Reality

di Pll_AeAlove
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. ***
Capitolo 3: *** 2 ***
Capitolo 4: *** 3 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo.

7 luglio 2014.
 
Pioveva.
Pioveva fortissimo.
Le gocce si infrangevano con veemenza sul grezzo marciapiede e sulla strada, rendendo l'atmosfera grigia e buia e mesta.
Il sole si intravedeva sporadicamente tra le nuvole, sottintendendo la sua intenzione di non uscire allo scoperto, quel pomeriggio.
 
La pioggia è per molti qualcosa di rilassante, ma per lei non lo era.
Il rumore di quel piovigginare insistente la faceva anzi sentire ancora più fuori luogo e spaventata.
Il rumore della pioggia si mischiava poi a quello di altre voci, eppure lei non riusciva a distinguerle.
 
Si mischiavano tutte insieme, si infiltravano nella sua mente, nei suoi pensieri, erano un turbinio costante e tedioso che le impediva di ragionare in maniera conscia. 
Ma lei non poteva fuggire, perché l'avrebbero scovata.
 
Lei sarebbe sprofondata nella sua solitudine e nelle ombre ignote del suo passato, sarebbe sprofondata nella sua amarezza, nella monotonia della sua vita, in sé stessa, nei suoi pensieri caotici, nelle sue paranoie e in tutto ciò di cui aveva paura.
E non avrebbe potuto combattere, perché la vittoria le era stata preclusa da tempo.
 
Sentiva il dolore entrarle dentro, confondersi con il suo sangue dentro le sue vene, lo avvertiva vibrare insistentemente, apriva la bocca per gridare, ma non udiva alcun suono.
Non sapeva da dove il dolore provenisse né perché lo stesse provando così profondamente, lo sentiva e basta.
 
Un guazzabuglio insopportabile di voci, parole, suoni le inondò d'improvviso la mente, e fu lì che riuscì a sentirsi gridare, gridare forte, gridare tutto ciò che si era da sempre tenuta dentro.
Sentiva altre voci, ma non sapeva da dove provenissero.
 
Dopo un po' smise di provare dolore, quell'atroce, astratto dolore e per la prima volta vide qualcosa di concreto e del tutto nuovo: Riley Wilson.
 
A questa visione fu incosciamente e senza alcun apparente nesso logico associato il fuoco, di un vivido color arancione, e una parte della sua mente si risvegliò, come per ricordarle la sensazione di calore che l'aveva precedentemente avvolta nella sua spirale asfissiante e deleteria; ma non sapeva se fosse successo realmente o solo nei suoi sogni.
 
La parte razionale di sè le diceva di starsi sbagliando, la parte irrazionale le diceva che nel torto lei aveva in qualche modo trovato la sua ragione.
D'improvviso tutto divenne sfocato e confuso...
 
Anneka si destò di soprassalto, respirando a fatica.
Istintivamente si mise seduta e portò lentamente una mano sul petto, ingoiando a vuoto e aspettando che l'agitazione si dissolvesse spontaneamente e naturalmente, come succedeva ogni qual volta che si svegliava nel buio della sua stanza, accompagnata solo dalla luce della sveglia, che le permetteva di rendersi effettivamente conto di essere stata vittima dell'ennesimo incubo.
 
Fare incubi era qualcosa di spaventoso ma, in un certo senso, anche catartico. 
Aveva promesso che nessuno le avrebbe mai portato via l'anima, ma lo avevano già fatto.
Quella società così vuota, così finta, che ostentava un atteggiamento ben diverso da quello che in verità metteva in pratica, quella società che si nascondeva dietro la maschera del perbenismo e dell'accettazione, della comprensione del singolo individuo; l'avevano uccisa.
 
Anneka, in realtà, non sarebbe mai riuscita a dimenticare quello che non riusciva a ricordare.
Lei credeva di poter essere immortale, ma un uomo è immortale solo nell'attimo stesso in cui crede di esserlo, un attimo che sfuma immediatamente, un pensiero fugace ed effimero che gli fa rendere conto che l'eternitá non è vivere per sempre, ma vivere per sempre nel cuore delle altre persone.
Quello che sarebbe potuto succedere e quello che era successo miravano a un unico fine, che era sempre il presente, dal quale non si poteva fuggire, perché non si può tornare indietro.
 
