crash test

di Pedistalite
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***



Capitolo 1
*** I ***


I

 

*** Urto frontale pieno: è solitamente un impatto contro un muro di cemento rivestito di una barriera di alluminio ad una velocità precisa, ma può essere anche un test contro un altro veicolo. Il test frontale pieno serve a valutare in particolare l'efficienza dei sistemi di sicurezza. ***



 

L’autista ti lancia un’occhiata quando si ferma di fronte al marciapiede dell’albergo: una di quelle composte da un terzo di malizia, un terzo d’invidia e da un ultimo, ma non meno fondamentale, terzo di pietà. Sta probabilmente pensando che essere a disposizione dei clienti migliori per accomodare qualsiasi loro esigenza per un piacevole e veloce spostamento - almeno così cita la patinata brochure - alle tre del mattino non è un lavoro per cui viene pagato abbastanza.

Magari ha ragione. In ogni caso la cosa ti lascia totalmente indifferente.

 

Ti tasti nelle tasche del jeans e gli lasci, o almeno speri - perché il tuo cervello fa contatto a intermittenza e non ci puoi giurare - una mancia generosa, sia per la sua pazienza sia per dimostrargli che anche se sei un ragazzotto patetico che al momento non regge troppo bene le quantità (notevoli, ne sei certo) di alcol ingurgitate, almeno sei quello che tra voi due ce l’ha più lungo. Il conto in banca, sia chiaro.

 

Quella di frugarti nelle tasche, in ogni caso, è una pessima mossa. Perché ti ricapita tra le mani la partecipazione accartocciata… e tutto il casino che ti ha spinto a uscire stasera e a tentare di dimenticare quelle strane emozioni che non riesci a sedare con la razionalità, ti si riversa addosso come un idrante. Inciampi nei tuoi stessi piedi mentre esci dall’auto scura e pensi di cogliere un’ombra di derisione sulla faccia dell’autista. Già, mancia o non mancia, penserà comunque che sei un perdente. Che si fotta.

Sopprimi un rutto, ti passi una mano sullo stomaco e con una smorfia ti viene in mente che devi assolutamente prenotare una seduta in palestra e ricominciare con più regolarità a seguire il tuo personal trainer. Non puoi rischiare, proprio ora, di afflosciarti… Dannazione, quando la tua vita ha iniziato a farti schifo? No, meglio, quando tu hai iniziato a farti schifo? Non lo sai, ma sei così nervoso in questo periodo, così arrabbiato, così frustrato… l’unica cosa che veramente desideri è impartirgli una lezione, aprirgli le gambe e infilarglielo dentro senza nessuna preparazione, con forza, senza nessuna intenzione di regalargli niente, zero emozioni, nessuna connessione. Solo svuotarti i coglioni e poi liberartene insieme a un condom usato.

 

Scuoti la testa e cerchi di concentrati.

La povera ragazza col turno di notte al posto del concierge, ti osserva con un vago timore, e se ne sta diritta nella sua uniforme impeccabile a chiederti se: “Posso esserle utile in qualche altra cosa Signore?”. Una volta o l’altra intendi rispondere a una di queste domande dicendo: ‘puoi aprire le gambe e toglierti le mutande qui sul banco della reception, forse mi andrà di fotterti.’

Sei curioso di scoprire che tipo di reazione potresti provocare…

 

Ma la ragazza in questione non se lo merita. Probabilmente questo è il suo secondo lavoro e prova a mantenersi a galla mentre finisce gli studi. È bruna, piccola e minuta, con le occhiaie e il viso tirato. Ti ricorda vagamente Genevieve. E sei veramente grato che la tua mogliettina abbia capito l’antifona e se ne sia andata dalle amiche, per un week end di pettegolezzi e shopping con la tua carta di credito. Non avresti la forza di trovarti di fronte a lei. Ti vergogneresti a morte.

 

Pensavo che la vita da sposato ti si addicesse di più, Jay-red…

 

Ti viene in mente il commento di Mike Rosenbaum, con la sua faccia da delinquente abbronzato e un cocktail colorato sotto un ombrellone di uno di quei bar di Malibù. Strano incontrarlo. Strano sentirgli fare commenti sulla tua vita. È sempre stato più amico di… Non è mai stato veramente amico tuo. E, in fondo, lui che ne sa?

Essere a casa e non essere a casa. Viaggiare e finire sempre in albergo.

Hai passato più tempo nei letti delle suite, che in quello di casa tua. E per quanto sai che Genevieve ama seguirti e non ne sente il peso, vorresti ritornare a quei tempi in cui la tua vita consisteva nello svegliarsi in un freddo boia, sempre sotto le stesse coperte, alle cinque e mezzo del mattino, per lavorare sullo stesso set e tornare a casa giusto in tempo per accasciarsi sul cuscino e il giorno dopo ricominciare daccapo. Bei tempi. Vita semplice. Stabilità.

La tua casa, un lavoro che ti piace, i tuoi cani, un personaggio che ami. Professionisti che stimi.

Radici.

 

Ti viene da vomitare e ti guardi nelle porte a specchio dell’ascensore. Da fuori sei sempre il solito: abbronzato e in forma, con un taglio di capelli da cinquecento dollari che ti ricadono, volutamente scomposti, sulla fronte.

Dentro invece non sai cosa sei. Vorresti gridare e prendere a pugni un muro, perché nessuno ti aveva detto che certe scelte sono troppo vincolanti, e che non è mai come lo si immagina. Vorresti fottere qualunque cosa che si muova e comandare al tuo uccello di stare a riposo quando si tratta di una certa bocca… Vorresti ubriacarti fino a rischiare il coma etilico, senza per questo finire la mattina dopo su qualche giornalaccio con la faccia impiastricciata del tuo vomito.

Ma hai troppa paura per rischiare. Hai investito troppo, fin da sempre, nel proiettare al mondo questa apparenza di ragazzo solido e perbene, con i piedi per terra e con dei valori di cui essere fieri. No, la tua famiglia non si merita questo. Nemmeno tua moglie. E mentre premi il bottone per l’ultimo piano, ti dici che dovresti pensare a lei un po’ di più, essere grato della sua devozione. Ti riprometti di farle un bel regalo, per rassicurarla che va tutto bene. Per non farti troppe domande.

 

Quando inizia a squillare il tuo cellulare, estrarlo dalla tasca posteriore si rivela troppo difficoltoso. Hai la lingua incollata al palato e in bocca un sapore stantio.

Rinunci, mentre le porte dell’ascensore si aprono al tuo piano, ma il dannato aggeggio ricomincia.

Ti fermi nel corridoio, e ringrazi la lungimiranza dell’arredatore di interni che ha deciso che sarebbe stata una buona idea piazzare lì una poltrona. Speri di non sfasciarla, quando ci crolli sopra con tutto il tuo peso e ringhi “Chi è?” senza guardare.

“Ackles,” risponde la voce dall’altra parte. E cominci a sudare freddo, mentre tutto il sangue che hai in corpo si affretta verso il basso in un rush impulsivo.

Niente, non fa che disubbidirti: tra te e il tuo uccello non c’è più fiducia.

“Ehy Jen…” esali, sperando di sembrare come al solito: di buon umore, equilibrato, solo un po’ stanco. Fingi così bene che alle volte nemmeno tu ti accorgi dei tuoi veri stati d’animo.

 

Jensen non dice più nulla per qualche istante di troppo, avvolto da uno strano silenzio. Mentre ti sistemi svogliatamente l’erezione (l’ultima cosa di cui avevi bisogno, accidenti…), te lo immagini semi-sdraiato nel suo letto, a Los Angeles, con qualche luce dimenticata accesa in giro per la casa e la tv muta sullo statico.

Poi si schiarisce la gola e ti chiede: “Dove sei big boy?”

