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di sam_di_angelo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Come tutto è iniziato ***
Capitolo 2: *** 1. Lost in the hospital ***
Capitolo 3: *** 2. Shit, let's fight. ***
Capitolo 4: *** 3. Here we bloody go. ***
Capitolo 5: *** 4. Rosy Cheeks. ***
Capitolo 6: *** 5. Surprise! ***
Capitolo 7: *** 6. That kind of sadness. ***
Capitolo 8: *** 7. Life's a roller coaster. ***
Capitolo 9: *** 8. Breakages that weld an heartbreak. ***
Capitolo 10: *** 9. The authoritarian man and the black Lady. ***
Capitolo 11: *** 10. Blood in the darkness. ***
Capitolo 12: *** AIUTO: HO BISOGNO DI VOI ***
Capitolo 13: *** 11. Domani soffierà il vento di domani. ***
Capitolo 14: *** 12. Ripped masks. ***
Capitolo 15: *** 13. Don't call me baby! ***
Capitolo 16: *** 14. The List. ***
Capitolo 17: *** 15. Playing With Fire ***
Capitolo 18: *** 16. Can't Help ***
Capitolo 19: *** SPECIALE! ***



Capitolo 1
*** Prologo: Come tutto è iniziato ***




 CAST: 
 Park Chanyeol come Cole Blaze.
 Byun Baekhyun come Boyce Hanks.
 Jennifer Aniston come Chanette Blaze.
 Holland Roden come Stella O'Connor.
 Park Eun-bin come Tani.

   Kim Jong-in come Kellin Johnson. 














Cole Blaze era sempre stato un ragazzo con i piedi per terra.

Niente smancerie, niente speranze effimere, niente ma, niente forse. Aveva imparato con gli anni e con enormi sacrifici ad accettare ogni singola sciagura. Se stesso in primis.

Se fosse mai esistito un antico dio greco sul Monte Olimpo, il dio dell'accettazione, di sicuro sarebbe stato Cole. Già si immaginava raffigurato su un arazzo in un tempio a lui dedicato: seduto a gambe incrociate, gli occhi chiusi e il corpo rilassato in una posizione da "Ooooom".

Era pienamente consapevole del fatto che lui fosse un ragazzo mediocre, e, semplicemente, lo aveva accettato. Non aveva quel qualcosa che lo contraddistingueva della massa, nessun fattore X, capacità speciale, talento, super potere o altro. Era solo Cole Blaze.

Andava bene a scuola, ma come lui di ragazzi ce ne erano a bizzeffe. Era bravo nello sport (aveva vinto diverse gare regionali di atletica leggera) ma c'erano altri atleti mille volte più bravi di lui. Insomma, era un ragazzo come tanti, come tutti.

Ormai lo aveva accettato, aveva accettato il suo triste e miserevole destino e ci aveva persino riso un po' su. Aveva iniziato a bere, a fumare, ad andare alle feste, ad ubriacarsi. Se davvero si sentiva obbligato ad essere un ragazzo comune, almeno lo avrebbe fatto come si deve, no?

E così Cole si ritrovò a russare a pancia in giù aggrovigliato nelle sue stesse coperte, in una posizione strana, in quella fresca mattina di maggio. Stordito dai continui conati di vomito dovuti alla sbronza, aveva dormito si e no per due ore di fila senza doversi alzare per correre al bagno.

Era finalmente riuscito a sprofondare nel sonno profondo, in quel buio ristoratore che avrebbe annebbiato almeno per un po' il fortissimo dolore alla testa. Non ricordava quello che era accaduto la sera prima, e nemmeno gli importava saperlo. Ringraziò solo il buon dio che lo aveva aiutato a tornare a casa tutto intero. Chissà come aveva fatto ad arrivare al suo letto integro...

Aveva iniziato addirittura a sognare, ma ben presto il suo bellissimo sogno in cui scartava l'ultima PlayStation il giorno di Natale si tramutò in orribile un incubo. Una grossa arpia grigiognola svolazzava nella sua mente, occupando tutto il suo immaginario campo visivo. Gracchiava come una cornacchia, provocando dei versi orripilanti che amplificavano il mal di testa di Cole, rendendolo insopportabile. Sputacchiava e perdeva penne qua e là, gli occhi gialli e spiritati.

Cole! Cole! Alzati fannullone! Alzati fannullone!

Continuava a ripetere quella bestiaccia. Sembrava avesse la voce di uno di quei pappagalli odiosi che si vedono in quei film sui pirati.

«Sparisci!» gridò Cole all'arpia, in preda ad un attacco isterico. In quel momento desiderava solamente e ardentemente dormire. Dormire!

Cole Blaze! Come osi parlare a tua madre in questa maniera!  

E tutto l'incubo si interrompette con un pesantissimo tonfo.

BOOM

Il dolore esplose nella testa di Cole, accecandogli la vista. Cercò di mettere a fuoco. Il suo stomaco sembrava stesse ballando il tip tap, mentre la sua schiena indolenzita veniva attraversata da dolorose e continue fitte.

Si ritrovò il pavimento fresco sotto le natiche. Era seduto ai piedi del letto, con le coperte avvinghiate attorno al corpo. Aveva ancora indosso i vestiti della sera precedente, e puzzava di alcool e sudore. Ecco un altro conato di vomito che lo scosse. I succhi gastrici si arrampicarono nella sua gola, ma lui li spinse prontamente indietro, determinato a farli restare nel suo stomaco.

«Cole Blaze, fila immediatamente a darti una ripulita e porta il tuo lurido culo sulla mia auto.» sua madre lo teneva per una delle due orecchie a sventola.

Tutti lo prendevano in giro per via di quelle dannatissime orecchie.

«Ma'! Ma che fai?!» protestò, cercando di divincolarsi dalla stretta ferrea di sua madre, Chanette, che gli stava facendo diventare l'orecchio bordeaux.

«Cole, non lo ripeterò due volte. Fatti una doccia immediatamente. Oggi verrai con me. Non ci sono scuse. Adesso fila, puzzi come un porco.» decretò con una smorfia. Cole la fulminò con lo sguardo e quando finalmente la madre mollò la presa si mise in piedi, inciampando ripetutamente nelle coperte.

«Oggi vieni con me in ospedale, da tua nonna Georgia.» Cole avrebbe preferito mille volte sbattere la testa contro un muro di mattoni fino a farci un buco, piuttosto che vedere l'orrida faccia rugosa di sua nonna che diceva "Piccolo Cole, lo dai un bacino a nonnina?".

Si recò in bagno strisciando i piedi, a mo' di protesta, chiedendosi se davvero si fosse svegliato. Gli sembrava ancora di essere addormentato, intrappolato in un brutto e scomodo incubo.

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Capitolo 2
*** 1. Lost in the hospital ***







1

Cole Blaze odiava il suo riflesso nello specchio. Troppo alto, riusciva a vedersi solo fino alla fronte. Troppo magro, sembrava un palo della luce. Era lì, in piedi, un pennellone con le orecchie a panna. Ma non era assolutamente stato un problema con le ragazze. 
Cole era il figo più ambito del liceo, aveva compiuto da poco diciotto anni e rispecchiava assolutamente lo stereotipo di "bello e impossibile". Ogni adolescente con gli ormoni a mille desiderava poter diventare "la" ragazza di Cole Blaze.

Camminata lenta, ondeggiante, chiodo di pelle, matita nera, mani nelle tasche e sguardo tenebroso. Un vero duro, se si può dire, e nonostante disprezzasse ogni suo lineamento ostentava una sicurezza disarmante, che mascherava dettagliatamente ogni suo risentimento.

Viso allungato, occhi a mandorla, rigorosamente scuri, naso piccolo e labbra carnose. Cercava in ogni modo di trasformare questa femminilità che aveva il suo volto in arroganza: sopracciglia corrucciate, sguardo ghiacciato, labbra strette. A quanto pareva funzionava, dato che Cole Blaze vantava un numero pazzesco di ragazze cadute ai suoi piedi.

Non aveva ancora trovato quella giusta, in quanto ognuna di loro sembrava essere sempre la stessa: sorridente, bramava con smaniosa impazienza di stampargli un bacio su quelle labbra carnose e si faceva portare a letto senza opporsi.

Mai nulla di interessante, mai nulla che risvegliasse la voglia in Cole di conoscere una persona più a fondo.

Dopo mezz'ora, il tempo esatto di farsi una doccia e di sistemarsi i capelli neri con una bella dose abbondante di gel, Cole uscì dal bagno in boxer.

Trovò la madre in piedi accanto al letto, e non appena il figlio uscì dal bagno con le piastrelle verde oliva gli lanciò addosso una maglietta pulita, che profumava di ammorbidente.

Cole la ringraziò con uno sguardo muto e tirò fuori dall'armadio i suoi pantaloni preferiti. Erano neri, con due strappi sfilacciati sulle ginocchia. Li abbinò alla maglia grigia che sua madre gli aveva lanciato in faccia e alle sue amate Converse total black.

Se avesse dovuto seguire sua madre all'inferno, almeno ci sarebbe andato con stile.

«Cole, muoviti! Dobbiamo essere lì per l'una!» in tutta risposta lo stomaco di Cole brontolò rumorosamente. E in tutta risposta alla sua risposta, la madre gli lanciò un panino. Lo afferrò appena in tempo.

«Mamma, puoi smetterla di lanciarmi qualsiasi cosa, per favore?» si lamentò il figlio, poggiando il sandwich avvolto in una pellicola sul letto mentre si infilava il chiodo di pelle nera con le borchie sulle spalle.

Afferrò il portafoglio prima di lasciare a malincuore la sua stanza e prese le sue inseparabili cuffiette, infilandosele in tasca.

2

Era la seconda volta che Cole ascoltava Break Your Little Heart degli All Time Low, mentre la madre agitava le mani, imprecando e sbuffando in continuazione. Il ragazzo non poteva sentirla, ma sapeva che lo stava rimproverando per l'ennesima sbronza del giorno prima. Cole però aveva concentrato tutta la sua attenzione sul panino che stava divorando, dondolando la testa a ritmo della canzone. Quel panino era favoloso: c'era il prosciutto, l'insalata, i pomodori e il formaggio.

Quel ragazzo era così, amava le cose abitudinarie, le routine. Quando gli piaceva una canzone la ascoltava fino a stancarsi, e da anni mangiava sempre lo stesso panino. Lo spaventavano a morte i cambiamenti, persino quelli più banali.

Quando Break Your Little Heart partì per la terza volta, i due erano ormai arrivati nel parcheggio dell'ospedale. La madre di Cole spense il motore ed uscì dal veicolo, sbattendo la portella.

Cole fece altrettanto, tenendo gli occhi incollati all'edificio.

La struttura era immensa, tutta grigia e cadente; un brivido di ribrezzo percosse Cole.

Seguì sua madre sbuffando su per le scale che portavano al portico. Quei gradini maledetti erano larghi almeno un metro l'uno (sua madre aveva prontamente detto "sono fatti così per chi ha le stampelle e cose simili"). Cole si era limitato a fare una smorfia: già li odiava.

Il portico aveva il pavimento fatto da piastrelle in marmo, scivoloso. Rifletteva la luce biancastra dei neon che illuminavano quello spazio ombroso. C'erano diverse panchine, su una in particolare, quella più lontana dall'entrata, c'era una giovane donna, probabilmente sulla trentina, che sedeva scomposta, con i piedi sul legno e un braccio che cingeva le ginocchia, strette al petto. L'altro era occupato a sorreggere una flebo. Cole si sentì inquietato da quegli occhi: la donna era pallida, aveva profonde occhiaie attorno agli occhi azzurri e i capelli biondi erano evidentemente sporchi e tutti arruffati. La vestaglia bianca e consumata e le pantofole grige con i buchi la facevano assomigliare ad una protagonista di un film horror.

La donna squadrò Cole mentre camminava spedito. Cole squadrò lei. Quando la superò sentì ancora il suo sguardo bruciare sulla sua schiena, come se lei lo guardasse con ostilità, con una smorfia imbronciata è una lucidità spaventosa.

Entrò nella struttura seguendo sua madre. Si concentrò sulla canzone che sgorgava dagli auricolari, in modo tale da perdersi le orribili vicende che l'ospedale ospitava. Attraversarono diversi corridoi illuminati dalle ampie finestre su un lato. C'erano tante porte bianche dall'altro, e su ognuna c'era scritto un nome diverso, su altre un numero.

Don't be so sentimental, no.

Diceva la canzone. Cole ricordò la ragazza con cui aveva passato una notte l'estate precedente che gli prometteva amore eterno e cercava di trattenerlo con assurde moine e poesie Shakespeariane.

This love, was accidental.

L'altra ragazza bionda con cui era stato a letto e che aveva lasciato la mattina dopo. Si era trovato il telefono intasato di messaggi, ma li aveva ignorati tutti. Era stato un amore accidentale di una notte e basta.

So give it up, this was never meant to be more than a memory for you.

Partì l'assolo di chitarra elettrica, e Cole chiuse gli occhi. Evitò lo sguardo curioso degli infermieri e si limitava a suonare la sua chitarra immaginaria con enfasi.

Quando la canzone finì aprì gli occhi e nel momentaneo silenzio scoppiarono gli sgradevoli suoni della vita in quell'ospedale. Sentì una signora anziana su una barella lamentarsi, producendo una sorta di cantilena lacrimosa. Telefoni squillare, i passi svelti dei dottori e le barelle scivolare sul pavimento di plastica blu, rotto in più punti.

Cole iniziò ad odiare seriamente quel posto. Si immaginò quei corridoi di notte, pieni dei lamenti sommessi dei pazienti, con le porte che scricchiolavano e i neon bianchi che brillavano spettrali. Il pavimento lucido che rifletteva quelle bianche luci ronzanti e la luna che disegnava inquietanti ombre sui muri con la sua luce lattea. Terrificante.

Cole si scrollò di dosso quella sensazione orribile e si accorse che sua madre, che prima camminava davanti a lui, era sparita. Si sentì morire.

Una cuffia gli cadde dall'orecchio. Si mise a camminare a passo svelto per i corridoi. Nemmeno sapeva in quale reparto si trovasse sua nonna. Cazzo.

Girovagò per tutto l'ospedale, maledicendosi più e più volte. Non poteva chiedere agli infermieri dove fosse sua nonna, mica conoscevano ogni singolo paziente. Tuttavia, domandò a qualcuno della signora Stone, il cognome dell'anziana. Niente. Nessuno sapeva e tutti lo indirizzavano alla segreteria. Ma dove cazzo era questa segreteria? Tutti gli davano indicazioni diverse. Terzo piano, subito a destra. Secondo piano, a sinistra.

Stava per mettersi a piangere, quando qualcosa attirò la sua attenzione.

«Boyce Hanks?» un'infermiera davvero carina aveva aperto la porta numero 137.

«Non ora!» gridò qualcuno dall'interno. Era una voce strana, forse di un ragazzo. «Devo somministrarle la medicina.» ribatté la donna. Era molto giovane, con dei lunghi capelli rossi e le lentiggini sul naso. Cole si sistemò la giacca e si avvicinò.

«Scusi l'intromissione.» disse, sfoderando uno dei suoi migliori sorrisi. La donna lo guardò accigliata, per poi sorridere.«Mi dica, come posso aiutarla?» Cole si poggiò al muro con nonchalance, mettendosi le mani nelle tasche.

«Semmai, come posso aiutarla io.» fece una pausa ad effetto. «Il paziente qui dentro è mio amico e, se permette, è un gran testone.» (Speriamo sia maschio, pregò Cole).

La ragazza sorrise, invitandolo a proseguire.

«Che medicine deve dargli?» l'infermiera gli mostrò una scatola che aveva in mano.

«Una di queste pillole, ma il paziente da giorni fa storie, e non vuole prenderle.» Cole sorrise.

«Non ti preoccupare, raggio di sole.» disse, allungando una mano. «Dai a me, gliele faccio prendere io.» la ragazza sembrò riflettere. «Mh, non saprei...» rispose, palesemente indecisa.

«Mi aspetti fuori dalla porta, appena prende la pillola glielo dirò.» altra pausa. «Se ci riesco, però, merito un premio.» non c'era niente da fare, Cole restava un irrimediabile rubacuori.

«Mi darà il suo numero?» più che una domanda era un'affermazione. L'infermiera ridacchiò.

«Va bene, mi hai convinto.» gli porse le pillole e gli fece segno di entrare. Cole sorrise per la sua piccola vittoria ed entrò nella stanza numero 137.

Si ritrovò a guardare un ragazzo, seduto in un letto disfatto. Aveva in mano un joystick dell'ultima PlayStation, e continuava a premere tasti all'impazzata guardando lo schermo di una grande TV. Cole si domandò cosa ci facesse in una stanza d'ospedale un televisore al plasma e una PlayStation.

«Chi è? Stella?» chiamò il ragazzo, senza mai distogliere lo sguardo dallo schermo. «Non ora, voglio vincere questo round.» Cole lo studiò. Aveva un viso allungato, la pelle pallidissima. Occhi a mandorla scuri come il caffè, occhiaie violacee spaventose. I capelli erano castani e tutti scompigliati, il naso piccolo e schiacciato e le labbra altrettanto piccole e pallide. Uscì fuori la lingua a corrucciò le sopracciglia, evidentemente impegnato al massimo in ciò che stava facendo.

«Non le voglio quelle cazzo di pillole.» sbottò. Cole sorrise, era davvero un tipo.

«Invece dovrai volerle, Boyce.» sentenziò Cole, trattenendo una risata per via di quel nome assurdo. Il ragazzo strabuzzò gli occhi e mise pausa al videogioco. Mortal Kombat X, notò Cole, bel gioco.

«Tu sei? Un servo di Ade per caso?» Cole pensò che il piccoletto si riferisse al suo abbigliamento, infatti lo aveva indicato per poi squadrarlo, con le sopracciglia arcate.

«Sì, sono risalito dall'inferno, e ho il dovere di farti mandare giù queste pillole.» disse, guardandolo. L'altro rise.

«Non le accetto da Stella, la mia infermiera da ormai anni, e dovrei accettarle da te, chi saresti poi?»

«Un ragazzo che desidera tanto avere il numero di telefono di Stella. Se prendi queste pillole mi fai un favore, e poi sparirò dalla tua vita.» Boyce lo guardò male.

«E in cambio io che cosa ottengo?» Cole ci pensò su. «La mia più sincera gratitudine.»

«Mi ci pulisco il culo con la tua gratitudine.» Cole strabuzzò gli occhi. Nessuno gli aveva mai parlato così, tanto meno un nanetto in un letto di ospedale.

«Facciamo così.» Boyce lo guardò, accennando un sorriso. «Mi annoio a morte qui dentro, solo come un cretino.» iniziò. «Perciò, se io prendo quelle pillole, tu dovrai venire a farmi visita due volte a settimana.» Cole scoppiò a ridere. «E perché mai dovrei?»

«E' un patto.» rispose l'altro. «La tua compagnia per il numero di Stella, ci stai? E poi, due giorni a settimana sono pochi. Avrai tutto il tempo di fare il cascamorto con Stella negli altri giorni.» Cole era davvero divertito. Avrebbe accettato, sì, si sarebbe fatto dare il numero di Stella e sarebbe sparito da quel cacchio di ospedale per sempre.

«Ci sto.» si avvicinò al letto del ragazzo e afferrò la sua mano, mentre con quella libera dietro la schiena incrociava le dita.

La stretta di Boyce lo scosse. Era così debole all'apparenza, debolezza dovuta al motivo per cui quel ragazzo doveva essere inchiodato a quel letto bianco da settimane - o mesi - ma al contempo era una stretta decisa, sicura. Fuori da quell'ospedale quel tipo sarebbe stato una forza della natura, Cole lo leggeva in quegli occhi scuri che bruciavano.

Il suo viso aveva qualcosa che colpì Cole nello stomaco. Gli occhi taglienti dell'altro non gli lasciavano via di scampo. Era forse così che si sentivano le ragazze quando lui le guardava? No, il suo era uno sguardo costruito, montato. Quello di Boyce invece era vero, scuro e freddo. Cole si domandò perché quegli occhi così duri si trovassero su un viso dolce e rilassato come il suo.

«E dammi queste pillole infernali allora.» Boyce ritirò la mano dalla stretta, come scottato. Guardò fuori dalla finestra. Quegli alberi che conosceva così bene, quei tre palazzi che si scorgevano, la strada. Avrebbe potuto disegnare quel paesaggio ad occhi chiusi.

Il rumore dell'altro ragazzo che apriva lo scatolo con quelle maledette pillole lo svegliò.

«Come ti chiami?» gli chiese, ridacchiando, mentre lo guardava sforzarsi per far uscire la pillola dalla capsula di carta argentata, invano. Sembrava buffo e imbranato.

«Da' qua.» disse Boyce, togliendogli lo scatolo dalle mani.

«Cole Blaze.» gli rispose, imbronciato.

«Quanti anni hai? E quanto sei alto? Dio, sembri un gigante.» Cole si sentì a disagio sotto lo sguardo dell'altro. «Ho diciotto anni e sono alto 1,85.» Boyce fece una smorfia.

«Io sono altro un metro e ottantavoglia di crescere.» disse a Cole, sconfitto, facendolo ridere.

«Seriamente, quanto sei alto? E quanti anni hai?» Boyce spostò lo sguardo sullo schermo della sua TV.

«1,74, ho diciannove anni.» Cole scoppiò a ridere.

«Ma davvero? Sei davvero un tappo.» Boyce lo fulminò con lo sguardo. Prese la pillola troppo grande e, senza staccare gli occhi da quelli di Cole, la mandò giù.

«Bravo bambino.» commentò Cole, ottenendo come risposta il dito medio dell'altro.

«Allora vado.» annunciò Cole, sorridendo. Non sorrideva spesso, eppure gli era venuto naturale farlo in quella circostanza.

«Tornerai?» gli chiese Boyce, la voce leggermente inclinata, gli occhi puntati in quelli del più piccolo.

«Tornerò.» Cole mentì ed uscì dalla stanza chiudendo la porta, senza guardarsi indietro.

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Capitolo 3
*** 2. Shit, let's fight. ***


1

Cole Blaze non ottenne il numero di Stella, no. 

In compenso, Cole fece la più grande figura di merda di tutta la sua vita. 

Tutto era iniziato quando era uscito dalla stanza numero 137, sorridendo come un ebete. Lo scatolo di pillole che portava in mano ne contava una in meno, e quindi aveva raggiunto il suo obbiettivo, ergo: avrebbe ricevuto il numero da quella sexy infermiera rossa. O, almeno, era quello che si aspettava...

Si dirigeva a passo spedito proprio verso di lei, allungandole la piccola confezione di cartone, un sorriso trionfante, quando un dolore orribile gli esplose nell'orecchio.

«Cole Blaze, dove cavolo ti eri cacciato?» era sua madre che, in preda all'isteria, lo guardava con il fuoco al posto delle iridi. Cole avrebbe tanto voluto sprofondare nel pavimento sporco di quell'ospedale fino all'inferno.

Stella guardava la scena divertita, ridacchiando. Cole si sentì avvampare, mentre sua madre si rivolgeva all'infermiera con un tono di scuse.

«Mi dispiace che mio figlio vi abbia importunata, signorina.» disse, con un lieve cenno del capo. 

«Si figuri» rispose la rossa, trattenendo a stento una risata. Poi Chanette si rivolse al figlio, con un'espressione a metà fra il furioso e il satanico.

«Io e te facciamo i conti più tardi.» Cole alzò gli occhi al cielo e pregò che tutto finisse in un istante.

2

"Dio, che figura di merda." pensò il ragazzo dai capelli neri, guardandosi nello specchio del bagno. Si era dovuto abbassare di un poco per potersi ammirare l'orecchio rosso come un pomodoro che continuava a pulsare. "Uccidetemi" deglutì. Era stata davvero una pessima figura. Non avrebbe mai dimenticato gli occhi marroni della ragazza che ridevano di lui. 

Sospirò. Non avrebbe mai più messo piede in quell'ospedale nemmeno sotto tortura.

Poi il suo pensiero si soffermò inspiegabilmente su Boyce. Quel ragazzo che in piedi gli sarebbe arrivato a mala pena alle spalle. 

Tornare in quell'ospedale? Non se ne parlava. Eppure qualcosa nel cervello di Cole gli urlava che, invece, ci sarebbe tornato eccome. Soffocò con ribrezzo quella vocina fastidiosa ed uscì dal bagno con le piastrelle verde oliva.

Si tuffò sul letto ancora sfatto e chiuse gli occhi. Supino, con le mani incrociate sul petto, pensava. Quando riaprì gli occhi essi si posarono automaticamente sul calendario appeso ad una delle quattro pareti grige della stanza. Sabato 2 Maggio. 

Da lì a poco avrebbe dovuto affrontare gli esami di maturità. Gli venne il voltastomaco. Doveva iniziare a darsi una mossa e studiare: Cole Blaze era un playboy, ma doveva prendersi cura anche del suo cervello, non solo dei capelli.

"Chissà se Boyce li ha fatti gli esami..." pensò, arrivando alla conclusione che probabilmente no, Boyce non aveva dato nessun esame. La sua pelle bianca come la neve e le profonde occhiaie facevano subito pensare ad un lunghissimo periodo di tempo. Cole si immaginò in un letto d'ospedale, inchiodato lì da mesi, e gli venne la pelle d'oca. Lui sarebbe sicuramente impazzito.

Provò un moto di compassione nel petto che gli fece girare la testa. Scacciò quella sensazione orribile e si schiaffeggiò mentalmente. Dopo un bel po' di tempo trovò la forza di alzarsi dal letto e si diresse verso la sua scrivania. Il libro di chimica lo attendeva entusiasta.

