
- Del fatto che tua sorella è una personcina sadica e senza cuore -
- E dove sarebbe la novità? - chiese confusa, inarcando un sopracciglio.
Le lanciai una lieve occhiataccia, prima a lei poi a Rico.
- Non sono senza cuore - borbottai, gonfiando le guance.
- Ma sadica sì, tesoro -
- Quello mica l'ho messo in dubbio - sorrisi, prendendo un sorso di caffè.
- Ho una voglia pari a zero di andare a quello stupido pranzo - bofonchiai poi, indispettita come una bimba piccola.
- Non dirlo a me - Lavinia mi si avvicinò, e prese dalla
credenza un'altra tazza in ceramica - Non possiamo fingere un malore
improvviso? -
Scossi la testa, afflitta - La scusa della malattia l'abbiamo già usata due settimane fa - le ricordai.
La sentì borbottare un "Accidenti", che venne lievemente
mascherato dal rumore della macchinetta che macinava i chicchi di
caffè.
Finita la mia rapida colazione, mi spostai in camera mia per cambiarmi e poter accompagnare il povero Rico a casa.
Presi le chiavi della Polo, che condividevo con mia sorella, dalla sua
borsa e mi vestì con un paio di jeans slabbrati in alcuni punti e
una felpa di una taglia in più.
Il classico abbigliamento alla "Cazzo mene", usato principalmente da studenti, studentesse e dal 90% della popolazione mondiale.
Enrico viveva con la sua famiglia non poco lontano da Porta Garibaldi,
in un appartamento al sesto piano di una deliziosa palazzina.
Fortunatamente grazie all'ora e alla quasi assente presenza di
traffico, evento più unico che raro nella città, non
impiegai un tempo eccessivo per accompagnare il mio amico e ritornare
indietro per riprendere mia sorella.
I nostri genitori abitavano in una bella villetta con giardino, in un paesino sperduto e dimenticato da Dio.
Uno di quei paesini in cui la maggior parte degli abitanti era composta
da anziani e bambini molto piccoli. Uno spasso continuo per chiunque
andasse dai quindici ai trentacinque anni, insomma.
Impiegammo all'incirca quarantacinque minuti abbondanti, quasi quindici
in più rispetto al normale, per arrivare a destinazione.
Parcheggiare, ed osservare dal finestrino la casa dei nostri genitori,
mi fece provare una grossa nostalgia, che mi colpì in pieno lo stomaco.
Ero letteralmente cresciuta in quella casa, e lì conservavo sia
dei bellissimi ricordi, legati principalmente all'infanzia trascorsa,
sia quelli più brutti.
La prima cosa che notai, non appena scesi dalla vettura, fu l'incredibile quiete.
Un silenzio che non sentivo da tempo, e che pensavo di essermi dimenticata.
Quel silenzio che sapeva di casa.
Ad accoglierci per prima fu la nostra vecchia cagnolina Mirajane; un
border collie a pelo medio, nero e bianco, che sembrava non subire mai
il passare degli anni.
Era schizzata nella nostra direzione ad una velocità da far
invidia alla fusione di Bolt e Sonic, ed aveva preso ad abbaiare e
scodinzolare come una forsennata.
Per ovvie ragioni, quali coccole e complimenti smielati, impiegammo altri venti minuti prima di varcare la porta d'ingresso.
Ho sempre ritenuto di avere un problema con i cani.
Quando ne vedevo uno, era più forte di me, dovevo coccolarlo e riempirlo di complimenti smielati.
Lo stesso mi capitava, molto spesso, anche con i gatti; specialmente quelli ciccioni.
Inoltre, ritornando al discorso dei cani, se il cane in questione era
quello di famiglia, che avevi visto crescere da quando era un piccolo e
tenero batuffolo di pelo spelacchiato, la situazione diventa davvero
tragica; per tutti.
Venne ad aprirci nostro padre dalla porta-finestra del soggiorno, e ci stritolò in un abbraccio spacca-ossa.
Essendo sempre stato un uomo burbero e serio, nostro padre era restio a
grandi manifestazioni d'affetto. Questo però non aveva mai
influenzato i sentimenti che provava per noi.
L'amore di un genitore è qualcosa di inquantificabile, ma lui non era mai stato bravo a dimostrarlo a parole e gesti.
Ci amava, e noi lo avevamo sempre saputo.
La situazione era notevolmente cambiata quando sia io che mia sorella uscimmo di casa, per andare a vivere a Milano.
Io ero appena ventenne quando successe e, vedere entrambe le figlie
lontane dal nido familiare, doveva avergli fatto scattare qualcosa
dentro.
- Ciao, papà - lo salutammo entrambe, ricambiando la stretta - Come stai? -
- Bene, ragazze. Voi, invece? Vi fate sentire così di rado...
Dovreste chiamare me e vostra madre più spesso! Come va a
Milano? - chiese, mentre si sistemava il colletto della camicia,
coperta da un maglioncino dalla maglia piccola.
A rispondere ci pensò Lavinia, che prese la parola per entrambe,
raccontando più o meno la solita solfa che si propina per far
veloce.
" Tutto bene, niente di che. Il lavoro stressa molto, il tempo è terribile..." e cose di questo genere.
Nostra madre, invece, era già nella sala da pranzo insieme a
buona parte dei parenti. Era intenta a parlocchiare con alcuni nostri
zii che, non appena notarono la nostra presenza, fecero scattare rapide
le teste da rapaci verso di noi, in un movimento rapido e meccanico; quasi
inquietante per certi versi.
Sia io che Lavinia deglutimmo a vuoto, mentre gli occhi per lo
più scuri dei presenti ci osservavano e studiavano nel dettaglio.
Era troppo tardi per fuggire?