Sospiri di sollievo, perché tutto è improvvisamente normale. Avrà paura del grande passo, forse ti vorrà chiedere qualche consiglio dell’ultimo minuto, o forse ti vuole dare i dettagli per la serata del suo bachelor party. Non vi vedete da un po’, almeno dal tour di convention di commiato per la fine dello show, se non ricordi male…

“Mah…” stai per dirgli la verità... Sono stato un po’ in giro, cercavo di affogarmi nel Johnny Walker, poi a metà competizione tra me e la bottiglia ho perso interesse nel vincere... Quando non sai cosa ti fa cambiare idea, e replichi: “Niente di che, in albergo, giù a Malibù. Volevamo approfittare di qualche giorno di riposo per stare un po’ in spiaggia. Anzi, amico, Gen sta dormendo affianco a me, ti spiace se ti richiamo domani?”

Sono tutte cazzate, ovviamente. Non ne hai nessuna intenzione. Ne spari un po’, nel mucchio, incespicando su qualche consonante. Hai veramente un mal di testa della madonna.

per un momento ti domandi se ti abbia creduto. Il suo silenzio è piuttosto eloquente,che si fotta anche lui, non ti importa.

 

“Dove sei veramente Jared?” insiste Jensen,con quella fermezza un po’ esasperante.

 

Non puoi farci niente, non riesci a controllare la tua reazione a quel tono: te lo senti diventare più duro, e ti chiedi quanto sarebbe imbarazzante se qualcuno ti vedesse, se non ci siano magari telecamere di sicurezza…

E poi non è questo il momento.

Da come pronuncia il tuo nome, Jensen sembra serio, di quell’umore che implica la scarsa propensione nel fingere di credere alle tue stronzate. Jensen, anche se alle volte ha l’accortezza di non mostrarlo, e la pazienza di glissare, ha sempre avuto quel talento: vedere al di là di ciò che disperatamente vuoi che gli altri vedano di te.

Ancora adesso, anche se hai sposato qualcun altro (una ragazza), continui a sospettare che lui sia l’unico a spingersi oltre la superficie e a non averne paura.

Jensen vede i tuoi scatti, le tue imperfezioni, gli anabolizzanti e le tue menzogne. Ma non volta la testa dall’altra parte, semplicemente ti fa capire, con un gesto del capo o una pacca sulla spalla, che gli vai bene così come sei. Che tutti gli sforzi che fai, l’impegno con cui ti affanni a mostrare solo e sempre la parte migliore di te, sono superflui, non necessari. Secondo lui saresti comunque all’altezza delle aspettative degli altri. Tutte le volte in cui ha provato a fartelo capire, dio ci crede davvero… e tu non te ne capaciti, ma per questo pensi che potresti amarlo per tutta la vita.

E non è così semplice.

Ridacchi, e ti senti orribilmente triste e improvvisamente troppo ubriaco per avere qualunque genere di conversazione che abbia un valore, con chiunque in questo momento.

 

“A Malibù, nel corridoio dell’albergo,” ammetti, pur di tagliare corto la conversazione. Sogni già una doccia bollente, per strapparti via l’odore dell’alcol dalle cellule. La mano attorno al tuo uccello, per avere un momento di tregua.

“Ok.”.  

Ti sembra di vedere un sorriso tra le parole di Jensen, forse la soddisfazione nell’averti fatto capitolare così presto stanotte. Ma la verità è che ti manca, e che sei troppo arrabbiato, e troppo ingabbiato. E che è tutto come una catena di scelte che si susseguono e di cui hai perso il controllo oramai tanto tempo fa, e nessuno te lo aveva detto. Nessuno ti aveva avvertito che sarebbe finita così...

 

“Jared?”

“Mmm?”

“Dov’è Genevieve?”

Scrolli le spalle, ma Jensen non può vederti, “Non ne ho idea, da qualche sua amica a LA, per qualche giorno.” Ti alzi dalla poltrona e tiri fuori la card della tua camera. Il corridoio ti si proietta davanti nella sua infinita lunghezza e ti incammini, meglio tardi che mai.

Dai un’occhiata all’orologio del cellulare e scopri che tu e Jensen siete al telefono nel complesso da sette minuti e cinquantotto secondi a dirvi un bel nulla, se non ad ascoltarvi respirare. Che è un po’ strano, oltre che disturbante. Sono quasi le quattro del mattino.

Lo ripeti anche a lui e poi gli chiedi, “Non prenderla nel verso sbagliato, ma che vuoi a quest’ora?”

 

Perché, pensi, se non sei qui e non intendi succhiarmi il cervello attraverso l’uccello, tutto quello che puoi dirmi non mi interessa, o comunque può aspettare fino a domani. Fino a quando avrò voglia di sentirti.

 

Ed è in quel momento che nell’universo accade una di quelle cose misteriose e imprevedibili. Una stella nasce da qualche parte. Un’altra muore. Un’altra si trasforma in una super nova.

Un incidente. Una collisione. Qualcosa ti ha perforato il fegato, i polmoni. Non puoi respirare, perché te lo senti. E sembra che la Terra si riassesti velocemente sul proprio asse, e per un attimo, un solo brillante istante prima del caos, tutto è immobile e per-fet-to.

Per-fet-ta-men-te orribile.

 

Jensen ride. E poi dice: “Apri questa fottuta porta, Jay.”

Il mondo riprende a girare.

 

E un buco nero t’inghiotte.


 

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Capitolo 2
*** II ***



*** Urto frontale disassato: in cui solo una parte dell'anteriore dell'auto impatta contro una barriera o un veicolo. La loro importanza è dovuta al fatto che le forze d'impatto rimangono approssimativamente le stesse di un urto frontale pieno, ma sono assorbite da una parte più piccola dell'auto (circa il 40%). ***



 

Ti tremano le mani e fatichi ad inserire la card nella serratura magnetica. Al quarto tentativo vorresti bussare, perché Jensen ha chiuso la comunicazione, ma ti sembra di poterlo sentire respirare al di là della parete.

Sai che ti sta aspettando e forse si sta anche prendendo gioco di te. Ma se ha intenzione di puntare alto, farà bene ad avere in mano delle carte per una buona partita.

Non intendi regalargli niente. Nemmeno un punto.

Anzi, sei così confuso e ubriaco e assonnato che tutta la tua frustrazione risale a galla e non t’importa di mantenere la tua equilibrata, sincera, onesta apparenza… l’unica cosa che veramente desideri è impartirgli una lezione, aprirgli le gambe e infilarglielo dentro senza nessuna preparazione.

L’hai già pensato. Lo riconosci.

Ultimamente non riesci ad avere un pensiero originale che sia uno.

 

Un fiotto di bile ti risale in gola, e l’erezione che ti gonfia i pantaloni è inappropriata. Ti fa vergognare. Non sei il tipo che tradisce sua moglie. Non vuoi essere quel tipo. Ti stai sforzando in tutti i modi che conosci per non essere quel tipo. Hai fatto una promessa, la vuoi mantenere.

Scosti la porta, lasci che l’illuminazione del corridoio dell’hotel rischiari l’ingresso della suite.

La tua camera è buia, filtra appena una luce dalla porta socchiusa della camera da letto.

Ovvio.

Segui la luce, come Hansel e Grethel le mollichine di pane, e oltre la soglia c’è un territorio sconosciuto. Spalanchi la porta con più forza del necessario. Fortuna che le stanze sono insonorizzate, il rumore secco del legno contro la parete viene assorbito dalla tappezzeria, dalla moquette, dal tuo battito.

 

Jensen è seduto sul letto.

Emana controllo, quasi una pacata indifferenza. Sembra che vi siate visti solo ieri. No.

Indossa una camicia a quadri, un paio di jeans con più buchi che tessuto, solo le punte delle dita dei piedi nudi gli sbucano dall’orlo.