3

Erano passate ore da quando Cole aveva aperto quel dannato miscuglio di carta, nomi assurdi e informazioni inutili; non aveva concluso un accidenti. 

Il sole era calato, sempre più giù, e aveva tinto il cielo di colori tenui e luminosi. Giallo, arancione, rosa, lilla. Si sentiva un fresca brezza serale, che entrava dalla finestra aperta della stanza.

Cole aveva il viso abbandonato sul palmo della mano. Era in quella posizione da diverso tempo, dato che avvertiva il sudore appiccicato sulla guancia. 

Era perso in chissà quale mondo, quando il cellulare accanto al suo gomito squillò, riportandolo sulla terraferma.

«Ehilà.» rispose, non potendo non notare la sonnolenza che si avvertiva nella sua voce roca.

«Ehi Cole, sono Madison.» disse una voce melensa dall'altra parte del telefono, quasi come un seducente sussurro.

«Non ti sei dimenticato della festa a casa mia stasera, vero?» il ragazzo arricciò il naso. Effettivamente sì, se ne era dimenticato. 

«Certo che no, dolcezza, ci sarò sicuramente. Mi ricordi l'ora?» la ragazza ridacchiò al soprannome con cui Cole l'aveva chiamata. 

«Alle otto e mezzo, sai dove abito.» gli rispose, ammiccando.

«Come dimenticarselo, bene Madison, chiudo. Ci vediamo stasera.» la ragazza esitò.

«Ti aspetto.» e riattaccò. Cole si accasciò sulla sedia di pelle. Non aveva per niente voglia di andare a quella stupida festa, però aveva bisogno di distrarsi. 

Si preparò alle otto in punto, spalmandosi la vertiginosa dose di gel fra i capelli corvini, con la destrezza di un parrucchiere professionista. Si sistemò meglio le lenti a contatto e si mise la matita. 

Non ricordò nemmeno gli abiti che aveva scelto di indossare. Attraversò il corridoio che lo separava dalla porta di ingresso a passo svelto, con sua madre che gli urlava dietro "Sei incorreggibile!!!"

Afferrò le chiavi di casa e si incamminò. 

Alle otto e quarantacinque minuti era in piedi davanti alla grandissima casa di Madison.         

Già qualcuno barcollava nel prato, ubriaco fradicio, e si accasciava da qualche parte a vomitare.

"Assurdo..." pensò Cole. "La festa è iniziata solo da un quarto d'ora..." e la musica batteva potentemente sulle pareti, come se lo stereo al centro della casa fosse il nucleo di un cuore che pulsava frenetico.

Cole fece spallucce ed entrò, immergendosi in quella piccola fetta di caos. 

Cercò con gli occhi qualcuno della sua comitiva, serpeggiando fra i corpi sudati che ballavano a ritmo delle luci psichedeliche e delle canzoni house che pompavano dalle casse. 

Cole arrivò con fatica al tavolo delle bevande. Era giunto il momento di qualche drink.

«Ehi, frocio!» una voce urlò alle sue spalle. Cole la ignorò e si versò uno strano liquido colorato da una bottiglia senza etichetta in un bicchiere di plastica rosso, che si affrettò a mandar giù. Pizzicava, ma il suo sapore di fragola lo lasciò estasiato. Se lo riempì di nuovo. 

«Ehi, dico a te.» un braccio spuntò da dietro il busto di Cole e si poggiò sul tavolo accanto a lui. Era peloso, tatuato, e incredibilmente muscoloso. Tuttavia, Cole si voltò, stringendo il bicchiere rosso nella mano.

«Hai sbagliato persona, caro.» disse Cole, guardando l'interlocutore a poche spanne dal suo naso.

Era un omone, alto più di lui, con i muscoli tirati e imbottiti da chissà quale stregoneria chimica stretti sotto la canottiera bianca, accenno di barba, tatuaggi ovunque e sguardo truce.

Cole sospirò. "Che palle." pensò. "dovrò picchiarne un altro." tuttavia si sentì gasato.

«Ho sentito dire che tu, piccolo manico di scopa, hai portato a letto la mia ragazza.» il tizio-armadio corrugò le sopracciglia.

«Mh, scusami tanto dolcezza, ma quale ragazza tu dici?» l'altro strinse i pugni e i denti.

«Madison.» Cole rispose con una smorfia di noncuranza. «Già, me ne ero dimenticato.» lo guardò, le iridi circondate dalle fiamme.

«Ma sai com'è, è stato belle sentirle urlare il mio nome invece che il tuo, che sarebbe?» l'altro iniziò a tremare per la rabbia. 

«Butch, e tienilo bene a mente, perché dirai di essere stato ridotto in poltiglia a quelli dell'ospedale da un tizio che si chiama Butch Spencer.»

«Sono Cole. Cole Blazer. Tienilo a mente, perché sarò il ragazzo a cui la tua Madison penserà ogni volta che tu la toccherai.» 

Okay, forse aveva esagerato, ma se c'era una cosa che Cole amava era far imbestialire i ragazzi in modo che lo attaccassero. Sì, amava le risse, e con la scusa di essere stato colpito per primo poteva giustificarsi dicendo "sa com'è, legittima difesa..."

Infatti Butch menò un pugno che fendette l'aria proprio dove c'era la testa di Cole un attimo prima che quest'ultimo si scansasse. 

Cole rispose dandogli una gomitata nella pancia, e Butch sembrò perdere il fiato. In confronto al tizio-armadio Cole assomigliava uno stuzzicadenti, ma i suoi cinque anni di karate si rivelavano essere davvero tanto utili in situazioni come quella. 

Butch andò a sbattere contro al tavolo e alcune bottiglie si rovesciarono, riversando il proprio liquido colorato sulla tovaglia. I ragazzi della festa fermarono la loro folle danza e si girarono a guardarli.

«Io ti uccido!» le ultime parole famose, e la rissa partì.

4

Era stato davvero duro come confronto, finalmente una sfida degna di essere chiamata tale. Cole aveva mandato Butch all'ospedale, si era assicurato che i presenti avessero visto che era stato lui a colpirlo per primo (tutti lo confermarono) e si era recato anche lui all'ospedale, perché pensava di avere una costola inclinata. 

Erano le dieci della sera, e Cole se ne stava seduto fuori dalla sala raggi battendo il piede, mentre aspettava il suo turno. Quando si fece visitare gli dissero che era soltanto un po' ammaccato, e che non c'era nulla di rotto. Lo indirizzarono in una sala dove c'era un'infermiera che gli medicò i graffi e le piccole ferite sul viso. 

A furia di aspettare prima di farsi fare i raggi era scesa la notte, e quello che Cole temeva fosse lo scenario di un film horror prese vita nell'ospedale: corridoi vuoti, buio, ombre e lamenti, tutto condito con una bella puzza di plastica e guanti di gomma.

Il suo orologio nero segnava l'una e un quarto. L'ultima cosa che Cole avrebbe voluto era sua madre che gli urlava contro l'ennesima ramanzina. Perciò chiese di Butch, e quando gli riferirono che il ragazzo sarebbe stato in gran forma in meno di una settimana Cole si rasserenò. Niente denuncia, ed era sicuro che Butch non lo avrebbe più importunato.

Mentre camminava a passo svelto in un corridoio, per sfuggire ai fantasmi che lo inseguivano famelici cercando di afferrarlo con i loro artigli d'ombra, Cole si rese conto di essersi fermato davanti alla porta 137. Se lo avessero visto lo avrebbero sicuramente spedito fuori con un calcio nel didietro, perciò fece attenzione e si guardò bene attorno, prima di entrare. 

La porta cigolò, e Cole si affrettò a chiudersela dietro le spalle. La stanza era in penombra, l'unica luce che c'era era quella della luna che filtrava dalle finestre grandi, e illuminava d'argento il piccolo ed esile corpo steso nel letto a pancia in su.

Cole si domandò cosa cazzo facesse in quella stanza, poi si concentrò ad osservare Boyce, che dormiva profondamente. Il volto rilassato, gli occhi freddi color caffè coperti dalle palpebre bianche. Le labbra schiuse che tradivano i sospiri del sonno, pallide e screpolate. Il petto si alzava si abbassava piano, ad agio. Cole prese una sedia e si sistemò accanto al letto del ragazzo. Iniziava ad avvertire i dolori della rissa e dell'alcol. L'adrenalina era finita, e di conseguenza sopraggiunse la stanchezza.

Guardò per un'ultima volta Boyce dandosi del cretino. Aveva un'espressione così serena e tranquilla che per un momento il più piccolo lo invidiò. Non dormiva così da tempo immemore.

Cosa pensava di fare? Svegliare Boyce e chiedergli di giocare alla Play? Cacchio, sì. Aveva bisogno di una distrazione, e la rissa si era rivelata fin troppo breve per poterlo distrarre davvero.

Tuttavia, si alzò facendo il meno rumore possibile. Mise la sedia a posto e camminò zitto verso la porta. 

Afferrò la maniglia e la girò, quando la voce di Boyce gli arrivò come un sospiro alle spalle.

«Mamma?» Cole sentì il drink che aveva bevuto tornargli su e si affrettò ad uscire dalla stanza. 

Boyce stava sognando, e la paura di interrompere il suo sogno spinse Cole ad allontanarsi a passi veloci da quell'ospedale. 

Perché era entrato in quella stanza? E... cosa stava sognando Boyce?

Si era sentito davvero stupido, perché entrando nella stanza mentre Boyce dormiva e sognava, aveva violato la sua privacy. Non che Cole fosse stato amante delle regole, ma la legge del "rispetta la privacy altrui" era sempre stata legge per lui. 

Forse sarebbe tornato davvero in quell'ospedale, per mantenere fede alla promessa dalle dita incrociate. Perché gli dispiaceva per Boyce e si era davvero pentito di aver incrociato l'indice e il medio quando stringeva la sua mano. E perché era troppo curioso di scoprire perché Boyce la notte sognasse sua madre.

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Capitolo 4
*** 3. Here we bloody go. ***


1

Cole Blaze fece un profondo respiro, immediatamente seguito da un rantolo sommesso. Ogniqualvolta riempiva d'aria i polmoni nella sua cassa toracica essi spingevano sulle costole doloranti, provocandogli delle fitte acute che gli facevano serrare le palpebre.

11:30, domenica mattina. 

Sua madre aveva saputo dell'accaduto, e per punirlo (dopo una ramanzina coi fiocchi - quando mai? - ) gli aveva sequestrato cellulare, pc, e qualsiasi altro "aggeggio del demonio" che funzionasse con l'elettricità, come diceva sempre il suo professore di inglese. 

"Davvero triste." pensò Cole, guardando fuori dalla finestra. "Nemmeno la tv..." aggiunse, sconsolato. Aveva studiato per ore, dato che si era alzato assieme ai rumori dell'aspirapolvere della signora Stone che rombava al piano di sopra, alle sei e mezzo del mattino.

Cole l'aveva detestata con tutto il cuore, come aveva sempre fatto. Ma dai, chi davvero sano di mente passava l'aspirapolvere alle sei e mezzo di domenica mattina? Urtando i mobili e facendo cadere sedie, oltretutto. "Lo so io" iniziò Cole "una nonnetta ultraottantenne e ormai più che sorda!"

Argh! 

Le fitte al petto. 

Si tirò su e si prese qualche secondo per far smettere alla stanza di girare. Graziosi puntini neri continuavano a danzargli davanti ali occhi, come fanno gli indigeni durante una di quelle strane coreografie rituali attorno al falò. 

Quando si sentì più stabile, Cole si alzò dal letto.

Il suo pigiama azzurro con le mucche stampate sopra era davvero troppo comodo, imbarazzante, quello sì, ma comodo come una soffice nuvola. Non che avesse mai provato ad indossare una nuvola...

Okay, stava delirando. 

Le risse sono come il fumo e l'alcol, belle da far male. Letteralmente. All'inizio ti senti un Dio, e quando l'adrenalina passa diventi un ottantenne con l'artrosi e il mal di schiena. 

"E' così che si sente la signora Stone?" Cole provò quasi pena per lei, ma non meno odio. Era sempre stata acida, quella vecchia gallina: sbraitava in continuazione e sbatteva i tappeti in direzione dei vestiti che Chanette appendeva ad asciugare ai fili, riempendo categoricamente le magliette di Cole di

-sporcizia;

-peli di gatto;

-polvere;

-capelli bianchi.

 

"Dio, che schifo." Cole fece una smorfia. Si diresse in bagno per farsi una lunga doccia calda. Si vestì in fretta ed uscì di casa. 

"Niente risse, feste, alcool o schifezze varie Cole, o ti chiudo in casa a vivere come un eremita." gli aveva detto Chanette. "Vai in biblioteca, fai qualcosa di utile." era davvero arrabbiata...

2

Cole Blaze camminava, camminava, e camminava. La sua testa era pesante come un blocco di marmo sulle spalle. Quel giorno il cielo si era riempito di nuvoloni neri, fulmini e lampi. 

L'ombrello appeso per il laccetto al polso di Cole continuava ad oscillare. 

Il ragazzo camminava curvo su se stesso, avvolto nella sua felpa grigia di due taglie più grande e con il cappuccio tirato sulla testa. Le mani scomparivano nelle larghe tasche, le gambe fasciate da i suoi amati pantaloni neri.

Aveva messo le Convers classiche, nere con la gomma bianca, le più rovinate che aveva. "Se inizia a piovere, non dovrò piangere sulle mie scarpe distrutte."

Camminava seguendo il silenzio della città, interrotto di tanto in tanto da qualche tuono che rimbombava nel cielo e nel suo petto, facendolo gemere.

Sembrava sera, ma il suo orologio segnava le 12:49.

Lo stomaco di Cole brontolò, ma lui non ci fece caso. Camminava a passo spedito, riflettendo su ciò che era accaduto la notte prima.

Perché era andato da Boyce? Perché? 

Non lo sapeva.

Forse perché quel ragazzo gli faceva pena? No.

Magari perché... No, non c'era un vero motivo. Forse i piedi di Cole lo avevano guidato verso la stanza 137 involontariamente perché era quello che il cuore gli aveva detto di fare, e, si sa, al cuore non si comanda.

Ed era davvero buffo, in quanto Cole continuava ad interrogarsi, perso nei suoi pensieri, sulla notte precedente, mentre camminava e camminava proprio verso l'ospedale.

3

Bussò alla porta della stanza 137. Realizzò in quel momento cosa stava facendo, come se il rumore delle nocche che impattavano contro il legno lo avessero scosso. Tirò via la mano e fece per andarsene, quando una voce dall'interno della stanza lo chiamò.

«Chi è là?» Cole rimase pietrificato per qualche secondo. Scappare o entrare?

Entrò. 

«Bonjour.» cercò di sembrare più rilassato possibile, ma quando incontrò gli occhi sconcertati di Boyce si sentì le gambe molli.

«Ehi...» rispose cautamente l'altro, a mo' di domanda.

«E' davvero strano...» disse Boyce, mettendo pausa al gioco. L'immagine che si bloccò nello schermo ritraeva un tizio che dava un pugno ad un altro in piena faccia facendo schizzare il sangue ovunque.

«Ero convinto al cento per cento che avessi incrociato le dita.» Boyce ridacchiò, e Cole si sentì tremendamente in colpa, perché in realtà lo aveva fatto davvero.

«Come stai?» chiese il più piccolo. L'altro, seduto in quel letto bianco con quella vestaglia addosso che gli provocava un prurito nemmeno fosse ortica, corrugò le sopracciglia.

Era pallido, il viso magro, le occhiaie nere e i capelli spettinati.

«Non credo di avere una bella cera, no? Perciò la tua domanda risulta alquanto stupida.» Cole si sentì imbarazzato.

«Era soltanto per rompere il ghiaccio.»

«Be', hai interrotto me che cercavo di rompere la faccia di questo tizio.» gli rispose Boyce, indicando con il capo la console di gioco. 

«Oh, scusa, vorrà dire che me ne andrò, così potrai rompere quel cazzo che ti pare.» Cole assottigliò lo sguardo avvelenato, e aprì la porta, seccato.

«Aspetta!» Boyce si maledì immediatamente. Era sembrato uno scolaretto che chiedeva alla mamma di non lasciarlo nel cortile con gli altri bambini, piagnucolando.

«Sono un po' brusco.» ammise Boyce, guardando l'altro. Cole rispose con una smorfia accigliata. «Non sono molto abituato ad interagire con gli umani...» continuò il più grande. «Non ricevo così tante visite...» 

La mano di Cole scivolò dalla maniglia di plastica.

«Oh.» rispose semplicemente. 

«Vuoi giocare?» gli chiese l'altro, cercando di cambiare argomento. «Mh, okay.» Boyce gli lanciò un joystick, che Cole afferrò al volo appena in tempo.

«Per poco non mi arrivava in testa!» si lamentò. Si ricompose. «Tuttavia, era impossibile che io non lo prendessi.» ammiccò. «Sono un campione di pallavolo a scuola.» Boyce scoppiò in una fragorosa risata. 

«Ma p-per f...favore!» articolò fra le risate e le lacrime, reggendosi la pancia. Cole lo guardò male.«Che c'è di così tanto divertente?»

«E' che, Gesù... sembri quasi vero!» 

«Eh?» Boyce rise ancora, battendo il pugno sul materasso.

«Vuoi vedere che se un malato come me ti lanciasse un oggetto con l'intento di colpirti ti colpirebbe?» gli fece un occhiolino. Cole sbottò irritato. Nessuno lo aveva mai deriso in quel modo.

«Okay, ci sto.» disse, pronto più che mai a dimostrare il suo valore. «Cosa ci giochiamo?» gli chiese Boyce, ridacchiando divertito dall'espressione determinata dell'altro.

«Se vinco io, voglio il dessert che ti porteranno per pranzo.» Cole ghignò. 

«Non esiste!» sbottò Boyce. Il dessert era l'unica cosa decente in quella merda di pranzo che gli servivano.

«Una sfida è una sfida.» lo provocò Cole, guardandolo riflettere per un momento.

«Se vinco io, voglio la tua felpa dei Red Sox.» disse Boyce, indicando l'indumento dell'altro con il dito affusolato e pallido.

«No no no no no! Non se ne parla!» gesticolò Cole. «Amo questa felpa!»

«Una sfida è una sfida.» Cole avrebbe tanto voluto strozzarlo, invece gli si avvicinò e porse la mano.

«Ci sto.» Boyce le strinse.

4                                                          

Non ci poteva credere. Boyce aveva afferrato un elastico per capelli dal suo comodino e usando il pollice come perno lo aveva lanciato addosso a Cole, che aveva annaspato quando l'aggeggio lo aveva colpito in piena fronte.

«Non vale assolutamente!» aveva protestato. «Era troppo piccolo quel coso per essere preso!» Boyce fece spallucce. «Non avevi specificato quale oggetto avrei dovuto lanciarti, perciò...» 

«No dai, non posso darti la mia felpa, la amo... e poi, come ci torno a casa?»

«Non è un problema mio.» disse Boyce, trattenendo a stento un sorriso. «Vieni qui bello!» Cole si avvicinò,sconfitto come non mai.

Non sapeva cosa volesse Boyce, e quando le sue dita fredde e sottili afferrarono l'orlo della sua felpa rabbrividì. Erano davvero ghiacciate a contatto con la sua pelle bollente. Con un movimento veloce e deciso Boyce gli sfilò la felpa dei Red Sox e se la strinse al petto, beandosi del suo calore.

«Ehi, è sleale!» urlò, puntando l'indice contro il più grande. Solo allora si accorse di essere a petto nudo, e le sue guance diventarono rosse. L'indice puntato contro Boyce a mo' di spada si afflosciò.

Nello stesso momento anche Boyce si accorse di cosa avesse appena fatto e spalancò gli occhi. Cole aveva davvero un bel fisico. Con i pantaloni stretti, a petto nudo... Il più grande poté vedere i muscoli tesi sulle braccia, i pettorali e gli addominali accennati sulla pancia.

«Hai finito di squadrarmi?» non era un fisico da super palestrato, ma non era per niente male.

«Ehm, io...» Boyce gli lanciò la felpa. «Tienila tu.» era stata la prima cosa che gli era venuta in mente da fare per spezzare quel silenzio imbarazzante che si era creato. E poi, con la felpa in faccia Cole non avrebbe avuto occasione di vedere il rossore colorargli le guance pallide.

«Adesso te la prendi!» sbraitò Cole, rispedendogli la felpa. Boyce la prese al volo e fece spallucce.

«Vorrà dire che tornerai a casa a petto nudo.» disse, e in tutta risposta un tuono fortissimo fece spaventare entrambi. 

5

Cole si sentì a disagio con addosso una felpa di Boyce, ma si accontentò. Profumava di pulito, e non aveva lo sgradevole odore di medicinali e guanti di gomma. Aveva una leggera fragranza di pino e cannella, ed era morbida. "Forse un po' piccola" pensò Cole, ma comoda.

"Chissà se anche la pelle di Boyce ha questo odore" pensò.

Ma che cazzo...? Gli rispose la sua coscienza, mentre Boyce scartava un due di bastoni. Cole si autoschiaffeggiò e prese il sette bello da terra.

«Non vale!» sbuffò Boyce, con una smorfia. 

Era la seconda partita di scopa che giocavano. La prima l'aveva vinta Cole, e sicuramente avrebbe vinto anche l'altra. Boyce era una frana a giocare a carte. 

Erano seduti sul suo letto bianco, in mezzo a loro uno spazio vuoto dove gettavano le carte.

«Non sai proprio perdere...» lo prese in giro Cole, e Boyce in risposta raccolse un dieci, facendo scopa.

«Vedremo.» Cole guardò la sua fronte corrucciata e quell'espressione da bambino, in contrasto con gli occhi ghiacciati. Ridacchiò.

«Poche storie e muoviti, Blaze!» e Cole scoppiò a ridere. «Tocca a te.» disse Boyce, in tono pungente.

Gli piaceva stare in compagnia di quel tappo, era troppo divertente vederlo arrabbiato. Cole scartò un asso senza pensare e Boyce lo raccolse, esultando.

«Scopa!» fece un sorriso così largo che fece diventare i suoi occhi due piccole fessure. Senza quelle pietre scure che risaltavano sul suo viso sembrava quasi angelico.

«La fortuna del principiante...» Cole ridacchiò, vedendo l'altro sbuffare. «Vedremo.» ripeté, e quando Cole scartò un sei Boyce fece la terza scopa.        

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Capitolo 5
*** 4. Rosy Cheeks. ***


1

Cole era fermamente convinto del fatto che i soldi facessero la felicità. Però, ripensandoci bene, in piedi fisso e immobile davanti a Boyce, non sembrava essere del tutto vero.

«Citrullo, non stare lì fermo a fissarmi.» lo rimproverò il soggetto in questione, guardandolo male. Cole si scrollò quella strana sensazione di dosso e si sedette sul letto del maggiore.
«Dimmi un po', Boyce, come mai hai una PlayStation in una stanza d'ospedale? Non credo sia una cosa comune da queste parti.» chiese con tono incerto, evitando di guardare l'altro in volto.
Boyce sembrò rifletterci un istante, e poi rispose.
«I miei hanno i soldi che gli escono pure dal culo.» si giustificò semplicemente. «E pur di tenersi buono il figlioletto malaticcio non ci pensano due volte prima di spendere i quattrini.» Boyce spostò i suoi occhi sulle finestre. Sembravano essersi incupiti ancora di più, colmi di un qualcosa di glaciale e aspro. Le nuvole si erano alleggerite delle loro lacrime, schiarendosi fino a diventare quasi candide. Quel paesaggio che Boyce conosceva fin troppo bene si tinse di una scolorita malinconia, sotto i raggi di quel sole avvolto da stracci di nuvole, stanco e spento.
Cole rimase in silenzio a riflettere, cosa che non gli capitava spesso di fare. Si sorprese a pensare a quegli occhi, a cosa potesse assere quel sentimento racchiuso nelle iridi nere di Boyce.
"Piantala Cole, non puoi darti al sentimentalismo."
«Quindi i tuoi ti hanno regalato una Play per tenerti compagnia?»
«Già, proprio cosi. E in più...» iniziò il maggiore, per poi voltarsi verso Cole con un pizzico di ironia nello sguardo e un sorrisetto amaro sulle
labbra. «E' stata la mia governante a
portarla qui. Esattamente come ogni altra cosa di cui io abbia voglia.»

Quest'affermazione fece tremare Cole. Come potevano due genitori abbandonare il proprio figlio così?
Come un eremita al quale spedire
i viveri e console per farlo sentire
meno solo?
Si sentì profondamente affranto. La sua vita gli era sempre parsa banale, ma, a dirla tutta, in quel momento non sembrava affatto lo fosse. Suo padre se ne era andato quando lui era un bambino, tasto dolente, ma c'era sempre rimasta Chanette al suo fianco. Gli aveva fatto da madre e da padre, e non gli aveva mai fatto mancare nulla.
«lo... credo di dover andare.» disse, quasi balbettando. Si voltò iniziando a camminare verso la porta di legno verniciata di blu, quando una stretta incerta e tremolante gli tirò la felpa.

