Blue Lake: la vera storia del lago dei cigni

di Val Nas
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'equinozio di primavera ***
Capitolo 2: *** Il Mago ***



Capitolo 1
*** L'equinozio di primavera ***


Beatrice Silverstone continuava a leggere insistentemente la stessa riga.
Per quanto provasse a memorizzare la seconda legge di Newton, non c’era verso: lei e la Fisica proprio non si sopportavano.
«La seconda legge di Newton afferma che il prodotto della massa per la forza è pari a…».
Fece sventolare in aria la matita che teneva tra indice e pollice, come un direttore d’orchestra in preda a un eccesso d’ira.
«No, è il quoziente della massa sull’accelerazione che dà…Al diavolo».
Bea sollevò il pesante tomo di Meccanica e se lo portò sotto il naso.
«Cavolo».
Si colpì la fronte con la matita, poi si accasciò sulla scrivania con la testa seppellita tra le braccia.
Si sentiva depressa e sfortunata.
Mentre tutti i suoi amici erano alla festa dell’Equinozio di Primavera, organizzato dalla quieta cittadina di Blue Lake per festeggiare l’arrivo della mite stagione dei fiori; lei era costretta a casa a studiare per colpa dei suoi genitori.
Che fregatura.
Aveva già la più alta media di tutta la classe, persino in Fisica eccelleva nonostante l’odio per quella materia, quindi cosa potevano pretendere ancora da lei?
C’era sotto dell’altro e Bea lo sapeva benissimo.
I suoi genitori stavano facendo di tutto per tenerla alla larga dai suoi amici. Avevano ripetuto fino a farle sanguinare le orecchie che non gradivano che Bea li frequentasse, che le stavano rovinando la reputazione e che di quel passo, stando dietro alle loro bravate, si sarebbe giocata l’ammissione al college.
Si sforzò di non pensare alla festa e ai suoi amici che si dimenavano a ritmo di musica house ingerendo generose dosi di Vodka Lemon, ma le era impossibile: l’invidia la stava divorando viva.
Voleva volteggiare tra i banchetti degli ambulanti stipati a riva, immergere i piedi nelle acque viscide del lago che tanto amava e che l’aveva vista crescere, sedere attorno ai falò che palpitavano sulle rive, dove i suoi compagni si sarebbero riuniti per tirare l’alba, tra un racconto dell’orrore e baci rubati.
E mentre tutta questa magia andava in scena, lei era a casa, a indossare un pigiama rosa con le stelline bianche, un mollettone di plastica tra i capelli e calzini che le stavano larghi alle caviglie.
Mi faccio pena.
Con un ultimo slancio di dignità, si sollevò dalla scrivania, riacquistando una postura eretta.  
C’era solo un pensiero che la teneva ancora sul filo della stabilità mentale.
Patrick, il suo ragazzo, mal visto dai suoi genitori esattamente come il resto del gruppo, era rimasto a casa anche lui per solidarietà. Bea l’aveva sentito circa un’ora fa, quando l’aveva chiamata per augurarle la buona notte.
Con un gesto apatico, si aggrappò al bordo della scrivania, poi si slanciò all’indietro.
La sedia con le rotelle volò dall’altro lato della stanza, soffermandosi proprio nel varco della finestra spalancata.
L’aria era fresca, frizzante, umidiccia.
Le tende di mussola, fissate al lato delle imposte da fermagli a forma di libellula, si liberarono con uno schiocco e presero a ondeggiare come spettri biancastri nell’immobilità della stanza.
Da fuori non proveniva alcun rumore, persino i gatti che infestavano la via residenziale dove sorgeva casa Silverstone sembravano aver esaurito la loro carica ormonale e adesso tacevano.
Poco lontano, tra gli olmi del giardino, un uccello notturno emise i suoi richiami striduli.
«Forse persino gli animali sono andati alla festa» piagnucolò.
