Demons

di _Heide
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
 

«Penso di aver detto tutto.»

«Quindi non dimentichi niente?»

«Grazie. Avevi ragione. Forse non sono riuscito ancora a superarlo – forse non ci riuscirò mai – ma sto imparando a conviverci... ed è merito tuo.»

«Ti sbagli, non è merito mio. Hai fatto tutto da solo, io ti ho solo consigliato come farlo.»

 


 

Dean sedeva su una poltroncina marrone, le spalle dritte e il busto rigido, pronto a scattare. Fissava la parete color crema davanti a lui come se fosse l'unica cosa a tenerlo a galla, come se aggrapparsi a quella potesse non farlo affondare, per non perdere il controllo di tutto.

«Dunque Dean, c'è qualcosa che vorresti dire?» un uomo dai capelli corvini guardava quello che gli stava di fronte.

«No. Non ho bisogno di uno psicologo.» affermò scontroso, senza distogliere lo sguardo dal muro, non gli era mai piaciuto il contatto visivo. Soprattutto perché lui non doveva, non voleva essere lì.

«Beh, allora potresti far finta che sia soltanto tuo amico. Niente psicologo-paziente.» insistette con gentilezza l'uomo, poi continuò «Puoi semplicemente parlare di quello che vuoi, anche del wrestling, se ti va.»

«Come sa che faccio wrestling?» Dean si voltò di scatto, pugni chiusi, furioso.

«Quei segni sulle mani, sono i segni di un incontro di wrestling.»

«Chi le dice che non ho picchiato lo psicologo da cui mi hanno mandato prima di lei?» aveva bisogno di quella minaccia per essere lasciato in pace.

«Il fatto che hai anche un occhio nero. Significa che le hai anche prese.»

Dean allora non ce la fece più e posò più pesantemente gli occhi sulla figura dello psicologo, notando di sfuggita i particolari fisici di questo e fissando direttamente gli occhi in quelli blu dell'altro. Molto blu.

«Senta, mi hanno costretto a venire qui. Mi tengono sotto controllo per assicurarsi che passi almeno un' ora in questa fottutissima stanza e che parli dei miei problemi, ma sa cosa? Perde solo tempo, io non ho niente di cui parlare.» sbraitò rabbioso. «Lei non sa niente di me.»

«Aiutami a sapere.» provò l'altro, inclinando la testa da una lato e guardandolo intensamente, cercando di capire se sarebbe mai riuscito a farlo aprire veramente.

«Scriva due stronzate. Dica che sto bene!»

«Dean, parla con me» l'uomo chiuse la penna, poggiò il Molensikine nero e si tolse gli occhiali «parla di quello che vuoi. Dico davvero.»

«Fanculo.»

«È già un inizio.» disse e le sue labbra si incresparono in leggero sorriso.

 



 

«Signor Winchester? Il dottor Novak la attende dentro.» gli comunicò l'assistente – una ragazza sulla ventina, con i capelli rossi e un cartellino sul petto con su scritto “Milton” – non appena mise piede nella sala d'aspetto.

Dean rispose con un cenno del capo e si diresse verso la porta scura con la targhetta che diceva “Dr. C. Novak”.

Bussò e quando ricevette un “avanti” in risposta, attutito dal legno, aprì la porta e si addentrò nella stanza.

«Ciao Dean.»

Di nuovo, il paziente, si limitò ad un lieve cenno del capo. Si sedette sulla poltrona che aveva occupato la volta precedente, pronto a ripetere l'esperienza di un'ora di silenzio, o perlomeno a portare l'argomento lontano da lui, portarlo fuori da quel campo minato di domande a cui non avrebbe mai dato una risposta – non ad alta voce.

