Giù per il tubo!

di Arva
(/viewuser.php?uid=953897)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sottoterra... nel vuoto! ***
Capitolo 2: *** Scoperte dolorose ***
Capitolo 3: *** Un passo involontario, forse avanti ***
Capitolo 4: *** Torque ***
Capitolo 5: *** Un passo volontario, avanti ***
Capitolo 6: *** Un passo indietro ***
Capitolo 7: *** Coruscant, parte I ***
Capitolo 8: *** Coruscant, parte II ***
Capitolo 9: *** Coruscant, parte III ***



Capitolo 1
*** Sottoterra... nel vuoto! ***


Se attorno a sé non avesse avuto il vuoto cosmico, relativamente parlando, Torus avrebbe sentito un sonoro schianto di granito che si spezzava sotto la pressione della piccozza idraulica. Ovviamente, dato che era immerso nel vuoto cosmico, relativamente parlando, Torus poteva osservare lo stesso frammento di roccia che se ne svolazzava placidamente con la leggerezza che sono in assenza di gravità si può possedere.

Non sapeva come mai, ma c’era qualcosa di profondamente maestoso e allo stesso tempo triste che lo aveva sempre attirato negli asteroidi: forse era il fatto che se ne stessero lì nel loro bel campo gravitazionale di qualcun altro, immobili e allo stesso tempo estremamente veloci nello spazio più o meno profondo. Si alternavano gli imperi, passavano decine di migliaia di astronavi l’anno, venivano combattute guerre che lasciavano sfregiati decine di pianeti e loro niente: c’erano sempre stati e ci sarebbero stati fino a che la Galassia non sarebbe implosa su sé stessa o chissà quale altra teoria bislacca con cui se ne erano usciti gli uomini di scienza nel corso della storia.

 

Inoltre, Torus adorava la sensazione dell’assenza di gravità, il fatto che in certi momenti potesse sentirsi completamente sganciato da terra e libero di andare dove voleva, anche lassù da quei silenziosi, anziani e serafici osservatori dello spazio, magari per capire cosa si dicevano nel corso dei secoli o vedere se effettivamente c’era della saggezza nelle loro sale silenziose e deserte.

Pur essendo un uomo di scienza a sua volta, benché a modo proprio, e una creatura di montagna, capiva che ogni tanto arrivava il momento di cambiare aria e adoperarsi per avere una prospettiva diversa sulla vita. C’era chi si faceva un giro per le foreste di Kashyyyyk in cerca di creature pelose e di Wookiee con cui giocare a dejarik e puntualmente lasciare vincere; c’era chi si dava al gioco d’azzardo nei vari casinos sparsi per la Galassia; chi ancora coltivava ogni sorta di piante, che fossero spezia o meno poco importava; lui preferiva prendere armatura, jetpack, attrezzi da scalata e nave per dare calci sempre più forti e violenti alla propria claustrofobia.

I vantaggi collegati erano gli inevitabili panorami mozzafiato che aveva visto da quando aveva cominciato, alcuni anni prima, e una discreta collezione di materiali da lavoro più o meno rari che se avesse cercato nel libero mercato o, peggio, su quello nero avrebbe pagato ben più delle tasse di trasporto mandaloriane.

Erano comunque un furto, ma sempre meglio quelle che pagare la chirurgia estetica alle concubine dei Cartelli Hutt: da bravo figlio di Manda’yaim disprezzava loro e tutto ciò che toccavano.

 

Il che riconduceva al motivo per cui aveva appena acceso un bastoncino luminoso e lo aveva lasciato a fluttuare a mezz’aria, gettando la sua flebile luce verdastra come una secchiata d’acqua su pareti che si estendevano in ogni direzione per decine di metri.
Nel proprio lavoro aveva fin troppo a che fare con il mondo della malavita: andare in giro per asteroidi era l’unico modo che aveva per disintossicarsi dalla feccia con cui trattava comunemente. Gli altri due erano la violenza indiscriminata, che pur essendo non illegale avrebbe avuto ripercussioni non indifferenti, e la meditazione.
E chi era, lui? Un Jedi? No, anche se l’aveva provata, molti anni prima, quando era ancora un ragazzino in cerca della propria identità, e aveva funzionato non male.
Peggio.

 

Il trillo di un indicatore nel visore riuscì nell’ardua impresa di riportarlo alla realtà: l’ossigeno rimasto aveva da poco passato le quattro ore, se voleva tornare nelle sue amate montagne vivo e non come una cometa doveva darsi una mossa. Anche perché, piccolo dettaglio spaziografico, non serviva una laurea in Astrografia presso l’università di Alderaan per ricordare che gli asteroidi di Vergesso erano leggermente distanti dal sistema di Mandalore.
Si trovava in una sorta di sala naturale, una caverna che doveva essere alta almeno una dozzina di metri nel punto più basso per poi perdersi nel nulla mano a mano che il soffitto saliva, ben oltre la portata di un misero bastoncino luminoso, e si estendeva in lunghezza per almeno altrettanto col pavimento liscio quasi quanto la pelle di un gungan appena uscito dall’uovo.
Se il raggio di illuminazione di quel triste ritrovato della chimica pre-iperspazio era di appena dodici, forse tredici metri, stava fresco: non riusciva a vedere la fine della caverna in alcuna direzione.

 

Altro che quattro ore di riserva d’aria, lì doveva tornarci con la Radiant! E, se ciò che aveva visto fino a quel momento era anche solo lontanamente veritiero, correva quasi il rischio che il suo caccia ci entrasse, in quella sala.
Non azzardava a sperare che fosse anche in grado di uscirne, non con lo scafo in un pezzo unico quantomeno: in genere quando si concedeva quel lusso, qualcuno di quei burloni dei Mand’alor’e del passato si divertiva a tirargli uno scherzo come un frammento di roccia a velocità terminale che gli trapassava la tanica del carburante o un improvviso quanto convenientemente bastardo aumento del campo magnetico locale che non solo friggeva l’astromech di bordo, ma anche la macchina del caff.

Che, miseria sacerrima, era anche nuova!

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Scoperte dolorose ***


Con la febbrile alacrità di un bambino che ha appena provato un tuffo dal quarto trampolino e muore dalla voglia di ripeterlo, Torus premette un pulsante sul bracciale destro dell’armatura, un gesto normalmente preciso e netto reso una sorta di cenno imperioso di una qualche divinità del passato per via dell’assenza di gravità, e nell’angolo in basso a destra del visore comparve l’icona azzurrina di un disco satellitare.
La suite integrata nell’elmo stava iniziando le routine di scansione locale: tristi ritrovati della chimica pre-iperspazio o meno, avrebbe capito almeno cosa contenevano le pareti rocciose intanto che con una lieve stretta del pugno destro partiva l’impulso per avviare la visione notturna.

 

Non erano passati nemmeno quattro secondi che sentì una forte scarica elettrica lungo la spina dorsale, seguita dal dolore lancinante delle terminazioni nervose sottoposte a variazioni di corrente molto superiori a ciò cui si erano abituate: per quei pochi istanti, ora improvvisamente dilatati in ognuno una piccola eternità, tutto il suo corpo parve come bloccarsi, uscire dal flusso del tempo mentre la schiena, il braccio destro e la base del collo esplodevano di dolore come se fossero stati direttamente collegati a una presa di energia astronavale fino quasi a fargli perdere conoscenza.
Quando terminò, Torus si accorse di essere zuppo di sudore anche dentro la tuta sigillata che indossava sotto l’armatura e che le aree colpite dall’improvvisa scarica si erano contratte al punto da rendergli impossibile o quasi il rilassarle. Il suo respiro affannato rimbombava negli stretti confini dell’elmo come se fosse sotto i motori di un caccia Cloakshape. Era sporco, irregolare e perdeva saliva dalle labbra che a stento riuscivano a chiudersi, per non parlare del cranio.

 

Gli pareva di essere sotto un bombardamento orbitale, col cervello che nonostante la zero gi rimbalzava da un lato all’altro della scatola cranica come se fosse stato sotto effetto di spezie allucinogene.
Fortuna che l’elmo era sigillato e che, probabilmente, era solo.

 

Concatenando movimenti brevi col respiro, riuscì ad alzarsi e ad accorgersi di stare fluttuando senza peso a una buona cinquantina di centimetri da terra: nonostante i servomotori aggiuntivi dell’armatura fossero impostati per rispondere a una sollecitazione maggiore rispetto a quella di modo che si serrassero nella posizione in cui si trovavano quando succedeva, il movimento del corpo al suo interno, per quanto minimo, doveva avere interagito con qualche campo gravitazionale minore per cui l’intero complesso si era spostato.

 

“Fisica di base, Torus… fisica di base.”

 

Decise di rimanere ancora qualche istante fermo, ora in posizione più o meno eretta, i sensi estesi fino quasi allo spasmo alla ricerca della sensazione di un’altra crisi in arrivo, i peli sul collo che se fossero stati quelli di uno Wookiee avrebbero sicuramente perforato la tuta sigillata per quanto erano dritti.
Fortunatamente, il brivido pareva essere ingiustificato: nonostante alla base della spina dorsale ancora sentisse la scarica d’ansia, era quella normale.

 

“C’è mancato poco, stavolta…”

 

Non aveva idea se stava parlando con sé stesso, letteralmente coi muri o che, stava di fatto che entro pochi secondi sul comlink gli giunse il cinguettio preoccupato dell’unità R7 integrata nel suo caccia, ancorato da qualche parte un paio di entità locali da lì in direzione del Nucleo.

 

“Tranquillo, Pispolo, va più o meno tutto bene… gli impianti nuovi continuano a non collaborare: quando abbiamo finito qui, andiamo a fare un salto da Torque.”

 

Sentì l’inizio di un altro trillo, questa volta di accorata protesta da parte del piccolo ammasso di bulloni che, nonostante le dimensioni contenute, si stava dimostrando quasi più apprensivo dei suoi genitori, che i Mand’alor’e del passato li avessero in gloria.

 

“Lo so, lo so, il connettore neurale del gomito è andato a donnine allegre. Non serve un biomeccanico, per quello.”

 

Per quanto i suoni apparentemente sconnessi del droide gli sembrassero dire “Te lo avevo detto”, aveva comunque ragione. Avrebbe dovuto controllarli prima; soprattutto, non mescolare un prefabbricato con equipaggiamento personalizzato. Era il modo migliore per fare danni, come aveva appena avuto modo di vedere.

 

“Direi che abbiamo la lezione del giorno, eh, Pispolo? Diagnostica.”

 

Intanto che la parte bassa del visore veniva occupata dalle infinite linee di codice della suite integrata che sguinzagliava i propri mastini informatici per fargli rapporto sulle condizioni del suo kit, Torus decise di affiancarle un controllo alla vecchia maniera: verifica analogica.
Premendo un pulsante di emergenza sotto la spalla sinistra, i margini del visore gradualmente offuscati dal rilascio di gas pressurizzato, nell’incavo del gomito del braccio meccanico si aprì un piccolo scompartimento rivelando una serie di minuscoli cavi verdi e neri. Potere guardare l’interno di un proprio arto ancora gli faceva uno strano effetto, soprattutto dopo che abituarsi all’avere perso l’originale era qualcosa di ancora talmente lontano che non pensava sarebbe mai giunto.

 

Era abituato al sangue, ai cadaveri e alle parti di corpi sparate nelle direzioni più improbabili, era un combattente, alla fine, eppure quella particolare vista era ancora qualcosa di profondamente nuovo e strano. Non era sicuro fosse inquietante, probabilmente perché avendo estese nozioni di meccanica e ingegneria capiva più o meno perfettamente cosa facevano i singoli pezzi che vedeva, solo che la sua mente non era sicuro riuscisse ad abbracciare interamente l’idea che adesso aveva potere di plasmare quel pezzo di ferraglia in qualunque cosa volesse, da un lato. Dall’altro, che qualunque cosa ci facesse senz’altro avrebbe performato meglio dell’originale.

In un certo, crudo senso, era quasi contento che su Malastare, un paio di mesi prima, uno Zabrak gli avesse fatto collassare una fermata del treno magnetico addosso: in quel modo, si erano aperte così tante possibilità…

 

Dei cavi ora esposti, quelli neri avevano marchiati dei numeri di serie bianchi in basic, mentre quelli verdi portavano il logo MandalMotors: i primi portavano l’energia dalla cella situata nella scapola, mentre i secondi li aveva aggiunti lui perché fungessero da attivatore della suite di visione notturna nell’elmo perché oramai aveva finito gli imput di controllo incorporati.Solo in quel momento si rendeva conto della stupidità di quell’idea: l’arto era collegato direttamente alla spina dorsale, per cui qualunque cosa fosse andata storta si sarebbe ripercossa proprio lì; e, infatti, puntuale come gli esattori del fisco, nel punto in cui le due serie di cavi si intrecciavano poteva vedere che quello verde si era spostato e avvicinato troppo alla blindatura esterna dell’articolazione.
La diagnostica di sistema confermava: variazione di tensione non prevista dalle varie liste interne al codice, per cui era stata dirottata ai meccanismi di salvaguardia dell’utente. Ovviamente, non avevano funzionato, date le condizioni in cui si trovava.

 

Con un sospiro, decise di richiudere tutto e per qualche tempo lasciarlo stare, almeno fino a quando non avrebbe imparato più in quel campo da potersi costruire un arto decente secondo le sue specifiche.
Ne approfittò, quindi, per controllare il risultato della scansione della caverna che aveva avviato qualche minuto prima: caverna vagamente ovoidale, larga quasi venticinque metri nel punto di massima e alta più o meno altrettanto, formata ai due terzi da silice, ossido di alluminio e di potassio. Per i non addetti ai lavori: comune granito. Lì per lì, niente di eclatante.
Tuttavia, seguivano una sfilza di metalli più o meno rari, dal semplice chanlon alla carbonite passando per l’aurodio. Piastre corazzate e circuiti elettrici, insomma. Già di per sé era un piccolo tesoro, se non fosse stato per una lettura completamente diversa che aleggiava sul visore del mandaloriano.

 

C’era qualcosa che emetteva uno strano “blip”: tono medio, tendente al basso, con un ritorno di un paio di secondi netti. I sensori nell’elmo erano in grado di rilevare tracce energetiche e convertirle in un file audio che veniva riprodotto dalle casse interne a intermittenza direttamente proporzionale alla lunghezza d’onda dell’energia sorgente.
Doveva essere lunga, quindi, il che corrispondeva a bassa frequenza; bassa energia, ergo.
Un oggetto che emetteva poca energia? Eppure, se passava la lettura della suite da feed audio a feed video direttamente sul visore, la vastità della caverna che si illuminava di atona luce bianca della ricostruzione da parte del sistema, non vedeva niente che potesse esserne la fonte.
Stando alla sua purtroppo limitata conoscenza dell’astrofisica, era possibile che esistessero corpi celesti caricati in quel modo, anche se non gli tornavano le dimensioni: se non la vedeva doveva essere molto piccola o molto ben nascosta, il che comunque ne riduceva drasticamente le dimensioni, e per quanto ne sapeva gli unici corpi in grado di emettere energia propria erano le stelle. Lasciamo per un momento i buchi neri fuori dalla questione: se ce ne fosse stato uno nella zona lo avrebbe sicuramente saputo, così come sapeva che una stella in genere era rilevabile praticamente in ogni propria forma.

Ergo, non era qualcosa di naturale.
Gli serviva un sensore più forte, quindi… davvero doveva tornarci con la Radiant e sperare di uscirne vivo. Quanto meno quello, non necessariamente tutto d’un pezzo, ma abbastanza integro da farcela fino a Mandalore.

Data la sua fortuna...

