Alpha Gender

di 50shadesofLOTS_Always
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Inverno 2016
Tacoma - Oregon, USA

Stazione di polizia

Carlile salì i gradini e con una mano spinse il battente della porta sulla quale regnava un'insegna poco luminosa della polizia. Il distretto era piccolo, ma pullulava di agenti.
Aggirò un angolo e si diresse verso la scrivania dietro al quale sedeva lo sceriffo.
Carlile fissò il cielo fuori dalla piccola finestra. Le nubi, che in parte oscuravano il disco lunare, promettevano tempesta.
Quando tornò a guardare lo sceriffo, lui era ancora assorto nel proprio compito. Stava firmando dei fogli .
« Lei deve essere il Signor Reeves... » esordì l'uomo in divisa, dopo diversi minuti mentre rovistava in un cassetto.
« E vorrei sapere perché sono stato convocato qui nel bel mezzo della notte » borbottò, leggermente infastidito.
« Marcus Jackson le dice niente? » domandò, lasciando Carlile di sasso. Non sentiva quel nome da un sacco di tempo. L'ultima volta era successo quando ancora, lui e Marcus lavoravano insieme.
« E' un mio caro amico dell'Università... » sussurrò quasi più a se stesso. Ricordava molto bene il giorno in cui si erano detti addio.
« Questo é il suo testamento » disse lo sceriffo con noncuranza, porgendogli un documento sgualcito.
Quelle parole lo destarono dallo stato di trance, indotto dai ricordi.
« Aspetti... Lei mi sta dicendo che Marcus é morto? » balbettò, prendendo il foglio fra le mani.
« Stanotte, Signor Reeves » annunciò in tono piatto.
« Come? P-perchè? - il suo sguardo saettò fra il foglio e lo sceriffo - Dov'è Elizabeth? » chiese, ancora incapace di mettere insieme i pezzi. Si sentiva come se lo avessero buttato al centro di un ciclone.
« La scientifica sta ancora esaminando la scena. Anche la moglie é deceduta... - mormorò - L'ho fatta chiamare perché secondo quel foglio che adesso ha in mano, lei è da questo momento in poi, ufficialmente il tutore legale della figlia di Marcus Jackson, Samantha »
« Figlia? » chiese accigliato.
« Da quant'è che non vede il suo amico? » rispose lo sceriffo di pari tono.
« Saranno ormai quindici anni... » ammise massaggiandosi il collo, prima di firmare alcune carte che lo sceriffo gli mise davanti senza tante cerimonie.

 
**** 

La neve aveva ormai imbiancato l'intera città, immersa nella notte. I lampioni, oltre alla luna, erano l'unica fonte di luce ad illuminare i passi di Carlile e della piccola, che gli camminava di fianco. La mano di Samantha era piccolissima e stringeva piano la propria.
Era silenziosa, quasi non sapesse cosa fosse accaduto ai suoi genitori. Quando lo sceriffo le aveva spiegato la cosa, lei aveva annuito come se comprendesse appieno quella situazione.
«Ti va una cioccolata calda? » le chiese gentilmente quando all'angolo della strada, in attesa del verde, notò che l'attenzione della piccola era calamitata sull'insegna al neon di un delizioso cafè. Lei annuì ancora una volta ed insieme, entrarono nel locale.
Mentre la porta si chiudeva alle loro spalle, un piccolo vortice di fiocchi di neve mulinò sotto i loro piedi. Il posto era deserto. Solo un uomo sedeva al bancone dietro al quale una buffa donna dalla taglia forte, li fissò. Aveva i capelli ricci e scuri tirati indietro da una retina e gli abiti semplici coperti da un grembiule a quadri.
« Salve, Signore - esordì amichevole - Come posso aiutarla? »
« Avrebbe della cioccolata calda? »
« Sì, si accomodi pure » rispose e senza dire nulla, Samantha si aggrappò ad uno degli sgabelli al bancone. Carlile fece per aiutarla, ma lei si era già seduta composta, in attesa della cioccolata.
La donna tornò con due tazze di cioccolata fumante e le mise di fronte a loro.
« Ti va un bagel zuccheroso, piccina? » propose e Samantha si girò a guardarlo, chiedendogli silenziosamente il permesso.
Lui rimase ancora colpito dagli occhi della bambina: le iridi erano di un bel viola e ricordavano delle ametiste brillanti. Decisamente singolare.
Acconsentì con un cenno del capo.
« Ecco qua il tuo bagel... - mormorò porgendole la ciambella con un tovagliolo - Lei, signore? »
« A posto così » rispose Carlile, bevendo un sorso di cioccolata mentre osservava la bambina di quattro anni accanto a sé.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Autunno 2030
Seattle – Stato di Washington, USA