Purtroppo sì.
Che l'Inferno abbia inizio.
Affermare con assoluta risolutezza che il pranzo a casa Mirosi fosse
stato un vero Inferno, sarebbe stato il Re degli eufemismi. Sia io che
mia sorella eravamo state tartassate dalle continue domande inopportune
da parte di zie fin troppo impiccione.
Mancava giusto una lampada bianca puntata in mezzo agli occhi, e sarebbe stato il classico interrogatorio da film.
Gli unici momenti di sollievo erano dati dagli arrivi di nostra madre con le portate da servire.
Solo lì si riusciva a stare tranquilli e, stranamente, in un
pacifico silenzio, visto che tutti erano troppo presi ad ingerire cibo
per fare altro.
Tornammo a Milano che era quasi ora di cena.
Io avevo un martello pneumatico in testa, mentre mia sorella aveva la
classica espressione di chi sarebbe svenuto molto volentieri su una
qualsiasi superficie piana da un momento all'altro.
Morbida o meno non faceva molta differenza al momento.
Speravo con tutto il cuore che almeno il giorno seguente sarebbe stato migliore, ma avevo dimenticato una cosa importantissima.
Il giorno seguente si chiamava lunedì.
NOTE:
(1): Loki Laufeyson dall'Universo Marvel.
(2): V for Vendetta.
(3): semi-citazione di Sheldon Cooper da "The Big Bang Theory"
|!| AVVISO: Per farmi perdonare della lunga assenza pubblicherò i capitoli 3-4-5 insieme |!|
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Capitolo 4 *** Capitolo 4. ***
capitolo 4
|!| AVVISO: Per farmi perdonare della lunga assenza pubblicherò i capitoli 3-4-5 insieme |!|
Capitolo 4
Per
quanto potesse sembrare assurdo e da malati mentali, amavo prendere
appunti durante le lezioni. Molto probabilmente questo amore era
strettamente legato alla mia passione per la scrittura a mano, ma
niente riusciva a rilassarmi come il trascrivere gli appunti presi in
brutta in bella.
Erano le due ed io, mentre trascrivevo pile di appunti presi quella
stessa mattina con la mano sinistra, con la destra ogni tanto prendevo
un boccone di riso con le verdure.
Di sottofondo c'era la TV del salotto che mi faceva compagnia, con un vecchio episodio de "I Simpson".
Sembrava essere una giornata tranquilla, fino a quel momento.
Dalle tre e mezza fino alle sei sarei dovuta essere in negozio insieme a Stefania.
Di solito il lunedì il Florida's era praticamente deserto,
così io ne approfittavo per leggere un libro o studiare un po'.
Molto probabilmente quel giorno avrei optato per la seconda opzione, mettendo in borsa qualche foglio di appunti.
Con in bocca ancora un boccone di riso, venni distratta dalla
fastidiosa vibrazione del cellulare contro la superficie del tavolo.
Appoggiai la penna nera vicino alla pila di fogli, e constatai che si trattava di un messaggio di mia sorella.
Mi aveva scritto brevemente che quella sera stessa si sarebbe fermata a cena con dei colleghi, e che avrei mangiato da sola.
Presi quella notizia come una piccola fortuna: avevo una voglia matta di pizza.
Lavinia mi avrebbe sicuramente ripresa, dicendomi che dovevo mangiare
sano se non volevo diventare una piccola botte rotolante, ma
personalmente credevo che ogni tanto qualche sgarro andasse bene.
Inoltre, ero nella settimana pre-ciclo e la mia voglia di schifezze e
cibo poco salutare saliva verso picchi mai raggiunti da nessun essere
umano o non.
Altrettanto brevemente le risposi che non c'erano problemi, e che per cena mi sarei arrangiata con qualcosa.
Frase traducibile con: questa sera mangerò un sacco di schifezze, e tu non potrai farci assolutamente niente.
Inviato il messaggio, e finito il riso, raccolsi tutti i fogli volanti
in una cartelletta trasparente e corsi a prepararmi per andare a lavoro.
Mi misi la maglia del negozio, un paio di jeans scoloriti in alcuni
punti neri e buttai malamente alla rinfusa ciò che mi sarebbe
servito in una borsa grande.
Quando uscì di casa, salutai rapida la signora Rosalia e corsi a prendere la metro.
Arrivai in negozio che Stefania aveva aperto da pochissimo, e la trovai
intenta a ripiegare alcuni jeans strappati su uno scaffale nero.
- Ciao, Ste' - la salutai, con un ampio sorriso sulle labbra - Tutto bene? -
- Ehi, Chiara - ricambiò il sorriso - Tutto bene, grazie. Te, invece? -
Le risposi con un educato e formale "tutto bene", mentre sfilavo il
giubbino che indossavo e andavo a metterlo sull'attaccapanni sul retro,
insieme alla spaziosa borsa.
Tirai fuori da quest'ultima la cartelletta trasparente e, con gli appunti sotto braccio, tornai indietro.
Andai a sedermi dietro alla casa, attendendo che il mio turno finisse il prima possibile.
Passò la prima ora e mezza, e di clienti ne avevamo visti al massimo due.
Stanca del troppo studio, avevo accantonato in un angolo del bancone il
blocco di fogli e, mentre la mia collega era intenta a servire due
clienti appena arrivati, io mi ero messa a scorrere distrattamente la home di Facebook.
Lasciai perdere il mio telefonino, nell'esatto momento in cui
sentì il campanello collegato alla porta suonare, annunciando
così l'arrivo di un nuovo cliente.
- Buon giorno - salutai cordiale, da dietro il banco, con un ampio sorriso stampato in volto.
Un sorriso che si congelò quasi immediatamente.