Inizi a scuotere la testa, perché tutto questo è… tutto questo è…

 

“Te ne starai lì ancora per molto?” ti domanda, ha la voce bassa, non lascia trapelare nessuna particolare emozione.

Oppure tu sei troppo ubriaco, troppo disfatto per capire.

“Dove vuoi che vada?” ribatti, vagamente belligerante, e te ne penti subito. Non vuoi coinvolgere Jensen in uno shouting-match. Vuoi superare indenne l’incontro. Vuoi che se ne vada. Vuoi strappargli i pantaloni, e fargli capire che questo genere di sorprese si pagano. Vuoi… Ondeggi, fatichi a mantenere l’equilibrio. Svuoti il contenuto delle tue tasche sul tavolo e ti passi una mano sulla fronte sudata.

“Sei ubriaco,” nota, incrocia le caviglie sul letto, viene avanti col busto e ti osserva meglio, curioso: “Perché?”

 

Non sai che dirgli, e poi che domanda ridicola…

Ti pareva una buona idea qualche ora fa, ma non ne sei più così convinto: quando non sei completamente in controllo delle tue azioni, dei tuoi pensieri, è più difficile mantenere la maschera. E Jensen sa come spingere tutti i tuoi bottoni. Conosce tutte le tue debolezze. Ha sempre saputo come prenderti...

La consapevolezza ti congela. Sorprendentemente ti aiuta a mettere i pensieri in fila.

“Io sono ubriaco, e tu sei qui. La seconda è più difficile da spiegare,” commenti.

Se questo è il gioco, se vince chi rivela di meno all’altro, allora terrai la bocca chiusa come una cassaforte, come le cosce di una novizia. Sai giocare finalmente anche tu. Stai imparando.

 

Jensen allunga le gambe oltre il bordo del letto, si distende, fa scricchiolare sottilmente le giunture. “Ho saputo da Mike Rosenbaum che eri a Malibù. Da solo. Volevo vederti. È da un po’ che non ci parliamo.” Sembra a suo agio, è economico nella scelta delle risposte, ritmico nel come le pronuncia.

Non ti riesci a trattenere. Sbuffi. È la cazzata più assurda che potesse raccontarti.

Da un po che non ci parliamo… Beh, può rigirarsela come vuole, ma è ben più che un pò. Non vi vedete dall’ultima convention per celebrare la chiusura della serie, non vi parlate dalla fine delle riprese, e a dirla tutta non avete una qualche conversazione che possa avere un valore da… Non sai più da quanto.

Jensen lo sa benissimo e si dà una scrollata di spalle. Mente. E non gliene importa niente.

“La settimana prossima ti sposi, mi pare. Perciò che fai qui Jen?” gli domandi. Sei stanco, il peso della serata, delle tue scelte, delle loro stesse conseguenze, ti crolla sulla schiena come una tonnellata di mattoni.

 

Si alza, è sinuoso come un gatto. Ed è un concetto che non ti sei mai spiegato. Tu pesi cento chili di muscoli e sei alto come un grattacielo, non sei mai stato aggraziato, hai imparato con il tempo a muoverti nel modo consono alla tua stazza, con efficienza ed attenzione. Ma Jensen, che non è un uomo di piccole dimensioni sotto alcun punto di vista, è consapevole del suo corpo, si muove con armonia, equilibrio, senza sforzo. Jensen sembra sempre in posa, sempre elegante, sempre perfetto. Se tu non fossi certo che gli viene naturale, lo riterresti insopportabile.

 

“Appunto, la settimana prossima mi sposo. Perciò voglio che mi fotti, Jared. Voglio che mi scopi stanotte. E domani. E fino a quando non torna tua moglie. Fino a quando le lenzuola non saranno fradice di noi.”

 

Dà una cadenza ritmata alle sue parole, ha la postura rilassata di un uomo in controllo.

L’aria fuoriesce dai tuoi polmoni come se ti avessero preso a pugni.

Jensen, quando vuole, non si perde in tanti giri di parole.

Lo odi. Vorresti strappargli i vestiti di dosso. Lo vuoi.

No.

Quello è un pezzo della tua vita che ti sei lasciato alle spalle, non vuoi finirci dentro di nuovo. Hai deciso di fare ordine nella tua vita quando hai sposato Genevieve. Hai deciso che avresti avuto la moglie, e i figli, e i cani, e la staccionata bianca. Hai fatto una promessa di esserle fedele sempre.

 

Jensen ti passa una mano attorno al collo. È il primo contatto fisico che c’è tra di voi, contatto intimo, da settimane, mesi. Reprimi un brivido, ma non riesci a impedirti di chiudere gli occhi, mostrare il piacere che ti pervade all’idea dell’incontro di pelle che prelude quello di lingue, di carne, di sudore, di sperma. La tua erezione è sempre più pressante, ma ti senti talmente male che  sei certo di non poter eseguire una buona performance.

 

“Stai pensando troppo. Stai pensando a come dirmi di no…” bisbiglia, con la bocca vicino al tuo orecchio, una mano che si avvicina al bottone del tuo jeans, si insinua nel cavallo dei pantaloni, dentro i tuoi boxer.

Non te ne accorgi nemmeno, ti fermi solo quando lo senti gemere: se aumentassi di più la presa potresti spezzargli il polso. E quel suo spasmo, quel rumore di gola appannato e ferito arriva direttamente al tuo uccello e pensi che se solo potessi toccarti, verresti come un fuoco d’artificio del quattro di luglio. E ti sale la nausea. Bravo, che coerenza!

Lo lasci andare frettolosamente, ti allontani con rapide, ampie falcate. In un lampo sei dall’altro capo della stanza, la schiena contro il muro, le mani nelle tasche.

Jensen ti osserva, ma ancora con quella sua stramaledetta espressione indecifrabile. E tu non sai più come sopravvivere alle emozioni che ti pervadono: a quella miscela esplosiva di rabbia-confusione-affetto-desiderio-umiliazione-delusione.

Prendi un respiro. Ti gira la testa, in sottofondo il sentore di nausea ti rende insopportabile anche solo respirare la sua colonia. “Non posso fare questo adesso,” ammetti, ma non lo puoi guardare. “Non so cosa ti è successo, non so cosa stai pensando… ma io non posso fare questo adesso.”

È già stato abbastanza difficile la prima volta…

 

Jensen è terribilmente immobile, lucido e sveglio, fermo come una statua illuminata dalle abat jour accanto al letto. Già solo per questo ha vinto la vostra partita stanotte. (Se questo è il gioco, se vince chi rivela di meno all’altro…). E tu non puoi pensarci.

“Allora non fare niente…” ti dice.

Quando riapri gli occhi è lì, davanti a te. E tu, idiota, hai le spalle contro il muro.

Non c’è nessun posto in cui potresti scappare.

“Jen, no. Avanti… andiamo… non…” ti si spezza il fiato in gola.

Jensen ha già chiuso le sue dita contro la tua erezione, il suo palmo, caldo e avvolgente, ti sembra la casa di cui sei alla disperata ricerca.

“N-non facc-ciamoci q-questo…” stringi i denti, mentre un fiotto di sangue diretto al tuo pene che si ingrossa (che ti prende in giro con la sua inappropriata euforia) ti fa girare la testa. “Jen, lo sai, ho una p-promessa da mmm-mantenere…”

 

Jensen non ha intenzione di risparmiarti nulla, a quanto sembra. Stringe le dita in una morsa quasi dolorosa e ti trattiene alla base del pene, per non farti venire (troppo presto… ti domandi) mentre con il pollice ti accarezza la testa, dove perle lattee del tuo sperma iniziano a rapprendersi.