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Un passo involontario, forse avanti ***


“Allora, Pispolo, ti sono mancato?”

 

Per tutta risposta, sullo schermo principale del cockpit comparve una breve stringa di simboli in alfabeto mandaloriano che, sì, attestavano la nostalgia della povera unità R7, che Torus era un irresponsabile per essersi fatto cogliere così alla sorpresa e non essere tornato subito alla Radiant e che, una buona volta, la smettesse di armeggiare coi controlli idraulici dell’arto meccanico perché, se non sapeva cosa stava facendo, prima o poi ci avrebbe rimesso qualcosa di più che qualche centinaio di unità elettriche lungo la spina dorsale.

 

No, Torus non aveva l’impressione di stare parlando con sua madre… assolutamente no! Mica?!

 

Tipico degli astromeccanici, immaginava: tutti quelli che aveva avuto si erano comportati bene o male in modi simili, anche se quest’ultimo veramente ci stava mettendo del proprio. D’altronde, la cosa aveva un suo senso, dopo tutto. Nello spazio cosiddetto “civilizzato”, chi era che riparava i cocci degli altri quando si parlava di mezzi, velivoli e astronavi? Loro poveri barattoli di odio e bulloni. Chi salvava gli eroi in difficoltà nelle holo-commedie? Loro poveri sacchi di risentimento e viti.
Chi spegneva incendi nei vani motore quando il reattore stava iniziando a colare radiazioni come una stella rossa e ci mancava giusto qualche pelo storto perché l’intera struttura cadesse nella spirale mortifera dell’autodistruzione? Loro poveri coacervi di acredine e circuiti.

 

No, seriamente, da quando stava diventando così melenso?

Quando pensava alla silenziosa maestà degli asteroidi qualche minuto prima, ecco la fonte della melassa… era il segno inconfondibile che aveva bisogno di tornare al lavoro: tornare al tu per tu con quel segnale misterioso, con la sua forgia, col metallo e gli attrezzi! Con la mole titanica di commesse che doveva evadere!
A pensarci un attimo, forse di quella non aveva un bisogno così viscerale, anche se gli pagavano le bollette…

 

“Coomunque!”

 

Ogni tanto lanciare avverbi a caso aveva una funzione quasi taumaturgica: gli faceva recuperare il focus, come il frontman di una band quando chiude la mano per zittire tutti e all’improvviso la platea si trova dall’allegra caciara dell’heavy isotope immersa nel silenzio più totale e servono quei pochi secondi per abituarsi alla nuova condizione.
 

Dopo così tanto tempo passato nel vuoto dello spazio, ritornare alla normale attrazione gravitazionale, banalmente al distinguere nuovamente il concetto di “alto” da quello di “basso”, era già di per sé un bagno nella realtà: ogni tanto faceva comodo.
Quando era rientrato, la prima cosa che aveva fatto era stata togliersi l’elmo: poche cose erano meglio dell’aria pura di montagna e il generatore di atmosfera della Radiant, pur non essendo all’altezza di Madre Natura, era comunque un degnissimo sostituto della riserva di ossigeno dell’armatura, che definire stantio era davvero riduttivo. Sì, l’ossigeno poteva essere stantio, con buona pace di chi non era uno “spacer” come lui e non aveva quasi piantato radici nel vuoto, per quanto ossimorica potesse sembrare quella metafora.

 

Una volta confrontate le letture della suite nell’elmo con quelle dei sensori perimetrali del caccia, meno potenti ma sicuramente più veloci dello scanner principale, che invece avrebbe avuto bisogno di tempo per dare il proprio massimo, aveva scoperto che, sì, quell’asteroide emettere uno strano segnale che non appariva essere originato dal granito o da altri corpi celesti nelle vicinanze. Ergo, era lì dentro e, soprattutto, non era naturale.
Per sapere cosa era, avrebbe dovuto aspettare che il, peraltro limitato, mainframe del caccia finisse tutte le lunghe preparazioni, il che gli avrebbe dato tempo di sbrigare un’altra faccenda urgente.

Non che avesse bisogno di R7 che glielo ricordasse ogni mezzo secondo tramite lo schermo sul cockpit come una ex ossessiva…

 

“Sì, lo so, Pispolo, adesso ci butto un occhio… datti una calmata, una buona volta!”

 

Accompagnato dal sommesso ronzio del bancale CPU della nave che compiva i propri miracoli informatici, Torus estrasse da sotto il sedile una valigetta rossa di plastoidi con un ingranaggio bianco dipinto sulla custodia e ne prese un piccolo svitatore idraulico assieme a una piccola siringa dal contenuto bluastro.
Distese il braccoi meccanico sul bracciolo del sedile da pilota intanto che un piccolo proiettore olografico incastonato nel cruscotto all’altezza dei suoi zigomi riproduceva una schematica approssimativa della sezione dell’arto indicandogli dove, in teoria, avrebbe dovuto cercare le viti per rimuovere le placche corazzate ed esporre i meccanismi interni.

 

Il giovane mandaloriano sorrise dentro di sé, da qualche parte: anche se era burbero come pochi, Pispolo ci provava a preoccuparsi per lui, nei limiti della propria programmazione… se non ci avesse capito di macchine, avrebbe trovato la cosa tenera, anche se comunque la simpatia della situazione non gli sfuggiva.
Purtroppo, lo schema non era aggiornato al modello specifico e quindi dovette andare più a memoria muscolare, o a memoria di arto fantasma, per trovare le varie viti e, con qualche cigolio qui e là dovuto all’esposizione alle forze siderali, rimuovere le placche corazzate che formavano la blindatura esterna del suo braccio meccanico.

 

E lì arrivava la parte critica: esporre l’”osso”. Quando lo aveva fatto tramite l’interruttore di emergenza sotto la spalla, sapeva che da qualche parte circa all’attaccatura dell’omero, dove si trovava il cuscinetto-padre che fungeva sia da giunzione col castone collegato alla spina dorsale che da “scatola degli attrezzi” un dispenser di antidolorifici aveva iniettato una dose direttamente nel suo sistema nervoso facendo sì che non sentisse dolore mentre, a rigore di logica, un pezzo del suo braccio veniva letteralmente aperto ed esposto alle radiazioni cosmiche.

Pur non facendo nemmeno lontanamente male come un’operazione chirurgica a muscolo aperto come era successo a un suo conoscente Jedi svariati anni prima, prima che morisse seppellito dai rottami di un edificio crollato durante un’emergenza terremoto su Ord Mantell, era comunque un processo estremamente doloroso e per un mezzo istante Torus si trovò quasi a schiantarsi la siringa in ciò che rimaneva di organico nella spalla destra.

 

Per il rotto della cuffia riuscì a trattenersi, sebbene un istinto gli dicesse di rilassare i muscoli nel braccio sinistro e lasciargli fare il suo lavoro; eppure, un’altra vocina, una più a valle, più in profondità, gli faceva notare come se avesse permesso a quell’ago di riversargli il proprio contenuto nel sangue sarebbe stato l’inizio di una fine di cui non aveva idea.
Non capiva come fosse successo, così all’improvviso, però era vero: negli ultimi tempi, intanto che il suo corpo si abituava alla presenza esterna, aveva dovuto prendere numerose medicine.

In prevalenza, antidolorifici per le frequenti fitte che le varie crisi di rigetto gli facevano scorrere lungo tutto il corpo, a volte come semplici graffi, altre come vere e proprie emicranie che gli impedivano di fare qualunque cosa non fosse vegetare sulla poltrona.

 

Ecco, quello forse era l’unico aspetto che odiava della sua nuova condizione… e lo odiava tanto, con tale intensità che a volte si sorprendeva quasi da solo: dipendere dalle medicine lo faceva sentire uno storpio, inutile, un peso per la comunità che, se avesse avuto, lo avrebbe giudicato solo uno spreco di risorse. C’erano periodi in cui non riusciva a essere produttivo, a contribuire.
Contribuire a cosa? Viveva da solo, immerso nei covi della malavita fino alle narici, non conosceva nessuno per cui valesse la pena combattere come un vero Mando’, qualcuno per cui mettere in atto le Sei Leggi, i Resol’Nare, avesse senso, eppure dentro di sé sentiva ogni volta montare la rabbia della bestia in catene, dello schiavo contro il proprio padrone.

 

Aveva da poco riscoperto la sua ascendenza mandaloriana e sapeva che un Mando’ non poteva essere ridotto in schiavitù perché era come il vento, ineffabile, libero e mortale allo stesso tempo.
Anche se non era scritto nei Resol’nare, strinse i denti e con uno sforzo di volontà che lì sul momento non pensava di essere in grado di compiere abbassò la mano e lasciò la siringa su un ripiano laterale della carlinga. Decise di non dare retta ai pigolii preoccupati di R7 intanto che mentalmente passava in rassegna mantra per rilassare il corpo e rinforzare la mente, formule e frammenti di saghe tratti dalla mitologia mandaloriana il cui contenuto, però, stava iniziando a ricordargli pericolosamente altri rituali, che pensava di avere dimenticato da tempo.

 

Parlavano di come, al momento della morte, l’anima di un guerriero mandaloriano si lasciasse dietro il proprio cadavere martoriato dalla battaglia e si unisse al Manda, l’Anima Suprema, una coscienza collettiva di cui tutti coloro che avevano avuto una morte onorevole facevano parte a aiutavano i vivi ad andare avanti nelle proprie lotte quotidiane.
Parlavano di come non dovesse avere paura del dolore: se lo provava, era segno che era ancora vivo e se era vivo allora poteva ancora combattere. E se poteva combattere, poteva ancora dimostrare il proprio valore.

 

Erano passati anni da quando si era avvicinato a pensieri del genere, ed era finita male, eppure in quel momento non gli sembrava un’idea così negativa.
Prima che la potesse cambiare, quindi, prese un altro utensile, una chiave idraulica per separare le piastre più sottili ed esporre il gel osmotico interno all’arto, e con un gesto deciso della mano sinistra aprì il comparto.

 

Non ebbe il tempo materiale di stringere i denti che di nuovo l’interezza del suo sistema nervoso venne squassata da scariche elettriche, la spina dorsale gli venne come immersa in un mare di lava bollente mentre a stento riusciva a tenere sotto controllo gli spasmi involontari sia dell’arto meccanico che di quello sano.
Oh, ma non si sarebbe fatto spezzare, quella volta. Non avrebbe permesso a una condizione casuale di ridurlo all’impotenza e alla mercé di qualche ritrovato della scienza moderna per anime deboli, inferiori; non si sarebbe abbassato al livello di un dar’manda, un non Mandaloriano.

 

Il suo posto era lì, con la sua gente, e se c’era una cosa che il suo popolo sapeva fare era resistere. Resistere al dolore, alle avversità della vita, a ferite che avrebbero spezzate esseri minori, ma soprattutto resistere alla propria debolezza interiore.
Un Mandaloriano spingeva i propri limiti sempre oltre, era una delle caratteristiche che li distinguevano dal resto della Galassia, ciò che li aveva resi grandi: avevano la pelle dura e si allenavano perché lo fosse sempre di più.
Gli parve di sentire una voce, in lontananza, che a malapena riusciva ad affiorare fra le onde del dolore in piena. Sebbene i sensi di Torus fossero sovraccarichi e riuscire a distinguere i suoni dell’abitacolo del caccia da quelli indotti dal suo sistema nervoso oramai prossimo al corto circuito, aveva l’impressione di riconoscere la voce, o almeno ciò che stava dicendo.

La sentiva cantare.
Sul momento non riusciva a capire se fosse maschile o femminile, né era sicuro di riconoscere le singole parole, ma istintivamente afferrava il senso di ciò che diceva. Cantava del Manda e di come i suoi antenati lo stessero guardando e allo stesso tempo vegliassero su di lui per dargli la forza per battere i suoi nemici, di come il suo clan sarebbe stato fiero di lui se avesse superato anche quell’ostacolo, sebbene sentisse bruciare il fatto che il proprio “clan” non lo aveva mai conosciuto.
Portava un cognome, ma per lui era sempre stato un secondo nome privo di valore. Aveva avuto un clan molto diverso, prima di ritornare su Mandalore, all’alba dei ventidue anni, ed entrare in contatto con altri sbandati come lui.

 

Normalmente avrebbe cercato di pensare ad altro, eppure quella volta il fatto che il flusso della sua coscienza paralizzata dal dolore seguisse quelle correnti, correnti che cercava di evitare da quelli che stavano diventando anni, aveva bisogno di tutte le risorse che riusciva a ottenere se voleva arrivare a vedere il successivo quarto d’ora senza accasciarsi come un rottame fra i braccioli del sedile da pilota.
Andava bene tutto, anche quello.

 

La voce gradualmente aveva cambiato sfumatura: come era sicuro che cantasse della cultura mandaloriana, via via che andava avanti Torus percepiva riferimenti sempre meno nascosti a ciò che era stato prima e col passare dei secondi sentiva il blocco de muscoli farsi meno convinto… insieme a un progressivo acuirsi dei suoi sensi.
Non solo il dolore sembrava farsi lentamente in disparte, ma piano a piano riusciva quasi a distinguere i singoli componenti della canzone per poi realizzare, entrambi i pugni contratti dagli spasmi che si rilassavano contemporaneamente, che non era affatto una voce che cantava.

 

Era il vento che soffiava fra le fronde delle foreste di veshok, lo scorrere dell’acqua fra le rocce dei ruscelli e lo zampettare dei vhe’viin’e nel sottobosco.
Gli era successo moltissime altre volte, prima di perdere il braccio destro, poi quando si era svegliato fra le lamiere e i cavi spezzati dell’oramai distrutta fermata del treno magnetico nella periferia della capitale malasteriana era tutto smesso. All’inizio si era sentito tagliato fuori dall’intero universo, come se fosse diventato improvvisamente cieco, sordo e muto, poi con molta calma era riuscito ad abituarsi all’improvviso silenzio sia intorno che dentro di sé.

 

Sentire di nuovo la propria terra natale, quindi, poteva significare una cosa sola.


Era tornato a percepire Kot.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Torque ***


Torus era confuso.

Se ridiceva la stessa frase con la voce fonda e lenta di un presentatore di documentari sulla fauna del suo pianeta natale, poteva quasi sembrare l’esordio di un holo-cartone, eppure non lo era per niente.

Si trovava sprofondato nel sedile del pilota, con un parallelepipedo di metallo largo non più di trenta centimetri e alto forse nemmeno una decina che ricordava una custodia per mirini telescopici; ne aveva fatte svariate negli ultimi anni, anche se non ne aveva mai vista una interamente di metallo. Gli spigoli erano arrotondati sebbene gli fosse impossibile capire gli strumenti che avevano prodotto quell’oggetto perché era completamente liscio: nessun segno di saldatura, niente marchi di una fresa o scanalature di punzoni, niente di niente.

Di norma si preferiva usare materiali plastici, che al massimo si deformavano senza ustionare qualunque cosa toccassero durante le operazioni in luoghi molto caldi. Gli era successo un paio di volte di trovarsi in ambienti simili, una volta Sullust e l’altra Tatooine, e ricordava che tutto ciò che aveva di metallico a contatto con la pelle gli aveva lasciato delle piaghe che, letteralmente, “lèvati”.

Era giovane e ignorante, ai tempi, d’altronde, e presto aveva imparato a non commettere quell’errore.

 

Ricordava di avere visto alcune spade laser Jedi contenute in custodie simili, ma molto spesso erano decorate lungo il coperchio o gli spigoli; questa no, era liscia, priva di qualsivoglia ornamento che non fosse un piccolissimo simbolo a forma di stella a quattro punte sul tirante del lucchetto.

