Salvation - I am legend

di Sephirah
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


i am legend Prologo:
Un colpo sulla porta, e poi un altro ancora, e di nuovo, sempre più forte. Per fortuna era blindata. Eppure chissà quanto ancora avrebbe retto sotto quei colpi.
Ma in quei lunghi e solitari anni Beatrice aveva imparato che bisognava sempre guardare il lato positivo delle cose. Per esempio quei colpi così violenti sulla porta
impedivano agli altri rumori di raggiungerla. Non sentiva i lamenti e le grida inumane che venivano da fuori, appena oltre le finestre sigillate.
Beatrice rimaneva ferma, senza fare il minimo rumore, nascosta dietro alla cassettiera della camera da letto con tutte le luci spente, immersa nella più totale oscurità. Aveva le gambe raccolte al petto e stringeva in mano una piccola torcia agli ultravioletti, che non le sarebbe servita a niente in termini pratici, ma che le avrebbe regalato, in caso, un'ultima soddisfazione.
Un altro colpo, poi niente. Dalla porta non arrivava più nessun suono. La ragazza rimase ad ascoltare, e alla fine decise che era andato via, che aveva rinunciato, e provò a rilassare i muscoli, scoprendo, con sua somma sorpresa, che non aveva muscoli da rilassare. Così si accorse di non aver avuto paura.
Il tempo del terrore era finito quando il flagello di Cripping aveva reso il mondo un luogo silenzioso, perché avere paura era diventata una norma. Beartice poggiò la piccola torcia a terra, accanto a lei, e cercò con la mano, senza alzarsi, l'interruttore della luce appena sopra di lei, tastando il muro nel buio.
Quando la finestra sussultò la ragazza si ritrasse ancora di più nell'ombra, afferrando di nuovo la torcia e stringendola in grembo. La finestra subì un'altro colpo, più violento del precedente. Beatrice escluse che avesse potuto sentirla: li separavano tre centimetri di acciaio, e comunque lei non si era mossa. Ma quello continuava a sferzare il metallo con sempre maggior violenza, e aveva cominciato ad incrinarlo. Gli occhi ambrati della ragazza scivolarono nel buio verso il letto. ci si sarebbe potuta nascondere sotto. Oppure sarebbe potuta uscire di soppiatto dalla stanza, ben attenta a non far rumore, e raggiungere il ripostiglio delle scope, dove il padre due anni prima aveva riposto un fucile a pompa, poco pratico ma letale, e le aveva detto di usarlo per le emergenze, solo per quelle.
Così Beatrice analizzò le varie alterative alla propria morte certa e scoprì di averne diverse in grado di darle almeno qualche possibilità in più di non crepare.
Invece non si mosse, rimase a guardare incantata l'acciaio piegarsi e sformarsi sotto i colpi violenti.
Cinque anni prima il mondo era cambiato drasticamente, e lei e tutti gli altri non avevano potuto far altro che accettarlo, e abituarsi. Due anni prima lei era rimasta sola. Ora aveva la voce arrochita dal silenzio, perché non c'era più nessuno con cui parlare.
E quando arrivò un altro colpo possente e si sentì l'acciaio schioccare si rese conto che poteva andare bene anche così. Aveva resistito, era stata in grado di abituarsi a vedere il mondo cambiare e diventare muto, si era abituata a sopravvivere e aveva accettato la realtà in cui viveva come una disgrazia ma anche come la sua vita, aveva deciso che avrebbe protetto quello che considerava importante e che avrebbe continuato a vivere, perché la vita era diventata una cosa di valore.
Ma adesso era rannicchiata nel buio come uno scarafaggio e si accorse che non le importava. Che le avevano portato via tutto e che se volevano potevano prendersi anche quello.
La finestra non avrebbe retto ancora per molto. Se volevano entrare, che fosse. se volevano entrare, potevano farlo. Sarebbe morta, e le andava bene, ma decise che
li avrebbe lo stesso bruciati con la torcia, quegli stronzi.
L'acciaio si incrinò irreparabilmente, un altro colpo ancora e poi sarebbe tutto finito, ma dall'ingresso esplose un boato e la casa si illuminò a giorno.
Beatrice sobbalzò e la investì un calore insopportabile e l'odore del fuoco che brucia. Sentì delle voci arrivare dall'atrio, voci umane. Dopo un istante di sgomento cercò di raggiungerle, ma la finestra cedette e quello che una volta era un uomo riuscì ad entrare nella sua casa, si eresse in piedi e la fissò con i suoi occhi neri e affamati. La ragazza si rese conto in un solo istante, con una lucida consapevolezza, che non poteva scappare. Abbandonò le braccia lungo i fianchi, mentre la creatura allungava una mano glabra e diafana verso di lei.