Vorresti che si leccasse le dita. Vorresti che te lo succhiasse (come la prima volta in cui si è abbassato sulle ginocchia. Eri così duro che sei venuto appena ha appoggiato la lingua contro la punta, la ricordi come una delle esperienze più eccitanti e più imbarazzanti della tua vita. Nemmeno da adolescente hai mai fatto di queste figure…).

Vorresti marchiarlo, ricoprirlo col tuo sperma, fondere i vostri odori (come se una doccia non ne potesse cancellare le tracce, come se il legame potesse durare fino a quando potrete finalmente cominciare ad odiarvi per quello che vi state facendo).

Non sai nemmeno quello che stai pensando, non riesci nemmeno a distinguere un’idea dall’altra. Sai solo che: voglio-ora-dentro-ancora-forza-adesso-mai.

 

“Non ti distrarre. Non fantasticare, sei qui con me adesso. Non puoi andare da nessuna parte…” insinua Jensen, bisbiglia, ha la guancia appoggiata alla tua, ti si spinge addosso e la sua mano è intrappolata tra i vostri corpi, insieme alle vostre erezioni.

La sua più grande paura deve essere che tu stia pensando a lei… Non lo sa, non lo immagina che tu pensi a lui (perché non riesci a pensare ad altro, come una fissazione, come una malattia) non sempre (altrimenti saresti solo un figlio di puttana, traditore e bugiardo) ma spesso, quando le entri dentro. Cataloghi similitudini e differenze, odori e sapori, la solidità dei suoi muscoli, le efelidi e le rughe, (il calore che emanava come una fornace quando lo toccavi, quando gli passavi le mani lungo le cosce, gli stringevi i glutei per premerli contro la tua erezione e lui affannava in attesa di aprire…).

“Jen, non f-facciamoci,” ansimi, perché vedi quasi tutto bianco, e stai per venire, e non c’è niente che tu possa fare, nessun posto in cui tu possa nasconderti, per evitare che accada. “Non facciamoci questo. Ti prego.”

 

Jensen diventa improvvisamente feroce, selvaggio. “Perché? Per la tua promessa da mantenere? Quella di esserle fedele sempre?” ringhia, sei sommerso dal suo odore, dalla sua presenza, dalla sua confusione… E la sua disperazione è tale da tingere di amaro anche il tuo piacere.

Inizia a spingersi su di te, su e giù, con un movimento dei fianchi che sembra automatico, fuori dal suo controllo. È solo frizione da contatto. Con entrambe le mani impegnate a farti un pompino c’è ben poco altro che possa fare.

“N-no,” tiri fuori a fatica le lettere dalla tua gola. Lo guardi perché hai le palpebre aperte, ritratte e incollate, non riesci nemmeno a pensare di muoverti.

“La promessa che ho fatto a te.”

 

Stai ansimando e non hai controllo. Vorresti mordergli la bocca, per fargli male. Non è che un presuntuoso bastardo, che pensa ancora che le sue azioni non abbiano conseguenze, che le tue parole non abbiano un valore.

Stai solo cercando di fare quello che lui ti ha chiesto, fanculo. Quando gli hai detto che la sposavi e lui ti ha guardato da sotto in su, come se fossi un estraneo, con quegli occhi verdi, trasparenti come biglie, e ti ha detto: “Tu la sposi e questo finisce qui.” Sintetico, in carattere. Non lo hai mai sentito parlare di cosa prova. E talvolta, sì, hai pensato che potesse amarti, ma ti è sembrato così strano, e così alieno, che hai tarpato le ali di quella fantasia prima che prendesse il volo.

Quel pomeriggio non te lo ricordi bene, lo hai cancellato, come una videocassetta consumata dalle troppe visioni. Ci hai ripensato talmente tanto, per analizzare ogni sfumatura del vostro scarno dialogo, da perdere la memoria della reale conversazione. Sinceramente non sai più se lui fosse distaccato, o ferito, o arrabbiato, o deluso, o geloso. Sai solo che ti ha guardato in faccia per dirti che tra voi, qualunque cosa ci fosse stato, finiva. E poi ha aggiunto:

“Tu ora mi giuri che qualunque cosa succeda non ci toccheremo mai più.”

 

Quello che hai provato in quel momento te lo ricordi bene.

E ora lui te lo sta ributtando in faccia, come un panno sporco.

Adesso ti senti battere i denti nella bocca, come se avessi una febbre alta, ma non puoi fermarti. Dal basso ventre ti si apre dentro una voragine che rischia di azzerare il tuo intelletto. E sei vicino, sull’orlo. Devi fare in fretta.

Non farmi questo.

Ti prego bastardo.

Non sai se riesci a dirglielo. Jensen ti guarda, è implacabile, ha gli occhi opale accesi di fiammelle.

“Guardami. Sono io che ti sto facendo questo. È per me che tu provi…” si scuote, non può dire di più. “Guardami. E vieni.”

 

Nell’istante successivo il tuo cervello si ferma. Reload.

Mentre senti una macchia di umidità calda che si allarga sui suoi jeans e viene assorbita dalla pelle del tuo stomaco esposto, non puoi che ubbidirgli.

Dieci secondi e un’eternità dopo, ti senti le ginocchia cedere. Finisci accovacciato contro la parete, sostieni tutto il peso di Jensen, che si abbatte nella v delle tue gambe, contro il tuo petto, ansima, sconvolto come se avesse corso la mille miglia, con il volto nell’incavo del tuo collo, il suo fiato caldo che si poggia sulla tua pelle, ti impregna come vapore.

Una delle sue mani si chiude a pugno nella stoffa della tua maglietta, l’altra risale lungo il tuo stomaco, solleticando i tuoi pettorali, fino a fermarsi sulla tua nuca, a stringere i tuoi capelli madidi.

“Jay…”

 

Non piange. Ti dici.

E io non mi sento spezzare in due.

 

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Capitolo 3
*** III ***


*** Rollover (cappottamento): in cui si testa l'abilità dell'auto (specificamente i montanti che sorreggono il tetto) a sopportare il proprio peso in un impatto dinamico. ***



 

Tutta la tua rabbia evapora. E forse sei un figlio di puttana egoista e costruito, ma non puoi restare distaccato dinanzi alla sua sofferenza.

Perchè sta soffrendo.

E si taglierebbe un braccio pur di non fartelo vedere, ma ha avuto un crollo, non sai perchè ma sai che è così. Si è intaccata la sua armatura, e vorresti inserire le dita e aprire di più quella breccia, ma sai che ti odierebbe se tu lo facessi, e ti sforzi di essere maturo e civile, e di rispettare la sua privacy e accettare ciò che vuole, o non vuole, dirti.

 

Lo tiri su di peso.

Sei confuso, voi non siete mai stati così. Lui non ti ha mai mostrato vulnerabilità. Non sai quale sia la tua parte su questo nuovo palcoscenico, e come recitarla. Quando gli passi le mani sotto le braccia per rimetterlo in piedi senti le sue giunture scricchiolare. Ti sembra di avere l’opportunità di toccare qualcosa di fragile e misterioso. Non hai la capacità di esercitare la giusta pressione, la dovuta delicatezza. Manderai tutto a monte. Questa tregua, questa specie di dimensione parallela in cui siete entrati quando lui stanotte ti ha telefonato, ha i contorni evanescenti, sembra un foglio di carta velina, temi che si accartoccerà sotto le tue manipolazioni inesperte.

 

Lo trascini praticamente di peso verso il bagno, e lui te lo consente. Strano, è sempre stato così orgoglioso… E tu dopo tutto, ti senti improvvisamente, vertiginosamente sobrio. Grato che questa fiducia ti sia concessa. Grato che Jensen ti si mostri così.

“Fa con calma, ti aspetto fuori,” esali.

