Morituri Te Salutant

di RLandH
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** (Prologo) Post Fata Resurgo ***
Capitolo 2: *** Ante Meridiem ***
Capitolo 3: *** Post Meridiem ***
Capitolo 4: *** Fortunam criminis pudeat sui ***



Capitolo 1
*** (Prologo) Post Fata Resurgo ***


(Se volete una colonna sonora)

 





M O R I T U R I    T E    S A L U T A N T

 

 

(Prologo)

P O S T  F A T A  R E S U R G O

 

 

(850)

Li aveva scorti ben prima che fossero riconoscibili, attraverso le lenti sottili degli occhiali aveva visto delinearsi all'orizzonte tre figure in sella a cavalli. Poteva identificare in loro uomini anziché ombre ogni battito di ciglia in più, come essi svelti si avvicinavano, accompagnati dallo scalpitio dei cavalli, frenetici in una qualche maniera; erano l'unica cosa che si vedeva per miglia di verde selvatico.
Finn Lech, il soldato, li stava aspettando; per nulla tubato da quella furia che sembrava animare le bestie e forse anche gli uomini che li governavano. Poteva anche solo immaginare la frustrazione e l'impellenza che bruciava nelle oro ossa per essere stati confinati a quel insignificante lavoro, quando era altrove che il vero spettacolo del loro mondo andava in scena. Erano tutti, come, alienati lì, non lontani da Trost, fin troppo distanti dal processo al ragazzo titano. Finn non riusciva neanche a pensarla nella sua mente qualcosa del genere, a sovrapporre l'immagine di quei deformati corpi ignudi a quelli di un uomo vero, che magari poteva provare dolore … Rimorso …


S'erano riversati tutti lì, la Gendarmeria, la Guarnigione e la Legione, tutti a combattersi le spoglie di quello strano scherzo della natura. Ma non lui … E non loro.
Trost era il posto più a sud dove il naso di Finn si fosse mai ficcato, era nato in un modesto villaggio nella parte settentrionale del territorio del Muro Rose, aveva fatto l'addestramento sempre in quelle zone ed era stato in seguito assegnato al distaccamento del gruppo di ricognizione della città di Nedlay – la città fortificata a settentrione – che si affacciava con spavento sui territori persi del Muro Maria.

Faceva freddo e sembrava che anche i giganti condividessero questo pensiero. Ve ne erano, sì certamente, molti di più dopo la colonizzazione delle terre che appartenevano al genere umano, ma in confronto alle storie che aveva sentito sul distretto meridionale non sembrava così male. Nessun colossale era mai apparso lì .
Poi, nella seconda spedizioni della sua vita, Finn aveva visto l'impossibile.
“Soldato semplice Finn Lech?” aveva chiesto una voce risvegliandolo dal suo vagabondare con la mente. Aveva sollevato il viso per incrociare lo sguardo di una giovane donna, e come Finn si era chiesto, poteva non guardarla?

Riccioli biondi ad incastonare un viso di bimba, efelidi a tormentarne le gote e cosce strette su una cavalla dal manto lucido bianco. Occhi belli da lasciarlo senza fiato. Sopra la blusa bianca, spiccava la giacca del corpo militare, cucite sul petto le Ali della Libertà e sul braccio spiccava come una fiaccola nella notte la fascia con il Giglio dei guaritori: un medico.
Finn aveva annuito per un momento spaesato da quella domanda, poi ripreso la consapevolezza aveva portato un pugno al petto ed uno alla schiena per salutare i nuovi venuti, come era convezione. “Aspettavo il Comandante Smith” era riuscito solamente a miagolare, mentre osservava la giovane scendere con un movimento fluido dal suo cavallo. “Peccato, hai trovato noi” aveva commentato uno degli accompagnatori della fanciulla. Finn l'aveva cercata, anche ella era una donna dai capelli biondi e le spalle larghe, in viso attraente, ma dalla corporatura androgina. “Soldato, è con un Tenete che parli” aveva invece fatto notare l'uomo che le scortava, molto più grande di loro, con i capelli che cominciavano a mostrare macchie grigiastre di senilità ed un espressione di pura boria cucita sul viso, anche sulla sua di manica spiccava lo stemma della gilda dei medici.
“Il Comandante Erwin Smith mi ha mandato per incontrarti” aveva commentato la fanciulla placida, con un tono amichevole, quasi a voler sollevare Finn dall'imbarazzo in cui era crollato. “Sono il Tenente Nina Müller” aveva detto quella, passando prima una mano per nascondere un ricciolo biondo dietro un orecchio che aveva poi allungato verso di lui, Finn l'aveva stratta spaesato e sconvolto.

Era nota bene la donna che in quel momento le si figurava al fianco, quasi lui non riusciva a sovrapporre la longilinea figura dal viso fresco che gli si palesava davanti agli occhi con la leggendaria legionaria che era sopravvissuta nelle terre dei giganti più di chiunque altro. Sola, per ventidue giorni, superando grandemente Cardina Baumesteir e Kuklo – qualcosa come settanta anni prima.
“Puoi capire che con il processo di Eren Jäeger, questa faccenda dovesse essere delegata” aveva ammesso la donna, in maniera diplomatica, annuendo, le mani sui fianchi ed un sorriso cortese sulle labbra, “A proposito, Finn, posso chiamarti Finn?” – aveva cominciato lei non dandoli comunque tempo di rispondere – “Perchè siamo qui?” aveva chiesto invece.
“Non vi hanno detto niente?” era riuscito a mormorare solamente Finn, spalancando le labbra, fin troppo carnose per un uomo, perplesso. “Come potrai capire, soldato, eravamo tutti un po' presi” l'uomo aveva avuto un tono di veleno nel richiamarlo, che gli aveva provocato un'ammonizione leggera, e forse fin troppo bonaria della fanciulla, che con troppa ilarità si era limitata a richiamarlo con solo il suo nome: Damien.
L'uomo non aveva tradito uno sbuffo infastidito applicandosi per scendere poi dal destriero, azione che era stata imitata anche dall'altra donna, “Stupiscici di prego, Finn” aveva detto quest'ultima con un tono allegro, passandosi una mano tra i capelli paglierini portati corti, “Ne ho bisogno” aveva aggiunto con una certa civetteria. “Loro sono il Dottor Damien Rosenberg e il Caposquadra Nababa Lahm” si era premurata di presentarli per bene il tenente Müller. L'uomo aveva allungato una mano verso di lui, che Finn aveva stretto meccanicamente, percependo una certa stizza nel suo interlocutore, al confronto dell'altra donna che aveva posto il pugno nel centro del petto, riconoscendo a Finn forse un onore che non meritava.
Lui aveva cercato di mantenersi composto e calmo, ignorando il sudore sulle palpebre, mai era stato bravo in mezzo alla gente, specie quando ne conosceva di nuova, paradossalmente non ne aveva mai incontrata così tanta come nelle ultime due settimane.


“Allora, Finn, perché siamo qui?” aveva chiesto nuovamente il Tenente, c'era genuina curiosità nel suo tono come se non provasse fastidio ad essere confinata lì nei pressi di Trost, al quartier ex generale della ricognitiva, anziché a Stohess dove chiunque, Finn, compreso avrebbe voluto essere.
“È per Briemer” aveva ammesso lui con estrema semplicità lui, un leggero tremore alle dita, dicendosi che in fondo annacquare il brodo non avrebbe comunque ottenuto vantaggi.
Il viso del Tenete Müller s'era fatto per un momento di un pallore degno d'una candela, poi si era lasciato crucciare, una ruga di perplessità aveva attraversato verticalmente la fronte, “Non è una delle Città Dimenticate?” aveva chiesto Damien.

Le città dimenticate era il modo carino con cui si era preso a chiamare i distretti del Muro Maria, dopo la caduta di Shingashina e la perdita dei territori compresi tra la prima e la seconda cinta muraria. Il Muro Rose aveva aperto le sue porte a quasi tutti gli abitanti che avevano cercato rifugio – sbarazzandosene poi nell'immediato dopo – ma la notizia della caduta non era arrivata alle altre città fortifica perché potessero salvarsi.
Erano stati letteralmente lasciati a morire, dimenticati.
Nascosti sotto la povere di mostri senz'anima e pile di cadaveri.
Finn ci aveva pensato, lo doveva ammettere, a tutte quelle centinaia di persone che erano rimaste lì a marcire e morire d'inedia, fame e che altro.
“Sì, il forte settentrionale” aveva risposto Finn, l'avamposto che un tempo aveva preceduto come cinta esterna Nedlay, la sua città.
“Si hanno notizie da Briemer?” aveva chiesto la giovane Tenente, passandosi una mano sui capelli biondi, per allontanare i riccioli, sfuggiti alla presa ferrea della treccia, che fastidiosi scendevano sul viso. La sua voce tremolava un poco, mentre teneva una mano sul braccio di Finn, come se nel citare quella città lui le avesse restituito qualcosa. “Dopo cinque anni?” aveva chiesto Nababa, questa volta, la sorpresa nel suo viso era dipinta con caratteri netti.

“Immaginavo che dalla Capitale non fossero uscite notizie dei Valorosi Uomini di Briemer, ” si era ritrovato costretto a confessare Finn, rendendosi conto che anche se la notizia fosse stata nota a quattro venti difficilmente avrebbe trovato orecchie pronte ad accoglierla, non quando il mondo era stato sconvolto da Trost e dal Ragazzo Titano.
E poi, effettivamente, la segretezza era sembrata la parola chiave, da Nedlay alla Capitale; vi erano stati un susseguirsi spaventoso di permessi ambigui e occhi cavi che non avevano guardo nè fatto domande almeno fino alla Capitale, sotto lo stretto sguardo della Gendarmeria – mai stata così ligia – e le curiosità.
Ed ovviamente la preoccupazione, Finn l'aveva vista nei nobili, balenare nel viso mentre con gli occhi studiavano quegli uomini così rari.
E la dottoressa che gli aveva visitati lì, ma da quel che Finn aveva compreso i sentimenti in ballo in quel momento erano stati di natura piuttosto diversa, non che gli fosse stato concesso porre domande. In verità Finn non aveva potuto ficcanasare fino a che il Caporale Schitz non gli aveva comunicato che gli uomini di Briemer erano ufficialmente affare della Legione.
“Un manipolo di uomini è partito da quella città, approssimativamente tre settimane dopo la caduta di Shingashina ed è arrivato a Nedlay undici giorni prima di … Trost” aveva gettato fuori frettolosamente Finn, cercando di comunicare quante più delle nozione che aveva annoverato nel corso di quelle settimane, notando gli sguardi assenti e confusi dei suoi interlocutori.
Due città, due eventi, che avevano cambiato la storia dell'umanità loro conosciuta per sempre.
“Devo parlare con loro” era stato l'unico commento del Tenente, Finn poteva notare una consapevolezza diversa esserle piombata sul viso e sulle spalle, qualcosa che al solo nominare Briemer era stato una fiammella ed ora invece era divampato in lei come un incendio. Poteva comprendere lui tutto quel morboso desiderio di sapere, territori esterni, giganti, nulla di più che argomenti prelibati per i legionari, lui stesso forse senza troppa grazia aveva fatto molto domande, ma c'era qualcosa di diverso in lei.
Quasi sperasse di ricevere qualcosa.

 

Lui aveva annuito, “Solo, Tenente ...” aveva cominciato Finn, attirando nuovamente l'attenzione della giovane donna su di lui, “Deve essere preparata a loro” aveva aggiunto, mentre s'occupava di scortarli dentro tutti e tre.

Quando Finn li aveva visti per la prima volta aveva creduto di vedere morti camminare sulle gambe, bianchi, scheletrici e rimangiati, parevano cadaveri vomitati, insozzati di terra, sangue e sudore.

Chiamavano la Legione quelli che andavano a morire, ma quelli … quelli erano morti.
Morti con orbite secche e visi spigolosi, abiti a brandelli, lerci loro nei corpi, un miracolo ambulante, l'olezzo della morte.

Il Tenente avrebbe incontrato creature più simile agli umani di quelli che s'erano palesati a lui, spettri pallidi nell'imbrunire del giorno, braccia troppo sottili sollevarsi per miracolo verso il cielo per chiamarli.
Erano stati nutriti, lavati e rivestiti nel lungo tratto di strada in cui Finn gli aveva accompagnati, da Nedlay alla Capitale, e mentre i suoi compagni erano tornati indietro lui aveva proseguito fin lì, all’ex quartier generale. E ricordava il terrore lungo la strada, con l'unica scorta di una quanto mai più impressionata Gendarmeria, ed il vociare confuso di uomini che Finn non credeva potessero parlare, si era a loro annunciato la catastrofe: il Colossale a Trost. Il panico che aveva assalito il Caporale della Gendarmeria, il rosso, che aveva quasi rischiato di farli tornare indietro, contravvenuto a tutti gli ordini. Finn, gli uomini della gendarmeria che erano stati arruolati come accompagnamento, tutti si erano lasciati prendere dal panico, si erano fatti divorare dalla paura, timorosi lungo la strada di incontrare i giganti, ma non loro, occhi vitrei e cuori morti. Le loro espressioni pallide non erano mutate d'un solo battito e tale era rimasta dopo la notizia della chiusura della breccia. Stanchi di vivere, provati fino al punto di non percepire più timore.
Li aveva visti entusiasti, doveva ammettere Finn, per il pane raffermo e l'acqua calda a Nedlay, quello si.
Nessuno li aveva avvertiti del Ragazzo Titano, lui doveva dirsi davvero curioso della loro reazione non appena qualcuno li avesse informati, una curiosità che doveva ammettere forse fin troppo nociva.
 

“Raccontami tutto quello che sai di loro” aveva richiesto il Tenete Müller, mentre conducendo il suo cavallo dalle redini si applicava per legarlo all'abbeveratoio, Finn aveva potuto scorgere sulla schiena della bestia una pezzatura accennata e castana, come piccole lentiggini sul manto. Mai bestia era apparsa più adatta. “Morti che respirano” si era deciso a rispondere, con gli occhi bassi.
Lo siamo tutti, avrebbe dovuto dire lo sapeva, ma non poteva che sentirsi vivo nell'incrociare quell'ammasso di carni cicatrizzate, deturpate e menomante. Non sembravano umani, neanche più.
E poi aveva raccontato alla donna quel che aveva carpito di loro, oltre che l'assurda marcia a cui i capi degli ordini militari gli avevano costretti per trovare a chi sistemargli. Li avevano affidati al Comandate Nile Doak della Gendarmeria, che aveva preferito porli sotto la custodia di Erwin Smith, che certamente ne avrebbe saputo trovare un uso migliore affinché recuperasse da loro ogni utile informazione. Il Comandante della Legione aveva ripiegato sul Tenente Müller, ufficiale medico e fino a quel momento detentrice del più lungo tempo fuori dalle mura senza risorse.
“Sono stati controllati, dal punto di vista medico?” aveva chiesto lei, lanciando uno sguardo a Damien, “Li abbiamo ricuciti un poco e sistemati al meglio a Nedlay” aveva risposto lui con un certo orgoglio, “Ed un medico alla Capitale ha assicurato non avessero all'interno morbi contagiosi” aveva aggiunto poi con un tono un po' più basso, “Ma anche la Legione deve controllare” aveva stabilito poi con fierezza certa, esibendo con orgoglio le sue ali cucite sulla giacca.
“Andiamo, io e Damien li controlleremo bene” aveva stabilito il Tenente, riprendendo una lucidità brutale. “Siete venuti da soli?” aveva chiesto Nababa, affiancandolo, era più slanciata di lui e forse più spaventosa, “No, degli uomini della Gendarmeria ci hanno accompagnati” aveva ammesso con onestà lui, mentre Nina Müller, seguita da Damien, si infilava all'interno del castello.
“Uomini sotto il Caporal Maggiore Schitz” aveva ammesso poi Finn quasi distratto, ma quelle parole avevano fatto irrigidire la schiena della giovane.

 

 

 

 

(845)

Il caos che albergava quel giorno, probabilmente lo avrebbe ricordato negli anni a venire, se mai ne avesse avuti ancora da vivere. Onestamente, non ricordava una tale inquietudine e confusione, se non paura, nuda e cruda, serpeggiare nel suo ventre, nelle sue ossa, quando per la prima volta aveva valicato la porta occidentale e s'era lasciato alle spalle i territori del Muro Maria, ma quello era avvenuto prima di Nedlay, prima di valicare la lunga strada per raggiungere Briemer nel gelido settentrione.
Ed ora si tornava indietro, si tornava a casa e sembrava spaventoso.
Chi sa se suo padre aveva saputo che non era più nelle Mura Rose.
Chi sa se Nina, bella con gli occhi luminosi, si era messa al sicuro.
Chi sa se i suoi compagni ripartiti qualche settimana prima ero arrivati sani e salvi alla seconda porta settentrionale.
Chi sa se sarebbero arrivati anche loro.

 

Aveva passato le mani sul collo del suo cavallo, che aveva un manto scuro ed era innervosito da tutta quella confusione, composta di urla, isterismi, gente sconvolta, lacrime a fiotti e caos. Disperazione. La miseria non sembrava aver ancora cominciato ad albergare, così come la fame, ma erano prossime. Il fiato della morte era sul collo di Briemer, aspettando di prendersela, non ci sarebbe voluto molto, una settimana, un mese ed un anno e tutti coloro che quel giorno avevano preso una scelta sarebbero morti.
Forse anche loro, che avevano preso un'altra via.
Era stato fuori, aveva visto quel mondo, voleva illudersi di poter andare dentro e riuscire a sopravvivere.

Aveva sollevato lo sguardo ed aveva visto una donna, forse l'aveva incontrata durante la frenesia di quelle giornate dove tutti i visi erano sembrati ombre confusionarie o tutti uguali, o forse prima della missione verso l'avamposto – oltre le Mura Maria, che aveva predisposto il distaccamento della Legione di Briemer – quando ancora tutti i dettagli erano definibili ed interessanti.

Era una donna dai capelli scuri, annodati che scendevano sulla schiena e sul ventre. Indossava un abito spento ed il viso era segnato dalle lacrime e dal dolore, mentre baciava ripetutamente la fronte di un giovane ragazzo che sembrava essere così piccolo nelle sue braccia. Il giovane sembrava essere una memoria più vivida e definita, con i capelli castani e gli occhi di un grigio profondo, se lo ricordava quando aveva visto Leon passargli le mani tra i capelli.
Il Sergente Leon Fischer con quella gamba offesa che aveva detto che li avrebbe raggiunti – menzogne di miele.

Il ragazzo aveva stretto una delle mani della donna e se l'era portata alle labbra per baciarne le dita, in un intimo gesto d'affetto; avevano una curva simile del viso, lo stesso incarnato roseo ed un naso grazioso, non bisognava avere un particolare acume per notare che le somiglianza si estendevano, erano certamente parenti: madre e figlio, forse?
Poi lei gli aveva sussurrato qualcosa all'orecchio ed era scappata svelta, mentre lui era rimasto per un momento immobile, il viso s'era fatto esangue. Aveva abbassato lo sguardo ed aveva fatto pochi passi, prima di sollevare nuovamente gli occhi. Indossava abiti pesanti per la stagione estiva in cui erano – parlando di Breimer certamente, che anche nel pieno dell'estate sembrava baciata da un sole freddo– ma in un certo senso previdenti all'autunno, e forse l'inverno, teneva una bisaccia a tracolla, molto scarna.
Si erano incrociati con i loro occhi ed essi erano grigi come un cielo plumbeo e minaccioso, quelli del ragazzino, un adolescente dal viso sbarbato e fanciullesco. Li aveva visti occhi così, lui doveva ammettere, su un altro uomo. Levi.
“Ei ragazzino” la voce del Caporale Schwarz era stata per un momento l'unico suono che lui era riuscito a sentire. Aveva sopraffatto le urla, il vociare ed il caos di quell'animale disperato che era la popolazione di Briemer, davanti all'ormai più palese consapevolezza di essere nulla più di un corpo morto che putrefaceva.
L'aveva cercata con lo sguardo, trovandola sulla sella di una cavalla non proprio ottimale, con i capelli gonfi raccolti sul capo ed un berretto a coprirli. Vedeva solo le spalle, coperte dalla mantella di pelliccia- perché a Briemer non usavano quella verde scura di rappresentanza.
Una parte non così considerevole della città aveva deciso di tentare la fortuna nei territori del Muro di Maria, aveva deciso di non lasciarsi morire di fame e se la fiaccola della speranza s'era accesa era merito del Caporale Schwarz ed ora era suo dovere portarne il peso, su una cavalla malandata che aveva rubato – assieme a quelli che erano riusciti a prendersi – a gente che se ne abrogava il diritto.
I giganti avrebbero asserragliato ogni cosa e Briemer sarebbe rimasta lì ad aspettare morendo di fame che qualcuno venisse a salvargli.
“Non verranno” aveva professato il caporale Schwarz quando la notizia era arrivata furiosa e spaventosa fino a loro – non erano passati che pochi giorni da quell'avvenimento e nella sua memoria si era già fossilizzato come un passato perduto.
No, non sarebbero venuti, questo però era indiscutibile.

Briemer sarebbe morta di fame e di stenti. Si sarebbero mangiati tra loro e poi i vivi sarebbero morti lo stesso.
“Vogliono mangiarsi i cavalli, ma tanto moriranno di fame, mentre a noi servono” non ricordava chi l'avesse detto ma s'era aperta una vera guerra per le risorse. No, non era stato glorioso e non era stato neanche giusto, ma avevano saccheggiato e s'erano appropriati di ogni cosa.
“Briemer morirà per certo, forse noi no” gli aveva detto il Caporale la notte prima, una camicia sottile ed la brezza estiva a pungere la pelle, lì dove anche nell'estate s'annidiava il freddo. Lo aveva trovato a guardare le stelle, curioso di sapere quando avrebbe potuto guardare nuovamente un cielo senza sentire il respiro della morte solleticargli i capelli.
“Io non dovevo essere qui” la sua era stata una risposta non voluta, che aveva sputato poi fuori con una mezza risata, fuori luogo, fuori clima, fuori tutto. Doveva essere a Nedlay, o da suo padre, o da Nina a chiederle di sposarlo, come non aveva fatto quella notte in Capitale.
Nina che era di istanza a Shingashina e che forse ora era morta – più di lui.

“Non sono un ragazzino” la voce del ragazzo lo aveva risvegliato, era sicuro di sé, e troneggiava con lo sguardo gli occhi della donna, che aveva abbozzato un sorriso così precipitosamente materno, il Caporale Schwarz che mai si esponeva troppo nei sentimentalismi.
“Lo vedo” aveva ripiegato lei, “Come ti chiami?” una domanda semplice che aveva per un momento reso molle il ragazzo, “Kurt” era stata la stretta risposta.
Kurt era un ragazzino senza nessuna esperienza, che andava incontro alla morte, lo vedeva lui, lo vedeva il Caporale e forse lo vedeva anche lo stesso Kurt.
“Hai mai provato la manovra?” aveva chiesto la donna, quello aveva negato, “Sai maneggiare un coltello?” aveva chiesto ancora, ottenendo una reazione positiva – lui, che lo osservava, non ci credeva molto.

Il Caporale s'era voltata verso di lui, occhi di un castano così particolare, “Bene, sta attaccato a quel tizio” gli disse, ammiccando a lui, che le aveva rivolto uno sguardo perplesso, “Sembra un imbranato, ma potrebbe salvarti la vita” aveva detto, prima di sorridere a Kurt un'ultima volta e dare un colpo al suo malandato destriero affinché recuperasse metri e si mettesse in prossimità dell'inizio di quella caotica marcia.
Kurt s'era voltato verso di lui ed anche se era appiedato si era immediatamente accodato al suo cavallo, senza dirgli una parola. Lui lo aveva guardato un ultima volta ed aveva annuito. Non era più piccolo di alcuni cadetti che aveva visto lasciare le mura con la Legione, era solo l'assenza della giacca, di un qualche ordine, a far sembrare quella situazione più spaventosa.

Poi la porta di Briemer si era sollevata verso l'esterno – o meglio l'interno – verso una morte composta di corpo obbrobriose e bocche spalancate con denti insozzati di sangue.
E l'enorme essere che erano loro si era messo in movimento, accompagnato dallo strepito e dalle urla dei cittadini di Briemer, qualcuno senza nulla s'era aggiunto all'ultima ora e qualcuno era fuggito poi troppo spaventato per andare fino in fondo.

Lui aveva chiuso gli occhi e trattenuto le lacrime, fino a che non aveva sentito il rimbombo della porta chiudersi alle sue spalle, lasciando che fosse il suo cavallo a guidarlo.
Avevano perso le mura, perso le loro sicurezze.

Era la morte ora la loro unica compagna.

La distanza tra il distretto più esterno a quello medio non era abitualmente molto lunga da compiere, ma non quella da Briemer e Nedlay, attraversata da montagne e valli anguste.

Ed ora giganti.
“Forse siamo morti” aveva pronunciato con una certa cupezza, aprendo gli occhi lentamente e per un momento – un unico istante - aveva avuto un mancamento.

Nina, lì al suo fianco.

Ma s'era accorto di quanto quei ricci fossero mosci, l'oro del capelli più stopposo ed il viso sprovvisto di ogni raffinata eleganza. Quella era una ragazzina secca, dai capelli paglierini e priva dei luminosi occhi della donna, ragazza, che amava.

Mancavano le Ali, notò poi, lì sul dove la Legione aveva lo stemma delle ali incrociate, la giovincella portava due rose.

“Addio, Briemer, coloro che vanno a morire ti salutano” aveva esclamato lei, con un sorriso così verace sulle labbra da aver dato a lui la sensazione che non avesse capito nulla.













 

GRAZIE MILLE A CHIUNQUE SIA ARRIVATO FIN QUI!
(Una precisazione importantissima da fare: quando ho cominciato a pensare questa storia non avevano ancora scoperto dell'esistenza di “The Harsh Mistress of the City” e l'ho detto soltanto perché ho scoperto che la mia idea non era alla fine poi così originale, ma non riuscivo proprio a smettere di pensare: ma a quei poveri sfigati nei distretti che è successo?)

Allora, si, per questa “cosa” prendetevela con Chemical Lady che dopo avermi minacciato più volte di cose orribili, pur di farmi pubblicare si è offerta di betarmi.
E le chiedo scusa, come chiedo scusa a voi, per la parte narrata dal punto di vista di Finn che è così 'analitica' che ha fatto schifo pure a me scriverla, ma onestamente mi serviva un esterno e ve lo prometto: fin non farà più da “narratore” – forse.
E visto che questa “cosa” ha qualche citazione latina (Coloro che vanno a morire ti salutano e Dopo la morte risorgo; gli trovavo entrambi adatti) diamo a Cesare quel che è di Cesare [Che in orgine non è stato detto in latino, ma shh]: il meraviglioso Tenente Riccioli d'oro (Perifrasi per non scrivere la u con i puntini), il dottor Damien ed il citato Caporal Maggiore Schitz appartengono a Chemical Lady.
La dottoressa Meyer è condivisa invece.
Il resto – che ovviamente non è di SNK – è mio, sebbene il Caporale Schwarzt abbia fatto un cameo sempre nella storia di Chemical Lady.
Riguardo ai personaggi indicati avete trovato Nababa, Erwin e Levi. Sfortunatamente i primi due avranno un ruolo davvero marginale, il terzo no – come potete intuire già dal fatto che sia stato citato da qualcuno – anche se forse ci vorrà tempo.
Io ringrazio chiunque sia arrivato fin qui, chiunque voglia recensire (mi farebbe un immenso piacere) e chiunque voglia imbarcarsi con me in questa lunga diaspora, che no, vi premetto non racconterà di cose belle.
Grazie ancora,

RlandH

Ps- IRREFUTABILE PER SEMPRE
(scusa ma irrefutabile fa troppo cagare il cazzo e la gente poi si ferma, lo cerca su google e perde il filo della narrazione – cit. Chemical Lady).

 

 

 







 

 

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Capitolo 2
*** Ante Meridiem ***


(Colonna sono qui)

 

M O R I T U R I   T E   S A L U T A N T

 

 

A N T E   M E R I D I E M

 

 

Il viso di Lilla era, nella notte, l'unica cosa che sembrava farlo riposare in pace, assieme al suo ritmico respirare ed i mugugni che si lasciava sfuggire nel cuore del sonno, perché neanche abbandonata nel sogno completo poteva dirsi capace di tacere.
Garlef, forse, la amava per tutte quelle piccole cose.
Forse anche perché lei era una piccola cosa, che poteva avviluppare completamente tra le braccia, dandosi ancora l'illusione di poter proteggere qualcosa.
Lo sapeva ormai che il sonno era prossimo a chiamarlo, la stanchezza si era arrampicata su ogni minuscolo lembo del suo corpo ed era penetrata nelle ossa. Perfino nel suo giorno libero ciò che più lo aveva premuto era stato quel momento, quando finalmente avrebbe potuto accoccolarsi a sua moglie e chiudere gli incubi fuori.