«Aspetta.» Cole si voltò piano, trovandosi davanti agli occhi Boyce in piedi, che lo reggeva per la felpa.
Vederlo così, le gambe e i piedi nudi, magro come uno stecchino e pallido come un lenzuolo scosse Cole, facendolo tremare fino alle ossa. Sembrava davvero un fantasma che a mala pena riusciva a reggersi in piedi. Poi il minore concentrò la sua attenzione sull'abbigliamento dell'altro
e dovette a stento trattenere una risata. Da sotto la felpa dei Red Sox spuntava la camicia dell'ospedale, di uno scolorito verde menta, che assomigliava tremendamente ad una gonna. 
«Sembri una signorina davvero graziosa, madamoiselle.» gli disse, godendosi appieno l'espressione di sbigottimento e imbarazzo nascere sul volto di Boyce, mista alla tremenda consapevolezza di avere indosso oltre alla felpa soltanto la schifosa camicia dell'ospedale che sembrava essere una gonnellina svolazzante. 
«Fai un baffo alle modelle di Parigi con questo look, un po' sportivo ma comunque chic ed elegante.» disse Cole con una voce nasale, atteggiandosi da super ricco stilista di moda.
«Ti odio.» rispose Boyce, e quasi gli sputò in un occhio, aggrottando le sopracciglia. Le gote gli andavano a fuoco. Si voltò e fece per tornare a letto quando un tremendo capogiro gli fece perdere l'equilibro.
Barcollò un poco alla ricerca di un appiglio, quando la stanza prese tremendamente a girare. 
«Co- le...» il più piccolo fece appena in tempo ad afferrarlo, prima che piombasse a terra come un sacco di patate. Boyce si aggrappò alle spalle di Cole, stringendogli la felpa. Si rese conto allora di quanto l'altro fosse effettivamente un gigante. Si sentì piccino e barcollante, mentre serrava le palpebre nell'attesa che la testa gli smettesse di vorticare came una trottola.
«Odio te e la mia fottutissima debolezza.» si lasciò scappare, in preda all'imbarazzo.
«Non preoccuparti Boo.» gli disse di rimando Cole, sinceramente preoccupato più che divertito. Recuperata la stabilità, Boyce si accorse dell'enorme mano di Cole che gli cingeva la vita. Si sentì ancora più in imbarazzo.
Dopo che Cole l'ebbe aiutato a sedersi sul letto, Boyce tentò in tutti i modi di accendere una discussione, in modo da mettere fine a quello schifoso silenzio che si era venuto a creare.
«Be', grazie per avermi aiutato, e per avermi dato della graziosa signorina.» disse a Cole, tirandogli un pugno su un braccio. L'altro, seduto accanto a lui, ridacchiò.
«Un vero piacere, dolcezza.» Boyce lo guardò alzando un sopracciglio.
«Aspetta un momento, a proposito
di "dolcezza"... come hai osato prima chiamarmi Boo?» 
«È un soprannome partorito dalla mia geniale mente e dovrai farci l'abitudine, perché d'ora in poi ti chiamerò così.» sorrise, scompigliando i capelli del nano.
«Ti odio ancora più di prima!» urlò Boyce, cercando di afferrare e mordere il braccio dell'altro, che imperterrito continuava la sua missione, ridendo a perdifiato.
Tutto quel macello venne interrotto dalla suoneria del cellulare di Cole. Boyce sorrise, rivelando delle profonde fossette scavate nelle guance. Cole quasi si distrasse mentre le guardava.
«Solo tu puoi avere la Marcia imperiale come suoneria...» continuò a sorridere. «Che fai, non rispondi?» Cole gli fece una linguaccia. «Amo questa suoneria, tutto qui.» e premette il tasto verde. L'orecchio si riempì della voce squillante di Chanette. Cole si diede uno schiaffo. Erano le
due e mezzo!
«Sìsìsì oddio scusa mamma...» iniziò. «Ma si, certo che sono vivo... Dai mamm-. Mamma, ti ho detto che fra dieci minuti arrivo. No! No! Non buttarla!» Cole allontanò il telefono dal viso e guardò Boyce sconcertato.
«Mi ha chiuso il telefono in faccia!»
Boyce rise.
«Non è divertente!» gli urlò contro l'altro. «Devo tornare a casa adesso, o la mamma butta via la mia pasta!» e Boyce rise ancora di più.
Cole si lasciò sfuggire un piccolissimo secondo per guardargli quelle graziose fossette e poi si arrabbiò.
«Basta, me ne vado!» si alzò e, quasi correndo, aprì a porta. Qualcosa gli colpì la nuca, facendolo sussultare. Boyce gli aveva di nuovo lanciato addosso uno di quei maledettissimi elastici per capelli.
«Cretino, sei davvero un cretino!» si lamentò, raccogliendo veloce il proiettile per poi rispedirlo al mittente. Boyce lo intercettò al volo e serrò il pugno attorno all'elastico nero. Cole lo guardò male.
«Tornerai?» Gli chiese Boyce. Gli piaceva la compagnia di Cole, e riteneva che con po' di tempo sarebbero potuti anche diventare amici.
«Non lo so, se la smetti di lanciarmi quell'elastico di merda forse forse potrei pensarci.»

«Affare fatto.» allora Cole sorrise scuotendo la testa; ed uscì dalla stanza.
«La prossima volta però ti voglio con una minigonna di pelle.» disse a Boyce, facendogli un occhiolino, prima di chiudersi alle spalle la porta numero 137, lasciando l'altro a bocca aperta.

2

Nel tragitto dall'ospedale alla sua casa numero 251 Cole ripensò attentamente all'emozione che aveva intravisto negli occhi di Boyce. Analizzò ogni singolo dettaglio della vita del più vecchio che aveva appreso durante quel giorno.
Boyce era un ragazzo sveglio, dagli impulsivi modi di fare e con una freddezza nell'affrontare ogni situazione che era quasi disarmante.
Tuttavia, non era certo sicurezza quella che aveva visto Cole. Era qualcosa di negativo, velenoso.
Constatò quanto fosse assurdo e ingiusto che quel fardello gravasse sulle spalle di un ragazzo così magro, debole e indifeso.
Però, in pochissimo tempo, quel mingherlino era riuscito a distruggere sì e no tutte le certezze di Cole, invogliandolo a riflettere su quelle che sin da piccalo aveva considerato assolute verità.

Boyce aveva molti soldi, ma non sembrava di certo un ragazzo felice. Cole era convinto che chiunque possedesse molto denaro automaticamente potesse avere ogni cosa che più desiderava. Concerti, cibo, libri, macchine di lusso, viaggi, anelli d'oro, prostitute; ogni cosa avrebbe potuto essere comprata con il suono delle profumate banconote sfoderate dal portafaglio. In conclusione, se un individuo era appagato e contento, di conseguenza era anche felice.

Cole spalancò gli occhi.
"Ecco cos'era!" si disse. E quella realizzazione incenerì definitivamente la sua teoria sulla felicità. Finalmente capì.
Boyce era infelice.

Il pensiero di Cole volò a Chanette. Quella donna urlava, sbraitava, lo irritava, ma restava comunque una mamma amorevole che lo aveva aiutato in ogni difficoltà che la vita lo aveva obbligato ad affrontare.
Allora sì, Cole poteva considerarsi un ragazzo felice. Sorrideva spesso con i suoi amici, aveva una mamma da abbracciare, buoni vati a scuola, una casa e mille altre cose di cui Boyce doveva fare a meno.
Il ragazzo con le orecchie a sventola arrivò alla sua piccola dimora. Si affacciava sulla strada più vecchia e consumata dal suo quartiere, era piccola, ma restava comunque degna di essere chiamata casa. E a Cole era sempre bastata. La vernice all'esterno era grigia e scrostata, ma dentro le pareti erano dipinte con bellissimi colori caldi che rendevano l'abitazione accogliente e tranquillizzante.
Allora Cole  si chiese se anche Boyce potesse chiamare "casa" la stanza d'ospedale in cui era stato rinchiuso per mesi, forse anni, o forse per un'eternità.
Cole salutò sua mamma scoccandole un insolito bacio sulla guancia, che la meravigliò.
«Tutto bene?» gli chiese, fermando la sua corsa verso la lavatrice. Stringeva fra le mani il cesto pieno di panni bagnati a mo' di montagnetta, che le
arrivava fin quasi sotto il naso.
«Da' qua, faccio io.» rispose soltanto Cole, prendendole il cestello dalle mani.
«Signore Iddio.» commentò Chanette, a bassissima voce.

3
Più Cole aggrovigliava gli spaghetti freddi attorno alla forchetta, più gli si aggrovigliavano le viscere. La testa gli doleva, per non parlare del petto.
Contro ogni previsione divorò con avidità il piatto di spaghetti al pomodoro davanti a lui, anche se gli erano sembrati, come sempre, viscidi lombrichi.

Cole li aveva sempre odiati, ma tuttavia, la fame è fame. 
Si pulì la bocca con un fazzoletto, imbrattandolo di arancione. Aveva mangiato in assoluto silenzio, e per questo, quando il telefono squillò, gli sembrò come se gli stessero gridando con un megafono nelle orecchie. Sobbalzò sulla sedia e prese quell'aggeggio fra le mani.

Kels

Rispose.

«Ehi Kells, che succede?»
«Nulla» rispose la voce del suo migliore amico dall'altro capo del telefono. «L'allenatore ha appena finito di romperci i coglioni, quindi vado a casa, mi faccio una doccia e ti vengo a pigliare» pausa «ci scoppiamo un bel cocktail da Cita.» Cole pensò al Bloody Mary del suo pub preferito e gli venne l'acquolina in bocca.
«Andata, ci sto.» disse.

Sì, aveva proprio bisogno di distrarsi.

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Capitolo 6
*** 5. Surprise! ***


Gli occhi di Cole affondarono nel liquido rosso. Il ragazzo continuò a fissare il suo shottino, pensieroso.

«Ehi amico, qualcosa non va?» gli sorrise Kellin, prima di afferrare il bicchierino davanti a lui e di mandare giù il suo contenuto. Il ragazzo scosse con un "Brrrr" la testa e ridacchiò, posando il piccolo recipiente ormai vuoto accanto a gli altri quattro che si era scolato poco prima.

«Nah, sono semplicemente seccato, la scuola è una merda.» rispose Cole come risvegliatosi da una tranche. Strinse le dita attorno al bicchiere freddo e liscio, guardò per un'ultima volta la vodka rossa che scintillava come un rubino e se la buttò in gola. La sentì scendere in picchiata lasciandosi dietro di sé una piacevole e dolorosa scia di fiamme.

«Un altro? Camerieeeraaaa, un altro giro per me e questo gentil uomo!» urlò Kells agitando le braccia, in preda ad una ridarella incontrollabile. 

Kellin Johnson era sempre stato il miglior amico di Cole. Era un ragazzo bellissimo, alto 182 cm, fisico da modello e vent'anni suonati. Suonati letteralmente, in tutti i sensi. Quel ragazzo era il prodotto della musica pura. Sapeva suonare ogni strumento esistente sul pianeta terra, ballava da Dio ed aveva una voce quasi angelica. Aveva intrapreso gli studi per diventare maestro di musica, anche se Cole pensava sarebbe stato molto meglio se fosse diventato una star internazionale.

Star del pop, del jazz, qualsiasi genere, non faceva differenza. Kellin si distingueva in ogni canzone che decideva di interpretare.

Quando la cameriera arrivò al tavolo dei due amici con la sua gonnellina troppo corta posò due bicchierini sul legno scuro e sorrise ammiccante a Kells, che senza troppi complimenti si girò e diede una pacca sul sedere di "Louise", Cole lesse sulla targhetta.

La ragazza si piegò in una risatina maliziosa che a Cole ricordò troppo Madison.

Gli tornò su la vodka.

«Ehi, tesoro, se ti va potresti lasciarmi il tuo numero... proprio qui!» propose Kellin indicandosi picchiettando il dorso della mano, con un'espressione a metà strada fra il sexy e l'ebete. La ragazza bionda e con troppo seno si chinò mettendolo eccessivamente in mostra e con una penna appena sfilata da non so quale microba tasca su quella gonna piccolissima scrisse il suo numero in cifre rotondeggianti e chiare sulla mano di un Kellin raggiante. 

«Ci vediamo dolcezza, e, se vuoi, porta anche il tuo amico...» disse la cameriera con voce calda e seducente. Guardò Cole e gli fece un occhiolino, prima di voltarsi e iniziare a camminare sculettando su i suoi tacchi alti, in quella sua minigonna gialla. 

C'era del buffo in quella storia... perché sì, Kellin rimorchiava pollastre a destra e a manca ma, nonostante questo, era irrimediabilmente, sorprendentemente gay. Nessuno lo avrebbe mai detto, dato che agli occhi di tutti era sempre risultato come un dongiovanni.

A Cole non era mai importato, in quanto, essendo diventato amico di Kells alle elementari, era cresciuto con lui e l'aveva anche aiutato a superare l'ostacolo della sua sessualità. Gli era stato accanto quando i genitori lo avevano sbattuto fuori casa, lo aveva abbracciato quando era scoppiato a piangere, lo aveva confortato quando il suo primo ragazzo lo aveva lasciato, gli aveva sorretto la testa quando aveva vomitato nel suo bagno. Scoprire che Kellin era gay non aveva per niente turbato Cole. Trovava questa storia assolutamente normale.

Cioè, lui era etero, però non disprezzava chi non lo era; era convinto che l'amore fosse amore, indipendentemente dal sesso dei due amanti.

Pensare a se stesso in prima elementare e a Kellin in terza, il più grande che lo difendeva quando gli altri bambini volevano rubare i suoi giochi, lo fece sorridere.

Kellin sventolò la mano davanti al viso di Cole e sorrise di rimando. Poi indicò il numero con l'indice e fece una smorfia.

«Te ne ho procurata un'altra!» e mandò giù il cicchetto. Posò il bicchierino con un tonfo e guardò Cole. Era serio. Sudato, con i capelli castani scompigliati e la camicia mezza sbottonata, ma era serio.

«Cole, domani parto.» Cole sospirò. Lo sapeva, lo aveva scoperto, e aveva deciso di restare accanto al suo amico e di godersi gli ultimi momenti con lui. Sarebbe partito per una borsa di studio, e sarebbe stato via per un anno intero. Cole si era infuriato quando lo aveva scoperto dalla madre di Kellin e non da lui, ma si era tranquillizzato, ripetendosi che il suo migliore amico prima o poi glielo avrebbe detto. In caso contrario gli avrebbe rotto quel suo naso perfetto con un pugno, ma non era stato evidentemente necessario.

«Lo so.» rispose quindi con voce ferma e pacata, prima di bere il secondo liquido colorato. Stavolta sapeva di pesca e qualcos'altro. Bruciore, sollievo, testa leggera.

«Prima di partire, c'è una cosa che ho sempre desiderato fare...» l'amico rise. 

«Cosa?» gli chiese Cole. Non fece in tempo a ricevere una risposta.

In una frazione di secondo Kellin si sporse con uno scatto sul tavolo e le sue labbra si posarono su quelle di Cole.

Cole spalancò gli occhi, esterrefatto come non mai. Quando Kellin gli accarezzò il volto con la sua mano morbida e sudata Cole sentì il suo stomaco fare una piroette.

Il suo migliore amico lo stava baciando! Un ragazzo lo stava baciando!

Essendo abituato a limonare con le ragazze, lucidalabbra e ormoni a mille a parte, quel bacio fu la cosa più strana che avesse mai provato.

Le labbra di Kellin erano carnose e succose, sapevano di alcol. Era inebriante come le sua mani stringevano il viso di Cole, impigliandosi nei scuoi capelli scuri con fermezza ed esperienza.

Cole rimase imbambolato sotto le labbra di Kellin. Avvertiva le guance andargli a fuoco e non riusciva a fare assolutamente niente. Non era stato nemmeno in grado di allontanare Kellin. Quando l'altro si staccò, Cole restò a fissarlo con le labbra schiuse. Era stato un bacio a stampo, sì, ma aveva scatenato un vulcano!

"E' l'acol." pensò Cole. Più che una constatazione era una giustificazione.

Kellin si alzò e prese la giacca dalla sedia. Improvvisamente tutta la vita notturna in quel pub sembrò spegnersi. Le luci colorate nel buio si fermarono, la musica divenne buffa, pompando dalle casse quasi a rallentatore. Cole fissò il suo amico in piedi, che lo guardava sorridendo.

«Credo di averti fatto un favore, Cole... Mi raccomando, fai il bravo senza di me.» gli scompigliò i capelli con fare fraterno. «Niente sbronze senza di me.» continuò, sorridendo furbo. «E niente cazzate. Chiamami ogni volta che vorrai, per qualsiasi cosa; e ripigliati, mi sembri un po' sbattuto.» ed uscì dal pub, lasciando Cole Blaze da solo, nella sua lenta confusione che gli faceva girare la testa come una trottola.

Si sentiva come uno scolaretto delle medie che aveva appena dato il suo primo bacio. Scosse la testa, visibilmente scosso, e ordinò un altro drink.


Angolo Autrice: Salve ragazzi e ragazze kpoppare di tutto il mondo! Questo è il mio primo angolo autrice, perciò da adesso potrete leggere frammenti della mente malata che c'è dietro questa storiaaa MUAHAHAHAH! E' un vero piacere conoscervi, e spero tanto che questa opera alla quale sto dedicando sangue, sudore e lacrime - ogni riferimento ai BTS è puramente casuale - vi stia piacendo! Lasciatemi una recensione per darmi qualche consiglio o semplicemente per lanciarmi pomodori in faccia... A presto! -Sam ♥

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Capitolo 7
*** 6. That kind of sadness. ***


1

Cole Blaze non era mai stato così triste. 

Continuava a fissare il libro di filosofia davanti a lui. Era sempre stata la sua materia preferita, ma nemmeno quella riusciva a rianimarlo, in quella sera di maggio.

Se ne stava lì, viso poggiato sul palmo, gambe accavallate, occhiali da vista sul naso e un broncio che rischiava di sfiorare il pavimento. La luce dorata e tenue della piccola lampada sul ripiano in legno chiaro non lo riscaldava come al solito. 

Si gelava.

L'interminabile flusso di pensieri di Cole fu interrotto da sua madre, che continuava a sbattere ripetutamente il pugno sulla porta.

«Cole?» il ragazzo guardò verso quella porta di legno che ormai sfiorava con la testa.

«Entra, ma'.»

Chanette aprì piano, affacciandosi timidamente e scrutando il figlio con aria curiosa.

«Ti ho portato un tè.» disse, spingendo la porta e mostrando il suo vassoio preferito di plastica blu, con due tazze fumanti poggiate sopra.

«Ci ho messo dentro un po' di limone, come piace a te.» Cole le sorrise. Apprezzò il tentativo della madre di tirargli un po' su il morale. La mamma sapeva che il figlio andava matto per il tè, conosceva bene il suo pollo.

«Come va con lo studio?»

«Blackout.» rispose lui, sconsolato.

«Perché non esci un po'? Non ti fa bene star chiuso in casa di domenica.» Cole rispose facendo spallucce.

«Non ne ho voglia, vorrei soltanto restare qui a marcire...» 

La madre fece una smorfia di disappunto.

«Non credo che fissare il libro in attesa che si disintegri o inizi a volare sia la cosa giusta da fare, figliolo.» lui non ebbe nemmeno la forza di ridacchiare, come normalmente avrebbe fatto.

La madre lo guardò negli occhi, cupi e spenti. 

«Ti va se andiamo a dare un'occhiata ad uno di quei mercatini dell'usato che ti piacciono? Sono aperti di domenica e siamo ancora in tempo.» lo sguardo di Cole si illuminò.

Amava ficcanasare fra le cianfrusaglie di quei negozi. Molto spesso ci comprava maglioni oversize e magliette delle vecchie squadre di baseball, o altri oggetti vintage. 

Solo la parola vintage lo mandava in estasi.

Sì, era davvero molto strano, ma il look trasandato di Cole aveva sempre avuto molto successo con le donne. 

«Dai, bevi il tè e preparati, andiamo a fare un giro.» Chanette posò la tazza di Cole sulla scrivania e sparì, chiudendosi la porta alle spalle.

Il ragazzo si sentì un po' rincuorato. Questo lato di sé era molto riservato, il lato di Cole a cui piaceva comprare cose appartenute molto probabilmente a gente morta e sorseggiare la bevanda preferita delle nonnette inglesi.

 

2

Lou sbatté l'anta dell'armadietto di Cole proprio sotto il suo naso. L'altro non ci fece tanto caso, impegnato com'era ad annusare il profumo del suo maglione, l'ultimo acquisto di cui andava fiero e che Chanette aveva lavato con l'ammorbidente che usava sempre, alla fragranza di paradiso (dopo aver aggiunto: "Dio mio, figliolo, come fanno a piacerti davvero queste cose?").

«Ehi! Prontooo! Bella addormentata?» Cole guardò il suo amico con un'espressione da ebete in faccia. 

«Ci sei amico?» richiese l'altro, ridendo a quella vista e mostrando la sua accattivante e dolce fossetta. 

Alcune ragazze che stavano passando nel corridoio si girarono a guardarlo, per poi lanciare dei piccoli gridolini isterici e mettersi a parlottare fra loro di chissà quali fantasie amorose. Lou le guardò e sorrise, facendole letteralmente sciogliere.

Era un bel ragazzo, amico di Cole, e faceva parte assieme a quest'ultimo dell'élite gnocchi da strapazzo. 

Il gruppo che frequentava Cole era composto da Lou -Louis-, Mark, Davy e Kam.

«Pensavo, mammoletta, se questo sabato ce ne andiamo al parco divertimenti?» Cole squadrò l'amico.

«Hai cambiato colore di capelli?» chiese, notando che da biondi erano tornati castani. L'amico sbottò, alzando gli occhi al cielo.

«Ti ho fatto una domanda, Blaze, concentrati, su.» 

Cole fece spallucce.

«Per me è okay.» Lou sembrò rilassarsi.

«Perfetto, ci sarà tutta la ciurma.» Cole gli sorrise.

«Andiamo, ci sto.» Lou gli diede una pacca sulla spalla. 

In quel momento la campanella suonò, e Lou salutò Cole, per poi sparire nell'aula di biologia, con gli anfibi pieni di fibbie argentante che tintinnavano.

 

3

Boyce guardò fuori. Cole non era più tornato a fargli visita. Erano passate due settimane. 

Pensò che fosse per i suoi studi. Cole doveva affrontare gli esami di maturità, e forse non aveva tempo per andare in ospedale. 

Quel ragazzo incuriosiva molto Boyce, il quale a volte si ritrovava a pensare a lui: cosa gli piaceva fare? Come era la sua vita? Chi erano i suoi amici, e cosa gli piaceva fare nel tempo libero?

Di Cole sapeva soltanto che era pessimo giocatore a carte. Ma la sua vita era di sicuro mille volte più interessante di quella che viveva Boyce, confinato eternamente in quella scatola quadrata.

Gli sarebbe piaciuto conoscerlo di più, e si era ripromesso che l'avrebbe bombardato di domande non appena avesse varcato la soglia, ma ciò non era accaduto.

Due settimane erano passate come da routine. Nessuna visita, pranzo schifoso, dessert accettabile, nuovi giochi per la console, nuovi libri, niente forza per leggerli. Boyce si sentiva costantemente esausto.

Si domandò se il tempo a sua disposizione stesse scadendo, se quelli erano gli ultimi giorni che gli restavano da vivere. Si addormentava ogni notte con l'incertezza che forse la mattina seguente non avrebbe riaperto gli occhi, e si rammaricava pensando che forse stava davvero sprecando quel tempo prezioso stando in un letto d'ospedale. Quasi gli sembrava di poter vedere la clessidra capovolta della sua vita. Ogni granello di sabbia sarebbe potuto essere l'ultimo.

La realtà era questa: Boyce Hanks era appeso ad un precario filo di seta, si addormentava con il terrore di svegliarsi nell'aldilà, o di non svegliarsi affatto, e continuava a passare le sue giornate, le sue ore, i suoi minuti e i suoi preziosissimi secondi in un letto d'ospedale a sparare degli alieni in un fottutissimo videogioco. 

Il terrore prese il sopravvento e Boyce tremò. Era solo in quella fottutissima merda, e l'unica persona che poteva aiutarlo oltre a Cole non c'era. Il cuore perse un battito quando Boyce iniziò a sentirsi tremendamente scomodo in quel silenzio che lo stava consumando.

Lo sentì fischiare nelle orecchie e schiacciargli i polmoni. Tentò invano di calmarsi, e quando perse l'ultimo briciolo di lucidità le mani presero a tremare violentemente. Gli sembrò di impazzire, e perse definitivamente il controllo.

Una morsa si strinse attorno alla sua gola, e gli sembrò di averci sopra un mattone. I respiri si accorciarono e i polmoni sembrarono farsi più stretti, impedendo a Boyce di prendere il fiato che gli serviva. Delle catene invisibili lo schiacciarono contro il materasso, rendendolo matto.

Solo il suo affanno rompeva il silenzio, e il suo stringere convulso della dita attorno al lenzuolo di quel disgustoso bianco immacolato che ricordava a Boyce il paradiso in cui non sarebbe mai arrivato. 

Forse quella volta si sarebbe lasciato sopraffare dall'angoscia. Il cuore gli disse di restare zitto, di cucirsi la bocca e attendere la sua ora, mentre il suo istinto di sopravvivenza cominciò ad urlare.

«Stella! Stella!!!» riuscì a gridare a pieni polmoni, prima che il suo corpo prendesse a sbattere da una parte all'altra, in preda ad una crisi e alle convulsioni. In un ultimo barlume colse la saliva che sbatacchiava e schizzava sulle sue guance da quella bocca spalancata che non riusciva a richiudere. Colse i suoi occhi rotolare all'indietro e la saliva assumere quel sapore di piscio che lo fece quasi vomitare. 