Pub irlandese 
Una spessa coltre di nubi grigie, che aveva ammantato la città, si tinse di cremisi. Il sole timido fece capolino oltre un ricciolo di nuvola, inondando le acque del Puget Sound che Samantha scorse in lontananza insieme allo skyline della Penisola Olimpica.
La ragazza uscì dal locale, ammirando l’alba mentre chiudeva la porta vetrata con due mandate. Il proprietario Jim si era raccomandato di farlo.
A Samantha non piaceva quel pub, né tanto meno la gente che lo frequentava. Era un lavoretto che sbrigava per mantenersi gli studi alla Washington State. Le piaceva l’indipendenza e per quanto non amasse fare la barista, lo preferiva dal farsi accudire da Carlile.
Aveva già fatto tanto per lei.
Infilò le chiavi nella tasca del proprio zaino per guardarsi intorno. Le macchine passavano sulla strada, come fantasmi. A quell’ora il traffico era pressoché inesistente e le uniche persone, che vedeva passare erano per lo più senza tetto alla ricerca del prossimo cartone in cui dormire, donne che facevano jogging e uomini in giacca e cravatta che fissavano gli orologi da polso, in attesa del mezzo pubblico, perennemente in ritardo. Samantha sollevò sulla testa il cappuccio della felpa rossa che indossava e, spinse dentro alcuni boccoli corvini per evitare l’imminente pioggia. Nonostante ci fosse il sole, il vento umido che spirava da est portava l’umidità della pioggia e l’elettricità di un temporale. Sospirò quando vide una goccia e poi un’altra sul marciapiede, seguite da altre. Osservò per un attimo le persone avviarsi in fretta verso casa o aprire gli ombrelli per ripararsi. Con una mano, cercò gli auricolari nella tasca dei jeans e lasciò partire la musica dell’I-Pod. Con le cuffie nelle orecchie, si avviò sulla strada, consapevole che aveva a disposizione solo un paio d’ore di sonno.
Un lampo squarciò il cielo, seguito pochi secondi dopo dal rombo fragoroso di un tuono che riecheggiò in lontananza. Superò un’anziana donna che passeggiava, portando passo un barboncino che la squadrò con un paio di occhietti scuri e svoltò a sinistra, in un vicolo che serpeggiava fra le palazzine di laterizio.
Il puzzo, che si levava dai cassonetti dell’umido, condensava nell’aria fredda, unendosi al fetore dai tombini, e assumendo la forma di strane nuvolette, come il respiro regolare della ragazza.
Samantha ignorò quel sgradevole odore e si fermò in un punto in cui il vicolo si interrompeva repentinamente con un muro. Si girò per controllare che fosse sola poi tornò a guardare la parete davanti a sé. Chiuse gli occhi e fece riemergere dagli angoli oscuri della memoria, le immagini dolorose quanto rassicuranti, che la perseguitavano anche nei sogni.
Stava per raggiungere il proprio centro interiore, quando un suono attirò la propria attenzione. Qualcuno aveva messo il piede in una pozza d’acqua ridotta più ad una macchia di fango. Riconobbe quei passi e sorrise.
« Non dovreste sbucare alle spalle all’improvviso » esordì la ragazza in tono di rimprovero, ma formale.
L’uomo alle sue spalle sorrise bonariamente.
« Hai ragione, ragazza mia – ammise, sollevando le braccia – Ma sai quanto io sia feticista delle entrate teatrali ». Samantha si girò verso di lui, Carlile. L’uomo che l’aveva salvata, come un valoroso cavaliere.
« Le abitudini sono dure a morire » rispose lei di pari tono.
Era sorpresa di rivederlo, ma non per questo meno contenta. Notò che c’erano delle rughe sul suo volto e i primi capelli bianchi fra l’ordinata chioma castana, che prima non aveva notato. Forse perché viveva con lui da quando aveva memoria.
Nonostante quei dettagli, per Samantha, il Dottor Reeves restava l’uomo più affascinante che avesse mai conosciuto, dopo suo padre. Senza contare l’autorevolezza con la quale l’aveva cresciuta per ben dodici anni, mitigata da un’infinita bontà d’animo.
« Che ci fai in giro a quest’ora? » domandò Carlile.
« Potrei chiederle la stessa cosa, Doc » rispose Samantha, avvicinandosi contemporaneamente a lui.
« Sei arrabbiata, non è così? » chiese, pur conoscendo già la risposta.
« Ero preoccupata… - confessò, nascondendosi col cappuccio – Sei sparito per mesi, senza darmi alcuna spiegazione »
