The side of the Angels

di SherlokidAddicted
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il tè di John Watson e il caso Jefferson ***
Capitolo 2: *** Un brusco risveglio ***
Capitolo 3: *** 5 dicembre 2003 ***
Capitolo 4: *** Con amore, vostro padre ***
Capitolo 5: *** Angeli piangenti ***
Capitolo 6: *** “Vedere il Sistema Solare ne è valsa la pena alla fine, eh?” ***
Capitolo 7: *** Grazie Dottore ***
Capitolo 8: *** John, devo confessarti una cosa ***
Capitolo 9: *** Adesso non ti resta che sorprenderlo ***
Capitolo 10: *** Una sintonia sorprendente ***
Capitolo 11: *** 31 dicembre 1986 ***
Capitolo 12: *** John, tu mi aiuti sempre ***
Capitolo 13: *** Esiste niente di più bello? ***
Capitolo 14: *** Un ultimo sguardo ***
Capitolo 15: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Il tè di John Watson e il caso Jefferson ***


Il tè di John Watson e il caso Jefferson

 

John sta preparando il tè. Vederlo alle prese con i fornelli del nostro appartamento mi fa rimanere di sasso sulla porta d’ingresso. È leggermente ricurvo sul piano della cucina. Sta sistemando l’acqua calda in due tazze di porcellana, la sua e la mia. Ha scelto l’Earl Gray, e la caraffa di latte appoggiata sul tavolo mi fa intuire che lo avrebbe aggiunto alla fine della preparazione. La cosa che mi fa più stranezza non è l’atto in sé, ma il fatto che stesse fischiettando allegramente come se niente fosse, e il mio stupore è talmente tanto che la mia testa si piega impercettibilmente verso sinistra, con l’espressione più confusa che potessi mettere su. Nello stesso istante, John si volta per prendere la caraffa e aggiungere qualche goccio di latte. Mi sorride… un sorriso vero e proprio.

- Sei tornato! – Un’affermazione ovviamente inutile. Certo che sono tornato, sono qui davanti a te!

Non dico nulla, e continuo a fissarlo come poco prima.

– Ti ho preparato il tè, ti conviene sbrigarti, prima che si freddi. – Afferra entrambe le tazze e si avvia tranquillamente alle nostre poltrone, poggiando la mia sul tavolino di fianco. Quando si mette seduto ne beve qualche sorso e comincia a sfogliare il giornale mattutino che aveva occupato la poltrona del mio blogger fino a qualche secondo fa.

Non mi muovo per un po’ e fisso la sua nuca, cerco di leggere dal suo viso quella espressione concentrata ed improvvisamente rilassata.

Con un colpo di tosse cerco di ritornare alla realtà, mi tolgo sciarpa e cappotto, e mi sistemo comodamente al mio posto, di fronte a lui. Non gli stacco gli occhi di dosso mentre la mia mano raggiunge il contenitore bollente di ceramica e le mie labbra ne assaggiano appena il contenuto. John sembra non notare il mio sguardo indagatore e continua a leggere le colonne dell’articolo in prima pagina, quello che parla della rapina alla villa di un nobile spagnolo venuto in vacanza a Londra, caso che ovviamente ho risolto personalmente e recentissimamente.

Vi starete chiedendo cosa ci sia di strano nel vedere John Watson preparare il tè e leggere il giornale, come era di sua routine… almeno fino a qualche mese fa, quando Mary Morstan venne uccisa con la loro bambina in grembo. Ma questo è un particolare che racconterò pian piano.

Perché questa mattina John sembrava sul punto di una crisi depressiva (come lo è da quel giorno), e invece, allo scoccare delle cinque del pomeriggio, ha preparato il tè? Perché proprio oggi dopo mesi e mesi in cui soltanto la signora Hudson si era premurata di farlo, mentre John fissava un punto indefinito della stanza, mormorando solo qualche monosillabo ad ogni nostra domanda? Cosa è cambiato?

- Mi stai fissando. – Mormora senza staccare gli occhi dal quotidiano che ha fra le mani.