Bea fece strisciare la sedia sul pavimento marmoreo, fino a raggiungere lo stipite della finestra liscio e legnoso. Adagiò il visetto ovale e dalla pelle nivea sul palmo della mano destra e contemplò il paesaggio fuori dalla finestra. Si sentiva tanto come la principessa Raperonzolo in quel momento, rinchiusa proprio come lei in una torre, sola e triste, ignorata dal mondo.
Potrei uscire di nascosto dalla finestra, non sarebbe la prima volta.
Già.
Accadeva spesso, quasi ogni sera durante la settimana, che Bea sgattaiolasse fuori dalla finestra e saltasse nella macchina di Patrick.
La giovane coppietta, dopo essersi appartata per un po’, di solito raggiungeva il resto del gruppo: Dania, la migliore amica di Bea, Jeremy e Kyla.
Facevano diverse cose insieme e tutte comprendevano il rischio di finire alla centrale di polizia; come ad esempio scavalcare la recinzione del cimitero per andare a fare immaginare sedute spiritiche, rubare i fiori dalle tombe, cercare di catturare anatre e cigni che abitavano il lago e tanti altri piccoli atti di teppismo ingiustificato.
L’ultimo in ordine cronologico, che aveva fatto scattare l’arresto domiciliare per Bea, anche se non sussistevano prove che c’entrassero lei e la sua banda, era stato rovesciare un secchio di sverniciatore sulla macchina del professore di letteratura inglese, reo di aver fatto un’interrogazione a sorpresa.
L’enorme ippocastano che troneggiava davanti a casa Silverstone, stormì.
Il gioco delle sue fronde, mutevole e caotico, smascherò una luce ancora accesa, al secondo piano della casa dei vicini.
Bea non aveva alcun dubbio: quella luce proveniva dalla stanza di Sebastian Thorns.
Ian, come lo chiamavano tutti a scuola, era noto per la sua alta media scolastica – seconda solo a quella di Bea – per il suo talento nel disegno a mano libera e per aver frequentato un tempo Bea e il suo gruppo.
Era passato un anno e mezzo da distacco definitivo di Ian da lei e dagli altri, eppure la ferita che lui aveva lasciato in Bea, non si era ancora del tutto sanata. 
Da quella notte, quando l’ennesima bravata era finita male, niente era più stato come prima.
Stava fissando la finestra da un po’, quando qualcosa si mosse tra gli alberi.
Crack. Un rametto si spezzò e precipitò tra le fauci del giardino sottostante.
Bea si drizzò in piedi. Tutti i sensi all’erta.
L’intera città era così immobile che ogni rumore sembrava amplificato.
Era possibile un tale silenzio in una notte di festa?
All’improvviso, Bea provò inquietudine, disagio, una sensazione di oppressione al petto, come se si trovasse sotto lo sguardo di qualcosa di superiore, misterioso e indefinito.
Crack.
Il rumore si ripeté. Sembrava più vicino adesso.
Mentre quella strana sensazione di minaccia cresceva in lei, decise di chiudere la finestra, ma qualcosa la ipnotizzò, gelando ogni suo movimento.
C’erano due occhi dorati che galleggiavano nel buio, scintillanti come pepite preziose.
Il gufo più grande che Bea avesse mai visto, emerse dall’oscurità che ammantava l’albero.
Era alto più di ottanta centimetri, con un becco affilato dall’aria letale, gli occhi ambrati erano sormontati da ciuffi di piume erettili.
Bea fece un passo indietro, la schiena inumidita da una sottile patina di sudore gelato.  
È solo uno stupidissimo uccello, Bea calmati.
Arretrò, e come una stupida inciampò nelle gambe della sedia.
Finì a gambe all’aria e l’urto dell’osso sacro contro il pavimento infrangibile le fece emettere uno strillo isterico.
Il cuore martellava nel petto. Aveva paura.
Qualcosa strisciava su per l’albero, vedeva i rami vibrare e le foglie staccarsi dai piccioli, per volteggiare in aria.