A giudicare dal colore chiaro, doveva essere elettro, anche se in quel momento non aveva gli strumenti necessari per eseguire un’analisi metallometrica; avrebbe dovuto accontentarsi di ciò che gli dicevano gli occhi. Decise, quindi, di aprire la piccola scatola, il sussurro degli alberi veshok come costante compagno da quando l’aveva recuperata, incastonata nella parete della caverna che aveva visitato prima.

 

Tirò il piccolo tacchetto metallico con la stella sopra e, accompagnato dal sibilo di pistoni nascosti da qualche parte lungo il corpo del contenitore, venne ricompensato da una visione che non fece altro che accrescere la sua confusione.
Adagiato su un’imbottitura di velluto blu scuro, un frammento di quella che a una prima osservazione gli parve semplice ossidiana dalla forma vagamente di losanga, che però, se esposta all’arcigna luce blu della carlinga, restituiva lievi bagliori violacei che correvano lungo tutta la sua lunghezza. Concentrandosi un momento sull’oggetto, si accorse di due che sul momento non aveva notato.
Se il frammento gli era all’inizio sembrato perfettamente nero e liscio, puntandoci contro la torcia innestata nell’elmo in realtà era coperto da una miriade di scalfitture, graffi e altri segni probabilmente del tempo, dai quali periodicamente emergeva fiochissima luce viola quando la luce elettrica li abbandonava.
Il rumore del sottobosco mandaloriano si intensificava quando osservava l’oggetto, per affievolirsi quando, invece, spostava lo sguardo.

 

“Osiik…”Vedi Note a fondo pagina

 

Con una goccia di sudore freddo grande quanto un proiettile anticarro che gli scorreva lungo la schiena, decise di chiudere la scatola e tornare a casa: aveva un sospetto del motivo per cui, da un lato, quando aveva divelto il contenitore dalla roccia il segnale aveva smesso di comparire sugli scanner e, dall’altro, perché Kot avesse deciso di fargli visita di nuovo proprio quel giorno.
Quando si trattava di avere sospetti o fidarsi della propria sensazione di pancia, Torus raramente sbagliava, inutile dire che quella volta sperava con tutto il cuore di avere preso un proverbiale granchio: se aveva ragione, stava ripetersi un ciclo dal quale voleva stare il più lontano possibile.

 

Intanto che accendeva i motori, impostava nel navi-computer la rotta per Manda’yaim e incaricava R7 di smettere di preoccuparsi e caricare l’iperguida, tuttavia, sentiva un pensiero infiltrarsi nella sua mente dalla porta di servizio o dal montacarichi per il pranzo.
E se, tramite quello stesso Kot, avesse potuto avvicinarsi di più al Manda?
Provvide subito a sopprimerlo, quasi spaventato dalle conseguenze che avrebbe potuto avere: Kot e Manda erano stati separati da che i Taung avevano conquistato Mandalore, sostanzialmente da quando il Manda era nato, e fino a quel momento la politica era stata di convivenza, sebbene non sempre pacifica. Se così era, c’erano ragioni perché rimanesse in quel modo.
Le due cose non dovevano mescolarsi.

 

§ ° §

 

“Tranquillo, Tor’ika, andrà tutto bene.”

 

L’unica risposta fu uno sbuffo disilluso.

 

“Oh, andiamo, non fare quella faccia, ché poi ti vengono le rughe.”

 

Torus dovette trattenersi dal non scoppiare a ridere, se voleva continuare la pantomima. D’altronde, trovarsi sdraiato su un “tavolo chirurgico” che altro non era se non una lastra di duracciaio sterilizzato recuperata dal fianco di un corazzato, sterilizzata e dotata di supporti per contenere droidi riottosi era una situazione di per sé quanto meno interessante.
China su quello che, se avesse ancora avuto il proprio braccio originale, sarebbe stato il midollo osseo opportunamente privato di tutte le varie piastre protettive e adagiato su un supporto esterno al “tavolo”, la figura minuta ma densa di muscoli di una ragazza in una tuta da meccanico, dalla folta chioma di capelli blu quasi fluo brandiva con nonchalance una torcia a microfusione per circuiti e, da dietro un paio di occhiali scuri spessi quanto il torace del mandaloriano, tracciava nuove linee di calibrazione lungo i cavi verdi dopo avere sostituito quelli neri con un’altra matassa rossa brillante.
A confronto con il resto dell’officina, immersa nella più nera oscurità, l’arto metallico smontato era letteralmente inondato dalla luce bluastra di un faro alogeno orientato direttamente sul groviglio di cavi come una gigante blu immersa nel vuoto cosmico: Torus a malapena riusciva a vedere di avere indosso solo i pantaloni della tuta da volo.

 

Torquoise Dala, per gli amici Torque o Dal’ika, era una persona che definire “tutta d’un pezzo” era un eufemismo: un passato da pilota di mezzi pesanti in almeno una ventina di conflitti armati sparsi per tutta la Galassia, si era guadagnata il proprio senso dell’umorismo sornione, il fisico muscoloso e attraente e una buona dozzina di cicatrici come una donna mandalariana modello.
Col sangue dei propri nemici, la testardaggine e la preparazione. Si erano conosciuti alcuni anni prima, quando Torus aveva da poco fatto ritorno su Mandalore e lei ancora combatteva attivamente: il loro primo incontro era avvenuto durante una riunione di clan all’Oyu’baat, la cantina in Keldabe City che fungeva da centro di potere informale del sistema di Mandalore, quando, durante una rissa, si erano trovati schiena contro schiena a scambiare pugni e calci con un gruppo di avventori ubriachi.
Lo scontro si era protratto per svariati minuti, cosa frequente da quelle parti, e Torus, ancora debilitato dai molti traumi subiti negli ultimi mesi, era stato trascinato via da Torque fino all’insediamento più vicino del suo clan quando una bottiglia di metallo lo aveva colpito alla tempia facendogli perdere i sensi.

 

Da allora, essendo sia molto simili per interessi ma molto diversi per carattere, avevano legato e molto spesso avevano preso contratti e taglie insieme, arrivando a un livello di intesa quasi istintivo; da lì, l’apertura dell’officina insieme fu solo una questione di tempo.
Torque prese l’iniziativa, volendo fare una pausa dalla vita senza certezze della mercenaria e mettere a frutto la propria conoscenza estesa di motori e meccanica, mentre Torus decise di aggregarsi come armaiolo perché stava passando un periodo in cui aveva un estremo bisogno di vicinanza da un lato e di qualcosa di concreto da fare che lo aiutasse a smettere di pensare a ciò che era stato e farsi un’identità nuova.

Il resto era storia: si fidavano ciecamente l’uno dell’altra.

 

“Non sei tu quella con una torcia calda dentro un braccio.”

 

Lei sorrise sotto la maschera.

 

“Non sono io quella che si è fatta tirare in testa una stazione del trono magnetico, Tor’ika.”

 

“Punto tuo.”

 

Scambi come quello, che fra persone che non si conoscevano potevano tranquillamente risultare in un duello d’onore, fra di loro erano normali e Torus oramai aveva smesso di offendersi per poi iniziare ad apprezzarli.
Dato che la sessione prometteva di essere ancora lunga, quindi, decise di rilassarsi chiudere gli occhi e approfittare del momento di manutenzione per riposarsi: ne aveva bisogno e la presenza di Torque certamente aiutava.

 

“Dal’ika, hai sentito le notizie?”

 

Lei annuì lentamente intanto che da un cassetto dell’enorme rastrelliera di attrezzi estraeva un paio di pinze minuscole per spostare un cavo di modo che fosse più facile innestare le guide nel lato interno dell’avambraccio.

 

“C’è fermento, c’è puzza di guerra nell’aria: pare che i radicali abbiano costituito un movimento nuovo.”

 

“La Guardia della Morte?”

 

Torque annuì nuovamente e Torus sentì un altro brivido corrergli lungo la schiena. C’erano state tensioni ideologiche sul ruolo che i mandaloriani avrebbero dovuto assumere nel grande scacchiere galattico e gli estremisti, spesso collegati a clan guerrafondai e cultori delle “vecchie tradizioni” della loro cultura, propugnavano posizioni sempre più intransigenti e pericolose come scatenare nuovamente una crociata delle dimensioni delle Guerre Mandaloriane ora che la Repubblica era poco più che un erbivoro assopito nel pisolino della digestione.

 

“Cosa dice il mand’alor?”

 

“Mereel dice che non vuole permettere che succeda una cosa del genere, ma oramai sanno tutti che si combatterà. Magari non subito, magari non oggi, ma forse domani, dopodomani, chi lo sa.”

 

“Quindi dovremo scegliere una parte, prima o poi: i Resol’nare parlano chiaro.”

 

Mando’a bal mand’alor, diceva la filastrocca, “La lingua e il signore”: parlare il mando’a e rispondere sempre alla chiamata del Signore Supremo erano due degli obblighi più famosi per ogni mandaloriano che si volesse definire tale.

 

“Prima o poi, sì, ma spero il più tardi possibile. L’unica cosa di cui abbiamo bisogno adesso è una guerra civile.”

 

Torus sorrise malinconico mentre cercava di trovare la forza per raccontarle il vero motivo per cui era sdraiato sul suo tavolo chirurgico a farsi rimestare le interiora in tranquillità: era difficile più perché temeva le conseguenze di ciò che stava per raccontare più che della reazione dell’amica. Non ricordava di avere provato paure simili da molto tempo.

 

“E’ tornato.”

 

“Come? Chi?”

 

Il mercenario non aprì gli occhi intanto che sentiva Torque fermarsi.

 

“Kot. E’ tornato.”

 

La ragazza si tolse lentamente gli occhiali, lanciandogli sguardi a metà fra il preoccupato e il diffidente; Torus non poteva biasimarla: si trovava nella stessa situazione in prima persona, a non credere a ciò che stava succedendo e contemporaneamente essere spinto dall’istinto a comportarsi come il cacciatore che fronteggia un predatore vero: coltello alla mano, in cauti e ampi movimenti circolari prima di scattare e affondare la lama in un colpo solo.

Peccato che un esempio così nobile fosse sprecato per lui, in quel momento.

“Come sarebbe ‘è tornato’? Dall’incidente hai smesso di botto di sentirlo, come fa a essere tornato, così, all’improvviso?”

 

“Non lo so, Dal’ika… non ne ho la più pallida idea. So solo che fino a prendere quella scatola me ne stavo più o meno tranquillo, poi la trovo, tempo di tirarla a bordo e aprirla ed ecco che si aprono le dighe dell’inferno.”

 

“Quindi pensi che siano collegati, i due eventi?”

 

Torus fece per stringersi nelle spalle, sebbene l’arto semi inutilizzabile non glielo permettesse.

 

“Hai idee migliori? Me lo sento: la sensazione andava e veniva in base a quanto attentamente guardavo il frammento dentro il contenitore. Se non sono collegati quelli, non so cosa lo sia.”

 

Fu lì che arrivò la domanda che meno di tutte si era aspettato, anche se era una delle prove lampanti per cui in quel momento aveva così tanto bisogno della vicinanza di Torque.

 

“Hai paura?”

 

“Ricordi in che stato ero quando ci siamo conosciuti. Se c’è qualcosa che temo, è quello.”

 

Torque non disse niente, ma il mercenario sentì la propria inquietudine iniziare a sciogliersi sotto l’abbraccio caldo e sudato della ragazza, che gli cinse il collo con le braccia stringendo con forza tale quasi da soffocarlo; si tolse la maschera per posare la fronte sulla sua, gli occhi verdi di lei dritti in quelli castani, ora aperti di Torus.
Dal’ika sorrideva, il volto che improvvisamente assumeva un’aria molto più marcatamente più femminile del solito, e Torus sentiva di non volere altro che quel momento non finisse mai.

 

“Non sei solo, Tor’ika. Ci siamo guardati vicendevolmente le spalle quando eravamo sul campo di battaglia, non ho intenzione di smettere adesso che la Forza o chi per essa è tornata a farti visita.”

 

Solo in quel momento, Torus iniziava a capire cosa significasse avere un clan che combattesse per lui e, soprattutto, un clan per cui lottare fino a che le stelle non si sarebbero spente.

 

Note a pie' di pagina

Osiik: “merda” in mando’a

Tor’ika: diminutivo affettuoso di Torus in mando’a. Quando ci si rivolge a qualcuno che si conosce bene, spesso si prende la prima sillaba del suo nome e ci si associa la desinenza “‘ika”.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Un passo volontario, avanti ***


Entrambi sentirono un lieve rumore provenire dall’entrata del laboratorio, il sibilo idraulico dello scorrere di una porta lungo la propria guida seguito da due serie tranquille di passi.
Nell’arco di nemmeno mezzo secondo, Torque aveva estratto un blaster tascabile da chissà quale piega nello spazio-tempo della sua tuta da meccanico e lo aveva puntato contro l’entrata senza quasi nemmeno accorgersi di avere appena compiuto il gesto, al punto che quando si voltò per vedere l’origine del suono dovette concentrarsi per nascondere l’espressione di sorpresa.

 

Torus, dal canto suo, ebbe qualche istante in più mentre la ragazza si scioglieva dall’abbraccio per osservare la scena: conosceva quel blaster molto bene. Come un padre conosce i propri figli.
Ne aveva ispessito la canna perché reggesse meglio le temperature estreme che la nuova unità di combustione del gas all’interno del castello dell’arma generava una volta che prendeva il tibanna per sparare, poi aveva cambiato il legno sintetico dell’impugnatura con una gomma isolante che aveva sentito dire fosse usata dai tecnici astronavali durante le operazioni in prossimità di fonti di calore come reattori in raffreddamento e bocche di turbolaser. Ed era solamente l’inizio…

 

“Fermi! Un altro passo e vi assicuro che non avrete più un collo su cui appoggiare la testa!”

 

Fosse stato nelle due figure che erano appena entrate, l’armaiolo avrebbe dato retta a Torque: da autore della pistola che aveva in mano, sapeva che era tranquillamente in grado di aprire un buco cilindrico di quattro centimetri nella portiera di uno sprinter.
Cosa facesse al tessuto organico aveva preferito lasciarlo all’immaginazione: per una questione di ethos professionale lo aveva testato e se lo ricordava ancora.
Uno dei due nuovi arrivati, infatti, era un umano molto alto, a occhio quasi due metri, di corporatura allenata, con le mani alzate in segno pacifico che indossava il mantello scuro con sotto la tunica bianca dei Jedi.

 

Ciò di cui Torus avrebbe voluto essere sorpreso ma che, alla fine della fiera, a quel punto non poteva che lasciargli un fastidioso senso di rassegnazione, fu il volto dell’uomo.
Affilato, segnato da barba folta e castana che partiva dalle basette e formava un unico coi baffi e, soprattutto, capelli scuri lunghi fino alle spalle tenuti sulla nuca da quella che sapeva essere una corta coda.

L’altro, un togruta probabilmente maschio dai colori accesi, alto quasi due teste di meno e visibilmente meno imponente, indossava gli stessi vestiti ma cercava di nascondersi dietro la figura di quello che era palesemente il maestro. Il fascino guerriero di Torque colpiva ancora.

 

“Signorina, le assicuro che non abbiamo alcuna intenzione ostile.”

 

Fu il turno di Torus di alzarsi, posare una mano sul blaster che la compagna stava puntando contro ai due Jedi, al cui gli venne risposto con un metaforico dito medio perché lei non aveva la benché minima intenzione di abbassare l’arma, e rivolgere ai nuovi arrivati lo sguardo più acido e carico di rancore che poteva mettere insieme.
Decisamente non era il momento.