Ti proibisci di parlare troppo, come faresti di solito, se sei nervoso. Sei diretto, sintetico. Avete entrambi bisogno di una pausa, riprendere una parvenza di controllo, prima di potervi parlare, o scopare, ma in ogni caso prima di ritornare rispettivamente alle vostre vite.

Concludere questa disastrosa nottata.

Della quale speri di non mantenere alcuna memoria.

Sogni dieci minuti di solitudine per raccogliere i pensieri, prendere un advil.

 

Ti mordi la lingua perchè sei un uomo adulto, di fronte a un uomo con cui hai avuto una relazione (era una storia, fanculo, non ve lo siete mai detti, ma scopavate e tu lo amavi, perciò era una relazione) e non vuoi raccoglierlo tra le tue braccia. Non vuoi chinarti sulle ginocchia e baciargli le punte delle dita, no, sarebbe imbarazzante, Jensen ne sarebbe infastidito, come tutte le volte in cui tu hai mostrato il bisogno che avessi di lui.

Jensen voleva che tu la prendessi alla leggera. Ti voleva, e ti cercava, ma si spaventava quando gli facevi capire che per te poteva esserci anche altro.

Per questo alla fine ti sei sposato.

Perchè Genevieve poteva salvarti e tu, idiota, non glielo hai permesso.

 

“Dove pensi di andare?”

Jensen ti avvolge la mano attorno al polso, “Muovi il culo ed entra in quella doccia con me.”.

Sembra essere marginalmente più controllato adesso. O, almeno, non devi essere tu a mantenerlo in piedi per non farlo cadere.

Ti inizi a spogliare, come in trance. Te lo ha chiesto e boom, non valuti nemmeno di potergli dire di no. (Ti ha chiesto di scoparlo per tutto il tempo che vuole, fino a che non torna tua moglie, e la cosa ti fa incazzare, ed eccitare, e mortificare, e sai già che lo farai…)

 

Ti rendi conto di quello che fai quando senti il clang della fibbia della sua cintura che batte contro le maioliche: tu e lui, nudi, sotto la doccia. È l’idea più stupida che potreste avere.

Riconsideri velocemente le tue opzioni, ma Jensen si puntella su di te, le dita affondate attorno alla curva del tuo bicipite. “Stai ancora pensando troppo. Lascia perdere. Questa notte è mia, me la devi” conviene, entrando nel box, sotto il getto potente e portando nel movimento anche te oltre il bordo.

 

Fanculo a tutto. Ti viene offerta questa cosa, e allora te la prenderai.

Tanto starai male comunque.

 

Gli aderisci in un istante alla schiena. Una schiena liscia, e bagnata, e costellata di lentiggini. Ha sempre avuto la pelle delicata… sempre il primo a ricoprirsi di graffi e lividi sul set.

Senti i suoi muscoli irrigidirsi al contatto e poi rilassarsi. “Ho bisogno di questo,” ti supplica, in quel suo modo troppo orgoglioso per supplicare davvero. (Sai benissimo cosa prova in questo, potresti rispondere alle sue emozioni confuse con le tue. Non lo fai, sei incoerente e vigliacco. Non intendi rendergli le cose facili). Ed è lui, e non è lui. Non lo riconosci più.

 

“Ho bisogno di questa notte. Del tuo cazzo.”

Ah, ecco… ora lo riconosci, consideri con discreto cinismo. (Sei stanco di sperarci e la disillusione ti mette a tuo agio, ti dona.). Gli serve una sveltina per superare la paura del matrimonio. Probabilmente per chiudere col sesso promiscuo, votarsi alla monogamia.

Per lui sarà come una specie di addio al celibato.

 

Ed è troppo. Troppo.

Spingi con forza la testa sotto l’acqua, per confondere la traccia di una lacrima. Vorresti urlare, fotterlo, gridargli che lo odi, vorresti esplodere e spegnere il cervello, ustionarti sotto il getto bollente, per purificarti e sradicarlo da dentro di te.

Tu e lui avete una storia lunga e banale. E quello che c’è tra voi non finirà mai. E di questo potresti morirne. Ma non importa a nessuno. Aspetti con ansia il giorno in cui potrete finalmente cominciare ad odiarvi per ciò a cui vi sottoponete.

E sei un fottuto, esagerato, incoerente re del melodramma.

Ti devi solo dare una calmata. Dormire qualche ora. Superare la notte (e il prossimo giorno, tutto il prossimo giorno, quello che Jensen ti ha chiesto di passare a letto, a infradiciare le lenzuola…) indenne. Rimanere solo, per ricominciare a dimenticarlo.

 

Dovresti volerti più bene, buttarlo fuori, dissentire.

Ma d’altro canto puoi avere questo adesso...

“Ok, va bene. Va bene Jen.”

Ti concedi di esprimere un poco di dolcezza. Hai sempre cercato di non farlo tutte le volte che avete scopato, tutte le volte che lo hai guardato e ti sei imposto di non fargli capire che se te ne avesse dato modo lo avresti stretto fino a inglobarlo dentro al tuo corpo, unire le vostre cellule, le vostre anime… Non volevi sembrare un ragazzino con una cotta,non volevi che lo capisse, che ti aprisse il costato e affondasse le mani.Poteva farlo. Quasi certamente lo avrebbe fatto.

Avevi, all’epoca, un certo orgoglio.

Jensen rabbrividisce (ha freddo, è provato, è imbarazzato? Non ne hai idea. Non lo capisci. Lui lo sa che tu non lo capisci, e non fa niente).

E tu lavi tutta la pelle che riesci a raggiungere agevolmente, gli passi il sapone e la spugna sulle braccia, sul torace, sui fianchi.Te lo permette.

Questa notte è tutta così. Tu azzardi e lui te lo permette.

Lavi velocemente, efficientemente te stesso, senza dedicarti la stessa devota attenzione e poi gli giri intorno, ti pieghi nella cabina capiente abbastanza da accogliere entrambi, per passargli la spugna sulle gambe, sulle cosce, indugi probabilmente più del necessario sui glutei.

Jensen sussulta contro di te. “Usciamo di qui, Jay. Muoio di freddo.”

Sai che non è vero. La temperatura dell’acqua potrebbe cuocervi, ma annuisci. Rigiri le manopole in senso contrario, esci per primo e grondi sul pavimento, afferri le spugne per entrambi. Gliene avvolgi una attorno, ti passi distrattamente l’altra addosso, poi tra i capelli.

Nella camera la temperatura regolata dal condizionatore è alta, la aumenti di un altro paio di gradi, Jensen si drappeggia sulla tua schiena. Odore di bagnoschiuma industriale, e poi di erba tagliata di fresco e cuoio (come i suoi stivali da cowboy), odore delle sue tante giacche di pelle, inspiegabilmente, di fumo di sigaretta. Il suo odore pare quasi rimanerti addosso, impregnarti.

Lo riconosceresti tra mille.

Socchiudi gli occhi, inspirando fino a poter scoppiare, un po’ arrabbiato con te stesso.

 

“Dormiamo?” ti chiede, quasi infantilmente, accenna un sorriso e ti dà una spinta.

Per il momento ne avrà abbastanza dei drammi anche lui.

Ed è questo che ti manca più di tutto. Più del sesso, (che pure era spettacolare), più della chimica che avevate, del vostro modo di esprimere fisicamente una compatibilità che era anche mentale. Ti manca il tuo amico. Quello capace di offrirti un pompino e una birra in due frasi, una di seguito all’altra. Di farti ridere e di farti venire. Di capire come prenderti, quando insistere e quando glissare. Di trovarti attraente anche dopo aver visto che rutti, e ti gratti, e ti addormenti, e ti puzza l’alito di cane morto al mattino. Tu, queste cose, di Jensen non le hai mai notate. Le farà anche lui, perché è umano, (puzzerà se suda, andrà al cesso e di sicuro non cagherà rose e viole, rutterà e si gratterà…) ma lo hai sempre considerato perfetto, infallibile, inarrivabile.