- Mh, cosa? – Chiedo io, facendo finta di nulla e distogliendo lo sguardo sulla tv accesa, fingendo interesse per la trasmissione inutile che stanno mandando in onda.

- Sherlock, non fare il finto tonto, mi stavi fissando. – Mentre lo dice ripone in giornale accanto a sé e finalmente la sua attenzione è puntata su di me. – E da un bel po’, direi. – Non dico nulla, mi limito a bere un sorso del tè che lui ha preparato. Possibile che non ci arrivi da solo? Doveva superare un gran bel lutto: la moglie, la figlia… tutti quegli interminabili mesi che ho passato a prendermi cura di lui e a cercare di trovare un qualsiasi tipo di caso interessante per non fargli pensare alla faccenda, a volte anche inutilmente, dato che il suo unico pensiero sembrava ruotare intorno a quella vettura senza controllo che ha investito la povera Mary senza neanche darle il tempo di correre in salvo. La sua immediata tranquillità mi turba alquanto.

- Hai preparato il tè, non lo fai da mesi. – La sua espressione curiosa si tramuta in una assai confusa, quasi come se non credesse a ciò che aveva appena fatto ai fornelli. Era stata probabilmente un’azione involontaria, dovuta alla noia, alla solitudine. Credo fosse uno dei modi per poter superare il lutto, ovvero ritornare alle vecchie abitudini, seppur questa fosse una delle poche. Non aveva ancora ripreso a scrivere sul suo blog.

Lo vedo intento a guardare il liquido ambrato e fumante nella tazza, e storcere appena il labbro verso destra.

- Già. – Sussurra, facendo dei piccoli movimenti del braccio per far ondeggiare la bevanda contro le pareti della porcellana.
Faccio un leggero sorriso, cercando di non darlo a vedere. Sono felice che pian piano si stia riprendendo, e quello è un ottimo e perfetto segnale della tranquillità che a poco a poco stava ritornando nella sua mente. A piccoli passi.

- Conosci la signorina Tracy Jefferson? – Probabilmente cambiare discorso avrebbe aiutato, e non vedevo l’ora di parlare di questo stranissimo caso al mio amico, un altro dei tanti modi in cui avrei potuto distrarlo.

- Jefferson… mh, sì, è una delle mie pazienti! – Esclama, poggiando la tazza al bracciolo della poltrona.

- Poco fa, mentre ero da Lestrade a discutere del caso dello spagnolo, mi ha contattato con una telefonata, in cui mi chiedeva di poter parlare con me di presenza di uno strano tipo che le desta qualche sospetto. Questa è l’unica cosa che mi ha accennato, ma sono curioso di sapere cosa succede. Ti interesserebbe aiutarmi e restare qui con me mentre la signorina mi illustra il suo caso? – Lo guardo alzarsi dalla poltrona ed afferrare le tazze ormai vuote per riporle nel lavandino.

- Perché no! –

Passano all’incirca dieci minuti, e la nostra cliente è già seduta di fronte a noi pronta per esporci il suo strano problema. Spero sia almeno qualcosa di interessante e di non banale, sia per cacciare la mia continua noia, sia per distrarre John.

- Ci spieghi tutto, con calma, ma si sbrighi. – Alla mia incitazione, John alza lo sguardo verso di me e mi fulmina. Io roteo gli occhi, scocciato dalla sua preoccupazione per la signorina Jefferson. Per farlo contento abbozzo un sorriso di scuse e, con un gesto della mano, la invito ad iniziare il suo racconto che, per fortuna, non tarda ad arrivare.

- Deve sapere, signor Holmes, che mio padre ed io vivevamo da soli in una graziosa villa lasciataci dalla mia nonna paterna. Dopo che lei morì ci trasferimmo subito lì, dato che non avevamo più soldi a sufficienza per pagare il mutuo della nostra vecchia casa. I primi due anni trascorsero tranquilli come normalmente dovrebbero essere, ma… la scorsa settimana accadde qualcosa di strano. – La donna aveva iniziato da un po’ a muovere la gamba in un nervoso tic. Detesto quando la gente normale fa così e per non sbottare e dirle di smetterla, cerco di prestare attenzione alle sue parole e di ignorare quel fastidioso movimento… cosa che, a quanto vedo, turba anche il mio amico, che non smette di sospirare.