Mentre tentava di riprendersi, la ragazza udì la sua porta che cigolava impercettibilmente, la luce che si accendeva e sua madre a braccia conserte che rimirava preoccupata il viso stanco della figlia.
Madre e figlia si guardarono per pochi istanti prima che Lia, ancora a braccia conserte, decidesse di accomodarsi sul letto di sua figlia. 
 
Anneka abbassò lo sguardo.
-Oh, tesoro...- Lia scosse la testa -che cosa ti sta succedendo?-
Posò confortevolmente una mano sulla spalla della figlia, mentre con l'altra si stringeva nella sua vestaglia rosa acceso. Poi scoccò la lingua -sento che la notte ti muovi e ti lamenti continuamente. Non smetti proprio di avere questi incubi? Non vanno proprio via? Non ti lasciano mai in pace?- chiese cordialmente.
 
Anneka alzò lo sguardo. 
Il suo sorriso vacillava leggermente, ma sembrava più serena.
Quegli incubi non facevano che perseguitarla, ogni notte. 
Eppure c'era qualcosa di stranamente positivo in essi, o almeno in quello che aveva avuto cinque minuti prima.
 
-Va tutto bene, mamma,- disse, abbracciandola calorosamente e ringraziando di avere una madre che si preoccupasse così tanto di lei. Era davvero fortunata.
 
-Allora torno a dormire tranquilla?- chiese Lia, leggermente più sollevata a sapere che lo era la figlia.
-Sì mamma, tranquilla.-
-Buonanotte Anneka,- sussurrò, per poi dileguarsi lasciando la porta chiusa alle sue spalle.
 
Anneka sospirò. Tornò a dormire, questa volta convinta del fatto che la società non l'aveva uccisa, che lei poteva ancora sognare di essere immortale, di essere chi voleva essere, semplicemente lei poteva ancora sognare.
Era davvero fortunata: genitori amorevoli, ottimi voti, buoni amici.
 
Tornò a dormire, questa volta convinta del fatto che la società non l'aveva uccisa. 
Che lei non era morta.
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE: Potreste darmi un parere sincero e obiettivo? Mi aiuterebbe a migliorare, grazie :)

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Capitolo 2
*** 1. ***


1.

7 ottobre 2014.
 
Quando qualcuno muore è sempre presente, in ognuno di noi, una tristezza intrinseca e latente che dilania, anche se solo in superficie, i più reconditi meandri della mente.
 
Anche della mente di chi, di quella persona, non conosceva nulla.
 
Non piangiamo come piangono i parenti e gli amici, non ci disperiamo come si disperano i parenti e gli amici, ma ci interessiamo alla questione, perché proviamo qualcosa verso di essa. Proviamo leggera tristezza, leggero dispiacere, ma è pur sempre qualcosa.
 
Un sentimento di compassione verso un'altra vita che non c'è più. 
Provare questi sentimenti, effettivamente, prova che siamo umani.
 
C'erano queste persone, le persone a cui dispiaceva davvero, ma c'era anche un altro gruppo di persone. 
Loro avrebbero detto di aver visto la biondina qualche volta per strada, con il suo modesto gruppo di amici; avrebbero detto di conoscere i genitori, di essere in pena per loro.
 
E intanto non facevano altro che dissertare, avrebbero detto loro.
In verità si trattava di denigrare e spettegolare con le loro odiose malelingue, senza rispetto alcuno, solo perché la morte di quella ragazzina non poteva rimanere vana.
 
Quindi, per la gente di provincia, Riley Wilson si era suicidata.
 
La polizia accettava pedissequamente questa versione dei fatti, perché sembrava più valida: chi avrebbe avuto interesse a uccidere una sedicenne che non si faceva nemici? 
E, soprattutto, non era stata trovata alcuna prova di omicidio.
 
Gli amici piangevano, tentando di farsi forza e consolarsi a vicenda, ricordando le più belle esperienze vissute, scartabellando i loro archivi mentali alla disperata ricerca degli attimi più meravigliosi che sarebbero rimasti degli attimi eterni nel passato, che venivano ripescati e ripescati, in quel naturale, automatico e umano tentativo di riconoscere la morte come conseguenza naturale della vita, come via ultima, come qualcosa che verrà da noi, tutti noi, un giorno.
Che sia oggi o domani.
 
E intanto si chiedevano perché. 
 