Ma la porta era stata battuta con così tanto vilipendio d'averlo fatto scattare all'allerta immediatamente, da aver dimenticato di essere, per un momento, non nella sua bella casa a Nedlay ma fuori.

“Ma Garl, cosa …?” la voce di Lilla era stata l'unica cosa che lo aveva riportato alla ragione, perché lei era una brava, colta e diligente fanciulla di buona famiglia che neanche nelle sue più sfrenate fantasie pensava di metter un piede fuori. “Non lo so, ma chiunque sia pregherà di non esser venuto” aveva risposto placido lui, dandole un bacio sulla fronte ed alzandosi dal letto, senza neanche curarsi che si apprestava ad aprire la porta di casa con indosso gli abiti da camera. Lilla s'era rimessa nella posizione supina nascondendo anche il viso sotto le coperte, con la stessa flemma d'una bimba.
Garlef non avrebbe avuto alcuna gentilezza per chi era venuto ad importunarlo, nella casa dove mai riusciva a stare, durante la notte del suo giorno libero.
Passando per il modesto ingresso dello stabile, aveva lanciato uno sguardo un po' spento e colpevole al quadro, sistemato su un mobilio – non lontano dalla porta –, raffigurante gli uomini che avevano fatto parte, una volta, della sua squadra. Ignorando il frenetico bussare, di chi proprio quella sera ci teneva a morire, Garlef aveva illuminato i volti nel dipinto.
Di compagni ne aveva persi e molti erano stati anche uomini sotto di lui; gli era stato detto che i primi compagni morti rimanevano immagini persistenti dietro le palpebre nel cuore della notte, per non parlare dei primi sottoposti.
Uomini che ti sono stati affidati e che tu hai perso” ricordava che quella frase gli era arrivata assieme alla nomina di caposquadra.

Non mentivano, questo si.
Ma la verità era che gli uomini che tormentavano più Garlef, non erano nei primi, ne gli ultimi ed erano raffigurati lì.
Sei persone, lui compreso, erano stati dipinti in quel quadro. Schiene ritte, spalle tese ed un pessimo senso estetico del pittore che aveva riportato il nervosismo e l'indecisione sui visi.
L'ultima uscita dalla porta di Briemer.

 

Quando aveva mosso l'imposta aveva trovato due soldati ad aspettarlo, un ragazzino con ancora il puzzo di latte ad infestarlo, butterato in viso e gli occhi incapaci di scollarsi dalla punta dei suoi stivali, l'altro sembrava presentarsi con un'aria un po' più decente, la calotta rasata e nessuna espressione sul viso. Rose rosse cucite sulla patta della giacca – e neanche la decenza del saluto militare.
“Cosa vogliono due roselline da me?” aveva chiesto senza molto riguardo, incrociando le braccia sotto il petto, “Capitano Garlef Jürgen?” aveva chiesto con un certo tremore il ragazzino, “È scritto sulla porta” aveva fatto notare lui con candido disinteresse, guardando direttamente l'altro, “Il capitano Rottermeier vuole vederla” aveva detto schietto l'altro.

Una delle cose – perché erano davvero tante – che Garlef odiava del Capitano Generale della Guarnigione era la sua assoluta convinzione che tutti dovessero rispondere a lei, Legione compresa. “Dovresti dire al capitano Rottermaier che non sono un suo sottoposto” aveva sentenziato Garlef con uno sguardo piuttosto duro, mentre continuava a tenere le braccia incrociate, “Voi due, inoltre, dovreste farmi un saluto formale” invece, aveva fatto notare con un tono seccato.
I due uomini si erano guardati tra di loro con un espressione vacua, anche un po' esitante, prima di girarsi con un certo nervosismo e battersi il pugno del saluto sopra il petto, nella speranza forse di ammorbidirlo un po' e trascinarlo nel cuore della notte da quella spina nel fianco della Rottermeier. Solo il Comandante Pixies doveva sapere quando alcool dovesse aver avuto in corpo quando aveva permesso a quel satanasso di insediarsi a nord.

“Che succede, Garl?” Lilla si era affacciata da corridoio, i capelli scuri in disordine e gli occhi verdi leggermente lucidi e non del tutto visibili dalle ciglia nere, di una palpebra ancora cadente. “Tua madre” aveva risposto e, no, non era una presa in giro.

 

 

“Dimmi un po' puttana da chi gli avrebbe prese quei capelli?”

“Sei disgustosa”
“La mamma di Charlotte è una puttana”
“Lottie è una puttana”
“Sei una disgraziata, avrei dovuto soffocarti nella culla”
“Io ...”
“Tanto quelle come te sono brave solo a starsene stese sulle schiene”
“Perchè vuoi tagliarli? Sono così belli”
“Va bene; Charlotte, come?”
I bastardi non hanno cognome.

 

 

Charlotte si era svegliata madida di sudore e con un groppo nella gola, era davvero tanto tempo che non si addormentava facendo incubi di quel genere. Quasi preferiva quando sognava di essere dilaniata dalle fauci di un gigante.
Si sentiva sempre patetica ed insulsa, come se tutta la strada che aveva compiuto non fosse mai avvenuta, come se non fosse mai uscita dai confini del paese di Madeb.

Aveva tirato via le lenzuola lanciando uno sguardo fatuo al suo corpo, sentendo la vestaglia appiccicata alla pelle.
“Che schifo di giornata” era stato il suo commento a mezza bocca, non del tutto sicura di come avrebbe potuto risolversi nel pieno del giorno. Era scesa dal letto con movimenti lenti ed affaticati, il corpo ancora intorpidito in parte, non del tutto cosciente di aver abbandonato il mondo onirico.
Si era apprestata a tirar su lenzuola e coperte per ridare un aspetto rassettato al letto, non riuscendoci minimamente, grumi fastidiosi alla vista e pieghe si erano delineate sulla stoffa e lei aveva rinunciato ben presto all'opera in favore di altro. Aveva spalancato le imposte della finestra per lasciare che il sole e la brezza primaverile entrassero in quel luogo sempre troppo odoroso di chiuso.
Davanti i suoi occhi si era aperto il cielo, ancora piuttosto scuro, ma già all'orizzonte cominciava a formarsi un leggero filo rosa, i campi dei fattori non erano ben distinguibili, così come i villaggi, e l'unica cosa che sembrava spiccare erano le montagne. Aveva fatto decisamente bene a far cambio di stanza con Erza, era decisamente più rilassante svegliarsi con una vista che desse sull'interno rispetto un muro alto cinquanta metri, lì a ricordare l'eterna e dilaniante cattività in cui i giganti avevano costretto gli uomini.
Non che avesse senso in quel momento bearsene, presto avrebbero dovuto abbandonare quasi completamente quella struttura, per trasferirsi nel quartiere di Nedlay – i traslochi, a rilento, in verità erano già cominciati– Charlotte non poteva neanche dirsi del tutto contraria. La verità era che aveva compreso perfettamente il discorso di Erwin Smith, sulle risorse, i soldi e gli sprechi, e da un punto meramente pratico ne condivideva l'ottica, ma la verità era che le era stato chiesto di lasciare casa sua e questo la atterriva davvero.

Aveva raccattato qualche vestito dal suo baule, ignorando la scomparsa di alcuni suoi capi d'abbigliamento – qualche camicia in vero – sapendo anche in chi probabilmente avrebbe dovuto cercarne la colpa. Una volta a Nedlay avrebbero dovuto non solo dividere il quartiere con i legionari della città ma anche con la guarnigione ed il suo Capitano le aveva comunicato che nonostante fosse graduata probabilmente le sarebbe toccata una stanza che non fosse singola. Allora valeva arrendersi a Shoshanna Northveit e la sua assoluta incapacità di comprendere l'elementarità d'un concetto semplice come lo spazio personale; una delle poche altre donne ad essere di stanza al confino nord.
Charlotte si era rincuorata almeno che in quella giornata non avrebbe dovuto litigare con le cinghie dell'uniforme. Si era anche ritrovata a sperare di trovare qualche secchiata d'acqua avanzata dalla notte prima e di non dover andare fino al cortile interno per prenderla dal pozzo. Non lo sapeva per quale motivo ma sembrava che quella mattina i suoi muscoli non volessero accettare l'ora in cui ella aveva abbandonato il letto, dandole un senso di intorpidimento e formicolio per le intere articolazioni.
Aveva già la mano sulla maniglia della porta quando aveva sentito il chiacchiericcio, la prima voce era quella baritonale del Gatto, con quel suo sorriso sempre furbesco poteva proprio figurarselo, l'altro non lo riconosceva, era ancora un ragazzino questo si con la voce ancora troppo acuta, che cominciava però a mutarsi in quella di un uomo.
“Dai, prima che mi becchino e mi tocchi la gogna” aveva sentito lamentarsi il Gatto e questo l'aveva trattenuta da girare il pomello della porta, “Sai non credo che ti impiccheranno per aver fatto entrare qualcuno” aveva replicato l'altro ragazzo, “No, ma qui c'è decisamente qualcuno che non vede l'ora di tirarmi frutta marcia” aveva detto Humbert, il gatto, “Si, si” aveva replicato l'altro, “Già prendo una miseria non voglio farmi ridurre ancora di più il salario” aveva ripreso il legionario che lei aveva avuto modo di conoscere abbastanza bene.
Per quasi tutta la Ricognitiva esisteva la tacita regola di non far uscire le reclute, ci voleva almeno un anno per essere preparati a ciò che vi era fuori, Breimer teneva i suoi soldati giovani almeno tre anni.
Fuori al Nord era molto più facile ti uccidesse l'ambiente che un gigante.
Ma il Gatto … il Gatto aveva avuto un solo anno di fermo.
Era bravo e fin troppo consapevole di questo.

“Perchè quando prendi?” aveva chiesto con una certa curiosità l'altro ragazzo, si certamente era un maschio. “Otto monete” aveva risposto spiccio il Gatto.
“Oh be al sud ne prendono dodici” aveva commentato quello, “Oh Vergini Mura, non è giusto” era stata la lagna di Humbert. “Comunque è assurdo come le puttane sappiano sempre tutto” aveva aggiunto il Gatto, “Veramente...” aveva cominciato l'altro, ma lei aveva battuto il piede sulle assi del pavimento per annunciare ai due che era sveglia, che si stava muovendo ed aveva potuto semplicemente udire uno scalpitare fuori la porta accompagnata da bisbigli sommessi. “Giovani” aveva detto, prima di aprire l'uscio e vedere con la coda nell'occhio qualcuno scivolare giù per le scale, che non possedeva la chioma chiara di Humbert.
“Speriamo non abbiano combinato qualche danno” era stato il suo spento commento, mentre si approssimava a raggiungere la stanza da bagno.
In realtà avrebbe dovuto ritrovare quel soldato, avrebbe dovuto scrivere un rapporto disciplinare e si valutare se il suo crimine – se così poteva essere chiamato – fosse degno di un provvedimento disciplinare, perché così doveva fare un attento superiore, ma giacché Erik, con il suo nuovo titolo fresco di pomposità, era a Nedlay e Briemer era sempre stata nota per fare quel che voleva, Charlotte aveva deciso di chiudere gli occhi a quella trasgressione.
E sperare non avessero fatto alcun danno.


Il quartiere della Legione di Breimer era un vecchio casolare in pietra dura, che era stato esteso in qualcosa di più grande tramite costruzione di legno e pietra meno resistente – dovendo perciò impiegare continua manutenzione – nei pressi del villaggio di Hanneke non lontano dal distretto di Breimer.
Ed era tutto dannatamente fatiscente, ma in base a ciò che aveva capito, e visto, sembrava essere una sorta di assoluto paradigma che non vi fossero mai abbastanza finanze per la ricognitiva. E quello forse era il motivo per cui il nuovo comandante aveva ben pensato di ridurre gli stanziamenti solo in due. Ignorando apertamente la questione, però, dove gli uomini si sarebbero sistemati e come.
Quando aveva allungato quella questione ad Erik, il Facente veci del Comandate e sovrintendente del Nord, aveva replicato che aveva tutto sotto controllo, con un sorriso largo, gli incisivi ingranditi ben in vista e gli occhi chiari fin troppo ottimisti. Se non fosse stato il suo mentore, l'uomo che l'aveva aiutata ad erigersi dalla polvere, certe volte Charlotte lo avrebbe preso a testate.
Però, e forse questo era il motivo per cui Charlotte sentiva quel trasferimento davvero fastidioso, la legione di Briemer aveva, in un certo senso, imparato a provvedere a se stessa, avendo animali da pascolo, soma, una produzione di uova personale ed una di latte piuttosto indigente da aver cominciato a rivederlo, inoltre erano riusciti a strappare anche alcune zolle di territorio per la coltivazione di patate ed altri tuberi resistenti al freddo.
Inoltre gli era arrivata voce che anche Trost avesse in parte cominciato ad applicarsi in una maniera incredibilmente simile alla loro.
Poteva solo immaginare lei di chi fosse stata l'idea; era gente bizzarra quella di cui il capitano Erwin Smith si era circondato, ma doveva ammettere che quell'uomo l'aveva colpita: Levi.

Aveva osservato con estrema costernazione che non c'era rimasto neanche un briciolo d'acqua da usare per riempire la tinozza e questo l'aveva sconfortata non poco, aveva valutato se privarsi delle vesti notturne ed indossare almeno una parte degli abiti da giorno per andare a prendere qualche secchio d'acqua al pozzo, oppure non curarsene ed andarsene con le gambe nude. Il nord aveva la sfortuna d'essere particolarmente bigotto e non amante dei cambiamenti; la misoginia radicata nel carattere, assieme al freddo ed il temperamento orgoglioso, non che a lei fosse mai importato qualcosa – e neanche a Shoshanna, Frejya e la compianta Milah – , si era sempre ritrovata addosso una nomea per cui non aveva fatto nulla per avere ed alla fine se ne era pure fatta vanto.
 

Aveva lasciato i vestiti posati su una sedia in legno ed era uscita dal bagno, prendendo a camminare per il corridoio che sfilava tra i dormitori e l'infermeria, ed era scesa per le due rampe di scale per sboccare nell'enorme sala della mensa, completamente svuotata, c'era l'enorme tavolata, con le sedie capovolte su di essa e qualche soldato che faceva il resoconto dei viveri.
“Caporale Schwarz” aveva esclamato immediatamente uno di questi, facendo il saluto d'ordinanza, pugno rovesciato sul cuore e sguardo fiero. Aveva capelli cortissimi di un colore che le ricordava il grano giallo, quello che si coltivava per lo più a sud. Aveva delle spalle ampie ed era piuttosto impostato, sebbene non fosse poi d'altezza molto slanciato, aveva un espressione dura. Vestiva una camicia scura ed i pantaloni bianchi d'ordinanza, gli stivali e le cinghie, sebbene non esibisse ne l'attrezzatura ne le giacca. “Riposo, Sal” aveva risposto pacata lei, non preoccupandosi neanche dello sforzo che il giovane stava impiegando per non guardarle il corpo in alcuna maniera, aveva attraversato la stanza in silenzio assoluto per prendere la porta per entrare nel cortile sul retro, dove era il pozzo.
A Briemer si conoscevano tutti, il che sarebbe potuto risultare vagamente strano agli altri corpi militari – aveva sentito che a Trost quasi raggiungevano l'ottantina di persone – ma lì, il piccolo casolare di Hanneke aveva ospitato nel corso degli anni in cui Charlotte era stata un soldato un massimo di una quartina di persone, per la precisione in di quei tempi – prima dell'ultima uscita, in vero – ventisette soldati, di cui solo quattro donne e otto veterani in pensione, rimasti a prendersi cura del bestiame.

La traversata, ed il ritorno, fino al grande lago salato che gli aveva tenuti fermi un mese fuori, aveva privato dell'avamposto di due persone e ne aveva toccate almeno tre.
Al momento il conteggio degli uomini era ventiquattro di Briemere, gli otto pensionati e i tre di Nedlay.
Il capitano Erik, colui a cui i soldati di Briemer facevano capo, anzi del Nord e presto anche dell'ovest, era partito al galoppo assieme ai soldati di Nedlay per riportare i rapporti, che ad onor del vero avevano dovuto scrivere lei ed Ezra come i bravi galoppini che erano, probabilmente anche farsi anche appuntare qualche medaglia sull'uniforme d'ordinanza, visto che era ufficialmente sovraintendete del nord.
E probabilmente ne avrebbe approfittato per farsi una cavalcata fino a Trost per andare a festeggiare con il nuovissimo comandate della Legione, o cercare di circuirlo – apprezzabile di Erik era la sua assidua capacità di non demorde sui suoi piani, come convincere Erwin a ritrattare sulle sue posizione o trovare a lei un marito.
Ammirabile che nonostante il continuo fallire davvero non rinunciasse mai.

La brezza del mattino era fastidiosa, pungente e presa così in pieno le aveva fatto venire la pelle d'oca, forse quello era una delle peggiori parti del profondo Nord, il freddo che sembrava imprimersi nelle ossa anche nella primavera.
Ezra Winkler era accomodato per terra, anche lui quel giorno non aveva indossato l'uniforme militare, preferendone i pantaloni scuri ed una camicia sottile, non sembrava per nulla curato della brezza fredda della mattina, una sigaretta tra le labbra lucide e gli occhi verdi un po' persi.
L'aspetto sempre di solito ordinato e preciso, sembrava risentire un po' della giornata libera, i capelli scuri appena un po' scossi e le guance ombrate da fili sottili di barba scura.
“Da che letto sei scesa, questa volta?” aveva domandato con una punta di cattiveria Ezra, alcuni segni di zampe di gallina cominciava a delinearsi ai lati degli occhi verdi. Charlotte aveva emesso un ringhio in sua risposta, apprestandosi a sciogliere la corda dalla trave di legno che sosteneva il secchio, per permette a quest'ultimo di calare all'interno del pozzo.
L'uomo si era sollevato in piedi, passandosi una mano tra i capelli scuri, la sigaretta che si consumava con estrema lentezza tra le labbra, senza che lui facesse qualcosa di attivo per consumarla.
Ezra era più grande di lei, di altezza, di età e di grado, un uomo fin troppo fastidioso per comprendere perché tanto Erik lo avesse a cuore. “Ti serve una mano, Lottie?” aveva chiesto, imprigionando la sigaretta tra le dita, per non farla cadere mentre parlava, “No, tranquillo” aveva risposto serafica, non turbata dalla finta cortesia che lo animava.
Lei ed il Sergente Maggiore Winkler non si erano mai troppo presi bene caratterialmente, anche se doveva ammettere che quando erano al freddo, nelle terre oltre le mura, sapeva con certezza di potersi fidare di lui.
Era strano, no, fidarsi di qualcuno che non le piaceva.
“La Legione ha una certa reputazione e tu, con questo tuo ...” aveva cominciato quello, mentre Charlotte tirava la corda, che grazie alla carrucolava aveva preso a tirare su un secchio di un certo peso, ormai straripante d'acqua, “Si, la mino, perché sono una sgualdrina, no?” aveva replicato lei, con un sorriso sofista sulle labbra.
Se l'era sentito un po' per tutta la vita che era una poco di buono, perché non potesse permettersi di esserlo. “E sicuramente sto svendendo la mia sessualità andando in giro in sottoveste nel mio giorno libero” gli aveva fatto il verso a lui.
Quanto cuore sembrava avere sempre Winkler al fatto che dovesse tenere le cosce chiuse.

Aveva raccolto il secchio, cercando di non farlo rovesciare né di far cadere un numero eccessivo di acqua per terra, per fare un bagno avrebbe dovuto prenderne di più, ma per una spugnatura veloce, sarebbe potuto bastare, “Sono serio, Lottie” aveva detto Ezra con un sorriso pacato sul viso, mentre si applicava per fermare il manico di ferro, che riteneva fin troppo ballerino nelle mani della ragazza. Perchè infondo lei non era un caporale, che alla sua prima uscita oltre le mura era riuscita ad abbattere un gigante da sola, no, era una fanciulletta dalla presa d'argilla secondo la mente sempre savia di Ezra.
Charlotte aveva roteato gli occhi, cercando di ignorare quel fastidio persistente, “Anche io” aveva replicato con un sorriso spiccio, tirando il secchio verso di lei, che aveva tremolato facendo cadere una certa quantità d'acqua gelida sulla sua gamba sinistra.
Ezra aveva perso il sorriso calmo, per fare una strana piega con le labbra, “Potresti almeno evitare di … uhm … giacere con il dottore?” aveva chiesto, mentre Charlotte ignorava deliberatamente le sue parole, dandoli le spalle.
“Lo sai, no, Winkler …” aveva mormorato lei, mentre si allontanava, “Lottie” aveva replicato lui, per ammonirla, ma lei lo aveva ignorato, di norma era una persona molto disciplinata e cercava di mostrarsi sempre mansueta davanti a graduati più alti di lei, ma Ezra rendeva le cose sempre difficile.
“Mi faccio inforcare da chiunque non sia te” aveva replicato, dandogli definitivamente le spalle.

 

Aveva rifatto la strada inversa, percorso le due rampe di scale, aveva incrociato il Gatto bighellonare per le scale, con quel suo sorriso certosino, “Caporale” l'aveva salutata quello, facendole il saluto per riprendere la sua discesa.
E lei lo aveva fermato per riferirgli fosse compito suo – e di tutta la squadra di cui era parte - occuparsi delle stalle, cavalli e mucche. “Ma non è il suo giorno libero?” l'aveva sentito lamentarsi, mentre si chiudeva la porta del bagno alle spalle, notando che i suoi abiti erano finiti arricciati da qualche parte e qualcuno era entrato a rovistare in cerca di qualcosa.
“Si sono svegliati” era stato il suo spento commento, mentre si applicava per togliersi la sottana, recuperare una spugna che non fosse troppo sgretolata ed un panno pulito, anche solo provare a cercare del sapone sembrava utopia.
Charlotte si era potuta concedere per se stessa davvero poco tempo, prima che effettivamente l'intera base si fosse risvegliata e lei aveva intenzione di entrare in città il prima possibile.
Aveva indossato gli abiti civili, una lunga tunica bianca, su cui sopra aveva sistemato un altro vestito, di una stoffa leggera e grigia, che non aveva le maniche. Due lacci come cinto.
Non aveva uno specchio in cui riflettersi ed aveva ignorato totalmente la cosa, senza perdere neanche un minuto per pensare come dovesse apparire e si era limitata a ritrovare la sua camera, adorava incredibilmente essere salita di grado al punto da avere una camera, propria per infilare gli stivali d'ordinanza.
Incredibilmente nessun altro calzare sembrava starle comodo.
Non era mai stata una donna da profumi, stoffe pregiate e monili, l'unica volta che aveva indossato qualcosa che fosse degno d'esser considerato degno erano stati quasi interamente prestati. Lo ammetteva s'era sentita strana, anche diversa, con abiti lisci, brillanti e forse fin troppo pomposi, che l'avevano fatta sentire per tutta la sera come un pesce fuori d'acqua.

Aveva imboccato il corridoio per raggiungere l'infermeria, quasi del tutto disabitata – e considerabile un miracolo visto il ritorno da una missione a lunga distanza come quella compiuta qualche settimana prima – incrociando per primo gli occhi celesti del dottore. “Caporale Schwarz” l'aveva salutata lui, con un sorriso gentile, tornando a dedicarsi al suo lavoro con minuzia, senza degnarla poi di un particolare interesse.
Aveva ricordato a Lottie il loro primo incontro, nella sfavillante Capitale, durante l'annuale festa a casa del comandante Dot Pixis e la premura che Erik aveva voluto che avesse per l'occasione, più che per sfoggiare una bella dama come compagnia intenzionato come suo solito, sarebbe stato meglio dire: incaponito, a trovarle un marito.
Erik, il suo capitano, il suo mentore, sembrava nutrirsi dell'assoluta certezza che il giorno che si fosse decisa a maritarsi avrebbe dismesso le Ali e la mantella senza batter ciglio.
Quella sera poi si era proprio impegnato per fargli conoscere tutti i buoni partiti che le alte cariche avevano da offrire e come sempre Lottie aveva scelto il meno adatto ai criteri di Erik.
Si era lasciata sedurre come una ragazzina dalla bellezza sfacciata del Capitano Friedhelm Müller della Gendarmeria di Stohess. In assoluto l'uomo più bello con cui avesse mai avuto l'occasione di parlare, e non solo.
Il dottore comunque l'aveva conosciuto quella sera, era stato proprio Friedhelm a presentarlo, frettolosamente ed in maniera anche piuttosto improvvisa, mentre cercavano loro due di abbandonare la sala da ballo in cerca di una camera, attenti a sfuggire agli occhi attenti del capitano Schimdt, si erano imbattuti nell'incantevole sorella di Friedhelm e nel suo accompagnatore.
Charlotte doveva ammettere di aver prestato attenzione al giovane, quanto lui ne aveva prestata a lei: alcuna.

“Buongiorno dottor Meier. Come stanno i nostri soldati?” aveva chiesto con un tono gentile, erano solo tre i letti occupati, “Ora che ti vedo sto molto meglio, Lottie” si era sentita dire, aveva voltato appena lo sguardo trovando Friedrick Engle cercare posato alla finestra, aveva un braccio completamente fasciato, ma lei sapeva bene fosse a causa di un brutto taglio e nessuna rottura.
Charlotte si stava ancora chiedendo come diavolo avesse fatto quel pessimo soldato – di Nedlay, chiaramente – a ferirsi con le proprie stesse lame, un momento lo aveva visto passare da un albero all'altro e poi per terra con il sangue che non smetteva di uscire.
Ed il dottor Meier con i nervi saldissimi prendersi cura del suo braccio senza minimamente farsi intimorire dal quindici metri che era stato attirato dal sangue, dalla caduta, da loro concitati.
“Caporale Schwarz, per te” aveva replicato lei con una certa freddezza, mentre poteva vedere la labbra del ragazzo perdere il sorriso per assumere un smorfia mortificata. Non era un brutto ragazzo Engle, era alto, con la spalla larghe ed i pettorali ampi, solo che aveva i capelli neri e Lottie non poteva soffrirli.
Il dottor Meier aveva ridacchiato senza vergogna, mentre l'amico gli rivolgeva un'occhiataccia offesa, “Voglio vedere come riderai tu quando Nina ...” aveva cominciato quello, “No, basta!” la risposta era arrivata da uno dei letti occupati, un uomo dal viso arrossato ed una matassa di capelli cenere era emerso da sotto un lenzuolo, “Se parlate ancora di questa Nina giuro che vi defenestro” aveva piagnucolato, strofinandosi poi una manica sugli occhi.
Il dottore aveva scosso il capo, i riccioli scuri erano scivolati sulla fronte chiara, “Come vede: la febbre di Adin è scesa” aveva commentato, ammiccando proprio a quell'ultimo.
L'idiota che aveva pensato bene di farsi il bagno nel grande lago salato, nonostante le temperature, quando lo avevano raggiunto, non si fossero ancora alzate del tutto.
L'unico motivo per cui Erik – e soprattutto Ezra, la voce del buon comportamento – glielo avevano permesso era dovuto al fatto che avevano raggiunto probabilmente il posto più a nord che fosse possibile, di giganti se ne vedevano fin lì uno o due e quasi tutti di una certa lentezza o stazza, praticamente impossibile farsi cogliere di sorpresa.