 

Ti precede nell’altra camera e si proietta sul materasso. Così com’è. Nudo.

Tu esiti. Non la trovi una buona idea.

Jensen vuole forse qualcosa da te, (oltre al sesso)? Non lo sai, non sai un cazzo. Non sei convinto di poter assecondare quale che sia la sua richiesta. Hai paura. Vorresti non averlo mai incontrato stanotte. Vorresti non sapere.

(Jensen non ti dirà mai che cosa vuole da te veramente. In fondo lo sai bene. Lo hai già ammesso con te stesso molto tempo fa. Continuerà a sfuggirti, come ha sempre fatto e tu…)

E tu sei più lucido adesso, la sbornia l’hai quasi smaltita del tutto e un mal di testa di tutto rispetto ti sta martellando le tempie. E perché è qui veramente, cosa vuole davvero da te e come mai non ti lascia in pace?

 

“Jared…” bisbiglia, una mano a coprire uno sbadiglio, (se non fossi nello stato in cui sei, lo troveresti adorabile, assonnato e un po confuso, con i capelli umidi e la pelle calda…).

“Vieni a letto, Jared.”

Non ha alcuna esitazione. Sa che andrai da lui, sai che lo farai.

 

E chi diavolo si crede di essere? Perché pensa di poter riversare su di te le sue frustrazioni, la sua solitudine, le paure che lo attanagliano e dalle quali vorrebbe che tu lo curassi… Le sue paure a una settimana dal suo matrimonio...

Non sei un buon samaritano. Vorresti avere il controllo delle tue emozioni, decidere finalmente se amarlo o odiarlo. Vorresti riuscire ad usarlo. Scoparlo, buttarlo fuori domani.

Vorresti osservare le sue efelidi, e non provare nulla, senza sognare di poterle tracciare con la lingua. Ma la verità è che conosci la loro posizione a memoria, potresti disegnarle se te lo chiedessero, se fossi bravo con una matita.

Sei patetico.

 

Jensen dal letto getta un’occhiata alla radiosveglia. Segna le quattro e quaranta. E tu ti senti completamente esausto. Fanculo a tutti.

“Smettila. Smettila di pensare,” ti invita, l’accento più marcato, come quando è particolarmente provato, o stanco. Ma tu ancora non riesci a muoverti.

“Avanti… vieni, big boy.” Solleva le coperte disordinatamente e ci sguscia in mezzo.

Ha gli occhi cangianti, verde cupo come una pietra di onice. Vorresti carpirne ogni segreto, possederlo e divorarlo. Rinascere in lui.

Ti si mozza il fiato in petto, e non capisci se è un infarto o una crisi di panico, o l’amore che provi che potrebbe finalmente, inevitabilmente soffocarti. E non sei pronto.

Vorresti essere un uomo migliore di quello che sei, e non avere paura, e ammettere i tuoi errori, e chiedere perdono a Genevieve, andare da lei a genufletterti e a dirle che è una donna fantastica e che non la meriti e che sei tu quello sbagliato. Quello che ha provato a sfuggire a questa voragine per vigliaccheria e ha fatto solo casini.

Rabbrividisci e tutto è ineluttabile e chiaro, per la prima volta da molto tempo, davanti a quest’uomo, che ti si offre come se potesse essere un episodio isolato, come se tu potessi averlo un’ultima volta e trovare una sorta di pace, come se potesse bastare. Lo trovi offensivo. Riduttivo.

 

“Regalami una notte Jay. Una notte e un giorno intero. Ti prometto che non ti chiederò più niente.”

 

Sembra averti letto nella mente. Ti volti di spalle un istante. Non lo puoi guardare.

Ha già chiuso gli occhi, ma il suo respiro è regolare, controllato. Ti aspetta.

Non avete mai dormito insieme. O meglio, sì certo, l’avete fatto, ma sempre come amici, o come amici che scopano. Supponi che sarebbe diverso stavolta.

 

Forse dovresti arrabbiarti, mantenere una posizione più salda, o farti desiderare… Ti piacerebbe esserne capace. Chiedergli cosa gli fa credere di poter venire da te nel bel mezzo della notte, con le sue richieste inappropriate, come se avesse un protettorato sull’estensione dei tuoi muscoli, sulla lunghezza delle tue ossa, come se se lo potesse permettere... ma per ora non ce la fai più.

Non dichiari forfait, ma ti serve un time-out.

 

Avanzi come in autopilot, entri tra le lenzuola e in un istante sei sommerso e invaso da lui. Troppi stimoli che non puoi cogliere, troppe cose che vorresti intrappolare nella tua mente, per richiamarle un giorno a comando, ricordarle quando ne avrai più bisogno, soffocarle quando ti sembrerà insopportabile. Ma non riesci a fare nulla. Sovraccaricato, il cervello ti va in corto circuito.

L’ultima cosa che senti è Jensen che si sistema comodamente accanto a te, i vostri corpi un contatto perfetto di vuoti e pieni, un’alchimia inspiegabile, come la densità dell’acqua.

“Shhh Jay, dormi. Sei mio, per queste ultime ore della notte e per tutto il prossimo giorno, sei soltanto mio.”

 

Lo sono.

Lo sono, vorresti concordare.

Ma non sarebbe vero.

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Capitolo 4
*** IV ***


IV
 

*** La prova del palo è usata per assicurarsi che i guard-rail proteggano gli occupanti del veicolo e per controllare che i guard-rail stessi, i pali della segnaletica, i pali della luce e simili accessori non procurino eccessivi danni agli occupanti. ***

 
 
 

Quando siete finiti a letto la prima volta è stato quasi per gioco.

Non che tu non ci avessi già pensato molte volte, (non con Jensen che porta con disinvoltura quella bocca, e quelle ciglia lunghe lunghe, e quella pelle troppo delicata e pallida, che sembra fatta apposta per subire l’impressione delle tue mani, i segni della tua ingordigia...).

Ma non avevi mai seriamente considerato che sarebbe potuto accadere. Amici e compagni di set, brevemente coinquilini, buoni colleghi. Sei sempre voluto sembrare un ragazzo serio, genuino, predisposto alle storie lunghe, anche da prima di incontrare Genevieve, figuriamoci se nella tua San Antone avrebbero capito la tua bi-curiosità… Hai sempre pensato di dover reprimere certe domande, certi tuoi istinti. Le ragazze ti piacciono, le tette e i culi e i fianchi stretti ti eccitano e quando entri in un ventre umido e caldo non ti manca nulla, ti senti in pace con l’universo. Perché andarsi a ficcare nei guai? Non ci avevi mai pensato che un altro uccello in mano non ti avrebbe fatto schifo. Che la barba di un altro uomo avrebbe potuto lasciarti dei segni lungo le cosce, se ti si strusciava contro, mentre decideva quando prendertelo in bocca. Jensen ti ha sconvolto la libido e le certezze, frullando le tue opinioni provinciali, insieme a quel che restava di un remoto pregiudizio.

 

Una sera ti ha portato una birra, nella roulotte dove stavi riposando in attesa che fosse tutto pronto per una ripresa notturna. Non hai mai potuto fare a meno di notare che ha una presenza naturalmente elegante, un alone di sofisticata ricercatezza anche sfatto, anche stanco, anche quando ti ha chiesto se ti avrebbe fatto piacere venire nella sua bocca. Così, dal nulla.

Un minuto prima siete colleghi, quasi amici, compagni di set e di bevute. Un minuto dopo...

Sei rimasto inebetito. (Devo ridere, perché è uno scherzo, o devo aprirmi la lampo dei pantaloni e tirar fuori l’uccello? Cioè, voglio dire, esiste un galateo per certe cose?)