- Cosa è accaduto, Tracy? – Le chiedo gentilmente.

- Io e mio padre eravamo a tavola per la cena, quando abbiamo sentito uno strano rumore molto forte che ci ha fatti sobbalzare dal nostro posto, costringendoci ad alzarci per andare a controllare da dove provenisse. Siamo usciti in giardino e abbiamo controllato sul porticato e sul nostro terreno, poi ci siamo divisi: papà è andato sul retro, mentre io sono rimasta a controllare l’ingresso. Sembrava non ci fosse nulla di strano, ma dopo qualche minuto mio padre non si decideva a tornare. Decisi di raggiungerlo e il suo grido soffocato mi fece tremare le braccia. Era troppo buio per riuscire a vedere, ma quando sono arrivata sul retro sono convinta di non aver visto proprio nessuno, né il presunto assalitore, né mio padre che dopo quell’urlo di spavento, sembrava essere svanito nel nulla. – Questo sembrava proprio uno di quei casi adatti a me, misteriosi e all’apparenza molto difficili da capire. Finalmente avrei potuto fare qualcosa per fuggire dalla noiosa routine. – Mi sono rivolta alla polizia immediatamente, ma di mio padre non c’è proprio traccia. –

- Potrebbe aver visto qualcuno, si sarà spaventato e sarà fuggito… - La supposizione di John mi fa sorridere per la sua ingenuità.

- Non mi pare che un ex detenuto, accusato di rapina a mano armata, potrebbe essere così fifone da fuggire se vede qualcuno nel buio. – La signorina Jefferson strabuzza gli occhi, incredula dalla mia deduzione.

- Mi scusi, ma non credo di aver mai parlato di questo argomento, anche se… è vero, come fa a saperlo? – Sorrido spontaneamente per il suo stupore e lancio uno sguardo d’intesa a John, che scuote rassegnato la testa.

- Non è importante. Il suo racconto finisce qui? Non mi sembra, ha ancora quel tic nervoso alla gamba, c’è altro vero? – La donna si mordicchia il labbro ed annuisce. Dopo un lungo sospiro, riprende il suo curioso racconto.

- Mia sorella Amber è venuta a stare da me, lasciando Cardiff per trascorrere questo momento difficile insieme e per aiutare me e la polizia nelle indagini. Una sera, mentre ci stavamo avviando nelle nostre camere, abbiamo intravisto dalla finestra un movimento fra i cespugli e gli alberi del mio giardino. All’inizio avemmo paura fosse il rapitore di nostro padre pronto a fare qualcosa anche a noi, ma poi ci rassicurammo che quella visione era probabilmente un brutto scherzo della nostra immaginazione. Infatti non successe altro e andammo tranquillamente a letto. Ma la cosa si ripeté la notte dopo: un movimento, delle ombre nel mio giardino, strani suoni, quasi come un “ding” di un qualche strano oggetto elettronico. –

- Un “ding”, dice? – John aggrotta le sopracciglia mentre espone la sua perplessità, che raggiunge in egual modo la mia.

- Esattamente, un “ding”! Quando sono uscita per controllare, ho intravisto un uomo dietro un albero. E questo per diverse sere, anche se… quando mi avvicinavo questo strano tipo svaniva nel nulla. Non riuscivo a vedere molto per colpa del buio, ma posso descrivervi il suo viso che si notava più di tutto il resto perché esposto alla luce. –

- Certo, mi parli di lui. –

- Era un viso buffo, un uomo davvero strano. Aveva due grandi occhi marroni ed indossava degli occhiali dalla montatura nera. I capelli erano castani, una pettinatura stravagante, oserei dire. Ciò che più ho impresso era la forma del suo naso leggermente storto e con una piccola gobba. Purtroppo non ho altro da dire. –

- E questo “ding”? – Chiedo mentre porto le mani davanti al viso, congiungendo le dita sulle labbra schiuse.