Un lampo, un colpo, il rumore di uno sparo, e poi lei volava, sospesa nell'aria, e poi di nuovo a terra ma molto più in là di prima. C'era qualcosa che la bloccava,
che le impediva di muoversi. Sembravano braccia.
L'avevano presa, l'avrebbero uccisa, ed improvvisamente non andava più bene, improvvisamente sopravvivere era tornato ad essere una cosa importante. Urlò, cercò di liberarsi, ma la presa attorno a lei si fece d'acciaio e una mano le scivolò sulla bocca. Beatrice si paralizzò: un comportamento troppo complesso per essere uno di loro.
Poi sentì una voce, la prima dopo troppo tempo, la prima davvero reale, che non fosse delle sue allucinazioni, bella e calda, limpida, umana.
"Fai silenzio. Va tutto bene"
 
Anna ricaricò in fretta, perché sapeva che ne sarebbero venuti parecchi altri, ma la finestra sfondata poteva essere un problema serio. Sfilò una bomba fumogena dalla cintura e la lanciò nel vuoto. Istantaneamente la stanza si riempì del disgustoso odore dell'aglio. Almeno così potevano stare tranquilli per un paio di minuti. Cercò i compagni nell'ombra e fece loro rapidi cenni. Quelli eseguirono, dividendosi. Lei si diresse di nuovo verso l'atrio, dove avevano fatto saltare la porta blindata, ed imbracciò il fucile.
Dodici, forse quindici infetti avanzavano come fulmini verso di loro. Anna si mise sulla soglia della porta e premette il grilletto, osservandoli stramazzare al suolo.
L'ultimo di loro arrivò pericolosamente vicino, ma cadde a terra come tutti gli altri. Ma già ne arrivavano di nuovi, e bisognava sbrigarsi perché tutto quel chiasso ne avrebbe attirati ancora di più. Poi gli altri due membri della squadra le scivolarono accanto e insieme lasciarono la postazione per dirigersi al furgone blindato.
Non era più importante non farsi vedere. Quello che avevano potuto fare lo avevano fatto. Impiegarono pochi secondi per arrivare al mezzo, e quando fu a pochi centimetri dalla portiera Anna sfilò un altro fumogeno all’aglio contro l’orda di creature che li stavano inseguendo. Sentì dei colpi di mitragliatrice affianco a lei e vide con la coda dell’occhio che li stavano circondando. Dovevano andarsene.
“Dove sono gli altri?!” gridò nel buio, senza vedere i compagni.
Ma nel caos degli spari nessuno le rispose.
Poi qualcosa le scivolò di fianco. Fulminea Anna puntò la pistola, ma una mano più veloce della sua afferrò l’arma e la scansò, lasciando intravedere nel buio degli occhi smeraldi dal taglio affilato.
“Con quella rischi ancora di farmi male, sai?”
I muscoli della ragazza si rilassarono. Allora notò che il compagno portava qualcuno in spalla. Una ragazza dall’aria smarrita, totalmente immobile. Non fecero in tempo a scambiare una parola di più. Una delle creature superò il muro di proiettili e li raggiunse. Anna venne morsa al braccio, riafferrò la pistola e sparò alla testa del nemico. Dall’altro lato del furgone esplose l’ennesimo fumogeno all’aglio. Il compagno dagli occhi smeraldi si coprì il viso, infastidito.
“Andate via, me la sbrigo io”
Anna obbedì immediatamente, senza discutere, e diede l’ordine di salire sul mezzo. Prese posto sul sedile del passeggero, ed ascoltò immobile il rombo del motore e i ruggiti delle creature che si scagliavano nel vuoto nel tentativo di fermarli.
 
C’era un odore pungente di sangue secco e terra. Erano in molti, non ci mise tanto a capire che erano in toppi. Quella città era loro.
Le luci della macchina furono presto lontane, ma nel buio così fitto erano ancora ben visibili. Ma lui era lì per questo, per evitare che li seguissero. Cominciò a correre nella direzione opposta, cercando di fare più rumore possibile, rovesciando tutto quello che gli capitava a tiro. In meno di dieci secondi lo circondarono, bloccandogli ogni via d’uscita.
Inarcò un sopracciglio: un comportamento complesso, insolito per loro.
Ma non importava. Non gli servivano uscite.
Rimanevano immobili a guardarlo, come se aspettassero qualcosa, poi uno di loro balzò in avanti e gli fu addosso.
Bastò scostarsi appena, scivolare di lato, la sua mano si chiuse sul collo della creatura e ne accompagnò il movimento, scaraventandolo via. Poi, in un soffio di vento, gli furono tutti addosso.