La sua spiccata razionalità, le stava gridando quanto fosse stupida, ma lei non riusciva proprio a darle retta, era certa che il gufo enorme stesse per piombarle addosso.
Pietrificata da una paura del tutto irrazionale, Bea non trovava la forza per lanciarsi sulla finestra e sbarrarla, per impedire alla “cosa” di entrare in casa, soltanto le arcate dentarie si scontravano una contro l’altra in un tremolio incontrollabile.  
Eccola.
L’ombra sbucò dalla finestra e giganteggiò su di lei.
Bea chiuse gli occhi, poi gridò.
«BEA!» esclamò l’ombra mostruosa.
Una pressione carnosa s’impresse sulla sua bocca: quella di una mano sudaticcia.
«Merda, ti ha dato di volta in cervello? Ho esagerato con l’ombretto nero, d’accordo, ma faccio così paura?».
Senza fiato e sull’orlo di un colpo apoplettico, Bea aprì gli occhi lucidi di terrore, come quelli di un cerbiatto accerchiato dai lupi.
Nella penombra della stanza, illuminata solo dalla lampada da studio sulla scrivania, prese forma la figura della sua migliore amica Dania che non aveva nulla di mostruoso, fatta eccezione per il look da vampira anni novanta.
La mano di Dany la lasciò libera di respirare e dopo aver preso un lungo respiro per calmarsi, Bea esplose.
«Sei completamente idiota? Mi hai fatto prendere un colpo!».
«Vengo sempre su da te passando per la finestra, te lo ricordi? Sono circa dieci anni che lo faccio».
Con uno sguardo compassionevole, osservò il pigiama spiegazzato di Bea, la sua acconciatura trasandata e infine i libri aperti sulla scrivania.
«Ti stavi divertendo un casino, eh?».
«Stai zitta».
Dania le porse la mano e Bea la afferrò, facendosi issare in piedi da una dolce trazione.
«Mi sono spaventata, c’era una specie di uccello mostruoso sull’albero, una cosa mai vista».
«Se lo dici tu».
«Tipo un dinosauro, sarà stato alto un metro».
«Io non vedo niente».
Dany si era sporta dalla finestra e stava scrutando le fronde dell’albero. Bea la imitò.
Non c’era nulla tra i rami, nessun paio di occhi dorati, niente piume arruffate e artigli mortali.
«Ti dico che c’era».
«Io dico che hai studiato troppo».
La sua migliore amica chiuse la finestra e si voltò sorridendo.
«Studiare troppo, ti farà venire le rughe».
«Quindi è per questo che non tu non ne hai nemmeno una? Perché sei stupida?».
Dany la spinse sul letto sghignazzando.
«Connettiti con la realtà, stavi solo sognando».
Bea atterrò sul morbido materasso e si lasciò cadere pesantemente all’indietro, stirando le braccia sopra la testa.
Sì, probabilmente Dany aveva ragione.
Chissà che cosa ho visto. Ero così frustrata, che devo aver scambiato un normalissimo gufo per un mostro.
Con un movimento repentino, Bea si puntello sul materasso con i gomiti, sollevandosi.
Osservò di sottecchi la sua migliore amica.  
«Se tua madre ti vede vestita così, puoi dire addio alla macchina che ti ha promesso per i tuoi diciotto anni».
Dany indossava un hot-pants nero inesistente e il piercing all’ombelico risaltava sulla pancia piatta e candida, lasciata scoperta da un top corto. Si era arricciata i capelli biondo rame e il trucco nero sulle palpebre la faceva apparire smunta e allo stesso tempo più misteriosa.
«Non fare la bacchettona. Sei solo invidiosa perché te ne sei stata rinchiusa qua dentro tutta la sera, mentre il resto della città si dava alla pazza gioia».
«Ah grazie tante, sei un’amica, davvero».