Si fece pena, un'enorme pena. 

Questo pensò, prima di precipitare in quel buio in cui era abituato da anni a cadere. 

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Capitolo 8
*** 7. Life's a roller coaster. ***


1

Cole Blaze era assonnato, affamato, annoiato e disidratato.

Impegnato a scrivere la sua tesina per gli esami, aveva iniziato a ripetere il programma di biologia del terzo anno, prima che le parole iniziassero a trasformarsi in rune elfiche. 

Più leggeva e più si sentiva un marziano che non aveva mai sentito parlare di biologia in vita sua. 

Quelle conoscenze che in terzo aveva completamente assorbito ed imparato sembravano essere evaporate. Non ricordava categoricamente niente.

Sbatté il libro con violenza e lo lanciò in un angolo della stanza.

Frustrato, cercò qualcosa per distrarsi. Guardare un film? Leggere un fumetto? Fumarsi una sigaretta? 

O meglio, provare a chiedere a Chanette del parco divertimenti? Quello sì che sarebbe stato un impegno che avrebbe potuto distrarlo.

Il ragazzo si alzò, e, sperando che sua mamma fosse di buon umore, scese le scale e andò in cucina. Un piacevole odore di torta alle mele gli invase le narici, facendolo sospirare. Se sua mamma cucinava dolci, allora era felice.

«Mamma?» la chiamò, notandola spuntare da dietro al bancone, con tutto il grembiule rosso sporco di farina.

«Sì?» lo guardò scostandosi goffamente i capelli dal volto, le mani fasciate dai guanti da cucina. 

«Ti vedo molto dimagrita, vai ancora in palestra nel giorno libero?» la donna dai lunghi capelli biondi guardò il figlio con l'espressione di chi la sa lunga.

«Che vuoi, Cole?» il figlio allacciò le mani dietro la schiena e iniziò a dondolare sui piedi.

«Mi chiedevo... Se... Tu...» 

«Cole, dai! Devo mettere lo zucchero a velo sulla mia bellissima apple pie.» Cole aggrottò le sopracciglia.

Apple pie? 

Fece spallucce.

«Mi presteresti i soldi per andare al parco divertimenti con Lou e gli altri domani?» chiese cercando di sembrare piccino e tenero. 

Aveva già dato conferma ai suoi amici che l'indomani ci sarebbe andato al parco divertimenti... cosa molto stupida, dato che non aveva ancora chiesto il permesso a sua mamma. 

«D'accordo, ti farà bene respirare un po' di aria e divertirti.» Cole spalancò gli occhi, sorpreso dalla favolosa riuscita dell'impresa. «Ad una sola condizione.» continuò Chanette.

Eh già, era sembrato fin troppo facile.

«Lunedì vieni con me a trovare nonna Georgia, e stavolta ti ci porto con il guinzaglio.» Cole nemmeno ci rifletté su, ed ignorò anche quale fosse il motivo per cui sua mamma insisteva tanto per fargli vedere sua nonna. 

«Okay.» accettò, senza pensarci due volte.

 

2

Non appena il gruppo di adolescenti varcò la soglia del parco divertimenti ognuno di loro spalancò la bocca. 

Nel momento in cui Cole notò la cima di una montagna russa in lontananza si mise a ridere e quasi saltellò come un bimbo nel giorno di Natale. La giostra saliva a più di 40 metri e scendeva in picchiata, scatenando le urla delle persone su di essa, udibili fin dall'entrata.

E in un secondo gli occhi marroni di Cole Blaze si spalancarono, e vennero travolti da un'ondata di orrore che lo fece rabbrividire. Guardò i suoi amici, tutti con lo zainetto in spalla, che decidevano quale zona del parco esplorare alla ricerca di ragazze. 

Già, perché Lou, Mark, Davy e Kam erano sempre andati al parco divertimenti per rimorchiare, cosa alquanto idiota, oppure per andare su quelle giostre per bambini. Cole quasi scoppiò a piangere. Tanto preso dall'adrenalina aveva completamente dimenticato il fatto che ogni volta che il suo gruppo andava ad un parco di divertimenti, lui e Kellin si separavano appena entrati per andare a farsi rimescolare le budella sulle giostre a 100 km orari, mentre gli altri sparivano alla ricerca di giovani amori.

«Cole, andiamo? Ci stiamo spostando verso l'area dinosauri.» annunciò Mark, tutto contento. Il viso piccolo, da volpe, era acceso da un'espressione determinata e furba, il corpo fasciato da dei pantaloni neri e una maglia grigia, stretta. 

Davy era vestito altrettanto bene, così come Lou e Kam. Cole ripescò dalla mente il ricordo di quella mattina, quando si era svegliato e aveva preso le cose più comode che gli erano capitate dall'armadio, vale a dire una t-shirt oversize verde e scolorita con su stampato Hulk e dei pantaloni neri tutti strappati.

«Okay...» sussurrò deglutendo, a malincuore, stringendo le spalline del suo zainetto nero preferito. L'idea di rimorchiare qualche bella ragazza non gli dispiaceva, ma se si trattava di dover scegliere fra una delle tante tipe e le giostre spericolate aveva sempre scelto le giostre, assieme a Kells. 

Dio, quanto gli mancava.

 

3

Cole Blaze non poteva credere a quello che stava accadendo. Era seduto da un abbondante quarto d'ora su un muretto, i gomiti sulle ginocchia e il viso sui palmi, a guardare la gente che si divertiva. Vedeva i bambini tirare le maniche dei genitori, gruppi di ragazzi che correvano tutti bagnati per via delle attrazioni ad acqua, ragazze che mettevano in mostra i loro costumi da bagno colorati e persino qualche nonnetto... il tutto condito con delle risate che riecheggiavano nella testa del ragazzo e gli affettavano il cervello come fossero coltelli.

Sospirò, in preda alla malinconia più assoluta. Aveva mollato i suoi amici quando questi avevano deciso di andare a vedere lo spettacolo di magia... erano davvero impossibili. 

Quasi non si accorse di una persona che si era parata proprio davanti a lui.

«Ciao!» disse una voce dolce, ma allo stesso tempo squillante e allegra.

Cole osservò le converse rosse e scolorite che aveva davanti agli occhi, per poi risalire lungo due gambe magre al punto giusto, passare su degli shorts di jeans strappati e larghi, su per una porzione di pancia scoperta, i fianchi accennati, una maglia corta stile vecchio college, seno dalla taglia assolutamente proporzionata e collo sottile adornato da una catenella argentata. Si soffermò sul sorriso della ragazza, cordiale e sincero, sul naso piccolo, sugli occhi a mandorla dello stesso colore dei suoi e sui capelli mossi e corvini legati in modo disordinato con un elastico.

Sembrava simpatica e gentile.

«Ciao.» rispose infine, drizzando la schiena. Era davvero una ragazza carina, e sembrava pulita, a differenza di quelle che era abituato a frequentare.

«Ti annoi proprio, eh?» Cole fece spallucce. «Già.» la ragazza lo squadrò un attimo e poi si sedette accanto a lui, lasciando cadere a terra il suo zaino rosso pieno di spillette e toppe di band rock.

«Ti andrebbe di fare qualche giostra assieme? Anche io sono sola, le mie amiche scorrazzano in giro e cercano ragazzi.» alzò gli occhi al cielo. Sarebbe potuta sembrare una richiesta maliziosa, se solo fosse stata pronunciata da una delle tante che Cole conosceva, qualcosa come "Ehi, ti va qualcosa di spericolato? Solo io e te". Invece quella domanda era risultata cristallina e cordiale, priva di fraintendimento.

«Non conosco nemmeno il tuo nome, mamma e papà non vogliono che io vada a farmi sballottolare su delle giostre con degli sconosciuti.» la ragazza rispose scoppiando in una risata, gettando la testa indietro. Cole notò i tre orecchini, cerchietti, che le risalivano l'orecchio piccolo, in fila.

«Sono Tani, piacere.»  disse dopo essersi ricomposta, allungando una mano dalle dita lunghe e affusolate. Cole la strinse, notando con piacere quanto la sua pelle fosse morbida e tiepida.

«Cole, piacere mio.» 

«Bene, adesso che mi conosci, ti va di andare a provare qualche giostra?» fece un'enorme sorriso. Cole non poté fare a meno di ricambiarlo. 

«Mi hai convinto, ma sh, mamma e papà non devono saperlo.» lei strizzò un occhio.

«So mantenere i segreti.» sussurrò, prima di alzarsi e incamminarsi. Si fermò un attimo, per constatare se Cole la stesse seguendo. Il ragazzo guardò i suoi capelli ondeggiare e il suo sorriso radioso, che gli risultava stranamente familiare. Fatto davvero strano, dato che in quelle circostanze Cole avrebbe squadrato più il sedere di una ragazza, invece che il suo viso.

Si affrettò a raccogliere lo zaino e si alzò in tutto il suo metro e ottantacinque di altezza. Raggiunse Tani e la affiancò, notando quanto lei fosse irrimediabilmente bassa. Gli arrivava a mala pena alle spalle! Il ragazzo ridacchiò sotto i baffi.

«Cose c'è di così divertente? Vorrei poter ridere anche io.» gli chiese lei, sempre con quel tono scherzoso.

«Nulla, semplicemente mi ricordi una persona... siete bassi uguali.» e Cole rise, la prima risata della giornata, per via Boyce, per la sua altezza. In un certo senso gli mancava quel ragazzo, anche se lo conosceva davvero poco. 

«Capisco... Allora, ti va di provare lo Speed Master? Ho sentito che raggiunge i 120 km orari in 0.2 secondi!» Cole spalancò gli occhi. «Assolutamente!» rispose in preda all'euforia. 

Finalmente si prospettava una giornata interessante. 

Così i due si incamminarono verso la montagna russa rossa che Cole aveva adocchiato all'entrata. Entrambi non potevano stare nella pelle. Chissà, magari sarebbe potuta nascere un'amicizia... 

 

3

«Cosa dice?» chiese l'uomo. Se ne stava lì, dritto, davanti al suo interlocutore. 

«Avevamo raggiunto miglioramenti, poi c'è stato un crollo, apparentemente senza una motivazione valida.» rispiegò l'altro, col cimice bianco e la targhetta col suo nome. Si aggiustò sulla sua sedia girevole in pelle, cercando di mantenere contegno e professionalità sotto lo sguardo vigile dell'uomo alto che aveva d'innanzi. Per un istante il volto di quest'ultimo si contrasse in un'espressione indecifrabile, per poi tornare come prima: impassibile.

Con uno scatto improvviso si avvicinò al medico, chinandosi sulla scrivania, la giacca nera e la camicia bianca tese sui muscoli pronunciati. I lineamenti asiatici si indurirono, mettendo il dottore in soggezione. Il ripiano di legno su cui poggiava le braccia cautamente, unico ostacolo che lo separava dall'uomo elegante, sembrò essere fatto di cartapesta. 

«La avverto.» iniziò, la voce profonda e rauca. Un raggio di luce che filtrava nello studio cozzò contro l'orologio costoso dell'uomo in cravatta, facendo schizzare un filo argenteo sui muri bianchi. 

«Lei ha un solo compito.» continuò. Il medico a quel punto dovette impedire ai suoi arti di tremare. 

«Tenga quel ragazzo in vita, o saranno guai seri.» annunciò, e il medico temette per la sua vita. Le sopracciglia folte dell'altro si incresparono, conferendo al viso un'ulteriore dettaglio di ira e forza. Si allontanò e si risedette garbato, di nuovo apparentemente apatico. 

«Sono stato abbastanza chiaro?» chiese infine, incrociando le mani sul tavolo. Il dottore annuì immediatamente, docile come un agnellino.

«Chiarissimo.»       

 

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Capitolo 9
*** 8. Breakages that weld an heartbreak. ***


IMPORTANTISSIMO!
Mi dispiace people, ma avevo dimenticato di pubblicare il capitolo 6... Dovete perdonarmi... Andate a leggerlo e poi tornate qui, ci sarà uno spargimento di lacrime, lo sento! 



 

1

Cole si sentiva strano. Parecchio strano. 

La giornata al parco era andata come da lui desiderato: si era divertito con Tani, aveva urlato sulle giostre fino a perdere la voce, aveva mangiato lo zucchero filato - che lui adorava - ed era riuscito finalmente a provare la casa dei fantasmi. I suoi amici non avevano mai acconsentito ad accompagnarlo, neanche Kellin (fifoni). Tani invece, dopo qualche supplica, aveva accettato. Si erano divertiti da matti perché lui l'aveva punzecchiata nel buio e lei aveva gridato in faccia ad ogni zombie che era spuntato dal nulla. Forse era stato più divertente per Cole a pensarci, dato che Tani non appena uscita dall'attrazione era pallida e spaventata. Alla fine però era scoppiata in una risata e aveva mandato Cole a quel paese, dicendogli che le doveva un frullato alla fragola.

Si erano dati appuntamento per il secondo mercoledì del mese, ovvero tre giorni dopo il loro incontro, per andare al cinema (Cole le avrebbe offerto il frullato promesso). 

Il gigante dalle orecchie a sventola era tornato a casa felice, con il numero di telefono di una ragazza che finalmente lo incuriosiva e la sera stessa aveva persino studiato di buon umore, senza lamentarsi neanche una volta.

Poi era arrivato il lunedì, e Chanette aveva dovuto minacciarlo agitando un mestolo di legno a mezz'aria. 

Adesso si ritrovava in macchina, seduto accanto ad una donna isterica, probabilmente nel suo periodo del mese, che continuava a borbottare. Si sentiva come un pesce fuor d'acqua. 

Non voleva andare a trovare sua nonna, affatto. Quella donna aveva contribuito attivamente al tradimento di suo padre nei confronti della sua famiglia e Cole non avrebbe voluto nemmeno vederla da lontano. 

Cole era stato adottato quando, rimasto orfano, era finito in un istituto. Una donna dai capelli biondi e lucenti lo aveva salvato, lo aveva accolto fra le sue braccia e se l'era portato a casa. Il bambino l'aveva sempre vista come un angelo, circondata da una potente aura di luce che gli infondeva calore e protezione. Questa figura angelica, nei ricordi intatti di Cole, era perennemente affiancata da un uomo alto, scuro di pelle, con gli occhi a mandorla simili ai suoi e un portamento regale, che lo faceva sembrare un eroe, uno di quelli che nei fumetti, di giorno, sono normali essere umani, con un lavoro e una vita normale, e che di notte si trasformano in leggende e combattono il crimine. 

Poi quell'uomo era sparito, forse era volato via come superman, con il suo mantello rosso, a salvare il mondo. Al piccolo Cole piaceva pensarlo così, come un eroe. Poi, crescendo, aveva scoperto man mano che gli eroi non esistono, così come non esisteva quell'immagine di onore e sani principi che si era fatto di suo padre. Quell'uomo era stato un farabutto, era scappato con la sua segretaria, lasciando il suo bambino e sua moglie da soli. Era stato un fottuto codardo.

«Dove trovi la forza di andare a trovare quasi ogni giorno quell'ammasso di rughe?» chiese Cole a sua madre, sprezzante, con lo sguardo fisso fuori dal finestrino. 

«Cole, sai come la penso a proposito.»

«Sì» rispose lui, voltandosi «"nonna ha sbagliato, è vero... Ma, quella donna mi ha sempre accettata in famiglia, e non puoi biasimarla se ha scelto di aiutare il suo unico figlio a scappare con la coda fra le gambe con una donna più giovane di lui di venti anni."» aggiunse, imitando la voce di Chanette.

«Cole, nella vita bisogna imparare a perdonare quando si può. Certo, tuo padre non l'ho mai perdonato per ciò che ha fatto, perché non potrei mai farlo, ma tua nonna... E' vecchia ormai, Cole, non le resta molto da vivere. Ha sbagliato, è vero... Tu però cosa avresti fatto al suo posto? Non ha aiutato tuo padre a fuggire se non dandogli dei soldi, i soldi che suo figlio l'ha implorata di dargli con le lacrime agli occhi. Lei ci teneva alla sua felicità, e sai anche che non sapeva a cosa sarebbe servito quel denaro. Cole, era sua madre... cerca di comprendere. Io l'ho fatto, e ho perdonato.» Chanette strinse le mani attorno al volante. 

Cole osservò le sue iridi azzurre scintillare nella luce del primo pomeriggio, come zaffiri. Secondo Dante il colore azzurro e limpido di quelle pietre simboleggiava la liberazione.

 

2

Cole restò immobile. Era in quell'ospedale, nello stesso in cui non metteva piede da tempo. Lo stesso in cui era intrappolato il ragazzo che aveva abbandonato per giorni. Ma in quel momento non ebbe importanza. 

Era in piedi davanti ad un numero diverso stampato sulla porta blu, dietro al quale avrebbe trovato la donna che, assieme a suo padre, aveva cancellato completamente dai suoi pensieri.

«Cole, aspetto fuori, oppure vuoi che io entri?» il ragazzo guardò sua madre, la quale gli rivolgeva uno sguardo deciso e preoccupato al tempo stesso.

«Entro da solo.» Cole afferrò la maniglia, e con uno slancio entrò. Diede il tempo ai suoi occhi di abituarsi alla luce bianca, quasi paradisiaca - o infernale - e studiò attentamente la stanza in cui si trovava. La disposizione degli arredi era diversa da quella della camera di Boyce, lo spazio era più ridotto, ma principalmente risultò familiare. 

Poi gli occhi di Cole, che fin a quel momento avevano indugiato, si fermarono sulla donna che sprofondava nel letto bianco, e che continuava a fissarlo sbigottita. 

«Cole?» lo chiamò, credendo di avere le allucinazioni. «Oh, Gesù... quelle medicine mi stanno dando alla testa...» affermò la donna, sul punto di piangere. Si portò una mano sugli occhi, sfregandoseli come per cancellare quell'illusione che aveva appena visto. Cole notò la pelle più raggrinzita di quanto la ricordasse, piena di macchie dovuto alle vecchiaia. Spuntava fra le rughe, da sotto un cerotto, un piccolo tubicino di plastica scintillante, che Cole seguì con lo sguardo fino ad arrivare al sacchetto di una flebo. Il liquido trasparente scendeva a piccole gocce, ad un ritmo ipnotico.

«Sono io.» disse semplicemente, deciso ad ignorare a tutti i costi il sapore del vomito in bocca che minacciava di venir fuori. 

«Sei mio nipote?... Sono morta per caso?» a Cole fece pena il viso dell'anziana. Era più magro, meno luminoso, con più rughe. Aveva le cataratte agli occhi, quegli occhi marroni come quelli di suo padre, che un tempo furono dolci e splendenti, ora velati da uno strato sottile che li rendeva opachi. 

Il viso era lo stesso dell'uomo che lo aveva abbandonato, lo ricordava a Cole tremendamente. 

«Georgia, sono qui solo perché l'ho promesso a Chanette.» disse piano Cole, respirando a fondo.

«Cole, mio piccolo angelo, sei tornato da me... Mi dispiace Cole, mi dispiace!» la nonna paterna del ragazzo cercò di alzarsi, facendo tremare tutti gli apparecchi collegati a lei, tutti quei tubi conficcati nelle sue vene.

Cole si affrettò ad avvicinarsi, mise le mani sulle spalle della donna e la tenne ferma. La pelle era fredda sotto il suo tocco, la maglietta del pigiama che indossava consumata. 

«Stenditi, non voglio avere nessun morto sulla coscienza.» la donna sembrò colpita da quelle parole, il viso contratto nell'espressione di chi ha appena preso una coltellata in pieno petto.

Obbedì e si mise stesa, tirandosi su le coperte fin quasi a scomparire. 

«Mi dispiace Cole, devi credermi...» sussurrò con la voce dolce e pentita. «Non sapevo a cosa servivano quei soldi, non lo sapevo...» e fu allora che iniziò a piangere.

Un misto di emozioni travolse Cole, che si ritrovò nell'occhio di un immenso ciclone. Cosa diamine stava succedendo? Quella donna aveva aiutato suo padre, ma non intenzionalmente. Aveva aiutato il suo unico figlio perché era quello che ogni mamma avrebbe fatto.

«Avresti potuto chiedere perché quel verme di tuo figlio ti chiedeva tutti quei soldi, sei stata un'incosciente!» la donna in risposta singhiozzò. 

«Lo so, piccolo mio, lo so... E' solo che Marcus era così disperato... Non ho saputo ragionare lucidamente, dopotutto era mio figlio...» Cole si irrigidì.

«Non pronunciare quel nome, non voglio mai più sentirlo!» quasi urlò, scosso dal dolore delle unghie che si conficcavano nei palmi.

«Ti chiedo solo di perdonarmi, Cole... Mi sei mancato così tanto in questi anni... Così tanto... Eri, sei il mio piccolo angelo...» le lacrime scendevano lungo le guance incavate della donna, che iniziò a tirare su col naso.

Qualcosa dentro Cole si ruppe, come se una diga stesse cedendo alla pressione dell'acqua. La diga nel cuore di Cole esplose infradiciandolo da capo a piedi.

Sentì il nodo che si era stretto nella gola allentarsi. Cosa stava facendo? Stava gridando addosso ad un'anziana, che lo aveva riempito di amore quando era solo un bambino orfano e spaventato. 

Avevano sbagliato entrambi, e in quel momento, Cole l'aveva capito. Aveva sbagliato a chiudere sua nonna fuori dalla sua vita, solo perché guardarla gli ricordava il padre. Aveva sbagliato, ed era stato codardo tanto quanto quell'uomo che disprezzava.

Il ragazzo mando giù il magone che aveva nel petto e scoppiò a piangere. Era stato debole, aveva permesso al suo rancore di prendere il sopravvento, oscurando l'affetto che provava per Georgia. Cole si piegò sul letto e abbracciò sua nonna.

Si era creato tutte quelle ragioni per cui odiarla, perché per lui amarla era troppo difficile.

«Perdonami nonna... Perdonami...» sussurrò, respirando l'odore di fiori che sovrastava quello statico delle medicine. I capelli bianchi e boccolosi gli solleticavano le orecchie.

La donna, che fino a quel momento era rimasta immobile, strinse il nipote fra le braccia, non curandosi dei fili che la trattenevano, come se lei fosse una marionetta comandata da un burattinaio.

E Cole chiese scusa, per tutto il tempo che aveva perso con lei, per non essere riuscito a perdonarla, per aver creato il mostro dal quale scappava.

«Tu devi perdonare me, Cole...» rispose la donna, accarezzando la schiena del ragazzo.

«Non ti ho più cercato, ho aspettato come una bambina immatura che fossi tu a tornare da me, mi sono persa la tua adolescenza e adesso spunti qui, uomo, e sei tu a chiedermi scusa... Non lo merito.» Cole pianse ancora di più, abbandonandosi fra le braccia della nonna.

«Siamo stati due codardi Cole... Che ne dici di perdonarci, e di ricominciare daccapo?» Cole sciolse l'abbraccio. Guardò la donna con gli occhi tutti arrossati e sorrise.

«Solo se mi cucini una di quelle torte meravigliose che mi facevi da bambino.» la voce gli tremava.

«Non appena uscirò da questa gabbia di matti te ne cucinerò quante ne vuoi, te lo prometto.» restarono un po' a sorridersi, sollevati da quel peso che gli aveva schiacciati per anni.

Poi Cole aveva preso una sedia e l'aveva sistemata accanto al letto di Georgia, e le aveva raccontato tutto ciò che lei si era persa nel tempo. Dei suoi amici, della scuola, perfino di Tani. Perfino di Boyce.

Chanette, che aveva osservato la scena per tutto il tempo, nascosta, chiuse la porta e ci si appoggiò, sorridente.

Il suo Cole era davvero diventato un uomo.

«Torna presto a trovarmi, Cole...» il ragazzo rise.

«Certo, nonna, sarò qui ogni volta che potrò. E' tanto il tempo che abbiamo perso... Ma solo alla morte non c'è rimedio, no?» la donna annuì energicamente. 

Cole tornò a casa con un peso in meno sul cuore. Non era andato da Boyce, ma questo problema passò in secondo piano. Aveva ritrovato sua nonna, aveva fatto pace con lei e con il suo passato, aveva perdonato ed era stato perdonato.

Amare chi ha sbagliato è difficile, ma non del tutto impossibile. 

 

3

 Cole sorrise alla ragazza al suo fianco e bevve un sorso del suo frullato al mango. Era il secondo mercoledì del mese, questo significava: cinema! 

Per via di una promozione, ogni secondo mercoledì del mese il prezzo dei biglietti era più che dimezzato: con i soldi che si spendevano normalmente per un biglietto, se ne potevano comprare quattro. 

Dopo il film - un bellissimo film sui supereroi - Cole Blaze e Tani si erano rifugiati in un piccolo bar nel centro della città. 

Cole adorava andare in quel posto, e ogni volta amava provare un gusto diverso di frullato. Tani ne aveva preso uno alla fragola, che prontamente Cole aveva pagato, come era nei piani. 

Tutta la città era andata al cinema, per via dell'imperdibile occasione, e i due avevano deciso, dopo essere usciti a mala pena illesi dal cinema, che quel pomeriggio sarebbe stato perfetto per saldare il debito di Cole.

Avevano chiacchierato del più e del meno, poi avevano iniziato a parlare di loro, delle loro vite. 

Tani era figlia di una normale famiglia, con un padre che andava a lavoro, una mamma che si occupava della casa e un fratello più piccolo. Aveva un anno in più di Cole e aveva finito da un anno la scuola. Si era presa una pausa, per fare qualche viaggio e divertirsi, poi avrebbe iniziato a frequentare un'università.