La mano libera andò alla cintura ed estrasse un fumogeno. Lo lanciò in aria, poi le braccia tornarono raccolte accanto al corpo. Colpì alla gola quello immediatamente davanti a sé, lo scavalcò e scivolò tra gli altri come un ombra, sfuggendo ai loro attacchi, sfiorandoli appena. Nell’istante in cui fu sufficientemente lontano, il fumogeno toccò terra, e l’odore di sangue e terra venne scansato da quello pungente dell’aglio.
La ragazza continuava a stringersi a lui saldamente, ma non sarebbe andato troppo lontano con quel carico così prezioso, così delicato.
Svoltò a sinistra, cercando di recuperare il furgone corazzato dei compagni, e passò le mani attorno alle gambe della ragazza per sorreggerla. Corse più veloce che poteva, ma non riusciva a seminarli. Dovevano essere così affamati che nemmeno l’aglio li aveva fermati.
“Devi fare una cosa, te la senti?” domandò alla sconosciuta. Lei annuì contro la sua schiena.
“C’è una pistola nella fondina a sinistra, sulla cintura. Prendila e spara”
Lei scosse la testa.
“Non ti preoccupare” cercò di rassicurarla lui. Aveva già il fiato corto. “Sono talmente tanti che almeno uno lo prendi”
Dopo un lungo istante di esitazione la ragazza eseguì. Si levò il suono del suo sparo, una, due, tre volte, e caddero dei corpi, e gli altri li scavalcarono.
 
Beatrice eseguiva l’ordine che le era stato impartito senza rendersene davvero conto. In una sorta di trance sentiva il rumore attutito dei corpi che cadevano, orribilmente vicini. Troppo vicini. Aveva la vista appannata, cercò di mettere a fuoco. Riuscì a distinguerli appena mentre si muovevano veloci nel buio. Uno di loro le arrivò ad un soffio dal braccio e la graffiò. Sembrò come se tanti spilli le pungessero la pelle, il dolore si diffuse ed arrivò fino alla punta delle dita. Allora si rese conto che non avrebbero resistito a lungo, che tra poco li avrebbero presi. Ma anche il tempo della disperazione era finito da tanto, e così provò solo una rabbia prepotente. Era arrabbiata per non essersi portata il fucile, arrabbiata per il dolore al braccio, arrabbiata per l’orrore di Cripping e tutto il male che aveva portato, ma soprattutto arrabbiata perché le avevano rovinato l’unico cazzo di vestito buono che aveva, e adesso le toccava crepare con la maglietta sgualcita e macchiata di sangue. Era così arrabbiata che prese la mira con cura e aspettò finché non fu assolutamente sicura di centrare il bersaglio. Sparò a quello che l’aveva morsa, e lo mancò. Beatrice bestemmiò Dio, poi tirò la pistola in testa all’infetto e questa volta lo prese. Si lasciò sfuggire un sorriso di soddisfazione, poi cominciò a piangere in silenzio.
 
Erano quasi arrivati, sentiva lontano il rumore del furgone che correva sulla strada. Poi altri due infetti gli tagliarono la strada e gli si scagliarono contro. Cercò di scartarli ma portava un fardello troppo pesante e non ci riuscì. Lo colpirono in pieno e cadde a terra. Sentì la ragazza perdere la presa e cadere più in là. Non sarebbe riuscita a salvarla.
Di nuovo l’aria si impregnò dell’odore dell’aglio, e le creature si ritrassero un istante prima di ucciderli. Il fumogeno era caduto proprio a fianco della ragazza, che stava inerme a terra, forse svenuta o forse rassegnata. La voce di uno dei suoi compagni gli giunse dall’ombra dietro di lui.
“Giù la testa!”
Obbedì. Una scarica di proiettili illuminò l’asfalto a giorno, e i volti sfigurati degli infetti, tirati come teschi. Alcuni caddero, ma nessuno si mosse. Avevano fame. Dovevano mangiare. Avrebbero mangiato.
Afferrò la ragazza e se la rimise in spalla, un peso morto che gravava inerte sulle sue spalle. Riprese a correre, cercando di ignorare l’odore disgustoso della bomba fumogena. Lasciò indietro il compagno.
Così avrebbero mangiato.
I lampi della mitragliatrice si fecero sempre più lontani, e alla fine si spensero. Impugnò un’altra granata e la fece esplodere dietro di sé. Vide i fari del furgone guizzare davanti a lui. Corse più che poteva. C’era quasi. Ma quelli già tornavano, perché il cibo non era bastato, non li aveva saziati. E ora che avevano assaggiato ne volevano ancora. Ma ormai era arrivato.
