Don't let it break your heart

di Pascal76
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Wouldn't wanna waste a thing ***
Capitolo 2: *** If I lost it all ***
Capitolo 3: *** I fell into the trap ***
Capitolo 4: *** Leave a light on ***
Capitolo 5: *** Millions of miles from home ***
Capitolo 6: *** Tired and under prepared ***
Capitolo 7: *** When you thought that it was over, you could feel it all around ***



Capitolo 1
*** Wouldn't wanna waste a thing ***


« Nina! Ninaa! » bisbiglia mio fratello. Apro un occhio e lo guardo, cercando di capire che diamine gli succede. È sdraiato accanto a me, un braccio intorno ai miei fianchi, aggrappato come se temesse di essere abbandonato. Mi alzo sui gomiti e accendo la torcia accanto a me cercando di fare il minor rumore possibile.

Mio fratello inizialmente si copre gli occhi con le mani spaventato dalla luce troppo improvvisa, poi prende coraggio e le sposta. I suoi occhi marroni spalancati dalla paura mi guardano, finché non capisco che cosa effettivamente lo sconvolge.

« Oh Alex » sussurro. Frugo nello zaino e ne estraggo del sofficissimo cotone che uso per asciugargli il sangue colato dal naso. Con movimenti delicati, gli tappo una narice con del cotone pulito rimasto e mi assicuro che non ci siano tracce di sangue incrostato. Dopo aver finito gli do un leggero bacio sulla fronte. Scotta.

« Alex, ascoltami. Adesso vado di sopra a prendere delle garze dal kit di pronto soccorso della mamma e torno subito. Tu non muoverti e non far rumore, hai capito? » gli dico. Lui annuisce e prima che possa alzarmi dal nostro letto mi abbraccia forte. Io ricambio l'abbraccio e lo rassicuro dandogli leggere pacche sulle spalle e accarezzandogli i capelli un po' sporchi.

Quando mi lascia andare, mi alzo e in punta di piedi e raggiungo la scale. Salgo un gradino alla volta con molta cautela, temendo che un movimento sbagliato possa provocare scricchiolii fastidiosi capaci di attirare l'attenzione di ospiti indesiderati. Tutto fila liscio e, una volta raggiunto l'ultimo gradino mi giro e guardo mio fratello : è sdraiato sul letto abbracciato al cuscino, i capelli arruffati e l'espressione innocente e angelica di un bambino assopito.

Vederlo così mi mette tenerezza, e diciamo che è proprio questo a darmi la forza di andare avanti : voglio che Alex sopravviva. Prima del mio bene, voglio il suo. Voglio che ce la faccia, che superi ciò che sta tacitamente e inconsciamente affrontando. Dobbiamo farcela.


 

È cominciato tutto 6 o 7 mesi fa. Era una giornata tranquillissima di primavera e tutto sembrava andare bene. Uscimmo di casa, imboccammo la strada per la scuola di Alex, quando all'improvviso si sentì un coro di urla disumane.

Centinaia di migliaia di persone persero il senno e cominciarono a urlare disperate mentre il loro cervello si bruciava inspiegabilmente.

Quello era il primo attacco, ma nonostante tutto molti sopravvissero.

Si cominciarono ricerche per dare una spiegazione alla strage appena accaduta. Secondo alcuni era un virus, secondo altri si trattava di “onde magnetiche capaci di distruggere il cervello”, per altri ancora era una punizione inflitta da Dio. Sta di fatto che la soluzione a quel dilemma non la si trovò mai.

Quasi 2 settimane dopo, accadde di nuovo. Stavolta fu più atroce e più lungo e fece un numero di vittime pari alla quintuplo di quelle precedenti. Era come un sibilo fastidioso che ti spaccava i timpani e ti scuoteva le viscere. Quel giorno, nel tentativo di salvarmi e di coprirmi le orecchie, vidi i miei genitori trasformarsi in creature orribili piegate in due dal dolore. Si accasciarono a terra e il loro corpo cominciò a dimenarsi in preda agli spasmi.

Più tardi erano spariti.

Nel frattempo avevo messo al sicuro mio fratello. Entrando in camera sua, ringraziai ogni forma di Dio quando lo vidi sdraiato sul letto con le cuffie che gli avevo regalato a Natale sulle orecchie. Strizzava gli occhi e premeva le mani sulle cuffie, il che probabilmente lo salvò.

Pure io mi salvai.

Ma il “come?” e il “perché” rimasero un segreto, domande a cui non avevo mai risposto perché le mie priorità presto divennero altre. In casa il cibo scarseggiava e fuori l'ambiente era diventato ostile, oltre il fatto che avevo paura di uscire per cercare qualcosa e ritrovarmi sbranata da uno di quei mostri che a volte vedevo circolare come zombie.

Dopo un po' sparirono pure loro. Non seppi precisamente perché, ma fu rassicurante sapere che fuori non c'era più nessuno in grado di ucciderti. Quando lo dissi a mio fratello, la gioia fu tale da ritrovarmi costretta a potergli lasciare la libertà di correre e urlare per le strade di quello che un tempo era il nostro quartiere, ormai ridotto ad un mucchio di macerie. Io e Alex ci eravamo nascosti in taverna, dove non poteva trovarci praticamente nessuno se noi non l'avessimo voluto, il che era una fortuna, vista la condizione di certi edifici. Fu quel giorno che scoprii che mio fratello era malato. O almeno, la sua pelle presentava numerose - e a volte estese – chiazze violacee che non promettevano nulla di buono. All'inizio ignorai la cosa, ma man mano pure lui si accorse di avere qualcosa che non andava. Pensai che fosse l'ambiente, che magari era veramente un virus e Alex ne era stato infettato. Non potevo di certo saperlo con certezza – non c'era un'anima viva nel raggio di 4 chilometri, figuriamoci un medico – ma era l'ipotesi più accreditata. Quindi da quel giorno lo costrinsi a rimanere in taverna 24 ore su 24 e cercavo di contenere i sintomi il più possibile : impacchi ghiacciati, analgesici, antibiotici.

La mia più grande paura era quella che da un giorno all'altro Alex mi abbandonasse. Se fosse davvero successo non me lo sarei mai perdonato. Lui aveva ancora tanto da vivere e piuttosto avrei preferito morire io che veder morire lui in queste condizioni. Era semplicemente inaccettabile. 

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Capitolo 2
*** If I lost it all ***


Afferro la maniglia e lentamente la giro. Apro la porta di poco e controllo.