- Credo fosse un oggetto che aveva con sé, la prima notte che lo vidi, l’ho sentito imprecare per il mal funzionamento di qualche aggeggio che teneva in mano. – John sposta lo sguardo su di me, storcendo il labbro in attesa. Il racconto era ormai concluso ed entrambi si aspettano le mie delucidazioni al riguardo.

- Bene, signorina Jefferson! – Esclamo battendo un solo colpo delle mani per sottolineare il mio entusiasmo sul caso appena descritto. – Direi che sarebbe di grande aiuto per il mio acume se la raggiungessi nella sua villa domani pomeriggio. Chi è l’ispettore che si occupa della sua faccenda? –

- L’ispettore Greg Lestrade. –

- Ah-ah, bene allora! Le dica di raggiungerci con tutte le prove che ha raccolto e con le foto risalenti al giorno in cui la polizia ha ispezionato casa sua. Dica che lo chiede il signor Holmes, lo farà sicuramente. – Mi alzo, seguito dallo sguardo furtivo di John che, dopo avermi visto dirigere alla porta per aprirla, si limita ad alzarsi a sua volta per stringere la mano a Tracy, augurandole una buona giornata e salutandola con un flebile “ci vedremo domani”. Anche io rivolgo un sorriso fintamente cortese alla giovane donna e, non appena mi assicuro che è uscita dall’edificio, richiudo la porta e la mia espressione cambia come dal giorno alla notte. Al posto del mio sorrisino cortese, ecco la solita faccia seria, fredda e calcolatrice di sempre.

- Hai qualche idea, Sherlock? – Mi chiede John mentre raggiunge la finestra per osservare la signorina che si allontana dal marciapiede. Io congiungo nuovamente le mani davanti alle labbra e sollevo un sopracciglio, percependo il mio palazzo mentale mettersi in funzione per il nuovo caso che mi si stava presentando.

- Cinque o sei, decisamente. – Rispondo, ricevendo in cambio un’occhiata scettica e una risata divertita.

- Bene, io vado a farmi una doccia adesso, se non ti dispiace. – La sua frase non mi fa nessun effetto all’inizio, ma il vederlo allontanarsi fa nascere in me una strana sensazione alla bocca dello stomaco, quella cosa chiamata… preoccupazione? Così la chiamano i comuni mortali?

Sento le mie braccia agitarsi leggermente dalla loro posizione e per calmarmi le distendo leggermente sui braccioli della poltrona. Lo vedo andare via con un passo trascinato, stanco, quasi esausto.

- John! – Lo chiamo nello stesso istante in cui raggiunge la porta del corridoio. Lui si ferma e si girà verso di me per aspettare che io reagissi, che dicessi una qualunque cosa per giustificare il mio comportamento. Dapprima non so cosa dire… il suo sguardo mi sta studiando. Vuole applicare il mio metodo sul sottoscritto. Povero John, è convinto di potercela fare!

- Sì? – Chiede dopo interminabili secondi del mio silenzio.

- Quello che hai fatto… è stato buono. – Dico, stranamente incapace di esprimermi al meglio. Le sue sopracciglia inarcate mi fanno intuire la sua confusione e sono (più o meno) pronto a spiegarmi meglio. – Intendo… il tè che hai fatto prima, era buono. – Per un attimo lo vedo sorridere e reclinare il capo da un lato, il destro, come lui fa sempre, cosa che ho capito dopo le innumerevoli volte che lo ho osservato e studiato, anche di nascosto. Dite che esagero con ciò? – Insomma, era… nella norma, cioè… era buono, molto buono rispetto a quello che prepari di solito. Anche se, beh, hai lasciato troppo tempo il bollitore sul fuoco, forse perché, anzi, sicuramente perché la tua analista ti ha telefonato mentre lo stavi preparando. Parlare con lei ti ha fatto perdere la cognizione del tempo e non ti sei minimamente accorto del fatto che stesse già fischiando da un bel pezzo. Nonostante ciò il tuo tè era straordinariament… -

- Sherlock! – Il suo richiamo mi fa bloccare all’improvviso, con la bocca mezza aperta e lo sguardo stralunato puntato sul suo viso.