Uno degli infetti li raggiunse, morse la ragazza al collo e lei gridò di dolore, ma riuscì a dimenarsi e ricacciarlo indietro.
Saltò, in alto, nonostante gli bruciassero i muscoli delle gambe, sul tetto di un garage, e poi su un altro. A frotte lo seguirono. Erano sempre di più.
Ma ormai era arrivato.
Ripose tutte le sue energie nell’ultimo salto. Uno di loro gli graffiò appena una gamba, un istante prima dello stacco, poi lui atterrò sul furgone.
Anna sentì il tonfo sul metallo e capì che era il suo compagno. Premette l’interruttore installato al posto della radio ed azionò i fari all’ultravioletto in cima al furgone blindato. Inondando la strada di luce nera.
Il ragazzo dagli occhi smeraldi fece scattare la maniglia del portellone posteriore e si infilò nella vettura, richiudendo immediatamente. Li sentì gridare di dolore mentre la luce li feriva, li uccideva. Rimase ad ascoltarli. Poi depositò il suo carico prezioso, la fece sdraiare a terra, mentre Anna gli chiedeva dove fossero gli altri due compagni che erano rimasti fuori.
Ma lui non rispose. Li stava ascoltando morire.
“Avevano fame. Dovevano mangiare”

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


i am legend 2 I tentativi dello scarafaggio:
Beatrice aprì gli occhi lentamente e rimase ad ascoltare il silenzio. Era giorno.
Si alzò dal materasso sudicio ed incavato e si guardò attorno. Non passava nemmeno uno spiraglio di luce tra le porte del furgone, ma c’era silenzio, e allora era certa che fosse giorno. Il veicolo era immobile, con il motore spento. Vicino a lei c’era qualcuno che respirava pesantemente.
La ragazza si mise a sedere ed incrociò le gambe, cercando di abituare gli occhi al buio, invano.
Gli eventi di quella notte sembravano non essere stati suggellati dallo scorrere del tempo, come se potessero sparire, come se il mondo se li potesse riprendere. Ma c’era una persona che respirava pesantemente di fianco a lei, e quindi il mondo non si era ancora ripreso nulla.
Guardò il buio. Rievocò la sua corsa sfrenata nella città. La prima voce che fosse umana dopo due anni di silenzio. Beatrice si era dimenticata di come si parla, Beatrice si era dimenticata che viso potesse avere una persona.
Dopo alcuni minuti, o forse dopo un’ora, il sedile del passeggero ebbe uno scossone e la persona che lo occupava prese ad armeggiare con dei tasti, da qualche parte. Poi il furgone sibilò e fu inondato di luce.
“Sveglia, siamo in ritardo con le tabelle di marcia”
La persona al fianco di Beatrice sbadigliò con un rumore indecente.
“Allora metti in moto. Mica ti serve tutta la squadra no?”
“Datti da fare e prendi la colazione” intervenne un’altra voce impastata dal sonno, dal sedile del guidatore.
Il furgone si mise in moto rombando furioso. E mentre l’uomo accanto Beatrice si muoveva verso degli scatoloni in coda alla vettura la ragazza sul sedile del passeggero si voltò verso di lei.
Era bella, con i capelli lunghi e biondi, gli occhi celesti, la pelle chiara e il viso gentile, magro, perfetto.
“Stai bene?”
La sua voce vibrò nel furgone armonica, ma aveva un timbro basso, deciso.
Attese la risposta di Beatrice, ma la ragazza non riusciva a trovare nulla da dire. Così le porse la mano.
“Io sono Anna”
Quel gesto era famigliare. Si rese conto che sapeva cosa rispondere.
“Io sono Beatrice”
Anna le sorrise, maledettamente bella. “Piacere”
Beatrice sorrise a sua volta, come un automatismo.
“Ora sei tra amici, non ti devi preoccupare più” continuò Anna. La ragazza dagli occhi ambrati però rimaneva in silenzio, come se non capisse esattamente cosa stesse accadendo. Così lei decise che doveva continuare a parlare.
“Quanto tempo sei rimasta sola?”
Nessuna risposta.
Anna si arrese, cambiò discorso. Sollevò un indice ed indicò l’uomo al volante. Beatrice seguì il suo gesto, e non fece affatto caso al tachimetro che segnava i 160 chilometri orari.
“Lui è Andrej, l’addetto alla guida. Ha una patente speciale per i veicoli militari, una cosa del genere”
Andrej si voltò appena. Aveva i capelli così biondi che sembravano trasparenti, e gli occhi azzurri come il ghiaccio, il naso dritto e un bel sorriso. L’indice di Anna si spostò oltre.