« Salvavo una persona » mormorò lui, lievemente contrito.
« Chi? »
« Un ragazzo speciale come te » aggiunse, cercando un contatto visivo con Samantha, che lo fissò da sotto le ciglia, vagamente incuriosita. Chiunque sarebbe arretrato incontrando quegli occhi d’ametista, ma lui no. Anzi ne era quasi ammaliato. Per un secondo, pensò di potercisi immergere e affogare.
Stentava a credere che quella ragazza, quasi giovane donna, fosse la stessa bambina che aveva adottato nel 2016. La bambina che era diventata un po’ sua figlia.
« Io non sono speciale – mormorò lei, dopo qualche attimo di silenzio – Sono solo maledetta »
« Sam » la rimbrottò, ma lei fece finta di niente.
« Chi è? » chiese con voce dura, cercando di tornare all’argomento principale.
« James Court – Samantha si soffermò un attimo e poi scosse il capo – Devi venire con me » dichiarò lui serio, stemperando le proprie parole con un sorriso.
« Fra quattro ore devo essere a lezione » replicò lei, sperando di poter sviare quell’imprevisto
« Tranquilla, arriverai puntuale » promise lui.
*
Portland – Oregon, USA
Quartier Generale
Samantha seguiva Carlile, camminando con circospezione. Il sole stava ormai nascendo al’orizzonte, quando si fermarono di fronte ad un semplice edificio a tre piani, uguale alle palazzine che la fiancheggiavano. Per tutta la sua vita fino all’anno prima, aveva abitato con Doc – così lo chiamava lei – lì, a Portland. Ma non ricordava quel posto.
« Non ricordo di essere mai stata qui »
« Ci siamo trasferiti da poco » rispose Carlile, chiudendo il cancelletto alle loro spalle.
Samantha si guardò intorno, studiando i passanti e l’ambiente prima di seguire il Dottor Reeves che, nel frattempo, aveva aperto la porta d’ingresso. L’atrio era spoglio e davanti a loro si alzava una rampa di scale in vetro. La percorsero, giungendo ad una seconda porta che si aprì solo quando Carlile appoggiò il palmo di una mano su una piastra di metallo, fissata alla parete.
Entrarono e i battenti scorrevoli sibilarono, chiudendosi immediatamente dietro alla spalle di Samantha, che cominciava ad innervosirsi. Che razza di posto era mai quello!?
Imboccarono un corridoio semibuio e dopo un minuto abbondante, si fermarono di fronte ad un terzo ingresso, simile al precedente. Ma stavolta, sulla porta venne proiettata una tastiera. Doc digitò un codice e i battenti si aprirono e si chiusero altrettanto velocemente. Samantha si ritrovò a pensare di essere finita in qualche set di un qualche film di fantascienza.
Si ritrovarono in un enorme atrio, illuminato da delle luci a led, incastrate nel pavimento, che seguivano dei motivi poligonali e lineari, colorati da un azzurro luminescente, che si intrecciavano e diramavano anche sulle pareti laterali. Le mura, sembravano ricoperte da piastre metalliche blu mentre il soffitto sembrava un'unica placca di vetro nero. Dal centro, si elevava una struttura metallica con un semplice elevatore mentre in fondo all’atrio, si distinguevano altre tre porte.
« Dov’è Spock, Capitano Kirk? » scherzò Samantha, prima di seguirlo verso l’ascensore. Carlile ridacchiò e le diede la precedenza. Vi salirono sopra e in pochi istanti, si ritrovarono di fronte ad un’altra porta.
Scese dall’elevatore mentre lui digitava una seconda sequenza su una tastiera che calò da una botola nascosta nel soffitto. La tastiera tornò a nascondersi e la porta si aprì.
L’ambiente mutò drasticamente.
Samantha si ritrovò all’ingresso di quello che appariva come un normale appartamento. Davanti a lei, si apriva un salotto ultra moderno, con una finestra che occupava l’intera parete di fondo, affacciandosi sulla città. Riusciva a vedere le sponde del fiume Columbia e in lontananza, la vetta del Monte Hood oltre lo schermo dei grattacieli. Una vista mozzafiato.
Scese i due gradini ed accarezzò la pelle del divano nero, sovrano indisturbato della stanza, a forma di semicerchio insieme ad un tavolino circolare di vetro. Al centro del soffitto, era fissato un semplice lampadario moderno, in linea con l’intero ambiente. Le pareti bianche erano foderate per due terzi della loro altezza da pannelli di legno d’acero, che contrastavano con il parquet di una tonalità più scura.