Effettivamente, nessuno di loro riusciva ad accettare l'attuale situazione: una ragazzina di sedici anni, sempre sorridente, amante della vita e di tutto ciò che la stessa avesse da offrire.
 
Una ragazzina di sedici anni, con tanti amici e ottimi voti a scuola.
 
Una ragazzina di sedici anni, con una famiglia che tentava come meglio poteva di accontentarla in ogni sua singola richiesta.
 
Non era facile da accettare che la sua vita si fosse stroncata quel maledettissimo giorno di luglio, quando era ancora nel fiore della gioventù.
Quindi perché avrebbe dovuto suicidarsi?
 
Forse non l'aveva fatto.
 
Non si può mai sapere cosa una persona nasconda, quanto i suoi atteggiamenti differiscano dai suoi pensieri, e nessuno poteva davvero sapere cosa quella ragazzina avesse nella testa e cosa l'avesse spinta a buttarsi nel vuoto.
 
Ed erano queste le scuse che tutti accampavano, perché non sapevano trovare nient'altro. 
"Non conoscevamo la sua storia. Non sapevamo cosa avesse in mente."
I genitori chiedevano giustizia: conoscevano la propria figlia, e sostenevano che non l'avrebbe mai fatto.
 
Perché l'avevano persa, ma avevano perso prima di tutto loro stessi. Con la morte della loro figlia era andata via una piccola ma considerevole parte di loro che viveva dentro di lei, e ora quella piccola ma considerevole parte era persa; persa per sempre.
 
Ma le loro convinzioni venivano prontamente demolite da persone che, avendo trovato una verità superficiale, avevano evitato di indagare oltre. 
 
E quindi Riley Wilson si era suicidata.
 
Al suo funerale avevano partecipato molte persone, ma erano in pochi ad averla conosciuta ed amata per davvero.
E ancora di meno erano le persone che sapevano davvero cosa le fosse accaduto.
Precisamente, erano due.
 
-
 
Anneka sedeva comodamente sulla sedia in legno, mentre con lo sguardo trasognato rigirava il cucchiaio nella ciotola ripiena di latte e cereali. 
Ogni tanto il suo sguardo si posava sull'orologio sulla parete dinanzi a lei, altre si soffermava nel vuoto, a immaginare chissà cosa.
 
Quando il padre la raggiunse nella cucina, la ragazza parlò in tono concitato «buongiorno papà!» per poi abbracciarlo calorosamente.
Tim sorrise e istintivamente la strinse più forte. 
Quando si staccarono, disse: «Non sai quanto io sia felice che tu stia bene, tesoro. Vedo che sei una persona nuova:scommetto che hai ragionato molto sulle ultime cose successe,» sorrise, speranzoso.
 
«Ma certo!» di rimando, Anneka gli elargì uno dei suoi calorosi sorrisi «Mi sono svegliata molto presto stamattina, non so come mai. Eppure mi sento piena di energie.»
«Bene, perché per la scuola devi conservarne molte.»
Anneka ridacchiò.
 
«Allora, oggi hai qualche verifica importante?» le chiese, dopo che entrambi si furono seduti a tavola per fare colazione.
L'orologio segnava le 7:15.
L'orario scolastico prevedeva che non si dovesse entrare più tardi delle 8:10, e mentre Anneka ci pensava, le sopraggiunse il conseguente pensiero che non avrebbe fatto tardi di sicuro.
«No,» asserì «nessuna verifica. Spero sarà una giornata leggera,» sospirò.
 
«Ti sei già preparata? Wow, non è da te. Solitamente sei una ritardataria,» sopraggiunse Lia.
Anneka si girò verso sua madre, che era appena entrata in cucina e sembrava ancora molto assonnata.
 
«Buongiorno anche a te, mamma. Sappi che solitamente arrivo in orario. Non è vero che sono una ritardataria!» sbuffò.
Lia prese posto a tavola e, invece di rispondere direttamente, si limitò ad un flebile sorriso.
 
«Sto pensando a quella povera ragazzina...quella che si è suicidata, tre mesi fa,» se ne uscì d'un tratto, guardando prima il marito furtivamente e poi rivolgendosi sbrigativamente ad Anneka, che alzò vivacemente i suoi occhi curiosi «tu sei proprio sicura che non la conoscevi?»
 