“Quello che sta trafficando là dietro è Baptiste, lui si occupa di cariche esplosive ed affini”
Baptiste salutò con la mano da uno degli scatoloni, completamente immerso nella ricerca della colazione. “Non crederesti mai quanta roba bisogna far saltare in aria oggigiorno, ragazzina”
Anna continuò. “Io invece sono il tiratore scelto della squadra, tutte le armi che richiedono  una certa maestria sono affidate a me. Naturalmente mi occupo anche del recupero degli arsenali che rinveniamo” Infine l’indice di Anna si spostò verso l’unico angolo in ombra della macchina. Da lì non venivano rumori.
“Lui invece è Nicholas”
Nella penombra Beatrice intravide alcune ciocche di capelli bianchi dondolare davanti ad un viso diafano. Gli occhi verdi smeraldo la osservavano senza ombra d’emozione, quasi disinteressati. Riuscì ad intravedere anche le sue labbra, livide. Erano belle. Sorrideva.
“Lui si occupa dei casi di emergenza, diciamo. Quindi come puoi vedere siamo bene attrezzati. Non devi più preoccuparti”
Beatrice non si voltò verso Anna, rimase a guardare incantata quegli occhi verdi, che rimasero impassibili anche quando lei cominciò a piangere in silenzio, e poi sempre più forte, fino a ridursi come una bambina, aggrovigliata su sé stessa nel tentativo di sentire meno male.

Baptiste le tirò la scatola di plastica con dentro la colazione. Beatrice non provò nemmeno a reagire e venne colpita sulla guancia grondante di lacrime. Anna afferrò dal cruscotto un mazzo di chiavi e lo tirò al compagno di squadra, urlando.
“Cerca di usare un po’ più di garbo con questa signorina, brutto francese puzzolente, altrimenti ti sparo ad un ginocchio, e vedi se non lo faccio davvero!” poi si rivolse di nuovo alla ragazza. “Non curarti troppo di lui, gliela faccio passare io la voglia di fare il simpatico… lo so, l’aspetto non è dei migliori” aggiunse indicando il piatto di plastica sigillato che Beatrice osservava apatica. “Ma dovresti provare a mangiare qualcosa. Tappati il naso e non pensarci, potresti scoprire di essere più affamata di quanto tu non creda”
La ragazza osservò il piatto. In effetti aveva fame, ma le mancava qualcosa, e non riusciva a ricordare. Poi la mano villosa e sporca di Baptiste le porse un cucchiaino da tè.
“Non abbiamo altro. Abbiamo fatto confusione e non ci siamo portati le posate”
“No, Anna ha fatto confusione” rispose Andrej. Ora il tachimetro segnava i 180 chilometri orari.
“Piantatela con questa storia” disse Anna. “Può capitare a tutti di sbagliarsi”
“Ma a te non capita mai, quindi fatti prendere un po’ in giro”
La ragazza sbuffò, sorridendo. Beatrice afferrò il cucchiaino che Baptiste continuava pazientemente a porgerle. Poi l’uomo cominciò a distribuire altre confezioni di plastica ai compagni. Tutti meno che a quello nascosto nell’angolo buio.
“Allora, Beatrice” esordì Andrei, un po’ esitante. “Noi costituiamo una squadra di recupero. Siamo attrezzati per viaggiare anche di notte, quindi possiamo coprire grandi distanze. Così andiamo a recuperare i sopravvissuti nelle città che possiamo raggiungere nel giro di un paio di giorni. Missioni di salvataggio”
“Era da un po’ che giravamo per la tua città, veramente” proseguì Anna. “Appena ti abbiamo trovata però abbiamo pensato che fosse il caso di andare. Dopo tutto quel putiferio”
Baptiste, da dietro il furgone, scoppiò a ridere. Si era seduto con una certa pesantezza vicino a Nicholas, che però non si era mosso di un millimetro, gli occhi smeraldi che galleggiavano nel buio.
“Abbiamo fatto” disse il francese tra le risate. “Davvero un casino”
il suo accento non era pesante. Doveva essere da tanto che conviveva con gente d’altra nazionalità.
Beatrice si decise in fine di aprire il coperchio della sua poco invitante colazione. Sembravano fiocchi di latte, disgustosamente compatti e biancastri. Decise di non farci caso: affondò il cucchiaino e mise in bocca. Schifoso, ma niente in confronto all’odore che era acido nella gola, quello dei cadaveri sulla strada a mezzogiorno.
“do…” ingoiò. “Dove andiamo?”