- Ho solo apprezzato il gesto. – Dico dopo un paio di secondi di silenzio. La mia spiegazione sembra non convincerlo, visto che è ancora immobile a fissarmi. Faccio un lungo sospiro e per una volta cerco di essere il più umano possibile, e ci riesco talmente bene che la mia espressione sembra abbastanza tenera da stupirlo. – Sono fiero dei tuoi progressi… anche se involontari, ma ne sono davvero fiero, John. – Il suo stupore viene sostituito da un sorriso dolce che non mi fa smettere nemmeno per un secondo di guardare le sue labbra leggermente incurvate verso l’alto.

- Grazie. – Mormora a bassa voce, prima di girare sui tacchi e dirigersi a passo deciso verso il bagno. Si vede che quello che avevo detto era riuscito a fargli dimenticare anche un po’ della sua stanchezza.



Note autrice:
Questo è il mio primo esperimento su una Wholock, è da un po' che ho questa idea in testa e finalmente mi sono decisa a pubblicarla. Spero, comunque, che vi piaccia.
Volevo avvertirvi che questa storia è presente anche su Wattpad. Se volete seguirmi, lì sono SherlokidAddicted, proprio come qui.
Un bacio e buona lettura!

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Capitolo 2
*** Un brusco risveglio ***


Un brusco risveglio



Quando arriviamo sul posto, Lestrade è già in giardino che mi attende, pronto a mostrarmi le prove e le foto scattate sulla scena.
- Volevo chiamarti io, ma la signorina Jefferson mi ha preceduto. – Mi dice non appena mi vede arrivare col mio fedele amico John a fianco.

- Sapevo lo avresti fatto. – Nel frattempo mi guardo intorno. Il giardino non è molto grande, ma i due alberi di quercia occupano la maggior parte dello spazio. John accanto a me sospira, non è ancora del tutto abituato a stare in mezzo alla gente, soprattutto dopo il brutto periodo che ha passato. Lo innervosisce e posso intuirlo da come fa vagare lo sguardo sulle persone presenti. Devo intervenire, prima che possa decidere di andarsene di punto in bianco.

Con una finta tosse sollevo un braccio e poggio la mano sopra la sua spalla. Lui sussulta e per un attimo mi sembra di vederlo confuso al mio improvviso ed inusuale gesto, ma io gli indico una delle foto che Lestrade mi sta porgendo e subito sembra interessarsi all’immagine che vede: raffigura le impronte del padre di Tracy.

- Cosa ne dici, John? – Gli chiedo mentre pian piano ci avviciniamo al punto esatto del terreno in cui è stata scattata quella foto.

- Dico che ad un certo punto le impronte spariscono, quasi come se avesse smesso di camminare. –

- Ma? – Chiedo nel tentativo di farlo arrivare al punto, cercando di fargli seguire il mio preciso ragionamento sul significato di quelle impronte.

- Ma… - Nel frattempo incrocia le braccia al petto e si avvicina maggiormente all’immagine con la testa, come a studiarla meticolosamente. In un istante aggrotta le sopracciglia ed indica un punto ben preciso del terreno. – Non ci sono impronte che tornano indietro… a parte questo segno di trascinamento qui. –

- Esatto, e il trascinamento non proviene affatto dalla casa, e anch’esso si ferma in un punto ben preciso del giardino. – Dico mostrandogli la foto successiva.

- Quindi a meno che il signor Jefferson non si sia fatto sbucare le ali e non sia volato via… direi che la cosa è inspiegabile. – Annuisco alla sua deduzione, fiero come nessuno dei suoi progressi anche in questo campo. Lestrade, nel frattempo, rimane dietro di noi ad ascoltare le nostre delucidazioni, storcendo le labbra e aspettando che dicessi qualcosa che potesse accendergli la lampadina, sicuramente fulminata, che ha in testa.

- Però osserva bene il terreno. – Dico porgendo nuovamente le foto all’ispettore. Mi avvicino al punto esatto in cui ci sarebbero dovute essere l’impronta delle scarpe del padre di Tracy. – Il signor Jefferson si era fermato proprio dove sei tu John, proprio accanto alla quercia più piccola. – Dico puntando un dito sull’albero a cui mi stavo riferendo. – Portava un paio di mocassini, con la punta quadrata. Ha camminato fino a lì lentamente, fermandosi ogni tanto per controllare attorno a sé. Si è aggirato circospetto, finché proprio in questo esatto punto è stato catturato da qualcosa.