«No, mamma, te l'ho detto. L'ho vista un paio di volte in giro, nulla di più,» rispose, stringendosi nelle spalle.
 
«Com'è che si chiamava?» chiese stranito Tim.
«Si chiamava Riley,» rispose prontamente Anneka «sembra che ne parliate sempre, ma perché vi interessa?» chiese poi, aggrottando le sopracciglia.
Lia incatenò il suo sguardo al pavimento.
 
«Pensavamo che...be', lei aveva la tua età. E si è suicidata, senza che in vita facesse mai trasparire segni di disagio. Siamo i tuoi genitori, ci preoccupiamo. Se stai male per qualcosa...puoi parlarcene.»
 
Anneka sorrise «tranquilli, sto benone! Anche a me dispiace per lei, moltissimo, ma ormai non possiamo farci nulla. Vi ripeto, io sto benissimo. Non mi succederà nulla,» ci tenne a precisare.
 
Ma, ovviamente, aveva torto marcio.
 

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Capitolo 3
*** 2 ***


2 Gli occhi di Anneka rilucevano grazie al fioco riverbero dei raggi del sole che si soffermavano sul suo viso, mentre lei era intenta a guardare fuori dal vetro della finestra e ammirare il cielo terso e sereno, su cui alcune nuvole si stagliavano leggere come un manto, mentre il sole si rendeva prepotentemente protagonista della scena, illuminando la grigia vita che si stava in quel momento svolgendo. Anneka ascoltava con scarso interesse le parole dell'insegnante, mentre si soffermava intensamente ad ammirare la luce e riflettere su quanto bello il mondo fosse, ma anche su quanta poca umanità vi vivesse. Un posto così meraviglioso, che offre semplici bellezze quotidiane a chiunque le cerchi, semplicemente alzando gli occhi e facendosi incantare da quel sole bollente e luminoso. Lei era una persona che aveva sempre amato la bellezza e aveva, a volte anche invano, tentato di indivuarla in qualunque cosa, aveva tentato per tanto tempo di trovare qualunque aspetto positivo si trovasse nelle cose, quelle cose che, di natura, non sono nè positive nè negative, ma acquistano l'accezione che una persona decide di dare loro. La sua ricerca della bellezza era risultata spesso effimera, eppure lei aveva da sempre tentato di apprezzare, apprezzare qualsiasi situazione, e forse era stata proprio la sua continua ricerca della bellezza a ingannarla. Forse per tutto quel tempo non aveva ricercato la bellezza, aveva solo cercato di scappare dalla naturale crudeltà e forsa anche banalità del mondo, aveva cercato in qualsiasi modo di scappare dalla banalità del male. Forse il male era banale proprio perché non agiva in modo maligno, ma in modo inconsapevole. In verità lei non credeva che il mondo fosse un posto di cui andare fieri, però pensava in positivo e sperava che, in futuro, ciò avrebbe potuto portare a qualcosa di buono. Magari, pensando in positivo e facendo tesoro di ogni gesto o parola, sarebbe riuscita ad accettare e avrebbe smesso di scappare. Perché lei ne era sicura, avrebbe trovato un modo per non scappare più. Però accettare non è esattamente sinonimo di evitare. Forse perché lei era troppo debole, forse perché, ad ogni modo, i suoi tentativi si mostravano sempre essere delle mere velleità. Lei scappava sempre. Lei non poteva sopportare. Eppure c'era qualcuno che voleva farle provare dolore. E che gliene avrebbe fatto provare. Perché quel qualcuno la conosceva meglio di quanto lei stessa si conoscesse. - «Rachel, ma ti svegli!?» mormorò Anneka, dopo che i suoi pensieri si