 

“Allora potresti dirmi che ci fai qui, in casa mia, Qui-Gon. Ti assicuro che quel blaster in mano a questa pistolera è più che in grado di aprire un buco nella parete dopo che vi ha fuso l’osso del collo.”

 

“Avete venti secondi a partire da adesso.”

 

Sì, se finiva male… se avesse potuto, Torus si farebbe fatto uscire di corpo l’irritazione e il fastidio a testate contro la fornace, da quanto voleva essere altrove e in sacra pace. Ma no, Kot voleva avere l’ultima risata prima di lasciarlo del tutto al suo destino, perché non si era abbastanza divertita alle sue spalle prima.
Forse davvero valeva la pena di lasciare che Torque sparasse ai due Jedi: in fondo, l’atto di aggressione lo avevano commesso loro infiltrandosi per primi in territorio Mando’, potevano camuffarlo come legittima difesa.

Qui-Gon, di conto suo, non aveva smesso nemmeno mezzo secondo di tenere il proprio sorrisetto compiaciuto da persona che ne sa una più di tutti e aveva alzato le mani di qualche centimetro. In tutto ciò, iniziava ad aspettarsi di sentire l’odore della pipì del padawan da un momento all’altro.

 

“Posso sedermi? Temo ci vorrà ben più di venti secondi per spiegare tutto.”

 

Torus non aveva interesse di rispondere, per cui fu quasi sollevato quando sentì il ringhio di diniego della compagna.

 

“No.”

 

Qui-Gon non si scompose.
Nemmeno i due mandaloriani. Non che ne avessero motivo, anche se a quel punto si entrava nel reame delle possibilità per quanto riguardava il bersaglio di detta scomposizione.

 

“Immagino, Calas, che tu abbia raccolto di recente un artefatto da un meteorite. Vado errato?”

 

Torus fu colto da un moto di stizza al sentire pronunciare un nome di una delle sue vittime, effettivamente la prima, pensandoci un momento. Quella per cui aveva speso più energie perché si era rivelata tenace da uccidere, soprattutto quando aveva capito che non c’era più niente da fare a aveva cercato di portarselo dietro. Non ci fosse stata Torque, probabilmente, sarebbero morti entrambi sulle piane di un qualche anonimo mondo di frontiera.

 

“Torus… non Calas.”

 

Il Jedi parve non farci molto caso, tirando dritto come se non fosse successo niente.
Nel fruscio delle foglie di veshok, Torus stava iniziando a sentire lo scricchiolare della corteccia degli alberi quando si avvicina una tempesta; nonostante sul momento non fosse contrario, aveva la sensazione che ci fosse sotto qualcosa di ben più profondo, e la cosa lo spaventava.
Dannato Kot… e dannato Calas.

 

“Quell’artefatto che hai trovato e che, se le sensazioni del Maestro Yoda non sono errate, ti sta dando non pochi ‘problemi’ è un frammento di un holocron che è stato ritrovato poco tempo fa da una spedizione di Cavalieri nell’Orlo Esterno.”

 

“Spicciati. Non penso che l’indice della mia compagna possa resistere ancora a lungo.”

 

Voleva fare il duro annoiato. Novanta a uno non ci era riuscito, anche se la menzione di un holocron e della spedizione improvvisamente avevano colto il suo interesse. Di norma, erano cose che gli piaceva fare, di tanto in tanto, come con gli asteroidi.

Qui-Gon sorrise, quasi benevolo. Quello era interessante.

 

“Bene, allora. Fonti dell’Archivio ritengono che questo holocron contenga le coordinate per un’armeria riempita di equipaggiamento confiscato dall’Ordine dalle Guerre Mandaloriane e anche nei tre secoli successivi, fino circa alla Guerra Fredda, poi niente, ne scompaiono le tracce. Gli archeologi del Tempio vogliono recuperarlo e per fare ciò ci serve qualcuno che ragioni come un Mandaloriano. In poche parole, ci servi tu.”

 

Con la coda dell’occhio, Torus vide Torque abbassare l’arma con estrema lentezza, il viso deformato dalla sorpresa intanto che i suoi occhi facevano la spola fra lui e i due Jedi. Intanto, la sua mente aveva improvvisamente spiccato il volo ed era nel bel mezzo di un filone di ragionamento che prometteva di essere interessante e terrore puro allo stesso tempo.
Volevano lui per le connessioni che aveva avuto col Tempio quando era più giovane, quello era evidente, eppure più ci pensava più aveva l’impressione che fosse solo una sorta di giustificazione di copertura, per cui il motivo della sua presenza era completamente un altro. Da un lato, era qualcosa di cui avrebbe fatto volentieri a meno: non doveva loro niente perché, alla fine, non lo avevano mai accettato.
Dall’altro, però, l’occasione era ghiotta: un luogo pieno di reliquie di un passato che veniva ritenuto il più fulgido esempio di cosa poteva fare la cultura mandaloriana. Era un’occasione per rinsaldare il proprio legame con Mandalore, coi Resol’Nare e, volendo, anche con Torque, che era mandaloriana ‘purosangue’.

 

Equivaleva bene o male ad andare in pellegrinaggio alla tomba di Canderous Ordo o alle grandi sale dell’Oyu’baat quando i clan si riunivano: significava entrare a contatto con il Manda nella sua forma più pura. Era follia, per un certo verso, e poteva vedere dal ghigno da faina di Qui-Gon che aveva capito all’istante come Torus si stesse sentendo in quel momento.
Aveva davanti a sé un’opportunità a cui non poteva dire di no per arrivare a ciò che desiderava, eppure avrebbe significato affrontare uno scontro che non aveva alcuna intenzione di combattere, per di più contro un morto.

 

“Torque?”

 

La ragazza dai capelli blu gli rivolse uno sguardo confuso con la coda dell’occhio mentre lui sospirava rumorosamente e le faceva segno di abbassare l’arma. Quella volta, lei non si oppose.

Perfetto, si disse mentalmente, vediamo come farci ammazzare.

 

“Perché dovrei venire? Calas è morto e non ho alcuna intenzione di farlo tornare indietro.”

 

Con un gesto lento e ampio, Qui-Gon ripose le mani nelle maniche davanti a sé, andando poi a sedersi su uno sgabello libero. Il padawan, invece, sembrava non respirare nemmeno, il volto sfigurato dall’incomprensione e dalla paura; nessuno, tuttavia, sembrava farci caso.

 

“Intanto, la paga è buona-”

 

Per quell’istante, Torus sorprese anche sé stesso, quasi vedendosi agire come fosse all’esterno del proprio corpo.

 

“Non mi insultare, Jedi… sappiamo entrambi che non sei qui per assoldare un mercenario, ma per ‘recuperare’ me, quindi non girare intorno alle cose e dammi almeno tre buone ragioni per cui il Mand’alor non dovrebbe presentare al Senato una lagnanza formale con il tuo cadavere e una dichiarazione di guerra.”

 

Anche se non aveva capito come mai fosse esploso tutto di un tratto, senza avere nemmeno voluto gettargli in faccia quelle parole, Torus rientrò improvvisamente in controllo di sé; insieme al lieve crescere dello scricchiolio degli alberi veshok, che non capiva se fossero quelli fuori o dentro la sua mente, si sentiva sempre più pesante.

 

“Numero uno, come dicevo, la paga è buona. Ora che sei in proprio e che pare il futuro non sia così roseo come sembra nella Repubblica, immagino che i soldi vi faranno comodo.
Numero due, per quanto il Maestro Yoda sia addolorato nel saperti ancora perso, è convinto che quella di cui sono messaggero sia un’occasione per vedere se davvero Calas è morto come tutti credono.
Numero tre, per quanto paradossale possa sembrare, penso che sia nel tuo interesse se davvero sei convinto di diventare un mandaloriano a tutti gli effetti.”

 

Oh, se lo stava odiando con tutto sé stesso, lui e il Tempio che rappresentava in quel momento. Eppure, per quanto odiasse ammettere che aveva ragione, era come se gli avesse letteralmente letto attraverso.

 

“Aspettami fuori.”

 

Con sorprendente diplomazia, Qui-Gon si alzò, prese il proprio padawan e lasciò l’edificio, silenziosamente come era entrato, al che Torus si lasciò cadere sul tavolo, spossato e in preda al turbinio di pensieri nella sua testa. A stento riusciva a sentire Kot, in un’ironia infame
Sentì una mano di Torque, coperta da un guanto spesso per maneggiare metalli incandescenti, posarsi sulla sua spalla meccanica mentre la ragazza si sedeva accanto a lui: ebbe appena la forza di sfilarle il guanto e stringerle la mano con quella che ancora gli era rimasta.
Lei non si oppose al contatto.

 

“Torque?”

 

Volse il suo sguardo verso di lui, il suo spento e fisso sul pavimento, l’unica sensazione quella del calore della sua mano.

 

“Cosa devo fare?”

 

Quando gli rispose, la voce era il sussurro corroborante delle foreste in cui era nato.

 

“Devi? Niente. Cosa ti senti di fare è la vera domanda.”

 

“Cosa farebbe tuo padre?”

 

La sentì sorridere alla richiesta.

 

“Oh, lui ordinerebbe un due-sette sul problema fino a che non è alto quanto l’erba dei vicini.”

 

Due-sette stava per “alternanza di proiettile esplosivo e proiettile chimico ogni sette minuti” nel gergo dell’artiglieria. Effettivamente, era accurato: Ullan Dala, il padre di Torque, era solito adottare soluzioni drastiche ai propri problemi.

 

“Ma tu, Tor’ika, non sei mio padre: uno basta e avanza. Cosa vuoi fare tu?”

 

Torus scosse la testa.

 

“Non lo so… vorrei che se ne andassero e mi lasciassero in pace per sempre, eppure mi sembra una cosa estremamente codarda da desiderare. Dall’altro, vorrei andare e vedere coi miei occhi quest’armeria: voglio diventare come te, come il tuo clan.”

 

“Tor’ika? Posso dire una cosa?”

 

Lui annuì, stringendo con leggermente più forza la sua mano.

 

“Vuoi diventare un mandaloriano a tutti gli effetti, giusto? Come me.”

 

Torus fece di nuovo di sì con la testa.

 

“Ma diventare come noi significa prendere anche tutto ciò che non funziona, significa dovere scegliere da che parte stare nella guerra che ci sarà a breve. Magari non oggi, non domani né dopodomani, ma prima o poi succederà e non voglio nemmeno pensare a cosa succederebbe se ci trovassimo da parti opposte.”

 

Insicuro, alzò lo sguardo per posarlo sui occhi verdi incorniciati dalla massa ribelle di capelli blu fluo, confuso.

 

“Sei a un momento cruciale della tua crescita: puoi ancora prendere solamente ciò che vale la pena prendere della nostra cultura, così come di quella che ti sei lasciato alle spalle. Questa è un’occasione per farlo, ma magari se ne potrebbe presentare un’altra in futuro, chi lo sa.”

 

Fu con un certo orgoglio che la ragazza vide gli occhi grigi del suo compagno assumere lo sguardo deciso e determinato che aveva sempre avuto anche sotto il fuoco nemico più intenso, anche quella volta in cui, assieme alla sua squadra, l’aveva estratta dal rottame in fiamme del suo mezzo e l’aveva portata al sicuro a spalla, anche quando i guerriglieri che erano stati assunti per combattere avevano iniziato a sparare loro addosso.

 

“Non per loro. Per me.”

 

Gli sorrise con calore, riconoscendo la decisione che aveva appena preso: quello era il Torus che conosceva e rispettava.

 

“Per te. E per chi vuoi.”

 

Il giovane annuì, assaporando per qualche istante le prime scintille di calore all’interno dello stomaco in molto tempo. Per noi: per Torque e Lanna. Non lo disse a voce alta: era arrivato e se ne era andato talmente all’improvviso che non ne aveva avuto il tempo.

 

“Vai, Tor’ika: voglio vederti tornare più grande e più forte.”

 

Quando finalmente si alzarono, Torus la strinse forte a sé, sussurrandole un lieve “Vor entye” all’orecchio prima di chiudersi nella propria stanza per preparare il necessario.

 

§ ° §

 

Quando raggiunse i due Jedi fra le ombre serali dello spiazzo davanti all’officina, il togruta ebbe un moto di paura alla vista dell’armeria che Torus aveva addosso, tranquillizzato con appena un gesto da Qui-Gon. Doveva conoscere l’armatura, dedusse il guerriero.

 

“Sapevo che avresti accettato.”

 

“Non montarti la testa con le vittorie facili: non lo faccio per voi.”

 

Qui-Gon sorrise divertito.

 

“Il Maestro Yoda ha ragione ancora una volta, pare. In ogni caso: questo è Ko’Lun, un padawan fra i più promettenti al momento.”

 

Il togruta, un ragazzino le cui pitture facciali rosse riprendevano la forma del suo teschio e continuavano anche lungo le estremità ossee che somigliavano a corna ai lati del suo volto, gli rivolse un sorriso stirato.

Torus rimase qualche secondo interdetto.

 

“Mi stai dicendo che verrà con me?”

 

“Esattamente. Conto su di te per quanto riguarda il combattimento e il pensiero creativo: il suo compito sarà quello di osservare, imparare e, in caso si rivelasse necessario, aiutarti sfruttando alcuni… assi che ha nella manica. Non sembra molto, ma ha la stoffa che serve.”

 

Trattenne a stento un altro sospiro solamente perché non aveva l’elmo addosso, decidendo poi di stare al gioco e annuire.

 

“Allora ci vediamo a caso chiuso.”

 

Si rivolse al padawan, facendogli un cenno con la testa verso la sagoma scura della sua nave.

 

“Sali. Faremo conversazione quando ci saremo lasciati alle spalle questa vecchia serpe.”

 

Accompagnato dal sibilo meccanico del portello ventrale che si abbassava, Torus diede l’ultimo controllo all’inventario da dentro le confortevoli pareti del suo buy’ce.

 

Carabina blaster, check.

Pistola pesante, check.

Tre celle per ognuna, check.

Lama, check.

Gravpack, check.

Cibo per un mese, check nella stiva.

Materiale medico, check.

Nostalgia, check.

 

Chiuse con un battito di ciglia un’immagine che si era aperta proprio davanti a lui e con passo pesante salì la rampa.
Grandi mand’alor’e del passato, se aveva bisogno di uccidere qualcosa...

 

§ ° §

Buy’ce: ‘elmo’, in Mando’a

Vor entye: ‘Ti ringrazio’, in Mando’a. Letteralmente “accetto di essere in debito con te”

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Un passo indietro ***


“Fammi capire…”

 

Con la pressione di un paio di tasti dell’oramai sovraffollato cockpit della Radiant, Torus impostò la rotta iperspaziale, per l’ultimo pianeta in cui avrebbe pensato di finire su incarico del Tempio Jedi.

 

“Stiamo andando su Coruscant?!”

 

Ko’Lun, se avesse potuto, sarebbe diventato ancora più rosso, probabilmente perché non si era aspettato che il suo improvviso “compagno di missione” fosse così sorpreso dalla destinazione.

 

“Non poteva, il Consiglio, chiedere a qualcuno di voi di farlo? Che so, mandare qualche Cavaliere così come hanno fatto con l’altro pezzo dell’holocron.”

 

Il togruta scosse lentamente la testa, accompagnato dal sospiro di rassegnazione del mandaloriano prima che potesse riprendere a parlare: nonostante la voce gli tremasse a tratti, forse perché era alle prime armi, Torus non poteva che iniziare ad approvare la decisione di quel piccolo Jedi nell’essere sicuro che la missione, in sostanza il confine del suo mondo, andasse a fine nel migliore dei modi.
L’armaiolo ci era passato, anche se gli sembrava una vita e mezzo prima.