Secondo Erik esisteva un modo per andare più a nord, ma non erano mai riusciti a trovare l'ansa per circoscrivere il lago, era una sterminata distesa di blu che non sembrava aver fine alcuna, ne si vedeva la costa opposta, anche sforzandosi, nelle giornate di cielo più chiaro, ne seguendone il percorso si trovava l'argine.
Una distesa che mangiava ghiaia bianca, con onde alte nelle giornate ventose e sale.
Ed oltre Nedlay del lago salato non si era mai fatta parola, o meglio della legione di quel luogo, ma era stato chiaro a tutti che quel luogo nascondesse più insidie effettive di quante sembrassero, non solo la leggerezza dell'acqua, la presenza di strani pesci che non avevano mai visto, ma anche altri animali. Parevano grossi insetti che vivevano nelle acque o saltuariamente sulla nervatura, camminavano su un lato, avevano una polpa estremamente saporita, ma una corazza portentosa di sfumature dal tenue arancio al rosso bruno, non si erano mai impegnati a trovarli un nome. La verità era che se la Legione meridionale si occupava di indagare la strana natura dei giganti; quella di oriente di raccogliere il sale dalla miniera –; di quella di occidente di fatti nessuno aveva capito lo scopo – quella – ; quella settentrionale sembrava gravitare intorno a quella massa d'acqua.
I giganti sembravano incapaci di attraversarla mentre Erik si era incaponito di poterlo fare, non l'aveva mai detto a Lottie chiaramente, ne lei lo aveva mai chiesto, ma sapeva che il suo capitano osava pensare cose assai più ardite di quelle che diceva.
Però di fatti, nonostante le imbarcazioni preparate alla buona non erano mai riusciti ad abbandonare in toto la costa, ricacciati indietro dai venti e dalle onde avverse, quello forse era stato il motivo per cui si era dovuto ricorrere a qualcosa di diverso.

 

“Riguardo a Wolfang invece dovrebbe continuare a prendere rimedi di melissa” l'aveva distratta invece il dottor Meier, ammiccando ad uno degli altri uomini che occupavano il letto, pallido in viso e dormiente, non sembrava mal messo, ma Lottie preferiva affidarsi al parere del dottore.
Non che lei pensasse che un indigestione di funghi potesse davvero recare danni ad un uomo del Nord. “E Fischer?” aveva chiesto invece lei, avvicinandosi all'ultimo letto, dove a tutti gli effetti il dottore era operato.
“Se non si muove ...” aveva risposto il ragazzo dal crine scuro, mentre posava lo sguardo su una delle gambe del ragazzo a letto, quella che non era coperta dalle lenzuola, dal ginocchio in giù delle stecche di legno erano state fissate con spago e fil di ferro, garze strettissime avvolgevano l'arto. Mentre erano fuori, Lottie aveva potuto vedere le ossa dello stinco spezzate ed aperte all'area esterna.
Fischer aveva riso, ma si era dovuto tenere il ventre per il dolore, lei aveva potuto riconoscere che nelle parole del dottore ci fosse stato un tono di una certa predica, sottile e ben nascosta, già che di fatti Fischer fosse un suo superiore. “Va bene, Fritz” aveva concesso l'uomo ferito, con un sorriso sornione sulle labbra, “Sono serio, Leon” aveva ripreso il dottore, non c'era più quella predica bonaria nella voce, ma un tono serio, sebbene carico di una certa confidenzialità, erano ambe due della divisione di Nedlay – non che questo ormai avesse più importanza - “Se non stai cautamente fermo la gamba non si riprenderà mai bene” aveva raccomandato il dottor Meier.
“Tanto senza un cavallo, zoppo o meno da un gigante non scappo” era stata la pratica risposta di Leon Fischer, passandosi le dita affusolate tra i capelli bronzei. “Ora lasciatemi sono stanco” aveva commentato il malato, affondando di nuovo il capo sul cuscino, chiudendosi il viso tra le mani, “È giorno, raggio di sole” lo aveva preso in giro Engel, “Se non volete che lo dica a Garlef, smettetela” aveva rimbeccato Leon, girando il capo nel tentativo di nascondere anche il viso nel cuscino. “Che uomo a nasconderti sotto la gonna del capitano Jürgen” aveva gracchiato Engle, fornendo a Lottie la bizzarra visione del suo amico Garlef, che conosceva dai tempi dell'accademia, con indosso uno degli abiti merlettati di sua moglie Lilla – in particolare quello rosso dai ghirigori neri, che le era stato prestato per la cerimonia di Dot Pixis.
Fritz aveva lanciato uno sguardo verso il suo amico, gli occhi azzurri avevano una vena di serietà in aspettata, “Lasciamoli riposare” aveva concordato, posando le mani sulla fronte di Leon, prima di spostarla dopo qualche minuto.
“Ho la febbre?” aveva chiesto quest'ultimo, aprendo un occhio, erano verdi come olive mature, “Riposati, e per la grazie delle mura, non muoverti” aveva impartito Fritz, prima di allontanarsi.

Lottie aveva lasciato l'infermeria con lui ed Engle, che invece non sembrava avere alcun problema evidente al suo braccio, “Mi serviranno delle erbe per abbassargli la febbre” aveva commentato Fritz guardandola, gli occhi del ragazzo erano grandi, limpidi, di un azzurro chiaro come un cielo sereno, che gli davano un'aria forse fanciullesca.
“Comunque c'è da chiedersi perché sta mani, il caro Leon, avesse le garze allentante” aveva detto con una certa malizia Frederick Engel, attirando il loro sguardo.

Il viso di Fritz si era per un momento impomatato di un rosso brillante, “Sicuramente il dolore gli ha agitato il sonno” aveva aggiunto poi il dottore con un certo imbarazzo, grattandosi con la mano il retro della nuca, tra i riccioli morbidi.
“Dottore, viene con me?” aveva domandato Lottie, fermando qualsiasi costa stupida Engel avesse intenzione di dire, anticipando la domanda, al che il giovane si era congedato dall'amico con qualche famigliare convenevole, lei invece aveva ignorato il commilitone a pie pari.

 

“Quali erbe ti servono?” aveva chiesto quando avevano raggiunto l'esterno del casolare, dall'ingresso era possibile vedere la porta di Briemer, raggiungibile da lì a piedi, aveva tutta l'intenzione di andarci per trascorre la giornata libera che le era stata concessa. “Valeriana, elleboro, eucalipto ...” aveva cominciato il Fritz, prima di cominciare a tastarsi il corpo, anche lui non indossava l'uniforme standard, ma aveva pantaloni morbidi, una camicia crema ed un gilet marrone, nella tasca di quest'ultimo aveva tirato fuori un foglietto di una carta gialla, “Mi ero già fatto una lista” le aveva illustrato, con un sorriso luminoso.
Lottie aveva preso il foglio ripiegato con un movimento cauto, quasi cercasse di accarezzare una bestia feroce e non s'era saputa dare una motivazione precisa neanche lei, “Vuole accompagnarmi a fare quattro passi, dottor Meier?” aveva chiesto lei con un tono forse più mellifluo di quanto avrebbe dovuto.
Fritz aveva schiuso le labbra per un momento, poi aveva annuito, non si poteva dire fosse imbarazzo quello che colorava il suo viso, ma di certo il giovane non sembrava navigare nella sicurezza. “Comunque puoi chiamarmi Fritz, il dottor Meier è mio padre” aveva sputato fuori lui mentre prendevano il sentiero che andava nella direzione opposta rispetto Briemer, quello che passava per Hanneke, un villaggio minuscolo per lo più composto da fattori, veterani in pensione e famiglie dei legionari, non vi era neanche un vero e proprio commercio.
“Potrei chiamarti Sergente Meier, non è il tuo grado?” aveva risposto Lottie, mentre poteva vedersi lo stupore dipingersi sul viso del suo interlocutore.
La verità era che lei non aveva la minima idea di quanto fosse bravo il Dottor Meier padre, rispetto il figlio, quindi non riusciva neanche a poterlo immaginare un complesso di inferiorità verso il proprio parentado, lei che in parte si poteva dire che non ne aveva avuto uno per molto tempo, ma il dottore che le si figurava davanti aveva il suo perché, nervi saldi ed una tecnica impeccabile. Aveva salvato la gamba di Leon, lì dove il precedente medico – pace all'anima sua – avrebbe amputato senza porsi domande, Fritz Meier che aveva salvato l'insalvabile; la verità era che non conosceva le ragioni per cui Levi lo aveva raccomandato con tanta insistenza, ma aveva avuto ragione era bravo.
“Il nord è inospitale, si dice che rifiuti gli uomini” aveva cominciato Lottie, il motto diceva in verità altro, solamente che Fritz veniva dal sud e forse non lo avrebbe capito a pieno – o meglio se ne sarebbe sentito offeso, probabilmente - “Rende in ospitabile la vita agli uomini, per esempio la strada principale per Nedlay frana un giorno si e l'altro pure. L'unica altra strada passa per Gersenshinka e l'inverno è impraticabile per neve. Alla fine di febbraio il fiume che divide le regioni meridionali dalle occidentali è esondato, ha travolto due villaggi e completamente cancellato una strada, siamo rimasti completamente tagliati fuori, già che è impossibile arrivare da oriente” aveva fatto un momento di pausa, chiedendosi se fossero riusciti a sistemare la Via del Sale, che partiva da Pereta, toccava Shingashina, Renin e giungeva per ultimo a Briemer, non riuscendo a valicare i monti però non riusciva a chiudere il cerchio ed era dunque percorribile solo in quel verso. E loro erano tagliati fuori dall'unica linea commerciale del territorio di Maria, non andava bene.
“Uno dei motivi per cui il Comandante Smith ha voluto ridistribuire i soldati” era stato il commento di Fritz, fin troppo tronfio, fin troppo fedele al sud, lui che già chiamava Erwin Smith comandante prima ancora che il seggio di Shadis si raffreddasse. Non era comunque un mistero, per tutto il tempo che era stato a Briemer, e fuori, il dottore non aveva fatto altro che riferire quanto volesse lasciare di fretta il nord per raggiungere il sud, voleva essere stanziato a Trost ed un motivo ricorrente di scherno tra i suoi commilitoni pareva che ogni volta che chiedesse un trasferimento finisse sempre più a nord.
“Consolati” gli aveva detto Garlef Jürgen con una certa cattiveria, “Più a nord di Briemer non c'è nulla” quando avevano trovato rifugio nella città sospesa.
Presto non sarebbe più stato così.
“Io ed Erik abbiamo convenuto di chieder al Comandante Erwin Smith di trasferiti permanentemente nel nostro nucleo, assieme ai rapporti, il capitano Schimdt riporterà anche tale richiesta” Lottie era stata pragmatica e decisa, si era sforzata di guardare l'entroterra e non il giovane, ma con la coda dell'occhio aveva potuto vedere prima lo stupore manifestarsi in quei grossi occhi da fanciullo, poi il viso s'era temprato di rabbia, poi delusione ed in parte tradimento.
“Perchè?” il tono era apparentemente calmo, ma sarebbe stato da stupidi non cogliere tutto il risentimento che lo adornava, che ribolliva sotto come in una pentola a pressione. “Perchè sei bravo ed i dottori bravi servono anche a nord” era stata la sua lapidaria risposta.
Era stata certa quel giorno che Firtz Meier l'avrebbe odiata da lì alla fine delle loro vite.

Ma poi il mondo aveva fatto il suo corso.

 

Il primo urlo non aveva avuto un origine che Lottie aveva potuto identificare, non erano stati neanche vere e proprie parole, quanto in realtà un'imprecisa e confusionaria cacofonia di suoni, che sembrava essersi dilagata a macchia per l'intera zona.

Charlotte aveva dovuto sforzare gli occhi per capire da che lato arrivasse, non trovando però molta fortuna. Poi valicare le poche colline a sudovest rispetto ad Hanneke aveva potuto vedere solitarie figure sfrecciare, discendere dalle vallate: persone, attraversavano senza vergogna alcuna di rovinare i campi coltivati, con l'unica possibile direzione della porta di Briemer.
Fritz aveva crucciato le sopracciglia: “Ma cosa succede?” aveva chiesto a lei, un filo di nervoso era udibile nella sua voce, nonostante egli si sforzasse di restare calmo, ma sembrava che privo d'una ferita sanguinante sotto gli occhi, la sua compostezza fosse meno solida. “Non ne ho idea” aveva risposto lei con pochezza; doveva ammetter di provare in quel momento una paura atavica, guidata forse della confusione e l'ignoranza, per un breve momento si era sentita spaesata come quando per la prima volta aveva valicato la porta esterna per vedere il mondo fuori.
Dalle case di legno e mattoncini di Hanneke i contadini si erano fatto improvvisamente vispi, gli animali nei recinti brucavano in pace, non turbati dagli schiamazzi. L'intero villaggio s'era riversato all'esterno, non accingendosi però a correre come gli altri conterranei, un brusio di voci s'era sparso, tutti si chiedevano le medesime cose: “Che è accaduto?”
Perchè sarebbe stato ingenuo pensare che nulla potesse essere successo a scuotere gli animi dei villaggi limitrofi.
“Lukas!” aveva chiamato Lottie allontanandosi, senza curarsi di chiamar il dottore a seguirla, non che questo non l'avesse fatto di sua iniziativa. Lukas era un uomo anziano, il viso farinoso, contornato di flaccida pelle sotto il viso ed occhi stanchi, lucidi e screziati di rosso, indossava sempre un buffo copricapo giallo che il tempo aveva rovinato; Lottie lo conosceva perché era solito l'uomo era solito scambiare il suo grano con il loro latte. “Caporale” aveva detto questo, la sua voce era un filo, per di più sembrava avesse la bocca impastata di saliva e la lingua tremolante, “Lukas, tu sai qualcosa?” aveva chiesto lei, prendendolo per le mani. Quello aveva scosso il capo, gli occhi liquidi bassi sull'erba verde, mentre con movimenti decisi era costretto a negare di avere conoscenza. Lottie aveva sciolto la presa da lui, prima di mettersi a corre; aveva afferrato con forza i lembi della gonna bruna per tirarla in su ed evitare che l'orlo lungo la facesse inciampare, maledicendo che giusto poche ore prima avesse deciso in favore di quell'abbigliamento che dell'uniforme.

 

Aveva preso svelta la via dei campi, “Caporale! Caporale! Charlotte!” la voce di Fritz era appena udibile nel mezzo di quella cacofonia, lei s'era voltata appena, per guardare il viso un livido del giovane che come lei aveva intrapreso la via dei campi, entrambi incuranti di calpestare e rovinare la semina che doveva esserci appena stata. “Si muova, Fritz!” urlò lei, riprendendo la sua corsa, proprio mentre alcuni dei pastori, che forse erano di Hanneke o di qualche altro villaggio, ed i giovani mandriani attraversavano perpendicolari loro il territorio, diretto alla città fortificata.
Nessuno di loro era ritornato con il bestiame con cui all'alba probabilmente s'era allontanato, non che quello potesse essere d'alcuna importanza. Lottie aveva afferrato un giovane, dal viso spauracchio, pallido e lentigginoso, occhi gonfi di lacrime, un bambino, non più grande forse delle reclute che era abituata a vedere, un uomo forse di fatto, che in quel momento sembrava nulla più di un infante. Tremava come una foglia scossa dal vento, “Mi lasci, signora!” aveva detto cercando di divincolarsi, ma aveva braccia sottili che non riuscivano a sottrarsi alla presa di Lottie; la camicia del giovane era rovinata, macchiata e strappata, come di continue cadute che non avevano fermato comunque la sua avanzata. “Calmati!” impartì e la sua voce forse non era sembrata troppo autoritaria, ma perché non aveva avuto presa sul giovane che aveva ancora cercato di svicolarsi, tentando anche malamente di colpirla – fallendo miseramente – mentre lacrime e gemiti di pianto si erano fatti strada.

“Io sono Fritz e lei è Charlotte” aveva detto il dottore, cogliendola di sorpresa, perché non si era accorta del fatto che lui le si fosse accostato, “Siamo membri della Legione esplorativa” aveva aggiunto, il suo tono non era rude, anzi era forse fin troppo morbido, ma quelle parole sembravano sul giovane aver avuto un effetto palliativo.
O per le mura, grazie! Siete della Legione! O santissime mura grazie” aveva piagnucolato quello, il suo tono sembrava quello di un angosciato, ma aveva arrestato il suo divincolarsi per scendere sulle ginocchia nel terreno, le lacrime s'erano fatte più ingombranti, ma i suoi occhi sembravano brillare di una rinnovata speranza. “Ragazzo, cosa è avvenuto?” aveva allora chiesto Lottie, cercando di usare un tono che fosse più cortese ed accomodante di quanto avesse fatto fino a quel momento, il giovane l'aveva guardata nel viso, mentre attorno a loro la corsa folle non sembrava arrestarsi, gente che spingeva e spintonava altri, anche Hanneke s'era lasciata impadronirsi di quella follia.
La risposta, oh quella, Lottie era certa mai l'avrebbe dimenticata.
I giganti sono nel Muro Maria!

 































 

 

 

N.B.

No, io sono lenta negli aggiornamenti, mi dispiace, mi dispiace proprio. Ringrazio chiunque abbia letto, messo nelle seguite e Chemical Lady (e per aver betato, di nuovo) e Lechatvert per aver recensito <3.
Ed inoltre vi chiedo scusa perché A) Questa storia avrà un numero imbarazzante di OC – ma, ei, faranno quasi tutti una fine orribile e B) Non hanno ancora lasciato la città – e non lo faranno per molto.
Ed ho cercato un po' di descrivere come è la vitta di Briemer in un giorno bello e tranquillo all'incirca. Riguardo al pezzo iniziale, spesso ci saranno momenti in Prolessi rispetto la parte narrata, ma non sempre, spesso ci saranno capitoli di analessi (Per esempio sull'ultima missione e la questione del Lago Salato) di avvenimenti – come Levi a Briemer – o delle vite dei personaggi. Qui la vita di Lottie non è trattata neanche per sommi capi, ma giusto un po' accennata.
Si il narratore del secondo pezzo del prologo era Fritz Meier, che ricordo essere una comparsa (piuttosto fitta nella storia di Chemical Lady che trovate QUI, dove in realtà compaiono anche Erik, Lottie e Garlef – anche se lui è senza nome – sono anche sue le disposizioni di Erwin a cui fa riferimento Lottie)
E si c'è un capitano che si chiama Rottermaier, dovete capire che era una citazione che non potevo evitare LoL

Grazie per aver letto,
RLanD

Ps – Il titolo vuol dire Prima di Mezzogiorno, in questo caso il Mezzogiorno rappresenterebbe il “Cambiamento del mondo”, quindi posso anticiparvi che il prossimo capitolo, probabilmente, con molta originalità si chiamerà Post Meridiam.

 

 

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Capitolo 3
*** Post Meridiem ***


Se volete una colonna sonora qui

 


 

 

 


M O R I T V R I   T E    S A L V T A N T

 

 

 

P O S T   M E R I D I E M


 

 

La madre di Ludwing era morta quando lui aveva dieci anni.
Se la ricordava come una donna pallida, dalle spalle sempre basse e che non sorrideva molto.
Suo padre era morto quando aveva quattordici anni.
Se la dipartita di sua madre aveva sconvolto il suo piccolo – piccolissimo – mondo, quella di suo padre aveva capovolto il suo futuro.
Aveva sempre aspirato, fino a quel momento, alle Ali. Come suo padre.
Eppure al suo funerale c'erano stati solo legionari e lui. Nessun membro della famiglia di suo padre era venuto – il suo vecchio gli aveva raccontato che mai avevano preso di buon grado la sua scelta di arruolarsi. Riguardo la famiglia di sua madre lo stesso , non era venuto nessuno, ma Ludwing non doveva stupirsi perché aveva sempre saputo quanto poco unisse i suoi genitori e di preciso vi era un solo legame: lui.
Neanche il migliore amico di suo padre era venuto. Andrej Sankov era stato uno dei più cari amici del suo vecchio, e Ludwing aveva sempre ricordato con una certa affettività almeno fino a quel momento, ma non era venuto a dare un saluto ad un compagno. Qualcuno, con un certo sprezzo negli occhi, gli aveva spiegato che dopo lo scandalo – di cui rigorosamente nessuno parlava – non poteva tornare al nord , grazie alle Dee. Lui non l'aveva capito, aveva solo visto l'assenza di uomo al funerale di suo padre. Quando era tornato a Nedlay, all'accademia, gli aveva scritto una lunga lettera di disprezzo, da far recapitare al sud dove si era nascosto.
Questo comunque non lo aveva fatto stare meglio e non aveva reso suo padre meno morto.
Secondo il capitano Kaiser, suo padre era stato uno dei fortunati, principalmente perché ne avevano riportato qualcosa che somigliava spaventosamente ad un essere umano, anziché articolazioni e membra sparse.
Comunque, in quel tardo pomeriggio di settembre, con ancora indosso le spade incrociate del corpo delle reclute, Ludwing Schuster aveva deciso che non avrebbe mai preso le Ali.
In verità aveva deciso che non sarebbe mai morto giovane, pianto giusto da un figlio – se avesse mai avuto il tempo di farlo – e qualche suo compagno.
Oh, lui voleva vivere, una esistenza vera, una famiglia … una vita.
Ma nulla aveva più importanza, il suono della campana era l'unico rumore che riuscisse a sentire in quel mondo.
Rintocchi precisi e continui, che non smettevano mai; nonostante la Legione avesse detto fosse il caso di smetterla, la campane avrebbe attirato presto i giganti, nonostante ciò essa suonava ancora.

Il Muro Maria era stato penetrato e le sue terre perse. E loro erano in un appezzamento di terra, dietro mura di cinquanta metri, nelle terre dei Giganti, da ogni lato.
 

“Che dobbiamo fare, Capo Squadra Schuster?” aveva chiesto il soldato semplice Brhol facendolo distrarre da suoi pensieri. Quella era la prima volta che Ludwing guardava con così tanta ansia le terre interne dalla cima del muro. “Cerchiamo di capire come sopravvivere, raduna gli altri che andiamo al Quartier Generale” aveva detto lui cercando di ostentare una sicurezza che mai fino a quel momento aveva sentito farsi cera molle tra le sue mani. Brhol aveva annuito, smilzo e con i capelli di un rosso bruno, come la corteccia dei castagni, tagliati in una scodella che arrivava sopra le orecchie.
“Quindi non è il momento adatto per dirle che abbiamo perso il Privato Zimmerman?” aveva chiesto Aliena, passandosi le mani sulle braccia, accarezzandosi lo stemma sui lati dove c'erano ricamate le Rose, “Weiß, raduna il resto della squadra, Brhol ...” Ludwing aveva arrestato il suo ordine per per vedere gli occhi chiari del soldato con cui stava parlando in quel momento farsi vacui.
Quanti anni aveva? Quindici? Sedici? Odorava ancora di latte ed aveva la paura impressa su viso, tremolava ogni volta che dal muro guardava in giù aspettandosi vedere i giganti pronti a mangiarlo, “Va con loro” aveva concesso alla fine, “Vi raggiungo” aveva aggiunto, prima di lanciare uno sguardo verso Aliena, “Weiß, sarai i miei occhi” aveva stabilito e la ragazza aveva battuto il pugno chiuso sul petto come segno della propria fedeltà a quel ruolo.

 

Ludwing sapeva che in quel momento avrebbe potuto tollerare molte cose, ma non le insubordinazioni e le testa calde. Poteva capire lo stato di panico che albergava in ognuno di loro, soldati e civili; lo avevano scoperto dopo, ben cinque giorni da che i giganti erano penetrati nel muro.
Però se avessero permesso al panico di dominarli, si sarebbe scatenato presto il panico ovunque, Breimer sarebbe diventata un'anfora di serpenti e i giganti sarebbero stati l'ultimo dei loro problemi.
Il Privato Zimmermann aveva dalla sua comunque che, nonostante fosse una testa calda, come sempre le ricordava il Capitano Pfeiffer, delle quali se ne vedevano poche. “E giusto ad un mollaccione come te, doveva capitare” poteva ancora sentire nella sua testa la voce sempre di biasimo del capitano.

Perchè poi lo odiasse tanto, Schuster non lo aveva mai capito.

Zimmer non era neanche metodica nelle cose che faceva, ma bastava aver grattato un po' la superficie per capire quando e dove trovarla. Quel giorno, come Ludwing immaginava sarebbero stati un po' tutti quelli a venire, era diverso però. L'aveva trovata nella piazza principale della città ed era stato difficile scovarla, troppo minuta tra quella marmaglia di persone radunate, il colore chiaro della divisa risaltava poco, come il pagliericcio dei capelli biondi, tratto comune lì a di Briemer.

L'aveva trovata come sempre con le spalle tese, in un eterno chi-va-là, le Rose cucite sulla schiena come uno stendardo, il quale non sembrava in quel momento motivo d'orgoglio. Il crine indisciplinato e spettinato che sembrava sempre troppo pesante e sovrabbondante sul suo corpo di spillo. “Privato!” aveva esclamato, forse con troppa poca autorità posando una mano sulla spalla della ragazzina, la quale aveva ossa sottili e piccole. Una mano sola di Schuster avrebbe potuto chiuderle interamente il viso.
Come ogni volta che veniva toccata o anche solo sfiorata, il privato Zimmermann si era ritratta come ustionata, ma quando aveva riconosciuto i suoi tratti, quegli occhi da volpe predata avevano riacquisto la sua consueta audacia. “È così che fai la guardia al Muro?” aveva chiesto l'uomo certa rigidità, gli occhi ridotti a fessure ed un voluto rimprovero nella voce, che aveva svolazzato nella testa vuota di Zimmermann come se nulla fosse stato. “ È che ho creduto, Caposquadra Schuster, fosse molto più produttivo ascoltare loro” aveva risposto con l'innocenza di una bimba la soldatessa, indicando con le mani piccole al centro della piazza, dove di fatti qualcuno stava attirando l'attenzione.
Aveva scorto Winkler tra la folla, nel centro dello spiazzo, la barba rada sulle guance e l'espressione di pietra, come se l'idea che fossero circondati da giganti non lo turbasse più di una nevicata di inizio settembre.
La voce che parlava alla gente però non era la sua, ma femminile e dura, di chi non doveva essere interrotta, precisa. “Lottie” aveva commentato Ludwing più a se stesso che al Privato, non riusciva a vederla nascosta dalla folla, ma poteva immaginarla bene ferrea fare quel discorso.
“Non verranno a prenderci, dobbiamo raggiungere Nedlay e il Muro Rose con le nostre forze”

Su questo aveva ragione, nessuno sarebbe venuto a prenderli. “Se continuiamo ad aspettare non potremmo più andare via” aveva sentito Lottie berciare, mentre lui ordinava al suo soldato di seguirlo.

Era stato dato ordine però che tutte le porte fossero chiuse e l'ordine veniva dal Governatore in persona. Quello sarebbe stato un bel problema.

“Che ne pensa, Caposquadra?” aveva chiesto Zimmermann, mentre si allontanavano dalla piazza principale, il sorriso sornione di chi avrebbe potuto farsi grasse risate anche in faccia alla morte. Che ossimoro vivente era quella ragazzina, Ludwig proprio non riusciva a comprendere che colpa avesse mai compiuto per meritarsela in squadra.

 

Al quartier generale della Guarnigione continuava a regnare il caos, da quando si era saputo dai fattori locali che i Giganti avevano preso Shigashina. La fine del mondo si era fatta inaspettatamente vicina. Aveva ritrovato la sua squadra ammassata in un angolo, quattro ragazzini con i denti da latte e la spiovente paura tatuata sul viso. Aliena era corsa immediatamente verso di lui, tremolava un po', ma era l'unica che sembrava volersi imporre una certa freddezza. “Tutti gli ufficiali si sono riuniti nell'ufficio del Capitano Pfeiffer” aveva detto lei.
Lui aveva annuito ed aveva preso le scale per raggiungere il secondo piano senza neanche curarsi di ringraziarla.
Alla porta due soldati semplici lo avevano fatto entrare nell'ufficio, i loro visi erano la pallida imitazione di una calma stridente.
“Credevo ti fossi perso, Schuester, come in ogni grande occasione” lo aveva pungolato il capitano Otto Sprotte quando lo aveva visto, con quel suo sorriso sornione; i capelli chiari e gli occhi di un verde sinistro. Una cicatrice rossastra tagliava il naso e parte delle guance in una linea orizzontale.
A parte quel commento lezioso, che era venuto da quello anni era stato suo amico, nessuno sembrava essersi curato di lui ed il discorso tenuto all'interno della sala era continuato senza menomazioni, quasi la sua presenza – o meglio la sua assenza – non contassero nulla.