Gli piaceva il silenzio, per molto tempo non aveva potuto godere di quel piccolo piacere. Negli ultimi giorni non era riuscito ad apprezzare veramente quei rari momenti di tranquillità e pace portati dal silenzio perché non aveva modo di bloccare i suoi stessi pensieri – troppo dolorosi –, ma lì, in quel momento, in quella stanza sentiva qualcosa che riusciva – in qualche modo – a calmarlo. Approfittò di quelle sensazioni per rilassarsi, per mettere a riposo la mente e non pensare ad altro che al ritmo regolare del suo respiro e a quello debole – quasi come un sussurro – dello psicologo seduto a circa un metro di distanza da lui.

Chiuse gli occhi e poggiò la nuca allo schienale della poltroncina e il dottor Novak sembrò capire il suo tentativo di ricerca della tranquillità. Dopo una decina di minuti, però, Dean si sentì troppo oppresso da quel vuoto riempito solo di ricordi troppo forti, dunque sollevò lentamente le palpebre scoprendo il verde carico dei suoi occhi. «Ti senti meglio?» domandò comprensivo il moro.

Dean nascose lo stupore suscitato da quella domanda: non era abituato ad essere compreso con una facilità così disarmante. Abbassò gli occhi, non era pronto ad aprirsi davanti a qualcuno, a mostrare le sue debolezze.

«Comunque, quando vorrai parlare, potrai chiamarmi Castiel.» disse pacatamente.

Un lieve bussare alla porta fece distogliere allo psicologo lo sguardo penetrante che stava rivolgendo al paziente. «Avanti.»

«Dottor Novak, mi spiace disturbarla nel mezzo di una seduta, ma è importante.» l'espressione allarmata della signorina Milton fece incuriosire anche Dean, che osservò prima lei poi Castiel per cercare di scorgere una qualche reazione significativa. Le pupille dello psicologo si dilatarono, andando a far quasi scomparire il blu elettrico dell'iride, le labbra si strinsero con forza in una striscia sottile. Ma tutto questo accadde nel giro di qualche secondo, perché subito dopo l'uomo si ricompose e gli rivolse uno sguardo di scuse.

«Vorrai scusarmi, Dean. Ci vorrà solo qualche minuto.»

Dean annuì in risposta e cercò, con non poche difficoltà, di infondergli forza e sicurezza attraverso uno sguardo. Non conosceva quell'uomo, ma era in grado di riconoscere una persona emotivamente distrutta quando ne vedeva una. In fondo, era come guardarsi allo specchio.

“Qualche minuto” finì per diventare circa mezz'ora. Quando Castiel tornò nello studio, aveva un sorriso tirato sul volto e gli occhi erano leggermente arrossati come se avesse pianto e se li fosse sfregati con forza per nasconderlo.

«Scusami per averti fatto attendere, Dean.»

«No, ehm, tutto... bene?» domandò lui osservando lo psicologo, sentendosi come se si fossero invertiti i posti.

«Che ne dici di tornare alla nostra seduta?» Castiel distolse gli occhi dai suoi e si sedette di nuovo di fronte a lui.

 



Salve a tutti ! 
Questa è la mia prima Destiel ed anche la mia prima fan fiction nel Fandom. So che non è un grande inizio e che è molto breve, ma volevo fare un capitolo di apertura abbastanza breve per presentare a grandi righe la storia... 
Fatemi sapere cosa ne pensate e scusate per eventuali errori nel testo. 
BS22

 