Non riuscivo a capire se il karma volesse farmi un favore o meno, ma
non comprendevo cosa ci facesse lì il mio vicino di casa.
- Good morning, Chiara - esclamò Steven, visibilmente sorpreso di trovarmi dietro alla cassa, con indosso la divisa del negozio.
Si avvicinò lentamente, con entrambe le mani nelle tasche anteriori dei pantaloni.
Indossava un jeans scuro, schiarito in alcuni punti, una semplice maglia verde con lo scollo a "V" ed una giacca nera.
Poteva un abbigliamento così semplice risultare così divino?
O era semplicemente grazie alla materia prima?
Dovevo darmi un contegno; stentavo a riconoscermi.
Non era da me avere dei pensieri così... melensi.
- Non sapevo lavorassi qui - aggiunse, con ancora un lieve sorriso ad increspargli le labbra.
- Beh... - iniziai, stringendomi nelle spalle - Ora lo sai -
Non poteva esistere metodo peggiore per rispondere, santissimi numi.
- Come posso aiutarti? - mi schiarì la voce, velocemente.
Ero rigida come un palo, ed ero più che sicura di star sudando freddo.
Stavo valutando l'idea di nascondermi sotto il bancone, sparendo come
un Pokémon selvatico, ma non sarebbe stato un comportamento
propriamente consono.
In quel momento lui era il cliente, ed io la commessa che doveva servirlo.
Dovevo mantenere un comportamento professionale e maturo.
Non potevo di certo scappare; purtroppo.
- Sono venuto per comprare qualche t-shirts - mi spiegò - Sono già passato qui, qualche giorno fa, e ne avevo viste alcune con delle stampe carine -
- Ok - annuì, con la massima professionalità - Ti ricordi quali stampe erano? -
Non ci pensò su molto - Quelle a tema rock -
Per fortuna in negozio non avevamo molte maglie con quel tema, e
riuscì ad individuare immediatamente quelle che Steven stava
cercando.
Rischiai tre o quattro volte di fare delle figuracce colossali, facendo
quasi cadere delle pile di vestiti o inciampando nel vuoto, e lo
sguardo costante del corvino che mi perforava la schiena non aiutava
per niente.
Non distoglieva lo sguardo nemmeno per un secondo, e questo mi metteva incredibilmente in agitazione.
Non poteva guardare, anche solo per un milli secondo, da un'altra parte?
Per favore?
Seguendole direttive del mio vicino di casa presi, dopo avergli chiesto la taglia, alcune cosette da fargli provare in camerino.
Dio, i camerini.
- Se-se hai bisogno di qualcosa... io sono q-qui fuori - avvisai, prima
di vederlo scomparire dietro la tendina color magenta con un sorriso
sulle labbra.
Ok, Chiara.
Fino a qui tutto bene.
Respira, e stai calma.
Steven è un semplice, e meraviglioso, ragazzo inglese che in
questo momento si sta spogliando e rivestendo a nemmeno un metro da te.
Niente può andare storto.
Andrà tutto benissimo.
Meravigliosamente.
L'unica cosa che devi fare è respirare.
Mentre ero lì ad aspettare, spostai il peso da una gamba all'altra, tenendo entrambe le braccia incrociate sotto al seno.
Passati un paio di minuti, mi appoggiai con la schiena contro la parete liscia del corridoio.
- Chiara? - mi sentì chiamare dal camerino.
- Sì? Hai bisogno di qualcosa? - chiesi, avvicinandomi.
La testa di Steven spuntò fuori dalla tendina, insieme al resto
del suo corpo privo di maglietta e con solo i jeans a vita bassa
indosso.
Dillo che mi vuoi morta.
Mi voleva seriamente morta, lui e i suoi pettorali tonici.
La cosa che mi colpì maggiormente, come uno schiaffo in pieno
volto, oltre al suo busto nudo e atletico privo di maglia, fu un
piccolo disegno nero sul pettorale sinistro.
Lo riconobbi all'istante, e per poco non svenni lì sul posto.
Mi accorsi solo in un secondo momento della maglia grigia, con la foto di Kurt Cobain, che teneva tra le mani.
- Potresti portarmi una taglia più grande? -
Annuì con la testa in silenzio, presi la t-shirt e mi allontanai.
- Non capisci, Eli! Ha l'heartagram degli HIM tatuato... Gli piacciono gli HIM! - esclamai al telefono con la mia migliore amica, una volta tornata a casa.
Era tarda sera, e dovevo ancora cenare, ma in quel momento le mie necessità primarie andavano in secondo piano.
Amavo gli HIM da quando ero in seconda superiore e scoprire che il mio
affascinante vicino aveva tatuato, sul pettorale sinistro, proprio il
logo della rock band, mi aveva mandato fuori di testa.
Anch'io me lo ero fatta tatuare, ma dietro sulla scapola destra.
Era stato uno dei primi che mi ero fatta appena maggiorenne.
- È sexy e vi piace la stessa musica. Chiedigli d'uscire! - mi incitò Elisa, con voce lievemente esasperata.
Iniziai a mordicchiarmi l'unghia del pollice, con fare nervoso.
Stavo per rispondere, quando Elisa ripresa a parlare - Non t'azzardare
a dire che non pensi sia una buona idea, se no ti affogo nel Naviglio.
T'avviso - minacciò, dura - Sono anni che ti conosco, tesoro
mio; so perfettamente come funziona la tua testolina e il cricetino che
vi abita dentro. Devi toglierti dalla mente la malsana idea di non
essere abbastanza bella per poter chiedere a qualcuno di uscire. Sei
una bella gnocca, Chiara. Lo sai che non lo dico perchè sono tua
amica, ma perchè lo penso seriamente. Se tu non fossi etero ci
avrei già provato un casino di volte con te, lo sai -
L'ultima affermazione mi fece sorridere, e mi risollevò d'animo.