Cole gli parlò della sua famiglia, ovvero di Chanette. Fu tentato di raccontarle di quello che era successo con nonna Georgia, ma non era lei la persona a cui voleva parlarne.

Passarono una serata all'insegna delle risate e dello svago, poi Cole riaccompagnò Tani a casa con la sua macchina.

«Mi raccomando, fesso, scrivimi.» gli disse lei, chiudendo lo sportello della vettura. Quel giorno indossava una maglietta rossa, dei semplici jeans e degli stivaletti neri. Aveva i capelli legati in due trecce che partivano dal capo e che Cole trovava inevitabilmente adorabili. 

Il ragazzo spense il motore, tirò via le chiavi e scese dall'auto. 

«Mi accompagni addirittura alla porta? Ma come siamo galanti!» Tani gli sorrise. Era bella, con quel rossetto rosso e la pelle pulita. Solo quel filo di trucco scarlatto sulle labbra, nient'altro.

«Non vorrei mai che qualcuno stuprasse una donna davanti ai miei occhi.»

«Quindi stai dicendo che se succedesse non faresti nulla per difendermi?» chiese lei, a metà fra la risata e l'occhiataccia.

«Rischiando di sciupare questo fisicaccio?» Cole si indicò con un gesto raffinato delle mani.

«Vaffanculo, Blaze.» rise Tani, e Cole la abbracciò. «Scherzavo, lo sai.» lei ricambiò la stretta.

Quando si separarono Tani lo guardò con quel sorrisetto di che ne ha appena combinata una.

«Potrei averti sporcato la maglietta di rossetto.» Cole si guardò la maglia bianca che indossava, pronto ad infuriarsi. Prima che potesse farlo le labbra scarlatte di Tani raggiunsero la sua guancia, per poi baciarla. La ragazza si allontanò e rise divertita. «Il rosso ti dona!» poi con uno scatto arrivò alla porta e sparì nella sua casa, piccola ma carina come quella di Cole.

Il ragazzo restò un attimo imbambolato, poi alzò gli occhi al cielo sorridendo, e guidò fino a casa.           

 

Nota Autrice: Vorrei ringraziare in questa nota tutte le persone che continuano ad apprezzare e seguire questa storia, in particolare una ragazza che mi sostiene e mi ha aiutato a decidere cosa farne di questo capitolo AHAHAHAH Grazie mille Alessia ♥
Volevo avvisarvi anche del fatto che potete trovare questa storia anche su Wattpad, se vi risulta più facile leggere i capitoli da lì, il titolo è il medesimo. Lasciatemi un commento, un consiglio, una critica qui sotto in una recensione... Grazie in anticipo. Alla prossima! Love you all ~
-Sam ♥

 


 

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Capitolo 10
*** 9. The authoritarian man and the black Lady. ***


1

La ragazza, in piedi davanti a Cole, tremava. 

Era carina: aveva dei lunghi capelli corvini, la pelle chiara, liscia. Gli occhi a mandorla era serrati, e la bocca carnosa stretta in una linea sottile. Si nascondeva lasciando che i capelli le cadessero davanti al viso. 

«Ti prego, prendila!» esclamò. Le sue guance si tinsero di rosso, sembrava così imbarazzata... 

Continuava a tenera stretta una lettera fra le mani tremolanti, all'altezza del viso, con le braccia dritte e protese verso Cole.

«P-prendila... Questi sono... I sentimenti che provo per te!» aggiunse.

Non era la prima volta che Cole assisteva ad una scena del genere. Non appena il ragazzo ebbe afferrato la lettera dalla busta bianca, la piccoletta fece un piccolo inchino e si dileguò. Il suo zaino rosa era pieno di ciondoli scintillanti, che tintinnavano: Cole poté sentire la sua ammiratrice continuare a correre lungo il corridoio dopo aver svoltato l'angolo, con le campanelle che suonavano.

Il gigante restò un attimo a fissare la lettera, poi aprì il suo armadietto e la poggiò fra i libri.

«Un'altra?» chiese una voce alle sue spalle. «Già...» rispose Cole, chiudendo l'anta metallica. Si voltò verso Louis, che continuava ad osservarlo con il solito sorrisetto stampato sulla sua faccia furba. Si era tinto i capelli, adesso erano castani e spuntavano scomposti da un capello nero. 

«Non la leggi?» Cole fece spallucce. «Non mi interessa.» Louis aggrottò le sopracciglia, visibilmente perplesso.

«C, è crudele!» il ragazzo con le orecchie a sventola lo guardò male. «Preferisco non illuderla e non darle false speranze, è la cosa più matura che possa fare.» Lou fece un cenno del capo. «Cole Blaze che parla di maturità? Cosa ti sei fumato? E perché non hai condiviso?» Cole rise.

«Piantala Lou.» 

«Avresti potuto rifiutarla... C'avrei pensato io a consolarla!» fece un occhiolino, e Cole gli rispose assestandogli uno scappellotto sulla nuca. «Non sono così subdolo!» Lou ridacchiò, massaggiandosi il punto in cui era stato colpito. «Mai che si faccia un favore ad un amico...» 

Cole e Louis continuarono a parlare del più e del meno, camminando per i corridoi lentamente. Tutte le attenzioni smielate che Cole riceveva da parte delle studentesse iniziavano ad infastidirlo. Louis invece sembrava trovarsi a suo agio sotto gli sguardi ammiccanti delle ragazze, e addirittura sorrideva - sfoggiando la sua bellissima fossetta che considerava come suo cavallo di battaglia - quando ne beccava qualcuna intenta a fotografarlo di nascosto con il cellulare.

«Lou... Posso chiederti un consiglio?» il più basso annuì, infilando nella tasca dei jeans scuri il suo smartphone.

«Secondo te, se... Una persona, ecco... Volesse aprirsi con ad un'altra, e raccontargli qualcosa di profondo e di intimo che la riguarda, ma non vedesse quel qualcuno da giorni, perché aveva evitato di incontrarlo, cosa dovrebbe fare?» chiese tutto d'un fiato, continuando a guardarsi le punte consumate delle sue Converse.

«A mio parere, quella "persona" saresti tu, e vorresti parlare con qualcuno, no? Ma ti sei comportato da solito fifone e sei scappato, ho ragione?»

Scappato.

Cole non ci aveva pensato fino a quel momento. 

Perché scappare da Boyce? Non aveva di certo un aspetto terribile o spaventoso, anzi... E allora, come mai Cole non era più andato a trovarlo? 

Avrebbe dovuto chiamare Kellin, e parlargli.

Sì, avrebbe proprio dovuto chiamarlo.

 

2

Cole salì i gradini - gradoni - che lo separavano da quell'edificio. Passò veloce sotto il portico, con i neon che gli ronzavano sulla testa - almeno non era incappato in nessuna malata inquietante -.

Kellin non aveva risposto al telefono, magari era impegnato a studiare o con quelle faccende che riguardano il lavoro. Ma il tempo di Cole Blaze stringeva. Con Chanette fuori casa e tutti gli amici impegnati a studiare - aveva escluso Tani a priori, non si fidava ancora abbastanza di lei - l'unica persona a cui avrebbe potuto chiedere consiglio era nonna Georgia.

 

3

Cole aveva appena serrato la presa attorno alla maniglia della porta numero 303, quando sentì qualcuno urlare nel corridoio. 

«Marcus! Nostro figlio sta morendo, dannazione!» strillò una voce femminile. Rumore di tacchi e passi veloci. Un brivido corse giù per la schiena di Cole.

«Viviane, ne abbiamo già parlato.» rispose l'interlocutore, freddo e deciso. «No, tu hai parlato! E io ti ho solo ascoltato in silenzio!» ribatté lei, in un'esplosione di rabbia.

Un uomo sbucò da dietro l'angolo. Indossava un completo gessato ed elegante. La pelle olivastra tesa sul viso, gli occhi allungati, felini e neri come la pece, i capelli tagliati con cura, corti, ordinati. 

Le spalle di Cole si rilassarono. Quell'uomo risultò essere un estraneo.

La donna che lo seguì poco dopo invece era molto più bassa di lui, arrancava per tenere il suo passo in bilico su dei tacchi neri di vernice che le regalavano dieci centimetri di altezza in più e un bel paio di calli dolorosi sulle dita. Il suo abbigliamento era classico, semplice. Consisteva in un completo da lavoro, gonna nera a tubino e camicia abbinata. I capelli raccolti in una morbida crocchia la rendevano ancora più bella, i lineamenti addolciti da alcune ciocche corvine che le ricadevano ai lati del volto. A Cole parve di averla già vista prima.

Avrà avuto una quarantina d'anni, se proprio si voleva essere abbondanti. Il viso era pulito, acqua e sapone, se non per il filo leggero di rossetto rosso sulle labbra. Gli occhi, per quanto fossero a mandorla, erano comunque grandi, il suo sguardo profondo e liquido. 

«Marcus, non puoi chiedermi di fare questo.» disse, la voce rotta. Calde lacrime presero a scenderle sul volto, ma la donna continuava a mantenere lo sguardo fisso sulla schiena dell'uomo, come volesse perforarlo.

Lui arrestò la sua camminata decisa, e si voltò a guardarla. Cole si nascose dietro un angolo, continuando ad osservare la scena. Era molto dispiaciuto per donna, furiosa e ferita, e intimorito dall'autorità che avvolgeva quell'uomo.

«Non te lo sto chiedendo, Viviane. Te lo sto ordinando. Ci saranno delle conseguenze, per tutti noi.» le lanciò un'ultima occhiata glaciale e ripartì, camminando spedito sulle sue scarpe lucide e allungate. 

La donna restò immobile, le lacrime scendevano copiose. Il suo sguardo si era spento, fisso nel vuoto. 

Il cuore di Cole venne strizzato da una mano invisibile, che gli fece davvero un gran male e gli mozzò il fiato. Spinto dalla pietà che provava nei confronti della signora, le si avvicinò.

«Mi scusi, signora... Si sente bene? Ha bisogno di aiuto?» lei sembrò scuotersi, guardò Cole e tirò su col naso. 

«Avrebbe per caso un fazzoletto?»

«Oh, sì, certo...» Cole frugò nel suo zaino e ne tirò fuori un pacchetto di plastica blu, che porse alla donna. Lei lo afferrò e prese un fazzoletto, si asciugò gli occhi, e soffiò il naso. Guardò Cole con occhi fermi, stabili e restituì il pacchetto. Sembrava aver ritrovato il contegno. Aveva raddrizzato la schiena e in un lampo aveva smesso di piangere.

«La ringrazio.» 

«Mi dia del tu.» rispose Cole, sorridendole. Non sembrava essere una persona cattiva. «Ho da poco compiuto diciotto anni, non sono ancora così vecchio...» la donna ricambiò il sorriso. Il suo volto sembrò brillare di luce propria, tanto era bello. Il naso piccolo, sottile, e le guance rosee, senza neanche l'accenno di una ruga. Per non parlare dei denti... Cole non ne aveva mai visti di più dritti, o di più brillanti.

«Non ti ho mai notato da queste parti, sei in visita?» la signora sembrò concentrarsi sulla loro conversazione, in modo da riuscire a distrarsi da tutto il resto.

«Sì, mi chiamo Cole Blaze, sto andando a trovare mia nonna.» il voltò della donna si addolcì.

«Che bel nome che hai, Cole, io mi chiamo Viviane Cho, ma tutti mi chiamano e mi conoscono come la Signora Hanks.» 

Cole spalancò gli occhi e restò pietrificato, suscitando un'espressione perplessa da parte di Viviane.

«Qualcosa non va?» il ragazzo ci mise un po' a riprendersi, e ignorò la domanda.

«Lei per caso è la madre di Boyce Hanks?» il cuore prese a battergli a mille, rimbombandogli nel petto come se si stesse scatenando una tempesta di tuoni ed enormi boati. Sudò freddo.

La donna corrugò la fronte, e sembrò pensare per un momento a cosa rispondere.

«Sì, sono io. Conosci mio figlio?» 

«Sono un suo amico.» rispose Cole.

In quel momento una miriade di pensieri vorticarono nella mente di Cole, con la forza di una mandria di bufali impazziti. Domande, orribili sensazioni e brutti presentimenti.

Fra tutti, però, si accese una luminosa lampadina. La luce della genialità di quell'idea scoppiò nella testa di Cole, che iniziò a credere nella legge del Carpe Diem.

 

«Signora Hanks.» iniziò, catturando l'attenzione di Viviane. «Ho una proposta da farle.»

 

 

 

Angolo Autrice: COSA? Due capitoli nel giro di due giorni? Sam, sarai mica impazzita? 
No, cari lettori, sono solo riuscita a ritagliare un angolo del mio tempo per trascrivere questo capitolo che avevo scritto su un figlio mentre la professoressa di italiano torturav... Ehm, interrogava i miei compagni. Siete felici? Sì, lo so, vi amo anche io.
Lasciatemi un commento se vi va, piccoli bignè alla crema. Aspetto i vostri consigli e, lo sapete, sono sempre disponibile per fare una chiacchierata, amo fare amicizia con i miei lettori! Volevo avvisarvi che potete trovare questa storia anche su EFP, con il medesimo titolo, se vi è più comodo leggerla da lì. E niente, questo schifoso Angolo Autrice si è concluso... Vi voglio bene, e grazie di tutto, al prossimo capitolo! -Sam ♥

 

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Capitolo 11
*** 10. Blood in the darkness. ***


1

Cole era davvero molto emozionato, e ansioso.

Concludere "l'affare" con la Signora Hanks lo aveva reso euforico. 

Dopo l'incontro era corso da nonna Georgia e le aveva raccontato tutto, di cosa aveva parlato con Viviane e di come lei fosse felice - e forse anche un po' scettica - dopo aver promosso il piano del ragazzo. 

Mancava poco alla fine della scuola, un mese, e poi ci sarebbero stati gli esami. Ma questo non importava granché. 

Cole aveva meditato, pensato, riflettuto molto quando quella sera era tornato a casa. Chanette era ancora a lavoro, perciò il figlio aveva dovuto rimandare la chiacchierata con lei. 

Mentre l'acqua bollente gli infiammava piacevolmente la pelle, il ragazzo si godette quella sensazione sul corpo e si rilassò. Poggiò la mano sulle mattonelle fredde del suo bagno verde oliva, il contatto lo scosse e riportò a galla dal torpore della sua mente un agghiacciante e pericoloso pensiero:

"Nostro figlio sta morendo, dannazione!" 

Quella frase, quella che una mamma con il cuore spazzato aveva pronunciato in preda alla furia. Quelle parole che diedero forma alle paure di Cole, al suo timore più grande che - come il polo opposto di una calamita - lo aveva allontanato da Boyce. E detto così, a voce alta, era risultato ancora più terrificante. 

Cole aveva paura di affezionarsi a Boyce, conseguenza della tremenda possibilità che quest'ultimo potesse morire. Se davvero Cole avesse aperto il cuore a Boyce, avesse imparato ad apprezzarlo e ad essere suo amico, e poi Boyce se ne fosse andato? Se fosse morto da un momento all'altro?

La vita è così, fifty fifty.

O bianco, o nero.

Vita, morte.

Boyce e Cole erano entrambi in bilico, fra un burrone senza fine e la felicità.

 

2

«Cole, muoviti! Sto sudando come un dannato qui dentro!» 

Cole ridacchiò. Se ne stavo poggiato allo stipite della porta, tutto tranquillo, con le mani nelle tasche. 

«Disgraziato!» urlò ancora Kam, dalla sala caldaie. «Scendi e aiutami, bastardo! Ti buco tutte le gomme della macchina!» a stento dovette trattenere una risata.

«Modera i toni, Kam, non vorrai che la Birxa ti senta ancora!» rispose con le mani a imbuto davanti alla bocca. La sua voce rimbombò per le scale che scendevano grige e polverose nel buio, fin quando le sue parole si tramutarono in un'eco rimbombante. 

«Ti faccio sentire io qualcosa, cretino! Il rumore della mia suola che impatta sul tuo culo!» Cole alzò gli occhi al cielo e prese a scendere i gradini. Gli anfibi sbattevano sulla pietra, alzando un turbinio tremendo di polvere. Il ragazzo continuò a scendere e ad immergersi nella penombra, un po' alla cieca, circondato da piccoli cicloni polverosi.

«Sono qui, dai Cole! Mi piomba tutto in testa!» 

«Sembri una ragazzina isterica quando gridi così.» Kam lo fulminò con lo sguardo. «Ragazzina isterica sarai tu quando avrò finalmente le mani libere e potrò picchiarti.» 

«Da' qua.» disse Cole, ignorandolo. Prese due degli scatoloni impilati che Kam reggeva. La torre di cartone traballava pericolosamente, oscillando a destra e poi a sinistra. 

Kam tirò un sospiro di sollievo. 

«Ma dico io, il ripostiglio dovevano proprio farlo nel locale delle caldaie, dannazione.» aggiunse, furioso. Si girò di spalle a Cole e proseguì la sua precaria marcia verso lo sgabuzzino dei bidelli. «Metti che un ragazzo vomita, finché il bidello arriva fino a quaggiù per prendere un cavolo di straccio il vomito ha fatto la muffa.» 

«Grazie Kam.» lo ringraziò Cole. «Adesso che ho ben chiara quest'immagine mangiare a pranzo dopo risulterà ancora più piacevole.»

«Cole, ti prego, almeno tu puoi smetterla di essere irritante? Già questa situazione lo è abbastanza.» gli occhi piccoli e stretti di Kam parvero voler affettare Cole come fosse un salame. Il suo viso minaccioso era ancora più teso del solito: gli zigomi sporgenti e le labbra strette, le sopracciglia corrugate.

«Mi stavi punzecchiando con quella maledetta penna, io ho solo reagito per difendermi e la Brixa mi manda qua sotto a scaricare cinquanta scatoloni di scartoffie, per colpa tua.» si lamentò. Cole non fece neanche in tempo a ribattere: Kam mise un piede in fallo e precipitò al suolo, seguito a ruota da tutti gli scatoloni. Un rumore assordante si diffuse nella stanza. 

«Kam! E' tutto okay?» nessuna risposta provenne dalla montagna di cartoni.

Cole si precipitò ad aiutare l'amico, comunque divertito - segretamente - dalla situazione. Quando il gigante trovò la mano di Kam sotto quel mucchio la strinse e lo tirò su. 

«Va tutto bene? Ho sentito un rumore qui... C'è qualcuno?» Cole drizzò le orecchie - a sventola -  ed impiegò meno di una frazione di secondo per riconoscere quella voce. 

«Tani? Sono Cole!» rispose il ragazzo. Kam lo guardò stranito. La ragazza sbucò da dietro una caldaia arrugginita, sbattendo le palpebre per abituarsi alla poca luce. «Ho sentito il tonfo e ho notato la porta aperta... Pensavo fosse successo qualcosa.»Cole guardò la sua figura snella e slanciata, illuminata dalle fioca luce proveniente dalla porta in cima alle scale. La gonna della divisa era un po' troppo corta, ed attirò l'attenzione del ragazzo. 

Cole arrossì, cambiando subito traiettoria dello sguardo.

«Non preoccuparti, è tutto okay. Ci aiuterai, vero?» le chiese Kam, tendendole una mano. «Mi chiamo Kam Witterson, sono un amico di questo imbecille.» indicò Cole con noncuranza.

«Tani, piacere mio!» disse lei, stringendo la sua mano. «E certo, vi aiuterò volentieri!» aggiunse, prendendo uno degli scatoloni sparsi sul pavimento. Sorrise a Cole radiosa e sparì verso il ripostiglio.

Il ragazzo la imitò, afferrando un cartone polveroso e puzzolente e seguendola. «Cole, sai dove si accende la luce?» chiese lei da dentro il piccolo sgabuzzino. Cole non riusciva a vederla, era completamente immersa nel buio. 

«Arrivo.» entrò nel ripostiglio, appoggiò lo scatolo su qualcosa che fece rumore - Cole si spaventò - ed iniziò a tastare il muro freddo con le mani, in cerca dell'interruttore. All'improvviso i due sentirono un rumore, un rumore fin troppo familiare. 

«La porta!» urlò Cole, cercando subito il contatto dei polpastrelli con il legno. Non appena la trovò sentì la chiave girare nella toppa.

«Kam!» batté un pugno sulla porta. 

«Questa è la punizione per aver gioito delle mie disgrazie, non avresti dovuto importunarmi con quella penna.» 

«Kam fammi uscire da qui o ti spacco la faccia!» Kam, dall'altra parte, se la rideva. «Non ci penso proprio.» pausa «Mi spiace solo che ci sia finita di mezzo anche Tani.»

«Kam?» domandò Cole, cercando di essere il più supplichevole possibile. Passarono due minuti, nessuna risposta se non il silenzio.

«Tani, sei qui?» indagò Cole. La ragazza, che fino a quel momento era stata zitta, lanciò un gridolino.

«Cole, che schifo! Credo di aver pestato la cacca di un topo!» il ragazzo si poggiò una mano sul cuore che martellava. Si era spaventato da morire.

«Stupida, mi hai fatto venire un infarto!» 

«Ci sono già abbastanza escrementi qui sotto Cole, non farne degli altri...» Cole allungò le mani nel buio; lo odiava, odiava sentirsi perso, non poter vedere cosa lo circondava.

«Tani, non ti ve-» la ragazza si scontrò contro il petto di Cole, sbattendo la testa sul tuo mento.    «Oh Dio mio Cole! Il naso!» lui cercò subito di afferrare Tani dalle spalle. Non appena ci riuscì salì lungo il collo, fino a trovarsi il piccolo volto di Tani fra le mani. «Hai urtato il naso?»

«Ho disintegrato il mio naso contro le tue tette Cole, mi fa malissimo...» piagnucolò lei, e gli pestò un piede. «Ahia! Ma dai, non l'ho fatta mica apposta!»

«Adesso troviamo l'interruttore, scemo. E ben ti sta.» Cole strinse la presa, impedendole di muoversi. Le guance della ragazza erano tiepide, come se stesse arrossendo. Le dita percorsero la sua mascella, sfiorarono le labbra. Erano calde, schiuse. Il viso di Cole andò a fuoco. Cercò il naso piccolo della ragazza, e subito sentì una sostanza viscida sotto i polpastrelli.

«Tani, stai sanguinando...» la ragazza si irrigidì. «Troviamo l'interruttore, poi un fazzoletto.» sgusciò via dalla presa di Cole. Passarono alcuni secondi e in un click una luce gialla esplose nella stanza. 

Cole si parò gli occhi con il braccio, sbattendo poi le palpebre per abituarsi alla luce accecante della lampadina. Appena sollevò lo sguardo su Tani notò il rivolo di sangue scarlatto scenderle dalle narici.

«Oh per la miseria... Cerchiamo un fazzoletto!» frugò ovunque, seguito da Tani. Fra tutti gli scaffali, i mobiletti con le ante in ferro e gli strofinacci Cole trovò finalmente della carta assorbente. Ne strappò un pezzo e si avvicinò a Tani. Lei rimase ferma, mentre lui iniziò a tamponare il suo naso.

«Mi hai fatto male, ti detesto.» Cole sorrise. Sembrava così carina, tutta imbronciata e a braccia conserte, con il naso rosso. 

Il contatto con la sua pelle gli trasmetteva una strana sensazione. Piacevole, in un certo senso, ma anche inquietante. Sentiva come se toccarla fosse sbagliato.

La ragazza lo guardò negli occhi, studiando attentamente il suo viso. Pregò che le sue guance non si accendessero mentre Cole le puliva via il sangue con una delicatezza sovrumana. La situazione però non era imbarazzante, anzi.

Cole sorrise alla sua amica. «Fatto, tieni il fazzoletto premuto sul naso, io cerco di trovare un qualcosa per aprire la porta.» disse il ragazzo, controllando il cellulare. «Non c'è campo, perciò dovremo svignarcela alla vecchia maniera.» la ragazza rise. «Va bene, scassinatore.»

Quello che successe dopo fu una serie di sfortunati eventi.

 

3

Cole era emozionato, e agitato.

Di una cosa era certo: in vita sua, non avrebbe mai pensato che un giorno si sarebbe ritrovato travestito da dragone giapponese.

Il costume gli causava un prurito insopportabile, soprattutto nei posti dove non batteva il sole. Dio, non gli erano mai pizzicate così tanto le chiappe in tutta la sua mera esistenza.

Percorse il tratto casa-ospedale con quel costume addosso, e pregò che ne sarebbe valsa la pena. 

Tutti i passanti si voltavano a guardarlo: chi rideva, chi lo indicava, chi addirittura gli scattava delle fotografie. 

Grazie al cielo quell'enorme testa di drago gli copriva il volto - certo, lo faceva sudare come un dannato - rendendolo irriconoscibile. Se solo Kellin l'avesse visto conciato in quel modo... Si sarebbe messo a ridere, lo avrebbe preso in giro, e poi si sarebbe travestito da dragone anche lui, accompagnando e affiancando Cole nella sua onorevole missione.

Quella era vera amicizia.

 

 

 

Nota Autrice: Mi scuso per questo capitolo-schifezza, davvero ;-; è solo che l'ho scritto all'una di notte, e io stavo morendo di sonno... Questo era l'unico pezzetto di tempo che avevo a mia disposizione per scrivere... Vi amo e volevo ringraziarvi di cuore per le 800 e passa letture, adoro ogni singolo lettore! Grazie ancora per tutto, e se vi va commentate o lasciatemi una stellina. ♥ E buona Halloween a tutti! Siete delle meravigliose zucche.