 

“Il Maestro Qui-Gon mi ha detto che dovremo nel Vecchio Tempio Jedi, quello nei bassifondi.”

 

Come un colpo di maglio idraulico, la comprensione colpì il mandaloriano, domandandosi perché non ci avesse pensato prima.

 

“Quello che venne distrutto durante il Sacco di Coruscant ai tempi del ritorno dell’Impero Sith?”

 

K’Lun annuì preoccupato; sotto quella luce, tornavano tante cose, allora. I bassifondi della capitale repubblicana erano sostanzialmente un altro mondo, un luogo tanto oscuro, disperato e privo di legge quanto i piani alti e più famosi erano scintillanti di vetro antiblaster e duracciaio, marmo e bronzium.
Se il Tempio Jedi era l’apice del fulgore della Repubblica, per così dire, il Vecchio Tempio Jedi ne costituiva il nadir e l’antipode. Morale della favola in termini molto meno romanzati: ovunque avessero attraccato, arrivare al frammento sarebbe stato come espugnare una trincea di Ord Mantell.
Una lunga, estenuante tempesta di blaster, fumi tossici e potenzialmente radiazioni.

 

“Capisco… se quello che ricordo dell’Ordine è ancora valido, non siete minimamente preparati ad arrivare fin là.”

 

Per qualche secondo, vide uno sguardo ferito sul volto rossastro del togruta, come se ammettere la propria mancanza di preparazione fosse doloroso, che però scomparve presto sostituito da un’espressione incuriosita.
Il ragazzino, alla fine, pareva pensare con la propria testa più degli altri: poteva fare molta strada.

 

“Fa male, ragazzino, ma è la verità: l’Ordine si è seduto sugli allori. Per quanto possano insegnarti come si usa una spada laser, si parano i colpi dei blaster e così via, nessun Jedi può insegnarvi a combattere davvero perché vi siete abituati alla pace.”

 

Quando finì di parlare, però, si accorse di ciò che aveva veramente detto, come se a parlare fosse stato qualcun altro. Scosse la testa, sorridendo triste: ricordava un tempo in cui a sua volta aveva voluto imparare come si combatteva davvero, come diventare un guerriero degno di quel nome e avere il potere di lottare per ciò che era necessario, e dall’Ordine non aveva ricevuto altro che silenzio.

 

“Perdonami… l’età a volte fa male.”

 

Si tolse un guanto e gli porse la mano, incoraggiante.

 

“Se dobbiamo rischiare la pelle insieme, permettimi di presentarmi. Torus, di Manda’yaim, armaiolo, soldato e studioso di asteroidi.”

 

Ko’Lun, imbarazzato, strinse la mano per poi raddrizzare la schiena, fare un respiro profondo e rispondere.

 

“Io sono Ko’Lun Ba, di Shili, padawan presso il Tempio Jedi e studioso di molte cose, inclusi asteroidi.”

 

Soddisfatto dalla stretta sorprendentemente forte per l’età, Torus gli diede una gentile pacca sulle spalle annuendo.

 

“Bene, allora, collega! mettiamoci al lavoro e vediamo di arrivare interi alla fine di questa corsa da folli: il viaggio sarà discreto, quindi se hai domande, spara pure.”

 

“Che rotta prenderemo?”

 

“Ottima domanda: l’astrografia è fondamentale per chiunque si trovi a viaggiare, specialmente un futuro Jedi.”

 

Il mandaloriano richiamò una mappa della Galassia sulla console di volo, evidenziando la rotta che avrebbero percorso con la pressione di un paio di tasti.

 

“Dunque! Noi siamo qui, nel Sistema di Mandalore. Ci troviamo in mezzo a due ipervie: una più vicina, la Pista del Dragone, oppure quella più lontana che, come vedi, è la Via Hydiana. Sebbene la seconda sia più stabile, ampia e tanti altri più che adesso non ho il tempo di spiegarti, non la prenderemo. Vuoi sapere perché? Semplicissimo.”

 

Con l’indice metallico indicò il secondo passaggio, sensibilmente più largo sulla mappa galattica.

 

“La Via Hydiana viene usata per il traffico civile e merci da e per il Sistema bene o male da quando è stata scoperta perché, pur essendo più lenta della Pista, è più comoda. A noi al momento non importa stare comodi, ma correre come dannati per arrivare dove dobbiamo. Per questo, iniziamo col prendere la Pista del Dragone fino a un punto fra i pianeti di Tirahn e Colla IV dove c’è l’intersezione con la Via Commerciale Parlemiana.
Una volta lì, facciamo un altro salto percorrendola fino a quando non usciamo nello spazio territoriale di Coruscant. Giusto per la scienza, la vostra capitale si trova sul punto in cui la Perlemiana diventa la Rotta Commerciale di Metellos e ci sfocia la Vertebra Commerciale Corelliana, di cui la famosa Corsa è un’appendice.”

 

Alla menzione dell’ultima, gli occhi di Ko’Lun si erano spalancati in meraviglia mentre puntava un dito pallido sul Settore di Kessel, completamente altrove.

 

“Hai mai fatto la Corsa di Kessel?”

 

Torus scoppiò a ridere, per nascondere il brivido che aveva provato alla menzione di quell’inferno che ogni pilota che volesse farsi bello affermava di avere percorso su una nave senza supporto vitale, con lo scafo bucato e i motori fuori uso. Probabilmente non l’avrebbe corsa nemmeno se lo avessero pagato per farlo: amava volare, non cercare di esplodere in una gigantesca palla di plasma, nonostante chi ci riuscisse spesso diventava una sorta di eore galattico perché faceva parte di una ristrettissima elite di pazzi furiosi.

 

“Ory’e Mand’alor’e, no! Nessuno con un minimo di sale nel buy’ce ci proverebbe a meno che non abbia un incrociatore. A parte quello, è la Fuga, non la Corsa.”

 

§ ° §

 

Torus adorava volare, gliene piaceva praticamente ogni aspetto, dal pugno allo stomaco dato dall’improvvisa variazione di accelerazione gravitazionale alla regale maestosità dei viaggi di lungo corso, in cui poteva vedere i corpi celesti più disparati e le più belle creazioni della natura.
Anche il tunnel iperspaziale, per quanto fosse sempre più o meno uguale, aveva i suoi pro: improvvisamente, il cockpit della Radiant diventava una sorta di parco giochi per piccole lucine azzurre iperattive che si rincorrevano a vicenda vorticando allegramente come particelle in un acceleratore. Metteva allegria, in un certo senso: era come se ogni tanto anche le più bieche creature senzienti, inventrici dell’iperguida, si prendessero un momento per giocare con il grande Nonno Universo.

 

Improvvisamente, si accorse senza nemmeno averla sentita di una presenza appena dietro di sé, l’impulso ancora inconscio che innescava i suoi livelli di allerta uno dopo l’altro come un fiume in piena e gli faceva portare una mano alla fondina della pistola.
Si girò di scatto nel sedile del pilota, mosso oramai da un istinto a cui aveva imparato ad affidarsi nel decennio che aveva trascorso sui campi di battaglia di mezza Galassia, solamente per accorgersi che dietro di lui, rannicchiato dietro lo schienale per vedere fuori dall’oblò senza dare fastidio, c’era Ko’Lun, gli occhi improvvisamente allargati per la sorpresa.
Soppresse la scarica di adrenalina rilasciando tutto il fiato che aveva accumulato in un sospiro di sollievo.

 

“Non farlo mai più… Non. Farlo. Mai più. Chiaro?”

 

Il togruta gli lanciò uno sguardo dubbioso, anche se continuava a vedere allerta negli occhi del ragazzino. Non era avvezzo ai soldati.

 

“Cosa?”

 

Assicurandosi con particolare attenzione di avere allontanato la mano dal blaster, il mandaloriano affondò nello schienale del sedile.

 

“Sbucarmi da dietro così, all’improvviso. Non si fa. Non con un mando’, meno che mai con me.”

 

“Perché?”

 

“Dopo un po’ che si fa il mio lavoro si sviluppano istinti e automatismi per evitare di essere colti di sorpresa… non so spiegarlo meglio, ma è come se sapessi sempre cosa mi circonda, senza saperlo effettivamente.”

 

L’espressione del Togruta si distese, assumendo il sorrisetto sardonico del ragazzino che pensa di saperla lunga.

 

“Maestro Qui-Gon ha ragione, è perché sei un Jedi.”

 

“No.”

 

Il rifiuto gli era uscito molto più duro di quanto avesse effettivamente voluto, ma quasi non si era nemmeno accorto di averlo dato.

 

“E allora come lo spieghi? Come hai fatto ad accorgerti che c’era qualcuno, con un buon mezzo secondo netto di anticipo rispetto a una persona normale?”

 

“Aspetta… è retorico, vero?”

 

Ko’Lun fece segno di diniego con la testa, il ticchettio della treccia rituale di perline contro i montral che riempiva la carlinga, intanto che continuava implacabile.

 

“Assolutamente no, l’ho misurato. Sei passato dallo stato di dormiveglia a quello di iperattività in due decimi di secondo e qualcosa. Perché? Perché sei sensibile alla Forza, nonostante tu continui a dirti il contrario.”

 

E con chi era finito?! Col figlio illegittimo di Yoda?!
Torus, senza dirla mentalmente con la voce di un conduttore di holodocumentari sulla fauna galattica, era, se possibile, ancora più confuso. Lui stesso, a trenta anni e con oramai due decenni di esperienza di missioni ad alto rischio, in una veste o nell’altra, riusciva a calcolare intervalli così precisi solo quando era alla forgia, in un ambiente che più sicuro di quello non riusciva a concepire.
Come faceva un tredicenne a riuscirci senza apparente sforzo?!

 

“Con la Forza. Lei mi ha insegnato ad ascoltare, osservare e ricordare.”

 

“Mi hai letto la mente, adesso?”

 

Fu il momento del togruta di scoppiare a ridere, sinceramente divertito dalla piega che aveva preso il discorso.

 

“I trucchi mentali funzionano solo su menti deboli, dovresti ricordartelo. Ho semplicemente fatto due più due: era la domanda più ovvia che ti saresti posto, quindi tanto valeva risparmiarti la fatica di farla a voce alta.”

 

Quindi erano quelli, gli assi di cui Qui-Gon gli aveva parlato prima di partire. Lì per lì. a una persona poco attenta, avrebbe potuto sembrare poco, ma in realtà quella di Ko’Lun era una capacità non da poco: quanto meno, se riusciva a percepire intervalli nell’ordine dei decimi di secondo, era segno che aveva dei riflessi che dire eccezionali era davvero un eufemismo. Inoltre, sapeva scandire il tempo probabilmente a livello istintivo.
Molti demolitori professionisti sviluppavano sensibilità del genere solo dopo molti anni di pratica.

 

“Capisco…”

 

Colto completamente impreparato da un bambino.
Stava diventando vecchio, forse?
Lanciò uno sguardo interrogativo al padawan, per vedere se aveva previsto anche quell’interrogativo esistenziale, ma tutto ciò che ottenne fu una risposta altrettanto interrogativa, a cui fece seguire un sospiro di sollievo: non era inquietante a quel punto.

 

“Cal… Torus, posso farti una domanda?”

 

Tanto valeva cogliere l’occasione per pensare ad altro: il mandaloriano fece di sì con la testa, lo sguardo che cercava di perdersi fra le linee azzurre del tunnel fuori dall’oblò.
Tutto. Troppo. Veloce.

 

“Maestro Qui-Gon mi disse che sei stato un Jedi. E’ vero?”

 

Una persona poco attenta avrebbe potuto vedere un’incongruenza con quanto Ko’Lun aveva detto fino a qualche minuto prima.
Una persona attenta, invece, avrebbe sicuramente visto la voglia colossale di strangolare il ragazzino, mandare in malora Qui-Gon e tornarsene a casa che era improvvisamente montata nel mandaloriano, pronta a spronarlo in un atto di crudeltà totalmente ingiustificato.
Una persona molto attenta, d’altro canto, avrebbe visto non solo un semi infanticidio che aspettava solo una scusa per accadere, ma anche le motivazioni dietro detta dimostrazione di crudeltà totalmente giustificata. La fregatura stava nella separazione fra le due frasi: Ko’Lun, in sostanza, gli aveva posto tutte le domande che poteva in una sola.
Probabilmente notando il disagio che aveva appena causato, il padawan si affrettò a correggere, imbarazzato.

 

“Non voglio farti rivivere momenti sgradevoli, però… non sentirti obbligato se non vuoi.”

 

La prima risposta del fabbro fu una specie di basso brontolio rabbioso, come di vulcano che sta lentamente percorrendo le fasi precedenti all’eruzione: il ragazzino poteva percepire senza sforzo alcuno sobbollirgli dentro il coacervo di rabbia, paura e qualcosa che non si era mai aspettato. Vergogna.

 

“Non nascondere la mano dopo che hai lanciato il sasso, padawan: è da codardi. Un vero guerriero vive sempre a testa alta con le conseguenze delle proprie azioni.”

 

La voce dura come il macinare del granito su vetro, Torus continuò imperterrito.
La prima parte della domanda era tanto semplice quanto la sua reazione volatile: poteva essere sincero e ammettere la sconfitta, ammettere a sé stesso che, se i Jedi non lo avevano voluto perché era diverso, dal canto suo lui si era impegnato a darsi emarginare proprio quello stesso motivo. Oppure, poteva negare tutto, nascondersi dietro l’evidente, dare del bugiardo a un Maestro dell’Ordine Jedi e gettare ancora disonore su di sé.

 

“Sì. Sono stato un Jedi.”

 

Lo stava odiando con tutto sé stesso, in quel momento, eppure non poteva non rispettare la solidità con cui il ragazzino si apprestava ad affrontare quella che aveva tutte le possibilità di essere la furia della tempesta mandaloriana.
Probabilità che non potevano che aumentare con la seconda parte della domanda: come ci era arrivato.

 

“Quando i Jedi vennero a prendermi, avevo sì e no quattro anni e il mio vecchio clan, i Mereel delle foreste, erano appena usciti con le ossa rotte da una guerra coi Bralor: nonostante avessimo la disciplina, quelli semplicemente si rifiutavano di crepare, o almeno così mi hanno raccontato alcuni dei sopravvissuti anni dopo. Morale della favola: di fronte alla mia sensibilità alla Forza, a malapena sufficiente a non farmi scaraventare nei Corpi Agricoli, e ai quattro Maestri che vennero mandati a prendermi, il mio aliit non poté protestare e fu costretto a cedermi senza colpo ferire.”

 

Ko’Lun si era fatto improvvisamente pensieroso, appoggiato com’era a uno dei bancali della strumentazione della nave. Anche senza sentire la Forza, Torus poteva vedere che la sua piccola mente di ragazzino lavorava come e forse più di quella di un adulto.
Chi diavolo era?

 

“Spiega come mai non abbia mai sentito parlare di te.”

 

Torus sorrise amaro al fiotto di ricordi che riaffioravano alla mente: principalmente insulti coperti di veleno, rivolti quando i Maestri non guardavano, l’impossibilità di risolvere le questioni alla “vecchia maniera”, l’essere costretto a crescere secondo un codice che era in netto contrasto con quello in cui era nato. L’essere costantemente in guardia contro un Lato Oscuro che invece vedeva solamente in coloro che lo circondavano.

 

“No. Se fosse, sapresti che ero uno dei, se non il, migliori combattenti della mia età, ma non puoi, perché è stato tutto cancellato quando sono… scappato.”

 

L’ultima parola, la chiave della terza parte della domanda, fu quasi costretto a sputarla per riuscire a esprimere il concetto: odiava quel momento con tutto sé stesso, sia per la parte che il Tempio aveva avuto, ma soprattutto per quella che lui stesso aveva coperto.