Elisa me l'aveva già confidato innumerevoli volte, e lei era sempre sincera.
Diceva sempre quello che pensava; era completamente priva di peli sulla lingua.
- C'avessi io le tue tette! Hai due bo_-
- Come va con la bionda dell'Università? Hai detto che siete
uscite per un secondo aperitivo, se non sbaglio - la bloccai rapida,
impedendo che la telefonata degenerasse, e cambiando palesemente
discorso.
- Con Lucia va bene - rispose - Dovresti conoscerla; è un tesoro di ragazza. È gnocca e dolce. L'adoro -
Sentire Eli così felice, via telefono, mi riscaldò il cuore e mi fece sorridere di conseguenza.
Ero davvero felicissima per lei.
Quattro anni prima, Elisa era uscita da una brutta relazione con una
ragazza più grande di lei, e aveva faticato non poco per
riprendersi.
Inoltre i suoi genitori, nello stesso periodo, decisero di divorziare e
la madre non prese affatto bene l'omosessualità della figlia.
Per la mia amica, la madre era morta lo stesso giorno in cui aveva lasciato la casa di famiglia.
In compenso, il rapporto con il padre era migliorato notevolmente.
Elisa rimaneva la sua bambina, e per lui non era cambiato assolutamente
niente.
Si meritava quello scorcio di felicità.
- Sono felice per te, Lisa. Non vedo l'ora di conoscerla; un giorno di questi -
- Ed io voglio conoscere il vicino sexy - ritornò lei alla
carica - Anche Rico è curioso. Vedi se in questi giorni non ci
accampiamo a casa tua per riuscire a vederlo -
Alzai gli occhi al cielo - Non lascerò che vi accampiate in casa mia per conoscere il mio vicino -
La mia amica mormorò un paio di "se se" e, fortunatamente, non riprese più l'argomento "Steven".
Parlammo ancora qualche minuto, poi ci salutammo dandoci appuntamento per l'indomani.
Dovendo ancora cenare, non avendo la più che minima voglia di
mettermi ai fornelli, e memore della voglia che avevo avuto quella
stessa mattina, presi la saggia decisione di ordinare una pizza a
domicilio.
La mia immensa pigrizia iniziava a farsi sentire.
Mentre aspettavo l'arrivo del fattorino con la mia pizza, mi diedi una
veloce lavata in doccia e mi infilai una canotta color verde acqua, con
un paio di pantaloni della tuta.
Essendomi cambiata, passando davanti allo specchio appeso alla parete
di camera mia, diedi un'occhiata al mio riflesso e ai pochi tatuaggi
ora visibili.
Dietro alla spalla destra spiccava l'heartagram degli HIM, mentre ai
lati dei polsi due piccole mezze lune, di cui una completamente nera.
Il resto non era visibile.
Il gracchiare del citofono attirò la mia attenzione, così
mi precipitai ad uscire per andare al portone d'ingresso al piano terra
e ritirare la mia cena.
Ritirata e pagata la pizza, mi vidi costretta a fare le scale per salire al mio piano.
L'ascensore era occupato, e non avevo voglia di far raffreddare la mia cena per aspettare che si liberasse.
Per fortuna abitavo al secondo piano, e non al sesto.
Tenendo il cartone bianco con una mano, arrivata davanti alla porta di
casa, con l'altra andai alla ricerca del mazzetto di chiavi nella tasca
del pantalone.
Il calore della pizza iniziava a pizzicarmi il palmo della mano, ma era comunque un fastidio sopportabile.
Intanto alle mie spalle, sentì il distinto suono delle porte dell'ascensore che si aprivano, ma non ci feci molto caso.
Forse avrei dovuto.
- Ciao, Chiara -
E dillo karma che ti sto palesemente sul culo.
Struccata, con la tuta e con i capelli raccolti in una coda disordinata
chi altro potevo incontrare se non il ragazzo del quarto piano, con al
guinzaglio Briciola e Cannella?
Grazie, karma. Grazie davvero.
- Ciao, Steven - ricambiai il saluto voltandomi appena, con voce lievemente strozzata e lo sguardo basso.
Con la coda dell'occhio lo vidi affiancarmi, pronto a bussare alla porta della signora Rosa.
Trovate le mie chiavi, mi affrettai ad aprire la porta per rifugiarmi nella calda e sicura casa.
Manco se Steven fosse il peggiore dei serial killer pronto ad uccidermi, e a farmi a cubetti da conservare nel congelatore.
Ero davvero stupida.
- Chiara? - mi sentì chiamare, poco dopo.
- Sì? -
Mi voltai per scorgere il sorriso brillante del corvino.
- Nice tattoos -
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Capitolo 5 *** Capitolo 5. ***
capitolo 5
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Capitolo 5
Verso l'ora di pranzo di giovedì ero già sulla metro che mi avrebbe riportato a casa.
Dire che ero stanca morta, sarebbe stato praticamente niente; la
giornata in Università era stata particolarmente stressante, e
la sera prima non avevo dormito per niente bene.
Se si aggiungeva poi il fattore che da lì a poco meno di un mese
avrei avuto un esame scritto, si poteva comprendere il mio pessimo
umore.
Sospirai pesantemente, portando una mano al collo per massaggiarmelo.
Quando ero di così pessimo umore, erano poche le cose che mi
aiutavano a tirarmi su; prime fra tutte erano leggere, scrivere e
disegnare.
Amavo disegnare da quando ero una piccola e paffuta pargoletta, e la
mia era una passione di famiglia, che mi era stata trasmessa sia da mia
madre che da mia zia paterna.