Love ya xx -Sam                                                   

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Capitolo 12
*** AIUTO: HO BISOGNO DI VOI ***


Ho bisogno di un consiglio... E vi prego di aiutarmi, perché si tratta della storia nella sua totalità; devo decidere se riscriverla completamente oppure no... Se non cancellarla completamente.

Sono davvero indecisa... A parte il fatto che la lettura non mi sembra molto scorrevole e coinvolgente, alcune frasi e alcuni periodi sono pesanti e incorretti... Però, il problema di fondo è che non so più se narrare in terza persona al passato remoto come sto già facendo oppure riscrivere tutto in prima persona, al presente. 

Vi prego, vi prego, ho bisogno di voi... Voi cosa ne pensate? La storia vi sta piacendo? Vi piacerebbe di più scritta al presente in prima persona? La lettura vi sembra scorrevole?

Vi ringrazio in anticipo per tutto quello che fate per me, volevo dirvi che siete fondamentali. I vostri commenti mi migliorano la giornata, che siano battute, recensioni positive, consigli o critiche: è grazie a voi che sto imparando a crescere nella scrittura, e vi ringrazio.

Un bacione enorme a tutti voi, e grazie ancora, vi adoro ;-; ♥

-Sam ☆ 

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Capitolo 13
*** 11. Domani soffierà il vento di domani. ***


"Sto cercando disperatamente di aggrapparmi a qualcosa che non esiste.
Sei fumo che scivola fra le mie dita."

 

1

Cole Blaze si asciugò le mani strofinandole sulla pelliccia opprimente del costume che indossava. La coda dell'essere mitologico in cui si era trasformato strisciava sinuosa sul marmo del porticato, scivolando come fosse sull'olio. 

Entrò nell'edificio, salì le scale, sfrecciò nei corridoi, in modo da esser visto il meno possibile - qualche dottore si prese gioco di lui - ed arrivò davanti alla porta numero 137. L'altissimo e smilzo dragone giapponese si fece coraggio. 

Stella lo aveva fatto entrare, ma, a differenza di tutti gli altri, lei aveva solo sorriso al ragazzo e l'aveva accompagnato fino alla sua meta. Era stata gentile, e si era anche lei dimostrata emozionata. Aveva detto a Cole di amare le sorprese, soprattutto se c'era di mezzo anche il suo zampino.

«Sei perfetto, Cole, sicuramente Boyce resterà stupito!» esclamò, guardando Cole con quei suoi occhioni verdi. Lui arrossì, fortunatamente nascosto dalla testa di dragone, ed annuì. Sentì il peso delle grosse corna dorate che spuntavano in cima alla testa del costume oscillare pericolosamente. 

«Sei così carino!» aggiunse poi l'infermiera, con un gridolino, battendo le mani entusiasta. Cole rise, e la sua risata gutturale echeggiò nella testa cava. Scrutava Stella attraverso due fori tondi, e, nonostante fossero piccoli, poteva benissimo notare il suo sorriso smagliante e i lunghi capelli rossi, che scendevano sulle spalle in morbide onde.

«Che aspetti, entra!» Cole si sentì spingere da dietro, e si ritrovò inspiegabilmente a bussare alla porta. 

«Chi è?» domandò una voce dall'interno, una voce che Cole conosceva fin troppo bene. «C'è qualcuno?» il suo tono di voce era più cupo di come lo ricordava il dragone. 

Stella intanto era sparita dietro ad un angolo, ridacchiando e battendo le mani. Si affacciò un ultima volta e sussurrò «Sai cosa fare quando giungerà il momento.»

Cole fece un cenno e spinse la porta, entrando, quasi trattenendo il fiato. 

Non appena il ragazzo seduto sul letto incontrò la figura gigantesca dell'altro fasciato da quel ridicolissimo costume rimase senza parole, imbambolato, a fissarlo. In quell'attimo di esitazione Cole poté osservare quello che Boyce stava facendo nel momento in cui aveva fatto irruzione nella sua stanza: era intento a scrivere qualcosa su un quadernetto a righi. Quadernetto che chiuse di scatto, non appena si fu ripreso dallo sbalordimento. 

Il ragazzo castano nascose il piccolo oggetto sotto le coperte e chiuse la penna a sfera con un click. Si asciugò velocemente una grossa lacrima che gli era appena scesa su una guancia, suscitando uno strano sentimento nello stomaco di Cole.

Curiosità, tristezza, sensi di colpa.

«Chi sei?» chiese Boyce, non appena ebbe tirato su con il naso. Si stropicciò meglio l'occhio con la manica della felpa rossa che indossava, come per cancellare definitivamente ogni traccia di quella vergognosa lacrima. 

Chiunque fosse stato quel tizio, doveva essere pieno di coraggio: quel costume era davvero esilarante

Era un miscuglio di colori e stoffe diverse, e persino di campanellini colorati e brillantini. Un dragone arcobaleno che lo scrutavacon la testa penzolante di lato, con l'enorme bocca spalancata e lunghe corna d'oro. 

Boyce pensò che fosse davvero bello, oltre che bizzarro, perché gli trasmetteva allegria e gli ricordava tanto il Giappone e le sue feste gioiose e colorate, che il ragazzo aveva sempre ammirato e adorato da dietro lo schermo di un computer. Avere davanti quel quasi drago giapponese, in carne ed ossa, lo aveva reso felice. Si dimenticò completamente del diario e si concentrò solo sul suo mitologico interlocutore.

Cole restò un attimo spaesato dallo sguardo di Boyce. Perché piangeva? Cosa stava scrivendo sul quaderno? Decise che sarebbe stato meglio lasciar perdere, per evitare di mettere Boyce a disagio. Lo avrebbe scoperto in un secondo momento.

Le sue riflessioni vennero interrotte dal sorriso del più grande, che pian piano iniziò a nascere sul suo volto pallido, illuminandolo un po'. Quel sorriso avrebbe potuto illuminare una città intera, altroché.

«Allora?» 

Cole arrossì e scosse forte la testa, i capelli appiccicati sulla fronte per via del sudore gli solleticarono le palpebre chiuse. 

«Sono un dragone giapponese.» spiegò, rendendosi conto subito dopo di aver detto la cosa più ovvia che si potesse mai dire. Si schiaffeggiò mentalmente.

Boyce rise, e Cole pensò che quel suono, uscito da quelle labbra screpolate, fosse decisamente e di gran lunga la melodia più bella che avesse mai udito. Rispose sorridendo, in segreto, nascosto dietro la maschera.

«Sono molto perspicace, lo so, lo so.» aggiunse, cercando di porre rimedio alla precedente affermazione idiota.

«Come mai sei qui, Cole?» chiese Boyce, trattenendosi dal ridere.

«Come fai ad affermare che sono io?» rispose l'altro, poggiandosi le mani sui fianchi pelosi. 

«Perché riconosco la tua voce, e perché so che soltanto tu saresti stato capace di fare una cosa così ridicola.» Cole, nonostante la maschera, deviò lo sguardo, puntandolo su una parete.

«Mh, qualcuno potrebbe avermi detto che ti piacciono il Giappone e la comicità. Così ho pensato... Perché non travestirmi da dragone giapponese, per farlo ridere un po'?» domandò, aspettando la reazione dell'altro. Prontamente Boyce gli rivolse un sorriso radioso. 

Nessuno aveva fatto mai nulla del genere per lui, nessuno si era mai curato di ciò che gli piaceva o lo interessava, esclusa Stella.

«Te lo ha detto Stella?»

«E' un segreto, non posso rivelarti il nome della mia spia.»

«Lo prendo per un sì.» Cole non rispose. Semplicemente si girò con un saltello, e iniziò a sculettare. L'enorme coda di peluche che gli penzolava dal sedere prese ad oscillare, a ritmo del suo fondoschiena.

«Che diamine fai?» cercò di dire Boyce, quasi strozzandosi. Aveva iniziato a ridere come un dannato. Quella situazione era così esilarante che persino i muri si sarebbero messi a ridere se avessero potuto. 

«Cerco di sviare il discorso per coprire l'identità della mia socia in affari loschi twerkando.»

«Ci sei riuscito in pieno, dannazione! Posso farti un video?» chiese Boyce senza fiato, fra una risata e l'altra. 

«Non ci provare! Non sai che vergogna attraversare la città a piedi vestito da coso giapponese!»

Boyce restò tre secondi fermo, respirando a fatica, reggendosi la pancia che gli doleva per il troppo ridere.

«E la ma-macchina?» chiese, col fiato corto.

«Non avevo intenzione di riempire il sedile di peli di drago.» disse Cole indicando la pelliccia. 

Boyce scoppiò di nuovo a ridere. Gli sarebbe esploso un polmone per lo sforzo.

«Sei incredibile!» 

«Modestamente, e adesso proseguiamo il nostro viaggio.» Cole tornò indietro verso la porta e la aprì, imitando un ruggito. 

«Cole, come drago fai proprio pena, cos'era quello? Un miagolio?» il ragazzo lo guardò male. «Il dragone può ritenersi offeso.» 

Stella raggiunse Cole, alla guida di un carrello di metallo argentato. Era vestita da geisha. Portava un kimono rosso e dorato, pieno di perline e di ricami di fiori e ghirigori deliziosi. Una fascia di seta le cingeva la vita, mettendo in evidenza la dolce curva dei suoi fianchi e il seno.

 Si era coperta la faccia con un cerone bianco, aveva messo un rossetto rosso. Le sue labbra assomigliavano ad un cuore, e gli occhi, allungati da una linea nera di eyeliner, sembravano ancora più grandi. I capelli rossi erano raccolti in uno strambo chignone tenuto su da strani bastoncini incrociati. 

«Come hai fatto a fare tutto questo in pochi minuti?» le sussurrò Cole, avvicinandosi al suo orecchio.

«Credo proprio di essere stata una geisha nella mia vita precedente.» rispose lei con un sorriso tenero. «Segreti del mestiere.» 

Superò Cole con uno scatto energico e si parò davanti a Boyce, con le infradito di legno sopra i calzini, che spuntavano dal kimono scarlatto. 

Il carrellino arrestò la sua corsa, sotto lo sguardo estasiato di Boyce. C'era poggiato un vassoio argentato - di argento vero? - con su un servizio da tè stranissimo. La teiera aveva una forma allungata, con uno strano manico sporgente su un lato. Era satinata, scura, con sopra delle incisioni in lingua giapponese in vernice, che splendevano in contrasto con l'opaco della teiera.

«E' una Kyusu.» spiegò Stella, con un sorriso enorme stampato sul volto. I suoi occhi scintillavano. 

Prese una ciotolina, contenente una strana polvere, delle foglie e qualche chicco di riso soffiato. Con un cucchiaino di legno prese un po' di quel miscuglio e lo sparse nella Kyusu

Sia Cole che Boyce la guardavano, con la bocca spalancata, rapiti dalla destrezza e dalla sicurezza che Stella ostentava in quei movimenti. Sembrava avesse fatto quel genere di tè miliardi di altre volte prima.

«La mia migliore amica e coinquilina è giapponese.» affermò, non staccando gli occhi dalla teiera. Prese un contenitore termico dal ripiano in basso del carrello e versò dell'acqua nella sua strana teiera.

«Mi ha insegnato la tecnica per preparare questo tipo di tè, la tecnica Sencha.» 

Cole si voltò per guardare Boyce: il ragazzo era a cavalcioni sul letto, proteso verso Stella, e osservava la sua infermiera-geisha completamente incantato da quello strambo rituale. La bocca schiusa, gli occhi che quasi gli uscivano dalle orbite e un luccichio nelle iridi scure che assomigliava ai fuochi d'artificio.

L'acqua calda liberò nell'aria il suo tiepido vapore mentre scorreva sull'infuso di polvere e foglie, sfiorando il viso di Cole in una morbida carezza. Si diffuse nella stanza un piacevole odore, pungente, ma dolce al tempo stesso.

«E'... Inebriante.» sussurrò Boyce, quasi come fosse in trance, dando voce al pensiero di Cole.

Stella lo guardò e gli sorrise. Chiuse il coperchio della teiera e restò immobile per quasi un minuto. Intento aveva tirato fuori due tazze. 

Più che tazze assomigliavano a dei bicchieri. Erano allungati, dello stesso colore della teiera. Cole ne sfiorò uno e sentì sotto i polpastrelli la sensazione della ceramica satinata e liscia.

«Fantastico...» mormorò. 

Non avrebbe mai immaginato che una banalissima preparazione del tè potesse essere così interessante, estranea, curiosa. 

«E' pronto!» annunciò Stella, tutta contenta. Versò la bevanda calda nelle tazzine e inspirò a fondo l'odore dolciastro.

«Prego.» fece un piccolo inchino unendo le mani come in una preghiera. Cole imitò il suo gesto, così come Boyce. Poi entrambi presero la loro tazzina e assaggiarono quello strano tè verde, bevendo a piccoli sorsi.

Cole impazziva per il tè, ma quello... Lo mandò fuori di testa. Aveva un qualcosa che sapeva di Oriente, e chiudendo gli occhi gli sembrò quasi di essere seduto a gambe incrociate in un tempio nel lontano Giappone. Quel tè, oltre che ad avere un sapore fantastico, sapeva di nuovo, di antica tradizione, di cultura straniera.

«Credo di essere in paradiso.» disse Boyce, con lo sguardo vuoto e sognante fisso sulla tazzina. 

«Queste tazze e la teiera provengono dal Giappone, vero?» chiese. Sembrava tanto un bambino che per la prima volta nella sua vita assaggiava lo zucchero filato.

Stella annuì energicamente. 

«Reiko ha portato questo servizio con sé... Dice che le ricorda la sua famiglia.» 

«Ashita wa ashita no kaze ga fuku.» Cole si girò di scatto a guardare il più grande, con la tazzina bloccata a mezz'aria. 

«Cosa?» gli domandò, osservando Boyce intensamente. Cosa diamine aveva appena detto?

«L'incisione sulla teiera!» rispose l'altro, indicando l'oggetto. Come se fosse la cosa più semplice del mondo. Si voltò verso Cole e sorrise. Il suo sorriso infondeva pace a guardarlo.

«E' un proverbio giapponese, significa "Domani soffierà il vento di domani."» spiegò, assorto nei suoi pensieri.

«Esatto!» confermò Stella.

«Da quando sai leggere il giapponese?» chiese Cole, curioso di scoprire quali altre qualità nascoste Boyce celava.

«Ci sono tante cose che non sai di me.» disse, facendo un sorrisetto furbo. 

«Le scoprirò.» promise Cole, forse più a se stesso che a Boyce. «Promesso. In fondo... Questo è solo il primo giorno.» 

Il sorrisetto di Boyce sparì dal suo volto, sostituito da un'espressione di stupore.

«Primo giorno?» ripeté.

«Sì, il primo giorno... Del nostro viaggio, mio, tuo e di Stella.» la ragazza accanto a Cole sorrise e alzò gli occhi verso di lui: il suo sguardo era pieno di speranza.

«Viaggio...» ripeté Boyce ancora una volta.

«Certo! Ricorda quest'altro proverbio.» gli disse Cole, fissandolo. «Se Maometto non va alla montagna, allora la montagna va da Maometto.» Boyce restò a fissarlo a bocca aperta. Cole scorse una patina di lacrime velargli gli occhi, per poi condensarsi in piccole gocce che rimasero incastrate fra le sue ciglia.

«Io... Io non so cosa dire.» aveva le guance rosse, e un'espressione così tenera che a Cole si sciolse il cuore.

«Non dire niente, bevi e basta.» prese un sorso del suo tè.

«Cin cin!»

E allungò il bicchiere verso Boyce.                           





Nota Autrice: Salve gente! Eccomi qui con un nuovo capitolo... Spero che vi piaccia, aspetto consigli, commenti, critiche qui sotto. Un mega abbraccio a tutti, vi adoro! Saranghae ~ ♥
-Sam

 

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Capitolo 14
*** 12. Ripped masks. ***


1

Cole si sentiva di splendido umore.

Era uscito da scuola prima, ed era felice per questo, ovviamente, ma anche perché avrebbe potuto passare un po' di tempo con i gatti che vivevano sotto il suo porticato.

Erano quattro, gatte per la precisione. C'era Mamma Gatta, grigia e tigrata, con gli occhi verdi; Timidina, bianca a macchie nere e arancioni, come gli occhi due smeraldi. Lei, come suggeriva purtroppo il nome, era troppo restia al contatto, non si fidava degli umani e a mala pena si faceva vedere in giro. Era davvero molto, molto diffidente. Poi c'era Camilla. Era arancione, tigrata, il suo manto ricordava sia il miele che il torpore di un fuoco acceso nel camino; aveva degli occhi d'ambra da fare invidia alle pietre preziose di un gioielliere. Infine, c'era Bimba. La preferita di Cole. 

Il ragazzo amava da morire quella gatta: il suo manto era a macchie, come quello di Timidina, e aveva gli occhi verdi, di un verde spento, chiaro. Era quella meno bella, ma aveva catturato il cuore di Cole. Era giocherellona, vivace, impazziva per i legnetti - con cui Cole la faceva giocare - e al contempo per le coccole.

Cole lasciò il suo zaino sul muretto alto fino al suo ginocchio e si sedette sulla pietra fredda. Subito vide spuntare le gatte, che gli andarono incontro per salutarlo. Lui sorrise e le accarezzò tutte, mentre loro continuavano a fare le fusa. Non appena se ne furono andate trotterellando ecco che Bimba era salita sul muretto, aveva dato qualche morsetto allo zaino di Cole e si era seduta sulle sue gambe. 

Il suo pelo era così morbido, ed averla acciambellata sulle ginocchia rendeva Cole felice come un bambino. Era calda, si lasciava coccolare e dalla sua gola proveniva ininterrottamente un gorgoglio affettuoso e profondo.

Il ragazzo continuò ad accarezzarle il musetto rosa con i baffi bianchi, e si ritrovò a sorridere beatamente. 

Era un lato segreto di lui che non conosceva nessuno, neanche Kellin: Cole viveva per quelle gatte. Dava loro il cibo ogni giorno, le portava dal veterinario, aveva comprato delle cuccette per farle stare al caldo di inverno e si preoccupava di far loro sempre il trattamento antipulci. 

Nessuno sapeva del suo debole per gli animali, e lui si vergognava a mostrarlo. Temeva che questo aspetto di lui avrebbe potuto danneggiare la sua immagine. 

Più si interrogava sulla sua vita, più Cole si rendeva conto di quanto finta essa fosse. Era un playboy, andava a letto con tutte e si comportava male, tranne che con i professori. In classe era sempre attento e ascoltava la lezione con interesse, ma quando i suoi compagni di classe dicevano agli altri che aveva una media altissima, nessuno ci credeva. 

Cole Blaze con la media del nove e trenta? Impossibile. E a Cole era sempre andata bene così. L'immagine del bravo ragazzo non gli s'addiceva, e questo era un paradosso, in quanto lui era un bravo ragazzo.

Forse era diventata un'ossessione... Forse si era sempre preoccupato di come lui apparisse agli altri perché aveva paura del loro giudizio, aveva il terrore di non sentirsi accettato, aveva il terrore di restare da solo.

Si era sempre convinto di essere un ragazzo mediocre, banale, e quella corazza che si era costruito gli era sembrata sempre più sua, più vivida, e ci aveva fatto l'abitudine. 

Però, era da un po' che aveva iniziato a pensare a questo, al Cole che teneva rinchiuso nel profondo del suo cuore. Neanche i suoi amici lo conoscevano davvero, e forse neanche sua madre. 

In quel momento, con Bimba che lo guardava con gli occhi pieni di amore, Cole si sentì se stesso: dolce, gentile, amante della lettura e di Shakespeare, del tè e dei gatti. Ed era quel Cole che la gatta amava.

Allora si domandò: e se davvero fossi me stesso, qualcuno mi amerebbe così?

L'unica soluzione era tentare.

In quel momento, Cole stava guardando al suo passato e, con disgusto, si stava rendendo conto di quanto le sue azioni fossero state sbagliate. 

Gli era sempre sembrato giusto usare le ragazze solo per farci sesso, e non aveva mai pensato a quanto loro potessero soffrire... Per lui erano sempre state oggetti che desideravano essere usati, però... Adesso non la pensava in quel modo. 

Che cosa gli stava succedendo? Dove era finito il ragazzo sicuro di sé che seduceva le ragazze e poi le abbandonava? Cosa era successo a quel ragazzo che non si faceva scrupoli, che si comportava in maniera vanitosa?

«Cosa mi sta succedendo, Bimba?» la gatta gli rispose con un miao sommesso. Cole sorrise tristemente, e si alzò, facendo scendere una Bimba contrariata dalle gambe.

«Forse è arrivato il momento di cambiare, che dici?» Bimba lo guardò con la testa inclinata, come per dire: era ora che tu te ne accorgessi, stupido.

 

2

«Dannazione! Dannazione, dannazione, dannazione!» urlò Davy, in preda alla furia. 

«Devi calmarti.» Davy sbatté il pugno contro il muro più e più volte, sentendo il dolore esplodergli sulle nocche viola.

«Smettila, Davy!» due mani forti gli serrarono i polsi.

«Piantala.» gli disse la voce profonda e rauca di Cole.

Davy prese a tremare, e gli occhi gli si riempirono di lacrime.

«Io la amavo, Cole...» mormorò, quasi strozzandosi con il groppo che aveva in gola. Era così che si sentivano le ragazze che Cole abbandonava senza ripensamenti? Si chiese.

Era ripugnante.

Le lacrime scesero sulle lisce guance di Davy. Il cuore di Cole quasi morì per il dispiacere.

Strinse l'amico fra le braccia e lasciò che egli si sfogasse; dopo pochi singhiozzi la sua maglietta si era inzuppata. 

«Io l-la... La amavo, le ho confessato i miei sentimenti, io, che mi abbasso a questo livello! E lei mi ha detto: "No Davy, non posso stare con un ragazzo come te..."» Davy strinse i pugni sulla schiena di Cole. «Come te.» ripeté, scandendo le parole con dolorosa lentezza.
«Dovevi vederla... Cole. Mi guardava con gli occhi neri che io amo pieni di disgusto, con un'espressione così contrariata. Mio Dio, ho temuto di morire in quel preciso momento...»

«Ha ragione, Davy, e tu lo sai. Siamo state delle persone orribili, e credo sia arrivato il momento di cambiare, o meglio, di mostrare chi siamo in realtà.» Davy spalancò gli occhi e sciolse l'abbraccio. 

Si vergognava come un ladro: non aveva mai pianto davanti a nessuno, a nessuno. Eppure, eccolo là che piagnucolava, dopo essere stato rifiutato dalla ragazza di cui si era realmente innamorato.

«Come faccio, Cole? Come posso rimediare?» il gigante gli sorrise. «Iniziando magari ad essere te stesso, il ragazzo dolce e sensibile che cerchi di nascondere.»

Davy lo guardò fisso negli occhi, colpito nel punto in cui faceva più male, colpito nel suo difetto peggiore. «E' giunto il momento di smettere di avere paura.» 

Era questa la realtà. In tutti quegli anni, tutti quei ragazzi erano consapevoli di star vivendo una bugia, ma avevano sempre continuato a farlo, trasudando una gioia artificiale che avevano cercato di camuffare con risate e con le serate in discoteca.

«Hai ragione, hai tremendamente ragione... Perché lo abbiamo fatto, Cole? Perché ci siamo nascosti tutto questo tempo?» riprese a piangere, trattenendo i vergognosi singhiozzi.

«Essere deboli è umano, avere paura è naturale... Imparare dai propri sbagli, è giusto. Siamo ancora in tempo.» 

Detto così, così chiaramente, in maniera così cristallina, faceva ancora più male. 

Tutti, tutto il gruppo che gli studenti invidiava, era un gruppo di ragazzi che morivano ad ogni sorriso, ed era arrivato il momento di concludere quella farsa.

«Dobbiamo parlarne anche con Lou, Mark e Kam, vero?» chiese Davy, accennando ad un sorriso. Si asciugò le lacrime con la manica della sua giacca.

«Sono stanco di vivere nell'ombra di una persona che non sono. A costo di diventare un emarginato. La gente non sa che si affatica tanto per arrivare ad essere come delle forme di argilla.»

«Questa è la cosa più profonda che tu abbia mai detto...» sussurrò Davy, punzecchiando l'altro.

«Abituati, perché in realtà sono un grande filosofo.» gli diede un piccolo pugno su una spalla, e Davy rise. 

Quello era un nuovo inizio, l'inizio di una nuova vita. Tutto sarebbe stato stravolto, tutto sarebbe cambiato. Tutto sarebbe diventato migliore.

I due amici si sorrisero a vicenda, promettendosi di essere sempre sinceri.

Erano pronti a scoprirsi, e a diventare amici veri. 

Era arrivato il momento di togliersi le maschere, ed uscire di scena. 

Che il sipario si chiuda!





Nota Autrice: Salve gente! Sì, questo capitolo è di passaggio, mi sono presa un attimo di pausa per spiegare un po' la situazione in cui Cole e i suoi amici si trovano... E nulla, siete pronti per la Lista?
Oh, credo che questo sia uno spoiler, però... Yay! Sono crudele - o buona? - oggi 3:) Come al solito aspetto i vostri commenti, consigli, le vostre critiche... Ho davvero bisogno di voi, siete fondamentali, perciò, tu che segui la mia storia e sei arrivato fin qui: GRAZIE! ♥
Alla prossima ragazzi, love you all! ~
-Sam 

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Capitolo 15
*** 13. Don't call me baby! ***


1

«No, no. Chanette, mi rifiuto.» la donna guardò male il figlio da dietro la spalla, mentre l'acqua continuava a scrosciare sulle stoviglie che stava lavando.