 

“Come, ‘scappato’? Che significa? Non si può smettere di essere Jedi, succede solo quando si muore!”

 

Lo sguardo del mercenario, abbastanza incandescente da incendiare le vesti del padawan, fu il segno che non doveva andare oltre.

 

“Per ora ti basti quello. Vedremo se alla fine della missione sarai ancora vivo per sentire la fine della storia.”


Per qualche lunghissimo secondo, Ko’Lun gli rivolse un’espressione a metà fra l’incredulo e il terrorizzato, della quale Torus a momenti trovava giusto bearsi: sarebbe stato un primo incarico coi fiocchi, per svezzare un cucciolo come il togruta...

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Coruscant, parte I ***


Erano passati anni dall’ultima volta che aveva messo piede su Coruscant. Letteralmente: l’aveva lasciata che ne aveva appena ventidue, vi ritornava per la prima volta a quasi trenta; eppure, non si sorprese vedendola esattamente uguale come se la ricordava.
Un’enorme sfera di acciaio, vetro, cemento e velivoli delle dimensioni e forme le più varie che ne punteggiavano l’oramai già parzialmente oscurato cielo. Il cuore di tutto lo spazio civilizzato aveva accolto la Radiant e il suo piccolo equipaggio con il calore di un erbivoro che si sveglia dopo un lungo riposo per la digestione: mescolata com’era fra le decine, forse centinaia, di altre navi da e per la superficie o i cantieri orbitali, non se ne era nemmeno accorto.

Una volta usciti dal secondo salto nell’iperspazio, Torus aveva diretto la propria nave in una delle direttrici principali del traffico in entrata e aveva semplicemente trasmesso i propri documenti al controllo aereo, la cui reazione fu di sorpresa quando dal mandaloriano non venne la richiesta di una baia di atterraggio.

 

“Posso chiedere perché, signore?”

 

Molto diplomatico, anche se Torus immaginava stesse semplicemente chiedendo per sapere di cosa denunciarlo alle autorità portuali una volta che avrebbe toccato terra. Con sua sorpresa, Ko’Lun si era arrampicato al microfono della console e gli era venuto in soccorso.

 

“Qui padawan Ba dell’Ordine Jedi. La presenza del mio collega è stata voluta dal Tempio: dell’atterraggio ce ne occuperemo noi.”

 

Elegante: l’impiegato non si fece più sentire una volta dato il permesso di entrare nell’ecumenopoli. Prima di riprendere la rotta, Torus rivolse al togruta uno sguardo impressionato, sia per incoraggiarlo che per spezzare il senso di teso disagio che aleggiava nell’abitacolo dalla loro discussione precedente.

 

“Complimenti per il sangue freddo, ragazzino… davvero notevole.”

 

Ko’Lun si strinse nelle spalle imbarazzato, guardando distrattamente una spigolosa fregata commerciale tappezzata di simboli aerografati sullo scafo che era appena passata sopra di loro.
Scuotendo lentamente la testa mentre ridacchiava sotto i baffi, Torus si rimise al lavoro, passando l’atmosfera del pianeta di lì a qualche minuto.

 

“R7, marcami sull’holo tutti i vettori di approccio per il Mondo di Sotto che ci permettano di levarci di torno in meno di quattro minuti: se le cose dovessero andare male, voglio essere sicuro di andarmene di qui senza dovere fare troppa attenzione a non cocciare contro qualche palazzo mentre ci insegue una banda di gangers incazzati.”

 

L’occhiata interrogativa e terrorizzata di Ko’Lun diceva tutto di cosa si stesse domandando in quel momento; nonostante fosse più che sicuro che i costumi della società cosiddetta “civilizzata” non fossero d’accordo, il mandaloriano doveva ammettere di starsela godendo discretamente.
In un certo senso, stava da un lato per tornare nel proprio habitat, il pericolo, e dall’altro aveva un novellino a bordo da svezzare. Le loro facce erano sempre qualcosa di assurdamente divertente.

 

“Mai stato nel Mondo di Sotto? Oh, andiamo… è la parte migliore di tutto il pianeta! Gang di swoopers, droidi impazziti, radiazioni di sottofondo, perdite ovunque, belve feroci, ce n’è per tutti! E il bello è che stiamo per infilarci in uno dei posti peggiori.”

 

Sì, sapeva perfettamente come fosse del tutto fuori luogo e, anzi, deleterio per il morale del padawan, ma non ci poteva fare assolutamente niente: prima toglieva quel dente, prima sarebbe diventato più forte.
E poi, aveva già detto che fosse divertente?

 

“Pispolo, mi fai un favore? Già che ci sei, mi scarichi nell’elm-nav le correnti in grado di reggere almeno duecento chili senza farli scendere in caduta accelerata? Voglio vedere come se la cavano a salti orbitali: se è messa meglio di Kessel, sono un uomo felice.”

 

Di lì a qualche secondo, durante il quale quelli che erano appena puntini sulla superficie si erano rivelati come grattacieli di migliaia di piani che svettavano sulla massa quasi solida dell’architettura coruscanti, R7 gli diede un blip di assenso, ricordandogli anche di avere solamente un gravpack e non due: stando alle letture, un salto assistito da dodicimila piedi sarebbe stato come buttarsi lungo i fianchi delle montagne di Mandalore con lo slittino.

Adrenalina praticamente distillata: ogni corrente non durava più che qualche frazione di secondo prima di dissolversi sotto l’influenza costante del passaggio delle astronavi, costringendo quindi il “surfista” a cambiarla di continuo per evitare de un lato di finire schiantato contro uno speeder sbucato dal nulla o di arrivare a terra con la velocità di un asteroide… ma senza la relativa massa.

 

“Tranquillo, Pispolo, non ho intenzione di aprire il portello e buttarci entrambi nel vuoto, anche se la tentazione è forte: c’è del lavoro da fare. Me le segno per quando avrò un momento libero, però, ché un salto qui merita davvero.”

 

Con profonda soddisfazione di sé, Torus era sicuro che in quel preciso momento Ko’Lun non fosse confuso, no. Era sicuro che fosse nel panico più assoluto perché non riusciva minimamente a conciliare le due versioni della stessa persona che aveva appena visto nell’arco di quella sola andata.

 

§ ° §

 

Come una freccia scagliata da una divinità stizzita, vibrando rabbiosa nell’aria che via via diventava sempre più densa, la sagoma lunga e sottile della Radiant si era gettata nel fitto del traffico aereo di Coruscant, affondando sempre di più nel cuore dei suoi grattacieli.
Mano a mano che scendevano, Torus vedeva con la coda dell’occhio Ko’Lun guardarsi intorno, la curiosità che a tratti cedeva il posto a un’’inquietudine proporzionale alla graduale carenza di luce solare, oscurata dai grattacieli che occupavano tutto il campo visivo come antichi giganti senza tempo.
 

Quando finalmente il caccia toccò terra, l’unica fonte di illuminazione erano gli enormi ologrammi pubblicitari al neon che raffiguravano alieni di ogni razza intenti, nei loro toni minimalisti e monocromatici, nel mostrare i prodotti più disparati a un pubblico che probabilmente non se li poteva comunque permettere.
Qualche lampada dell’occasionale locale o negozio, una luce a fusione del traffico dei droidi risciò e tante prese d’aria degli infiniti grattacieli, necessarie perché strutture alte migliaia di piani potessero stare insieme senza crollare sotto la propria stessa massa; Torus, che poteva vantare di avere visto oramai tutti i luoghi veramente importanti di Coruscant sebbene fosse anni luce dall’esplorarla tutta, aveva visto le fondamenta di uno di quegli edifici titanici una volta sola: travi e colonne di duracciaio larghi quanto interi edifici di altri pianeti, tenuti a una temperatura costante ognuno da un sistema di condizionamento dedicato in grado di climatizzare un piccolo incrociatore. Ogni singolo palo di sostegno.
Ricordava di avere trovato agghiacciante la realizzazione di quanto quella piccola città di raffreddamento fosse necessaria, da fabbro lo aveva capito abbastanza presto: senza, ogni singolo trave si sarebbe dilatato e compresso di svariati centimetri in base alla corrente temperatura il che, se applicato a una struttura alta chilometri, avrebbe significato farla cadere su un fianco entro circa un paio di mesi.

 

Ovunque il mandaloriano e il padawan posassero lo sguardo, schiere di persone di ogni sesso, razza e occupazione si muovevano come mandrie prive di uno scopo apparente, creando un brusio di sottofondo che ricordava il rumore delle statiche di un apparato radio se vi si univa il costante ronzare delle enormi ventole per il ricambio d’aria.
Torus riconosceva lavoratori metalmeccanici, colleghi, venditori locali, agenti delle forze dell’ordine, l’occasionale malintenzionato intento a compiere un borseggio senza farsi notare, ma, soprattutto, Torus vedeva bersagli. Aveva smesso di vedere persone da molto tempo.
Automaticamente, la sua mente cercava di catalogare i luoghi in cui quel rodiano con la tunica a maniche larghe che stava ordinando una bevanda calda allo stand all’angolo potesse nascondere un’arma, oppure se i tatuaggi dello zabrack con le spalle appoggiate al muro esattamente davanti a lui fossero stati aggiunti in seguito a un omicidio commissionato da un Cartello Hutt o una caccia rituale iridoniana.

 

Giudicava anche l’architettura, le coperture, i campi di tiro e i flussi di civili per, eventualmente, essere in grado di gestire o quantomeno navigare nella folla in preda al chaos qualora fosse stato necessario aprirsi un varco alla vecchia maniera.
Tutti edifici bassi e squadrati, le fondamenta primarie delle guglie lussuose che si vedevano dal cielo; poteva tranquillamente saltare su un tetto con una breve spinta del gravpack, il che aiutava la navigabilità e allo stesso tempo l’identificazione dei bersagli per ridurre i danni collaterale e avere un campo di tiro il più vasto e libero possibile. Inutile dire che, oltre a volare e agli asteroidi, Torus adorava il combattimento urbano: veloce, schizoide, brutale e, soprattutto, personale.

 

Uscendo dal cockpit mentre si infilava l’elmo, ricordandosi ancora una volta di quanto fosse importante cambiare la fragranza degli aromatizzatori nell’impianto di ricambio d’aria, fece segno a Ko’Lun di seguirlo e stargli attaccato: stavano per addentrarsi nel territorio di caccia dei mastini tuk’ata, per poi entrare direttamente nella loro tana.

 

“Stammi vicino, tieni il cappuccio alzato e cerca di sembrare una guida: sei riconoscibile, qui, e se sei riconoscibile significa che sei anche vulnerabile.”

 

Il padawan annuì, pragmatico, anche se i veshok stornivano di inquietudine intorno a lui quando lo guardava. Gli diede una leggera pacca sulla spalla prima di puntare verso ovest.

 

“Tienti stretta la paura che senti, giovane padawan. Se ne provi, significa che sei vivo, e se sei vivo significa che puoi combatterla e vincerla.”

 

Un’altra lezione che non aveva mai capito del Tempio: sopprimere la paura, cercare di non averne o non provarla. Completamente sbagliato: faceva parte del naturale flusso della vita, il provare paura, era forse una delle condizioni che più di tutte univano ogni razza della Galassia.
Persino i mandaloriani non ne erano immuni: non erano diventati i guerrieri migliori dello spazio noto bandendo la paura dai loro cuori, ma affrontandola come avrebbero affrontato un nemico normale, conoscendola per poi sconfiggerla.

 

“Un’ultima cosa prima di andare: ricordati che la strada su cui cammini è il tetto di qualcuno e che il soffitto che vedi lassù è il pavimento di qualcun altro. Qui ci sono persone a trecentosessanta, che forse non hanno mai visto il sole o il cielo in vita propria. Sfruttalo a tuo vantaggio.”

 

“Come?”

 

Ko’Lun lo guardava perplesso, la possibilità di imparare che gli stava facendo dimenticare la paura; Torus sorrise mentalmente: in un certo senso, molto perverso, gli ricordava sé stesso alla sua età.

 

“Immagina un cubo. Mi segui?”

 

“Un cubo, sì. Come quelli di sorte.”

 

Torus annuì, soddisfatto.

 

“Esattamente, un cubo di sorte. Immagina adesso che questo cubo di sorte sia un edificio, con delle porte, delle finestre e così via. Concentrati solo su una faccia di questo cubo-edificio e mettila in verticale di modo che abbia un’entrata, un’uscita e dei buchi per guardare fuori: viene fuori un edificio normale, no? Ma se tu consideri che ogni faccia di questo cubo ha un’entrata, un’uscita e dei buchi per guardare fuori, anche quelle facce che non sono in verticale, capisci bene che ci sono aperture ovunque che puoi sfruttare.”

 

“Basta saperle trovare?”

 

Il mandaloriano gli batté una seconda pacca sulle spalle, più energica della precedente: imparava davvero in fretta, il ragazzino…

 

“Esattamente! Già imparare che ci sono è un gran passo avanti: mentre scendiamo ti faccio vedere alcune cose.”

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Coruscant, parte II ***


La Coruscant in cui si stavano muovendo all’alba di quelle che secondo il cronometro interno dell’elmo di Torus erano due ore dopo era quasi un mondo completamente opposto rispetto a ciò che scintillava di vetro e acciaio sulla superficie.
L’illuminazione si era fatta occasionale, prevalentemente fornita dagli occasionali fuochi accesi in vecchi e maltrattati bidoni in duracciaio e da quelle matasse di cavi spezzati dentro ai quali ancora scorreva corrente in irregolari sfrigolanti archi voltaici. La gente, anche, era radicalmente cambiata: nonostante fosse qualcosa a cui era abituato da quasi un decennio di vita da mercenario in uno degli ambienti più malfamati della Galassia, quella non era più la classe proletaria di qualche decina di livelli sopra.

 

Alieni e umani insieme, vestiti di stracci, che si aggiravano fra gli edifici fatiscenti combattendo gli uni con gli altri per ogni piccola libbra di bottino che potevano trovare, qualunque cosa che permettesse loro di vedere qualche altra ora di vita prima di essere uccisi da un altro razziatore, un pilota di swoop, una gang o, se erano fortunati, un mercenario dei Cartelli, che almeno avrebbe risparmiato loro una lunga agonia per malattie o altro.
Appena vedevano lui o il padawan, spesso si ritiravano nelle ombre, spaventati dall’armatura e le armi del mandaloriano, oppure rimanevano qualche secondo a guardarli, sguardi carichi di odio, paura o risentimento che si posavano sulle spalle di Ko’Lun fino a quando l’elmo nero e rosso di Torus non si voltava verso di loro perché si dessero alla fuga.

 

Per la prima volta in anni, tuttavia, il mandaloriano non solo vedeva cose e sentiva rumori, ma percepiva: il vento dei veshok si era fatto rabbioso, iniziava a soffiare con intensità fra le fronde degli alberi del suo mondo natale facendo schioccare fra di loro i rami come le mascelle di un predatore affamato. Sentiva la paura che serpeggiava fra le rovine di acciaio e cemento, spandendo ovunque il proprio tanfo corruttore al punto che Torus quasi riusciva a sentirne il sapore: acido, viscoso e caustico. Sapeva di una morte nell’ombra, di un coltello fra le scapole, di disonore… e se ne sentiva impregnato sempre più profondamente tanto quanto scendevano nel cuore di quel covo di feccia.
Era come scendere nelle sabbie mobili fino a non poterne più uscire: il mandaloriano non aveva dimenticato quanto odiasse e disprezzasse quella sensazione.