Da piccola adoravo guardarle dipingere e creare magnifici paesaggi,
mentre sgranocchiavo qualche biscotto fatto in casa o le osservavo
semplicemente con occhi colmi di stupore.
Purtroppo era una cosa che non potevo fare, da diversi anni.
Mia zia era venuta a mancare quando avevo appena dodici anni, a causa di una fulminante e devastante leucemia.
Mia madre, invece, aveva smesso a causa del poco tempo libero che le
era rimasto per il lavoro e per la stanchezza dell'età che
avanzava.
Non ero molto brava a dipingere i paesaggi come loro, anzi erano proprio il mio tallone d'Achille.
Me la cavavo decisamente meglio con figure umane in stile cartoon e
fumetti, ma ero molto limitata; le cose che non sapevo fare erano
innumerevoli, e superavano di gran lunga quelle che sapevo più o
meno fare.
Sospirai una seconda volta, e tirai su la testa per guardarmi intorno.
Mancavano ancora due fermate, e sarei finalmente arrivata.
Mi tirai su, ed attesi in piedi che le porte automatiche si aprissero.
Alle orecchie "Let's Go Slaughter He-Man" dei Lordi mi fece desiderare di tornare nella mia camera il prima possibile.
- Perché non torni a scrivere? -
Alzai gli occhi dallo schermo del computer e li puntai in quelli verdi di Rico, con fare stranito.
Gli occhi del mio migliore amico erano incredibilmente particolari; non
erano di un semplice e monocromatico verde, ma sfumavano delicatamente
verso l'esterno in un castano molto chiaro, in una sfumatura quasi
impercettibile.
Erano occhi comune a prima vista, ma che nascondevano molto di
più. Segreti presenti nelle iridi di tutti gli esseri umani, una
parte minuscola dell'anima di ognuno, che nessuno poteva conoscere
oltre al loro proprietario.
- Cosa? - domandai, confusa.
- Dovresti riprendere a scrivere - affermò con maggiore sicurezza, appoggiandosi con i gomiti sul bancone del negozio.
Quella sera eravamo da soli in libreria.
Sofia era dovuta andare via prima per andare a fare una visita medica,
ed Enrico l'aveva rassicurata dicendole che ci avrebbe pensato lui a
chiudere tutto e a controllare il negozio.
Mentre io le avevo assicurato che avrei tenuto sotto'occhio il mio amico.
- E quando mai avrei smesso, scusami? - gli domandai, con un lieve sorriso sulle labbra - Non mi risulta di averlo fatto -
Enrico mi lanciò un'occhiata silenziosa.
- Lo sai cosa intendo, non fare finta di non aver capito - mi riprese -
Intendo scrivere seriamente seriamente; non solo i testi brevi che ogni
tanto ti trovo a scribacchiare. Una volta lo usavi molto... per
sfogarti -
Riportai lo sguardo sullo schermo luminoso, e lo abbassai poco dopo in silenzio.
Non sapevo nemmeno come rispondergli, in quel momento.
- Non ho molto tempo -
- Dovrei crederci? -
Sicuramente no. Non credevo nemmeno io a quello che avevo appena detto, ma mi sembrava la scusa più plausibile.
La scrittura aveva avuto sempre un posto speciale nel mio cuore, tra
tutte le mie passioni, anche se negli ultimi anni mi ero vista
costretta ad accantonarla momentaneamente.
Lo sapeva Enrico, e lo sapevo soprattutto io, che ciò era
accaduto per un motivo, o meglio una serie di motivi ben precisi; ma
non mi sentivo ancora pronta per ammetterlo apertamente, nemmeno con
lui o Lisa.
- Puoi fare come vuoi, Rico - gli risposi tranquillamente, continuando a tenere fissi gli occhi sullo schermo.
Chissà quanto tempo avrebbe resistito la mia retina, sotto il bombardamento dei cristalli liquidi.
Sicuramente non molto, ma ero tentata di provarci.
- Chiara? - mi chiamò lui nuovamente, con tono ancora più
ammorbidito - Lo so che... non ti piace sfogarti con gli altri, ma non
puoi tenerti sempre tutto dentro. Non te ne rendi conto, ma questa cosa
ti logora e ti avvelena da dentro - prese un piccolo respiro,
portandosi per pochi secondi una mano davanti alla bocca - Non ti
voglio obbligare a sfogarti con me o Elisa, immagino solo che potrebbe
peggiorare le cose, ma non tenerti tutto dentro, Chia'... Per questo ti
sto dicendo di riprendere a scrivere, sul serio -
Osservai in silenzio il corvino per una decina di secondi, incapace di formulare una qualsiasi risposta.
- Ma... io sto bene, Enrico. Sul serio - dissi, leggermente confusa -
Non è successo niente di grave in questi giorni... Se avessi
bisogno di sfogarmi per qualcosa te lo avrei già detto - tentai
di rasserenarlo.
Lui scosse la testa un paio di volte.
- Sei come un contenitore, e ogni volta che ti succede qualcosa inizi a
riempirti lentamente. Non è necessario che succeda qualcosa di
grosso per farti esplodere; bastano anche dei piccoli avvenimenti per
farlo -
Le sue parole mi colpirono molto, tanto da farmi sgranare lievemente gli occhi.
Era vero, tutto dannatamente vero.
Ma se c'era una cosa che odiavo, era coinvolgere le persone a me care nei miei problemi.
Non volevo risultare polemica, o finire per ripetere sempre le solite cose.
Era un comportamento che non riuscivo proprio a tollerare.
Negli anni ero arrivata ad autoconvincermi che preferivo ascoltare che
essere ascoltata, ma una piccola parte dentro di me sapeva che non era
giusto così. Sapeva che ci doveva essere equità tra le
due parti.