«Oggi è il mio giorno libero, Cole. Devo aggiustare la casa entro l'ora di pranzo, non ho tempo neanche per andare a bere un caffè con le mie amiche! Perciò, oggi che è domenica e sei a casa anche tu, vedi di aiutarmi.» Cole sbuffò, sentendosi in colpa. Sua madre era costretta a spolverare e pulire tutto anche nei giorni di ferie, e lui non sapeva neanche come prendere in mano una scopa.

«Va bene, va bene... Quando arriva la peste?» Chanette strofinò un piatto di ceramica con una spugnetta, i guanti di plastica gialli stridettero fra la schiuma al profumo di lime.

«Fra mezz'ora, più o meno, vai a prepararti.» Cole salì in camera sua, a testa bassa, con le calze a righe rosse e blu che scivolavano sul legno.

«Proprio a me doveva capitare...» borbottò.

«Ti ho sentito!» gridò la madre dalla cucina.

 

2

Cole si strinse nella felpa. Per essere maggio, faceva davvero freddo. Le cuffiette bianche nelle sue orecchie continuavano a suonare Break Your Little Heart, mentre Cole con il piede - numero 47 1/2 - continuava a tenere il tempo. 

Il treno era in ritardo di venti minuti abbondanti.

Cole sbuffò sonoramente, mentre con lentezza prese a guardarsi attorno. 

Le case grige oltre i binari sfioravano appena il cielo, che esplodeva in un azzurro forte e vivo. Le nuvole sembravano le striature di una tigre: vaporose strisce bianche che interrompevano quel turchese pulsante di tanto in tanto. Il sole era coperto da una di esse, e brillava di una luce candida e soffice.

Il silenzio era riempito da sbuffi, stridere di ruote contro i binari e dal vociare dei passeggeri. C'era chi salutava i parenti in partenza, mogli che piangevano, bambini che scorrazzavano pericolosamente vicini alla linea gialla - genitori incoscienti - e controllori con la pancia grossa.

Cole osservò una ragazza scura di pelle, sulla ventina, girarsi e cercare con lo sguardo qualcuno. Il suo amore? Sua mamma? 

A Cole piaceva immaginare quale potesse essere la storia di ogni singolo passeggero, il suo nome, i suoi interessi, il suo passato.

Quella ragazza era davvero bella. Era avvolta in uno scialle colorato e pieno di perline e campanelle, aveva una gonna lunghissima che ricordava un arcobaleno e dei capelli voluminosi e ricci, riccissimi. Le labbra carnose, scure, il naso schiacciato e gli occhi allungati, dalle iridi nere come la pece. Era perplessa, e si voltava freneticamente; si bloccò e sorrise nella direzione di Cole. Aveva i denti bianchissimi, che brillavano in contrasto con la pelle color cioccolato.

Ce l'aveva con lui? Prese a camminare svelta proprio verso il ragazzo.

Cole non sapeva che fare. Fortunatamente, la ragazza lo superò, arrancando e trascinando dietro di sé il trolley giallo canarino. Le ruote facevano un rumore ipnotico, come un ticchettio. 

La ragazza - Kenya, per Cole - mollò la valigia, che cadde a terra con un tonfo, e si gettò fra le braccia di un ragazzo.

Era alto molto più di lei, e la stringeva fortissimo, con il viso perso fra i suoi capelli neri. 

Biondo, muscoloso, bianco. Cole li studiò attentamente, catturando ogni dettaglio di quell'immagine con gli occhi. Erano una coppia davvero bellissima.

Immaginò Kenya nella sua terra natale, in Africa, che danzava attorno al falò con gli altri membri della sua famiglia, mentre intonava una canzone allegra e vivace, come lei. Aveva proprio il viso di una cantante. Magari aveva conosciuto il suo ragazzo - Jackson, sì, che fantasia - mentre entrambi facevano volontariato per aiutare i più poveri. Lui un medico, più grande di lei. Lei un uragano di vita, che lo aveva travolto, superando la differenza di età, probabilmente di cinque, sei anni, che li divideva. Si erano innamorati e tutto il resto era stato storia.

Lo sbuffo di un treno distrasse Cole, portandolo a voltarsi. I vagoni presero a scorrergli davanti, in una tempesta di colori. 

Il ragazzo adorava i treni della sua città. Erano coloratissimi, veloci, e soprattutto sicuri.

Quando le porte si aprirono Cole riuscì subito a notare il viso allungato e pallido di sua zia spuntare fra la folla. Aveva i capelli arruffati, come sempre, il sorriso stampato sul volto ed era vestita con i suoi soliti abiti scuri. 

Cole scattò in piedi, quasi ribaltando la panca su cui era seduto. Si sfilò le cuffiette dalle orecchie e le mise in tasca. 

La donna lo individuò fra il caotico turbinio di persone e allargò ancora di più il suo dolce sorriso. Gli occhi color cielo era brillanti e belli come una volta, lei stessa era ancora bellissima come una volta. 

Magra, dalla figura slanciata, con le curve sinuosamente disegnate dalla maglietta grigia che indossava. Un lamento richiamò lo sguardo di Cole verso il basso.

Sua zia Lucinda stringeva la mano di un bambino. Era piccino, con il viso paffutello e gli occhi azzurri come quelli della madre. I capelli però erano più chiari, biondi, del colore del miele, a differenza di quelli di Lucinda, castani scuri.

Il bimbo agitava il giocattolo che stringeva nella mano grassoccia, e stava tirando la madre, appendendosi al suo braccio a peso morto.

Il sorriso di Cole tremolò sul suo viso incerto: sarebbe stata una lunga e stressante giornata. 

Il gigante dalle orecchie a sventola agitò la mano in segno di saluto, e la donna che non vedeva da ben quattro anni prese a camminare veloce verso di lui. 

«Cole! Dio mio, sei diventato un uomo!» disse, prima di stringerlo in un forte abbraccio. I boccoli di Lucinda gli solleticarono le guance, mentre il familiare profumo di vaniglia gli invase le narici: una vagonata di ricordi prese a scorrere nella mente del ragazzo, ricordi felici, del bambino felice che era stato.

«Sei cresciuto così tanto...» continuava a ripetere la donna, accarezzando la spalla del nipote. 

Lucinda era la sorella più piccola di Chanette. Aveva trentacinque anni, ma ne dimostrava molti di meno, sembrava ancora una ragazzina. 

«Mamma! Soffoco!» il piacevole abbraccio zia-nipote si sciolse, interrotto dal figlio di Lucinda, che continuava a tirare i jeans della madre. Irritante come lo era a tre anni.

«Cole, ti ricorderai di Jimmy, vero?» il bambino lo guardò con le sopracciglia corrucciate. 

«Certo!» rispose il gigante, piegandosi sulle ginocchia. Allungò la mano per scompigliare i capelli tagliati a scodella del cuginetto, che strinse le labbra rosse in una sottile linea. 

«Mamma, chi è questo?» Cole restò per un attimo impassibile, con la mano bloccata a mezz'aria.

«Jimmy, non essere così maleducato! E' Cole, tuo cugino, non ti ricordi di lui?» 

"Non ti ricordi del ragazzo a cui lanciavi i giocattoli sul naso? A cui scarabocchiavi i compiti e distruggevi la stanza?" pensò Cole, con i brividi sulla schiena.

 «No.» disse il bambino, incrociando le braccia al petto. Aveva una salopette di jeans, con una maglia a righe che spuntava sotto, delle scarpette piccoline e bianche, ovviamente tutte sporche e consumate. 

«Perdonalo, ha dovuto rinunciare alla festa di compleanno della sua fidanzatina per venire qui, non è stato facile... vero, Jimmy?» la madre sorrise al bambino, che la guardò con un'espressione arrabbiata e tremendamente buffa.

«Da' a me, zia, ci penso io.» disse Cole, prendendo la valigia della donna e il suo borsone. «Ho la macchina parcheggiata un po' lontano da qui, c'era una tale confusione stamattina!»

«Oh, il mio ometto... Già con la patente... L'ultima volta che ti ho salutato eri un ragazzino di appena quattordici anni... Poi arrivo qui, e mi trovo davanti un uomo.» sospirò Lucinda, con gli occhi lucidi.

«Tu sei rimasta sempre la stessa, zia, bella come sempre.» la donna lo abbracciò nuovamente, con un "ooooooh" che colpì i timpani di Cole.

«Jimmy è diventato anche lui un ometto, ricordo com'era piccolo quando aveva tre anni appena...» disse Cole, non appena la zia lo ebbe liberato dalla stretta ferrea.

«Ora ne ho sette! Vado già a scuola, non sono più piccolo!» ribadì Jimmy, gonfiando il petto. Cole rise; quel bambino era davvero buffo.

«Mi racconterai tutto più tardi, adesso andiamo a casa, zia Chanette ci aspetta con una bella torta di mele.» il bimbo sembrò rilassarsi un po', e accennò ad un sorriso, ancora un po' incerto.

«Adoro mia sorella.» disse Lucinda, sorridendo. Poi prese Cole sottobraccio e iniziò a camminare, con Jimmy dall'altra parte.

«In mezzo ai miei uomini oggi! Be', raccontami un po'... Hai trovato finalmente una brava ragazza?» Cole arrossì a quella domanda. 

«No...» rispose, in imbarazzo.

«Devi raccontarmi un bel po' di cose, sono rimasta molto indietro!» Cole sorrise, mentre insieme si dirigevano verso il parcheggio.

Gli era mancata quella donna impertinente, e forse un pochino anche quel bambino pestifero.

 

 

 

Nota Autrice: AHAH! Purtroppo per la Lista dovrete aspettare il prossimo capitolo, sono cattiva, lo so... Ma non temete, scorgo un barlume di Boyle nella prossima puntata! Stay tuned guys, love you all ~ (Vi piace di più il nome Boyle per la ship, oppure Coyce? O ne avete in mente altri? Fatemi sapere qui sotto, vi aspetto!

-Sam ♥

 

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Capitolo 16
*** 14. The List. ***


1

Tenere a freno il piccolo uragano James fu quasi un'impresa impossibile per Cole Blaze. 

Il bambino non faceva altro che correre da una parte all'altra della sua stanza. Sconfitta la timidezza e l'atteggiamento scontroso, la peste aveva rivelato di aver conservato, intatta, la sua furia distruttrice: c'erano libri sparsi sul pavimento, disegni di strani omini colorati e pennarelli ovunque, disordine in ogni angolo e Jimmy che continuava come se niente fosse a saltare sul letto di Cole. 

Il gigante temette in quel momento che le molle del vecchio materasso avrebbero ceduto: ad ogni impatto dei piedini di James si udiva un rumore secco e scricchiolante.

«Jimmy! Ti prego, scendi dal mio letto!» lo supplicò Cole, quasi in lacrime: il suo piccolo rifugio segreto era distrutto. Allora il ragazzo, venendo nuovamente ignorato dal cuginetto che intanto rideva come un pazzo, ricorse alle sua ultima scelta e ultima ancora di salvezza.

Digitò il numero di sua madre e si portò il cellulare all'orecchio.

«Cole?» il ragazzo faticò a sentire la voce della madre.

«Ma'? Cos'è questo rumore assordante?» urlò nella cornetta. C'era un sottofondo che sapeva di putiferio. 

«E' il phon! Io e Lucy siamo dal parrucchiere, oggi meritatissimo tour di bellezza per noi mamme disperate!» strillò Chanette, e Cole decise che sarebbe stato opportuno non fare domande.

«Mamma, non riesco a resistere... James ha distrutto ogni cosa che avevo in camera! Come posso fare a fermarlo?» sembrava come se Cole stesse parlando di una minaccia aliena che la squadra dei supereroi doveva sconfiggere in uno di quei film di azione. Chanette - a rapporto! Richiedo immediata assistenza, soldato caduto, soldato a terra! 

Cole si schiaffeggiò, aveva fin troppa fantasia.

«Perché non lo porti a fare un giro? Hai diciott'anni, potremmo pur tentare e lasciarti portare Jimmy fuori per un po', sei abbastanza grande, vero?» Cole ignorò la frecciatina, impegnato com'era ad avere un'illuminazione.

«Chanette, posso portare Jimmy con me da nonna Georgia?» dall'altra parte del telefono si sentiva solo il parrucchiere che continuava a smanettare con le sue cianfrusaglie infernali e zia Lucinda che spettegolava sulla mamma di un compagno di classe di Jimmy. Dopo un bel po' di silenzio, Chanette rispose.

«Mhhh, okay! Va bene. Mi raccomando, Cole, fai molta attenzione.» il ragazzo annuì, più a se stesso. Era pronto a prendersi la responsabilità.

«Okay, grazie mille mamma, e divertitevi fra tutte quelle diavolerie per donne!» riattaccò, tornando nella piccola fetta di caos che si era creata nella sua camera. Cercò di attirare l'attenzione del bambino in ogni modo possibile.

«J-J, ti va di andare a mangiare un gelato?» tentò.

Il bambino con gli occhi azzurri si fermò all'improvviso, come se la magica parola gelato lo avesse arrestato.

«Fragola e cioccolato?» Cole annuì, con un sorriso radioso.

«Fragola e cioccolato.»

 

2

Quando arrivarono all'ospedale Jimmy stringeva in una delle sue piccole mani il mignolo gigante di Cole, mentre nell'altra teneva stretto il braccio del suo inseparabile compagno di avventure: un pupazzo verde e grande quanto la sua testa di Hulk.

Dopo aver bussato alla stanza di nonna Georgia, i due entrarono. Il bimbo aveva ancora il cioccolato incrostato sulla faccia, per non badare alla macchia sulla salopette che Cole aveva cercato di pulire disperatamente. 

Dopo aver fatto una sorpresa alla donna - che stritolò i nipotini (nipotino e nipotone) - nonna Georgia aveva ripulito la guancia paffuta di Jimmy dai residui del gelato.

«Saresti un pessimo padre, Cole, guarda qui!» esclamò la nonna, continuando a sfregare la guanciotta del piccolo con un fazzoletto. «E' tutto sporco!» il bambino ridacchiò, mentre Cole alzava le spalle.

«Non ho intenzione di mettere incinta nessuna ragazza al momento, halmeoni!»

Jimmy guardò il cugino con un'espressione sconvolta e davvero troppo buffa.

«Ma cosa significa questo melonii? Non capisco mai quando chiami nonna così!»  

«Halmeoni, J-J, significa "nonna" in coreano.» spiegò la donna, accarezzando la testa del bimbo. Erano seduti tutti e tre sul letto di nonna Georgia, e Jimmy le stava raccontando della scuola e di tutte le cose che un bambino potesse adorare: cartoni animati, dolci e giocattoli.

«Si sta facendo tardi, Cole. Perché non porti James a conoscere qualche tuo amico? Magari uno vicino, in questo momento.» la donna lanciò a Cole uno sguardo furbo, seguito da un sorrisetto. 

«Sì, cuginone! Sono curioso di conoscere altri ragazzi! Magari giocano con me e Hulk!» il gigante osservò attentamente nonna Georgia, trattenendo a stento un sorriso.

«E' lontano?» chiese Jimmy, mentre Cole si chinava per lasciare un bacio sulle dolci rughe della nonna. 

«No, J-J, dobbiamo solo attraversare un corridoio e salire una rampa di scale.»

 

3

Dall'interno della stanza numero 137 non proveniva nessun rumore. La porta era stranamente aperta... Ciò fece insospettire Cole: Boyce aveva l'abitudine di chiudere sempre la porta,. Be'... In effetti chiamava Stella urlando come un pazzo, per far chiudere la porta.

Cole sbirciò all'interno, seguito dal bimbo, che sporse la testolina bionda nella camera. Entrambi restarono in silenzio a guardare un ragazzo che dormiva beatamente fra le coperte bianche: il suo petto si alzava e si abbassava piano, ad un ritmo lento, tranquillo. La bocca pallida era schiusa, le palpebre chiuse.

«Cole, come mai il fratellone ha quel tubicino nel naso?»

Cole si concentrò sulla scena che aveva davanti agli occhi. Ignorò James, che chiamava fratellone qualsiasi ragazzo più grande di lui, ma, principalmente, stava pensando la stessa medesima cosa. Boyce aveva un sottile tubicino trasparente che arrivava fino al naso, per poi separarsi in due diramazioni, che sparivano nelle narici piccole del ragazzo.

«Non so, J-J... Ma adesso andiamo, non vorrei disturbassimo...» il ragazzo afferrò la maniglia e fece per chiudere la porta.

Quella visione lo aveva scosso, e provato nel profondo. In quel letto, intubato, il solito Boyce, schietto e vivace, sembrava essere così piccolo, così fragile... Sarebbe bastato un soffio di vento a disintegrarlo in sottile polvere. 

Una fitta al petto impedì a Cole di pensare a qualsiasi spiegazione, si sentiva agitato. 

La porta era quasi chiusa, quando una voce bloccò Cole.

«Ehi, Blaze? Sei tu?» chiese, roca e impastata. Il ragazzo aprì di scatto, con il battito accelerato, e si trovò davanti Boyce che si stiracchiava, seduto sul letto.

«Ciao, tappo!» salutò il gigante, mentre l'altro continuava a stendere i muscoli. Aveva indosso una felpa rossa, scura, con un disegno stampato sopra. Cole la riconobbe immediatamente, era la sua felpa dei Red Sox.

«Ce l'hai ancora tu, eh? Ladruncolo...» Boyce aprì uno degli occhi serrati mentre allungava le braccia sopra il capo e fece un sorriso astuto.

«Hai perso la scommessa, dongsaeng, i patti son patti.» Cole restò un attimo colpito dalla dolcezza che aveva assunto la voce di Boyce, sembrava essersi appena svegliato da un bel sogno. Grazie a Dio non fece riferimento alla sua di felpa, che Cole non aveva assolutamente intenzione di restituire - si era troppo affezionato ormai, e quando il gigante si affezionava ad un oggetto, difficilmente si riusciva a strapparglielo via. -

Solo allora il più grande si accorse del bambino che spiava la scena, da dietro le gambe-lampioni di Cole. 

«Ehi, ciao! Tu chi sei?» chiese Boyce, facendo un enorme sorriso.

«Sono James!» rispose il bambino, come fosse una cosa ovvia e scontata.

«Oh, che nome fantastico! Io mi chiamo Boyce Hanks, è davvero un piacere conoscerti!» il ragazzo fece segno a Jimmy di avvicinarsi, allungandogli una mano.

«Ti dispiace? Sono un po' troppo pigro...» disse, e subito dopo scoppiò a ridere. Il bambino, sotto lo sguardo esterrefatto di Cole, lasciò indietro il cugino e si affrettò ad avvicinarsi al letto. Afferrò la mano di Boyce e la strinse forte, per poi scuoterla.

«Melonii e il fratellone mi hanno parlato di te!» mentre il bimbo continuava a far oscillare le mani ancora unite dei due, Boyce lanciò uno sguardo confuso a Cole. Il ragazzo in questione rise all'espressione del maggiore.

«Halmeoni, J-J... Boo, questo è James, Jimmy, o J-J... E' il mio cuginetto e no, non sono suo fratello... Chiama "fratellone" tutti i ragazzi che gli sembrano grandi.» 

Boyce lanciò un'occhiataccia all'altro, per via di come lo aveva chiamato, e subito dopo tornò a sorridere a James.

«Ti va di sederti un po' vicino a me? Oh, wow! Quello non sarà mica Hulk, vero? Adoro quel supereroe!» il viso del bambino si illuminò mentre come un razzo si sedeva sul letto con uno slancio. 

«Sì! E' il mio eroe preferito! Il tuo qual è?» Boyce sembrò pensarci su.

Cole, ancora sotto la porta, osservava i due. Era davvero molto sorpreso... Era passato dall'essere preoccupato per Boyce ad essere davvero colpito: il ragazzo sembrava davvero essere a proprio agio. E, per di più, aveva conquistato il cuore di James solo con qualche frase. Il bambino se ne stava buono buono, seduto e immobile, mentre Cole riusciva a malapena - o affatto - a non farlo saltare sul suo letto. E poi, come se non bastasse, a Boyce era bastato un solo minuto per farselo amico, al contrario di Cole, che era riuscito a parlargli dopo delle ore.

Boyce sembrava essere diverso, più dolce... Sorrideva in modo spontaneo ed aveva un qualcosa di dannatamente tenero che faceva sciogliere il cuore di Cole.

«Il mio è Capitan America, e il tuo, fratellone? Perché te ne stai lì?» Cole scosse la testa e guardò Boyce, che continuava a prenderlo in giro chiamandolo fratellone.

«Spider-Man.» rispose semplicemente, e si avvicinò ai due. Il maggiore, seduto a gambe incrociate, si spostò un po', facendo segno a Cole di sedersi. Il ragazzo seguì il consiglio e fu piacevolmente sorpreso di trovare il materasso tiepido sotto di se, riscaldato precedentemente dal corpo di Boyce. 

«Come mai hai quel tubicino attaccato al naso? Non ti fa male?» chiese James, curvando le labbra rosse e carnose verso il basso. 

«J-J, ma che domanda è mai questa? E' scortese!» lo rimproverò Cole, guardandolo male. Gli occhi enormi del bimbo si incupirono. Sembrava un cucciolo bastonato.

«Questo dici? Oh, non è niente, è solo un aggeggio che aiuta il fratellone a respirare bene, ogni tanto mi serve!» spiegò Boyce, tutto allegro. 

Cole lo guardò attentamente. Sembrava così tranquillo... Sorrideva, aveva le guance rosee e gli occhi erano privi delle solite nuvole scure che li rendevano aridi e gelidi.

Il maggiore, sentendosi osservato, spostò lo sguardo verso Cole, e gli occhi dei due si incatenarono a vicenda. Il gigante sentì una strana sensazione, e provò l'irrefrenabile impulso di abbracciare Boyce... Assomigliava tanto ad un bambino smarrito in quel momento, eppure ostentava la sua solita sicurezza in un sorriso ampio e con le sue piccole spalle rilassate.                 

Cole cercò di interrompere l'atmosfera surreale che si era creata, e si sforzò di restare lucido. Prese dal suo zaino un quadernetto e una penna e li porse a Boyce, sotto lo sguardo indagatore del soggetto in questione e del piccolo J-J.

«E' arrivato il momento di scrivere la Lista.» iniziò Cole, catturando in pieno l'attenzione di entrambi i suoi interlocutori. «Voglio che tu scriva qui sopra qualsiasi cosa che ti piacerebbe fare, avere, vedere. Qualsiasi cosa, qualsiasi azione, oggetto, situazione che potrebbe renderti felice. Ogni giorno scrivi almeno cinque fra queste cose, e io e Stella ci impegneremo per fare in modo che ognuna di loro si realizzi e diventi realtà.» 

Boyce restò per un attimo come pietrificato, guardando Cole a bocca aperta.

«I-io... Non... Non so cosa dire... Davvero, io...» Boyce afferrò il quadernetto con la copertina rossa e la penna, e li osservò come fossero oggetti fatati.

«Sì! Una Lista! Adoro scrivere le liste!» urlò James, agitando le braccine per aria.

«Iniziamo, scrivici, il gelato, la torta con la panna...» iniziò il bambino, contando euforico sulle piccole dita.

«Vi va se la scriviamo insieme?» propose Cole, sorridendo ai due.

«Io... No Cole, non posso accettarlo... Come potrebbe essere possibile? Non... Non voglio essere un simile peso...»

«Non devi preoccuparti di nulla, tu scrivi. Io e Stella sapremo cosa fare. Ho parlato con tua madre, e mi ha dato l'okay ed è entusiasta di questa cosa, abbiamo un sostanzioso budget e tantissime idee per la testa... Fidati, sarà fantastico!» il gigante, senza rendersi conto, finì per essere stritolato dal più basso.

«E' davvero un sogno!» sussurrò. Si era stretto al petto di Cole, affondando il viso nel suo petto. Lo stringeva come se lo volesse consumare.

Cole annusò il profumo di shampoo alla mela che i capelli di Boyce emanavano e ricambiò la stretta. Si sentì strano, euforico e per nulla tranquillo. Tuttavia, fra quella tempesta, provava anche un certo senso di completezza con Boyce fra le braccia, sensazione che non aveva mai avvertito abbracciando i suoi amici, o sua madre, o chiunque altro.

Il ragazzo con il tubicino nel naso si allontanò un attimo, ma solo per coinvolgere anche James in quell'abbraccio, per poi stringere Cole e il piccolo a sé.

«E va bene, scriviamo questa Lista!» esclamò il più grande, mandando il cuore di Cole in fibrillazione.

 

Il pomeriggio passò così, fra risate, scherzi e frasi scarabocchiate in fretta e furia sulle pagine, come a voler catturare tutta la magia di quegli attimi. Fu di gran lunga il giorno più bello della vita di Cole, che più tempo passava con Boyce e il cuginetto, più si accorgeva di quanto volesse bene ad entrambi, di quanto si fosse affezionato a Boo e di quanto James gli fosse mancato. Era tutto caldo e perfetto, e sapeva di amore e gioia. 



Angolo Autrice: Salve, piccole stelle del firmamento! Okay basta AHAHAH Eccoci qui, che ve ne pare? Ho soltanto donato blood sweat & tears a questo capitolo, di bene 2000 parole e passa... E niente, vi adoro, siete la mia forza, e spero vivamente che vi piaccia! Alla prossima! ♥
-Sam
 

 

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Capitolo 17
*** 15. Playing With Fire ***


1

«Cole, sei sul pianeta terra per caso?»