Ai lati, oltre a scaffali pieni di libri, vi erano due porte. Una quella di destra, dava sulla sala da pranzo, unita ad una cucina, anch’essa ultra moderna. Quella di sinistra invece dava su un secondo salotto più piccolo con un televisore al plasma.
Avvertì un lieve disorientamento e  compì qualche passo esitante verso Doc, in piedi con una spalla appoggiata allo stipite di sinistra.
« Ragazzi, scendete! » esclamò con un sorrisetto furbo.
Samantha arcuò un sopracciglio. Non capiva a chi si stesse riferendo.
Stava per tempestarlo di domande quando udì altre voci, provenienti da una rampa di scale che non aveva notato. Saliva a chiocciola dietro una parete di cartongesso, che prolungava l’ingresso dell’appartamento.
La prima persona che vide fu una ragazza, che Samantha giudicò coetanea. Dopo aver sceso i gradini, si fermò accanto Carlile, fissandolo meravigliata.
« E’ lei, Dottor Reeves? » chiese e quando lui annuì, la ragazza si girò verso Samantha. Era dieci centimetri più bassa,ma decisamente magra. Il viso, che ricordava quello di un dispettoso ma grazioso folletto di una fiaba celtica, era contornato da una folta massa di ricci rossi, come il fuoco e, completato da una leggera nebbia di lentiggini sugli zigomi e da un paio di occhi verdi.
Dietro di lei, si erano fermati anche due ragazzi.
« E’ più carina di come ce l’aveva descritta » osservò uno, con malcelata malizia. Aveva i capelli corti e gli occhi scuri, come il cioccolato.
L’altro invece, ancora silenzioso, aveva i capelli ambrati con delle ciocche lunghe, che gli coprivano la fronte ed un paio di occhi color nocciola.
Samantha li fissò confusa per poi rivolgersi direttamente a Carlile.
« Doc, mi sono persa qualcosa? » domandò, arcuando un sopracciglio.
« Tranquilla, Sam –la rassicurò, abbassandole il cappuccio della felpa, ancora sulla testa – Loro sono altri ragazzi speciali ».
« Mi avevi parlato di uno solo… » borbottò lei infastidita mentre lo fissava in cagnesco, pettinandosi i boccoli neri. Carlile la guardò indulgente e guardò il primo ragazzo che aveva parlato. Le si avvicinò con un atteggiamento borioso e fingendosi cavaliere le prese la mano.
« Io sono James Court, madamigella – si presentò, imitando un baciamano e sfoderando un sorriso ammiccante mentre tornava dritto – Ma lei può chiamarmi Jam, se lo desidera ».
Samantha imitò un sorriso cortese, afferrando la mano del ragazzo con forza. Senza preavviso, gli torse il braccio, costringendolo a voltarsi di spalle.
« Io mi chiamo Samantha Jackson, ma tu sei obbligato a chiamarmi Sam » lo ammonì, accostandosi all’orecchio del ragazzo prima di lasciarlo andare sotto gli occhi divertiti di Carlile.
La ragazza scosse il capo e con un passo in avanti, allungò una mano che Samantha strinse educatamente.
« Il mio nome è Katherine White – assentì con un sorriso così caloroso, che lei non riuscì a non ricambiare – Ma puoi chiamarmi, Kath come tutti ».
« Sam » ribadì gentilmente mentre James era ancora intento a massaggiarsi la spalla indolenzita.
Infine, anche il secondo ragazzo le porse una mano e, lei notò che fra lui e la ragazza c’era una certa somiglianza fisionomica.
« Sono Logan White, sono suo fratello – disse e sorrise – Benvenuta »
« Grazie per l’accoglienza, ma io ho già una casa » rispose, abbassando il tono sulle ultime parole mentre rivolgeva un’occhiataccia a Doc.
« Sam, più tardi ti spiegherò tutto quello che devi sapere – le posò una mano sulla spalla – Ho già avvertito il rettore che oggi non sarai presente, non agitarti » disse assumendo un’espressione che a Samantha non piacque affatto. Il proprio viso invece si ridusse ad una maschera imperscrutabile.
Era arrabbiata. Molto.
Non le piacevano quei giochetti e lui lo sapeva benissimo.
Un vaso vicino tremò per un momento e tutti lo fissarono attoniti. Samantha prese un profondo respiro ed il vaso smise di muoversi.
« Vieni, ti mostro la tua stanza » intervenne Katherine, prendendola cautamente per un braccio.
« Io torno stasera – annunciò Carlile, senza smettere di guardarla – Devo sbrigare alcune faccende » aggiunse ed i ragazzi annuirono mentre Samantha si lasciò trascinare dalla ragazza.