Quella che faceva finta di no ero io.
Quella sera non toccammo più l'argomento, e all'orario di chiusura ci salutammo per tornare ognuno a casa propria.
Avevo approfittato dello sconto dipendenti per acquistare alcuni libri che avevo adocchiato da un po'.
Mi ero ritrovata a discutere un pochino con Rico, sulla questione pagamento.
Anche lui, come la zia, aveva insistito per non farmeli pagare, ma io mi ero imposta come mio solito.
Fosse stato per me non avrei nemmeno usato scioccamente lo sconto
dipendenti per prenderli, pagandoli assurdamente a prezzo pieno.
Era difficile da spiegare, ma... mi metteva a disagio non poterli pagare.
Mi sentivo come se mi stessi approfittando della situazione e della loro gentilezza.
Lo sconto, diciamo, era una via di mezzo tra le due fazioni; un compromesso.
Anche se alla fine io tentavo sempre di pagarli a prezzo pieno, e Rico
e Sofia tentavano sempre di non farmi sborsare un centesimo.
Molto probabilmente quello sarebbe stato un balletto infinito.
Stringendo nella mano destra la bustina bianca contenente gli acquisti
del giorno, con l'altra imprecai un paio di volte mentre cercavo di
aprire il portone della palazzina, che quel giorno non ne voleva
proprio sapere di collaborare, facendomi girare a vuoto la chiave(1).
Fantastico.
La serratura era rotta.
Di nuovo.
Davvero, davvero fantastico.
Mi sarei ritrovata a riprovare e riprovare allo sfinimento, fino all'arrivo in mio soccorso di qualche anima pia.
- Ciao, Chiara -
Ma anche una divinità vichinga, con un forte accento inglese, sarebbe andato più che bene.
- Ciao, Steven! - scattai, arrossendo di colpo, con il mazzetto di chiavi ben stretto in mano.
Lo vidi passare lo sguardo da me alla porta ancora chiusa.
- Da ancora problemi? -
Annuì silenziosamente con la testa.
Non mi sentivo in grado di formulare una frase di senso compiuto in sua presenza.
Non mi sentivo quasi mai in grado di formulare una frase di senso compiuto, con lui davanti.
Che fosse a causa della mia estrema timidezza?
Eppure a lavoro, con i clienti, non mi succedeva.
- Vieni, ti insegno un trucco - mi fece segno di avvicinarmi, con un sorriso ad illuminargli il viso.
Eh, no!
Così non vale, pero!
Chiederlo così era proprio una mossa sleale, soprattutto per i miei poveri ormoni.
Una vocina dentro la mia testa mi suggeriva che pure lui lo sapeva.
- Metti la chiave dentro - feci come mi disse, e sussultai lievemente sentendolo spostarsi dietro di me.
Questa mossa è persino più sleale di quella di prima!
Divenni un blocco di ghiaccio.
Sentivo il suo fiato solleticarmi delicatamente la parte alta del collo, causandomi una serie di brividi in tutto il corpo.
Il cuore pompava forte nel petto, e potevo chiaramente sentirlo pulsare nelle orecchie.
Sembrava una scena da fan-fiction.
Peccato solo che quella fosse la vita reale, ed io stessi per morire a causa di quella scena da fan-fic.
Con una delicatezza che mi sorprese nel profondo, Steve guidò
delicatamente la mia mano destra verso la maniglia del portone e, allo
stesso tempo, anche la sinistra che stringeva la chiave nella serratura.
- Tira lievemente la maniglia verso di te, e gira la chiave verso destra - spiegò, gentile.
Ero consapevole del fatto che mi stesse spiegando una cosa più
che normale, e palesemente priva di qualsiasi doppio-senso piccante...
ma allora perchè la sua voce mi sembrava più bassa e
roca, come quella descritta dei personaggi maschili nelle fan-fiction a
rating rosso?
Chissà perchè quel giorno ero proprio in fissa.
O forse era lui che riusciva a rendere a ranting rosso qualsiasi cosa dicesse?
Come un soldatino di ferro, eseguì le sue indicazioni.
Quando sentì la serratura scattare, e vidi il portone aprirsi
con un sottile cigolio, la mia bocca formò una piccola "o" per
lo stupore.
- Cavolo, grazie! - esclamai stupita, e ancora notevolmente colorita
sulle gote - Ogni volta questo cavolo di portone mi da un sacco di
problemi -
- Tranquilla, ti capisco - mi sorrise lui, mentre varcavamo insieme la
soglia della palazzina - Anch'io ci impazzivo le prime volte che mi ero
trasferito qua. Dopo un anno di imprecazioni inutili, la portinaia
è stata così gentile da spiegarmi questo piccolo
trucchetto -
Strano. In tre anni che vivevo lì, la portinaia non si era mai
mostrata così gentile da spiegarlo anche a me quel piccolo
trucchetto.
Si vede che non avevo abbastanza barba e massa muscolare tonica come il ragazzo al mio fianco; e per fortuna, aggiungerei.
- Da quant'è che vivi qui? - gli domandai, sinceramente incuriosita.
- 3 years -
Lo vidi frugare nelle tasche della giacca verde militare, alla ricerca di qualcosa.
- Te, invece? - domandò, alzando gli occhi blu nei miei.
- Pure io tre anni - risposi, dopo un attimo di esitazione.
Ma potevo incantarmi come una deficiente a guardargli gli occhi?
Quanto potevo essere deficiente?
- Strano - lo sentì commentare, aggrottando le sopracciglia corvine in un'espressione pensierosa.
Trovavo pure quella bellissima.
Ero doppiamente deficiente, ed ero messa doppiamente male.