“Che sta succedendo?” aveva chiesto a Otto con un tono di voce piuttosto basso, cercando di non farsi sentire dal Capitano Pfieffer, “La Legione ha deciso di essere una spina nel culo della Guarnigione, peggio del solito” aveva risposto a denti stretti Otto, con il viso crucciato anche la cicatrice si era riempita di grinze.
Che tra la Legione di Hanneke e la Guarnigione di Briemer non vi fosse mai corso buon sangue era risaputo, anche se esagerando, tra i due corpi c'era una certa rivalità che Ludwing aveva sempre assorbito in maniera buffonesco, a differenza di Otto.
La cosa era nata forse per causa di quel decimo posto, durante gli anni dell'addestramento, che non gli era stato – a suo dire – rubato da chi lo aveva sprecato per qualcosa di inutile come la Legione ed era solo peggiorata dopo Levi il cane sciolto del Sud. Schuster non aveva avuto modo di incontrarlo quell'uomo di Trost, né gli era importato poi molto di farlo, anche se in verità avrebbe dovuto avere più ragioni di Otto Sprotte per risentirsene.
Di fatto era stato per un suo subordinato che la questione aveva avuto principio.
Si era però subito reso conto che quello non era la circostanza adatta per di rivangare memorie che non sarebbero mai tornate.

“Il Governatore vuole che restiamo a proteggere la città, mentre aspettiamo l'arrivo di soccorsi” aveva ripreso il capitano Pfeiffer. Aveva un tono piuttosto calmo, lui stesso sembrava essere immune alla frenesia che impazzava in ogni soldato per nulla volenteroso di stare lì ad aspettare aiuti, i quali sarebbero potuti arrivare oppure no.
Briemer era difficile da raggiungere e se, come al solito, la strada principale avesse avuto una frana, nessuno sarebbe venuto.
Era più lecito dire che il Governatore stesse aspettando la riconquista delle terre, il che forse non era ingenuo, ma Ludwing che nonostante avesse deciso di rinunciare alla Legione, provava per loro un rispetto reverenziale, lo sapeva quanto fossero difficili in verità le cose. Ricordava i racconti di suo padre e ricordava il suo corpo martoriato, per credere che potesse essere semplice.
“Ma la Legione non ci sta aiutando” aveva ripreso il capitano.
A Pfeiffer, a cui tutti facevano capo lì al nord nonostante non fosse stato nominato da nessuno con il grado di Capitano Generale. Differentemente da come era accaduto a Nedlay, e nelle città fortificate del Muro Rose, lo avevano eletto loro, la Guarnigione di Briemer, a quel ruolo.
Certamente non Ludwing, provava per il capitano la stessa antipatia che quello provava per lui.

“Direi che loro stanno più fomentando la gente” aveva sentito il bisogno di intervenire Otto con quel suo temperamento sempre infuocato, che non si curava di nulla e nessuno. E così anziché di parlare di come fare per sopravvivere mentre aspettavo – le Mura solo sapevano cosa – si era finito in un torbido discorso sulla Legione che voleva scatenare il caos e minare la loro autorità.
Si era deciso per la chiusura delle porte e loro volevano aprirle.
Il vociare si era concluso quando la porta era stata aperta, Schuster si era spostato per far spazio alla figura che si era palesata. La verità era che si era davvero aspettato di tutto, tranne il Governatore.
Già che quel vecchio lascivo non lasciava mai la sua casa, nel lusso e nella bambagia, ma forse doveva arrendersi Ludwing alla consapevolezza che situazioni straordinarie volevano misure straordinarie.

 

Aveva una spetto arcigno, con la pelle farinosa completamente distesa sulle ossa, che dava l'idea che il suo stesso viso fosse un teschio, aveva lineamenti affilati ed appuntiti, come se qualcuno avesse dimenticato di smussarli. I capelli erano grigi come la cenere, portati indietro con un attaccatura rada e molto alta.
L'unica cosa che sembrava stonare in una figura così piccola ed appuntita era il grosso naso che l'uomo aveva. Nonostante tutto di lui sembrava strillate fragilità, idea che sempre Ludwing associava ad un anziano, il vegliardo aveva sempre sul viso un ghigno raccapricciante. E sempre il Governatore dava l'idea di un distacco e di una osticità rispetto il resto delle persone. Aveva degli occhi piccoli di un colore nocciola così sbiadito, da sembrare fulvi.
Uno sguardo che non sembravano mai distrarsi.
Al suo fianco stavano due uomini alti, avevano lunghe giacche nere gemelle, sopra le camice bianche e non appartenevano a nessun ordine militare, ma questo probabilmente non li rendeva meno pericolosi.

“Oh, prego Capitano Pfeiffer, continui” aveva detto il Governatore con la sua voce liquida ed un ghigno sul viso, quasi non si curasse del pericolo vero che aleggiava in quella stanza, in tutta la città a dire il vero. Ludwing aveva sempre ritenuto fosse il problema dei nobili, non rendersi conto di quanto una situazione fosse disperata, così convinti di avere la benedizione delle Mura, che fossero nati per dominare e niente, giganti compresi, avrebbe potuto rovinare ciò.

Il Capitano della Guarnigione di Briemer aveva schiuso per un momento le labbra della bocca incredibilmente larga, tormentata da una peluria sottile, che percorreva anche le guance, dando l'idea di un ombra sul viso. “La Legione è un problema” era riuscito a riprendere il filo del discorso Pfeiffer, gli occhi scuri come l'inchiostro avevano bruciato tutti i capo squadra all'interno della stanza per non ricominciare a fare brusio. “Allora arrestiamoli” aveva commentato il Governatore occupando una sedia che una donna gli aveva ceduto, con un certo disagio.
Tutti gli occhi ora erano sul vecchio, che aveva intrecciato le dita sul basso ventre e s'era leccato le labbra, “Li arrestiamo?” aveva chiesto una persona che non era poi molto lontano da Ludwing.

“Sì” aveva berciato Otto, che sembrava davvero intrigato dalla cosa, poteva vederlo chiaramente nei suoi occhi verdi un'ombra d'ambizione fin troppo nociva. “Come se riuscissimo a farlo” il commento di Ludwing sebbene ponderato era stato comunque troppo basso perché potesse essere udito. Se anche buona parte dei legionari non era stata parte dei migliori negli anni dell'addestramento,sarebbe stato quanto mai stupido illudersi che gli stazionari potessero a tutti gli effetti battere in combattimento gente preparata a combattere dei fottuti giganti.
Aggiunto al clima di tensione che albergava nella città, tutto si sarebbe risolto in un bagno di sangue.
Inoltre, se davvero erano una rocca nella terra dei giganti, la Legione doveva rimanere con loro, perché lui di come si uccideva un gigante non ne aveva la minima conoscenza.
Le sue parole erano state come il vento, nessuno ci aveva badato ed erano andati avanti come se lui avesse taciuto.
“State tutti calmi” aveva urlato il capitano Pfeiffer richiamando l'attenzione, Ludwing era certo di non averlo mai visto in tutta la sua vita così scialbo in tutta la sua vita, aveva aloni rame sulle guance spruzzati di grigio, di chi non doveva aver visto il rasoio di recente e occhiaie profonde, scavate sotto gli occhi neri. Doveva essere davvero impossibile gestire tutto, la città, i giganti e tutti che s'appellavano a lui.
“Non mi sembra ci sia molto da discutere, Thorben” aveva ripreso il Governatore con il suo tono agghiacciante, guardando con i suoi occhi piccoli cattivi verso il capitano Pfeiffer, che sembrava aver riacquisto tutta la sua compostezza nel sentirsi appellare con il proprio nome anziché con il titolo formale. Quasi il Governatore avesse ristabilito con quelle parole l'ordine prestabilito delle cose.

Ludwing aveva alzato una mano per attirare l'attenzione, Pfeiffer lo aveva ignorato a pie pari, tornando a guardare il Governatore; “Rischieremmo di scatenare il caos” aveva commentato il capitano, passandosi le dita attorno al mento.“Una misura cautelare fino a ché non arriveranno i soccorsi” aveva constato il Governatore, il suo tono era stranamente serafico, come se fosse tutto tranquillo, come se non fossero improvvisamente precipitati nelle fauci della morte. “Sono loro i nostri soccorsi” aveva berciato Schuester, ma Otto gli aveva assestato una gomitata sul braccio per farlo stare zitto.
Otto Sprotte non era stupido, Ludwing lo conosceva da anni, solo che quando c'era la Legione di mezzo diveniva cieco ed irrazionale – forse perché non era entrato in Gendarmeria, per colpa di un legionario. “Non penserai davvero che sia un'idea intelligente?” aveva sussurrato ad Otto, che aveva limitato a schioccare le labbra, “Non possiamo permetterci un'insurrezione. Briemer deve restare unita” aveva sentenziato lui.
“Pensi verranno a prenderci?” aveva chiesto allora Ludwing, la verità era che l'idea che venissero per lui era una speranza profonda, qualcosa a cui appellarsi per non arrendersi, ma aveva già valutato fossero passati troppi giorni perché qualcuno effettivamente arrivasse.
E poi Briemer era ostica da raggiungere.
Ludwing non credeva sarebbero venuti e non pensava avrebbero potuto lasciare la città, forse la prigionia in cui il distretto del Nord era chiuso naturalmente avrebbe potuto portare una barriera naturale contro i giganti, forse avrebbero potuto restare arroccati …

Ma per quanto tempo?

 

Quando era uscito dalla riunione aveva trovato gli occhi da civetta di Aliena puntati su di lui, in cerca di una bussola, la voce si era già sparsa a macchia d'olio tra i soldati come una pandemia. Dal canto suo Ludwing poteva dire che ci avesse davvero provato ad evitare che si arrivasse a quello, che la Legione non era loro nemica.
Se volevano sopravvivere avevano bisogno di quelli che sapevano rimanere in vita condizioni ardue, uccidere i giganti e fare un uso saggio del gas, perché ne avevano una quantità tristemente limitata. Sapeva anche che con un po' di tempo avrebbero potuto anche organizzare un piano di sopravvivenza per il lasso di tempo in cui i territori fossero recuperati dagli uomini – se le Mura li avevano in gloria.
E se non fosse successo …
Il Capitano Thorben Pfeiffer aveva una sorta di intolleranza al suono della sua voce e le labbra piantonate sugli stivali del Governatore.
“Caposquadra, dobbiamo davvero arrestare la legione?” aveva chiesto Aliena con la voce un incerta, tutto di lei strillava confusione, Brhol le stava al fianco, con gli occhi piantonati sulle punte degli stivali, erano spellate e rovinate. “E come facciamo?” la domanda era venuta da un altro membro della sua squadra, era alto – meno di lui, però – con il petto ampio, le spalle larghe ed una costituzione già sviluppata per un ragazzino, eppure le sue dita tremolavano come fatte d'argilla molle. Schuester non voleva ammetterlo con così tanta leggerezza ma la verità era che la Legione era molto più capace di loro nei combattimenti, al massimo tra i cadetti poteva esserci battaglia, ma lui? Lui guardava un muro per mestiere e saltuariamente pattugliava per la città.
L'unica volta che aveva avuto un po' d'avventura era stato quando da recluta lo avevano mandato a fare i controlli per una porzione del muro ovest ed un gruppo di briganti aveva cercato di derubarli.
La voce di Zimmermann lo aveva svegliato da quell'inutile divagare, probabilmente il tempo dei freschi pensieri s'era esaurito, “Si?” aveva chiesto con un tono sottile guardando la ragazzina che aveva tossito per attirare la sua attenzione. Gli occhi volpini erano aperti verso di lui, “Dobbiamo arrestare anche il fratello del Capitano Sprotte?” aveva chiesto con un sorriso fin troppo disturbante sul viso.
Ludwig si era dovuto sforzare per fare mente locale. Otto aveva dei familiari che come lui militavano nell'esercito, ma nessuno dei due però era stanziato a Briemer. “È un legionario?” aveva chiesto solamente al Privato, la quale aveva annuito, “Di Nedlay, in licenza” aveva risposto quella prontamente.
Onestamente Schuester pensava che le truppe della seconda città del nord fossero rientrate da almeno una settimana – chi sa se fossero arrivati prima o dopo la notizia della perdita delle terre? – non credeva vi fosse ancora qualcuno, “Se è un legionario, si” aveva risposto poi pratico lui. “Weiß, hai il comando dell'unita, a breve il Capitano Pfeiffer darà le sue istruzioni” aveva aggiunto lui lapidario, osservando lo sguardo di Aliena farsi carico di confusione, assieme a quello di Brhol forse meglio abituato a quel ruolo.
Schuester aveva guardato il ragazzo in questione e gli aveva fatto un cenno del capo, che forse quest'ultimo non aveva compreso, aggrottando le sopracciglia, “Brohl, Zimermann, con me” aveva stabilito poi seccamente, cogliendo anche di sorpresa la ragazzina dai capelli pagliericcio, la quale aveva sollevato il suo viso animata di genuina curiosità.

 

 

La Legione aveva il proprio quartiere ad Hanneke e raramente soggiornava all'interno della città. Solitamente i pochi che sceglievano di farlo erano sistemati nel rione della Guarnigione, con estremo malcontenti di quegli ultimi. Comunque, estreme situazioni avevano preteso estremi rimedi – e con la presenza di tre infermi fra le loro righe, la Legione era riuscita a strappare una porzione di un edificio pubblico: il tribunale interno di Briemer.
Fritz aveva dovuto far predisporre delle brandine per i malati ed era stato totalmente catalizzato dalla ferita di Leon, timoroso che il viaggio in carretto avesse potuto fare più danno di prima.
I suoi timori si erano rivelati presto fondati, sebbene l'osso fosse rimasto dentro – e grazie a qualsiasi dio esistesse, non si era spostato – i punti erano saltati completamente, riaprendo completamente la ferita che aveva così strenuamente sistemato quando erano in missione e di cui aveva continuato a curarsi per quella settimana.
La causa per cui era rimasto lì.

Aveva dovuto slegare i fili di ferro e lo spago che tenevano ferme le assi di legno, rimuovere queste ultime, sfasciare le bende che s'erano insozzate di sangue e guardare quel brutto lavoro di macelleria che si estendeva da sotto la rotula di Leon. “Mi sa che dovrò restare fermò per più tempo, eh dottore?” lo aveva preso in giro quest'ultimo, mentre Fritz cercava di tirar via i resti del filo che non erano saltato da solo.
La sua fortuna era che aveva con se ancora aghi e materiale per suture, ma quello che nella sua bisaccia cominciava a scarseggiare era antibiotici e antidolorifici. Sperava il caporale Schwartz si decidesse a portarglieli. “Penso sia ammirevole la tua ironia” aveva ammesso Fritz, sforzandosi di essere sorridente, mentre con un panno imbevuto che Engel gli aveva appena passato aveva ripreso a pulire il sangue, il quale si era rappreso intorno ai bordi frastagliati della carne.
Avrebbe davvero voluto essere calmo come al solito, come quando si occupava di ricucire con prontezza la gente fuori, quando non c'era neanche un solo secondo da perdere, ma la verità era che, nonostante fosse un legionario, non riusciva proprio ad allontanare dalla sua mente quell'unico pensiero: lui non doveva essere lì.

“Si potrebbe dire che ho fiducia che Erwin Smith recuperi le terre perse” aveva ammesso con una sincera affermazione Leon, facendogli sollevare lo sguardo e quasi cadere la pezza dalle dita.
Nina.
Non ci aveva pensato.
Nina. Cosa stava facendo Nina in quel momento? Stava bene?

Non voleva che le ultime cose che le avesse detto fossero riportate in una lunga lettera in ci si lamentava del fatto che avrebbero dovuto raggiungere quel buco infernale di Briemer.
No, doveva stare calmo, Nina era brava. Si, forse non l'aveva mai vista in azione, ma lo aveva sentito dire da altri, lei poi gli riportava continuamente di quanti allenamenti facesse – ed erano con Levi, è lui era maledettamente bravo. Se qualcuno tra loro due era prossimo alla morte: quello era Fritz.
E no, non voleva che le ultime parole che le avessero detto riguardassero Briemer, categoricamente.
“Lo abbiamo perso” aveva commentato Engel notando forse i suoi occhi vacui. “Non vorrei che fosse perso nel momento in cui decide se avrò una gamba o meno” aveva risposto Leon e questa volta sembrava mortalmente serio. “Mi serve dell'alcool ed una fiamma, non ho tempo di bollire gli aghi” Fritz aveva deciso di ignorare a pie pari i due, limitandosi a dare quelle informazioni ad un ragazzino a caso che se ne stava in panciolle nell'infermeria improvvisata nel tribunale. Egli era scattato in piedi con un “Signor, si” che sembrava poco credibile anche alle orecchie di Fritz. “Non perderai la gamba, camminerai anche, ora … se smetti di muoverti potresti, anche correre” aveva stabilito il medico, sollevando lo sguardo alla ferita sullo stinco di Leon per guardare il viso del suo superiore che aveva annuito. Era esangue sul volto e Fritz poteva rendersi conto che nonostante tutta la calma che aveva mostrato fino a quel momento, essa fosse una bella recita.
 

“Mi dispiace” la voce di Leon, lo aveva distratto mentre faceva stappare della pessima grappa ad Engel, cercando di ignorare che il ragazzino – Miles o Miloh? Fritz non aveva capito bene – si fosse presentato lì con della birra insieme alla lampada ad olio.
Il suo amico era intervenuto dicendo che lo avrebbe trovato lui qualcosa per disinfettare ed acuire il dolore. Wolfang aveva chiesto la birra per sé, ma Fritz aveva ritenuto che un uomo che accusasse ancora i dolori di un indigestione dovesse riguardarsi.
Engel era tornato con la grappa e Fritz si era occupato di scaldare un ago usando la fiamma della lanterna, quando il suo superiore aveva parlato. Mi dispiace due parole pronunciate con un tono così lugubre dalla bocca di Leon Fischer, in mesi al nord non le aveva mai sentite, suonavano come una condanna a morte. “Come?” aveva chiesto Fritz allontanando appena gli occhi dalla fiamma che riscaldata il ferro, “Mi dispiace, siete rimasti bloccati qui per colpa mia” aveva ripetuto quello.
“Sono un dottore, lo avrei fatto comunque” aveva risposto Fritz senza neanche doverci riflettere. Il Capitano Jürgen gli aveva detto di ripartire, ma lui si era opposto, oltre Leon anche Wolfang e Adin stavano male – ed era comunque il caso di non forzare troppo Engel.

Inoltre per quanto Adin dovesse essere causa del suo male, la sua febbre era stata davvero cocente oltre che una lunga degenza, Fritz aveva dovuto tirare un po' fuori tutto il suo repertorio per farlo sfebbrare.
Era stata la prima volta che una febbre non causata da infezione gli avesse dato così tante grane; avevano ragione nel dire che il nemico principale degli uomini del Nord non fosse il pericolo dei giganti, ma il freddo.
“Ma poi quel cazzo di ragazzino dove l’ha trovata la birra? Volete farmi credere che in piena crisi i birrai di Briemer lavorano?” aveva chiesto Engel attirando la loro attenzione, il suo sembrava più un patetico modo per alleggerire l'atmosfera che sembrava essersi formata.
Fritz aveva disteso i muscoli delle spalle prima di chinarsi nuovamente sulla ferita di Leon per poterla fermare di novo, era forse l'unica cosa che al momento poteva fare, prima di essere un legionario era un medico, c’erano stati momenti in ci doveva ammettere che si era sentito quasi esclusivamente un dottore che un soldato.
Forse perché di principio era solo quello, aveva voluto essere come suo padre, come il suo fratellastro e come sua sorella che fin da bambina si era indottrinata in quella disciplina, ancor prima che lui imparasse a camminare. Fritz ricordava di aver imparato probabilmente a tagliare e cucire prima ancora di parlare; dietro il divano nella casa di suo padre quanti punti aveva dato, assieme a Nina.
“Comunque ha ragione Garlef, rammendi come una damina” lo aveva preso in giro Leon, con una smorfia sulle labbra, per cercare di trattenere le smorfie del dolore che palesava sul viso. Fritz si era ricordato di quando il suo capitano gli aveva detto di quella precisa frase quando erano nella città sospesa.
Non era passato neanche più di un mese eppure sembrava un'altra vita. “Che dobbiamo fare, Leon?” la voce di Engel, che si era seduto per terra vicino la brandina, aveva ripreso Fritz dal suo vagabondare mentale. Aveva guardato anche lui il viso del suo superiore, distogliendosi dall'opera di medicazione.
“Ce ne andiamo” era stata la risposta chiara di Fischer, prima di passare una mano sulla sua coscia. Indossava dei pantaloni morbidi, che Fritz aveva tagliato dall'orlo al ginocchio per poter lavorare bene. “Come ha detto il Caporale Schwarz” aveva aggiunto, mentre il dottore riprendeva a lavorare con il filo; “Fatto” aveva stabilito Fritz interrompendo quel discorso per un momento, ora doveva pulire via il sangue, fasciare e sistemare nuovamente le stecche.
E non voleva pensare a quello che gli aspettava.
Qualcuno aveva proposto di aspettare: gli aiuti potevano arrivare o si poteva pazientare una miracolosa chiusura della breccia. Come, poi c'era da chiedersi, era avvenuta tale disgrazia?
Ne avevano sentite parecchie di storie, da titani senza pelle che superavano le mura a stormi di giganti che ripetutamente si lanciavano sulla porta. Qualcuno aveva anche ipotizzato di un ariete fatto con il tronco di un albero gigante.
Lottie non si era data per vinta neanche un minuto, – donna dai nervi di pietra era stato il pensiero di Fritz – , appena avevano messo piede nel tribunale si era nascosta negli archivi ed era riuscita con una mezza dozzina di vecchie cartine impolverate. “Circa mille chilometri, mappati” aveva esclamato. Mentre l'umore generale dei soldati, dei civili, di chiunque, era di terrore, fiumi di lacrime e visi raschiati albergavano in ogni dove, illuminata dall'olio delle lampade gli occhi di Lottie erano tizzoni ardenti di speranza. “Siamo sopravvissuti fuori, possiamo farlo dentro” aveva esclamato.

 

Un giovane soldato era entrato con una certa fretta nella stanza, aveva l''uniforme sgualcita addosso, e si stava montando con nervosismo le cinghie. “Sal, che succede?” aveva chiesto Wolfang sollevandosi dalla sua brandina, aveva ancora il viso cereo, con occhiaie violacee sotto gli occhi calanti, “La Guarnigione ha deciso di arrestarci per ordine del Governatore, difesa cautelare” aveva risposto quello, prima di strillare a qualcuno di portargli il resto dell'attrezzatura del tutto pronto ad una battaglia.
“Ne sei certo, Sal?” aveva chiesto il ragazzo della birra sollevandosi dalla sedia in cui si era messo a vegetare, “Me lo ha detto Sirk, abbiamo fatto l'addestramento insieme” aveva risposto questi con certezza disarmante, mentre gli uomini all'interno della stanza avevano cominciato a sistemarsi.
“È un membro della Guarnigione? Il tuo amico?” aveva chiesto Leon, attirando l'attenzione del giovane soldato, “Si, privato Sirk Brhol” aveva risposto con una certa confusione l'uomo, prima di cominciare ad agganciarsi le custodie per le lame. Erano tutti prossimi ad uno scontro.
Leon aveva preso atto della notizia con uno sguardo spettrale, “Meier, Engel” aveva detto, il suo tono era stretto, tra i denti e Fritz aveva tremolato un poco, perché nonostante l'anzianità – ed il grado superiore – Leon Fischer non si era mai rivolto a loro con tutta quella formalità. “Si?” aveva chiesto Engel avvicinandosi a lui, “Andatevene” aveva stabilito quello cercando di mettersi in una posizione seduta, abbandonado quella supina, uno sforzo non da poco che Fritz aveva fermato premendogli le mani sulle spalle; aveva appena ricucito la gamba e non si era preoccupato di fermare con le stecche e le bende la frattura. “Che stai dicendo?” era riuscito a dire comunque, mentre Leon aveva afferrato il colletto della giacca di Engel, cercando di allargalo forse nel tentativo di fargli scendere la giacca. “Non siete stupidi” aveva cominciato Leon mentre abbandonava i propositi di sfilare lui i vestiti dell'altro, “Presto qui sarà un macello e tutta la Legione sarà borchiata e ricercata” aveva ripreso quello, “Il nord conta meno di trenta uomini” – si era fermato, i loro occhi erano andati su Adin che si era tolto la coperta di lana ed ancora sudato si faceva forza - “E probabilmente sono tutti noti alla Guarnigione. Noi tre siamo di Nedlay, forse conoscono me, ma sono comunque utile quanto una sella su un pesce, al momento” aveva ripreso quello.
Era davvero ammirevole quanto Leon riuscisse a sdrammatizzare le situazioni serie.


Adin si era alzato dalla branda per cadere per terra e Fritz era andato ad aiutarlo assieme ad un suo altro commilitone per farlo stendere nuovamente sulla brandina, “Non puoi combattere” lo aveva ammonito pesantemente, mentre quello rispondeva con uno sputacchio di tosse.
Quando era tornato dai suoi amici, Engel si era sfilato la giacca ed aveva cominciato a slacciare le cinghie, mentre sulla schiena lavorava il ragazzino della birra, che sembrava rigido come il marmo.
“Che stiamo facendo?” aveva chiesto, “La resistenza!” aveva risposto Leon che se ne stava placido allungato, “Ricordatevi di cercare il Privato Brhol” aveva mormorato il ragazzino, mentre si voltava verso di Fritz, forse per prestare attenzione anche a lui, che gli guardava con una certa confusione.
“Siete più utili se non siete ricercati e se ad avvertirci è stato un membro della Guarnigione, probabilmente non sono tutti cretini, Fritz” aveva stabilito Leon, bruciandolo con lo sguardo e questi, come colto da una doccia fredda, aveva annuito, tirando via la giacca della Legione che aveva lanciato poi addosso al ragazzo che aveva aiutato Engel.
S'era sentito immensamente codardo nel privarsene, oltre che nudo.
Ma era necessario.

Fritz si era sganciato le cinture con una certa fretta, finendo per far scivolare le cinghie più volte, come se le salde mani da taglia-ossa lo avessero abbandonato proprio in quel momento che più ne aveva bisogno. Aveva lanciato uno sguardo a Leon, sempre steso su quella branda, il viso immobile e gli occhi chiusi, “La gamba” era riuscito solamente a dire, gli occhi rivolti alla brutta sutura che non aveva neanche fatto in tempo a fasciare, “Sopravviverò fino a che non risolverete questa situazione, dottor Meier, puoi starne certo” c'era una ceca convinzione nelle parole del suo superiore e alla fine anche Fritz sembrava essersi convinto. “Se però potessi avere quella birra, ora” aveva comunque scherzato l'uomo.

 

Sal era venuto verso di loro. Era alto, nervoso e sembrava improvvisamente di vent'anni più vecchio di quanto fosse stato giusto una settimana prima, “Nascondetevi a Wolfliebhaber” aveva commentato quello, mentre passava loro una vecchia giacca nera pesante ed un pugnale dalla punta tristemente smussata, sebbene l'affilatura sembrasse ancora buona. “Non abbiamo pistole e senza attrezzatura con le lame fareste poco” aveva concesso un altro soldato, “Va bene” aveva accettato Fritz senza mezzi termini, “Perchè il quartiere delle prostitute?” aveva chiesto invece Engel avvicinandosi a Sal, il quale era meno alto di lui, “ Perchè per dei soldi si venderebbero le proprie madri, ma hanno una certa avversione per le divise” aveva spiegato senza mezzi termini quello.
“Verranno a cercarvi, ma con un po' di fortuna potreste trovare riparo” aveva spiegato il ragazzo della birra, “Il Caposquadra del quinto gruppo: Ludwing Schuster è con voi, credo” aveva stabilito Sal.
“Credere non basta” aveva detto Engel.
“Credere è più di quanto possiamo permetterci ora” aveva risposto l'altro.
La questione della Guarnigione sembrava un fulmine a ciel sereno, aveva avuto l'effetto di far dimenticare loro che il mondo probabilmente era sull'orlo della fine.