Bea si ributtò supina sul materasso. Il malumore per essere stata costretta a restare a casa, tornò a montarle dentro. Dopo un momento, Dany lanciò le sue zeppe vertiginose in un angolo e si stese al suo fianco.
«Se la serata era così divertente, perché sei andata via così presto?» la punzecchiò Bea.
«Senza di te, non era poi così divertente».
Le due amiche si presero il mignolo, un gesto complice e unico, come la loro amicizia.
«Patrick era alla festa».
Bea incassò il colpo con classe. Era abituata ai modi diretti di Dany, com’era abituata alle bugie di Patrick.
Forse aveva sperato, almeno per quella sera, che lui fosse sincero, che nel dirle che sarebbe rimasto a casa non stesse mentendo, ma aveva di nuovo clamorosamente sbagliato metro di giudizio: lei si era fidata e lui l’aveva presa in giro.  
La stretta del mignolo di Dany attorcigliato al suo si fece più intensa e lei si poggiò con la testa sulla sua spalla.
Si sentiva stupida, una sciocca credulona.
Bea accarezzò l’idea di chiamarlo immediatamente e di fargli una scenata, invece non si mosse.
Avrebbe aspettato domani, a scuola, e poi gli avrebbe fatto una scenata talmente epica che Patrick si sarebbe rifugiato in un bunker nucleare per sopravvivere.
«Ci pensi mai a come sarebbe stato se fossimo rimasti tutti quanti insieme?».
Bea trasalì e riemerse dal suo fiume rancoroso.
«Che cosa?».
Dany le diede un calcetto alla caviglia e indicò con un gesto del mento la finestra.
Certo che ci pensava, anche quando si sforzava di ignorare la presenza costante di Ian dall’altra parte del giardino.
Si girò su un fianco, riducendo la voce a un sussurro. La rabbia verso Patrick era evaporata all’istante.
«No, non ci penso mai» mentì.
Anche Dany si voltò su un fianco e finse di non accorgersi della bugia che trasudava dalle parole di Bea.
«Io, te, Patrick, Kyla, Ian e Ozzie…Eravamo proprio forti».
«Lo siamo stati, prima».
«Lo so, prima».
«Adesso è cambiato tutto, non possiamo farci niente» tagliò corto Bea. «Non parliamone più» aggiunse.
La investì una grande stanchezza e chiuse gli occhi.
Si rannicchiò contro la sua amica e scivolò in un sonno leggero, turbato da occhi gialli che danzavano nel buio, come pepite stregate. 

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Capitolo 2
*** Il Mago ***


IL MAGO

Il rapace notturno scivolava sulle armoniche curvature della notte.
Le sue ali, spiegate, catturavano le correnti ventose.
Saliva a baciare le nuvole, poi precipitava in picchiata tra gli alberi e infine nella bocca di una forra affilata sul cui fondo scorreva un fiume argenteo.
Il gufo virò, inclinandosi di lato, la sua figura nient’altro che una macchia scura dai contorni frastagliati contro la lucentezza del cielo stellato.
Un richiamo stridulo tagliò il silenzio della notte.
Un secondo gufo, ancora più grande del primo, prese la scia di quest’ultimo.
Dopo un breve volo, i due rapaci si gettarono in picchiata in un bosco secolare, che risaliva dalle sponde del lago fino a penetrare in una pianura paludosa e infestata dalle zanzare.
Il secondo gufo spiegò gli artigli micidiali, volando rasoterra.
Un movimento tra il fogliame, laggiù in un cespuglio di more selvatiche: la preda si era appena tradita.
Gli artigli dilaniarono la preda e quando il gufo la gettò al suolo per cibarsene, la piccola lepre aveva smesso di soffrire.
Dopo essersi spartiti la cena, i due rapaci si confrontarono.
Il primo era più piccolo, con piume marroni screziate di motivi dorati, il capo si muoveva di cento gradi in entrambe le direzioni con nervosismo.
L’altro era alto quasi un metro, aveva occhi d’oro che risplendevano al buio e fissava l’altro come se la prossima portata della cena fosse proprio il suo compagno.