Angolo Autrice: Salve Lettori! Volevo scusarmi con voi per il ritardo nella pubblicazione di questo capitolo (causa: problemi di connessione).
Spero, anche se è un po'presto, che la storia sia di vostro gradimento ed aspetto le vostre opinioni per sapere se mi sto muovendo bene su questo sconosciuto terreno del thriller ^^
Al prossimo capitolo!
50shadesofLOTS_ALwayl

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Portland, Oregon – USA

Quartier Generale
Dopo quel breve ma intenso scambio di sguardi con Carlile, Katherine guidò Samantha su per la scala a chiocciola per raggiungere il piano superiore. Imboccarono un lungo corridoio dalle pareti candide, tappezzate di quadri e quadretti, ed il pavimento in legno chiaro e lucido.

Katherine indicò una porta alla sua destra.

« Questa è la biblioteca. Abbiamo un archivio praticamente illimitato e dei computer di ultima generazione – indicò la sua sinistra poco più avanti, come avrebbe fatto una guida turistica – Qui c’è una piccola palestra con degli attrezzi. Ce n’è anche una di sotto, ma quella è un po’ diversa… » mormorò con fare assente, proseguendo lungo il corridoio. Samantha si chiese cosa volesse dire con quell’ultima frase, quando una foto attrasse la propria attenzione. Era incorniciata da un semplicissimo bordino di legno dipinto di blu, grande la metà di un foglio. In  bianco e nero e, ritraeva un giovane Carlile con un bambino che doveva aver avuto non più di sei anni.
« Chi è il bambino? » chiese incuriosita dalla somiglianza fra il piccolo e Doc, e Katherine, che aveva proseguito, tornò indietro al suo fianco. Guardò la foto e sorrise amabilmente.
« Quello è Sean, il figlio del Dottor Reeves » disse infine e Samantha dovette trattenersi dallo strabuzzare gli occhi. Quel bambino era il figlio di Doc.
Perché Carlile non gliene aveva mai parlato? Com’era riuscito a gestire lui e contemporaneamente a badare a lei per oltre dodici anni?
« Figlio? » mormorò, senza riuscire a mascherare la sorpresa per quella notizia.
« Sì, ha quasi venti anni – arcuò un sopracciglio - Non lo sapevi? ».
Samantha non rispose. Non riusciva a capire come fosse possibile, come non fosse venuta a conoscenza della paternità del proprio tutore. Inoltre tutto quel mistero attorno alla faccenda non le piaceva affatto. Cosa le stava nascondendo Doc?
« Continuiamo questo giro… » borbottò infine e Katherine tornò a guidarla.
« Qui… - disse indicando a sinistra – C’è una stanza comune per noi ragazzi e di qua… - con un cenno del capo verso destra -  C’è il bagno. Se vuoi usufruire dell’acqua calda al mattino, ti consiglio di non dormire affatto » scherzò lei prima di fermarsi in fondo al corridoio terminante con una finestra. A destra e a sinistra, c’era un altro corridoio che Samantha sospettò portassero alle camere da letto.