 

“Di buono c'è che so dove nasconderci” aveva ammesso Fritz, mentre infilava i bottoni di legno nelle asole della giacca, attirando lo sguardo di Engel che aveva preso atto della notizia con un cenno del capo. “Voi due” Leon li aveva richiamati al suo capezzale, nonostante Sal avesse reso noto che non vedeva l'ora di farli andare via. Il problema era che con l'esclusione di Fischer che era di Nedlay, nessuno degli effettivi ufficiali di Briemer era in quella stanza e sembrava che il compito di governare fosse ricaduto sul soldato semplice Sal.
La questione era davvero scoprire dove fosse disperso il resto della legione. Quella stanza contava appena dieci persone e Fritz era piuttosto certo che almeno la metà fosse composta dai veterani che di norma custodivano del bestiame.
Engel si era chinato verso Leon, mentre Fritz guardava ancora quella ferita che doveva finire di sistemare, “Ehi” aveva detto verso il ragazzo della Birra, “Trova una pezza per coprirla” gli aveva impartito, “Non fare altro” aveva aggiunto poi, una saldatura fatta male creava problemi piuttosto ingenti, senza contare che per quello che li aspettava c'era bisogno di gambe sane. “Se vedi … Il ragazzo …” era strano il tono che era uscito dalle labbra di Leon, più incerto di quanto avesse mai sentito lui, “Gli dirò di starsene rintanato da qualche parte finché non vai a salvarlo” lo aveva interrotto Engel, facendo una smorfia.
Fritz aveva voltato immediatamente lo sguardo verso di loro, l'espressione che si era dipinta sul viso di Leon era incredibilmente conosciuta anche a lui, forse perché spesso l'aveva percepita su se stesso. “Digli … Che mi piacerebbe rivederlo” aveva mormorato Leon, “Non parlare come uno che sta morendo, mica sei un cavallo che va soppresso” questo gli aveva detto Fritz, che aveva battuto una mano sulla spalla del suo superiore.
Sapeva a chi Leon si riferisse, lo aveva visto l'unica volta che era stato nella zona di Wolfliebhaber, nulla più che un ragazzino dalla pelle di carta ed i capelli scuri, non lo aveva notato nel dettaglio, se non per il fatto che aveva visto il sorriso che adornava il viso di Leon e la sua mano passare tra i capelli del giovane, in una carezza amichevole.

 

“Pensi che esista qualcosa di più deprimente dell’essere invaghito di una prostituta?” aveva chiesto Fritz, “Oltre che essere arroccati in un distretto ad aspettare che i giganti ci circondino?” aveva chiesto retorico Engel, mentre valicavano la porta principale del tribunale. Quando Fritz l'aveva visto un mese prima lo aveva trovato un edificio molto bello, una sorta di pugno nell'occhio nell'architettura di Briemer, fatta di pietre e tetti spioventi di tegole brune e cupe, mentre quell'edificio era di marmo traslucido roseo con semi colonne a decorarne la facciata principale.
“Parli poi tu che sei innamorato di una donna che palesemente smania per un altro” aveva aggiunto Engel. Non c'era reale cattiveria nella sua voce, neanche Fritz l'aveva recepita, era solo l'isteria che si stava diffondendo nell'aria, che veniva respirata, assorbita, accolta in pieno.
Aveva pensato alla sua Nina e a quel modo che aveva di parlare con Levi.
Aveva ricordato come aveva sondato in territorio, quando insieme a quell’uomo che sfiorava la leggenda si erano diretti verso il nord e non gli era parso che egli ricambiasse l'interesse che era scaturito nella ragazza, ma aveva notato come le cose fossero già diverse il primo dell'anno, quando lei aveva salutato Fritz con un bacio sulla fronte che nulla aveva avuto a che fare con ciò che prima li aveva uniti.
Indipendentemente dalla guerra civile che si stava per scatenare in Briemer, Fritz non sarebbe rimasto lì, non avrebbe mai lasciato che quello stupido saluto fosse il loro ultimo bacio.
“Parla quello invaghito di un Caporale che neanche lo guarda” aveva replicato Fritz comunque, ma Engel non sembrava essersela presa poi così a male, “Di fatti io non stavo cercando di compatire nessuno” aveva risposto quello, mentre passavano accanto ad un gruppo di stazionari che con tutta velocità si erano diretti verso il tribunale, alcuni avevano le lame sfoderate, altri fucili e pistole e indossavano l'attrezzatura.
Fritz aveva abbassato il capo ed aveva immaginato già di sentire i colpi d'arma da fuoco, il sangue – e perché no, la parte egoista di sé- anche lo spreco del gas.
“Andiamo in questo luogo” aveva detto Engel, afferrandolo per la manica della giacca di lana scura e lui aveva annuito, inghiottendo la bile che gli era salita.

 

 

Avrebbe voluto fermarsi per un momento per vedere come stava Frejya, ma aveva imparato quando era un bambino – forse proprio quando aveva imparato a camminare – che chi si fermava era perduto. “Hum … hum ...” se la ragazza stesse mugugnando o cercando di chiamarlo non era importate, lui aveva continuato a correre senza fiato, strattonandola di tanto in tanto dal polso. “Ci siamo quasi” le aveva detto semplicemente, prima di sentire un altro colpo di pistola fin troppo vicino alla sua zona.
Doveva ringraziare qualcuno se la Guarnigione a forza di fissare un muro risultava in abile ad una sparatoria, nonostante la fortuna d'aver evitato un colpo correndo per terra però non sembrava aiutare molto, sarebbe stato più veloce se avesse potuto usare il gas – ma il sergente maggiore Winkler si era raccomandato – e se non fosse stato per Frejya, ma non poteva farlo.
Quando aveva riconosciuto la svolta che portava alla polleria del vecchio Frank, aveva immediatamente cambiato la traiettoria infilandosi nello svincolo esterno e portandosi dietro l'altra. Aveva poi corso per qualche metro, un'altra forzata curva a sinistra, un'altra ancora ed una a destra. Il soldato della Guarnigione probabilmente gli aveva persi nel districato labirinto delle vie della povera gente.
Humbert ci era cresciuto, era come un gatto e quante volte avevano provato a prenderlo senza che ci riuscissero mai. La gente che viveva nei quartieri bassi era molto più avida e motivata degli stazionari.
Almeno in tempi diversi.

Aveva ritrovato la piccola fossa di scolo della cloaca e si era infilato all'interno del tugurio, prima di voltare il capo verso Frejya. Le aveva lasciato il polso, che la ragazza si stringeva con l'altra mano. Lei aveva il viso smorto e sudava, un palmo era impiastricciato di sangue e dalla sua spalla fluiva del rosso vermiglio. “Fai attenzione” aveva detto mentre entrava preoccupandosi che gli scarti della fognatura gli arrivassero fino alla vita e che quando ne sarebbe uscito della parte inferiore della divisa di salvabile non ci sarebbe rimasto nulla, la sua unica preoccupazione era non rovinare l'attrezzatura.
Frejya lo aveva seguito c'era il dolore dipinto sul suo volto ed era ben attenta a non far arrivare l'acqua rancida sulla sua spalla dove c'era la ferita aperta. Humbert aveva sentito spesso di gente di alto rango che parlava di liquidi ed umori, ma aveva visto molto persone spalmarsi le peggio cose sui tagli per poi morirci, quindi era abbastanza sicuro che qualsiasi cosa ci fosse dentro quelle acque avrebbe ucciso la ragazzina meglio del colpo che le aveva passato la spalla.
“Che facciamo?” aveva chiesto quella, quindici anni, un solo anno meno di lui, mai stata fuori e con addosso l'irrimediabile puzzo del sud, Frejya di Orvud. “Ci infiliamo dove la Guarnigione non ci troverà, raccogliamo poi quelli che non sono stati arrestati o feriti e uccidiamo quello schifoso bastardo del Governatore” aveva risposto candido lui, voltandosi verso di lei per sorriderle, anche se nel buio del tugurio era abbastanza certo lei non potesse vederlo.
Frejya aveva annuito, era l'unica cosa che si vedeva nel buio del cunicolo, bianca come la farina di viso e capelli, dritti come i denti di una spazzola sul capo.
“Non dovremmo cercare di liberare il Caporale ed il Sergente?” aveva chiesto quella; Winkler li aveva fatti scappare, mentre Schwartz aveva cercato di ammorbidire uno stazionario ricordandogli che davvero non era necessario tutto ciò, che era ovvio dover partire e che stavano perdendo tempo.
La Legione avrebbe potuto batterli, lui ne era certo, ma la Guarnigione era il doppio numericamente, oltre la gran quantità di lame e nessuna vergogna nello sprecare il gas avevano anche fucili e pistole.
E lui lo sapeva bene che in uno scontro tra pistola e lama – non importa quanto si fosse abili nel manovrarla – difficilmente vinceva quest'ultima. Quel pensiero gli aveva fatto mettere una mano sul fianco in un riflesso, portava lì, nella carne, il segno di quell'insegnamento.
La sua non era stata un'infanzia facile.
“Non ha senso, perché ci stiamo scontrando tra di noi, presto saremo accerchiati dai giganti” aveva detto Freyja, che gli si era avvicinata, teneva una mano sulla spalla offesa, con l'altra si era aggrappata alla sua giacca, sulla schiena, stringendo il tessuto proprio dove spiccavano le Ali. “Una volta un vecchio uomo dagli occhi stretti che viveva qui mi raccontò di un'arte magica che si faceva alla stessa maniera” aveva risposto lui, non sapeva perché, ricordava poco di quell'uomo era sempre scortese e tutti lo evitavano … ma non perché era scortese.
Lo facevano perché era diverso.
Ma lui non aveva mai avuto nessuno che lo avesse messo in guardia e quindi andava sempre a curiosare, prima da solo, poi con Kurt e alla fine s'era aggiunta anche Lisbeth – quando era ancora una persona normale. “Davvero?” aveva chiesto Frejya che continuava a tenere salda la presa sulla sua giacca, “Si, bisognava mettere tutti questi piccoli animali velenosi in un vaso e l'unico che sopravviveva portava fortuna o aveva un veleno potentissimo, non ricordo, poi, così bene” aveva ammesso lui, grattandosi il capo. “Il punto è che se chiudi tutti in un piccolo spazio, è normale uccidersi” aveva commentato poi alla fine, “Non quando i giganti dovrebbero farci fare fronte comune” poteva sentire nel tono di Frejya un timore reverenziale e pensare che lei neanche lo aveva mai visto un gigante.

 

“Ci siamo quasi” aveva detto alla ragazza, continuando a sentire il calore della mano di Freyja arpionata alla sua schiena, “Come lo sai? Io non vedo nulla” aveva mormorato lei, con voce bassa, “Conosco questa zona di Briemer come i solchi sulle mie mani” aveva risposto lui. C'era nato per le strade, senza poter aver un luogo degno di esser chiamato casa, “E do-oh-ve stiamo … andando?” aveva chiesto ancora lei, quando finalmente aveva trovato il coraggio di lasciare la sua giacca, ma aveva potuto sentire la fatica nella sua voce. Lui si era voltato verso di lei, sentendo il suo respiro farsi più rado, aveva allungato una mano in tempo per afferrarla prima che crollasse nella poltiglia, appoggiandola sul suo petto.
“Freh, davvero Freh” aveva cominciato lui, cercando di scuoterla, poteva sentire all'altezza del petto l'umidità del sangue che traspirava dalla giacca: aveva bisogno di un dottore.
Aveva messo una mano sotto le ginocchia di Freyja e l'altra mano sulla schiena facendo ben attenzione a non sporcarle la ferita; il viso era particolarmente emaciato ed il suo respiro era abbastanza profondo da farlo calmare. “Frejya non devi addormentarti” le aveva detto lui, cercando di mantenere la calma, facendola scuotere un po', cercando di risvegliarla.

Le ciglia pallide si erano sollevate per lasciare sorgere gli occhi scuri come l'inchiostro, l'unica punta di nero in un viso pallido come la luna.

Il tunnel che rendeva la cloaca sotterranea, per tornare all'aria aperta dritto nel quartiere di Wolfliebhaber, aveva un odore che era giusto poco migliore della fogna. Il cielo era di un plumbeo angosciante, che dava a quel pezzo di città tinte più fosche di quanto non fosse di solito.
E se qualcuno gli avesse chiesto – prima di quel momento – se avesse mai voluto lasciare la sua caliginosa città, avrebbe risposto di no; quelle strade erano il ventre di sua madre, letteralmente.
“Giusto il Gatto che cercavo” si era sentito chiamare, ancora immerso nel fiumiciattolo di melma fino ai fianchi e poichénon era ancora riemerso dall'ansa, s'era voltato per vedere seduta sulla sommità del sottopassaggio da cui era uscito una giovane donna. L'uniforme con le Rose appuntate sul petto, le gambe a penzoloni con gli stivali tirati a lucido ed ovviamente il fucile imbracciato, che se avesse sparato lo avrebbe spedito nei Campi Sacri senza possibilità di recupero. Forse se non avesse avuto Frejya tra le braccia avrebbe potuto provare a scappare, forse.
Il dito della giovane donna era già pronto al grilletto, le trecce spesse che incorniciavano un viso fin troppo contento, occhi svegli come schegge di legno ed il sorriso di chi era fin troppo tronfia. “Lis” aveva provato lui, appellandosi a quella che era stata sua amica per davvero tanti anni, sua compagna durante l'addestramento.
“Humbie” aveva replicato Lisbeth senza perdere il sorriso continuando a tenere lui e Frejya sotto tiro, anche la sua compagna ora sembrava essersi resa conto della situazione e con il braccio che riusciva a muoversi si era stretta di più a lui.
Era sicuro che nessuno lo avrebbe mai trovato, lui conosceva quella zona della città come le sue tasche, si era destreggiato per quelle vie per tutta la sua vita, conosceva ogni vicolo, ogni tombino, ogni casa, più di qualsiasi stazionario che aveva passato i suoi anni di lavoro a fissare un muro alto cinquanta metri, ma il soldato che ora lo teneva sotto tiro, forse non conosceva quell'intricato labirinto di vie a mena dito, ma conosceva lui.
E sapeva che sarebbe andato a cercare riparo da Kurt.
Lui fissava la stazionaria negli occhi, cercando di pensare a come fare, prima di ricaricare Lis aveva sicuro due colpi e probabilmente ne bastava uno solo per uccidergli entrambi. Humbert non ci voleva credere che sarebbe morto così, mezzo immerso in una fogna a cielo aperto da Lisbeth Zimmermann, anziché fuori combattendo contro i Titani.
No, era una morte che non poteva accettare.
“Lis” aveva ritentato, “Siamo amici” aveva detto, con sicurezza.
Lisbath aveva sorriso ancora, aveva annuito ed a quel punto aveva tolto il dito dal grilletto, “Sei fortunato, Gatto, perché vengo in pace” aveva replicato lei, abbassando il fucile.

 

Fritz aveva incontrato Lady Mei prima della sua ultima missione. Era una tradizione del corpo ricognitivo di Nedlay prima di ogni uscita fermarsi nel quartiere malfamato di Briemer, accompagnati dalla Legione di lì, che s'accodava in quell'occasione più che volentieri.
Non tutti ovviamente si erano aggregati, le donne – Fritz ricordava lo sguardo seccato di Carice – per lo più si erano limitate a commentare con una certa cattiveria, anche il capitano Garlef Jürgen non si era prestato, lui non aveva dubbi sul fatto che fosse stato dovuto probabilmente che più per la fede al dito che il suo capitano indossava fosse più per la suocera: il capitano Rottermeier della Guarnigione.
In quell'occasione Fritz era stato distratto da una donna sottile dai capelli del colore della ruggine, e prima solo che si potesse incamminare nella direzione della casa chiusa, era stato intercettato da Humbert il Gatto. “Tu sei il dottore, vero?” aveva chiesto con il sorriso aperto sul viso; nel corso del mese che avevano passato fuori Fritz aveva potuto scoprire quanto fosse usuale vederlo sfoggiare quella maliziosità.
E così Fritz aveva conosciuto Lady Mei, una prostituta dall'età indefinita ed una serie di escoriazioni tra le grandi labbra che si estendevano fino alle cosce. Aveva occhi neri come il cielo notturno, “Morirò dottore?” aveva chiesto quella spaventata, “No, è un fuoco di Mitras(*) localizzato nella zona genitale” aveva risposto pratico lui, gli occhi della prostituta s'erano fatti vacui, “Febbri nascoste” aveva spiegato lui.
Oltre dover preparare un impacco d'erbe e pregare la donna di non intrattenersi in rapporti sessuali fino a che ogni vescicola fosse rimarginata, spiegandole che purtroppo il Fuoco di Mitras era una malattia non letale ma cronica ed ogni qualvolta il suo corpo avesse sentito il bisogno di sfebbrare esso si sarebbe ripresentato. Fritz aveva una cocente ossessione per alcune malattie croniche, su quella della Sete aveva scritto anche la sua tesi.
La donna alla fine della nottata s'era offerta di ricambiarlo in qualsiasi maniera e se era contro saluta approfittarne quella sera: Fritz lo aveva fatto in quel momento.

Lady Mei li aveva accolti senza neanche aprire la porta. Aveva urlato da dietro lo spesso uscio chi fossero e Fritz si era presentato, ricordandole del favore che le aveva fatto. Wolfliebhaber era letteralmente in fiamme, come se l'isteria bruciasse ogni centimetro di quel quartiere, tanto che anche loro avevano temuto di esser aggrediti per strada.
Quando la porta s'era scansa dallo stipite, s'era palesato un uomo dall'aspetto poco raccomandabile, “Jonas, tranquillo” la voce di Mei era venuta dalle spalle di quest'ultimo e Fritz aveva potuto scorgere il viso della donna palesarsi da dietro la sua spalla. Era un viso strano quello di Lady Mei, una carnagione olivastra più comunque a chi avesse dovuto sprecare tutte le sue giornate nei campi a sud sotto il sole cocente estivo, invece che in un piccolo bordello nella città più fredda delle Mura.
I capelli erano un groviglio di nodi di un colore scuro come la pece. Lady Mei li aveva accolti con un sorriso un po' tremolante e nelle mani ben stretto un coltellaccio.
“Dovete scusarci, di questi tempi la gente è impazzita” aveva detto quella, mentre Jonas sistemava nuovamente il catenaccio alla porta, qualche ragazza dalle camere aveva tirato fuori la testa per vedere i nuovi venuti, ritenuti forse inoffensivi o privi di interesse si erano ritirate come animali nelle tane. “Hanno bruciato la casa di Hobb giusto ieri notte, stamattina Mariah è stata aggredita mentre rientrava e c'è stato un assalto dal fornaio neanche due ore fa” aveva ripreso Lady Mei, mentre si stringeva lo scialle al petto, con la mano libera. “La Guarnigione e la Legione si sono sparati nel pieno centro” aveva commentato qualcuno, era un ragazzetto sui dieci anni, con i capelli luridi e l'espressione crucciata, “Non curatevi di Thomas” aveva gracchiato la prostituta dai capelli scuri.
Non era l'unico lì in mezzo ad essere coperto da un sottile strato di sporcizia e Fritz poteva scommettere che non fosse perché erano nel peggiore quartiere – un mese prima quel posto aveva un aspetto completamente diverso, non limpido, ma certamente più igienico – ma era per l'acqua. Briemer non aveva un collegamento fluviale diretto, l'acqua veniva dalle cisterne sopra elevate, che purtroppo erano un bene limitato, come il gas, e dalle falde acquifere che erano comunque fuori i confini della città.
L'acqua era un bene di prima necessità, diventato improvvisamente troppo importante per essere sprecato per lavarsi, quando invece avrebbero dovuto impiegarla solamente per il sostentamento.
Presto anche il cibo avrebbe cominciato a scarseggiare.
“ È stato gentile da parte tua nasconderci” aveva commentato Fritz, mentre guardava il ragazzino che aveva preso a studiarsi le unghia mangiucchiate ed insozzate, “Ti dovevo un favore, dottore” aveva risposto bellamente lei, dandogli del tu, mentre li conduceva in quella che era la sua camera, “Poi fa sempre comodo avere un medico a portata di palmo” aveva miagolato con una certa mellifluità.
Engel aveva tossicchiato appena, “Signor … ina, sembra molto tranquilla” aveva constato lui, la donna aveva sorriso in maniera quasi agghiacciante, “Crede nel Culto dei Titani” era stata la risposta frettolosa di Fritz. Ricordava quando la donna glielo aveva accennato, mentre le umettava le escoriazioni con degli impacchi e aveva strepitato all'idea che lui andasse fuori e che avrebbe potuto incontrare i giganti.
Probabilmente il fatto che il Muro Maria fosse stato sfondato per lei doveva essere una notizia meravigliosa, si era ritrovato a pensare il dottore. La cosa aveva ottenuto come commento un “Ah” piuttosto secco di Engel.
Lady Mei aveva occhi infossati, grandi come quelli di un gufo, ma di uno spettrale nero, si erano rivolti un po' famelici verso i due, “Cosa volete che vi dica?” aveva chiesto retorica lei, “Ognuno crede in quel che vuole” aveva commentato poi, aprendo le braccia come se avesse voluto coinvolgerli in un abbraccio: “Ed io credo di poter raggiungere il meraviglioso palazzo nel cielo” aveva detto, prima di lasciarsi cadere sul letto sfatto.
“Cosa?” aveva chiesto perplesso Engel, prima di voltarsi verso di lui, con gli occhi allarmati e confuso, tutto di lui urlava una sola domanda: ma dove siamo finiti?

Eh, bella domanda.

 

Al Bordello di Artemis erano rimasti una notte. Lady Mei aveva offerto loro quel che aveva, qualche vivere e mezzo bicchiere d'acqua a testa, nonostante non vedesse l'ora di raggiungere il Palazzo nel Cielo si era dimostrata incredibilmente tirchia sul cibo. Una ragazza si era sentita piuttosto altruista da offrire loro i resti di un bollito di cipolle, aveva un viso sorprendentemente pulito, ma grosse chiazze violacee ampie quanto polpastrelli a segnarle il collo e la parte superiore degli arti; Clara, era il suo nome – o almeno quello che aveva detto loro.
Erano rimasti lì per quasi tutta la notte, dormendo sul pavimento sudicio della stanza della loro salvatrice. Fritz aveva cercato di evitare di pensare a tutte le malattie che stavano probabilmente raccogliendo, mentre Engel aveva rimuginato tutto il tempo su quello che era avvenuto, commentandolo ad alta voce, nel desiderio forse di coinvolgerlo.
La Legione era ufficialmente fuori legge, buona parte di loro erano nelle galere di Briemer ed alcuni – loro e qualcun'altro – si erano nascosti come topi nei bugigattoli. “Stiamo perdendo tempo” aveva commentato Fritz, con voce spenta. Il caporale Schwarz aveva ragione, avrebbero dovuto già essere in viaggio, non potevano sapere da quanto effettivamente Shigashina fosse caduta, un giorno non contato in un piano del genere poteva rivelarsi letale.
Non aveva sentito ancora l'annuncio dell'arrivo dei giganti, ma non poteva quella tranquillità durare ancora. Almeno la campana, che suonava per richiamare i villaggi vicini o segnalare ai soccorsi – quali? – che la città era viva, pronta ad accogliere e sicura d'esser salvata, aveva smesso di suonare.
“Perchè ve ne curate?” aveva soffiato la donna, con un sorriso raggiante sulle labbra, mentre sfregava le cosce nude fra di loro, una pasta verdastra era spalmata sulla parte interiore di esse fino all'inguine ed oltre, sebbene un vestimento fin troppo leggero ne copriva le vergogne. “Morire divorati dai giganti è un dono” aveva commentato lei, facendolo loro l'occhiolino. Engel si era sollevato sui gomiti, per guardare con uno sguardo piuttosto critico, “Non so se sia peggio i sermoni del Culto delle Mura o le tue cazzate” aveva commentato. Fritz gli aveva tirato un buffetto sul fianco, Lady Mei comunque gli aveva dato un tetto, anche se era pazza e fantasticava di giganti, quando probabilmente non aveva idea di quanto spaventosi fossero.
Fritz ricordava con vivido terrore la prima volta che aveva vista una di quelle enormi bocche aprirsi davanti ai suoi occhi, denti enormi e lingue rosse pulsanti. Se esisteva un abisso, probabilmente quello era l'accesso.

La donna si era tirata su, portando poi le ginocchia al petto, i capelli pesanti scivolavano sulla schiena e sul petto florido, la camicia sottile lasciava comunque vedere le macchie scure delle aureole dei capezzoli. “Loro mentono” aveva soffiato Lady Mei, Engel si era sistemato nella posizione seduta, ritrovandosi comunque a guardare dal basso la donna, che stava sul letto, mentre Fritz era rimasto supino a guardare le assi rovinate del soffitto.

“Dicono che gli Dei ci hanno dato le Mura” aveva ripreso la donna, “Ma le Mura le hanno costruite gli uomini, per proteggersi da ciò che loro stessi avevano portato” aveva aggiunto lei. “I giganti?” aveva chiesto Fritz con un tono placido, volgendo lo sguardo appena verso Lady Mei, “C'era questa giovane donna” aveva ripreso la prostituta, tutti e due gli uomini ora l'ascoltavano.
Avrebbero dovuto preoccuparsi di ritrovare il Privato Brhol, di organizzare una resistenza, tirare fuori di galera il Caporale Schwarz, prepararsi alla partenza.
Partire …
“Aveva delle pecore che doveva vendere in città, ma lungo la strada aveva incontrato uno spettro, il demonio qualcuno dice” aveva ripreso Lady Mei, “Al posto del denaro, che tanto le serviva, la creatura era riuscita a convincerla a prendere dei fagioli magici come pagamento per le sue pecore” aveva detto.
“Pessimo affare” era stato lo sterile commento di Engel, “Erano magici?” la domanda di Fritz era stata retorica, mentre continuava a guardare le ombre del legno. “Lo erano” aveva risposto tranquilla Lady Mei, “Piantati nella terra avevano dato vita ad una pianta di fagioli che si estendeva fino al cielo” aveva ripreso lei. “Lì, alla cima, oltre le nuvole, vi era un palazzo splendente nel cielo così grande che lei appariva una formica a confronto. Ovunque era pieno di doni e ricchezze; lì la giovane donna si era apprestata a prendere quanti più tesori potesse, poiché era molto povera, ma aveva scoperto che quel mondo era abitato dai giganti. Quando lei tornò sulla terra, loro la seguirono e visto che la donna aveva derubato la loro terra, loro presero la sua. Lei costruì le Mura impegnando l'oro che aveva preso e visse consapevole che era stata la sua avidità ad offrire la terra ai Giganti ed ha speso la sua vita sognando le meraviglie di quel mondo nei cieli che mai in vita avrebbe potuto raggiungere di nuovo. Così quando veniamo divorati dai giganti, noi restituiamo loro ciò che abbiamo preso e ci è perciò concesso di accedere al Palazzo nel Cielo” la voce di Lady Mei suonava come quella di un'innamorata.
“E dove, cazzo, sarebbe questa pianta di fagioli gigante?” aveva chiesto Engel con una mezza risatina, “A sud, no?” aveva chiesto retorica lei, “Ed io neanche ho studiato, all'accademia non ve lo dicono che i giganti vengono dal sud?” aveva domandato enfatica Lady Mei.
“Da noi si dice che i giganti siano sorti dal sangue delle guerre fratricide degli uomini” aveva mormorato Fritz, passandosi le mani sulle cosce, gli occhi ancora aperti verso il soffitto, “Un male necessario per unire gli uomini, anche da noi si dice così” aveva concordato Engel.
“Di dove siete?” aveva chiesto Lady Mei, repentina, con un sorriso allegro come se improvvisamente di parlare dei suoi amati giganti non le interessasse più, “Capitale” era stata la risposta blanda di Fritz.
Ci sarebbe mai tornato?
Pensava a suo padre con quel sorriso sempre calmo, che avrebbe probabilmente chiuso a chiave la sua stanza e finto che ogni cosa sarebbe andata bene. Il suo fratellastro che probabilmente si sarebbe sentito in colpa di non esserci stato troppo, così preso nel continuare una faida con loro padre.
E sua sorella, Sante Mura. Fritz a Jara non voleva proprio pensarci.

“Nord-est delle terre di Sina” aveva risposto Engel, “Io sono nata a Karanese” aveva sentito il bisogno di dire Lady Mei.

Fritz aveva interrotto il disscorso: “Ho bisogno di fumare”, sollevandosi dalla posizione supina per raggiungere la finestra della minuscola cameretta. Avrebbe dovuto fare economia di tabacco da quel momento in poi, ma non riusciva a calmare né i nervi né i brutti pensieri.

Quella notte Fritz aveva sognato i giganti mangiare tutti quanti tranne lui, lasciarlo impotente e fermo, incapace di anche solo di muovere un muscolo.