Di quella che un tempo era casa nostra è rimasta soltanto un pezzo di cucina ed un corridoio e, in fondo a quest'ultimo, la porta che conduce alla taverna. Tutto il resto è stato spazzato via da terremoti, temporali e a volte tempeste spaventosamente forti alle quali siamo riusciti a sopravvivere. Potremmo cominciare a definirci creature soprannaturali se sopravviviamo a tutte questi ostacoli, ma il solo pensarci mi ricorda mamma e papà e l'ultima volta che li ho visti, mentre impazzivano e diventavano come tutti gli altri.

Avevo cominciato a chiamarli zombi, ma non so se è la definizione più corretta.

Scaccio quei ricordi dalla mente e piegata sulla schiena raggiungo la cucina. So che da qualche parte mamma nascondeva un kit del pronto soccorso per quando si tagliava per sbaglio con i coltelli da cucina. Il punto era sapere dove.

Frugo in giro, facendo particolare attenzione a non causare uno sferragliare di pentole e piatti capace di attirare l'attenzione di chiunque anche a centinaia di metri. Anche se forse non è rimasto più nessuno penso.

Quando lo trovo mi faccio involontariamente scappare un “Si!” non troppo contenuto. Di riflesso, mi tappo la bocca con una mano.

Aspetto lì, ferma di fronte all'armadietto accanto al frigorifero, il punto più esterno di casa mia. Dicono che se rimani immobile dove sei, magari gli zombi ti risparmiano. E infatti è così che faccio. Rimango lì, impalata e conto fino a 10.

1, 2 , 3 , 4... sento dei fruscii provenire da una siepe lì vicino. Maledizione.

5, 6 non farti prendere dal panico.
7
8

ancora un altro fruscio, stavolta più vicino di quello precedente.

9

10.

Aspetto ancora per quelle che sembrano delle ore, ma stavolta non succede più niente, quindi ne approfitto e ritorno in taverna a passi svelti. Una volta dentro chiudo delicatamente la porta e traggo un sospiro di sollievo. Aspetto che il mio respiro si faccia regolare, quando scendo le scale e raggiungo mio fratello, che intanto è caduto in un sonno profondo. Gli metto due dita sul collo e controllo i battiti, giusto per assicurarmi che i lenti movimenti del diaframma non siano un'illusione.

Okay, è vivo.

Mi siedo sul pavimento e con fatica apro il kit : non c'è quasi niente. Cerotti, scotch, olio, burro cacao, ma di garze non ne vedo. Cerco, ricerco, svuoto la piccola valigetta, ma non ci sono.

Come diamine si fa a non avere delle garze in casa?

Rimetto le cose nella valigetta e mi prendo il viso con le mani.

Mi obbligo a pensare a qualcosa, ma non mi viene in mente nulla.

Uno straccio bagnato potrebbe servire, ma quanto durerà?

Troppo poco e non possiamo permettercelo. Non posso permettermelo.

Potrei andare nella farmacia vicino alla scuola, ma è troppo lontana. E sopratutto, non potrei andarci oggi. Di sicuro, chiunque mi stesse osservando mentre cercavo il kit, di sicuro aspetta che io esca dal nascondiglio, quindi oggi è meglio evitare.

Cammino avanti e indietro per la taverna, cercando di rassicurarmi e di fare pensieri positivi. Le garze potranno essere utili è vero, ma anche uno straccio bagnato non scherza. Certo, le garze sarebbero meglio e sono anche più leggere e resistenti – e dopo un po' non puzzano -, ma anche lo straccio bagnato può aiutare.

Cerco di convincermi in tutti i modi, ma è come se mi stessi prendendo in giro volutamente, cosa che non sopporto.

Potrei allontanarmi di notte.

Potrei andare fino alla farmacia e prendere ciò che mi serve. È pericoloso perché non vedi nulla, ma allo stesso tempo è vantaggioso perché non puoi essere visto, quindi chiunque sia lì fuori ad aspettarmi potrebbe non vedermi.

Alex mugugna e cambia posizione sul letto, lasciando un braccio cadere dal materasso. Glielo sistemo e lo guardo, pensando alle conseguenze che il mio gesto potrebbe comportare.

Potrei non tornare mai più e lui rischierebbe di morire divorato da qualcosa non conosce, ma allo stesso tempo se rimango qua lui morirebbe comunque, quindi tanto vale provarci.

È solo febbre Nina, solo febbre.

Mi protendo verso il piccolo e gli lascio un leggero bacio sulla fronte bollente.

Dopodiché mi cambio e metto i vestiti più scuri che riesco a trovare in taverna – prima che metà casa fosse distrutta ho fatto scorta – e svuoto lo zaino un tempo stra colmo di merendine. Prendo la torcia elettrica e la infilo nella tasca della felpa, verificando che effettivamente funzioni ancora, anche se dubito che la userò. Mi servirà solo per le emergenze, ma spero proprio che non ce ne siano.

Mi siedo accanto al letto e comincio a farmi mentalmente un piano d'azione, consapevole che ogni gesto sbagliato potrebbe nuocere sia me che Alex. È successo tante altre volte che dovessi andare da qualche parte di notte, ma mai in una situazione come questa, con mio fratello messo così tanto male da far stare male pure me in un certo senso. E poi, erano mesi che la zona era completamente deserta, quindi non capisco perché improvvisamente qualcuno sia tornato.

« Nina » mugugna Alex, girandosi sul letto.

« Hey campione » rispondo, prima di rendermi conto che sta parlando nel sonno. La cosa mi getta ancora di più nello sconforto e mi fa pensare al peggio.

Mi avvicino un poco di più a lui e gli accarezzo una guancia. Brucia.

Devi andare, sta peggiorando. Mi suggerisce il subconscio.

Obbedisco e, senza guardarmi indietro, esco dalla taverna con lo zaino in spalla. Uscendo controllo due volte la zona e mi sollevo il cappuccio sulla testa, prima di incamminarmi verso il centro. 

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Capitolo 3
*** I fell into the trap ***


Sto principalmente a lato della strada e faccio attenzione a non calpestare ramoscelli o foglie secche che potrebbero segnalare la mia presenza. Tutti i lampioni fortunatamente sono spenti, anche se l'atmosfera cupa e silenziosa della strada non è così poi invitante e non trasmette nemmeno sicurezza. Passo i primi 5 minuti così, sperando nel meglio, ma preparandomi al peggio. Devo continuare a farmi mente locale del perché sto rischiando così tanto, anche se ogni tanto non mi sottraggo dal pentirmene amaramente e chiedermi che male ci sarebbe nel lasciarlo guarire da solo.

Che male vuoi che ci sia Nina, eh? Che male vuoi che ci sia se sai bene che non guarirà da solo e anzi, peggiorerà?! Mi rimprovero.

Arrivo all'incrocio e controllo ancora. Vorrei accendere la torcia, ma sarebbe una scelta rischiosa oltre che stupida. Cosa meglio di un po' di luce può attrarre l'attenzione nel buio più totale della notte?