E fu proprio il più grande, che iniziò a mutare forma.
Crebbe a dismisura, le sue ali si appiattirono sul dorso fino a scomparire e centinaia di piume nere si staccarono dalla carne, trasformandosi in un turbine che lo avvolse completamente.
Quando le piume smisero di vorticare e si trasformarono in cenere, ne emerse una forma umana.
Un uomo, avvolto da un mantello fumoso e svolazzante come una nuvola nera, avanzò a piedi nudi nel sottobosco. Aveva il capo tondo e liscio come il guscio di un uovo, gli occhi ferini e penetranti brillavano di una luce rossa dorata e la sua bocca era serrata in una frastagliata linea livida.
Il bosco, dapprima un’esplosione di suoni e vitalità, si zittì all’istante.
Gli alberi smisero di stormire, gli insetti di zampettare tra le radici degli alberi, gli uccelli si nascosero nei loro nidi, i colli ripiegati sotto le ali.
Il mago Roth si chinò con un braccio steso in avanti, invitando l’altro gufo a montargli sulla spalla.
Quello esitò, poi rovesciò la testolina all’indietro, lamentandosi.  
«Sssh, figlia mia».
La bocca non si aprì per liberare il suono prodotto dalle corde vocali, eppure aveva parlato, tutto il bosco l’aveva udito e aveva provato un atavico terrore, quello suscitato da un antico male appena risorto.
Dopo un momento di esitazione, il gufo salì sul braccio del mago e svolazzò fino alla spalla, dove si accucciò, intimorito.
«L’hai trovata?» gli domandò con voce gelida, densa come sangue caldo.
Prima che il gufo percepisse la minaccia, il mago lo afferrò per le zampe e strinse forte.
A niente servirono le beccate sul dorso della sua mano, perché la pelle di Roth era nebbia impalpabile e fredda, inafferrabile come il vento.
«Non ne sei sicura, dici?».
 Scagliò violentemente l’animale al suolo e al suo posto apparve una ragazza nuda e tramante.
«Perdonami padre, non ti deluderò più».
La creatura si prostrò ai piedi del genitore, chinando la testa.
Il mago non la degnò nemmeno di uno sguardo.
Posò la mano pallida sul suo capo, rivelando unghie artigliate come quelle dell’enorme gufo in cui poteva trasformarsi a suo piacimento.
Strinse tra le dita quella testa piccola come un melone e assentì.
«No, non lo farai».
Al suono minaccioso di quelle parole, la ragazzina tremò più forte, come una foglia scossa dai rigidi venti invernali.
Roth lasciò andare la presa e s’incamminò nel fitto della boscaglia, avanzando senza toccare terra, come una nuvola più nera della notte stessa.
«Andiamo a casa, domani sarà un grande giorno per noi».
Quando la minacciosa presenza del padre si fu allontanata, la ragazzina si issò faticosamente.
Non era ancora abbastanza forte da mutare forma a lungo, ancora non controllava la magia come suo padre.
Cercò di raddrizzarsi e alzò la testa.
Lame di luce lunare cadevano oblique nel bosco, varcando gli spazi tra le foglie.
Si trascinò dietro al padre, apparendo e scomparendo nelle pozze luminose.
Roth l’aveva sempre trattata come una nullità, utile soltanto a perseguire il suo scopo.
Un secolo dopo l’altro, nel loro infinito peregrinare per il mondo alla ricerca di loro, lui non l’aveva mai ringraziata, né trattata da pari.
Era sangue del suo sangue, eppure era come una serva ai suoi occhi, poco più di una schiava.
Mise i piedi uno davanti all’altro, sfregandosi le mani umide, annebbiata da un sentimento di rivalsa che alleviò la sua stanchezza.
Avrebbe dimostrato a suo padre che era una grande strega, persino più potente di Roth, il mago che si diceva fosse il più potente al mondo e anche il più crudele. 

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