 

“Quindi ci presentiamo al quartiere della Guarnigione, con la più brutale faccia di bronzo chiediamo del Privato Brhol?” aveva chiesto Engel mentre si incamminavano per le vie del distretto, erano ancora nella zona di Wolfliebhaber ed in ogni strada risuonava il caos generale, di una paranoia sempre più crescente, ormai doveva essere impossibile per la Guarnigione mantenere gli animi cheti. Maggiormente se la gente per caso si fosse risentita della Legione in galera.
Se forse fino a quel momento avevano sempre considerato la Legione come mangiatori di pane abusivi, si era finalmente palesata agli occhi dei cittadini delle Mura una loro utilità: era il Corpo di Ricerca che sapeva uccidere i giganti.
“Questo piano fa acqua da tutte le parti, lo so” aveva commentato Fritz spento, pensando che davvero non potessero essere in grado di organizzare qualcosa di meglio, considerando che la mente era Leon, fermo in un letto, organizzato con fin troppa repentinità.
Engel aveva guardato il braccio fasciato con un misto di insofferenza e fastidio, “Pensare che non saremmo dovuti essere qui” aveva commentato.
“Oh, a quanto pare io si, visto che hanno chiesto il mio trasferimento permanente” aveva risposto Fritz, senza particolare enfasi.
Tecnicamente sarebbe dovuto essere permanentemente fermato a Nedlay – comunque troppo a Nord – poiché presto esso sarebbe diventato l'unico polo da quella parte delle mura, ma ci sarebbero voluti almeno un paio d'anni prima che il trasferimento fosse in pieno ultimato. Forse allora sarebbe stato costretto a restare ad Hanneke.
Questo non aveva però più importanza, il muro era crollato, probabilmente Briemer non sarebbe vissuta.
E lui sarebbe tornato a sud.

 

Una mano l'aveva afferrato per il bavero della giacca scura ed anche ad Engel era capitato, “Voi due non siete i Friedrick di Nedlay?” si era sentito chiedere una voce femminile e famigliare. Il suo amico era stato più svelto ed aveva tirato una gomitata verso la figura che si era palesata alle loro spalle, qualche civile, che coraggioso, si aggirava per le vie della città aveva rivolto loro uno sguardo armato. Tutti armati, tutti preoccupati che da un momento all'altro cominciasse una carneficina, che quella fosse proprio una scintilla che avrebbe acceso un fuoco che avrebbe divampato su tutta la città.
Engel aveva provocato una rottura di capillari nella donna, che ora era china con le dita affusolate sul naso che perdeva sangue. Fritz l'aveva guardata in viso a fatica, già che lei era china, mentre Engel l'aveva preso per farlo allontanare di fretto; aveva riconosciuto nella donna, una certa maturità oltre che famigliarità. Efelidi castane su una carnagione lattiginosa. “Ma tu sei Nord-t … Nordtveit?” aveva chiesto Fritz fermandosi e trattenendo Engel, “Sei una legionaria” questo lo aveva fatto con un tono di voce basso, per non farlo sentire da orecchie indiscrete.
Erano poche le donne nella legione di Briemer, quella Fritz la ricordava come l'ingegnere, era graduata, ma non aveva una squadra e quando si arrabbiava aveva la bizzarra abitudine di sfoggiare un accento davvero strano.
“Tenente Maggiore Shoshanna Nordtveit, rottinculo del shud” aveva ringhiato lei.

 

 

Il tempo che avevano concordato per dichiarare ufficialmente morti gli uomini rimasti nelle terre di Maria era stato di quarta giorni. Quarta giorni netti.
Garlef Jürgen li aveva aspettati fino alla fine, salendo di tanto in tanto sulla sommità delle mura, al fianco di una stranamente taciturna Magda, sua suocera.
Aspettavano direttive da Erwin Smith per la Legione e dalla capitale per cosa dovevano fare con tutti quegli sfollati che adesso si erano stanziati nelle città distretto dei territori del Muro Rose.
Dei distretti di Maria invece le notizie erano agghiaccianti: Shigashina, che per prima era caduta, era stata evacuata paradossalmente – per quanto molti dei suoi cittadini non fossero sopravvissuti – mentre le altre città che ne avrebbero avuto tempo erano stati ignorate. Jürgen non riusciva a pensare alla spaccatura nelle mura senza provare un profondo senso di vertigine: come? Continuava a chiedersi.
Renìn era stata abbandonata a e stessa, la Legione che aveva fatto ritorno ad Occidente, aveva raccontato che la popolazione si fosse barricata dentro. Da Pereta e Briemer nessuna notizia, ma se Jürgen non faticava ad immaginare che la prima cittadina potesse sopravvivere autonomamente, circondata da montagne come difesa naturale nel lato esterno dai giganti e della miniera di sale, la seconda al freddo dell'inverno forse mai avrebbe potuto.
Sentiva gli occhi bruciare dalle lacrime.
A Briemer non c'erano solo i suoi sottopossti, santissime Mura; Charlotte era una delle sue migliore amiche, anche quel cazzone di Sprotte e tutti gli uomini, e donne, che aveva conosciuto nel corso dei suoi anni. Tutti morti.
E Leon era stato come un fratellino, il suo braccio destro, il suo amico, il quale era rimasto lì ferito mentre lui se n'era andato senza curarsene. Ed Engel e Fritz. Non erano i primi compagni che perdeva, non erano i primi uomini sotto il suo comando che morivano, ma erano i primi – gli unici – che aveva lasciato indietro.
“Sei sicuro di volerlo fare, ragazzino?” aveva chiesto Magda, i capelli bianchi come il nevischio sporco, le Rose sull'uniforme, “Schimdt” aveva ripreso la donna, “Non sono solo gli uomini del capitano Schimdt” aveva risposto pratico lui.
Erano i suoi uomini, toccava a lui portare le notizie.

 

Era partito all'alba del quarantunesimo giorno in compagnia di Carice, la quale era stata un membro della sua squadra,che adesso contava tre persone, con loro compressi, rispetto i sei che erano in origine. Lo aveva deciso lei, abbozzando un sorriso malinconico, dicendo che non doveva farlo da solo, che erano stati anche suoi compagni.
Lui aveva annuito ed aveva accettato.
La prima sulla strada era stata la famiglia dei Fischer: Leon era l'unico uomo di casa, unico maschio con quattro sorelle, due nonne ed una madre, in una casetta fin troppo piccola per una famiglia così caotica, in un villaggio a sud di Nedlay.
La signora Fischer aveva sempre le mani sporche di farina e Garlef ricordava i pranzi che gli aveva preparato quando Leon lo trascinava lì nei loro giorni di riposo. “Hai bisogno di un po' di affetto famigliare, eh Garl?” lo prendeva in giro.
Non ci sarebbero state più le pessime battute di Leon ad accompagnarlo.
Avevano mangiato dai Fischer, Aimee non si era potuta trattenere dal preparare del cibo, con le lacrime a segnarle il viso pieno. Non c'era stato bisogno di molte parole ed anche Carice era scivolata nel profondo silenzio.

Gli Engel erano stati i secondi. Garlef si era reso conto di non aver mai saputo nulla del ragazzo che gli era stato assegnato da un paio d'anni, lo vedeva solo come una pallida immagine di un giovane forse troppo sorridente con una lingua bella impudente.
Erano ricchi gli Engel, avevano una discreta villa campestre e dei campi, ma si erano rifiutati di venderli. Jürgen e Carice non avevano potuto oltrepassare la soglia, lì dove dai Fischer avevano potuto mangiare e brindare alla memoria di un uomo meraviglioso, in quella villa erano rimasti sulla porta. Avevano parlato con una domestica che aveva preso atto della triste notizia, con gli occhi bassi e poi loro erano stati cacciati fuori. Mentre si allontanavano a cavallo, Garlef si era voltato per un'ultima volta verso la tenuta degli Engel ed era stato certo di aver intravisto alla finestra del secondo piano un uomo piangere disperatamente.


Gli ultimi sarebbero dovuti essere i Meier; con l'eccezione del padre, Jürgen li aveva conosciuti tutti. Il maggiore che si era palesato di tanto in tanto a trovare Fritz, un velo di freddezza e di impaccio sembrava essere intessuto tra i due. La sorella maggiore invece straboccava d'amore e certezza,lei tante volte era venuta a trovarla, con l'apprensione negli occhi azzurri. I due fratelli che si somigliavano, alti, biondi e dalle spalle larghe, sembravano giganti al cui fianco Fritz, riccioluto, castano e minuto sembrava sparire – nonostante egli avesse condiviso l'altezza con lui.

Non era andato dai Meier, si era fermato a casa sua, mentre Carice lo aveva abbandonato con la scusa di volergli lasciare per quello il suo spazio, aveva le labbra tremolanti e gli occhi bassi di chi nascondeva qualcosa. A Jürgen non interessava.
I suoi genitori vivevano in Capitale, con la sua sorellina, e quando s'era saputo che il figlio al prodigo era tornato, anche suo fratello si era palesato, con la giacca dei militari con l'unicorno appuntato al petto, anche il viso era smunto e sembrava che il terrore e la preoccupazione fosse arrivata anche lì. Anche la Capitale era stata smossa dall'indolenza.
“Perchè non lasci la Legione?” gli aveva chiesto sua madre, come ogni volta, suo padre aveva taciuto, lui che per anni aveva indossato lo stemma della Gendarmeria non aveva mai compreso suo figlio maggiore. “Mamma, non può, di questi tempi ogni legionario è importante” aveva soffiato sua sorella, Lena sempre così audace, tredici anni e le treccine. Garlef era grato che non avesse mai intrapreso le strade dei suoi fratelli. “Erik Schmidt ha intenzione di dare le sue dimissioni” aveva raccontato ai suoi genitori, non sapeva perché e non sapeva cosa questo avrebbe voluto dire per lui. Erik gliene aveva fatto parola praticamente ad un solo giorno dalla scadenza dei quaranta, lo sguardo sempre alzato all'orizzonte ora piantonato sulla punta dei suoi stivali; lo capiva, lo capiva: Erik Schimdt il Capitano che aveva dimenticato la sua città ed i suoi uomini.

“Diventerai tu ...?” aveva provato suo fratello, “Non lo so” aveva risposto lui, poiché non era Erik Schmidt.
E non voleva esserlo.
“Cosa dice il Comandante Kessler?” aveva chiesto Jürgen, ma suo fratello si era morso il labbro, “I Grandi capi stanno organizzando un modo per sistemare gli sfollati” aveva risposto semplicemente.
Non c'è ma questo non lo aveva detto.

 

Dai Meier era andato per ultimo, la mattina del quarantaduesimo giorno. Aveva provato a cercare Carice senza successo, la ragazza non era nella locanda dove aveva detto di alloggiare e lui era andato da solo. Aveva sentito ogni passo che aveva percorso – a cavallo e piedi – pesante come se le sue gambe fossero fatte di pietra viva. Era l'ultimo dei tre, l'ultimo padre a cui dire che probabilmente suo figlio mai sarebbe tornato.
I Meier erano ricchi, non quanto la sua famiglia, ma avevano una casa privata, dall'aspetto pulito ed un cortile interno con un prato verdissimo, come se la crisi non fosse un loro problema. Aveva guidato il cavallo fino all'abbeveratoio e legato le redini ad un'asta di legno che era lì a posta.
Poi aveva visto il bambino, grandi occhi e capelli castani indisciplinati, quanti anni aveva: otto? Fritz … era stato il suo primo pensiero, ma niente di quel viso riusciva a combaciare con l'immagine vivida del dottore che era stato un suo sottoposto. Gli era stato indifferente all'inizio, un ragazzino viziato che si lamentava del luogo dove era finito, forse ne era stato anche divertito all'inizio, poi semplicemente lo aveva trovato seccante, forse per il ruolo che aveva. Forse perché Jürgen aveva passato la sua vita a cercare di fuggire dal suo nome ed amicizie influenti e … la sorella del neo Comandante della Legione Esplorativa era venuta a raccomandare Fritz a lui. Era stato un po' come provocarlo, poi …


Il ragazzino era scattato su come una molla ed era corso dentro la casa, non appena lo aveva visto entrare nel giardino interno. La porta era stata fino a quel momento socchiusa e quando una persona si era palesata sull'uscio, Garlef era dovuto rimanere in silenzio. Aveva aspettato di vedersi palesare un uomo o Jara Meier – ricordava distrattamente che Fritz avesse accennato di vivere con il padre e la sorella.
Alla porta però c'era una ragazzina, con il viso macchiato di lentiggini ed i capelli biondi come il grano ardente. Venuzze rosse tormentavano la sclera bianca attorno alle iridi limpide. Occhi lucidi, forse.
Mi chiedevo se potesse portare i miei saluti a Friederich Meier” se la ricordava il giorno in cui quella giovane donna glielo aveva chiesto, cortese, quando si era deciso chi avrebbe succeduto Shadish.
E le risate di Lottie che lo aveva punzecchiato perché si era fatto trovare a parlar male del nuovo Comandante proprio dalla sua sorellina, prima di vederla sparire dietro un bel gendarme dagli occhi diversi.
Aveva sentito l'orologio che era appartenuto a Fritz improvvisamente pesante nella sua tasca, non poteva riportare a quella donna, a quella famiglia, nulla più di un oggetto dimenticato – come lui si era dimentica di Fritz.
“Nina Müller” aveva detto spento Garlef e la ragazza lo aveva guardato in silenzio religioso.

 

 

 

 

 

*Fuoco di Mitras: sarebbe l'Herpes, ora tecnicamente il nome è ispirato al Fuoco di Sant'Andrea che è un tipo di Herpes diverso da quello normale – o che in questo caso ha Lady Mei, ma mi sembrava che il nome potesse prestarsi bene ad una possibile versione SNKiana.

 

 

 

N.B. SALVE! Chiedo immensamente scusa per il tirando – il capitolo era pronto praticamente due settimane fa – ma ho una buona giustificazione: ero negli anni novanta!
Quindi vi farò un simpatico riassunto: Mi hanno rubato il telefono, mi hanno staccato internet, sono dovuta tornare a casa, ho comprato il biglietto sbagliato per ritornare, mi hanno bocciata ad un esame dove non dovevo essere bocciata, mi hanno riattaccato internet e comunque non funziona.
Sono di nuovo tornata a casa dei miei e finalmente sono riuscita a postare.
Vorrei ringraziare Chemical lady che si è sentita tutti i miei disagi ed ha avuto pure la pazienza di correggere questo capitolo, il che è stato davvero il male (Comunque vi alleggo uno dei suoi meravigliosi commenti: madonna si. Il vero problema è Fritz).
Vorrei anche ringraziare Sisthra per la recensione e chiunque abbia messo la storia nelle seguite/ricordate o anche solo legga.
Fatemi solo sapere se per caso volete che vi allunghi una lista con tutti i personaggi, perché la ho prontissima
Un bacio
RLandH

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Capitolo 4
*** Fortunam criminis pudeat sui ***


NB: Questo capitolo è trash
(Se volete una colonna sonora per il capitolo: Qui)
(Se volete una colonna sonora generale: Qui)

 

 

M O R I T V R I   T E  S A L V N T



F O R T V N A M    C R I M I N I S    P V D E A T     S V I

 

 

 

Il sole non era ancora sorto. Dalle imposte non trapassava neanche un filo di luce lunare, soffocata dalle nubi. La stanza era avvolta in un buio così pesto da non permettere di guardare nulla e il silenzio regnava sovrano, interrotto solamente dai loro respiri. Non riusciva a vedere, però poteva toccare il corpo che gli era accanto, era caldo e gli dava sicurezza.
“Cosa ti affligge, Bas?” si era sentito chiedere, da una voce impastata dal sonno e lui aveva continuato a guardare dritto davanti a se al buio in cui sprofondavano i suoi occhi, “Domani è il suo compleanno” aveva sussurrato lui, sentendo gli occhi pizzicargli. Non era fatto per i discorsi profondi e a lui piaceva ridere, scherzare e civettare, non quello, quello lo disturbava. “Chi?” si era sentito nuovamente domandare, “Mia sorella” aveva risposto, “La più grande” aveva precisato ed aveva cominciato a piangere, sentendo il bullone che portava legato al collo pesante come un macigno sul petto.
“Quanto vorrei aver risposto alle sue lettere” aveva singhiozzato.
“Ti capisco” gli era stato detto, prima di sentire le labbra sulla tempia in una bacio gentile.

 

 

 

(845)
La prima volta che aveva ucciso aveva nove anni e la sua vittima era stata un gatto.
Si chiamava Fett ed era dei vicini di casa, anche se veniva sempre da loro e si infilava nella sua casa passando dalla finestra della cucina. Sua madre sembrava adorarlo, specie quando il grasso gatto si strusciava tra le sue caviglie. Aveva smosso con un po' di cuore anche suo fratello che gli dava del cibo e lo grattava sempre sotto il mento.
Fett era tondo, con il pelo d'un bianco sporco con macchie grigio cenere, non era brutto, anzi era un gatto piuttosto carino e morbido. In realtà lo aveva preso in braccio molto volte ed aveva schiacciato il viso sul manto gonfio del gatto.
Poi aveva triturato del vetro con estrema minuzia, utilizzando il mattarello di sua madre, prima di mischiarlo agli scarti del pollame per darlo a Fett.
Lo aveva guardato morire, con un brivido a scuoterla nel profondo.
Non odiava quel gatto, anzi le piaceva, lo aveva fatto spinta solo dal principio di voler sapere cosa si provava.
Che poi fosse passata dai gatti alle persone, Augusta stessa non se n'era stupita.

 

“Chi non è stato arrestato?” aveva chiesto la sua compagna di cella, cercando di schiacciarsi quanto più possibile sulla parete addossata a quella adiacente. Ausgusta era rimasta in silenzio con la schiena posata sul freddo della pietra, seduta sulla brandina a riflettere. Il Muro Maria era crollato, che assurdità.
Non riusciva neanche a pensarla una situazione del genere, che per lei era arrivata come la salvezza, Briemer era scivolata nel caos letteralmente e tutti si erano dimenticati che lei doveva essere impiccata.
Avrebbe dovuto essere già morta da almeno due giorni, ma le uniche volte che le guardie si erano palesate erano state per potare solo gente dentro.

“Fritz e Friedrich” aveva commentato un uomo dall'altra parte della parete, rispondendo alla donna che aveva parlato, “Engel” aveva annesso la della donna, c'era evidente frustrazione nella sua voce, “Ma non è quello che si è affettato da solo con le sue lame?” aveva domandato retorica una voce, veniva da una cella diversa. “Ed il dottore?” aveva chiesto qualcuno era una voce nuova, “Lui sembra capace” aveva constatato qualcun altro – era abbastanza lontano da loro, una delle celle infondo al corridoio. “Lo sono” chi aveva risposto era stata la prima voce maschile che Augusta aveva sentito, quella che aveva risposto alla donna. “Spero tu abbia ragione, Leon” aveva soffiato la compagna di cella. “Io non posso crederci” aveva mugugnato qualcuno, “Oh per favore, tu devi solo stare zitto” aveva risposto con una certa rabbia qualcun altro, “Che è tutta colpa di quella testa di cazzo di tuo fratello” aveva aggiunto. Per Augusta era un impresa riuscire a stare dietro a tutte quelle voci, che sembravano tutte dire le medesime cose e senza riuscire a distinguere effettivamente chi stesse parlando – e di cosa – non era riuscita a venirne a capo. Alla fine aveva rinunciato.

Il caos, i subbugli e l'isteria nella prigione era solo peggiorata; qualcuno aveva cercato di convincere gli uomini a mantenere basso il brusio o le guardie sarebbero venute a ficcanasare.

“Il gatto” l'aveva interrotto una voce, Augusta aveva potuto identificare a provenienza in un uomo dalle ombre rade sulle guance che condivideva la cella di fronte la loro, “E quella ragazzina pallida” aveva ripreso lui, passandosi una mano sul mento.
La donna che condivideva la cella con Augusta ne aveva preso atto, annuendo. Era piuttosto piccola di statura, o almeno lo era rispetto lei, poteva comunque essere definita bassa; aveva i capelli scuri che arrivavano alle scapole, erano spettinati e tutto quello che Augusta riusciva a guardare era il simbolo delle ali incrociate sulla schiena: una legionaria. Eccetto lei e quella vecchia cariatide di Tom – che sarebbe morto lì dentro probabilmente – erano tutti membri di quel corpo militare. “Humbert è bravo, non lo troveranno mai; lei … Frejya, non lo so” aveva commentato la donna tra sé e sé, scivolando seduta per terra, con le spalle ora rilassate, passandosi le mani tra i capelli scuri.
“Anche Miloh” qualcuno aveva strillato; Augusta aveva potuto vedere la donna sollevare gli occhi al soffitto come se quella notizia l'avesse colpita repentinamente, “Baumann” il tono era sembrato quasi esasperato.
“Ma qualcuno ha visto Shoshanna?” l'ultima voce era stata piuttosto alta.
Prima che la sua compagna di cella potesse commentare qualsiasi cosa, Augusta aveva parlato: “Cosa sta succedendo?” aveva chiesto, passandosi le mani sulle braccia ossute. La donna l'aveva guardata; aveva un viso molto più giovane di quanto Augusta si fosse potuta immaginare, forse erano molto più vicine d'età di quanto avesse pensato fino a quel momento, aveva occhi scuri la ragazza, ma illuminate dalle fiaccole delle prigioni sembravano di un rosso bruno come il sangue. “Stiamo morendo” aveva risposto pratica quella.
“Caporale Charlotte Schwarz” si era presentata, allungando una mano verso di lei, si era dovuta chinare un po' in avanti per permettere che la distanza tra di loro si accorciasse, per quel che valeva le celle erano praticamente buchi. Lei si era sporta di rimando, stringendo la mano: “Augusta Rommel” si era presentata.

 

La donna aveva passato nuovamente le dita attorno allo strano ninnolo che indossava come monile, un bullone – probabilmente tolto da una manovra - legato ad uno spago e Fritz si era arreso a comprendere che quella azione fosse guidata da un nervosismo. Anche quando aveva trovato lo scheletro bruciato battello arenato sulla ghiaia ai piedi del lago salto aveva sfiorato ripetutamente l'oggetto.
Era una donna senza particolarità degne di note, una donna dal naso appuntito e gli zigomi puntellati di lentiggini scure; un viso affilato, occhi della sfumatura del teak e capelli bruni; continuava a tormentarsi le piccole labbra con i denti. “Quanto dobbiamo aspettare ancora?” aveva chiesto Engel, con le spalle incavate ed un coltellaccio in una mano. Fritz era al suo fianco e fumava con le dita tremolanti.
Da che il giovane fattore aveva detto a lui e a Charlotte che il muro era crollato ed i giganti erano entrati, quella era la sua prima sigaretta, la prima in cinque giorni.

Il privato Brhol aveva il posato il fucile contro il muro, mentre egli era seduto per terra, con le spalle infossate, le ciocche fulve tirate via dal viso. “Il Caposquadra Schuster sarà qui fra poco” aveva detto quello con un tono un po' tremolante, tutto di lui sembrava irrequieto e Fritz non si sentiva di giudicarlo.

Il luogo dove si erano riuniti era a tutti gli effetti l'appartamento di un Caposquadra – in particolare quello della drappello di Brhol – della Guarnigione, che sembrava essere quello dietro una quanto plausibile rivoluzione che sembrava sul punto di compiersi. “Ma secondo voi … al sud, cosa staranno facendo?” aveva chiesto il ragazzo della guarnigione, morendosi le labbra. “Tutto il possibile per chiudere la breccia, credo” aveva risposto Fritz, “Non possiamo sapere l'estensione del danno, ma so che stanno facendo tutto ciò che è in loro potere” aveva detto con certezza disarmante lui.
Perchè si fidava di Erwin Smith.

Soshanna aveva emesso una specie di sbuffo, “Non ha importanza quello che fanno loro al sud- Il dottor Meyer ha ragione però, non sappiamo l'estensione del danno, potrebbero impiegarci da giorni a mesi. Briemer non è fatta per resistere ad un assedio” aveva spiegato secca, continuando a passare le dita sul suo bullone. “Pensate possano davvero recuperare il muro?” aveva chiesto Brhol, “Ma poi come è successo che è venuto giù?” aveva rilanciato dunque Engel, che come Fritz aveva sentito le stesse improbabili ipotesi che si erano fatte nel tribunale.
Shoshanna – che era un ingegnere e probabilmente si era già costruita le sue teorie – aveva guardato lo stazionario, “Sicuramente hanno buttato giù la porta, le mura sono troppo resistenti” aveva cominciato quella, “Come non riesco ad immaginarlo, ho sentito di gente parlare di fatti davvero difficili da credere, ma considerando che il rivestimento della morta è in mattoni e legno c'è voluta una forza immane” – si era arrestata, tormentandosi un labbro con i denti – “Forse l'ipotesi del gigante alto sessanta metri che calcia la porta potrebbe avere quasi senso” e come aveva pronunciato quelle parole, i visi di tutti gli uomini della stanza si erano fatti esangui. “Però sì,” aveva ripreso Shoshanna ed in quel caso aveva incatenato i suoi occhi scuri a quelli di Sirk Brhol, “Chiuderanno la breccia, hanno l'ingegnere più brillante che le Mura abbiano mai visto; se non chiude lui la voragine, non lo farà nessuno” aveva spiegato pratica, il suo tono era inflessibile come il ferro.
Fritz aveva strizzato gli occhi appena richiamando nella memoria l'immagine della persona di cui Shoshanna stesse parlando, la quale si era palesata in colori sfumati fino a prendere le fattezze di un uomo dal viso di bimbo con la chioma chiara come il nevischio ed iridi di ametista. “Pav … Pascal VonPedrick, vero?” aveva domandato Fritz, cercando di ricordare correttamente il nome, invece rimembrava il cognome vividamente in quanto era appartenente a una famiglia nobiliare con un’araldica non indifferente. Nina gliene aveva parlato qualche volta e come Shoshanna pure lei sembrava nutrire una certa ammirazione per le facoltà mentali possedute da tale ingegnere, anche se la sua amica ogni tanto si divertiva a tinteggiargli una personalità che nonostante l'alacrità risultava al quanto variopinta.
Shoshanna era rimasta in silenzio, con le labbra strette tra di loro, “Si, Pashcal” aveva confermato lei, facendo inavvertitamente scivolare fuori la S strisciata della sua zona di provenienza. “Lui è … davvero straordinario” aveva ammesso la donna. Qualcosa nel suo tono era stato diverso dalla lucida sicurezza con cui aveva parlato fino a quel momento.
Engel aveva sollevato lo sguardo dal punto nel pavimento che aveva fissato fino a quel momento – senza particolare ragione – per sollevarlo verso la donna e le aveva chiesto sfacciatamente “È il tuo uomo?”

Shoshanna aveva riso con una certa asprezza, “Mio?” aveva chiesto enfatica. E dopo quell'unica parola aveva lasciato in pace il suo bullone.
Paschal appartiene alla scienza e solo alla scienza.”

 

Il discorso morì lì, ulteriormente interrotto dallo sferragliare delle chiavi contro la serratura della porta. Quando la porta si era aperta, il primo ad essersi palesato era stato un uomo dalle spalle ampie che Fritz aveva valutato essere alto quasi quanto Fabi, suo fratellastro, sul metro e novanta, con un intricato intreccio di capelli chiari e le rose appuntate sul petto. “Caposquadra!” aveva esclamato immediatamente Brhol saltando in piedi dalla sedia in cui era stato seduto fino a quel momento, con tanto di saluto militare. “Riposo Brhol” aveva detto semplicemente lui, volgendo immediatamente uno sguardo verso di loro, facendosi però da parte, permettendo di entrare anche alle altre persone nell'appartamento.
Una ragazza alta e robusta – non quanto sua sorella Jara – con i capelli biondo cenere, aveva le maniche arrotolate fino ai gomiti, della giacca della guarnigione. Alle sue spalle c'era un altro stazionario con i capelli dello stesso nero dell'inchiostro e gli occhi del colore dello zucchero cotto. Poi Fritz aveva riconosciuto il famigliare viso di Humbert, il Gatto, con gli occhi liquidi come il cielo ed i capelli di un biondo piuttosto chiaro, accanto ad un'altra legionaria di cui non sapeva il nome, ma che sembrava fatta di latte e farina.
“Tenente!” aveva strillato qualcuno e Fritz aveva immediatamente riconosciuto il ragazzo della birra farsi largo per raggiungere Shoshanna, “Seriamente, lui?” aveva chiesto Engel grattandosi il capo con una certa perplessità.
“Fritz!” aveva esordito Humbert, spingendo – forse con troppa enfasi – l'altra legionaria verso di lui. Il dottore aveva potuto notare che fosse più livida di quanto l'avesse vista nei giorni ad Hanneke. Le sue labbra erano screpolate ed i suoi occhi parevano opachi, “Hanno sparato a Freyja” aveva detto subito quello, “Sulla spalla” aveva aggiunto, indicando la zona senza toccarla.
Entrambi avevano un odore nauseante, Fritz non avrebbe potuto definirlo in nessun altra maniera se non come sapone sullo sporco, come se avessero cercato di tirar via del marcio versandoci dell'acqua pulita, avendo però creato un terzo miasma.
Fritz aveva recuperato delle forbicine dalla sua borsa di pelle in cui riponeva sempre i suoi attrezzi medici. Aveva infilato le forbici nel colletto di lana di Freyja cominciando a tagliuzzarla lungo la spalla fino all'altezza del gomito, scoprendo la pelle lattea.
Shoshanna e l'Uomo della Birra si erano attorniati a loro, così come invece Brhol si era ricongiunto con i membri della Guarnigione.
La spalla di Frejya era stata fasciata alla meno peggio, ma del grumoso sangue bruno insozzava le bende; il dottore aveva strappato ancora di più la maglietta per avere più campo di movimento, al punto di esporre anche le bende che fasciavano il petto, la ragazza era avvampata di imbarazzo.