- Cosa? -
- Abitiamo nella stessa palazzina da tre anni e non ci siamo mai incrociati prima -
Ora che me lo faceva notare, era vero; come cosa era un po' strana.
Se lo avessi incrociato, anche solo per sbaglio, me ne sarei sicuramente ricordata.
- Può essere che ci siamo incrociati, e non ce ne siamo nemmeno
resi conto - dissi - Sono una tipa abbastanza comune, passo molto
inosservata - ridacchiai, per alleggerire il tutto.
Lo vidi scuotere il capo, convinto.
- No no, non lo credo possibile - scosse nuovamente la testa - Se ti
avessi vista, mi sarei ricordato. Non dimentico facilmente una bella
ragazza -
NOTE:
(1): Tratto da una storia vera. Il portone di casa nuova mi da sempre
problemi, e mi ritrovo ad imprecare per ore quasi ogni volta -_-
Purtroppo non ho nessun Steven che venga in mio aiuto ç-ç
me misera
ANGOLO DELLA MENTE MALATA:
Sono un essere orribile. Lo so.
Non aggiorno da ottobre 2016... solo a scriverlo mi sento ancora peggio ç-ç
Però ho avuto le mie buone ragioni, e chi mi ha seguita un po'
lo sa. Che dire... se vi dico che casa nuova non è ancora
finita, mi credereste? XD Veramente, mi sono resa conto che il mondo
dei traslochi e degli immobilieri è un mondo di merda. Orribile,
veramente. Potrei raccontarvi le mie disavventure a riguardo per giorni
interi, credetemi sulla parola.
Ma lasciamo perdere che è meglio XD
Per farmi perdonare della lunga assenza, ho volute postare ben tre capitoli. Spero possano piacervi!
Non sono dei grandi capitoli, me ne rendo conto, ma le cose "grosse" succederanno più avanti... andiamo per scalini ;)
Io vi mando tanti bacini zuccherosi miei volpini morbidosi ~
- Harley
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
capitolo 6
Capitolo 6
-
Ohi, Chiara? Terra chiama Chiara. Ci sei? - schioccò le dita
Elisa davanti alla faccia, per richiamare la mia attenzione - Rico
l'abbiamo persa -
Enrico al suo fianco portò lo sguardo al display del telefonino - Ora del decesso: 15:26 -
Lanciai un'occhiataccia a tutte e due - Come siete spiritosi - commentai piccata, prendendo in mano il mio bicchierone di Coca-Cola zero.
- Lo sappiamo - annuì Lisa, incrociando le braccia sotto al seno.
- Potremmo fare domanda a Zelig -
- E diventare due comici di fama internazionale -
- Diventeremo delle star! -
Due deficienti.
I miei amici erano due deficienti, ecco cosa erano. Ma io d'altro canto non ero messa tanto meglio di loro.
Mi ero incantata ripensando a cosa mi aveva detto Steven la sera prima,
e le sensazioni che avevo provato ad averlo così vicino.
Era tutto così assurdo ed incomprensibile; lo conoscevo davvero poco e nemmeno da così tanto tempo.
Anzi, potevo quasi affermare di non conoscerlo proprio, tanto erano poche le cose che sapevo su di lui.
- E... l'abbiamo persa di nuovo. Chia'? Si può sapere a cosa
stai pensando di tanto int_ Oddio! Ho capito! - strillò quasi
Elisa, boccheggiando e rifilando un paio di gomitate al ragazzo al suo
fianco.
Il poverino pigolò un "Ahia!", prima di massaggiarsi il lato offeso.
- Cosa hai capito? - le domandò lui, ancora dolorante.
- Guardala - mi indicò con la testa - Ha sicuramente fatto
qualcosa col vicino figo; ecco perché è così -
Rettifico quello che ho detto prima: erano notevolmente più deficienti di me. Non c’erano dubbi.
- Ma cosa dici? - squittì, sobbalzando sulla sedia ed arrossendo visibilmente in volto.
- Vuoi forse dire che non stavi pensando a lui? - mi provocò lei, inarcando un sopracciglio.
Rimasi in silenzio, non potendo negarlo. Lo stavo facendo davvero.
Vidi la corvina sgranare ulteriormente gli occhi scuri, a causa del mio inaspettato silenzio.
- Razza di sciagurata, hai fatto cosacce con l’inglesino e non
vieni a dirci niente? Nessun resoconto piccante, a noi che siamo i tuoi
migliori amici? Mi ritengo più che offesa -
- Ma che ti dici, Lisa! - esclamai, esasperata, e sempre rossa in volto.
Quello stava proprio diventando il mio colore di base. Chissà se esistevano dei fondotinta rossi?
- Non ho fatto niente con Steven; niente di niente -
Mi lanciò uno sguardo indagatore, mentre afferrava il proprio
pacchetto di Marlboro rosse dal tavolino in ferro scuro del bar, dove
ci eravamo accomodati.
- Però stavi pensando a lui -
Nessuna domanda, ma bensì una semplice e diretta affermazione.
Sospirai.
- Stavo pensando ad una cosa che mi ha detto ieri sera, quando l’ho incrociato davanti al portone di casa. Tutto qui -
- Uh. Ti ha detto qualcosa di, diciamo, sconveniente? - domandò curiosa, con un sorriso malizioso in volto.
L’avrei tanto voluta affogare nel suo thè alla pesca.
- Assolutamente no - le schioccai l’ennesima occhiataccia - Mi ha solo detto che... -
Esitai.
- “Detto che” cosa? - incalzò Enrico, con uno
sguardo altrettanto malizioso che dava man forte a quello della
corvina.
Potevo gestire uno alla volta; due erano decisamente troppi, per chiunque.
- Che sono una bella ragazza - arrossì, distogliendo lo sguardo.