furono sfumati e si fu accorta che l'insegnante era ancora intenta a spiegare con solerzia un argomento che tutti sapevano ma che, non volendo andare avanti con il programma, le facevano sempre ripetere fingendo di non aver capito. Rachel trasalì, cadendo dalla sedia e provocando un leggero tonfo. «Eh-oh?» Anneka alzò gli occhi al cielo «possibile che tu debba sempre dormire durante le ore di lezione?» rise divertita. «Sei proprio imbranata,» asserì dopo. «Ehi tu, lì in fondo. Vuoi chiudere quella bocca!?» la redarguì severamente l'insegnante, mentre gli altri ridevano della situazione e Rachel si tirava nuovamente su a sedere, per poi poggiare la testa sul banco. «Vedi, ho ricevuto una sgridata per colpa tua,» mormorò Anneka, tentando di non farsi notare dall'insegnante che, nel frattempo, aveva ripreso a spiegare. «Io sarei imbranata? Tu stai sempre a pensare a chissà cosa!» asserì, rivolgendosi con il capo alla realtà che c'era dietro la finestra vicino alla quale era seduta Anneka. Poi la guardò con un'espressione compiaciuta. «Okay,» convenne Anneka, sbuffando «magari mi distraggo facilmente, ma...» tentennò un po', poi si mise a braccia incrociate sul banco e abbassò il capo per non farsi notare «io non mi estraneo completamente e non cado dalle sedie,» disse, in tono ovvio. «Be', io ammetto che la lezione non mi interessa, ma se tu ti distrai, come tu hai ammesso, allora non interessa nemmeno a te.» «Rachel...è la terza volta che sento parlare del nichilismo e ho già ascoltato attentamente alla prima. Tu non hai mai ascoltato una singola parola!» «Cosa vuoi che ti dica? Che tra noi sei tu la mente?» chiese Rachel. Anneka annuì «non te ne faccio una colpa se sei meno intelligente di me, ma è un pregio che io lo sia più di te,» ridacchiò, con tono falsamente insolente. Amava punzecchiare Rachel in quel modo. «Uffa! Sei proprio noiosa. Mi ripeti perché siamo migliori amiche?» le chiese Rachel, mentre si girava dalla parte opposta a quella di Anneka la quale, avvicinandosi al suo orecchio, le disse «perché ci conosciamo da praticamente una vita,» ci tenne a precisare «e perché tu mi adori troppo per mandarmi a quel paese.» Rachel si girò nuovamente e alzò un sopracciglio, poi ritornò con la testa sul banco, scuotendola leggermente all'affermazione della sua migliore amica. Anneka adorava Rachel, perché con lei aveva condiviso qualsiasi momento, sia bello che brutto; era questo che pensava della sua migliore amica. Che, per lei, era come una sorella. E che non avrebbe mai voluto perderla, per niente al mondo. Rachel era la sua àncora e, fintanto che c'era, tutto era a posto. - Durante il tragitto in auto di quella stessa mattina, era parso ad Anneka che suo padre fosse più silenzioso del solito o che, addirittura, le stesse celando qualcosa. Il suo sguardo deluso e stanco era stata una prova forse ancora troppo astratta, eppure c'era qualcosa che la induceva a pensare che i suoi genitori le stavano nascondendo qualcosa. Lo capiva da come si guardavano imbarazzati quando le parlavano. Come se qualcosa mancasse. «Quindi,» Rosalie circondò le spalle di Anneka con un braccio «quand'è che vieni anche tu da mia zia a farti una manicure?» chiese. Rosalie era un'altra buona amica di Anneka e, nonostante amasse tingere le sue unghie in ogni modo possibile, non era una persona vanitosa, anzi. Era molto timida con chi non conosceva, ma