« Dov’è la moglie? » domandò dopo qualche istante.
Katherine la fissò intensamente con aria vagamente dispiaciuta.
« Il Dottor Reeves non parla mai di lei – compì un respiro profondo - Una volta ho provato a chiedergli qualcosa e si è incupito subito. Così da allora, abbiamo evitato l’argomento… »
« Capisco… - bofonchiò, guardandosi intorno - Da quanto tu e tuo fratello vivete qui? »
« Da circa un mese » rispose e sembrò sollevata dal cambio di argomento.
« Quindi nemmeno voi sapete cosa sta succedendo » sospirò frustrata.
Non le piaceva tutta quella situazione. Era abituata a tenere tutto sotto osservazione.
« Io e Kath speravamo che ce lo dicessi tu » intervenne Logan, sbucando dal corridoio di sinistra.
Samantha lo fissò negli occhi nocciola mentre si appoggiava con le spalle alla parete.
« Doc cosa vi ha raccontato precisamente di me? » chiese, incrociando le braccia sotto il seno.
« Non molto, in realtà » ammise lui.
« Solo che hai avuto un’infanzia non propriamente felice… » mormorò Katherine con un leggero imbarazzo.
« E che come noi, hai dei “poteri sovrannaturali” » aggiunse Logan con un gesto della mano, che Samantha trovò piuttosto comico. Accennò un sorriso, guardandoli alternativamente.
« Che poteri avete? » chiese, arcuando un sopracciglio.
« Io posso superare i 200 kilometri orari » disse Katherine, posando le mani sui fianchi.
« E io posso batterti facilmente a battaglia laser mentre Jam può assumere sembianze animali e in qualche caso, di altre persone » rispose Logan con un sorriso a fior di labbra.
« Tu? » domandò la ragazza con le lentiggini ed il sorriso di Samantha svanì.
« La mia abilità principale è il controllo della materia inanimata attraverso la telecinesi - spiegò tranquillamente – Ma posso anche spostarmi da un luogo a un altro attraverso l’apertura di portali ».
« Cioè puoi spostare gli oggetti col pensiero? »
« Sì, e posso anche volare. Ma per farlo, devo essere calma e concentrata » aggiunse seria, fissandola negli occhi verdissimi.
« Che succede se non lo sei? - domandò Logan quasi con timore, ma l’occhiata letale della ragazza gli diede risposta -  Beh, comunque sia… Sei una di noi adesso ».
Samantha non potè fare a meno di sorridere.

****

Era giunta ormai l’ora di pranzo quando il campanello suonò. Logan e James erano seduti su un piccolo sofà intenti a giocare ai videogames.
« Jam, Logan aprite! » disse Kath, senza smettere di sfogliare la rivista di gossip.

« Siamo occupati » le rispose il fratello mentre spingeva l’amico con una spallata.