Attraverso la strada di fretta e per sbaglio calpesto un ramoscello. Mi si gela il sangue nelle vene quando sento l'eco di quel terribile suono propagarsi per la strada. Immediatamente cerco riparo, sperando che nessuno abbia sentito il suono. Anzi, spero proprio che non ci sia nessuno.

Mi nascondo dietro al bancone di un negozio di vestiti ormai vuoto e aspetto alcuni secondi, prima di sbirciare. All'inizio non noto assolutamente nulla di strano, ma preferisco aspettare. Sento come se, nel momento stesso in cui mi alzerò, una figura spunterà da lontano e mi catturerà. Allora non ci sarà più nulla che io possa fare per poter salvare mio fratello, a parte cercare un riparo il più lontano possibile dalla taverna, il che lo ucciderebbe.

Aspetto ancora e scruto più scrupolosamente la strada. Dalla mia posizione riesco a vedere tre strade su quattro, quindi ho una visuale molto ampia, ma non per questo perfetta. Non vedendo nessuno mi alzo cautamente, ma subito mi riabbasso quando scorgo il bagliore di una torcia in movimento.

Avevo terribilmente ragione. Lì c'è qualcuno.

Ho la gola secca e faccio fatica a respirare, ma mi sporgo di poco ancora e riguardo. Il bagliore piano piano si fa più potente e comincio ad intravedere una figura incappucciata farsi strada verso l'incrocio. La figura si guarda intorno puntando la torcia principalmente sui negozi. Quando vedo che sta per illuminare quello dove sono nascosta io, ritorno alla mia posizione iniziale. Come previsto, la luce viene puntata all'interno del negozio. Controllo che non mi veda, ma per fortuna tutto ciò che si scorge non sono altro che le ombre dei manichini spogli e del bancone. Mi aggrappo ad esso come temendo che possa da un momento all'altro volatilizzarsi e farmi beccare, quando sento delle voci che sghignazzano e urlano.

Mi si svuotano i polmoni d'aria quando capisco che appartengono a ragazzi della mia età, o poco più grandi. Mi sento montare la speranza che siano persone che conosco, quando improvvisamente mi ricordo di quando molti dissero di aver sentito voci familiari chiamarli per poi scoprire che erano delle trappole montate da persone sconosciute.

Era così che alcuni se n'era andati : ingannati dalla voce di una persona che conoscevano, sono stati uccisi dal loro istinto.

E io stavo per cadere nella loro stessa trappola.

Non potevo farmi incastrare così. Non potevo lasciare che Alex morisse per un errore dettato dal mio istinto.

E allora aspetto.

Aspetto che le voci si allontanino per poi alzarmi cautamente e intrufolarmi nel magazzino ormai sgombro. La porta che conduce verso l'esterno è semichiusa, quindi decido di approfittarne ma, quando poggio una mano sulla maniglia, quest'ultima cigola rumorosamente.

Decido di non rischiare troppo e mi nascondo a lato della porta, con una spalla sui cardini arrugginiti. La prossima volta controllerò se le porte hanno bisogno di un filo d'olio penso, mentre ogni cellula del mio corpo spera che il rumore non abbia attirato l'attenzione di nessuno.

Ispiro ed espiro, cercando di trovare la calma nonostante il cuore sembra volermi esplodere nel petto.

Tutto questo è assurdo.

È assurdo che qualcuno sia tornato indietro, dopo 6 mesi che l'area è disabitata.

Assurdo.

Ci deve essere una spiegazione logica a tutto ciò, ma non mi viene in mente nient'altro tranne che l'idea che le persone là fuori siano venute per uccidere, come dal resto lo erano quelli a cui il cervello è stato praticamente bruciato nel primo attacco.

È troppo rischioso.

Non riuscirò mai a prendere i farmaci per Alex se improvvisamente Hide Park sembra essersi popolato. Non è nei limiti del possibile. Sopratutto se 2 porte su 3 cigolano.

Organizzo un piano per la ritirata e mentre sto raccogliendo le forze per quello che pensavo fosse improbabile, le mie orecchie captano qualcosa.

È un fruscio non troppo lontano da dove sono adesso.

Cerco di vedere qualcosa dallo spioncino sulla porta, ma con tutto quel buio non riesco a distinguere le foglie della siepe, figuriamoci delle “persone”. Con lo sguardo cerco qualche altro punto da cui posso spiare la situazione all'esterno del negozio, ma non trovo nulla a parte un condotto dell'aerazione semi rotto troppo in alto per essere raggiunto con facilità.

Il fruscio si fa più intenso e i battiti del mio cuore cominciano ad accelerare vertiginosamente. Mi ritrovo spalle al muro, le mani sudate e il respiro corto.

Chiudo gli occhi.

Se è davvero arrivata la mia ora preferisco morire pensando a qualcosa di positivo, che stando in ansia per qualcosa che non so se arriverà, ma che arriverà sicuramente.

Dove ho sbagliato?

Era un piano perfetto in partenza, poi sono inciampata e tutto ha cominciato ad andare a rotoli.

Che stupida...

Non sto pensando ad Alex, il che è un fattore assolutamente negativo, ma non farlo mi tiene sveglia e pronta a qualsiasi cosa, anche se le mie probabilità di scamparla sono sotto zero, come la temperatura.

Una mano malferma afferra la maniglia della porta esitante. Prendo un respiro profondo, anche se farlo mi causa dolori acuti al petto, e mi preparo a saltargli addosso, quando sento altre voci in lontananza. « Richard! Che diamine ci fai lì? » « Che cazzo stai facendo? »

Lui si ferma e risponde. « I sensori dicono che qua c'è qualcosa! »

Perdo un battito. Ha detto davvero sensori o me lo sono immaginata?

« E tu ancora ti affidi a quelle stronzate? Lo sai pure tu che sono mezzi scassati. » replica un'altra voce maschile. Parla in tono scherzoso, come se in effetti i due si conoscessero bene. Come se fossero amici. Umani. Normali.

« Ma … » cerca di giustificarsi Richard.

« Dai, lascia stare! » dice l'altro.

Esatto, lascia stare mi ritrovo a pensare.

Richard non demorde senza dare prima un'occhiatina fugace al magazzino. Per un attimo temo di essere scoperta, ma lui non si ferma e chiude la porta, segno che evidentemente non mi ha vista.

Aspetto cinque secondi, dopo sento il rombo del motore di una moto che si allontana.

Poi, silenzio. 

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Capitolo 4
*** Leave a light on ***


LEAVE A LIGHT ON.

Sto correndo a perdifiato verso casa.

In lontananza si vedono le prime luci dell'alba, segno che sono stata via molto più del previsto e che probabilmente Alex deve già aver notato la mia assenza.