 

Ko’Lun, dal canto suo, si aggirava quasi con fare furtivo senza allontanarsi più di un metro o due dal mercenario, trasudando paura come una cappa soffocante: Torus la percepiva tutta, sentiva la sua lotta interiore fra il bisogno di avere dei punti di riferimento per mettere insieme una strategia e lo sforzo per non sembrare un codardo agli occhi dell’armaiolo.
Avevano superato da poco un capannello di figure vestite di colori sgargianti, tatuaggi vivaci e brandelli di tessuti protettivi e placche corazzate tenuti insieme con spesse cinture di cuoio quando il mandaloriano aveva sentito un urlo strozzato provenirne dal centro, seguito da risate sghembe, corrotte dalle spezie e dall’alcol, prima che qualcuno sparasse un improvviso colpo di blaster. Poi silenzio.

 

Torus, una mano che stringeva la canna della carabina con tale forze che sentiva le nocche scricchiolare dentro i guanti, si sforzava di non intervenire, di tirare dritto e fare presto, nonostante ogni suo istinto di guerriero gli ululasse di fare qualcosa, di piombare addosso a quei criminali e disperderli col fuoco. Non tanto per qualche perverso concetto di giustizia repubblicana, né per l’avversione che un mandaloriano avrebbe dovuto provare nei confronti di chi si accaniva su bersagli che non avevano possibilità di difendersi, ma semplicemente per fare qualcosa. Per l’atto in sé.
Non aveva mai davvero desiderato uccidere così tanto, non per il piacere che ne derivava: non aveva mai trovato divertente uccidere, ma l’atto del combattere, del conflitto, dove emergeva la personalità di un guerriero.

 

No… in quel momento sentiva dentro di sé qualcosa di completamente diverso e quasi ne aveva paura: doveva spezzare qualcosa, porre fine a una vita, compiere un atto di distruzione, anche solo per togliersi dalla bocca quel retrogusto di morte e putrefazione che aggirarsi per i bassifondi gli lasciava, o quantomeno contenerlo. Non poteva nemmeno dire che fosse un desiderio, qualcosa che poteva volontariamente affermare di cercare e su cui avesse controllo.
Era un bisogno quasi primordiale, come mangiare, bere, andare in bagno o volare. In quel caso, era uccidere: sentire la vibrazione dello spezzarsi di una colonna vertebrale attutita dalla carne che la circonda, contemplare le forme degli schizzi di sangue sul visore dell’elmo, avvertire fra le mani la resistenza posta dalla massa del bersaglio quando vi affondava la lama o cercare di prevedere in che direzione sarebbe caduto un corpo a cui aveva appena carbonizzato la testa con un colpo di blaster.

 

Doveva farlo, altrimenti aveva paura sarebbe affondato in quella melma di codardia, paura, morte e disonore, dalla quale non sarebbe più uscito se non purificando col fuoco l’intero pianeta della feccia che lo abitava.
Sentiva quasi le braccia che spingevano per alzarsi, imbracciare la carabina e sparare, come se avessero sentito il suo bisogno e fossero più che entusiaste di soddisfarlo, eppure c’era qualcosa di sbagliato, di profondamente sbagliato.
Non era un comportamento da mandaloriano: sentiva con chiarezza di non essere pienamente in controllo di sé, che ci fosse qualcosa che non andava. Un guerriero, ancora di più uno della sua gente, era sempre pienamente conscio di ciò che gli succedeva intorno e in grado di frenare i propri istinti quando non erano utili al completamento dell’incarico o alla sopravvivenza del gruppo.
Non era un caso se il cedere alla rabbia del combattimento fosse visto come un segno di disonore, sia fra i Mereel delle foreste che i Dala delle montagne, di debolezza.

Carenza di disciplina e, quindi, di forza di volontà.

 

Eppure, la tentazione e il bisogno erano così forti… intensi al punto che riusciva con difficoltà a pensare ad altro, a forzarsi di andare avanti, ignorare la scena e la necessità di far scorrere il sangue a fiumi che continuava a crescere dentro di lui.
Vide Ko’Lun voltarsi verso di lui, lo sguardo che gradualmente passava dal preoccupato all’allarmata mano a mano che scendevano nei meandri del cuore marcio e corrotto di Coruscant, apparentemente senza meta anche se Torus teneva sotto costante guardia la loro destinazione, le fondamenta del Tempio Jedi rimaste dall’epoca del Sacco. Purtroppo, doveva prendere una strada lunga: i bassifondi della capitale repubblicana non erano nemmeno lontanamente ordinati come la superficie.

 

Ne era contento, quasi… se da un lato significava spendere più tempo là sotto, almeno aveva modo di sfogarsi nella marcia.

 

§ ° §

 

Nonostante fosse sembrato al giovane Jedi che avessero perso la strada più volte, vedeva Torus puntare verso una direzione sempre precisa con decisione che a volte rasentava quasi la falsità.
Lo sentiva profondamente in tumulto, come se qualcosa di estraneo si stesse gradualmente insinuando nel suo spirito, la sua presenza nella Forza talmente dolorosa per chi gli stava intorno che aveva dovuto allontanarsi di qualche metro per non provare malessere diffuso in tutto il corpo, quasi fosse dolore vero e proprio.
Poteva quasi vedere il Lato Oscuro volare in cerchi intorno al suo nuovo collega, ogni giro sempre più vicino, accompagnato dal tanfo della carne in decomposizione e della rabbia impotente.

 

In un primo momento, quando arrivava quasi a lambirne la figura con le sue ombre corruttrici, si fermava come bloccato da qualcosa, forse dal vuoto che aveva percepito dentro di lui da quando si erano conosciuti qualche ora prima, e si ritraeva.
Da quando avevano passato il quaranteseiesimo livello sotto la superficie, tuttavia, le cose erano cambiate: nel corso delle ore, ko’Lun sentiva quello stesso vuoto di prima gradualmente riempirsi, la presenza del Lato Oscuro che con la lenta costanza della sabbia filtrava fra le crepe nell’inesistente corazza della sua fede nella Forza per annidarsi nel suo spirito.
Eppure, nonostante gli fosse sempre stato raccontato degli effetti nefasti che l’essere esposti al Lato Oscuro potesse avere su un individuo sensibile alla Forza, ciò che sorprendeva il Togruta era che non stesse reagendo nei modi che aveva imparato a cercare come sintomi.

 

Si limitava a ribollire nel proprio brodo, per così dire, accumulando tensione, rabbia che continuava a scoppiettare sorda dentro di lui sebbene non andasse oltre: nonostante avesse ricevuto alcune lezioni specificamente per quell’incarico, perché i Maestri che lo avevano scelto avevano intuito che la relazione con la Forza di Torus sarebbe stata particolare dati i suoi trascorsi, era confuso.
Era come se agisse da spugna per l’incubo che era quel posto, come se la sua presenza attirasse il Lato Oscuro e la disperazione che trasudavano da ogni superfici: era l’unica idea che gli veniva in grado di spiegare come mai fino a quel momento non avesse avuto quasi problemi a muoversi fra quelle sale se non l’inquietudine dovuta a un potenziale scatto del mandaloriano.

 

Quella era la sua unica preoccupazione: se Torus avesse iniziato a risentire degli effetti dell’esposizione così prolungata, non aveva letteralmente alcuna idea di cosa avrebbe potuto fare per salvarsi e continuare il proprio incarico, o almeno farcela fino al Tempio per chiamare rinforzi.
Era laggiù con lui, da solo.

 

§ ° §

 

Più si avvicinavano al loro obiettivo, oramai quasi dodici chilometri sotto la superficie dei grattacieli di Coruscant, più Torus trovava difficile mettere insieme la concentrazione necessaria a tenere sotto controllo l’interfaccia dell’elmo con le indicazioni, le letture dei sensori e, soprattutto, le indicazioni di eventuali minacce: era abbastanza conscio da capire quanto fosse importante che il nucleo dell’armatura continuasse a funzionare, perché senza di quello non sarebbe mai riuscito ad arrivare all’obiettivo in tempo e la loro missione sarebbe stata estremamente breve.
Sentiva sempre più forte il bisogno di sangue, al punto che anche Ko’Lun doveva essersene accorto perché si teneva a debita distanza, tanto intenso che ogni passo gli costava sempre più fatica per non perdere completamente il controllo al minimo segno di attività ambientale. Anche banalmente un cumulo di detriti che cadeva da qualche livello più in alto era sufficiente a fargli levare la carabina, sorprendendosi a sperare con tutto il cuore che qualcosa li attaccasse per potere finalmente saziare la propria sete.

 

Sentiva di non essere sé stesso, che qualcos’altro si fosse impossessato di sempre più funzioni non solo del suo corpo, ma anche del suo spirito: era come guardarsi da un’ipotetica terza persona perdere gradualmente il controllo per degenerare in quella che la sua a malapena conscia voce mandaloriana disprezzava con tutta la poca voce che le era rimasta.
E, nonostante quell’ultimo baluardo di resistenza interiore venisse via via eroso dal vento venefico del disonore che aleggiava in quel posto, Torus sentiva una seconda fonte di rabbia salire; non da fuori, ma da dentro.
 

Rabbia per non essere abbastanza forte da opporsi, vergogna per avere permesso a sé stesso di coprirsi così di disonore: cosa avrebbe raccontato a Torque, se fosse tornato da lei? Che non era riuscito a controllarsi e aveva compiuto un massacro senza nemmeno riuscire a fermarsi?
Sarebbe stata nel giusto se lo avesse abbattuto come un mastino rabbioso: Mandalore non aveva spazio per guerrieri così deboli.

 

“E voi dove credete di andare, ragazzoni, eh?”

 

Dal nulla, o almeno così gli era parso, l’ombra del vicolo davanti a loro aveva fatto spuntare dei blaster. Ritornando a sé, il mandaloriano riconosceva i profili evidenziati dai sensori dell’elmo di quattro pistole in pessime condizioni, forse a malapena in grado di sparare qualche proiettile prima che la cella esplodesse in mano all’utilizzatore o la camera di innesco si demagnetizzasse producendo uno sparo non coerente e rendendo l’intera arma completamente inutile. Le mani erano quelle di altrettanti individui vestiti di stracci e tatuati coi sigilli e i simboli di gang di predoni che non riconosceva.
Vedeva un umano pallido come la morte ma gonfio di muscoli e dotato di una mascella da fare paura a uno Wookiee, due rodiani smilzi e bluastri e una femmina twi’lek dello stesso colore del sangue arterioso vestita con quello che pareva un completo da ballerina sotto qualche piastra corazzata piena di ammaccature da proiettile.

 

Pessima scelta di equipaggiamento…

 

Dietro di loro, invece, una barricata alta quasi quattro metri e ricavata da scarti di ogni sorta, da rottami di cemento a piastre scartate di duraplast, filo spinato e piastre motrici di speeders, da cui spuntava la canna minacciosa di un fucile blaster nelle mani di uno zabrak nero come la pece, privo di tatuaggi.
Il proprietario della voce, dedusse per Torus l’armatura.

 

La risposta del mandaloriano, quando giunse, era ringhio che non ammetteva repliche: nel momento in cui si sentì emetterlo, sapeva cosa sarebbe successo… e ciò che era rimasto della sua coscienza stava cercando con tutte le proprie forze di riguadagnare un minimo di controllo per non essere spazzato definitivamente via.

 

“Non rispondo a iridoniani così incapaci da non avere tatuaggi in età adulta.”

 

Voltò l’elmo nero e rosso verso Ko’Lun, grato alla propria abilità di fabbro che non potesse vedere la sua faccia dietro il visore a forma di ‘T’: nemmeno lui voleva sapere in che condizioni fosse.

 

“Spero tu non soffra di stomaco, ragazzino…”


Prima che il padawan potesse reagire, Torus si vide premere un tasto sull’avambraccio meccanico e un lampo azzurro partì dagli scarichi del gravpack, accompagnato dalla familiare sensazione di stretta allo stomaco dovuta alla variazione di gee del decollo.
Con un ultimo, probabilmente titanico sforzo di volontà riuscì ad ancorarsi a quel minuscolo momento in cui aveva sentito il proprio ventre rimescolarsi per il cambio nella normale spinta gravitazionale dato dalla propulsione, aggrappandosi a quanto la adorasse e che posto avesse il volo nella sua vita.
Probabilmente sarebbe caduto comunque, ma almeno il disonore e la vergogna non lo avrebbero preso senza prima doverselo sudare.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Coruscant, parte III ***


Breve premessa!
Intanto, questo è il primo capitolo in cui intervengo “personalmente” quindi “Yay” per me per essere riuscito ad arrivare fin qui senza averne bisogno xD
Come immagiuino abbiate avuto modo di leggere negli episodi precedenti, la piega che Torus sta prendendo non è un gran che: triste, depresso, mani che prudono, etc. E’ un piagnone? Orpo che sì! Ma, d’altronde, tutti prima o poi bisogna passare da quella fase.
 

Intanto, vorrei lanciare un avvertimento a chi è molto sensibile, chi somatizza, chi è un bacchettone, insomma, avete capito: in questo capitolo, finalmente, si picchia. Da dungeon master prima e da aspirante scrittore poi, quando scrivo o descrivo di risse, botte, morti e, in generale, violenza tendo a farlo in modo molto grafico, senza troppi veli e, soprattutto, cerco di essere il più verosimile possibile.
Si spezzano ossa, aprono arterie, fratturano spine dorsali, etc, il tutto segnato da un comune denominatore: il senso.

 

Durante i conflitti di cui scrivo, il mio scopo non è essere splatter, perché quello sarebbe fin troppo facile (oltre che, a mio avviso, poco elegante, ma questa è una mia opinione); cerco, piuttosto, di essere clinico e mi rendo conto che sia un approccio che non a tutti piaccia, ad alcuni dia fastidio e ad altri semplicemente faccia accapponare la pelle. Se siete lettori a cui piace un livello basso di violenza in ciò che legge, allora questo capitolo potrebbe non fare per voi, dato che è da qui che la storia prende il rating arancione (ero addirittura tentato di metterlo rosso).

 

Seconda cosa, se fino a ora non fosse sembrato chiaro, quella mandaloriana è una cultura che ha un rapporto molto strumentale con la guerra e, più in generale, la violenza: non la incoraggia quando non è necessaria, ma sa che quando serve, serve e bisogna essere in grado di dare il massimo anche lì. Riporto le loro opinioni, non necessariamente le mie, sono temi delicati e appunto per questo ne scrivo: per capire.

Spero di avere fatto una pappardella eliotropica per nulla, ma non si sa mai xD



 

§ ° §

 

Con lo scatto di un fulmine scagliato dallo stesso Kad Ha’rangir nell’Akaanati’kar’oya, la Guerra della Vita e della Morte, Torus aveva preso il volo, alzato in aria dalla possente spinta di tre volte la forza gravitazionale locale, per angolare verso la barricata la traiettoria nel suo punto di massima altezza.
Accompagnato dagli scarichi del gravpack, fiamme azzurre e spettrali dovute all’assenza di carburante liquido di un più comune jetpack, e dal suo vibrare come una vespa impazzita come volesse affondare le zanne nei nemici del suo padrone, il mandaloriano era piombato sullo zabrak con la forza di un maglio idraulico.

 

In barba a tutto, aveva deciso: non aveva senso continuare a combattere una battaglia interiore che lo avrebbe logorato e lasciato poi scoperto per quella che invece stava per infuriare fuori da sé. Tanto valeva risolvere quel conflitto inutile per poi dedicarne le energie a quello vero, quello nella strada, a farlo finire prima; così aveva divinato dallo stormire frenetico delle foglie di veshok che si agitavano in preda alla frenesia della guerra nel sottofondo della sua coscienza.
Eppure, nonostante tutto, quel poco che era rimasto di lui sentiva di avere fatto una concessione di troppo a Darasuum, la stagnazione, l’eternità. Non era riuscito a continuare a combattere la vera battaglia, quella per l’anima di guerriero, e si era ritirato lasciando che altri la conducessero al suo posto.