Era stupido arrossire, a 23 anni, per una cosa così? Non lo sapevo proprio.
Per una come me, che di complimenti simili ne riceveva davvero pochi, non lo sembrava.
- Ti ha detto che sei una bella ragazza? Così di punto in bianco? - domandò Rico, confuso.
Scossi il capo.
- Ma no! Ceh... Non è che è venuto lì, e se ne
è uscito con una frase così all’improvviso. Sarebbe
non poco assurdo, suvvia! Abbiamo solo parlato un pochino, lui mi ha
dato una mano ad aprire il solito maledetto portone difettoso e quando
abbiamo ripreso a parlare, ad un certo punto, ha detto una frase tipo
“Non dimentico facilmente una bella ragazza come te”. Tutto
qui -
I miei migliori amici rimasero in silenzio. Si lanciarono uno sguardo
d’intesa, e riportarono la loro attenzione sulla sottoscritta.
Perché non prevedevo nulla di buono?
- Sarò ripetitiva, ma chiedigli di uscire. Lui ti piace, a lui
piaci. Che problema c’è? - domandò Elisa confusa,
tirando fuori una stecca di sigaretta dal pacchetto.
- Io a lui non piaccio -
Rico si lasciò sfuggire una risatina divertita, mentre la
ragazza al suo fianco prese a scuotere la testa, con fare esasperato.
- Nessuno dice una cosa del genere, se non ha un minimo di interesse
verso l’altra persona. Non far finta di non vedere - mi riprese
lui, con un sorriso.
Forse aveva ragione.
Purtroppo non conoscevo abbastanza Steven per poterlo affermare con sicurezza.
Poteva essere una frase che usava con tutte; io che ne potevo sapere?
- Boh, non saprei... - borbottai indecisa, incassando la testa nelle spalle - Ci devo pensare -
Enrico ed Elisa si lanciarono un secondo sguardo d’intesa, rimanendo in silenzio.
Sapevano che non dovevano continuare a pressarmi ulteriormente, se non volevano avere una reazione opposta a quella desiderata.
- Eli mi dai una paglia? Le mie le ho finite prima -
- Non se ne parla proprio! - esclamò lei, fulminandolo con gli
occhi, e traendo in salvo il suo pacchetto dalla mano del corvino.
- Compratele ‘ste cazzo di sigarette, Enrico. Sono stanca di te
che continui a scroccarmele. Ti sembro per caso un distributore
automatico? - gli domandò, al limite dell’esasperazione.
In risposta, sfoderò la sua migliore espressione da cucciolo bastonato.
- Assolutamente no, Lisuccia carissima. Ma sei mia amica, e gli amici si aiutano nel momento del bisogno... -
Provò nuovamente ad allungare una mano verso il pacchetto di
sigarette, molto lentamente, ma Elisa la schiaffeggiò via
guardandolo, per quanto possibile, ancora più male.
- Amici nel momento del bisogno un corno! - ringhiò -
Compratele! Come tutti i cristiani in questo mondo, scroccone che non
sei altro -
Dovetti mettermi una mano davanti alla bocca, per nascondere la risata che minacciava di sfuggirmi.
Erano parecchio divertenti visti da fuori. Meglio quasi di un episodio di “New Girl”.
Presi dalla borsa il mio pacchetto, con dentro l’ultima
sigaretta, e lo porsi al ragazzo seduto davanti a me. Se questa non era
amicizia.
- Tieni, Rico -
Lui in risposta mi osservò con gratitudine e stupore.
- Vedi? Chiaruccia sì che è una vera amica! Non come te -
borbottò, con tono infantile, gonfiando le guance e tirando
fuori dal pacchetto la sigaretta con fare vittorioso.
Elisa alzò gli occhi al cielo, scuotendo lievemente la testa.
Erano decisamente meglio di un episodio di “New Girl”.
Tornai a casa canticchiando “I want to break free” dei Queen, giocherellando con una ciocca di capelli castani.
Stavo ripensando alle parole di Elisa ed Enrico.
Avrei dovuto chiedere a Steven di uscire insieme? Come avrei mai potuto trovare il coraggio?
No. No. Non avrei mai potuto farlo.
Per quanto potessero essere incoraggianti le loro parole, non avrei mai
avuto il coraggio di chiedere d’uscire ad un ragazzo.
Steven poi... era su un altro livello.
Sospirai.
Era da quando avevo memoria che ero sfortunata in amore, e negli anni avevo collezionato ogni tipo di esperienza negativa.
Sapevo quali erano i miei limiti, e fin dove mi potevo spingere.
Purtroppo, Steven era ben oltre. Troppo lontano anche per sperare solo in qualcosa di piccolo.
Mi sarei fatta bastare averlo come amico.
Amico?
Forse speravo in qualcosa di troppo. Non lo conoscevo abbastanza da poterlo definire mio “amico”.
Vicino di casa.
Steven era semplicemente il mio vicino di casa, molto simpatico e carino. Nulla più.
Nulla più...
Tirai un altro sospiro, e mi fermai a metà del marciapiede davanti ad una vetrina di un negozio.
Osservai il riflesso sul vetro, dritto negli occhi scuri pensierosi.
Ma a me andava davvero bene così?
Era una bella domanda.
Non lo sapevo nemmeno io.
Mi rendevo conto che mi stavo facendo davvero troppi problemi, e questi finivano per offuscarmi solo la mente.
Dovevo pensare ad altro.
Concentrarmi su qualcosa di produttivo, che mi avrebbe fatto stare meglio.
Ripresi a camminare, a testa bassa.
Ma cosa avrei potuto fare?
L’idea arrivò poco dopo, come un fulmine a ciel sereno.
Ora sapevo perfettamente cosa fare.
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