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


CAPITOLO I

Ormai da un paio di mesi a quella parte le sedute di Dean Winchester iniziavano con una decina di minuti di silenzio durante i quali cercava di richiamare quella piccola fiducia acquisita nella seduta precedente e riusciva finalmente a sciogliere i muscoli che altrimenti sarebbero stati sempre in tensione.
Per tutta la durata di quei minuti, Castiel invece lo osservava. In quel periodo aveva imparato a conoscere alcune piccole cose di lui, qualche dettaglio che lasciava scivolare inconsapevolmente e che permetteva al giovane psicologo di afferrare un altro piccolo pezzettino del suo puzzle e di metterlo insieme a quegli altri, in attesa di svelare il disegno completo.
Adesso Castiel sapeva quando stava andando a toccare un campo minato non appena l'altro iniziava a serrare le labbra e lentamente passava anche ad irrigidire la mascella, gradualmente; quando invece era particolarmente di buon umore lo si notava dal modo in cui gli occhi verdi risultavano più chiari, rilassati e le mani non se ne stavano chiuse a pugno per tutto il tempo.
Aveva capito che quando iniziava a grattarsi la nuca significava che si sentiva in imbarazzo e quando invece si sfregava sotto il naso era impaziente di qualcosa o si stava trattenendo dal rispondere male. La cosa peggiore però, era quando le unghie corte e mangiucchiate affondavano lentamente nei palmi delle mani, le dita che stringevano sempre più forte finché le nocche non diventavano bianche, il volto impassibile e gli occhi distaccati. Quello era il segnale che indicava che la conversazione si stava avvicinando a quel giorno. Quello in cui era successo qualcosa di talmente forte, per l'uomo di soli venticinque anni davanti a lui, da veder costretti i suoi datori di lavoro ad obbligarlo a passare due ore alla settimana in quello studio. Era il suo lavoro dopotutto, no? Imparare a conoscere le persone con cui aveva a che fare, capirle nonostante queste facessero di tutto per impedirlo, afferrare quei frammenti di loro che nessuno notava o che nessuno voleva notare.
«Vuoi parlare di qualcosa in particolare, oggi, Dean?» domandò lo psicologo quel giorno, quando il paziente aprì gli occhi verdi.
«No.» rispose guardando l'altro per una frazione di secondo e poi abbassando velocemente gli occhi fissandoli sulla punta delle scarpe. Una vecchia abitudine che ritornava costantemente: quando pensava che il passato fosse passato quello tornava a bussargli nella testa, mandandogli piccoli messaggi come il non riuscire mai a fidarsi completamente di qualcuno. Castiel aveva notato quel particolare, precedentemente, ma quella volta fu più evidente del solito.
Quando mentiva era solito calcare maggiormente quei segni che permettevano di interpretare il suo carattere e, quel giorno, aveva abbassato gli occhi veramente troppo velocemente.
«Ne sei sicuro? Nessun argomento specifico?» gli chiese allora, pacatamente, cercando i suoi occhi che prontamente sfuggivano al contatto visivo. Lui scosse leggermente il capo in un movimento calibrato: non faceva mai movimenti improvvisi così come non alzava mai la voce inutilmente. Tutte cose che, Castiel l'aveva capito tempo prima, derivavano dal suo lavoro.
«Allora scelgo io l'argomento, oggi?» propose sempre lo psicologo, visto che il paziente non sembrava molto intenzionato a parlare – o almeno non di sua iniziativa. Voleva che qualcuno trovasse il coraggio di tirargli fuori di bocca quelle parole che lui non avrebbe mai detto, nemmeno sotto tortura, voleva che qualcuno si facesse avanti e cercasse di capirlo senza che lui dovesse aprirsi e mostrare le sue debolezze al mondo. Castiel non si sarebbe di certo tirato indietro e questo lo sapevano piuttosto bene tutti e due.
Così Dean annuì, scrollando le spalle come se in realtà non gli importasse nulla di quello che succedeva intorno a lui.
«Beh, possiamo parlare delle cose che ci piacciono» provò il moro, inarcando le sopracciglia in attesa di una reazione da parte dell'altro, «che ne dici?» aggiunse dopo. Tutto ciò che ebbe in risposta fu un grugnito.
«Dunque, vediamo un po'...» borbottò Castiel pensieroso, inclinando la testa da un lato com'era solito fare quando pensava. D'altronde in quel periodo, fatto di incontri in cui si parlava di cose da niente ma che in realtà nascondevano tutto, anche Dean si era dedicato all'osservazione dell'altro giovane che occupava quella stanza. Doveva capire chi fosse e se costituisse delle minacce per lui e l'unico modo per farlo era, appunto, osservarlo attentamente ma in modo discreto.
«Gli hamburger.» disse dopo qualche momento di silenzio, interrotto solo dal ticchettio ritmico delle lancette dell'orologio sulla parete.
«Mh?» fece l'altro alzando il capo, confuso. «Una cosa che mi piace.» ripeté lui, sorridendo come se il solo pensiero di un po' di cibo spazzatura potesse rallegrarlo. Di nuovo Dean non fece altro che un breve verso di assenso. A quel punto Castiel dovette quasi trattenersi dallo scoppiare a ridere: l'uomo davanti a lui stava iniziando a comportarsi come uno scimmione, solo grugniti e cenni col capo a segnalare le sue volontà. «E a te? Cosa ti piace?» lo incalzò lo psicologo «devo tirarti fuori ogni parola di bocca?»
«Le torte.» disse semplicemente, Dean, il capo basso, scrollando le spalle.
«Fantastico! Leggere.»
«Guidare.»
Iniziarono così ad elencare a turno le cose che gli piacevano, rimanendo però sempre su cose banali, senza andare mai ad incontrare cose troppo intime o personali. Doveva essere Dean a fare i primi passi, gradualmente, con calma ma doveva essere lui. Certo, era assolutamente impossibile riuscire a paragonare l'entusiasmo difficilmente represso di Castiel nel vedere l'uomo davanti a lui spiccicare più di una parola nell'arco di due minuti, alla calma quasi innaturale di Dean il quale sembrava distaccato come fosse dietro a un vetro.