« Mettete in pausa e andate ad aprire » sbottò la ragazza fulva.
« E tu smetti di leggere quella barba che chiami “cultura della società” e alzati » continuò il mutaforma di pari tono, prima di mollare una gomitata a Logan, che cercava di farlo perdere.
« Dov’è finito il cavaliere che è in te?! » gli rinfacciò Samantha, posando il libro che stava leggendo a faccia in giù sul tavolo. Katherine accennò ad un sorriso divertito quando non udì una risposta dal ragazzo.
Samantha, seppur maldisposta ad interrompere la lettura, si alzò solo per porre fine a quell’inutile discussione. Probabilmente, era il fattorino del take-away a cui avevano telefonato per un pranzo a base di hamburger e patatine. Stile dell’altra costa americana, come aveva suggerito Logan.
Salì le pedana ed aprì la porta di ingresso. Il ragazzo che le si presentò di fronte, non somigliava affatto ad un corriere di un fast-food, era vestito come un comunissimo ragazzo. Era poco un po’ più alto di lei, ma rimase composta davanti a lui.
Ciò che notò subito furono i capelli bianchi, corti sulle tempie. Un ciuffo sbarazzino gli oscurava in parte la fronte aggrottata in un’espressione di muta perplessità. Ma un gradevole stupore colse Samantha impreparata quando le proprie ametiste incontrarono un paio di occhi aurei. Le iridi somigliavano ad anelli d’oro, brillanti come il metallo puro.
Nonostante quelle caratteristiche singolari, trovava i tratti del volto vagamente familiari. La mascella squadrata, le labbra cesellate… C’era Carlile sul viso del ragazzo.
« Tu devi essere Sean » esordì, lasciando ricadere il braccio con cui aveva tenuto aperta la porta, lungo il fianco.
« Ehm… Ci conosciamo? » chiese il ragazzo, fissandola dall’alto in basso. I lineamenti della ragazza non gli ricordavano nessuno, ma non riuscì a smettere di guardarla. Il colore violaceo dei suoi occhi lo mise in soggezione. Al contrario della felpa rossa che indossava, i jeans tendenti al grigio le mettevano in risalto le gambe snelle. I capelli neri le scendevano a boccoli fino alle spalle e facevano risaltare ancora di più la pelle diafana del viso, su cui indossava una maschera impassibile.
« Non esattamente » rispose lei con tono indifferente, quasi scocciato.
« Tu non abiti qui » contestò Sean, arcuando un sopracciglio niveo.
« Però!? Che acume… - mormorò sarcastica - Tranquillo, me ne andrò presto » aggiunse prima di dargli le spalle. Sean chiuse la porta dietro di sé ed abbandonò lo zaino sul pavimento mentre la osservava sedersi sul divano, come se fosse lì da sempre e lui l’avesse notata solo in quel momento. La vide prendere fra le mani un libro dalle pagine ingiallite, che aveva lasciato sul tavolo e la scrutò ancora per qualche istante prima di regalare un sorriso accennato a Katherine.
« Ciao, Kath » disse e lei ricambiò con una fugace occhiata.
« Sean » borbottò prima di tornare alla rivista.
La misteriosa ragazza dai capelli corvini non lo degnò di uno sguardo. Scosse il capo fra sé e raggiunse Logan e James nel piccolo salotto, che inveivano l’uno contro l’altro mentre facevano schizzare le dita sui joystick. Si stavano sfidando, come dei ragazzini di dodici anni « Ehy, Logan ».
« Non ora, Sean. Scusa… » lo liquidò il ragazzo, girando bruscamente il joystick.
« Jam, chi è la tipa scorbutica che mi ha aperto la porta? » chiese a bassa voce, inclinandosi col busto per porre la faccia in mezzo ai due.
« E’ la ragazza di cui parlava tuo padre, Samantha Jackson » mormorò, spingendo Logan.
« E come mai è qui? » domandò quando Jam fece sporgere la punta della lingua da un angolo della bocca, in segno di profonda concentrazione.
« Tuo padre ce lo dirà stasera » disse prima di esultare trionfante mentre Logan lasciò andare il joystick.
Aveva vinto la corsa per pochissimo e adesso lo stava schernendo.
Sean si girò per osservare Samantha mentre girava la pagina. I suoi occhi seguivano le parole mentre le ciglia lunghe si curvavano verso l’altro.
« Ovviamente » bofonchiò fra sé. Suo padre era solito comportarsi a quel modo. Non dava mai delle spiegazioni, ti spingeva a roderti il cervello prima di farlo. E in quei giorni, gli sembrava ancora più strano « Vi ha detto niente? Sa’ qualcosa? ».
« No, purtroppo. Nemmeno lei ha idea di cosa stia accadendo… » sospirò Logan mentre Jam spegneva la console.
Sean tornò a guardarli con un sorrisetto obliquo.
« Beh… E’ carina » commentò.
« Amico, sta’ attento… - lo ammonì, puntandogli la custodia del videogioco - Sam morde ».
Sean accennò ad una risata divertita. Sapeva quanto il mutaforma potesse risultare irritante per le ragazze. Era impertinente, fin troppo. L’ultima volta che aveva provato a rimorchiarne una, si era ritrovato un drink sulla faccia con tanto di fetta di limone.
Non si stupiva se Samantha si era dimostrata ostile con lui. C’era qualcosa però che non tornava in quell’equazione, che non tornava in quella ragazza.
« Ha qualche potere? » chiese, incuriosito.
« Telecinesi » disse Logan.
« Ed è forzuta - si lamentò James, ruotando la spalla - Mi ha quasi spezzato una spalla »