- Che lo ha trascinato? – Chiede Lestrade riferendosi ai segni che solcano il terreno.

- No, queste altre impronte non appartengono a lui. Come potete vedere le impronte dell’uomo sono quasi del tutto sparite col tempo, mentre queste che indicano il trascinamento sono ancora qui, vivide ed impregnate sulla terra. Questo sta ad indicare che l’altro individuo presente era molto ma molto più pesante, più di un normale peso di un essere umano. – Mentre esprimo le mie ipotesi, Lestrade mi si avvicina e mi porge una busta contenente una prova, una strana prova da cui non riesco a capire la provenienza.

- Era sulle impronte di trascinamento, forse non vuol dire nulla, ma ha una forma particolare per essere un semplice sasso, non ti sembra? – Il pezzo di roccia che mi ritrovo tra le mani ha in effetti una forma singolare, ma mi accorgo che appartiene ad un qualcosa di più grande, perché la roccia accuratamente scolpita sembra essere stata staccata, dato il segno di rottura su uno dei lati.

- Una roccia che cammina da sola? – John ridacchia alla propria domanda ironica e porta le mani sui fianchi, osservando attentamente i segni sul terreno per poi posare lo sguardo su di me. Io non sembro tanto divertito… anzi, per la verità, non lo sono affatto. Direi che questa è la prima volta che mi ritrovo a dubitare e a non capire quello che sta succedendo a primo impatto. È vero, ho affrontato casi estremamente difficili da cui sono uscito dopo mesi e mesi, ma di solito avevo qualche piccola idea. Questa volta il mio cervello non sembra in grado di collaborare e non riesco a capire cosa sia successo qualche giorno fa in questa maledetta abitazione.

Cerco, comunque, di nascondere la mia confusione a Lestrade e soprattutto a John. Sì, a John, perché lui adora le mie deduzioni, ama sentirmi risolvere cose impossibili, idolatra quasi il modo in cui arrivo a certe conclusioni. Posso deluderlo adesso? Proprio nel momento in cui ha più bisogno di stare meglio? No, non posso.

- Quindi? –

- Quindi, Graham, darò un’occhiata qui in giro e analizzerò con calma le prove in laboratorio. –

- Mi chiamo Greg! –

- Fa lo stesso. – Detto ciò, comincio ad aggirarmi per il giardino dei Jefferson con la mia inseparabile lente d’ingrandimento, per poter scovare qualcosa che probabilmente la polizia ha tralasciato. Anche John si mette al lavoro, io ispeziono una parte, lui l’altra.

Mi soffermo ad osservare le impronte sulla terra fresca di pioggia, ma non vedo nulla di strano o di nuovo, nemmeno nelle tracce lasciate dal padre di Tracy, o in qualunque altro angolo del giardino.

- Sherlock! – Quando sollevo lo sguardo noto che John è in piedi vicino ad uno dei cespugli. Fra le mani tiene qualcosa di molto piccolo, che prontamente mi fa vedere. – Guarda un po’ qua! Credi sia un elemento importante? – Mi avvicino e mi accorgo che quello che ha trovato, altro non è che un bullone arrugginito.

- Questo è proprio il punto in cui Tracy ha visto quello strano uomo con gli occhiali, quindi questo dovrebbe appartenere all’aggeggio che aveva con sé – Dico mentre sistemo quel piccolo bullone dentro una busta.

- Il famoso “ding”? –

- Il famoso “ding” – Confermo mentre mi allontano insieme al mio blogger. Nel frattempo mi sembra di notare del movimento proprio nel punto in cui John aveva trovato la prova. Mi volto di scatto e l’unica cosa visibile è l’agitarsi delle foglie e il suo conseguente fruscio.

- Tutto ok? – Mi chiede John che si è accorto della mia improvvisa reazione. Per un attimo rimango in silenzio a scrutare fra le foglie e il tronco dei due alberi, poi indietreggio lentamente, rassicurando il mio amico con un’alzata di spalle.