Le abitudini sono difficili da dimenticare: sono sempre lì – in agguato – a ricordarti quello che hai vissuto in un passato neanche così tanto lontano, a farti capire che non importa con quanta forza tu combatta i tuoi demoni, quanto impegno e sudore e sangue tu ci metta, il passato è sempre lì e niente riuscirà a farti superare ciò che hai vissuto. E se durante il giorno riesci a non pensarci, a chiudere tutto in un angolo remoto del tuo cervello, di notte non hai scampo. Perché si sa: di notte arrivano i mostri peggiori. I demoni che ti bloccano il respiro, che ti offuscano la mente e che ti fanno urlare, ma mai abbastanza forte perché qualcuno possa sentirti e correre in tuo aiuto. Quando la tua mente si rilassa e tutte le tue barriere cadono, in quel momento non hai più alcun tipo di protezione e al diavolo l'autocontrollo e la sicurezza portata dalla tua stessa forza di volontà. La notte tutto crolla ed ogni notte è sempre così, uguale a quella precedente, forse peggio.
Ogni notte Dean Winchester si sveglia urlando, madido di sudore e l'unica cosa che può fare è salire in macchina – una Chevrolet Impala del '67 – ed iniziare a guidare senza meta, aspettando che il sole sorga e che inghiotta nel suo splendore tutta l'oscurità che lo circonda lasciando soltanto quella che resta dentro di lui e che lo divora dall'interno, pezzo dopo pezzo. E lui si sente come trascinato fuori dall'Inferno, da quella luce che però non riesce a riscaldarlo come dovrebbe, lasciandolo freddo e vuoto.
Anche quella notte successe.
Dean si svegliò – le gambe lasciate scoperte dai pantaloncini corti, attorcigliate alle lenzuola leggere, la fronte imperlata da quel sottile strato di sudore che torna sempre come memento del suo viaggio agli inferi. Si tirò su a sedere, rimanendo per qualche minuto ad occhi chiusi, ascoltando attentamente il rumore della pioggia che batteva frenetico sui vetri delle finestre, le cui tende aperte gli permisero di constatare – quando ebbe riaperto gli occhi – che stava diluviando impetuosamente. Guardò all'esterno quasi a sfidare il cielo a impedirgli di uscire. Nonostante il lampo che attraversò il manto nero della notte, seguito poi da un fragoroso tuono, si vestì in fretta con le prime cose che afferrò dall'armadio e afferrò le chiavi della macchina.
Per qualche settimana aveva pensato di finirla così: su quell'auto che era la cosa più vicina ad una casa che avesse: mettere in moto e premere sull'acceleratore finché tutto non si fosse fermato, giù in un fosso o contro un muro. Non che gli importasse dove sarebbe potuto andarsi a schiantare, non gli sarebbe cambiato molto una volta passato dall'altro lato.
Quella notte guidò fino a quando non si ritrovò ad un incrocio.
L'ampia strada della cittadina di Lawrence era deserta e il silenzio era tale che Dean sussultò quando, aprendo la portiera dell'auto, fece rumore.
L'unico suono era lo scrosciare sconnesso delle gocce di pioggia che si disgregavano al suolo fino a formare grandi pozzanghere le quali bramavano di diventare sempre più enormi con l'unico scopo di ricoprire quanta più terra possibile e creare delle illusioni agli occhi umani, con i loro riflessi ingannevoli del cielo sopra di esse.
Mise i piedi sull'asfalto ed arrivò al centro esatto dell'incrocio fra le due strade, senza curarsi minimamente dell'acqua che sempre più velocemente iniziava a bagnargli i capelli e a scendere rapidamente seguendo la linea del suo collo fin dentro al colletto della maglietta ed infine scorrendo lungo la sua spina dorsale mandandogli dei brividi in tutto il corpo.
Suo fratello gli aveva raccontato tante volte delle storie di uomini che vendevano le proprie anime ai cosiddetti demoni degli incroci in cambio di qualcosa che desideravano immensamente.
Quando il fratello più giovane, Sam, gli aveva raccontato quella storia lui era rimasto scioccato dalla stupidaggine degli uomini. Come potevano vendere qualcosa di così proprio ed intimo e vitale come la propria anima, per cercare di ottenere delle sciocchezze – perché alla fine si rivelavano quasi sempre tali – quando poi veniva assegnata loro nient'altro che una data di scadenza e a quel punto non avevi più niente? Né quella cosa desiderata con tanta bramosia, né la tua anima, né la tua vita. Cosa avevano ottenuto in cambio se non una mera illusione di poter ottenere qualcosa? Ciò che aveva sorpreso Dean più di tutte, però, era stata la consapevolezza di quelle persone: sapevano a cosa andavano incontro, sapevano che sarebbero stati accontentati solo per un lasso di tempo limitato e che poi tutto sarebbe scomparso in un battito di ciglia piuttosto doloroso.
Lì, in quel momento – durante quella notte piovosa e più silenziosa delle altre –, Dean, capì quegli uomini perché una cosa che desiderava più di ogni altra al mondo c'era eccome, non gli interessava per quanto tempo sarebbe stata con lui, non gli importava della fine atroce che avrebbe fatto – sbranato dai segugi infernali delle storie – a lui sarebbe bastato anche solo vederla per qualche istante e sarebbe stato meglio. Ma nessun demone degli incroci o nessun dio gli avrebbe mai ridato il suo piccolo Sammy.