“Scusa” aveva provato Fritz senza distrarsi cominciando a sfasciare la bendatura che aveva la giovane, “Gliela ha fatta Gretha” aveva cominciato subito Humbert che aveva sollevato lo sguardo per non assecondare l'imbarazzo della sua compagna. A Fritz onestamente non interessava in quel momento di sapere chi fosse la donna citata, quanto più premeva di sapere quanto grave fosse la ferita.
Il proiettile l'aveva passata da parte all'altra, senza recidere alcuna arteria; “Ti pulisco la ferita e vedo se è il caso di ricucire qualcosa” Fritz aveva tranquillizzato Frejya con un tono di voce calmo, “Dovresti prendere anche un antibiotico” aveva aggiunto, pensando che le avrebbe anche dovuto dare un antinfiammatorio, ma gliene erano rimasti così pochi, che sarebbe stato grandemente più saggio vedere il decorso dell'infezione. Avevano già lavato la ferita, quella Gretha doveva avere una certa manualità nel fare medicazioni. “Dai alla fine è un colpo di rivoltella, non è grave vero?” aveva chiesto Humbert passandosi una mano sul fianco, nonostante questo la voce tradiva una certa apprensione.
“Come ve la siete cavata voi? Io sono andato da Sirk” aveva raccontato il ragazzo della birra, “Ci siamo nascosti in un bordello” aveva spiegato Engel, “Anche noi” era stato lo spento commento di Frejya. Poi le loro parole erano scivolate in un silenzio logorante.

 

Le conversazioni degli stazionari erano arrivati loro distanti, “Il Privato Zimmermann?” aveva chiesto Sirk Brhol passandosi le mani tra i capelli rossastri con un espressione un po' vacua, “Tranquillo è dove deve essere” l'aveva rassicurato Schuster, dandogli una pacca su una spalla prima di voltare lo sguardo verso il gruppo di legionari.
Shoshanna aveva alzato lo sguardo su di lui, mentre Fritz si occupava di mettere delle garze pulite sulla ferita di Frejya, che aveva avuto per tutto il tempo un espressione sofferente. Humbert le aveva tenuto una mano. “A parte in un sanatorio, si intende” era stato il commento soffocato del Gatto; Fritz ci aveva messo qualche minuto a comprendere che stesse parlando del privato.
Il Capo Squadra Schuster aveva assottigliato lo sguardo verso il legionario che aveva parlato, ma anche Shoshanna non si era risparmiata un'occhiataccia di biasimo verso il suo subordinato. “Sono contenta, Ludwing, di sapere che nel vostro ordine ci sia ancora qualcuno di intelligente” era stato il commento spietato della donna della Legione; “Non abbastanza” aveva replicato l'uomo della Guarnigione: Ernest Bruster – avrebbe scoperto poi Fritz. “Tutta colpa di quella testa di cazzo di Otto Sprotte” aveva borbottato invece la donna che aveva accompagnato loro, intrecciando le braccia sotto il seno.
Era sceso tra di loro un altro silenzio teso. “Per quanto parlare male del capitano Sprotte sia intrigante ...” aveva cominciato Humbert, ma era stato interrotto da Shoshanna che aveva chiesto senza peli sulla lingua – e senza far scivolare troppe “S” - per quale motivo Schuster gli avesse radunati lì.

“Direi che ho intenzione di cambiare le cose” aveva decretato immediatamente il capo squadra della Guarnigione.

 

 

Gli occhi delle persone non erano mai state una parte che aveva trovato di particolare interesse. Quelli di Lisbeth però avevano qualcosa di particolare, forse era perché sembrano di resina fulva densa. “Hai tenuto d'occhio l'ingresso?” aveva detto lei tutta concitata, mentre con gli occhi faceva attenzione a spirare l'ingresso della Prigione di Lubeck; il Caposquadra Schuster le aveva dato il compito di osservare tutto.
Compito piuttosto generico.
“All'ingresso ci sono due guardie, cambiano ogni ora e un quarto, con uno sbalzo di mezz'ora l'una dell'altra” aveva spiegato lui attento, osservando la tazza scheggiata che aveva in mano. Per osservare l'ingresso della galera, si era dovuto sistemare come un mendicante, con una mantella sbiadita, l'orlo sfilacciato e rovinato, con diverse macchie a completare il sistema; nessuno si era avvicinato per offrigli mezzo boccone o qualche moneta di rame, a dir si voglia nessuno si era avventurato per strada.
Nonostante questo aveva potuto rendersi conto che il quartiere di Sylten, fosse molto più calmo di quello di Wolfliebhaber; nessuno aveva sbarrato le finestre, non c'erano edifici in fiamme o gente aggredita per strada, solo sana paranoia di gente asserragliata nelle proprie dimore.
Lisbeth aveva passato una mano sull'orlo della sua mantella, senza nessun particolare implicazione. La sua espressione era vuota, tranne per gli occhi sbarrati. L'unica cosa bella che aveva; era una ragazzina spaurita, con ossa sottili e tratti del viso affilati, aveva delle orecchie un po' sporgenti che il riccio del capello non riusciva a coprire, il lobo sinistro era spaccato, una volta gli aveva chiesto cosa fosse successo, Lisbeth gli aveva tirato un pugno.
Nonostante fosse un militare, fresca dell'addestramento, il suo colpo non era stato nulla più di un buffetto sulla sua guancia, non dopo tutte le volte che si era picchiato per le strade di Wolfliebhaber – o i colpi di suo fratello quando voleva disciplinarlo.
Lisbeth gli aveva sorriso in quella maniera che la faceva apparire raccapricciante, “Stai bene così” aveva stabilito, “Dovresti andare in giro così più spesso” aveva aggiunto viziosa, “Come il rifiuto umano che sei” aveva terminato lei.

La contrazione delle sue labbra era stata automatica, “Stai zitta” le aveva impartito e le aveva tirato uno spintone appena, facendo finire la schiena di Lisbeth contro il muro di mattoni. Lei aveva riso, ma lui, ritraendo le mani, aveva continuato: “Dovresti solo ringraziarmi che sto aiutando voi porci schifosi della guarnigione”, sentiva le dita formicolargli. Voleva colpirla.
Lisbeth aveva raccolto le sue parole come se fossero state d'acqua scivolosa, le aveva recepite senza sentirsene turbata a fondo, per un solo momento nei suoi occhi allungati aveva visto un lampo di incertezza, che era stato soppresso dalla sua insofferenza. “Perchè?” gli aveva chiesto, la sua voce era così gelida da mettere i brividi, mentre lui era rimasto un silenzio e lei gli aveva domandato ulteriormente: “Che altro avevi di fare oltre farti fottere?”
Le sue mani sul collo sottile della ragazzina erano stati uno scatto così automatico, che lui se n'era reso conto solo quando aveva sentito la pelle bollente sotto i palmi. Lisbeth le aveva conficcato le unghie su entrambi i polsi, aveva spalancato le labbra screpolate, ma il terrore era stato solo un lampo nelle iridi. “Dai fallo, Kurt” aveva boccheggiato, stringendo con più forza le unghia, fino a spezzarsene, “Ma tanto una puttana come te non ne ha il coraggio, solo i cazzi sai stringere” aveva esalato. Ogni parola sembrava una coltellata nel suo costato, ma voleva comunque che lui sentisse.
Neanche la paura di morire soffocata, poteva fermarla.
E Kurt era stufo … stufo di quella sua lingua da serpente, di quella cattiveria, di iniziare a pensare davvero di non valere nulla ed era stato difficile combattere il desiderio di stringere e questo lo spaventò molto.
Aveva già allentato la presa, quando la voce gli aveva attirato: “Vacci piano ragazzina, o finirai per ucciderla davvero.”
“Io non stavo facendo niente” aveva miagolato Lisbeth.
A loro si era avvicinata una giovane donna, la chioma tagliata sotto l'attaccatura della mascella, di un paglierino che ricordava la birra, un viso piuttosto marcato, un naso pronunciato; sorrideva in una maniera un po' storta, poi aveva detto: “Ma, infatti, io parlavo con l'altra.”

Lui aveva potuto sentire gli occhi caustici della nuova venuta su di sé ,“Ei” aveva berciato, scoccandole uno sguardo piuttosto infastidito. Quella aveva spalancato le palpebre, “Oh ma sei un maschio” si era burlata di lui, “Hai un viso così femminile” aveva aggiunto allungando una mano verso di lui, forse voleva vederselo meglio quel volto, ma Kurt si era tirato indietro svelto.
La mano della donna era rimasta sospesa, i suoi occhi si erano spalancati, aveva ciglia chiare come i capelli, piantonati sul suo vico; Kurt ne era certo avesse visto qualcosa che lui non poteva comprendere, aveva anche perso quel suo sorriso sghembo per schiudere le labbra. Era sul punto di chiederle se le piacesse quello che vedeva, quando Lisbeth aveva parlato: “Ma tu non sei la sorella di Wagner?” aveva chiesto, guardandola.
La donna aveva finalmente scostato gli occhi di dosso a Kurt per piantarli nell'altra ragazzina, anche questa volta aveva allungato una mano, ma Lisbeth non era stata così veloce da scostarsi. La donna le aveva posato il palmo sulla guancia ed aveva con le dita sfiorato il lobo spaccato a metà e Lisbeth aveva fatto scattare una mano per afferrare il polso della sorella di Wagner, “Tu sei Lis dell'orecchino di rosa, giusto?” aveva chiesto la donna più grande.
Kurt non aveva mai visto la ragazza in quello stato, il suo viso s'era fatto cereo, i suoi grandi occhi erano aperti e vividi nel terrore, le labbra serrate ed un leggero tremore si evinceva dalle spalle. “Sapresti spiegarmi cosa cazzo è saltato in mente alla Guarnigione?” aveva inquisito quindi la donna, togliendo la mano dal viso di Lisbeth – e quella aveva ripreso a respirare solo in quel momento – che presto si era portata le dita al lobo spaccato.
“Dovresti prendertela con il Capitano Sprotte, a quanto ci hanno spiegato è stato un fervido sostenitore di questa intervento cautelare” aveva detto Lisbeth riacquistando un po' di colorito sulle guance; la frase non aveva messo per nulla di buon umore la donna, che si era passata le dita tra la frangia scoprendo la fronte alta.
Si era allontanata ed aveva tirato un calcio al muro, sul viso vi era l'espressione di una bestia, “Otto esimia testa di cazzo” – un ringhio – “Ma non potete esservi rincretiniti tutti insieme” aveva ammesso, c'era una frustrazione immensa nella sua voce, “Il Caposquadra Schuster non lo è” aveva detto con voce spenta Lisbeth. Kurt aveva spalancato gli occhi guardandola con preoccupazione, era forse impazzita del tutto?
Il fatto che quel soldato, Schuster, avesse voluto che la situazione rimanesse per lo più nascostea non era stato molto eloquente nello spiegarlo, ma anche Kurt che aveva ascoltato la conversazione seduto dalle scale che portavano al piano di sopra, nel bordello dove abitava, che era necessaria la discrezione, che quello che dovevano fare avrebbe creato loro non pochi problemi.

Il caposquadra Schuster lo aveva detto a Lisbeth, Humbert e quell'altra di cui non ricordava il nome, dopo che quei tre si erano rifugiati dove viva lui – e sua zia Gretha aveva alla ben che meglio messo le mani sulla ferita della legionaria ferita. Le altre ragazze del bordello erano state tutte un po' tese ed avevano ricordato a Kurt animali diffidenti, quando avevano sentito parole come discrezione, piano e contromossa.
Ed era stato palese a tutti che il caposquadra Schuster volesse fare qualcosa di profondamente avventato.
Le prostitute avevano acconsentito a tacere, soltanto perché la situazione era a loro strettissima, non volevano assolutamente sollevare un vespaio e tutti concordavano che la legione esplorativa era necessaria contro i giganti.
Kurt non ci voleva neanche pensare ai titani, ne era sempre stato terribilmente spaventato quando da bambino gli avevano preso a raccontare che se non mangiava tutte le verdure i giganti lo avrebbero mangiato.
Lui era tranquillo, non aveva la più pallida idea di cosa fosse successo al sud e di cosa stessero combinando tutti, di quanto il danno fosse esteso, di come poteva essere successo, Kurt ammetteva tranquillamente di essere ignorante, ma una cosa lo sapeva: suo fratello non l'avrebbe lasciato a morire.
La donna aveva ripreso un colorito umano e sembrava che parte della frustrazione fosse scemata via dal suo viso, “E dimmi dove lo trovo questo stazionario non completamente stupido?” aveva chiesto e se Kurt era stato sul punto di mentire, normale sfiducia nel genere umano, Lisbeth la aveva direzionata in quella che tutto probabilmente era il vero luogo.

 

“Perchè lo hai fatto?” aveva chiesto Kurt, osservando come ancora Lisbeth mantenesse un espressione vacua, che il ragazzo non riusciva ad associare alla personalità leziosa della sua conoscente. Gli occhi grandi di Lisbeth erano il riflesso del vuoto e le sue labbra erano serrate in un taglio, neanche una smorfia o un sorriso sornione; somigliava quella versione terribilmente più alla vecchia Lisbeth di quanto alla nuova. “Suo fratello è in galera” aveva risposto la bionda, mentre faceva scorrere il pollice sulla spaccatura del lobo, “Loro sono uniti” aveva mormorato. Kurt ne aveva preso atto ed aveva annuito, lui poteva capire.
“Spero tu abbia ragione” aveva mormorato lui, grattandosi il capo, non sapendo più cosa dire, mentre spiava la sua compagna che se ne stava ritta e spenta al suo fianco, qualcosa che Kurt non aveva compreso doveva averla turbata molto. Era tanto tempo che lui non la vedeva in uno stato simile, anche quando era venuta a portare la notizia della caduta del muro l'aveva fatto con mero disinteresse, con il viso disteso in un sorriso inconsapevole: Lisbeth che sempre non sembrava curarsi di nulla.
Nulla che non fosse il tormentarlo, con la sua lingua di veleno e lo sprezzo negli occhi.
Kurt non riusciva a sovrapporle l'immagine della soldatessa con il guizzo di follia nello sguardo con quella della bambina che Kurt conosceva. Lisbeth con i ricci tondi e gonfi, che portava il pane tra le mani per donarglielo.

“Torniamo a lavorare” aveva ringhiato poi la ragazza, abbandonando il gioco sul suo orecchio per voltarsi verso di lui, “O ti senti troppo vuoto?” aveva chiesto lei, ammiccando. Kurt aveva sentito le dita tremolargli, ma aveva lasciato perdere.

 

L'antagonismo del Governatore contro la Legione era colpa indirettamente di Andrej Sankov e di Marcel Schuster, questo Ludwing lo aveva scoperto dopo il suo ingresso nella Guarnigione; era stato dopo la morte di suo padre, dopo che aveva spedito quella lettera per il Sankov e se n'era sentito brutalmente in colpa.
Aveva incontrato Sankov un anno dopo aver terminato dall'Accademia ed aveva raggiunto il sud, era stata la prima volta che andava più a meridione di Nedlay ed era giunto fino a Shigashina. Ricordava quella licenza come la più bollente della sua vita, non solo per Liesa, conosciuta lungo la strada, con quei capelli ardenti e le cosce pallide, ma per il caldo; si era letteralmente cotto sotto i suoi vestiti sempre troppo spessi ed anche il suo cavallo sembrava aver cominciato a cedere al sole battente.

Ricordava il viso spaesato e confuso di Andrej quando si era affacciato all'ingresso del quartier generale della Legione, perché aveva saputo che un ragazzo del Nord lo cercava.
Dello scandalo di Sankov lo aveva saputo dalla Guarnigione, quando il Capitano Pfeiffer gli aveva chiesto se per caso non fosse figlio di quel povero bastardo di Marcel Schuster.
“Sei uguale a tuo padre” era stato il commento affievolito di Sakov e Ludwing si era sentito improvvisamente minuscolo, perché mai si era sentito più distante rispetto suo padre, che era un brav'uomo che aveva aiutato un amico.

Ludwing era lì per la verità, gli aveva detto, era stato per quello che si era mosso così a sud, alla Guarnigione aveva sentito un pettegolezzo e l'allora capitano Winkler gli aveva detto se voleva sapere la verità forse era il caso che la chiedesse a chi di dovere.
Lui e Sankov avevano diviso una birra ad una locanda di Irsee ed alla fine l'uomo gli aveva raccontato la verità, che era l'uomo orribile di cui si diceva al nord e che Marcel Schuster era stato per lui un fratello, un mentore ed un amico. Alla fine aveva pianto. Ludwing non aveva mai visto un tale pianto sul viso di un adulto.
Se Sankov camminava ancora su quella terra, gli aveva confessato, era merito di suo padre, lui ed il capitano Winkler lo avevano coperto da quella che era stata un'azione disperata di un ragazzo troppo giovane e troppo disperato, che gli era costato l'esilio da Briemer.
“Avrei voluto esserci, per Marcel” gli aveva detto Andrej, “Quando il governatore tirerà le cuoia io tornerò a casa” aveva aggiunto poi, alzando lo sguardo su di lui, era fiammeggiante la promessa.
Poteva sembrare fuori luogo rimembrare quella vicenda in tale delicato momento, mentre in una stanza occupata da una rosa di persone quanto mai diverse si dibatteva cosa fare, ma lo Scandalo di Sankov gli aveva suggerito una soluzione piuttosto drastica.
Il problema era il Governatore.
Era venuto il momento che qualcuno mettesse in atto un piano che per colpa dell'avventatezza di un giovane non si era mai potuto realizzare: togliersi dalle palle il governatore.


“Il problema di Otto Sprotte è che non si è mai tolto la scopa dal culo che gli ha ficcato Levi della Legione” la voce di Eva lo aveva risvegliato dalle sue elucubrazioni. Ella era un membro della guarnigione ed era di poco più grandi di lui; aveva un fisico piuttosto mascolino, era la seconda di Otto, ma non sembrava nutrire grande stima per il suo superiore.
“Oh, me lo ricordo” gli era andata dietro Shoshanna Nordtveit con un accento buffo che continuava a riverberare nelle sue parole; “Non credo sia il momento di parlare di questo” aveva sentenziato Schuster, ma aveva potuto vedere il medico della legione, quello con gli occhi azzurri da cerbiatto spalancare le palpebre. “Perchè mi perseguita” era riuscito a dire, mentre chiudeva le dita attorno al viso e il suo compare di Nedlay gli aveva messo una mano sulla schiena e gli aveva tirato qualche buffetto.“Ludwig ha ragione, per quanto adori parlare di quella storia a chiunque” aveva spiegato Ernest, alzandosi dello sgabello in cui si era accomodato, aveva il viso glabro ed era ancora un giovane idealista, almeno però si disse Schuster non aveva addosso il puzzo di latte come Brohl.
“Comunque credo di amare Levi” era stato il sussurro del ragazzo della legione esplorativa che non era il dottore, il quale aveva una macchia di capelli corvini fino alle spalle, dritti come lame. Il medico gli aveva lanciato uno sguardo luminoso, mentre le dita affusolate passavano tra i riccioli castani per toglierli dal viso. “Ed io l'ho saputo direttamente da lui” aveva canticchiato la recluta della legione, con una risata frizzante, mentre teneva ancora la mano della sua amica ferita.
A vederli così Ludwing pensò che erano davvero disperati. Prigionieri nelle terre dei giganti, la legione in galera e quelli erano gli unici uomini che era riuscito a mettere assieme. Ed aveva anche un piano che faceva schifo, si rendeva conto, che a confronto quello di Andrej Sankov per assassinare il Governatore – che gli era valso l'esilio – era un capolavoro.

Se il ragazzino dalla legione dai capelli chiari come nevischio avesse avuto voglia di raccontare come aveva conosciuto la storia direttamente da Levi del sud, un inaspettato arrivo gli aveva interrotti. “È così che vi state rendendo utili?” aveva chiesto una voce, facendoli tutti con lo sguardo capitolare dentro l'ingresso della piccola casa di Ludwing.
Il suo primo pensiero era andato ad Otto Sprotte, lo stesso viso aguzzo ed i capelli quasi gialli, gli occhi stretti e cattivi, poi aveva scorso il fisico più minuto ed il petto, prospero. “Tu sei la sorella di Otto!” il commento era venuto da Eva, che si era irrigidita come una molla, una mano aveva raggiunto la fondina, il ragazzino della legione le aveva parlato sopra: “La sorella di Wagner!” aveva detto.
La donna aveva spalle strette, i capelli lisci, portati lunghi fin sotto al mento ed un frangia a coprire la fronte alta; indossava una giacca piuttosto pesante per il periodo primaverile, di un colore scuro ed opaco, “Potrei essere la sorella di entrambi, visto che hanno lo stesso cognome” aveva sentito il bisogno di inferire la donna, con un sorriso caustico sulle labbra.

“Vengo in pace, comunque” aveva aggiunto, mentre li studiava attentamente. “Perchè dovremmo fidarci di te?” la domanda l'aveva posta Ernest, con le braccia incrociate sotto il petto, mentre la guardava cauto. Il Privato Brhol aveva ingabbiato il fucile per accortezza. “Il fatto che il mio fratellino è stato messo in prigione?” aveva domandato con un certo sarcasmo lei. Il ragazzo della legione, che teneva la mano all'amica ferita, si era alzato in piedi, era piuttosto alto ma molto allampanato, “Io mi fido di lei, Wagner ne parla sempre bene” aveva voluto rivelare, con un tono di voce molto limpido.
La cosa non era andata troppo a favore della sorella di Otto, era impressionante quanto si somigliassero, ma nessuno aveva emesso alcun commento. Quella aveva chiodato gli occhi verdi su Ludwing – il suo primo pensiero era stato che per quanto simili fossero molto più spaventosi di quelli di Otto – ed aveva cominciato: “Sentite, non mi sorprende che non vi fidiate di me, mio fratello maggiore è una testa di cazzo che non ne ha prese abbastanza da bambino. Adesso io non ho idea di cosa come stiano sprecando il tempo al sud, ma penso che la legione chiusa in galera sia un idea così stupida che solo quel coglione di mio fratello poteva appoggiare. Ora a guardatevi: il mio aiuto non potete rifiutarlo, siete piuttosto patetici e disperati, io sono stata spedita qua praticamente da due bambine con le ginocchia ancora sbucciate”
Ludwing aveva impiegato un momento per pensare di chi stesse parlando. La donna non gli aveva dato il minimo indizio, continuando a parlare come un fiume: “Nel ghetto ho visto gruppi di bambini più organizzati di voi. Siamo in prossimità della fottuta apocalisse, la Guarnigione ha deciso di dare sfoggio a tutta la merda di cui ha riempito la testa – senza offesa – e trovo voi, la resistenza, vi devo chiamare così? Che state perdendo tempo: sparando cazzate su quel nano infame di Levi, che se fosse stato qui per davvero avrebbe ridato una ripassata a quel beota di mio fratello, a quel vecchio disgustoso del governatore ed al resto delle teste di cazzo” poi si era finalmente fermata.
Aveva catturato decisamente lo sguardo di tutti, il dottore della legione aveva tolto le mani dal viso per guardare con gli occhi da cerbiatto la donna, c'era ancora un certo sconforto nel suo sguardo, “Ma tu chi sei?” aveva chiesto quello poi.

La donna aveva distolto lo sguardo da Ludwing per guardare quello che aveva parlato, “È la sorella di Wagner” aveva spiegato il ragazzino dai capelli biondi, ma aveva guadagnato un'occhiata piuttosto scettica dal dottore. “Grazie, Humbert, parlavo in maniera più generale” aveva spiegato il dottore, passandosi una mano tra i ricci scuri, “Caporal Maggior Emma Sprotte, principessa, della Gendarmeria” gli aveva risposto a tono quella.
Ludwing aveva notato quando fosse pericolosamente somigliante a suo fratello.
“Come c'è finito un gendarme a Briemer?” aveva domandato la ragazzina della legione con la spalla ferita; “Licenza” aveva mormorato lei un po' più spenta.
“Caspita” era stato acre commento dell'altro uomo di Nedlay.
Andare in licenza nei territorio più esterni e ritrovarsi prigionieri tra i giganti …

Eva aveva voltato lo sguardo verso di lui, “Ci fidiamo?” lo aveva solo sillabato, ma Ludwig aveva annuito. Ricordava in maniera vaga la famiglia di Otto, negli anni in cui erano stati compagni – ed avevano dovuto dividere anche la cuccetta – ma ricordava distintamente volte in cui si era lamentato della sua sorella sempre così fastidiosa, che a differenza sua era entrata nella Gendarmeria.

Ludwing aveva accordato; “Schuster, giusto?” aveva chiesto Emma avvicinandosi a lui, non era particolarmente minuta come donna, salvo rispetto lui, non aveva neanche delle forme eccezionalmente voluttuose, ma aveva un aspetto ammaliante e ferino. “Ci siamo incontrati una volta, non importa, quale è il piano? Perchè devi averne uno” aveva sentenziato Emma.
Tutti gli sguardi della stanza in quel momento erano rivolti a lui, “Si, ne ho uno” aveva confermato lui, forse lievemente lugubre nella voce.
“Lo dice, come noi diciamo c'è un quindici metri” il commento era venuto da un membro della legione, ma Ludwing non si era lasciato distrarre per nulla, fissando gli occhi di intensi di Emma. Si aveva un piano, si era piuttosto patetico, ma almeno ne aveva uno.
“Faremo ciò che non è riuscito a fare Andrej Sankov” aveva stabilito e gli occhi si erano direzionati su Shoshanna Nordveit. Era sulla trentina, probabilmente era stata presente in quegli anni piuttosto turbolenti della Legione. “Vuoi uccidere il Governatore?” aveva chiesto appunto quella stessa. “Se dovesse capitare, non mi tirerei indietro” aveva confermato, in parte, “Ma no” aveva rivelato.

 

Ti lascio il mio anello di famiglia, puoi scegliere se indossarlo o meno. Se lo farai, quando sarò tornato potremmo sposarci.
Ti ho anche regalato una collana, Charlotte dice che potresti apprezzare un dono fatto a mano più di un gioiello. Sei abbastanza intelligente e creativa da capire le molteplici implicazioni di un bullone come metafora, credo. Spero di non averti sopravvalutata.
Comunque dovresti ricontrollarti i calcoli per …, mi sono ricordato che non devo scriverlo,ma potresti aver commesso un errore tra la quarta e la quinta pagina dei progetti.

Pascal.