«Cosa? Quale vaso?» Cole si voltò di scatto, e quasi gli caddero le bacchette di mano. Fissò Tani, dopo essersi reso conto che no, probabilmente non era di un vaso che si stava parlando.

«Ma mi ascolti?» il ragazzo mise il broncio. «Scusami, ero distratto...»

«Me ne sono accorta.» rispose l'amica, seduta dall'altra parte del tavolo, per poi ingurgitare una grossa forchettata di spaghetti di soia. 

I due erano andati a pranzare in un ristorante cinese dopo la scuola, e l'ultima cosa che Cole ricordava era Tani che imprecava contro la professoressa di ginnastica, che aveva fatto fare alla sua classe più di cento addominali. Poi la sua mentre era volata in chissà quale mondo.

«Su, non demoralizzarti... Vedrai che le prossime lezioni saranno più leggere, e poi... Finalmente la tua tartaruga in letargo si sveglierà, e al mare potrai sfoggiare degli addominali da paura...»

«Cole.» Tani posò la forchetta e perforò la testa del ragazzo con lo sguardo. Strinse le labbra e Cole capì che probabilmente, molto probabilmente, era in pericolo di vita. 

«Io parlavo del progetto di scienze, quello per la mostra di fine anno, ricordi? Dobbiamo portare i saggi alla fiamma, insieme. Perciò ascolta le mie proposte o sarò costretta a inforchettarti.» annunciò, sventolando la posata a mezz'aria. 

Era ancora più carina da arrabbiata. Aveva i capelli legati in una coda, nel mezzo spuntava la ciocca viola che si era tinta all'insaputa dei suoi genitori. La maglietta blu che indossava era stretta e le evidenziava tremendamente troppo le-

«Cole, io ci rinuncio, trovati un'altra compagna per il progetto.» Tani scosse la testa e riprese a mangiare i suoi spaghetti, infuriata.

«Perché li mangi con la forchetta e non con le bacchette?» chiese il ragazzo, pizzicandole una mano con i due bastoncini di legno.

«Io ho perso le speranze... Sbrigati a mangiare, voglio il gelato fritto.»

«Vaniglia o cioccolato?»

«Cioccolato.»

«Che gusti di merda...»

«Cole!» e Tani gli piantò la forchetta nella mano.

 

2

«Quando è il tuo compleanno?» chiese Cole, cercando di non distrarsi. 

«Il sei di maggio.» Cole sussultò, e il bastoncino che stava cercando accuratamente di sfilare dal mucchietto schizzò giù dal letto, seguito a ruota da tutti gli altri.

«Cosa?»

I due stavano giocando a Shanghai, prima che Cole buttasse giù tutto dopo aver fatto un'espressione a metà fra il sorpreso e il morente.

«Mi... Mi dispiace... Oddio Boyce, perdonami, perdonami...» il ragazzo, seduto comodamente, aggrottò le sopracciglia. «Per cosa?» Cole gli afferrò una mano e si inginocchiò ai piedi del letto. L'altro lo guardò spaesato, e un po' divertito.

«Perdonami... Al tuo compleanno ero chissà dove a bere chissà quale alcolico e non ti ho fatto nemmeno gli auguri, o un regalo, o-»

«Tranquillo! Non devi preoccuparti, idiota... Certo, mi sarebbe piaciuto passare il mio compleanno assieme a qualcun altro oltre a Stella, però...»

«Devo rimediare, Boo... Ti farò un regalo bellissimo, e-»

«Ma, io il mio regalo l'ho già ricevuto!» esclamò Boyce, fissandolo.

Cole per un momento restò immobile, poi alzò la testa di scatto, e i capelli della frangetta scompigliata gli finirono negli occhi. Fissò il più grande, con le sue labbra carnose schiuse, rosso in viso.

«Davvero?» chiese. Provò qualcosa di strano. Come se Boyce in qualche modo stesse parlando di lui.

Cole si perse nelle iridi scure dell'altro, che continuava a guardarlo a sua volta. 

«Certo, il nuovo gioco di Resident Evil!» urlò Boyce, indicando la console e il gioco in questione, poggiato su un mobiletto assieme ai controller.

«Oh.» rispose Cole, un po' deluso. Cosa si aspettava?

«Resta il fatto che ho un debito, i compleanni sono una cosa importante... E per giunta il ventesimo! Perdonami...» ripeté il gigante, stringendo nuovamente la mano di Boyce, che prima gli era scivolata via.

Boyce sentì la sua mano quasi scomparire in quella del minore. La stretta di Cole era forte, e infondeva calore e sicurezza. Lo faceva sentire al posto giusto, e al sicuro.

«Fammi una promessa allora, come mio regalo.» Boyce si sistemò meglio seduto, e con la scusa sfilò via la mano da quella di Cole.

«Al mio prossimo compleanno, sarai tu a svegliarmi, con un cornetto e un cappuccino in mano, vestito da banana, mentre mi canti 'tanti auguri'.» disse tutto d'un fiato, cercando di non guardare l'altro negli occhi. Detestò il rossore che di sicuro le sue guance avevano assunto.

«Boo, a parte il costume da banana, mi sembra perfetto! Accetto! Tanto, dopo essermi travestito da dragone non ho più paura di niente...» Boyce fece una piccola espressione malvagia, maliziosa.

«Sei un trasformista nato, non è che mi nascondi qualcosa?» chiese, per poi dare una piccola gomitata a Cole, il quale era rimasto in ginocchio, e fissava l'altro shoccato. 

«Sei impazzito?!» urlò Cole, rosso come un peperone. Raccolse da terra un bastoncino del gioco e lo puntò contro Boyce. «Non ti azzardare a dire una cosa del genere, mai più.»

«Oh! Passami la penna!» esclamò in risposta Boo, che si allungava disperatamente verso il comodino. La felpa del ragazzo si alzò un tantino, scoprendo parte del suo addome. 

La sua pelle era bianca, candida, lattea... E, attorno all'ombelico, Cole notò due nette linee scivolare verso il basso, fino a formare una V, che scompariva dentro i pantaloni. 

Non resistendo alla tentazione, Cole si sporse verso l'amico e gli punzecchiò la pancia con lo stecchino.

«Ahi! Cole, ma che fai? Razza di cretino!» urlò paonazzo l'altro, mentre si afferrava al letto per non cadere. 

Cole scoppiò in una risata, finendo quasi per accartocciarsi su se stesso.

«Tieni la penna, tappo» Cole passò la biro blu a Boyce che, guardandolo male, malissimo, usò per cancellare "giocare a Shanghai" dalla Lista delle cose da fare. Chiuse il quadernetto con un tonfo e fissò il gigante.

«E se scrivessi "eliminare Cole Blaze dalla faccia della terra"?» l'altro fece spallucce.

«Dovresti rinunciare a tutte le altre cose che hai scritto, in quanto tutte riguardano anche me.»

«Ho Stella.»

«Non sarebbe lo stesso, lo sai.»

Boyce restò con la bocca aperta, mentre cercava la frase giusta con cui ribattere. Dopo aver fallito miseramente e aver ingoiato un grosso boccone d'aria si incrociò le braccia al petto e fece l'espressione più antipatica del suo repertorio.

«Sei salvo, per adesso.»

«Sembri un cucciolo smarrito quando fai quella faccia...» Cole sorrise, e tirò un pizzicotto alla guancia del più grande. Era morbida. Troppo morbida. Il gigante sarebbe anche potuto morire su quelle guance.

«Ti ucciderò, prima o poi.»

«Domani, non adesso.» rispose Cole, sorridendo ancora e beandosi del viso arrabbiato dell'altro. Sembrava così tenero, come un bambino quando viene sgridato. «Prima dobbiamo finire di giocare.»

«Ma io ho già vinto...» rispose Boyce, indicando con un sorriso sornione i bastoncini sparsi per tutta la stanza. 

«Non c'è nessuna regola riguardo il muovere i bastoncini in caso in cui al giocatore venisse un infarto...»

«Non hai avuto un infarto... E se sì, allora chiama Stella per farti aiutare e sparisci dalla mia vista.»

Boyce si aspettò un qualcosa come "molto volentieri", ma la risposta che arrivò non fu quella.

«E se ti dicessi che voglio farmi curare da te? Con quella felpa verde mela sembri tanto un'infermiera sexy.» 

Il ragazzo quasi cadde dal letto. Prese la scatoletta di legno del gioco Shanghai e la buttò su Cole, beccandolo sulla spalla mentre cercava invano di chiudersi a riccio per evitare il colpo. 

«Sei pazzo? Adesso oltre che ad un infarto dovrai curare un livido gigante!»

«Non curerò proprio un cazzo io! E adesso muoviti e raccogli tutto, schiavo, devo vincere questa partita.» 

Cole lo guardò male. «Devi smetterla con questa fissa di lanciare le cose, fa male, in tutti i sensi.» disse, massaggiandosi il punto in cui era stato colpito.

«Lancio oggetti solo quando ci sei tu in giro.»

«Allora sono speciale, eh?» Cole fece una risatina, che aveva un non so che di diabolico.

«No, sei stupido, semplicemente.»

«Ti farò rimpiangere codesto affronto, maledetto!» Cole puntò il suo bastoncino-spada verso Boyce. 

«Giochiamo, Blaze, devo farti il culo anche in questo gioco.»                     

 

 

Angolo Autrice: HELLO GUYS! Scusate se questo capitolo è corto e abbastanza schifoso, ma avevo bisogno di scrivere, ero in astinenza, e questo è quello che ne è uscito fuori... E SE ANCHE ANCHE VOI AVETE CANTATO OH OH OH OH MY LOVE IS ON FIIIIIREEEEE LEGGENDO IL TITOLO... Vi amo, avete la mia stima. E niente, spero che questa... cosa vi piaccia. Fatemi sapere cosa ne pensate qui sotto con un commento e stellinate se questo capitolo trash vi è piaciuto.

Love you all ~

-Sam ♥          

 

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Capitolo 18
*** 16. Can't Help ***


Risponde la segreteria telefonica di ### dopo il segnale acustico, registri il suo messaggio.

Ciao, so che molto probabilmente starai ascoltando questo messaggio mangiucchiandoti le unghie, come fai sempre tu quando sei combattuta, e so anche che sceglierai di ignorarmi, alla fine... Però...

Hai presente quel momento in cui vorresti lasciarti sprofondare, nel buio? Sì, no? E hai un nodo in gola che non riesci a sciogliere neanche con le migliori medicine, e senti i tuoi peggiori pensieri prendere vita, schiacciarti... Ecco, è così che mi sento...  Sono monotono e noioso, ma ti prego, ho bisogno di te... Non appena senti questo messaggio, richiamami. Sto cadendo, e credo che 'stavolta sarà difficile rialzarsi.

 

~

«Boo, ma tu hai un cellulare?» il più basso alzo un sopracciglio, prima di muovere la pedina verso destra. «Questa è una domanda alquanto stupida, perciò impiegherò il tempo necessario a risponderti per depennare dalla Lista "imparare a giocare a scacchi".»

Cole osservò meglio il viso dell'altro, allungandosi sul letto, muovendo la scacchiera posizionata in bilico in mezzo a loro, sul materasso. Alcune pedine rotolarono sul legno, finendo nelle coperte leggere e aggrovigliate.

«Ma sei stupido? Cole, vedi che hai fatto! Hai fatto cadere il mio alfiere!»

«Dai, su... Adesso le rimetto a posto...» il gigante sistemò - molto casualmente - l'alfiere su un quadrato bianco, ma venne bloccato dalla mano fredda di Boyce, che gli si serrò attorno al polso.

«Non va lì! Ma cosa combini?» urlò Boyce, perforando Cole con lo sguardo. Le dite affusolate e lunghe erano fredde come il ghiaccio. 

«Io non- Ehi, giochi a scacchi da due ore e pensi di essere già un Dio?»

«Sì.» disse Boyce, facendo scivolare via la sua mano, come se il contatto con la pelle di Cole lo avesse spaventato. 

«Sì, cosa?» chiese il più piccolo, con un'espressione a metà fra il perplesso e il distratto.

«Ce l'ho un cellulare. Vuoi il mio numero per caso?» 

«Oh.» rispose Cole. Era alquanto sconcertato... Come mai Boyce possedeva un cellulare? Okay, ci sta che un ragazzo avesse un proprio telefono, ma per fare cosa? Per chiamare bastava il telefono dell'ospedale che aveva accanto al letto, e poi, i social network? No...

«Lo vuoi o no?» Boyce incrociò le braccia. Aveva il naso rosso e screpolato per via del raffreddore inspiegabile che lo tormentava. Come si può prendere il raffreddore a maggio? 

«Sì...» rispose Cole dopo qualche secondo di imbarazzante silenzio, sentendosi un idiota.

I due si scambiarono il numero, entrambi con un milione di pensieri per la testa.

 

~

Cole Blaze corse. Corse come se compiere quell'azione fosse l'unica cosa da fare. L'ultima cosa da fare. 

Ehi, Boyce... Scusa se ti disturbo, tu sei in stanza?

Visualizzato alle 02:37 

 

Dove dovrei essere, secondo te? Stupido...

Come mai a quest'ora della notte?

Visualizzato alle 02:43

Cole non si prese la briga di rispondere. Si infilò le scarpe, la felpa nera e si catapultò fuori casa. L'aria era stranamente tiepida, ma sembrava sferzargli il viso come fosse fatta di lame, tanto era la velocità con cui correva. L'asfalto gli volava sotto le suole. Il freddo gli scendeva nei polmoni, li graffiava, li grattava, mentre il fiato si accorciava e prendeva a correre assieme alle lunghe gambe del gigante.

«Cole! Aspetta!»

Bugiarda, bugiardi tutti.

Cole arrivò in ospedale in men che non si dica. Spalancò la porta, distruggendo quasi i vetri, salì le scale divorando i gradini a tre a tre, sfrecciò nei corridoi, superò la porta di Nonna Georgia.

Un dottore cercò di afferrarlo. Uno di quelli odiosi con il camice bianco che dicono sempre quelle frasi del tipo "suo figlio ha una malattia terminale" come fossero caramelle.

Gli tirò la felpa e il contraccolpo quasi lo fece cadere. Cole si rimise in piedi, barcollante. La vista era offuscata dalle lacrime, che traboccavano dai suoi occhi scuri, intrappolate nelle ciglia. 

Era come guardare il mondo attraverso un caleidoscopio.

«Mi lasci andare, per favore!» il dottore strinse la presa, ma Cole si strattonò e con uno scatto fulmineo riprese a correre.

«Ehi! Fermo, ragazzino! Non è tempo di visite!» prese ad inseguirlo.

Cole si fece scappare giusto il tempo di voltarsi e urlare un Vaffanculo!, poi riprese a correre veloce, sempre più veloce, svoltò un angolo, su per le scale. L'ospedale sembrava un labirinto nero che schiacciava il piccolo Cole e lo strizzava, mentre il cuore continuava a martellargli nel petto, nelle orecchie, nelle tempie. 

Trovò la porta numero 137 e ci si infilò dentro, chiudendosi alle spalle le urla del dottore pazzo che continuava a chiamarlo, mentre correva con l'affanno.

Cole osservò il silenzio, con la fronte poggiata sul legno freddo, liscio. Silenzio interrotto soltanto dai suoi ansimi, dal suo cuore che rombava, dall'aria che vorticava frettolosa fuori e dentro la sua bocca.

«Cole, cosa sta succedendo?» Cole serrò le palpebre, udendo quella voce, e le lacrime definitivamente caddero, ruzzolando giù, sulle sue guance aride.

Ed ecco il primo singhiozzo, seguito da un secondo, poi da un terzo. Mentre il ragazzo alto un metro e ottantacinque si sentiva minuscolo sotto il peso del mondo, il maggiore lo osservava, in preda all'angoscia.

«Cole, non spaventarmi...» Boyce si mise seduto sul letto, fece per alzarsi, ma una fitta alle gambe lo inchiodò al letto. «Cole...»   

Il gigante si voltò, e per un istante Boyce riuscì a cogliere l'espressione che aveva assunto il suo volto. Era un volto disperato: gli occhi stretti, inondati di lacrime, le righe storte e brillanti sulle guance, i denti digrignati. Avvolto nella penombra sembrava essere uno spettro, oscurato dalla notte e per metà illuminato dalla luce della lune che entrava fragile dalle enormi finestre.

Fu soltanto un attimo. Cole si coprì il viso con le mai, bagnandosi i palmi. Si vergognava, si vergognava come non mai per via della sua debolezza. 

«Cole, ti prego, dimmi cosa è successo...» il minore venne attraversato da un fremito, forse per via di un singhiozzo, forse per via del dolore. Con uno slancio arrivò al letto di Boyce e circondò il corpo fragile del più grande con le braccia. 

Quasi caddero giù dal letto. Boyce ricambiò la stretta e lasciò che Cole nascondesse il viso nella sua spalla. Sentì la camicia da notte inondarsi di lacrime, e quasi si sentì morire.

«La vita è una puttana, Boo... Perché ti dà delle cose così belle se poi, una volta che ti sei affezionato, te le strappa via? E' una puttana, Boyce... Un vera puttana!»  

In quel momento Boyce desiderò poter essere come una spugna, in grado di poter assorbire il dolore dell'altro, che continuava a sussultare in preda ad un pianto disperato.

«Ricordi le mie gatte, Boo, le ricordi?» il maggiore annuì. Cercò di non tremare e prese ad accarezzare la schiena del più piccolo, pronto a sentire il peggio.

«Ne hanno investita una, Boo... E' morta... E' morta!» urlò Cole, avvertendo un nodo stretto nella gola, un groviglio di vomito e spine.

«L'ho vista là, con la bocca spalancata, gli occhi spalancati, nel terrore in cui è morta... E il sangue che le usciva dalla bocca, e... L-le interiora che...» non riuscì a terminare la frase. Si alzò e corse nel bagno che la stanza di Boyce aveva. Si accasciò accanto al gabinetto e vomitò tutto quello che aveva in corpo. 

La gola andò a fuoco, mentre l'acido la percorreva. 

Boyce quasi cadde, mentre cercava di mettersi in piedi. Ignorò le fitte alle gambe e mosse qualche passo verso il bagno, reggendosi alla parete. 

Non camminava mai da solo, eppure, non si sarebbe mai permesso di lasciare Cole da solo. Sentiva come se uno sciame di api assassine gli stesse spolpando i muscoli delle gambe.

Ricacciò indietro le lacrime, e si lasciò cadere accanto a Cole. Il pavimento era ghiacciato sotto le ginocchia, ma poco importò. 

Con una mano prese ad accarezzare la schiena del ragazzo, e con l'altra gli sorresse i capelli, la fronte, mentre vomitava.

Passarono dei minuti interminabili, dei minuti di inferno.

«Spero che mia madre abbia avuto il coraggio di spostarla da lì, di toglierla dal ciglio della strada...» bisbigliò Cole, con la voce impastata e rotta dal pianto. 

Quando entrambi trovarono la forza di alzarsi, Boyce portò Cole sul suo letto, lo fece stendere e si sedette accanto a lui, non smettendo mai di accarezzargli una spalla.

«Ho preso il telefono, ti ho scritto e sono corso qua...» iniziò Cole, fissando il soffitto. Il naso gli colava come una cascata. Ci impiegò un po' per tranquillizzarsi, la presenza di Boyce lo fece sentire meglio... Al sicuro, protetto, capito.

«I-io non... Boyce, mi prenderai per pazzo, starai pensando che era solo un gatto, un piccolo animale insignificante, un gatto qualunque...» riprese a piangere «Ma non lo era, amo quelle quattro gatte più di me stesso, e-» tremava come una foglia. 

«Cole, non dire assurdità. Gli animali sono come persone, amarle non è da pazzi, è da esseri umani.»

«Ero di fretta, sono andato a fare i cazzi miei e non le ho neanche salutate, non... Io non l'ho neanche salutata... Non si meritava di morire, no...»

«Pensa a tutto quello che le hai dato, Cole.» il più grande prese il viso dell'altro fra le mani, e gli asciugò i lacrimoni con i pollici, lo voltò verso di se. Si trovarono a guardarsi negli occhi, occhi neri in occhi neri.

«Hai reso la vita di quella gatta migliore, bella... L'hai fatta sentire amata, perché so che l'amavi. Smettila di piangerti addosso. Doveva andare così, disperarti adesso non servirà a riportarla indietro.» disse Boyce, e non spostò mai lo sguardo: lo tenne fisso in quello dell'altro, cercando di infondergli coraggio.

«Non sarò mai così stupido da pensare "era solo un gatto, quante storie", so che significa perdere un animale, so che significa sentirsi morire, ma devi essere forte e concentrarti sulle cose belle che ti ha lasciato.»

Cole sentì una scintilla nascere in lui, un germoglio di un qualcosa di bello, di positivo. 

 

Passò quasi un'ora. Cole smise di piangere e prese a raccontare a Boyce di Timidina, la gatta che non c'era più. Di quanto fosse piccina, debole, rispetto alle altre. Di come era restia al contatto, di quando Cole era riuscito a sedersi ad un metro da lei, delle occhiate che si scambiavano, del fatto che lei forse aveva iniziato a fidarsi, a mangiare voltandogli le spalle. Perché forse sì, in fondo un po' si fidava. Mentre parlava il sonno lo vinse, e Cole Blaze crollò, nel letto di Boyce Hanks. Il maggiore lo aveva ascoltato, con un sorriso sulle labbra. Adesso che lo guardava dormire, si sentiva finalmente tranquillo. Il petto di Cole si alzava ed abbassava piano. Il ragazzo non aveva lasciato neanche per un attimo la mano di Boyce, ancora la stringeva.

Erano appena passate le quattro del mattino quando un dottore fece irruzione nella stanza. Era alto, con i capelli grigi e una faccia da topo. Non appena si accorse di Cole dormiente nel letto di Boyce divenne di marmo. 

«Questo ragazzino deve uscire immediatamente da qui.»

Boyce, che continuava a fare da guardia a Cole, per paura che si svegliasse, che potesse avere un incubo, si voltò verso l'uomo e lo guardò con un'espressione a dir poco glaciale.

«Sono il figlio di Hanks. E sai che significa. Esci immediatamente da qui, e sparisci. Posso scatenare l'inferno e farlo bruciare dritto dritto sulla tua testa semplicemente schioccando le dita.» il dottore sembrò un cane bastonato.

«Capisco...» cercò di trattenere la rabbia, che Boyce ignorò. Non appena l'uomo viscido chiuse la porta, il ragazzo si voltò verso il più piccolo, che ancora dormiva beatamente.

 

«Non permetterò a questo mondo di farti soffrire, Cole...»  sussurrò. Peccato che, in quella notte scura, solo la luna udì quelle parole.



 

 

Nota autrice: HELLO! Sono viva, sì... Spero voi abbiate passato un felicissimo Natale (potete bastonarmi, per il tremendo ritardo e per non avervi fatto gli auguri prima, vi do il permesso). Come state? Mi dispiace per questo capitolo così triste e... Perdonatemi, sapete che vi amo... Adesso mi aspetto i "ma che razza di regalo di Natale è mai questo?" *volano pomodori*, e non vi biasimo... In più, crudeltà spietata, vi allego la canzone che ormai ho in loop infinito nella testa, per condividere con voi...

Deliri a parte, tantissimi auguri, ci tengo moltissimo ad augurarvi tutta la felicità di questo mondo! Senza i miei lettori, lo sapete, io non sarei nulla. Grazie davvero di tutto. Love you all ~  

-Sam ♥

 

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Capitolo 19
*** SPECIALE! ***


Salve a tutte, mie caramelline zuccherate! Questo non è un capitolo, non uccidetemi...

Però, ho una proposta interessante da farvi, eheheh *risata malvagia*. Avevo intenzione di scrivere un capitolo in cui Cole parla con i suoi amici, e racconta loro di Boyce, perché d'ora in poi anche loro saranno coinvolti da vicino nella storia dei due protagonisti. Mi è sembrata un'idea carina rendervi partecipi! 

Si tratta di creare un documento condiviso con Google Drive, in modo che tutti possano modificarlo ed osservare in tempo reale le modifiche apportate dagli altri.

Perciò, se vi piace questa storia, e volete aiutarmi a dar vita a questo capitolo "Interattivo", scrivetemi qui sotto in un commento! 

Adesso vi lascerò una lista dei personaggi e devi vari "interpreti". Dovete sceglierne uno, io scriverò OCCUPATO, quando qualcuno lo avrà scelto.

Poi vi darò la situazione, il contesto diciamo, e lo riporto direttamente sul documento di Google Drive in modo che ognuno possa leggerlo prima di iniziare. Voi scriverete assieme a me, rispondendo con le battute del vostro personaggio e intervenendo direttamente quando volete. Vi piace come idea? 

Dal mio canto, realizzare qualcosa assieme ai miei fan, ai miei lettori, sarebbe bellissimo! Vi adoro, lo sapete, e sapete anche di essere la mia forza, perciò... Sarebbe davvero un onore per me! ;-;

Poi decideremo assieme un giorno e un'ora per scrivere il pezzo, perché dobbiamo trovarci tutti assieme.

Detto questo, a voi la lista (eheheh Lista eheheh) 

- Kellin Johnson / Kim Jong-in ~ OCCUPATO

- Lou Fisher / Zhang Yixing ~

- Mark Jenkins / Lu Han ~ OCCUPATO

- Davy Adams / Do Kyung-soo ~ OCCUPATO 

- Kam Davis / Oh Se-hun ~

Spero partecipiate in tanti, love you all!~

-Sam ♥

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