Anna la osservò per qualche istante. “Sei la prima che non diventa verde, dopo aver ingurgitato quella porcheria. Andiamo nell’ultima cittadina fortificata del genere umano, a due giorni di viaggio da qui”
Beatrice mise in bocca un’altra cucchiaiata.
“Non esistono città degli uomini”
“Beh” si intromise Andrej “No, se intendi nel senso stretto del termine –città-. Era una vecchia base militare, con le mura di cemento armato pressoché indistruttibili, altre più di 15 metri. Quei cosi non saltano così in alto. Non sappiamo esattamente a cosa servisse, ma serve perfettamente allo scopo attuale. Quelli che la scoprirono trovarono al suo interno un impianto di trasmissione satellitare, e una piccola radio a onde corte. Hanno cominciato a chiamare. Oggi siamo centoventisei sopravvissuti”
La ragazza dagli occhi d’ambra rimase in ascolto. Il suo cuore avrebbe dovuto fare un guizzo di gioia. Non era sola, qualcuno era sopravvissuto. Rimase in ascolto, ma niente, e così si limitò ad infilarsi in bocca un’altra cucchiaiata di quel rancio disgustoso, nella più totale indifferenza.
Beatrice si riavviò i capelli, e nel riportarli dietro l’orecchio sfiorò qualcosa di ruvido e umido.
“Non toccarti le bende, ragazzina” le disse Baptiste. “Hai le mani sporche. Anche se ci abbiamo messo tanto di quel disinfettante che ti potrebbe guarire l’appendicite, non è una buona idea farci entrare i microbi”
Aveva il collo fasciato, e dopo alcuni istanti si ricordò perché: quei mostri l’avevano morsa.
“Non mi fa male”
“Se ti ho detto che ci abbiamo messo una boccetta intera di disinfettante, che dolore dovresti sentire ancora?”
“Non me ne sono nemmeno accorta”
“Sono… un uomo delicato”
“Ma sta zitto, Baptiste! Tu sei un macellaio, da te non mi farei mettere nemmeno un cerotto!” Anna si girò a guardarli dal sedile del passeggero. “Ti ho bendata io, figurati se ti facevo toccare da uno che ha le mani sozze di terra…”
“Ok, ok, prendevo solo un po’ in giro la nostra nuova arrivata! Per mettere un po’ di buonumore!”
“Se ti prude, se ti dà fastidio” riprese Anna. “Ti posso mettere altro antisettico. Purtroppo non abbiamo molto altro”
“Non mi avete ucciso”
Le ruote del furgone blindato ebbero un lieve sussulto mentre scavalcavano una buca nell’asfalto, i feticci appesi allo specchietto retrovisore tintinnarono contro il vetro e rimasero a ciondolare sospesi nell’aria.
“E perché avremmo dovuto?” chiese Anna.
“Mi hanno morsa”
Baptiste fece frullare le labbra in una specie di pernacchia spazientita. “Ehi, non è così drastica la cosa, sai? Abbiamo aspettato un paio d’ore. Tu sei rimasta buona buona, e allora abbiamo capito che sei immune anche al ceppo ematico”
La ragazza sollevò lo sguardo, ed indagò gli occhi, straordinariamente caramellati, di Baptiste. “Avete pensato… che potevo essere immune?”
“E’ piuttosto raro, forse per questo pensi di possedere una caratteristica unica. Tutti noi qui preseti siamo immuni ad entrambi i ceppi, e così anche la metà degli abitanti della nostra città fortificata” Rispose Andrej. “Anche a me parve strano, a suo tempo. E non solo gli uomini: i canidi, per esempio, sono immuni al ceppo aereo, e gli equini ad entrambi. Felini ed uccelli invece non sono adatti ad ospitare il virus, e quindi quando lo contraggono muoiono e basta, non subiscono mutazioni. Nessuno sa perché, ma è una bella notizia no?”
“Ma ci sono certo numerosi casi anomali. A noi è capitato un cavallo, una volta, che ha subito persino la trasformazione” si intromise Baptiste. Forse perché stava mangiando, il suo accento si fece più marcato.
La vettura doveva aver curvato, ma Beatrice non ci aveva fatto caso. Ci rifletté solo quando la luce cambiò direzione e le ferì gli occhi. Si spostò.
“Chiudi il finestrino”
La voce che giunse dall’angolo non più in ombra del furgone, dove stava Nicholas, Beatrice la riconobbe come quella che le aveva sussurrato all’orecchio. La sua prima voce umana, dopo troppo tempo.
Andrej borbottò qualcosa in russo e fece cenno ad Anna di girare la manovella per alzare il vetro.