**

Più tardi, il gruppo era adunato attorno al tavolo della cucina. Il sole era poco oltre lo zenit e illuminava l'intera casa. James aveva ordinato di tutto e di più. Dalle patatine ai nuggets, dalle crocchette di patate e mozzarella ai cheeseburger.
Sean era seduto proprio di fronte a Samantha, intenta a finire la propria porzione di patatine fritte che intingeva di tanto in tanto nel ketchup. Stava sorridendo appena mentre ascoltava la conversazione fra Katherine e Logan, che discutevano se fossero meglio gli hot-dog o gli hamburger.
« Scusa, credo di non aver capito il tuo nome » disse dopo aver mandato giù il boccone.

Samantha sollevò gli occhi su di lui ed attese qualche attimo, come se stesse ponderando le parole.

« Non è importante visto che non resterò qui tanto a lungo »
« Ti comporti così di solito? » chiese innervosito dal suo atteggiamento recalcitrante. Non aveva mai incontrato una ragazza tanto chiusa.
« Sì e di solito, le persone evitano di farmi domande di cui conoscono già la risposta » rispose con un sorriso sardonico. Era chiaro che li aveva sentiti parlare prima.
« Forse i pomodori di questo hamburger sono un po’ aciduli » osservò con ironia.
La vide inarcare un sopracciglio scuro mentre afferrava una patatina.
« Non prendertela, Fiocco di Neve. Sono fatta così, a modo mio » ma quella non era una rassicurazione. Sembrava che con lui non volesse avere niente a che fare.
Prima che potesse rispondere, Samantha si alzò e si pulì le mani col tovagliolo.
« Scusatemi, sono un po’ stanca » annunciò, mettendo la sedia sotto al tavolo.
« Ma è solo l’una del pomeriggio » protestò James con la bocca piena.
« Circa dodici ore fa, stavo servendo drink al bancone di un pub »
« Tu sai preparare un Cuba Libre? » chiese, divorando una decina di patatine in un sol boccone.
« Sì, ma fidati non è un lavoro piacevole quando il Cuba Libre si trova sul pavimento, dopo che un tipo l’ha vomitato insieme ad un sacco di altri drink » mormorò lei, vagamente divertita.
Le era capitato spesso di avere a che fare con quel genere di episodi, soprattutto a Capodanno.
« Perché lo fai, se non ti piace? » intervenne Katherine, piluccando un nugget.
« Perché non voglio dipendere da Doc. Si è preso cura di me per troppo tempo » disse, avviandosi alla porta.
« Dove sono i tuoi genitori? » la fermò Sean.
Lei rimase immobile con una mano sullo stipite, non si girò ma ruotò il viso. Quanto bastava per osservarlo da sopra la propria spalla, con la coda dell’occhio « Qualche metro sotto terra ».
« Cavolo… » sussurrò Logan.
« Succede – mormorò lei, tranquilla - E’ la morte, no? ».
Poi sparì al piano di sopra.

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