Quando sto per avvicinarmi alla macerie di quello che un tempo era un posto sicuro ed accogliente, noto qualcosa di strano sulla strada. Ci sono dei segni tracciati con qualcosa che sembra gesso rosso : due cerchi disposti come gli anelli di una catena e delle scritte al loro interno; nel primo ci sono due X, nel secondo una X e una Y.

Il mio primo pensiero va ad Alex.

Senza badare a tutte le precauzioni che mi ero data in precedenza mi fiondo in taverna spalancando la porta. Grazie alla debole luce dell'alba riesco a scorgere la piccola lanterna lasciata accanto al letto, le coperte sfatte e il kit del pronto soccorso aperto, ma di Alex proprio nulla. Chiudo la porta con cautela ed estraggo la torcia elettrica. Comincio a cercarlo con lo sguardo, ma non lo trovo. Per l'ennesima volta in pochissimo tempo mi sento mancare il fiato.

No, no , no non può essere vero.

Punto la torcia ovunque, ma di mio fratello nemmeno l'ombra.

Ci hanno trovati. Lo hanno trovato. Me lo hanno portato via.

Come diamine hanno fatto?

Sto per piegarmi in due dal pianto, quando sento qualcuno afferrarmi una mano. Con uno scatto fulmineo mi libero della sua presa e per poco non gli salto addosso.

« shhh » mi dice, un dito premuto sulle labbra. Mio fratello ha indosso l'accappatoio blu di nostro padre e sembra spaventato. Con una mano mi trascina verso il punto più nascosto della taverna e mi indica la porta.

All'inizio non capisco, finché non lo vedo anche io.

C'è una luce rossa che brilla ad intermittenza poco più sotto del secondo cardine. Conto gli intervalli.

2 secondi, poi luce.

« Come l'hai trovata? » sussurro il più piano possibile.

« Mi sono svegliato ed era già lì » risponde. Solo allora noto le terribili occhiaie violacee sotto gli occhi marroni. È peggio di quanto pensassi.

« Okay Alex. Adesso ascoltami » lo richiamo, ma lui sembra distratto e non mi ascolta. Gli scuoto la spalla e solo allora si gira e mi guarda con occhi stanchi.

« C'è qualcuno ad Hide Park. È più di qualcuno, sono più persone. Penso che il quartiere si stia ripopolando lentamente, ma non ne sono sicura. Non so se sono zombi pure loro, ma dobbiamo andarcene da qua capito? Dobbiamo abbandonare tutto. »

« E dove andiamo? » dice a voce troppo alta. D'istinto gli tappo la bocca con una mano, temendo che qualcuno ci senta. Lui scosta la mano e ripete, stavolta a voce più bassa. « Dove andiamo? »

« Lontano da qui » mi limito a rispondergli.

La realtà è che non lo so nemmeno io dove portarlo. Conciato così com'è non resisterebbe nemmeno due giorni. E poi ci sono troppe cose a cui dovremmo pensare, a partire dal cibo al riparo, e non sono per niente sicura di trovarne strada facendo.

Ma è pur sempre un'alternativa alla morte certa.

Controllo la luce rossa e noto con sollievo che si è spenta.

« Alex, prepara le tue cose. Ho un posto in cui possiamo andare. » mento, mentre mentalmente mi arrangio qualcosa che non ci metta in pericolo di vita.

 

 

Lo faccio dormire un po' e con lui mi addormento anche io. O meglio, lui si addormenta, io guardo il soffitto macchiato aspettando le palpebre farsi pesanti. La luce non brilla più da almeno due ore e la cosa un po' mi getta nello sconforto. Sarà una telecamera? Una spia? Una bomba?

Boh, non si sa. Quello di cui sono certa è che non c'era prima che partissi.

Ripenso a quegli attimi di terrore passati nel negozio di vestiti vicino all'incrocio.

Richard aveva parlato di sensori prima di andarsene, il che mi spinge a pensare che anche la lucina rossa lo sia. 

In effetti, i pezzi del puzzle cominciano a combaciare. Persone con sensori, i segni sulla strada, la spia rossa sulla porta … eppure non è poi così chiaro. È come guardare una fotografia sgranata e cercare di riconoscere un parente. Non puoi sapere se l'uomo con la barba alla destra di quello biondo è davvero tuo zio o no. Tiri ad indovinare.

Ma c'è davvero poco da indovinare quando ci sono in ballo delle vite.

Alex si gira sul letto.

Se sapesse che è per lui che scappiamo …

La vista comincia ad annebbiarmisi.

Eppure non è per il sonno.

Neppure quella strana nebbiolina bianca che ci circonda sembra un effetto del sonno. Cerco di muovere una gamba ma non riesco, è come bloccata.

Mi dimeno, ma non c'è nulla da fare. Sono immobilizzata.

Il mio sguardo si posa su Alex : nemmeno lui si muove.

Che diamine succede?

Quando anche il respiro comincia a farsi affannoso, decido di smettere di muovermi e conservare quel poco ossigeno che ci rimane.

La porta della taverna si spalanca. Entra qualcuno. Scende la scale rumorosamente.

È la fine.

Ci hanno trovati.

Vorrei piangere, ma nemmeno quello mi è concesso.

Ci hanno trovati e non ho nemmeno avuto il tempo di dire che...

 

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Capitolo 5
*** Millions of miles from home ***


MILLIONS OF MILES FROM HOME 



Non potevo evitarlo.

I nostri genitori se n'erano andati così come tutti gli altri che conoscevo : un attimo prima erano lì, ridevano, scherzavano, l'attimo dopo venivano trasformati in strane creature dalle sembianze umane.

Erano loro, ma non erano loro.

Gli occhi incupiti, l'espressione feroce, la voglia di uccidere ...

Niente di tutto ciò sembrava reale, eppure era così.

Era peggio di saperli morti.

Erano vivi, e spero con tutta l'anima che lo siano ancora, ma essere consapevoli che non sono più gli stessi, che per loro sei solo un'altra preda e non una figlia, fa male.

E fa ancora più male sapere che dopo quello che ti è successo devi ricominciare, trovare un modo per andare avanti e non rimanere intrappolata nella malinconia e nel dolore.

Ed è così che abbiamo cercato di fare.

Per sei lunghi mesi io e Alex abbiamo combattuto un nemico invisibile che da un momento all'altro sembrava volerci uccidere, e posso dire che ce la siamo cavata alla grande.

Però non l'abbiamo sconfitto.

Lui è ancora con noi, ci segue, ci osserva, ci studia ed elabora il colpo di grazia, quello che ci farà fuori una volta per tutte.

E io non devo mollare.

Non posso.

Se mollo, Alex muore.

E Alex non deve morire.

Non posso permetterlo.