Il fascio di luce che aveva colpito Nicholas fu sufficiente a lasciar intravedere il suo viso: così bianco da sembrare trasparente, e le labbra livide che non sorridevano più. I capelli d’argento gli dondolavano sugli occhi come braccia morte. Con una mano cercava di proteggersi il volto. Dove prima lo aveva colpito la lama di luce adesso figurava una ferita, un segno di bruciatura.
Beatrice sentì le dita diventare rigide e perdere la presa sul cucchiaio. Lo sentì cadere in terra, un tintinnio di plastica.
La pelle bianca, la mancanza d’appetito, l’esagerata reazione agli ultravioletti.
Era uno di loro.
Uno degli abomini di Cripping.
Ma come poteva essere? Era senziente, e parlava. Lo tenevano lì con loro come se niente fosse. L’aveva protetta.
Lasciò cadere a terra il piatto della colazione, ormai vuoto, e si rannicchiò istintivamente nel punto più luminoso del furgone.
Eppure quei mostri non avevano capelli, e i loro occhi erano inespressivi. Invece i suoi erano penetranti come lame di coltello.
E così, anche se si rendeva conto che non poteva essere uno di loro, Beatrice urlò di terrore, e cercò di fuggire, ma non c’erano vie di fuga. E tutto prese a girare.
Anna si slacciò al cintura. “Va tutto bene, calmati!” passò dietro, nel vano del furgone, cercando di calmarla. “Non devi avere paura!”
Ma Beatrice lo sentiva schizzare nelle vene, quell’istinto che ormai, dopo cinque anni, si era impossessato di lei. Fuggire, salvarsi. Preservare la propria esistenza. Gridò con quanto fiato aveva in gola, fino a farsi male. Anna l’afferrò.
In quel momento Beatrice si sentì in trappola. Non poteva scappare. Uno scarafaggio. Uno scarafaggio che sa di dover morire. Il suo corpo si irrigidì, trattenne il fiato. Sentiva le mani di Anna sulle sue braccia che la imprigionavano.
Poi, altre mani, più fredde, gelide, si accostarono al suo viso. E quella voce che l’aveva salvata.
“Va tutto bene. Non ti faccio del male”
Beatrice rimase immobile. Aspettava qualcosa. Aspettava di vivere, o di morire, non lo sapeva. Ma in quel furgone non si muoveva nulla, tranne i feticci dello specchietto retrovisore che tintinnavano appena colpendosi tra di loro.
Quante lacrime aveva pianto? Quanto erano lontane le risate della gente, i clacson delle macchine, il rumore di passi sul marciapiede? È possibile contare i raggi di luce? Vale la pena di vivere per poter percepire ancora quel senso di bello e meraviglia? Un paesaggio, una canzone, il cielo di notte con tutte quelle stelle, può valere la pena d’essere scarafaggi per poter guardare il cielo di notte con tutte le stelle come aghi di luce nel vuoto? Piangere di gioia, o per la bellezza, valeva la pena vendere la propria dignità alla sopravvivenza?
Quelle mani erano gelate, ma la voce era limpida e senza brutture.
Beatrice sentì le gambe cedere, e il suo corpo prese a tremare incontrollabilmente. Nicholas si chinò su di lei.
“Guardami. Non ti faccio del male. Non ti sto facendo del male. Avanti, guardami”
Solo qualche ora prima aveva deciso di morire, e ora era pronta a lottare per sopravvivere. Ma come poteva lottare? Non poteva fare nulla contro quella presa invincibile e ghiacciata come la pelle di un cadavere. Non voleva morire.
“Avanti, guardami”
Era un voce così bella, così dolce.
Come poteva una di quelle creature possedere una voce così armoniosa? Come poteva un uomo che possedeva una voce così armoniosa essere in grado di uccidere?
E così Beatrice cercò di ritrovare sé stessa e con uno sforzo titanico si costrinse a fare ciò che la voce le aveva ordinato. Lo guardò.
Lì, di fronte a lei, non c’era un mostro. Non c’era un corpo divorato dal morbo. C’erano solo quegli occhi verdi profondi come l’universo. Tutto il terrore scomparve all’improvviso.
Non la stava aggredendo. Non le aveva fatto del male. L’aveva protetta, l’aveva salvata. E quello sguardo, e la sua espressione, e il modo in cui le teneva il viso tra le mani. Non c’era nulla di cui aver paura.
Nicholas continuò a guardarla ancora qualche istante, poi allentò la presa e lasciò scivolare le mani lungo le braccia della ragazza.
“Va meglio?” le chiese.
Beatrice annuì lentamente.
“Bene”
Concludendo così il discorso si allontanò da lei e tornò di nuovo nel suo angolo in ombra, passando appena le dita sulla larga ferita che gli si era aperta nel braccio quando era entrato nel fascio di luce per stringere Beatrice.