 

Angolo autrice imperdonabile che nonostante avesse il capitolo pronto da tempo immemore non l'ha pubblicato perché - da idiota qual è - era convintissima di averlo già postato. 

Vi rendete conto di che problemi ho? Io ero convinta al 100 % di aver già pubblicato il primo capitolo, lo giuro, non è colpa mia - cioè, sì è colpa mia, ma non è nemmeno colpa mia se i miei adorati genitori mi hanno fatta così rimbambita. 

Mi perdonerete mai? 

Per farlo chiuderò la bocca rapidissimamente e sparirò subito, implorandovi solo di farmi sapere se vi piace attraverso una recensione o aggiungendo la storia alle preferite/seguite/ricordate nonostante non mi meriti niente di tutto ciò, ne sono più che consapevole. 
Vi ricordo, se non l'avessi già detto precedentemente in quello che ho scoperto recentemente essere il prologo e non il primo capitolo, che le critiche e i pareri sono ben accetti ♥

Ora, come promesso mi dileguo anche perché mi si è addoramentato il gatto sul braccio e non riesco a scrivere sulla tastiera. 

Mi impegnerò per fare molto più in fretta questa volta (non che ci voglia molto visto che sono passati mesi e mesi...) 

Baci, 
Ginevra ♥

 
 

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