abbastanza confidenziale con chi le stava simpatico. «Non lo so, Rosalie,» Anneka storse il naso, poi si rivolse alla sua interlocutrice «lo sai che le mie unghie mi piacciono così come sono.» «Se è questo che vuoi...» Rosalie si strinse nelle spalle «va bene così. Almeno smetti di mangiucchiartele però!» disse, per poi tirarsi velocemente su gli occhiali con l'indice sinistro. «Rosalie ha ragione, dovresti proprio fare qualcosa,» Rachel si alzò e si avvicinò ad Anneka, stritolandole le guance «ci vuole un bel cambio di look.» Rosalie ridacchiò, stringendo a sè Anneka per le spalle. Era l'intervallo, ma le tre amiche avevano deciso di restare in aula di filosofia e non scendere in cortile. «Quando la finirete di rompermi le scatole?» chiese, sorridendo. Intanto Rosalie aveva preso la sua merenda e si era messa tranquilla a mangiare, accavallando le gambe con i suoi soliti garbati modi di fare. «Annekaaa,» Rachel prolungò la lettera finale digrignando i denti, strattonandola per le spalle e avvicinandosi al suo viso «sei troppo una brava ragazza, sii trasgressiva per una volta.» Rosalie mise una mano davanti alla bocca e ridacchiò innocentemente. «Non sono una brava ragazza, ho anche io i miei difetti. In verità, nessuno è perfetto o davvero innocente.» Rachel strabuzzò gli occhi «okay, ecco che parte e fa la filosofa,» alzò gli occhi al cielo e si mise dritta a braccia conserte, poi si girò verso Rosalie, che aveva parlato. «Ma la filosofia vi piace così tanto?» aveva infatti chiesto, con la sua voce sottile. «Ho scelto questo corso perché, fondamentalmente, non studio nessuna materia,» fece Rachel, mentre Anneka sorrideva, divertita dell'atteggiamento sempre ironico e simpatico della migliore amica «ma, in più, ho Anneka con me.» «Sì be', tu vivi per non fare nulla, sei una tale pigrona!» Anneka rise ancora di più all'affermazione di Rosalie. «Che c'è, voi due!? Guardate che ne vado fiera!» «Contenta tu...» mormorò Anneka, poi chiese «e Claire? Non è venuta oggi a scuola?» «A quanto so si sentiva poco bene...» sussurrò vagamente Rosalie, poi disse «sicuramente la vedremo domani. A proposito Anneka, tra poco è il tuo compleanno, mancano nove giorni.» Anneka avrebbe voluto chiedere più spiegazioni riguardo l'assenza alquanto immotivata di Claire, ma si esaltò immediatamente dopo ciò aveva detto Rosalie «sì, è meraviglioso! Compirò sedici anni, è fantastico!» sorrise ampiamente con gli occhi ricolmi di vana speranza. «E cosa organizzi?» chiese molto curiosa l'altra. «Non lo so ancora.» Poi chiese, titubante «voi ci sarete, vero?» Rosalie e Rachel annuirono e esultarono, e Anneka fu sicura di essere contenta. Lei era ciò che voleva essere. Nessuno le avrebbe portato via ciò che aveva. O almeno, così credeva. «Ragazze, vado in bagno prima che ricomincino le lezioni,» annunciò poi, legando i capelli biondo cenere in una coda improvvisata e dirigendosi a passo svelto verso i bagni. Quel lunedì, dopo l'intervallo, c'era il corso di matematica, una delle sue materie preferite. Ciò che odiava di quel corso, però, era che non c'erano né Rosalie né Rachel a farle compagnia, perché nessuna delle due lo frequentava. Solitamente si sedeva accanto a Claire, ma quel giorno lei non c'era. Ciò che fondamentalmente odiava di quel corso era che avrebbe dovuto vedere una di quelle poche persone che non le piacevano molto. Che non le piacevano affatto.