 

“Oh andiamo, non fare quella faccia...prometto di non usare i denti, se è la prima volta,” ridacchia Jensen, si passa una mano sugli occhi e si beffa di te.

Ha ragione. Sei inesperto, sprovveduto, hai fatto solo una manciata di pubblicità e Gilmore girls, sei provinciale e stupidotto, la gente non ti prende sul serio, vede solo un ragazzone troppo alto, con un brutto accento e delle camicie perennemente stropicciate. Sei texano, ma la tua è una famiglia di immigrati originari dell’Europa dell’est, e tu vorresti essere capace di sentirti a tuo agio e soave, mentre gli sussurri che forse non è la prima volta, e che può usare i denti quando sentirà la punta del tuo uccello scivolargli dentro la gola, ma ti sembra eccessivo e sgarbato. Inappropriato e non commisurato alla battuta. Perché ovviamente di questo si tratta. Jensen è provocatorio e sicuro di sé, tutto quello che tu non sei, anche se venite dallo stesso Stato, e non trovi una risposta che non sia banale e vagamente offensiva.

“Jen…” soffi con un sorriso, sei genuino, ancora verde attorno agli angoli spigolosi, quel mondo che frequenti ancora non ti ha cambiato… “Vai a farti fottere,” rispondi bonariamente accettando la birra.

 

Jensen ha qualche anno più di te, ma sa come muoversi nell’ambiente, quando sorridere e quando mostrarsi vulnerabile per le telecamere, sa che la gente lo guarda perché è bello e non è stupido (sei sicuro che uomini e donne vorrebbero passargli le mani lungo la linea sinuosa della sua schiena, affondare le unghie nella parte più morbida dei suoi glutei...). Sarà cresciuto abituato a sentirsi desiderare, ha una sessualità libera, una amica storica, che più si avvicina a una fidanzata, con la quale scopa quando ne ha voglia (e tu non lo sai ancora, ma le chiederà di sposarlo alla fine, e lei accetterà, perché, a differenza tua, Danneel Harris sa quando le capita qualcosa di buono e non se lo fa scappare…). Non lo hai mai visto in imbarazzo (certo arrossisce, abbassa lo sguardo e piega un po’ il collo, grattandosi la nuca, in quella mimica universale che faccia pensare a tutte le mamme del mondo quello è un bravo ragazzo, uno di quelli che sarebbe adatto per mia figlia…) ed è capace di proferire le peggiori porcherie, senza mai cadere in una volgarità imbarazzante, di raccontarti cosa fa quando si porta le ragazze in camera, la mattina nella casa che condividete, al tavolo della colazione, e poi di mettersi in bocca una manciata di cereali direttamente dalla scatola e chiederti di lasciargli almeno mezza tazza di latte, Jared, per dio, lo hai finito di nuovo, non posso ingoiarli sempre a secco!

Buffo come si sviluppi dell’affetto mentre non si sta guardando, mentre non si fa attenzione.

Non ci hai fatto caso, e Jensen si è insidiato sotto il tuo sterno (non lo sai ancora, è presto, sei troppo giovane, non credi di volerlo, non lo osservi con cupidigia, siete ancora solo amici.).

 

“Si dà il caso,” concede, come se ti stesse facendo un gran favore nel specificarlo, e tu fossi soltanto un giovane di buoni sentimenti incredibilmente, fastidiosamente denso, “Che sia un’offerta seria, e visto che ci siamo e mi inviti a farmi fottere, perché non lo fai tu?”

Ti fa l’occhiolino, ed è talmente sopra le righe che scoppiate a ridere entrambi.

Posi la birra. E sarai stupidotto, e provinciale, e ancora troppo magro per la tua altezza, almeno secondo il tuo preparatore atletico, ma diciamocelo, non sei completamente idiota.

Quando, non sai come, le tue dita si chiudono attorno alla sua nuca, alla base del collo, per portare il suo viso verso il tuo e dargli un bacio, lui ha già aperto la bocca.

 

Quando siete finiti a letto l’ultima volta, lo sapevate entrambi che sarebbe stata l’ultima, e non ne avete fatto una tragedia. O almeno, tu non ne hai fatto una tragedia, sul momento. Se dopo ti sei andato a ubriacare e alla fine dei bagordi ti sei ritrovato con un black out della durata di tre giorni, dal quale sei venuto fuori perchè ti ha recuperato Stephen Amell per pura pietà umana, beh… quello è un affare tuo, e tuo soltanto!

Jensen certamente l’avrà presa più sportivamente di te… Com’è che ha detto quel giorno? Ah si, ecco, ha detto: “è stato divertente, ti ringrazio.” Si richiudeva meticolosamente la camicia mentre ti parlava. La tua unica soddisfazione era stata avergli fatto saltare tre bottoni e strappato le asole, si sarà dovuto chiudere la zip della giacca fino alla gola per sembrare remotamente decente, quando è uscito dall’albergo. Sì, l’ultima volta è stato in albergo, non potevi rischiare che qualcuno vi vedesse. Ti dovevi sposare e la serie aveva chiuso i battenti da pochi mesi, c’era stato qualche pettegolezzo di troppo sulle vostre reciproche frequentazioni, Jensen sembrava fuori controllo, tomcatting, insieme a Jeff Morgan, mezza Vancouver.

Quanto ti rodeva il culo.

Sei sempre stato geloso. Eri geloso prima, durante e dopo. Eri geloso perché sentivi che non era tuo. Non lo era stato mai. Del resto, non che tu avessi alcun diritto di chiedergli alcunché...

 

Quando avete chiuso lui ti ha ringraziato.

Ti ricordi bene l’economia stringata delle sue parole,o l’attenzione metodica con cui si abbottonava la camicia pur di non guardarti. Ti sembrava di essere stato messo alla berlina da qualcuno più in alto di te, di essere un inconsapevole protagonista di una barzelletta che qualcuno stava raccontando in un corridoio, in attesa della battuta finale.

 

In nessuna delle due occasioni, né la prima, né l’ultima, vi siete detti alcunché di rilevante.

 

Quando ti svegli lui ti sta già osservando.

Non sei un tipo mattiniero, di solito apprezzi un buon caffè prima di consentire al resto degli esseri umani una qualunque forma di interazione. Ma qui tempo per il caffè non ne hai.

Jensen si regge la testa con una mano, appoggiato sul gomito, disteso sul fianco destro, pigro, lento, soave. Ha gli occhi appannati e cerchiati, la bocca socchiusa, screpolata. Ma ti guarda come se tu fossi un dolce in una vetrina, il profumo delle giornate di sole passate all’aperto, la sorpresa di un regalo inatteso. Di tutte le volte che lo hai visto, così bello non lo hai visto mai.

Non puoi sopportare di essere guardato così da lui. Si avvicina troppo a quello che vuoi, e non è abbastanza. Da qualche parte dentro di te, mentre ti svegli e connetti e rimetti in ordine mentalmente gli ultimi anni della tua vita, e cerchi di capire come sei giunto a questa stanza d’albergo, a questo letto, a questo punto, sai già che quegli occhi segnati e questo momento te li porterai nella tomba.

Senti il calore emanato dal suo corpo nei punti in cui vi toccate. Jensen, vorresti dirgli, ho bisogno di svegliarmi così tutte le mattine... Ma ti passi una mano sulla faccia e sbadigli.

“Sei qui,” commenti, scarno, “Pensavo di aver immaginato tutto. Ero a pezzi stanotte.”.

Jensen cambia espressione, una patina dilaga dentro le sue iridi, adesso ti osserva come se si stesse preparando a colpirti, invece che a fotterti.

Non che per te, arrivati fino ad ora, faccia poi molta differenza.

“Jared.”