 


 

Apro gli occhi con la convinzione che, se sono ancora viva, devo fare l'ultima cosa possibile. Salvarci.

Ho gli arti indolenziti, ma fortunatamente riesco a muoverli.

Studio l'area a me circostante.

Sono sdraiata su un letto fatto di un materiale freddo. Accanto a me, un carrellino dove sono appoggiati aghi, buste di sangue e molto altro ancora che non sto ad osservare.

La stanza in cui mi trovo è bianca, quasi spoglia. Pure il soffitto è bianco.

Tutto in questa dannata stanza è bianco.

Presa da un modo di intraprendenza, cerco di alzarmi, ma una dolorosa fitta alla schiena mi costringe a ritornare sdraiata.

Dov'è Alex? È l'unico pensiero che mi percorre la mente, ma allo stesso tempo non riesco ad evitare di pensare a dove sono io.

In che diamine di posto mi hanno portato i “Malati”?

Una sala operatoria? Stanno per aprirmi in due ed estrarmi le viscere per poi mangiarsele?

Non capisco.

All'improvviso mi ritrovo a piangere.

Piango perché lo strazio non è finito; piango perché per la seconda volta in poco tempo ho perso di nuovo Alex. Piango perché in questo momento non riesco a fare altro.

All'improvviso una porta si spalanca e sento delle persone entrare a passo svelto. Una di esse entra nel mio campo visivo : è vestito da capo a piedi con una tuta azzurra che gli copre persino la faccia, dove è collocata una di quelle maschere che evitano l'inalazione di sostanze radioattive.

Sento qualcosa pungermi il braccio e d'istinto faccio per scostarmi, ma noto che una cinghia mi blocca entrambe le braccia e i piedi.

« Non preoccuparti, sei al sicuro » dice una voce femminile sopra di me. MI tiene la testa con due mani e mi guarda. I suoi occhi verdi trasmettono tenerezza e per un attimo mi sento rassicurata.

« Tutti i test sono negativi » dice qualcun altro.

La donna allora sposta lo sguardo da me e prende in mano una siringa dal carrellino accanto a letto. « Farà male, ma ti sentirai bene. Fidati di me » dice, mentre mi inietta una sostanza trasparente.

« Portatela in quarantena e rifate l'esame del sangue a lei e a suo fratello. » è l'ultima cosa che le sento dire.

Poi cado di nuovo in un sonno profondo.


 

 

Tutto si muove troppo velocemente.

Voglio fermarmi, scendere dalla giostra e prendere una boccata d'aria prima di ripartire.

Ma tutto si muove troppo velocemente.

Mi sento male, sto per svenire.

Cado all'indietro e aspetto l'impatto con il suolo, ma non arriva mai.

Mi sento come se sotto di me si fosse aperto un buco.

Sto precipitando di molti metri sotto la crosta terrestre.

Prima di perdere di nuovo i sensi, una mano si allunga di scatto verso di me e mi salva.

 


 

Mi sveglio all'improvviso.

Sono sdraiata su un lettino più comodo di quello precedente. L'ambiente è sempre quello – pareti bianche, soffitto bianco, tutto è bianco – fatta eccezione per una parete : è trasparente.

Di fronte a quest'ultima c'è un uomo sulla cinquantina che mi osserva, ritto in piedi e con le braccia allacciate dietro la schiena. I capelli grigi gli ricadono sulla fronte e i suoi occhi azzurri ghiaccio sembrano congelare qualsiasi cosa su cui si posano, persino me.

Stacco il monitor a cui sono collegata e mi alzo. Vado al centro della stanza e aspetto che l'uomo si muova, ma quest'ultimo non accenna un movimento. I suoi occhi mi seguono, ma lui pare essere immobile.

Con un filo di voce tirato fuori a fatica, chiedo « Dove sono? ».

Non mi aspetto una vera e propria risposta, ma l'uomo mi risponde. « Sei ancora in stato di incoscienza, non ti è permesso ricevere risposte. » ho capito, ma non penso che ci voglia chissà che cosa per sapere dove cazzo mi trovo.

Ci riprovo ancora.

« Dov'è mio fratello? »

Stavolta l'uomo non risponde. Preme qualcosa sulla parete trasparente – sono sicura al 112% che è fatta di vetro – e quest'ultima cambia immagine.

Al posto dell'uomo dagli occhi di ghiaccio, vedo mio fratello.

Si trova in una stanza bianca identica alla mia ed è sdraiato sullo stesso lettino bianco in cui ero sdraiata io. Dorme.

D'istinto mi fiondo verso di lui, ma l'immagine sparisce e mi riporta alla visuale di prima. Stavolta l'uomo non è solo, accanto a lui c'è una donna. Qualcosa mi dice che probabilmente è la stessa che mi somministrato quella strana sostanza che mi ha fatto dormire.

« Sai dirci come ti chiami? » mi chiede. Nel suo tono non si celano accenni di sfida o di prepotenza. È una domanda semplice, innocua.

« Nina... Nina Evans. » rispondo, sempre con un filo di voce.

« Quanti anni hai? » chiede ancora.

« Sedici. Dov'è mio fratello? »

« Dove hai vissuto per tutto questo tempo? » chiede, ignorando la mia domanda.

« A casa mia. » rispondo.

Lei accenna un sorriso, ma la cosa non mi rallegra per nulla.

« Dov'è mio fratello? » insisto.

« Tuo fratello per caso si chiama Alex? » stavolta è l'uomo a parlare.

« Sì. Dov'è? »

« Quarantena. È nella cella accanto alla tua. »

« Come sta? Posso vederlo? » chiedo a bruciapelo. L'ho già visto, ma era solo un'immagine proiettata su uno schermo. Non posso sapere se è reale.

Lei sorride ancora e mi fa segno con le mani di aspettare. « Frena frena. Una cosa per volta. Hai detto di aver vissuto a casa tua, ma la tua casa era distrutta. Ci spieghi come avete fatto a sopravvivere? »

Non m'interessa. Non voglio risponderle. Se sono qui vuol dire che ci sono riuscita. « Dov'è mio fratello. » stringo le mani a pugno. Mi verrebbe voglia di spaccare quel vetro e correre da Alex. Queste persone parlano troppo.

« Nina. Ascoltaci. È qua accanto a te, ma non puoi vederlo. Sta troppo male per poter ricevere delle visite. »

All'improvviso mi ricordo delle macchie violacee sulla pelle e del sangue dal naso. « è la malattia vero? Lo sta divorando? »

L'espressione della donna cambia bruscamente. Sembra sconvolta. « Quale malattia? » chiede, la voce tesa.