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Capitolo 4
*** 3 ***


«Ehi, sfigata!» Anneka alzò semplicemente gli occhi al cielo, sbuffando. Ecco quello che odiava del corso di matematica. Ross Nolan. «Tu sei sola e oggi anche io, perché Beverly non è venuta. Sai che devi sederti accanto a me, non è vero?» Sì, lo sapeva. «Non penso che tu voglia rimanere sola,» aggiunse il ragazzo, ammiccando. Anneka rinnovò il suo sbuffo e prese posto accanto al biondo che, per l'esattezza, era tinto. E ciò era anche abbastanza palese. Come se Ross non fosse quel tipo di ragazzo che fa di tutto per farsi notare dalle ragazze... Anneka credeva che il suo comportamento fosse abbastanza patetico, ma solitamente se ne stava zitta, evitando di esprimere le sue opinioni con qualcuno che avrebbe dato risposte senza argomentarle. Si sarebbe limitato agli insulti, i suoi soliti insulti e non avrebbe smesso di tediarla, così lei preferiva sopportare. In fondo Ross non era una persona cattiva, lei lo sapeva. Era solamente stupido, così lo lasciava fare. «Come ti va oggi?» le chiese, con una punta di sarcasmo «la tua amica non è venuta?» la guardò di sottecchi e lei sbuffò nuovamente. «Ma tu sbuffi sempre?» le domandò, arricciando il naso. «Ross, non mi va di parlare con te, dico sul serio,» asserì la ragazza, intenta a prendere il libro di matematica dalla sua cartella. «Come mai? Di solito parli molto.» Ross continuò a fissarla insistentemente, attendendo una risposta che però non arrivava. «Allora? Dai zuccherino, rispondi.» «Zuccherino? Ma di cosa ti fai? Prendi qualche droga?» Ross emise una sonora risata «di sicuro qualche droga più leggera di quelle che prendi tu.» «Ora la finisci o devi continuare a fissarmi? Mi stai infastidendo,» sbuffò. «Sbuffi ancora!? Ma tu non ti diverti proprio mai, eh?» Solo perché solitamente teniamo tutto dentro e a volte ci sembra anche che funzioni, non significa che prima o poi non scoppieremo. Tenere tutto dentro non fa mai bene, mai. Nascondiamo così tanto la nostra vera immagine, illudendoci di poter sopire quei pensieri e quelle sensazioni latenti che fanno parte della nostra personalità ma che non mostriamo, se non in casi disperati, ed è questo il problema: abbiamo tutti dentro emozioni che non mostriamo, emozioni così recondite che ci sembra non ci appartengano, ma ci appartengono. E non vorremmo mai risvegliare quei vecchi sentimenti nascosti per così tanto tempo, ma prima o poi succede. Le emozioni inespresse non moriranno mai, sono sepolte vive e un giorno usciranno fuori in un modo peggiore. È la nostra natura, e non possiamo ignorare ciò che siamo davvero. Dobbiamo scendere a patti con il nostro lato più oscuro e realizzare che ognuno di noi ne possiede uno. Dobbiamo soltanto imparare a conviverci, per quanto sia difficile farlo. Tutta quella paura che Anneka nascondeva e non mostrava, tutta la sua fragilità, le sue debolezze che a lungo aveva celato, sarebbero uscite fuori in qualche modo, sarebbe esplosa, e proprio in un giorno in cui sarebbe dovuta essere felice. E tutto ciò per colpa di qualcuno, una singola persona che non voleva che lei fosse felice. Una singola persona che voleva distruggerla. Distruggere la sua immagine, distruggere la sua anima, distruggere tutto di lei. E fino alla fine, Anneka non avrebbe saputo il perché. Ma c'era, inevitabilmente, qualcosa che univa tutti, che li accomunava in una singola vicenda che sarebbe riuscita a portare alla luce i segreti di tutti quelli che ne avevano. In fondo, abbiamo tutti un motivo. C'è sempre un motivo dietro quello che facciamo, anche le azioni che ci sembrano più sordide. Forse anche la persona che voleva fare del male ad Anneka e ad altri aveva un passato che l'aveva portata a fare ciò che avrebbe fatto. «Andiamo su, calcolami,» Ross mise il broncio. «E dimmi,» se ne uscì Anneka «perché Beverly non è venuta? Scommetto che persino lei si è scocciata di avere un fidanzato come te. Sai che guaio doverti sopportare tutti i giorni...» Ross si incupì improvvisamente e la sua voglia di scherzare se ne andò col suo sorriso. Anneka lo guardò stranita. «Sono io che mi sono stancato di lei, semmai!» tuonò. «Calma Ross, non urlare. Stavo scherzando come tu scherzi con me. Cosa ho detto di sbagliato?» «Sei troppo buona...non farci caso. Abbiamo litigato. Ma stiamo cercando di sistemare tutto. È solo colpa sua...non fa che combinare stupidaggini! Come se quello che ha fatto fosse solo una stupidaggine...» Anneka non conosceva molto bene Beverly, la fidanzata di Ross. La vedeva spesso a scuola, ma non le aveva parlato molto spesso. Sembrava una ragazza tranquilla e socievole, eppure anche Anneka l'aveva vista, qualche volta, abbastanza iraconda nei