E tu sai che stai come stai, ma anche lui non sembra passarsela troppo bene.

Mentre ti metti seduto sul letto e il lenzuolo ti libera dalla sua prigionia, Jensen è già dall’altra parte della stanza. Lo avevi dimenticato, come sa muoversi, ha i riflessi adatti al protagonista di una spy-story, degni di un serial killer, o di un eroe. O forse no. Forse è semplicemente un ragazzo normale, ma tu continui ad attribuirgli queste caratteristiche straordinarie perchè lo ami. Perchè lo vedi come un dio.

 

“Jared!”

Sollecita la tua attenzione, ha le braccia conserte, i piedi ben piantati a terra, è nudo e incazzato. Da qualche parte, nel mondo, il protagonista di un romanzetto sporco prossimo all’epilogo ne sarà l’immagine speculare.

“Se venire da te stanotte è stato un errore dimmelo subito. Non ti pregherò, di sicuro non ti costringerò. E se intendi umiliarmi…”

Non lo lasci finire: “Ma di che stai parlando?”

Le poche ore di sonno non sono bastate. Di sicuro non ad affrontare questo.

 

Jensen in un paio di ampie falcate è di fronte a te, allunga una mano e... non puoi fare altro che ritrarti. Inavvertitamente, spontaneamente. Non te lo puoi evitare. Non ci avevi nemmeno fatto caso, ma il pensiero di toccarlo, o di essere toccato da lui ti è insopportabile adesso. Che sorpresa. Un colpo di scena da romanzetto per riviste a pubblicazione settimanale… Dopo aver fatto compromessi con te stesso e giurato e spergiurato che gli avresti dato tutto ciò che ti chiedeva, perché lo volevi e non sapevi resistergli, dopo tutto quel pathos, e quel vomitevole centrifugato di emozioni degne di una regressione adolescenziale… tutto si conclude con te che non vuoi toccarlo. Che non sopporti la possibilità di farti toccare da lui. Jared, ti dici, come sei banale!

 

Jensen, sempre un passo avanti a te, questo già lo sa.

Ha gli occhi pesti, ha capito, si arrabbia, forse si vergogna, non lo sai più.

“Gesù Jared! Ecco, parlo di questo. Mi guardi come se ti disgustassi!”

 

Non sei sicuro di ciò che prova. Ci sono stati momenti in cui avresti potuto leggere i suoi stati d’animo come un libro… Adesso è coraggioso. Va dritto al punto.

Stupido, sei uno stupido! Mentre stanotte lo osservavi e ti struggevi come se fosse la fine del mondo, anche lui osservava te.

E ora lo sa.

E tutte le chiacchiere stanno a zero.

Dovresti rimboccarti le maniche e indossare i pantaloni da grande. Dovresti fare l’uomo e dirglielo finalmente, del resto che può mai succedere? Hai già sposato un’altra donna, e lui lo farà tra pochi giorni. Le vostre vite hanno preso strade diverse e, che tu glielo dica o no, probabilmente non vi rivedrete mai più.

Respiri.

Hai toppato tante volte nella vita, ma qui e ora non ti puoi fermare.

Fai un discreto sforzo, mordi la cinghia e non ti tiri indietro. Potresti dirgli mille altre cose, o nulla affatto. Potresti allungare una mano e piantargliela in mezzo alle cosce, e la questione si chiuderebbe lì. Lui te lo permetterebbe, ci sarebbe da scommettere che lo preferirebbe…

Jensen, pur con tutto il suo spavaldo menefreghismo, non ha mai reagito troppo bene alla verità.

 

Ma qualcosina l’hai imparata, forse per te c’è speranza.

Diglielo. E perdonati, finalmente. Perdona la tua vigliaccheria, la tua ottusità. Devi riuscire a dirglielo, a farti ascoltare, a fargli capire che eri un ragazzo alle prime armi, che hai confuso un’amicizia con qualcos’altro, e che non ti sei mai pentito, che lo rifaresti mille altre volte, anche se hai sofferto come un cane. Che accetteresti tutto da lui, anche gli scarti, anche una notte estemporanea di sesso, consapevole che significherebbe mettere i chiodi sulla tua bara.

Non lo incolpi di nulla: tu lo amavi e lui non ti voleva, succede.

 

Jensen ha gli occhi sgranati e le labbra serrate in una linea asciutta.

Sa cosa vuoi dirgli. E non ti vuole ascoltare.

Ma tu glielo dirai. Dovessi morire, o ucciderlo, tu glielo dirai.

 

“Non so che cosa hai pensato quando sei venuto qui, non più. Ho smesso di capirti, e non ci so fare con le parole. Ma una cosa è vera, e non ho mai avuto il coraggio di dirtelo.”

Sei fracassato sul letto. Non riesci a guardarlo e a stento gli fissi la mandibola, che ti sembra un dignitoso compromesso tra i suoi occhi e la sua bocca. Territorio neutrale.

Non devi pensarci. Se ci pensi troppo non lo farai.

Non puoi e non devi pensarci.

 

“Jared,” ringhia Jensen. Immobile, controllato, indifferente alla sua nudità. Fiero, come la statuaria greca di cui qualche volta hai sentito parlare.

“Pensa bene a quello che stai dicendo,” sussurra, a denti stretti.

Non capisci il perchè, ma è livido di rabbia.

Ti sei immaginato tante volte di dirglielo, e un novero di reazioni, dalla sorpresa, alla lusinga, all’apatia, alla derisione. La sua rabbia mai, ti sembra aliena.

In un movimento che non riesci completamente a seguire, ma che anni di coreografie di lotta ti suggeriscono sia aggressivo, si spinge su di te, inginocchiato tra le tue gambe e con una mano a chiudersi attorno alla tua gola, l’altra ad artiglio, sulla tua spalla.

 

“Se tu mi fai questo,” annaspa. Ha gli occhi lucidi.

Tu lo osservi come se foste sul set e qualcuno ti avesse dato da leggere le battute sbagliate. Non capisci. Deve essere uno scherzo.

Si vuole prendere gioco di te? Che cosa vuole farti credere...

All’improvviso sei terrorizzato.

Questo è peggio che temere di venire derisi o non ricambiati.

Se c’era una possibilità, e tu in tutti questi anni non l’hai mai vista… Se lui poteva amarti, e tu non glielo hai mai permesso, perchè hai avuto troppa paura e troppa poca fiducia… non potresti più guardarti nello specchio, non potresti mai perdonartelo.

Questo cambierebbe tutto, non si tornerebbe più indietro.

 

“Zitto!” lo interrompi, gli metti la mano sulla bocca. Siete occhi negli occhi adesso, e senti il suo respiro umido contro le tue dita, “Devi stare zitto.”

Jensen per un attimo ti guarda come se stesse pensando di morderti. Allargare le labbra e strapparti una falange, o un pezzo succoso del tuo palmo con i denti. Freme.

Ed è per questo, e per scongiurare che il destino si compia, che ti spingi su di lui, e finite sulla moquette, e siete già nudi, e uno sopra l’altro.

E puoi toccarlo ora, puoi toccarlo.

Perché tutta la repulsione che provavi, adesso la senti solo verso te stesso. Ti senti intrappolato in una spirale autodistruttiva. Non sai prendere una decisione da adulto che sia una!

Sei un coglione, ti dici mentre gli prendi la bocca in un bacio e lui te lo concede. E senti il suo ansimare, e i vostri odori che si mescolano, come un’alchimia.

Sei un coglione. E un vigliacco.

E non ti meriti Jensen. Hai capito bene? Non te lo meriti.

E farai bene ad assaporare questo momento, a stampartelo nella mente, come se fosse una pellicola.

Perchè non avrai altre occasioni.

 

Quando capirà che cosa hai fatto, se ti amava, ti odierà.

 
 

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