 

Aveva così tanto bisogno di uccidere… di disperdere quel calore tossico che si stava accumulando dentro di lui e, soprattutto, di scaricare la rabbia che sentiva insinuarsi nel suo cuore per il fallimento; doveva buttare fuori.
Aveva bisogno di una Crociata.

 

Sentì, come se il tempo avesse rallentato e ogni suono fosse filtrato da quattro elmi uno sopra l’altro, lo sparo ovattato del fucile blaster del nero accompagnato dal lampo rossastro della canna e da un improvviso quanto sorprendentemente lontano impulso doloroso alla gamba sinistra prima di avvertire contatto sotto la mano meccanica.
Sentì che incontrava resistenza, prima morbida, poi più rigida sebbene sempre leggermente flessibile, che però non fu abbastanza: cedette con lo schiocco dell’osso che si spezza, seguita dalla familiare sensazione di affondare in una ciotola di gelatina mentre una serie vagamente regolare di punte più o meno affilate grattavano sulla blindatura esterna dell’avambraccio.

 

Quando effettivamente guardò ciò che aveva appena fatto, si vide con il pugno chiuso affondato fino al polso nel cranio dello zabrak, il corpo dell’alieno percorso da un ultimo attacco di convulsioni dovute alla violazione così veloce del suo centro nervoso che aveva mandato in corto l’intero corpo, l’espressione mista fra sorpresa, terrore e l’asettica indifferenza della morte. Sentì anche, Torus, questa volta interiormente, le vibrazioni dei servomotori interni alla spalla meccanica che assorbivano e disperdevano la forza inversa che, se avesse avuto ancora il suo braccio organico, avrebbe dovuto semplicemente sfondargli tutte le articolazioni fino all’attaccatura dell’omero e forse oltre.
L’altro, quello ancora buono, era aggrappato al parapetto dal quale erano stati apostrofati mentre si puntellava con le gambe; quel poco di raziocinio che era rimasto in lui gli urlava a piena voce di togliersi subito da una posizione così esposta prima che gli altri razziatori reagissero, eppure per qualche istante si trovò a contemplare l’idea di non dargli ascolto e indulgere ancora qualche momento nei propri bisogni.

 

Estrasse la mano cercando di non toccare la materia grigia che colava dal buco che vi aveva aperto all’altezza delle tempie, osservando però con sorpreso distacco il proprio operato: non era contento di ciò che aveva fatto, non ne traeva godimento, e almeno quello faceva sperare in bene quella piccola vocina che cercava disperatamente di aggrapparsi a qualunque cosa per guadagnare un appiglio e tornare a combattere Darasuum.
Si sentiva leggermente meno peggio, se aveva senso un pensiero del genere: un pochino meno pieno di bile e rabbia tossica; da quello a sentirsi bene, tuttavia, passavano mari e galassie.

 

Rapido come aveva attaccato, al punto quasi da non riuscire a tenere consciamente traccia dei propri movimenti, estrasse la corta lama da combattimento che teneva assicurata all’altezza dell’osso sacro e diede un’altra spinta col gravpack, stavolta indietro, per atterrare in mezzo ai due rodiani.
Il primo si ritrovò con mezzo metro di duracciaio vibrante affondato parallelamente alla spina dorsale partendo dal cranio per arrivare direttamente a un polmone e, a giudicare dalla velocità con cui era stato percorso dallo spasmo della morte, almeno un’arteria. Torus non aveva nemmeno sentito ossa e carne opporre resistenza alla vibrolama, poco erano protetti.

 

Il secondo, invece, non era stato altrettanto fortunato: per qualche fortunata coincidenza era riuscito a gettarsi a pesce da un lato sfuggendo al gomito corazzato che gli avrebbe probabilmente accartocciato la spina dorsale non tanto per la forza del proprietario, solo leggermente maggiore della media, ma per l’altezza della caduta accelerata. Il mandaloriano si limitò a degnarlo di uno sguardo fugace intanto che la sua mente entrava nella disposizione della macchina da guerra, riconosceva l’impossibilità di prenderlo senza esporsi troppo e puntava all’umano senza un altro pensiero. Se non era stato ucciso subito, il rodiano superstite sarebbe solamente morto più stanco del consanguineo.

 

L’umano pallido, invece, era riuscito a riprendersi dallo shock iniziale e gli stava correndo contro come un gamorreano caricherebbe un rivale durante uno dei loro patetici duelli di presupposto onore.
Era completamente esposto a un eventuale fuoco di risposta, ma la distanza era talmente poca che travolse Torus con la forza di una valanga, costringendolo con le spalle al muro entro poche frazioni di secondo; il mandaloriano non aveva idea di come avesse fatto ad avere anche il minimo sentore di ciò che sarebbe successo di lì a poco, perché si trovò con le suole degli stivali ben piantate contro la barricata, il corpo parallelo alla strada intanto che cercava di opporsi alla massa titanica dell’umano che, invece, cercava di schiacciarlo contro la costruzione di scarti. Nonostante anni sul campo e come artigiano lo avessero dotato di una discreta muscolatura a propria volta, era abbastanza lucido da sapere di non potere competere con quella insensatamente sviluppata di quel colosso, che con tutta probabilità era un gladiatore nelle fosse ancora più giù.

Non aveva alcuna possibilità contro impianti cibernetici ai limiti dell’illegale e cocktail di droghe e stimolanti da combattimento tali da uccidere dopo pochi usi, così accese nuovamente il gravpack per darsi quella ventina di chili di spinta in più che gli servivano per rovesciare la situazione.

 

Assordato dalle urla stridenti delle piastre antigravitazionali poste sotto stress ben maggiore di quello per cui fossero tarate e inondato dal dolore dei pistoni del braccio meccanico che a malapena riuscivano a non slittare nel lubrificante e sfondare l’intera struttura interna tanto era lo sforzo a cui erano sottoposti, si lasciò sfuggire un ruggito di sofferenza e muta rabbia mentre notava con cupa soddisfazione di stare gradualmente arrivando a una posizione di vantaggio.
Fu in quel momento che, finalmente, si sentì vivo: stava sudando per ottenere qualcosa, stava rischiando per arrivare a un risultato e per un breve momento era stato in una posizione sottomessa, ma non più.
Con uno sforzo titanico che era sicuro gli avrebbe spezzato le spalle, riuscì ad aprire le braccia all’avversario, portandogliele ai fianchi, mentre un’altra voce interiore, il tono tronfio e arrogante di un tiranno che assiste gongolante alla sconfitta del campione nemico per opera del proprio, gli diceva di continuare, di non opporre resistenza alla fisica.

 

Fu lì, che la ragione riuscì a prendere per qualche istante il controllo, riuscendo a fargli urlare nei confini claustrofobici del buy’ce il comando giusto per aumentare la spinta oramai al limite del gravpack e angolare la traiettoria dell’elmo perché il suo intero corpo, oramai privo di ostacoli a trattenerlo, sfrecciasse in avanti investendo con la furia di un treno in corsa la parte alta del tronco dell’umano.
Non sentì nemmeno il rumore dell’osso del collo che si spezzava, solo lo spostamento d’aria della propria massa che, accelerata a velocità che non voleva sapere, spingeva quella oramai inerte del proprio ultimo nemico per ciò che gli parve almeno una dozzina di metri in avanti.

 

Quando riuscì a rialzarsi, si sentiva come se un masso di almeno sette quintali gli fosse caduto sul cranio in un doposbornia di rum corelliano con pestaggio, rallentato, farraginoso e indebolito.
A malapena gli era possibile muoversi, risalire in piedi, come accompagnato dalla risata di scherno di Hod Haran, la fortuna ingannevole; sapeva che c’era qualcosa che non andava, sia fuori che dentro di sé, sentiva il retrogusto di bile in bocca intanto che constatava di essere apparentemente ritornato in controllo delle proprie facoltà.

Non capiva cosa fosse successo, ma era sicuro sul fatto che non gli piacesse, al che gli occhi gli caddero sull’ultimo membro rimasto della banda di predoni: la twi’lek rossa, tenuta sotto minaccia dalla spada laser verde di Ko’Lun che improvvisamente doveva avere tirato fuori gli artigli mentre Torus era impegnato nel proprio massacro.

 

La ragazza, inginocchiata con le mani dietro la testa a un lato del marciapiede, era un cumulo di tremori, gemiti di paura e terrore: poteva sentire il suo vento che faceva fremere all’impazzata le foglie dei veshok intorno a sé.
L’unica reazione che ebbe fu pena per la povera creatura, talmente impaurita da non riuscire nemmeno ad aprire bocca per formulare parole coerenti… non avrebbe avuto senso ucciderla: aveva già fatto abbastanza cose strane e si sentiva stranamente spossato.

 

“Lasciala andare, ragazzino… non ci è di alcun uso morta.”

 

Con cautela, sebbene stranamente non apparisse spaventato, il togruta fece segno alla twi’lek di andarsene, probabilmente mosso a pietà anche dalla parentela fra le due razze, e si avvicinò con aria seria al mandaloriano prendendolo per un braccio e attirandolo a sé.
Torus si sentiva indebolito e vuoto al punto da non riuscire a opporre resistenza.

 

“Calas, ascoltami.”

 

L’armaiolo chiamò a sé quante più energie poteva per opporsi alla scelta del nome, ma la sua anima sembrava non rispondere.

 

“Hai idea di cosa hai appena fatto?!”

 

Torus scosse la testa.

 

“Onestamente? Ori’e Mand’alor’e, no!”

 

Ed era tutto vero: per lui era stato come essere sbattuti in un corpo che agiva per conto proprio senza dare minimamente retta a ciò che avrebbe dovuto controllarlo. Ko’Lun, tuttavia, pareva sapere qualcosa che a lui era negata, perché lo vide annuire pensieroso quando gli ebbe risposto.

 

“Forse ho un’idea, ma prima mi servono dati in più. Da quanto tempo hai smesso di percepire la Forza?”

 

Nonostante Torus avesse una vaga idea di dove volesse andare a parare, era troppo confuso per seguire attivamente il ragionamento del padawan… o di preoccuparsi di come facesse ad avere un intuito così affilato.

 

“Da qualche mese, dopo che ho avuto l’incidente dove ho perso il braccio… perché?”

 

Il togruta annuì nuovamente, lanciato nel proprio ragionamento; fosse stato in condizioni migliori, Torus avrebbe quasi potuto vedere gli ingranaggi della sua mente macinare.

 

“Come è avvenuto?”

 

Sprofondando con un gemito di stanchezza misto a dolore su un cumulo di rottami e detriti, il mandaloriano si tolse l’elmo per guardarlo in volto, esausto anche per dare il comando al visore di ripulirsi dal sangue e la materia grigia.

 

“Una taglia mi fece crollare una fermata del treno magnetico addosso, lasciandomi laggiù sotterrato per almeno un paio di giorni.”

 

C’erano cose che, tuttavia, anche nel triste stato in cui versava in quel momento non poteva non dimenticare: si erano marchiate così a fondo nella sua anima che semplicemente non riusciva a fare altrimenti.

 

“Ricordo di avere fatto incubi dopo l’esplosione, in cui affrontavo un guerriero con l’armatura verde avendo a disposizione solo il braccio sinistro e nessun’arma. Non so quanto sia durata, ma non ho mai preso legnate così forti da quando sono nato, alla fine.”

 

Infine, con un altro sforzo che gli parve titanico, riuscì ad arrivare fin dentro l’elmo e premere il pulsante della polarizzazione tergicristallo, che semplicemente fece scivolare via lo sporco dal vetro antiblaster.

 

“Il verde è il colore che associate al dovere, vero?”

 

Torus annuì, segretamente sorpreso che un nayc’manda, un non mandaloriano, al Tempio si fosse preso la briga di studiarli anche solo in parte.

“E ha vinto lui… e quando ti sei svegliato?”

 

“Non sentivo più Kot… la Forza. Ero in una stanza di ospedale, a Keldabe, credo. C’erano Torque e sua figlia sedute in corridoio ed è entrato il medico per i controlli di routine. Mi vuoi dire cosa ti passa per la testa o devo garantire per te ai servizi segreti?”

 

Ko’Lun parve sorridere al complimento nemmeno tanto velato, per poi decidere di gettare la maschera e giocare a carte scoperte: aveva abbastanza informazioni da riuscire a mettere insieme un quadro coerente… e altrettanto interessante, se ciò che rimaneva un sospetto era accurato.

 

“Durante il coma, hai usato la tua connessione con la Forza per rimanere vivo, anche se per fare questo l’hai consumata: per tenerti su, il tuo spirito ha combattuto una battaglia tale che lo ha lasciato prosciugato di ogni energia, per così dire. Quando hai scoperto il frammento dell’holocron, invece, è come se un fiume deviato avesse riscoperto un proprio letto passato, finendo per scorrerci nuovamente; deve avere catalizzato una qualche reazione che ti ha ‘riacceso’, se mi passi il termine.”

 

Torus gli rivolse uno sguardo sommamente confuso: non era settimana di certezze, quella.

 

“E ciò come si connette con ora?”

 

“Dato che sei passato da svariate situazioni di forte squilibrio, ho il sospetto che la tua connessione con la Forza abbia bisogno di assimilarne entrambi i lati per stabilizzarsi. Prima è come se tu avessi assorbito il Lato Oscuro, subendone una sorta di overdose.”

 

Il mandaloriano lo squadrò per qualche secondo, i suoi neuroni che con estrema lentezza iniziavano a carburare a propria volta. Detestava ammetterlo, ma il discorso stava in piedi.

 

“Mi stai dando del tossico, ragazzino?”

 

Scosse subito la testa, ridendo di sé stesso e della propria reazione.


“Certo che sì… è quello che è successo, in fondo. Ho… fallito.”

 

L’espressione del padawan parve addolcirsi mentre si sedeva accanto a lui.

 

“No, hai semplicemente mosso il primo passo di una serie necessaria che dovrebbe riportarti all’equilibrio. Non sai quanti Cavalieri e Maestri ci passano e non si rialzano più: tu, invece, adesso, sei ancora qui e ciò non è poco.”

 

Torus si rialzò di scatto, sebbene fosse evidente che il suo spirito e il suo corpo non ne fossero in grado; si rimise l’elmo, riprese la propria lama dalla strada e diede un’ultima controllata alla mappa.

 

“Andiamo. Meno stiamo in questo covo di feccia, meglio mi sento.”

 

Lasciandolo andare avanti, Ko’Lun ascoltava la Forza intorno a lui: non sentiva rabbia, non prevalente, ma paura e dolore. Sentiva vergogna nei confronti della ragazza coi capelli blu e una bambina bionda di non più di dodici anni.

 

Torus aveva anche perso una battaglia, ma la guerra per la sua anima era ancora tutta da combattersi e il giovane togruta non riusciva a togliersi di dosso la sensazione di essere a malapena un agente di un potere ben maggiore, un osservatore.

 

Aveva sospetti su quale sarebbe stato il ruolo di quella guerra nei giorni a venire e, se da un lato era contento per l’effetto sul mandaloriano, dall’altro era preoccupato di vedere un altro guerriero soccombere.

 

Note di commiato!

Bene, dame e gentilalieni, questo era l’ultimo capitolo di Giù per il tubo, anche se la storia del (mica tanto) buon Torus, della sua variopinta collega e del (davvero) buon Ko’Lun è lungi dall’essere finita ;) ci vorrà un po’, ma alla fine continuerà!

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3493240