« Non lo so. È da un po' che ce l'ha. Saranno tipo 3 o 4 mesi »

« Quali erano i sintomi? Nel senso... come si presentava? »

« Sangue dal naso, febbre repentina, a volte sfiorava i 40, macchie violacee sulla pelle, occhiaie frequenti anche se dormiva per metà giornata … » comincio ad elencare, mentre nella mia mente le immagini delle persone trasformate in assassini si susseguono come in un film dell'orrore.

Quando finisco, l'espressione della donna è cambiata di nuovo, ma stavolta nasconde la sua sorpresa in una maschera di insofferenza e calma. « Okay. Grazie per le informazioni. Ci rivedremo presto. » e dopodiché scompare. La parete, inizialmente trasparente, diventa a specchio.

Nel riflesso vedo la mia immagine : ho addosso una camicia a pallini blu molto leggera sopra un paio di leggins bianco candido, i capelli all'aria e l'espressione stravolta.

Mi prendo la testa con le mani.

Alex è nell'altra stanza, in Quarantena come me, non sta bene.

Il solo pensiero mi monta una cieca rabbia che scarico con un pugno non proprio leggero contro la parete a specchio.

Passo così i successivi 20 o forse trenta, non lo so, minuti : piango, tiro inutili pugni alla parete fin quando non mi scortico le nocche, urlo il nome di mio fratello …

Tutto questo dovrebbe servirmi a qualcosa, eppure ad un certo punto sembra che mi stia sfogando per qualcosa che è successo prima, molto prima; qualcosa che ho difficilmente trattenuto e che ora emerge con prepotenza, facendosi largo tra migliaia di altri pensieri.

Perché non siamo cambiati pure noi? Perché abbiamo dovuto attraversare tutta questa sofferenza, quando potevamo semplicemente diventare esattamente come gli altri? Perché tutto questo?

Cosa avevamo di così diverso da salvarci, se così si può dire, da quella sorta di apocalisse umana?

Appoggio la testa contro la parete e prendo alcuni profondi respiri.

Sento i nervi tesi come corde di violino, oltre che ad un inspiegabile dolore al braccio, dove ho un brutto livido verde. Probabilmente ce l'ho da quando mi sono svegliata in quell'altra stanza bianca, ma con tutto quello che è successo non ho avuto tempo di pensarci. Forse non l'ho nemmeno sentito il dolore.

 

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Capitolo 6
*** Tired and under prepared ***


TIRED AND UNDER PREPARED

 

I quattro giorni successivi li passo sdraiata sul lettino a fissare la parete : magari, attraverso la mia immagine, riesco a scorgere qualcosa che accade dietro a quell'insormontabile muro di vetro.

A regolari intervalli di tempo viene un'infermiera a controllare la mia situazione : da quel che ho capito, sono pronta per essere dimessa. Ma la vera domanda è … una volta fuori di qui, dove vado?

Lei mi spiega che mi trovo nel Bureau, una sorta di enorme punto di raccolta per persone che, come me, si sono salvate da ciò che loro definiscono un “errore inevitabile”. Ogni volta che le chiedo di più, lei non risponde e se ne va, così capisco che magari devo lasciare un po' di tempo e darle l'impressione che sono pronta a sopportare qualsiasi brutta informazione.

Di Alex non so più niente da giorni e la cosa mi sconvolge e non poco : se non posso vederlo, vuol dire che di sicuro è successo qualcosa di orribile.

Man mano che le ore passano, si fa largo in me il brutto presentimento che abbiano trovato qualcosa di sbagliato – magari un virus o qualcosa che io ho sbagliato – in lui.

Quando, il quinto giorno, l'infermiera mi dice che devo rimanere ancora in osservazione, le speranze di poterlo vedere di nascosto calano drasticamente. Le chiedo ancora se sta bene, ma lei non mi risponde, ignorando la domanda e andandosene come se nulla fosse.

Tutto ciò mi fa pensare che in realtà non vogliano che io lo sappia perché temono una reazione non contenuta da parte mia. Ma d'altronde che possono aspettarsi da me, che sono riuscita a tenerci in vita per ben 6 mesi, quando mi sputano in faccia il fatto che non posso vedere Alex?

Gioia? Festoni e coriandoli? Un biglietto di “congratulazioni”?

Non lo conoscono. Sapranno più cose di me questo è vero, ma non avevano la più pallida idea di quello che gli stava succedendo finché non gliel'ho detto io.

Devo riprenderlo, liberarlo. O come minimo lasciare che mi concedano la libertà di visitarlo quando voglio.

 


Quando mi risveglio il settimo giorno, ho delle visite. All'inizio mi ci vuole un po' a capire di chi si tratta, essendo convinta che sia Alex, ma rimango delusa quando vedo seduto sul mio letto un ragazzo in tuta mimetica.

Sta fissando il monitor, il volto piegato in un'espressione concentrata. I capelli biondi sembrano splendere alla luce bianca candida emanata dalle pareti.

Quando si accorge che lo sto fissando, mi fa un cenno con il capo che all'inizio non comprendo. Poi capisco che è come un saluto, una sorta di “sei viva, ma speravo che non lo fossi”, non detto. I suoi occhi azzurri mi guardano duramente e per un attimo in quello sguardo riconosco qualcun altro.

« Chi sei? » gli chiedo, circospetta, anche se la sua presenza non mi disturba del tutto.

« Sono di turno ai controlli. Devo assicurarmi che non sia morta o non abbia completamente dimenticato chi sei. » risponde, la voce piatta che nasconde però una punta di sarcasmo.

« Perché ce l'avete così tanto con questa storia? » chiedo, scettica.

« Quale storia » dice, guardandomi di sbieco.

« Io so chi sono, mi ricordo tutto quello che ho passato. Non c'è bisogno che continuiate a chiedermelo. »

« Buono a sapersi, perché tuo fratello non ricorda assolutamente nulla. » improvvisamente mi sento come quando stavo sprofondando nell'oblio e non c'era via d'uscita o un ramo a cui appigliarsi. La sensazione di cadere nel vuoto, i polmoni svuotarsi d'aria, la mente confusa ed annebbiata e le stesse parole che si ripetono in un susseguirsi di ricordi che mi fanno male. Prima i nostri genitori, poi Alex …

« In che senso? » chiedo, con un filo di voce.

« Non rcorda molto, biascica in continuazione cose strane e continua a ripetere il tuo nome, anche se non sembra sapere chi sei. » risponde, la voce piatta come prima. Forse perché ha visto la mia espressione, forse per altro, aggiunge : « è sotto effetto di farmaci pesanti. Tutto regolare. Devi solo dargli tempo. »

« Quanto? » chiedo, con gli occhi che cominciano a pizzicarmi.

« Può variare … di solito ci impiegano un paio di ore a ricordare tutto. » risponde, con nonchalance. La sua indifferenza mi colpisce come un mattone in faccia.