confronti di Ross e un paio di volte aveva assistito a qualche alterco tra i due. Stava succedendo qualcosa, ma preferì non chiedere altro. Era sicura che avrebbero risolto. Si chiese in che modo, però. Ross le sembrava una persona non vendicativa, piuttosto una persona dispettosa in senso infantile. Tutte le volte che le mandava stupidi bigliettini, le toccava insistentemente la spalla, o quelle poche volte in cui si sedevano vicini e lei andava all'interrogazione, ansiosa di quello che Ross stava facendo con le sue cose, sapendo che Anneka era una persona molto riservata e non voleva che nessuno le toccasse niente, nemmeno l'astuccio. Erano cose da niente, di certo non c'era cattiveria in ciò che faceva. Molto spesso proprio non sapeva cosa faceva, lo faceva e basta, solo perché gli mancava qualche rotella. Ed era sicura che di lì a poco ne avrebbe fatta un'altra delle sue. Anneka odiava Ross quasi quanto odiava Regan Wagner. Ma Regan era un'altra storia. - 16 ottobre 2014 «Auguri!» Rachel, Rosalie e Claire gridarono in coro esultanti, mentre Anneka si ritraeva nella sua sedia, imbarazzata dal fatto che fosse al centro dell'attenzione. Quel giorno il sole splendeva luminoso nel cielo, facendo rilucere ogni cosa di una prospettiva nuova. La mattina del suo sedicesimo compleanno Anneka aveva sorriso a un nuovo giorno, aveva goduto degli abbracci e gli auguri dei genitori, e aveva pensato che sarebbe stata una bella giornata, perché era contenta. Aveva chiuso gli occhi, assaporando il profumo leggero e inebriante dei fiori che crescevano rigogliosi nel modesto giardino che costeggiava la sua casa, e si era avviata a passo svelto a scuola, ansiosa di incontrare le sue tre migliori amiche. Quei giorni erano passati velocemente, e si erano svolti come si svolgevano tutti gli altri giorni. Era una continua routine, in cui ad Anneka sembrava che niente cambiasse o si rinnovasse, ma andava bene così. Perché la sua vita, anche se un po' noiosa, le piaceva. Aveva tutto ciò che voleva, e di certo non poteva chiedere altro. Avrebbe di sicuro preferito il suo niente piuttosto che il dolore. Il niente le andava bene. Il niente era neutro. Lei rimaneva costantemente nella sua zona d'ombra, guardando il mondo da una finestra, perché lei non voleva sentire. C'è chi farebbe di tutto pur di sentire qualcosa. Ma se sentire avrebbe portato al dolore o, in qualche modo, avrebbe portato conseguenze negative, lei preferiva starsene nella sua zona d'ombra e vivere in tutta tranquillità. I suoi genitori non le avevano più chiesto nulla di quella ragazza morta a luglio di quello stesso anno, ma ormai non ci faceva più caso. Molto spesso le facevano strane domande e lei si chiedeva quale fosse il loro scopo e soprattutto cosa volessero sentirsi dire, ma quel giorno tutto sembrava andare per il meglio. Almeno di mattina. «Dai Anneka! È il tuo compleanno! Oggi sei la protagonista,» Rachel la abbracciò calorosamente e Anneka godette di quell'abbraccio affettuoso, stringendo ancora più forte la sua migliore amica. «Ti voglio così bene, Rachel...» Rachel le sorrise. «Uhm,» Claire alzò la mano «guarda che esisto anche io.» Anneka sorrise e corse ad abbracciare Claire. Claire era forse la "razionale" del gruppo, la "realista" e, a questo proposito, era considerata anche la più pessimista, ma lei si difendeva definendosi una che, a differenza delle altre, sapeva "discernere la realtà che la circondava." Poi Anneka abbracciò Rosalie, che le disse «mi prometti che in questi giorni ti fai una manicure anche tu?» mettendo falsamente in mostra il broncio. «E va bene! Ma solo perché non voglio sentirti più nelle orecchie,» rise Anneka. Come sempre, erano rimaste in aula di filosofia nonostante fosse intervallo. Era una giornata da festeggiare, no? Il compleanno era qualcosa di importante. Ecco perché doveva essere celebrato, non rovinato. Sarebbe stato un peccato rovinarlo, no? «Allora, ragazze,» annunciò Anneka «alle sette stasera da me. Va bene?» «Certo che va bene,» asserì Claire «hai invitato solo noi, giusto?» «Claire,» fece Anneka, in tono ovvio «siete le mie migliori amiche. Voglio solo voi con me. È un giorno importante, voglio festeggiarlo con le persone che più amo. E poi non è una vera e propria "festa", è un'occasione per stare insieme,» sorrise, stringendosi nelle spalle. «Quindi non inviti Ross?» chiese Rachel in tono ironico. «Che domande, è il mio migliore amico! E magari invito anche quella squilibrata di Regan,» rise. «Sono sicura che ci divertiremo,» disse, dopo che le risate si furono sfumate ed era tornato il silenzio. «Sarà un compleanno indimenticabile!» Già. Un compleanno proprio indimenticabile.

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