Anna provò a sfiorare la ragazza.
“Vuoi che ci fermiamo un attimo? Possiamo scendere per prendere un po’ d’aria”
Beatrice annuì di nuovo, sempre senza staccare gli occhi da Nicholas, che si era seduto nella posizione di prima e che rimaneva perfettamente immobile nel buio a ricambiare il suo sguardo.

Quando le porte del furgone si aprirono sembrò che tutta la luce del mondo si riversasse nella vettura e li investisse. Nicholas si era avvolto dentro una coperta scura e rimaneva impassibile nel suo angolo, Anna aveva imbracciato un fucile d’assalto sgangherato e si era appostata sulla porta. Controllò che non ci fossero pericoli all’esterno, poi diede il permesso di scendere. Andrej prese Beatrice per un braccio, con gentilezza, e la condusse sotto i raggi del sole.
Tirava un vento leggero che le scompigliò i capelli castani, e c’era odore di resina. Stavano percorrendo una strada stretta affiancata da file di alberi, forse dei pini. Di fronte a loro, a pochi metri, sorgeva una piccola casa diroccata, solitaria tra l’erba alta, con le finestre inchiodate con assi di legno marcio mezzo sfondate, la porta era stata scardinata e ridotta a pezzi. Sul muro in mattoni anneriti c’era una scritta rossa schiarita dal sole e dal tempo:
Quarantena.
Beatrice fece un respiro profondo, cercando di assaporare quell’odore così particolare e di fissarlo nella memoria. Il cielo era chiaro e azzurro, senza nuvole. Erano i primi giorni di primavera, e il sole era tiepido sulla sua  pelle.
Andrej le si avvicinò di nuovo, con le mani dietro la schiena; era piuttosto alto.
“Mi dispiace per quello che è successo nel furgone” le disse. “Forse avremmo dovuto spiegartelo prima… comunque non hai nulla da temere da lui”
Beatrice alzò lo sguardo verso Andrej.
“Lo so”

Risalirono sul furgone dopo una ventina di minuti. Anche se erano in pieno giorno non era saggio sostare troppo a lungo in una zona circondata da alberi.
Appena richiusero tutte le portiere Nicholas si tolse la coperta e la lanciò attraverso il furgone con aria infastidita. Baptiste sbuffò.
“Ti gira male, Nick?”
“No”
Il francese rise. “Come vuoi tu”
Beatrice raccolse la coperta che Nicholas aveva tirato a terra. Si sedette vicino a lui, senza chiedergli il permesso, e se la poggiò sulle gambe.
“Scusa per prima” gli disse, dopo un po’.
“Di cosa?”
“Non volevo offenderti” la voce della ragazza aveva cominciato a schiarirsi, dopo anni di raucedine dovuta al silenzio.
“Non mi hai offeso”
“Sei stato tu a proteggermi ieri notte”
Nicholas la guardò inarcando le sopracciglia. Non capiva cosa volesse esattamente da lui quella ragazza.
“Sì”
“Grazie”
“Dovere”
Beatrice lo esaminò con maggiore attenzione. Nonostante stesse seduto non sembrava essere molto alto, e non dimostrava che una ventina d’anni. Aveva una camicia un po’ troppo grande per lui, bianca e sporca, con la manica destra scurita da una grande chiazza di sangue rappreso. I jeans invece erano della taglia giusta, ma anche questi erano piuttosto sporchi e macchiati di sangue e terra. Infine Beatrice fece un piccolo sorriso quando si accorse che portava un paio di all star nere distrutte dall’usura e ingrigite dalla polvere. I lacci avevano preso uno strano colore giallastro.
“Posso restare qui?”
“Come vuoi”








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Buonasera a tutti! Sarà per via della sezione piuttosto trascurata o della mancanza d’interesse da parte dei lettori, questa storia non viene letta molto e non riceve recensioni, quindi avevo perso un po’ la voglia di scriverla, nonostante a me piacesse molto. Poi, ieri mi sono accorta che era stata inserita da qualcuno tra i preferiti e ho fatto un salto di gioia! Allora a qualcuno è piaciuta! Così mi sono rimessa a scrivere e ho finito subito il secondo capitolo. Mi piace come sta venendo su la storia, e Beatrice è un bel personaggio, anche se per ora è rimasta per la maggior parte del tempo in una specie di stato catatonico. Beh, come biasimarla? Poveraccia! Comunque, continuate a leggere e commentate, mi raccomando! Arrivederci! (proverò a postare il terzo capitolo entro un paio di settimane)

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