« Da quanto sei qua? » chiedo con l'intenzione di cambiare discorso.

« Da molto prima di te » risponde. Alzo gli occhi al cielo. « Intendo... da quanto tempo sei qui in camera con me? »

« Neanche un quarto d'ora. »

All'improvviso la porta scorrevole si apre ed entra la donna dagli occhi verdi magnetici. Penso che la ricorderò così : occhi verdi, aria socievole, ma di lei non mi fiderò mai troppo.

Si avvicina al mio letto e controlla il monitor. Non so che diamine ci sia scritto, ma devono smetterla di darmi l'impressione di essere una malata terminale. « Tuo fratello ha chiesto di poteri incontrare.  Sembrava molto confuso, ma piano piano ha cominciato a ricordare le cose con chiarezza e ora non la smette di parlare di te, di quanto sei meravigliosa, di come ti sei battuta contro i mostri... sei il suo idolo insomma » dice, riempiendomi il cuore di speranza. Piego le labbra in un sorriso involontario e per la prima volta dopo giorni sento finalmente di poter gioire per qualcosa che ne vale la pena.

« Quando? » chiedo a bruciapelo. La donna esita lanciando fugaci occhiatine al ragazzo biondo, il che mi fa pentire amaramente di quell'attimo di gioia. « Che c'è? Cosa non va? »

« Le procedure dell'incontro saranno diverse per te che vieni dall'Esterno, ma non preoccuparti, lo facciamo per il tuo bene. » sono confusa. « Sarai in una stanza diversa dalla sua, ma avrete comunque la possibilità di comunicare tra di voi. »

« Perché non posso stare con lui? » chiedo, ancora più confusa.

« Siete entrambi in Quarantena. » si limita a rispondermi, ma so che intende qualcosa d'altro.

Detto questo lascia la stanza senza prima ridare un'occhiata al monitor, per poi allontanarsi a passo svelto.

« Tu ne sai qualcosa vero? » dico a lui, che durante tutta la nostra breve chiacchierata è rimasto impalato a fissarmi.

Sospira con finto dispiacere. « Ho la bocca cucita Jane Doe. »

« Mi chiamo Nina » replico con tono più seccato del voluto.

Lui fa spallucce e si avvicina ancora di più al lettino dove sono sdraiata.

Con la delicatezza di un elefante in un negozio di cristalli, mi prende il braccio livido e lo osserva annuendo. Dopodiché se ne va senza proferir parola.

Come sono strani. Penso.

Mi alzo e raggiungo la porta scorrevole trasparente : dopo la parete a specchio, è una delle uniche cose che mi consente di poter osservare l'ambiente esterno alla mia “cella”.

Sembra di essere in galera. Non che ci sia mai stata, ma un corridoio lungo e stretto, interrotto qua e là da tante altre porte scorrevoli trasparenti dà tanto l'aria da carcere. Tutte quante le celle sono illuminate all'interno, segno che ci deve per forza essere qualcuno. Ad un certo punto passa una guardia. Di scatto indietreggio e mi nascondo appoggiandomi alla parete bianca, come quando, al negozio di vestiti, avevo avvertito la presenza di qualcuno che si avvicinava. Ai tempi il pericolo erano i “malati”, ora il pericolo sembro essere io. E se quelli che si prendono cura di me in realtà sono pure loro “malati”, allora sono proprio nelle mani sbagliate.

Eppure, per tutto il poco tempo che ho passato in prigionia, mi sembra di non aver mai avvertito quella sensazione.

La sensazione di essere carne al macello. 

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Capitolo 7
*** When you thought that it was over, you could feel it all around ***


WHEN YOU THOUGHT THAT IT WAS OVER YOU COULD FEEL IT ALL AROUND


Più tardi viene di nuovo a farmi visita. Stavolta arrva con in mano delle merendine al cioccolato, il che mi fa immediatamente brontolare lo stomaco.

In cella mi davano regolarmente da mangiare, ma dopo 6 mesi passati a cacciare il cibo come i primitivi, vedere con quanta facilità alcune persone ottenevano merendine, snack e quant'altro, mi ricorda troppo i giorni in cui rimanevo a digiuno per far mangiare Alex e, anche quando quello finiva, non mangiavamo più niente per alcuni giorni.

È proprio diversa la vita da selvaggi.

Lui si avvicina e mi lancia una brioche ripiena che mi scivola di mano e cade sul pavimento. La raccolgo e la guardo, pensando.

« Non fare la sentimentale. Hai veramente bisogno di mangiare qualcosa di sostanzioso rispetto a quello schifo. » dice lui, sedendosi sul letto.

Accenno un “grazie” detto a bassa voce e apro la confezione.

Dopo un po' mi chiede : « Com'è la fuori? »

Aspetto un attimo prima di rispondere : il sapore di cioccolato è così piacevole che mai al mondo me lo perderò di nuovo solo per rispondere ad una domanda.

« Beh … è strano. »

« Strano quanto? » insiste lui.

Questo suo interesse mi scalda il cuore. « Non c'è elettricità o acqua corrente, le case sono distrutte e le persone che incontri potrebbero facilmente saltarti addosso e sbranarti. Per il resto, il solito mondo. »

« Ma tu e tuo fratello siete resistiti per 6 mesi in quella taverna. Come diamine avete fatto? » parla come se fosse una cosa scandalosa, impossibile, oltre i limiti dell'immaginabile.

« Per sopravvivere si escogita di tutto » rispondo. Stavo parlando come mia madre quando vedeva il telegiornale.

« E i richiami? » chiede. Sgrano gli occhi.

« I richiami. Dai non puoi non averne sentito parlare. Sono state mandate sentinelle ovunque a scandagliare le zone di maggior interesse. Impossibile che abbiamo saltato dove abitavi te. »

« è un quartiere piuttosto piccolo » mi giustifico.

« Bah, strano. Di solito sono i quartieri più piccoli a richiamare maggiore interesse. »

Stavolta tocca a me. « Com'è qua dentro? »

Lui si gira a guardarmi sorridendo di sbieco. « Se pensi di poter invertire i ruoli con tanta facilità ti sbagli di grosso. » si alza e raccoglie le carte delle merendine. « Io non ti dirò assolutamente nulla. » aggiunge con un sorrisetto malizioso.

« Ma me lo devi! Io ti ho parlato di me ed ora tocca te! » protesto.

« Non mi sembra di essere ad un gruppo di supporto per alcolisti anonimi. » risponde evasivo. « Ora dormi. È notte e domani ti aspetta una giornataccia. » Notte?

« Posso chiederti un'ultima cosa? »

« No » mi risponde dalla soglia della porta.

« Come ti chiami? » chiedo, ma lui se n'è già andato.