 

Shoshanna aveva riletto quella lettera con un sorriso mesto sulle labbra. Che dannato senso aveva in quel momento? Il vascello era bruciato e Briemer sembrava perduta.
Non aveva idea di cosa era successo al sud, ma se nessuno era ancora arrivato a portar loro notizie probabilmente la situazione era davvero … grave; probabilmente neanche con tutta la sua intelligenza Pascal avrebbe potuto mettere riparo alla situazione.
Forse quello era il tramonto definitivo di Briemer e lui non sarebbe mai tornato, ma forse un giorno si sarebbero incontrati di nuovo. Il piano di Schuster, e quello di Lottie, per quanto abbozzato e fallace, poteva avere successo e, quindi, forse c'era davvero da sperare in quel matrimonio, che lei neanche aveva voluto.
Aveva strillato, aveva strepitato quando aveva letto la lettera e desiderato lanciare l'anello quanto più lontano possibile da lei, ma poi lo aveva indossato. Era un gioiello fatto d'oro, lucido e pacchiano, era istoriato di iscrizioni e pietruzze lucenti, in ultimo sulla sommità svettava una pietra che probabilmente valeva più di mezza Briemer – quasi sicuramente – di un viola cupo e denso.
Lottie aveva detto fosse ametista, lei ne capitava decisamente di più, Shoshanna aveva sempre trovato i gioielli fuori luogo per la sua persona, che alla fine aveva finito di regalare tutta l'eredita che sua madre le aveva lasciato alla sua sorellastra – le mancava Marina – ed alcuni li aveva donati a Charlotte, che sembrava gradirli più di lei.
Aveva quasi perso l'anello fuori nelle terre dei giganti ed alla fine si era costretta a riporlo in un posto sicuro, nello stesso aveva nascosto anche la lettera. Li aveva recuperati entrambi, per scaramanzia. Si era sfilata la collana di spago in cui era infilato il bullone – lo aveva gradito davvero quel regalo, era stato come dichiarare che stavano costruendo qualcosa assieme – e dopo aver sciolto il nodo aveva fatto scivolare anche l'anello lì, prima di indossarlo nuovamente.
Doveva ricordarsi quando lo avrebbe incontrato di ficcargli quel fottuto anello in culo, assieme alle sue mele e le sue follie ricerche sulle cose cadenti.
“È per lui che stai facendo tutto questo?” la domanda del dottore l'aveva costretta a risvegliarsi, si era voltata per incontrare gli occhi azzurri di Fritz Meier; aveva ventidue anni, il viso sbarbato ed un aspetto ancora da giovincello e quel terribile accento del sud. “Non siamo mica tutti come te” doveva essere una battuta quella di Shoshanna, ma era uscita fin troppo leziosa e se ne rendeva conto. Non avrebbe dovuto creare conflitti prima di quei delicati momenti, ma non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione di incomodo che provava per quel giovane. “Non ho bruciato io la nave” Fritz lo aveva scandito, capendo forse che a principio della loro incomprensione continuasse ad essere quel fatto.
Shoshanna stava alludendo alla sua abitudine di raccontare della sua amata, la sorella del neo Comandante Erwin Smith, il motivo per cui quasi tutti avessero cominciato a sospettare di lui come spia del suddetto, in effetti.
“Sei stato l'ultima persona a lasciare il sito” aveva fatto notare Shoshanna, ricordando l'ultimo sguardo che aveva dato alla sua bambina – frutto dei progetti di Pascal e suoi – non ancora pronta per solcare … l'oceano, provava brividi solo a pensarla quella parola; ricordando l'immagine distinta del dottore accendersi una sigaretta.
E la mattina dopo c'era il fuoco ed uno scheletro sottile a testimonianza di quel loro duro lavoro.

Fritz avrebbe probabilmente ricominciato la solfa sull'accelerante e sulle motivazione. I medici sono buone spie, avrebbe replicato lei, aggrappandosi a quello che aveva detto qualcuno quando si era affrontato nell'immediato l'argomento fuori nelle mura.
Alla fine gli unici dei soldati di Briemer che sembravano disposti a dare il beneficio del dubbio al dottore erano stati Erik e Sal, sebbene che quella del primo potesse essere una semplice mascherata non era da escludere. Solo Charlotte si era dimostrata incredibilmente disposta non solo a dargli il beneficio, ma addirittura credergli.
Forse aveva un'infatuazione per lui, anche se sembrava difficile pensarlo. Shoshanna non l'aveva mai vista sbilancirsi in maniera emotiva verso i giovincelli, in tutti i nove anni di servizio assieme,quanto un mero desiderio fisico, canalizzato poi in uomini degni di tale definizione che in ragazzi che sembravano ancora in fase adolescenziale.
Fritz Meier aveva ventidue anni, ma Shoshanna riteneva sembrasse molto più infantile.

“No” aveva detto alla fine, potendo leggere la confusione dipingersi sul volto del dottor Meier, “Tutto è per la mia famiglia” aveva commentato con voce greve.
L'idea di rivedere Pascal almeno un'altra volta non le dispiaceva affatto, ma non era quello a motivarla, quanto era più il desiderio di rivedere la sua famiglia, di metterla al sicuro.
Erano di Gersenshinka, un piccolo borgo – forse era esagerato – sistemato in una gola tra le austere catene montuose del Keine Rückkehr, sopra la più grande miniera di gas dei territori di Maria.

“Dove vivono?” aveva chiesto Fritz, il suo tono di voce era incredibilmente pastoso, Shoshanna aveva sospirato toccandosi il bullone e l'anello, come gesto scaramantico, “Diciamo in una zona dove temo le notizie siano più ardue ad arrivare anche di Briemer” aveva confessato, forse con troppa emotività.
Fritz aveva annuito, “Almeno, su questo posto essere tranquillo. So che la mia famiglia è al sicuro” aveva aggiunto il dottore, passandosi una mano tra i riccioli, erano piuttosto lunghi e continuavano a cadergli sul viso, che Shoshanna aveva avuto quasi la tentazione di infilargli a forza dei ferretti. “Io non ho una famiglia” il commento era venuto da Miloh, il ragazzino imberbe della Legione, con il viso pulito ed i capelli scuri ordinati in un caschetto.
Shoshanna aveva allungato una mano verso di lui e gli aveva accarezzato le spalle (punto) Le ricordava un po' i suoi fratelli, aveva lo stesso modo di fare impacciato e distratto di Justus, anche se la sua età era vicina a quella di Bastian. “Hai dei fratelli?” aveva chiesto Shoshanna a Fritz.
Sembrava stupido perdersi in chiacchiere in quel momento, mentre aspettavano che Brhol e Schuster si palesassero per procedere con il piano, ma era una legionaria lei, sapeva che ogni momento poteva essere l'ultimo.
“Una sorella ed un fratellastro” aveva confessato Fritz e senza che lei gli facesse ulteriori domande lui aveva continuato, “Adoro Jara, anche se a volte è un po' apprensiva, credo si sia sempre sentita in dovere di farmi da madre” aveva fatto un momento di silenzio, “Non mi ha mai perdonato che mi sia arruolato, ha sempre avuto paura che sarei morto come mamma” aveva confidato.
Oh, be, non aveva torto, aveva pensato Shoshanna, sentendo però di non doverlo dire, “Anche tua madre era una legionaria?” aveva chiesto incuriosita; quando erano a Briemheaven aveva sentito di sfuggita una conversazione tra il dottore ed il Gatto, ricordava che il primo avesse detto di aver preso le Ali per una donna – aveva pensato fosse per Nina Müller. Fritz aveva annuito, per un momento aveva visto una profonda tristezza annidarsi nelle iridi, “Ed il tuo fratellastro?” aveva chiesto lei, volendo allontanare la morte dai loro discorsi.
Fritz aveva manifestato un certo disagio sul viso, “Adoro Fabian, davvero, mi ha pagato lui la mia prima birra, solo che il suo antagonismo verso nostro padre lo ha portato a stare spesso lontano da noi … inoltre ci portiamo sedici anni di differenza … quindi …” aveva detto con un certo nervosismo, grattandosi il retro del collo. Annaspava e Shoshanna era andato in suo aiuto, “Anche io ed il più piccolo dei miei fratelli, ci portiamo quella distanza” aveva confidato, “Anche per me in realtà è un fratellastro” aveva aggiunto, anche se non sapeva perché, aveva sempre considerato tutti i figli di suo padre come fratelli pieni, anche Desiderio che era solo figlio di Lotaria – sua matrigna – come sangue del suo sangue. “Quando è nato, io mi barcamenavo tra l'addestramento a Nedlay e gli esami ad Utopia” aveva sussurrato, c'era stata per la nascita di tutti i suoi fratelli, tranne Bastian, eppure era stato tra tutti quello a cui poi si era legata maggiormente.
Quando tornava a casa era sempre lui che si attaccava alle sue gambe e pretendeva di stare sempre con lei, che metteva il broncio quando partiva. L'ultima volta non era neanche andato a salutarla, visto che Shoshanna gli aveva detto che sarebbe stata via molto tempo, erano passati già quattro anni.
Bastian e Marina, che erano i più piccoli, non dovevano essere più bambini.
Le venne voglia di piangere, solo Oer e Justus erano istruiti e dunque tutte le lettere passavano per loro, ma tutti i suoi fratelli, chi per proprio conto chi per dettato, avevano inviato a lei lettere, Bastian era l'unico che non lo aveva fatto.
Aveva fatto in modo di infilarsi nelle lettere dei suoi fratelli – commenti sporadici e domande – ma mai una che avesse la sua firma.
Se era infastidito per la sua scelta di stare così lontano da casa, era solo peggiorato quando Shoshanna, Marina e Desiderio si erano incaponiti di far andare via anche lui.
Non sopportava l'idea di non poterlo più rivedere, di non poter più rivedere il suo viso, di non riuscire più a chiarirsi con lui.
E tutti gli altri.

Ludwing era ritornato, privatosi dell'uniforme della guarnigione, lo stesso avevano fatto Ernest e il privato Brhol, che aveva sul viso l'espressione verdognola di un malato. “Abbiamo preso delle attrezzature delle vostre misure” aveva detto immediatamente Ernest, mostrando i lacci di cuoio, con un espressione un po' vacua.
Fritz valutò che fosse più grande di lui, ma non di molto, sembrava comunque terribilmente più vecchio con profonde occhiaie violacee e guance incavate, “Grazie” gli aveva detto prendendo le cinghie per il movimento e delle corde.
Si erano divisi: metà a cercare di far evadere la legione, metà a fare quello. “Ricordate: non possiamo sprecare il gas” aveva impartito Shoshanna, infilando la sua collanina all'interno della sua camicetta, prima di cominciare a sfilarsi gli stivali. “Ho portato delle pistole e non le lame” aveva detto Schuster con sicurezza, mentre posava uno dei dispositivi per la manovra a terra, lui già lo indossava. La donna della legione aveva annuito, prendendone atto, “Meglio: i giganti non puoi ucciderli senza lame, gli uomini si” aveva detto stoica e fredda.
Fritz aveva sentito le vertigini; era un dottore lui, aveva fatto un giuramento, lui uccideva giganti, non persone – non voleva farlo. “Forse avremmo dovuto dirlo ad Aliena” aveva sentito sussurrare Brhol, Fritz non sapeva di chi stesse parlando. Ludwing aveva annuito, passandogli una mano sulla schiena in una carezza paterna. “Sarebbe impazzita lo sai. Lei è molto militaristica, non potevamo chiederle di fare un tradimento” aveva detto immediatamente il caposquadra.
Brhol aveva annuito, con il viso ancora esangue, non del tutto convinto di quella risposta. “Quindi come è la situazione?” aveva chiesto Shoshanna attirando nuovamente l'attenzione su di sé. C'era un certo nervosismo e paura nella sua voce e Fritz non si sentiva di biasimarla. “Il governatore è con Pfeiffer, al quartiere generale. La sua casa è protetta da quattro uomini” aveva berciato immediatamente Schuster, “Quindi stiamo davvero per rapire una donna per usarla contro suo padre?” aveva domandato il ragazzo della birra, non ricevendo però alcuna risposta, se non silenziosa consapevolezza.

Thorben Pfeiffer, capitano generale – e supervisore – della guarnigione di Breimer aveva due figli, un maschio ed una femmina, quest'ultima era l'attuale moglie del Governatore di Briemer, la quarta avevano detto a Fritz.
La prima era scappata, la seconda era stata uccisa, la terza si era suicidata e loro stavano per rapire la quarta. Onestamente, avevano spiegato al dottore che probabilmente al Governatore non sarebbe fregato nulla nello scoprire che sua moglie fosse nelle loro mani, ma erano tutti più-o-meno convinti che al Capitano Pfeiffer sarebbe importato del destino di sua figlia; inoltre la giovane era letteralmente la pistola che il Governatore puntava contro il capitano.
“Non le faremo del male” aveva concordato Schuster con voce greve e Fritz si augurò fosse vero; “Non per essere crudele: ma non possiamo più porci shcrupoli” aveva sentenziato Shoshanna.

 

La villa del Governatore era quasi nel centro della città. Era un complesso in mattoncini rosso vinaccio e nero, alta a due piani con le finestre in ferro battuto con ghirigori che ricordavo del fogliame. La porta era in legno nero piuttosto ampia con due teste di leoni che mordevano gli anelli. La casa aveva anche un discreto cortile; due uomini però erano piazzati alla porta, uno indossava la giacca della Guarnigione, l'altro invece sfoggiava una giacca nera semplice, entrambi portavano delle pistole e nessuno dei due l'attrezzatura.

“Martin” aveva sentenziato Schuster, mentre scostava un po' la mantella verde che aveva indosso, “Ci pensi tu” aveva commentato Ernest guardando Brhol, il quale aveva annuito. Il ragazzo dai capelli rossicci aveva sistemato la mantella verde per nascondere l'attrezzatura. Schuster aveva annuito, poi si era voltato verso Shoshanna, “Il retro” si era limitata a dire lei, mentre dava un pizzico al ragazzo della birra, lui aveva annuito ed aveva imboccato quella strada.

Fritz era andato dietro a Shoshanna, come Ernest e il ragazzo della birra; lui aveva lanciato però un ultimo sguardo a Brhol, che attraversava il cortile della casa del governatore. Loro si erano mossi in maniera piuttosto quatta, tentando di non risultare sospetti, avevano dovuto indossare giacche lunghe, erano vecchie e ingrigite, anonime. Si erano impegnati per rendere l'attrezzatura meno visibile. Il loro piano era quello di essere anonimi e non dare nell'occhio. Si erano infilati tra la casa accanto a quella del Governatore e quella dopo, in un piccolo corridoio di muri di pietra, “Sarà un casino” aveva sentenziato lei, “Pensa alla tua famiglia, a me aiuta sempre” aveva soffiato Fritz.

“Ed io?” gli aveva interrotti il Ragazzo della Birra; Ernest gli aveva messo una mano sulla spalla.

Shoshanna aveva cominciato a sbottonare il suo impermeabile che aveva mollemente fatto cadere per terra, prima di far scattare l'attrezzatura e portarsi sul tetto della casa, evitando la finestra, prima di appiattirsi sulle tegole della casa. “Allora?” aveva chiesto quella affacciandosi, in modo che anche gli altri due avessero potuto seguirla, così avevano fatto.
Erano così stesi sul tetto, “Quindi adesso aspettiamo?” aveva chiesto il ragazzo della Birra, che si era acquietato accanto a Soshanna, mentre lei si premuniva di prendere il fucile che Schuster gli aveva dato.
E così era stato: il ragazzo dai capelli rossicci della guarnigione si era palesato davanti ad una finestra e l'aveva aperta. “Come è entrato?” aveva chiesto Fritz, la verità era che avevano programmato il piano

“Martin risponde al tenete maggiore Gunter, che potrebbe essere o non essere l'amante di Eva” aveva cominciato a spiegare Ernest, mentre gli veniva passato il fucile da parte di Shoshanna. Quando avevano concordato il piano quella parte era sembrata a Fritz un po' troppo lasciata al caso, ma in qualche modo era riuscito – forse la guarnigione meritava più credito.
“Mi raccomando” aveva stilettato Shoshanna verso Ernest, che aveva imbroccato il fucile, mentre loro si erano impegnati per raggiungere la finestra. Shoshanna era atterrata sul tetto, rischiando di far cadere una mattonella, mentre Fritz si era acquatto al muro proprio al fianco alla finestra, con i piedi sui mattocini del muro cercando di mantenere un equilibrio precario. Il ragazzo della birra aveva preso in pieno la finestra, urtando con la fronte l'imposta, sarebbe scivolato all'indietro – anche se fosse rimasto appeso – Brhol lo aveva afferrato.
Ernest avrebbe fatto il cecchino dall'alto.
 

Fritz era entrato prima di Shoshanna e l'aveva aiutata a scavalcare il davanzale, poi avevano sentito una serie di rumori al piano di sotto, “Il Capitano Ludwing ...” aveva spiegato con un tono basso Brhol. La stanza in cui erano entrati era di una dimensione piuttosto modesta, che aveva una scrivania, piena di libri, un armadio molto decorato e un letto. “Di chi è questa stanza?” aveva chiesto Fritz, osservando l'arredamento piuttosto spartano che albergava nella camera, prima di farsi distrarre da i titoli altisonanti dei libri sulla scrivania, erano rovinati dal tempo, ma la fattura del cuoio della copertina era pregiata, così come le rilegature ancora piuttosto impeccabili. Fritz aveva sfiorato con le dita uno dei primi, era un vecchio libro di racconti, gli aveva dato un immensa nostalgia, era di quelle edizioni con una stampa piuttosto limitata, erano poche le altre copie, una di queste era nella mansarda della sua casa paterna. “Non importa, era la prima stanza vuota che dava da questo lato” aveva detto Brhol con un certo disagio e nervosismo.
“Vado ad aiutare Schuster, voi cercate di recuperare la signora Munchhausen” aveva soffiato Shoshanna, mentre imboccava l'uscita della stanza, chiedendo a Brhol le informazioni necessarie per dirigersi. Lui aveva guardato il ragazzo della birra, che dal canto suo stava guardando il ragazzo della guarnigione cercando di mantenere uno sguardo sicuro, che gli si si addiceva.
Come era stato possibile che Engel e Humbert fossero finiti nell'altra squadra?
Avrebbe tanto voluto stringere l'orologio che gli aveva regalato suo padre per la laurea, era un gesto che abitualmente faceva per scaramanzia, ma lo aveva dimenticato a Nedlay.

“Andiamo” aveva detto il privato Brhol, il suo tono era lugubre, ed aveva imboccato la porta come aveva fatto precedentemente Shoshanna e loro si erano ritrovati a seguirlo, era abbastanza facile, loro prendevano la donna e con le guardie che Shoshanna e Schuster non avevano fatto fuori sparavano a vista cercando di avere successo.
A Fritz veniva da piangere a pensarci – non poteva funzionare.

 

Lui non aveva mai visto il Capitano Pfeiffer e neanche il Governatore quindi non poteva davvero dire di essere rimasto stupito, ma certamente quando gli avevano detto di rapire la moglie del governatore, Fritz non si era aspettato che Beate Munchhausen fosse così. In anzitutto bella, senza se e senza ma, come era normale che lo fosse una ragazzina della sua età, con il bacio della gioventù sul viso tondo, con le gote rosate,i capelli di un rosso torbido come il sangue legati in una treccia e gli occhi erano davvero particolare, di un blu così denso da sfiorare il colore dei lillà. Indossava un abito lungo, pregiato, sopra una manta sottile dai motivi floreali. Aveva un sorriso impreciso e lo sguardo chino, impegnata nel ricamo di fianco la finestra, non si era ancora accorta di loro.

“Oh, sono innamorato” aveva miagolato appena il ragazzo della birra e forse quella minuscola frase, era bastata finalmente per attirare l'attenzione della giovane, aveva sollevato uno sguardo verso di loro, il sorriso accogliente che le illuminava il viso si era ghiacciato quando vedendoli non aveva riconosciuto nessuna persona a lei famigliare.

Beate aveva dato cenno di voler urlare, ma si era ritrovata Brhol letteralmente addosso che premeva le mani sul viso nel tentativo di evitare che le lo facesse. Erano ruzzolati per terra entrambi e Fritz non aveva capito come era successo, ma il momento dopo il ragazzo si era ritrovato agonizzante lontano da lei, aveva uno dei ferri della maglia conficcati nella spalla ed una mano insozzata di sangue. Beate era strisciata via, ma Fritz aveva calciato indietro l'altro ferro; le labbra della ragazzina erano insozzate di sangue.

Era riuscita lei a tirarsi su, mentre con gli occhi guardava loro con astio, “Aiuto! Aiutatemi” aveva strillato, mentre Brhol con le mani in alto cercando di non peggiorare la situazione aveva tentato di avvicinarsi a lei, Beate aveva afferrato un vaso che era vicino ad una mensola e l'aveva lanciato verso il legionario, che era riuscito in tempo a spostarsi per non prenderlo in testa, ma nel farlo era comunque caduto per terra.
Due soldati messi a terra da una ragazzina, praticamente, e Fritz che aveva affrontato i giganti fermo come una pertica.
“Chi siete, cosa volete?” aveva domandato Beate, la sua voce tremava mentre si era appiatta contro il muro, gli occhi saettavano a destra e manca cercando altro con cui potersi difendere, poi si erano fermati sui cocchi di terra cotta del vaso in frantumi. Si era forse resa conto che probabilmente nessuno sarebbe arrivato e uno sparo al piano di sotto aveva comunque messo tutti in allarme. “La prego signora Munchhausen, non abbiamo intenzioni” ostili aveva provato Brhol mentre si sfilava il ferro con la mano buona, ma Beate si era lanciata per afferrare un coccio piuttosto appuntito. Era stato Fritz a lanciarsi su di lei quella volta e le aveva afferrato il polso, prima che lei aprisse un sorriso sulla gola di del ragazzo della birra. Beate gli aveva assestato una ginocchiata tra le gambe che lo aveva mandato a terra in agonia.

Era un po' patetico da raccontare, ma c'era voluto l'intervento di Schuster – arrivato dopo l'urlo di Beate, quando il ragazzo della birra era finalmente riuscita almeno a farla cadere a terra, tentando ancora di convincerla di non avere intenzioni malevole – che aveva trovato Fritz che era riuscito a rimettersi in piedi, Brhol che sanguinava per la stanza e l'ultimo di loro che aveva schiacciato la signora Munchhausen per terra, trattenendola per i polsi, quest'ultima di certo non intenzionata a farsi minimamente passiva.
“Sul serio?” aveva chiesto lui, per un momento confuso, prima di attirare lo sguardo dalla giovane, “Oh! Signor Ludwing!” aveva detto quella con una certa disperazione e gli occhi colmi di lacrime, Fritz si era voltato verso Schuster ed aveva potuto vedere la vergogna dipinta sul suo viso, aveva abbassato gli occhi bassi sulla punta dei suoi stivali. “No” aveva pianto Beate e Ludwing si era scusato.

Fritz aveva estratto la corda che aveva portato con se e con quella aveva legato le mani della giovane, dietro la schiena, così da evitarsi di guardare quegli occhi spiratiti di odio.
Lo stava facendo per suo padre, per sua sorella, per suo fratello, per Nina …

perché doveva tornare a casa.
Il ragazzo della birra si era strappato una parte della camicia per poterla usare come bavaglio e l'aveva fatto continuando a scusarsi. “Non voglio neanche sapere come tre soldati si siano fatti atterrare da una ragazzina” aveva ringhiato Schuster, afferrando Beate per la vita e caricandosela in spalla come un sacco di patate e Fritz si era impegnato per legarle le caviglie insieme, aveva perso una delle due pianelle, mentre Ludwing stoico prendeva i calci. Brhol aveva abbassato il viso in maniera piuttosto colpevole e consapevole, “Era molto più agguerrita di quanto avessimo pensato” aveva ammesso il ragazzo della birra, grattandosi il capo, Schuster aveva deciso di non voler indagare.
Fritz pensò che fosse perché era una ragazzina, perché era umana, con le spalle piccole, che non importa quanto fosse disposto a fare per tornare a casa, si addestrato per combattere i giganti, per uccidergli quelli ed era un medico, semplicemente lui non poteva …

“Non per mettervi ansia, ma dobbiamo assolutamente andare!” la voce di Shoshanna era venuta su a fatica, nascosta dai colpi di pistola e loro si erano fiondati fuori dalla finestra usando le attrezzature, Schuster era quasi caduto con lo squilibrio di portare Beate. Fritz aveva gettato uno sguardo verso il tetto, ma non aveva visto Ernest.
 

Shoshanna si era fiondata fuori dalla porta continuando a sparare, correva piuttosto in fretta nonostante l'attrezzatura ed era macchiata di sangue, ma non abbastanza. Fritz era planata su di lei per prenderla al volo, l'attimo prima che chiudesse le mani sui suoi fianchi, aveva potuto sentire l'ultimo colpo dritto alle sue spalle, il proiettile aveva passato da parte a parte il corpo della donna.
L'aveva presa, tenuta stretta, sentendo la pelle delle sue mani farsi umidiccia per il sangue e la maglia chiara macchiarsi di rosso, nel basso ventre. In una sala operatoria pulita avrebbe avuto solo trenta minuti, lì anche di meno.
Si era appostato su un tetto ed aveva potuto sentire l'attimo dopo Miloh palesarsi. Aveva preso una pistola e la puntava nella direzione opposta alla loro, una striscia di sangue correva giù dalla tempia.
“Shoshanna, devi restare come” aveva detto Fritz mentre sollevava la maglia, per scoprire la ferità, non aveva preso la sua bisaccia con tutto l'occorrente. Perché non l'aveva presa?
“Dobbiamo spostarci!” aveva esclamato Fritz. Venticinque minuti.

Shsoshanna aveva portato una mano al collo e si era strappata la collanina di spago, l'aveva premuta sul petto di Fritz, poi la forza le era venuta a mancare, ma lui l'aveva raccolta, premendo anello e bullone contro il palmo della donna, con l'altra mano le aveva fatto circondare le spalle e poi le aveva messo una mano sul fianco. Il sangue continuava a scendere e zampillare dalla ferita. Non si poteva fare un laccio emostatico al ventre, “Adesso riprendiamo il volo” aveva sussurrato a lei, l'attimo dopo l'avevano fatto.

Ventidue minuti.
Il ragazzo della birra aveva sparato verso qualcuno, mentre continuava ad urlare al Sergente di resistere.
“Andrà tutto bene” l'aveva rassicurata Fritz.

“Desiderio” aveva sussurrato lei solamente, continuando a stringere i pendagli della sua collana, le sue nocche erano bianche, ma non per lo sforzo, tutto di lei era niveo. Il sangue non stava più affluendo. Casa di Schuster era troppo lontana.
Ventuno minuti.

“Come?” aveva chiesto Fritz confuso, Shoshanna non gli aveva risposto, “Oertwin” gli aveva detto lei, “Non capisco, Sho.” aveva continuato lui, tenendola premuta contro di sé, direzionandosi solamente con le gambe, timoroso di perderla.
Non aveva tempo.
“Rabah..n” aveva aggiunto Shoshanna, la sua voce era molto più sottile e piccola.
Fritz aveva aggrottato le sopracciglia, non riuscendo a seguirla, “J-Justus” aeva sussurrato, un tono piccolo, con la sua s orribilmente strisciata, aveva gli occhi scuri colmi di lacrime ma sorrideva.
Allora lui aveva capito: erano i suoi fratelli.
“Marina” aveva mormorato ancora Shoshanna. “Esatto pensa a loro e a Pascal. Resisti” le aveva impartito Fritz, mentre sfrecciava per le vie oscure della morta Briemer.
Shoshanna sorrideva, lacrime correvano lungo le guance; il sangue della donna insozzava le mani di Fritz, seminando una pioggia purpurea per la città dimenticata.

Diciannove minuti.
“Se … Bastian …”

 

 

 

 

“CHE TRISTEZZA.”

N.B.Questo è stato il commento di Chemical Lady alla fine della betatura, onestamente non so se parlava del mio modo di scrivere o del capitolo LOL.

Comunque la ringrazio di cuore per quello che fa e ricordatevi sempre che qui trovate la sua storia che è strattamente legata alla mia. Di fatti Pascal Von Pedrick e Andrej Sankov sono suoi personaggi - ho preferito non raccontare bene la sua storia perchè alla fine spetta a lei.
Ringrazio di cuore Lechatvert per la Manip della Copertina.
E visto che ho introdotto un bordello di personaggi che a starci dietro ci si confonde – mi ci confondo io – QUI c'è un album dove un po' alla volta sto inserendo tutti i personaggi, per ora ci sono solo militari.

E non c'è Fritz che è il protagonista.
Ringraziamo sempre Chemical Lady per avermi suggerito il nome del carcere Lubeck.
Ora parliamo della scena TRASH: Si, una ragazzina ha messo fuori uso tre soldati, si lo so cosa state pensando … ma Eren a nove anni ha ucciso due briganti e fatto un discorso motivazionale mentre veniva strangolato.
No, questo non mi giustifica, ma dai che lo rende un po' più plausibile.
Non è vero, ma mi aveva divertito troppo che alla fine ho lasciato così.

Il titolo del capitolo vuol dire: si vergogni la fortuna del suo delitto.

Oltre questo volevo dirvi una cosa divertente: quando pensai questa storia i protagonisti non dovevano essere Charlotte e Fritz, ma Charlotte e qualcun altro.
E quel qualcuno è presente.
LoL

Ringrazio chi sia arrivato fin qui.

Un bacio

RLandH
 

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