 

Ci vuole meno di un secondo per stravolgere la vita di una persona. Una parola, un gesto avventato, uno sguardo ... piccoli gesti che possono rovesciare l'esistenza di chiunque.

A volte ci vuole molto più di un secondo, invece.

Minuti, Ore, Giorni e talvolta mesi, in cui l'essere A non ha ancora ben chiaro il quadro che un incognito x ha distrattamente, o in alcuni casi accuratamente, fatto per lui; vaghi nel vuoto, i tuoi occhi non vedono nulla tranne che l'oscurità , ti senti debole e spossato, eppure continui a combattere perché sai di non aver ancora perso la guerra. Non ti arrendi.

Sono passate ormai settimane da quando mi ha detto che avrei potuto incontrare mio fratello, eppure da allora non si è mai fatta viva.

Non ho mai incontrato Alex da quando ci hanno portato qua.

Alcuni giorni li passavo rannicchiata davanti alla porta ad osservare i corridoi nella speranza di scorgerla; altri ancora li passavo seduta sul mio lettino a guardare il monitor che rilevava la frequenza cardiaca.

Ma della donna dagli occhi verdi non c'era traccia.

Tutto quel silenzio mi stava lentamente uccidendo.

A volte, in un impeto di rabbia, davo violenti pugni alle pareti, soprattutto quella a specchio, sperando che a furia di riempirla di percosse, magari avrebbe ceduto e sarebbe diventata trasparente; mi chiedevo se dall'altra parte ci fosse qualcuno ad osservarmi e a prendere appunti sul mio comportamento.

Nei momenti di crisi mi ritrovavo ad urlare : « Voi non sapete niente! » rivolto a nessuno in particolare. Poi crollavo a terra e piangevo per la frustrazione.

Soffrivo ma non riuscivo a sfogarmi del tutto.

Quella stanza completamente bianca, da grande e luminosa che era, stava diventando una sorta di orribile teatrino dove tutti potevano ammirare lo spettacolo della "Selvaggia" che lentamente perdeva la testa e parlava da sola.

Sì, perché ad un certo punto ho cominciato a parlare con un Alex immaginario che mi diceva di stare calma e attendere. Aveva un aspetto angelico e la sua pelle non era ricoperta di macchie violacee : stava bene, era nutrito e aveva recuperato quel suo sorriso che riusciva a farmi stare bene anche quando sembrava impossibile.

Io di lui mi fidavo e perciò lo ascoltavo.

A volte mi sembrava che avesse ragione, altre volte pensavo che era tutto terribilmente sbagliato.

Ero confusa, stordita, ma terribilmente consapevole che nulla sarebbe potuto andare male se lui era con me.

Poi un giorno la porta scorrevole si aprì.

 

 

Mi volto di scatto.

Sulla soglia della porta non c'è nessuno, eppure quest'ultima è aperta.

Mi alzo lentamente nonostante i muscoli urlino di dolore ad ogni singolo movimento che faccio.

« Chi c'è? » chiedo. Nessuna risposta, tranne l'eco della mia voce che lentamente si allontana.

Faccio un passo in avanti, poi sento il rumore di qualcosa di pesante che cade a terra e mi blocco. Mi sento come quella volta, in negozio, quando Richard lentamente si avvicinava alla porta sul retro e la apriva.

Mi riprendo subito e azzardo altri piccoli passi in avanti, fino ad arrivare alla soglia. Riluttante, mi sporgo in avanti e guardo da entrambi i lati.

Il corridoio azzurro è vuoto. Le altre celle sono aperte come la mia, ma sembra che al loro interno non ci sia nessuno.

Esco e, appena messo un piede aldilà del confine di quell'orrenda cella , sento come una sensazione di benessere e di sollievo. È così bello essere liberi. I miei piedi sudano a causa del pavimento freddo, ma la cosa non mi turba affatto : era da tanto che aspettavo di poter uscire dalla "prigione" e ora che ci ero riuscita non mi lamenterò per certo.

All'improvviso la mia attenzione viene attratta da un altro rumore alla fine del corridoio.

Mi volto di scatto e stavolta, senza esitazione, ne cerco la fonte. Arrivata alla fine inciampo. Cado in avanti di faccia, ma per fortuna non mi faccio male. Mentre mi sto rialzando, capisco con sconforto che quella cosa quasi solida su cui sono inciampata era una persona; o meglio, il cadavere di una persona. I suoi occhi sono spalancati ma non vedono nulla, la bocca aperta da cui sgorga un rivolo di sangue scuro e l'espressione spaventata.

Sulla tuta mimetica, all'altezza del petto, c'è una grossa chiazza di sangue.

Lo spettacolo è più che racappricciante.

Mi volto nella direzione in cui stava guardando, essendocene soltanto una : se è caduto di schiena, penso che l'unica via che devo prendere è quella indicata dai suoi piedi.

Attraverso quest'ultimo corridoio buio e stretto senza guardarmi indietro, altrimenti sarei capace di fermarmi in preda ai conati di vomito e non andare più avanti.

Quando arrivo alla fine mi ritrovo in una cortile molto ampio, illuminato da alcune lampade a neon fissate sul soffitto scuro come le scie delle comete. Non c'è nessuno.

Guardandomi intorno noto che non è un cortile come avevo pensato, ma bensì qualcosa di diverso. Provo a chiudere gli occhi ed immaginarmi che cosa le persone avrebbero potuto farci in questo spazio così grande, ma non mi viene in mente niente.

È come se il mio cervello fosse bloccato, incapace di pensare lucidamente o immaginare situazioni fuori dalla realtà.

Quando ho cominciato ad impazzire?

Penso, frustrata.

Le mie orecchie captano il lento trascinare di alcuni stivali che pestano il pavimento con pesantezza, come se qualcuno si stesse trascinando. Subito mi metto in allerta : l'ultima volta che avevo sentito un rumore simile si trattava di uno di quei mostri deformi da cui ho sempre cercato di scappare.

Paralizzata, come se al posto dei piedi avessi blocchi di marmo, cerco di capire da dove provenga quel rumore. Ci sono 3 porte che conducono a questo corridoio, una delle quali è occupata da me in questo momento. Deve per forza venire da una di quelle, ma non ho la più pallida idea quale.

Quando sento lo strascichio farsi più vicino mi preparo a prendere la rincorsa e colpire, come ho fatto una volta con successo. Il mostro, colto di sorpresa, si era accasciato a terra immediatamente. Se fosse morto o no non lo scoprii mai, convinta che restare lì e guardarlo morire non mi avrebbe fatto bene.

Ora invece rimpiango quel momento.

Faccio un passo in avanti per attaccare, ma una mano mi afferra da dietro con forza sovraumana e mi scaraventa alcuni metri più lontano dalla porta. 

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