- Mi era sembrato di vedere qualcosa… –

- Ovvero? – Scuoto deciso la testa e mi volto verso di lui.

- Nulla, andiamo via. -

In poco tempo abbandoniamo la casa dei Jefferson, dopo aver lasciato la nostra prova all’ispettore e aver parlato con Tracy e la sorella Amber.

Non sembrava esserci un qualche nuovo particolare, per il momento, ma nella mia mente tutto era offuscato, non riuscivo a capire perché non riuscissi a farmi venire in mente qualcosa, e continuavo a chiedermelo anche mentre ritornavamo al 221B. Durante il tragitto in taxi, John mi fa qualche domanda sul caso, e le mie risposte vaghe lo insospettiscono, ma mi conosce e quindi è convinto che il mio comportamento sia normale e non aggiunge altro. Che cosa direbbe se sapesse che non ho la più pallida idea di cosa stia accadendo? L’unica mia speranza sono quel pezzo di roccia e il bullone arrugginito che potrebbe dirmi qualcosa sullo strano tizio che Tracy aveva visto.

- Ordiniamo una pizza? Non ho tanta voglia di cucinare. – John afferra il cordless e mi guarda mentre mi siedo alla scrivania per consultare le mie mail, tra le quali c’era quella di Lestrade che mi aveva gentilmente inviato le foto delle impronte, così da studiarle meglio.

- Non ho fame. – Mormoro continuando a guardare lo schermo del computer, senza mai mutare l’espressione seria, fredda e calcolatrice del mio viso.

- Ci risiamo! – Il suo sospiro esasperato mi arriva alle orecchie, facendomi roteare gli occhi. Di solito la discussione finiva lì, John si scocciava dei miei continui rifiuti e tornava a sbrigare le sue faccende. Oggi ha deciso diversamente: dovevo mangiare a tutti i costi. Mentre i miei occhi studiano ed elaborano teorie su quelle foto, John si piazza irremovibilmente di fianco a me, sovrastandomi con il suo sguardo fulminante e di rimprovero.

- Che c’è? –

- Lo sai che c’è. –

- Infatti, speravo cambiassi idea all’ultimo momento per non sentirmi mentre “lagno”. – Lo sento sospirare per l’ennesima volta e in poco tempo ha chiamato la pizzeria e ha ordinato una pizza grande abbastanza per entrambi.

- Come devo spiegartelo che mangiare mi rallenta? – Gli chiedo dopo che si è seduto davanti a me, poggiando il cordless sul ripiano in legno.

- Non hai bisogno di spiegarmelo. Tu mangerai questa sera, che ti piaccia o no. – Faccio finta di non ascoltarlo mentre avverto le sue braccia incrociate sul petto, nell’attesa che il fattorino suoni la nostra porta e gli consegni la pizza che ha ordinato.

Ogni tanto, quando gira il capo e si allunga per vedere fuori dalla finestra, mi soffermo ad osservarlo. Ammetto che non è la prima volta che lo guardo con occhi diversi. Di solito quando lo guardavo l’unico mio scopo era quello di capirlo, dedurre ogni sua mossa passata e futura… ora il mio scopo sembra un altro. Le persone normali la chiamano preoccupazione. A quanto pare adesso il suo stato d’animo, i suoi comportamenti suscitano in me preoccupazione e l’unica cosa che sento di voler fare e di prendermi cura di lui, anche se so che da solo è capace di fare qualunque cosa. Ma sento che oltre ad essere preoccupato ed oltre a volerlo “proteggere” da qualunque cosa, c’è altro che provo quando lo guardo. Non so che cosa sia, non so perché lo sento, ma quando mi soffermo sui suoi occhi, percepisco mancarmi il terreno sotto i piedi. Riesce con un solo sguardo a mandarmi in confusione e non so perché. E devo ammettere che le sue attenzioni e il modo in cui lui speri che io mangi mi fa sentire… stranamente appagato. Fino a pochi mesi fa ero io a pregarlo di mettere qualcosa sotto ai denti.

Nel giro di pochi minuti, il fattorino ha già consegnato la pizza e John la fa passare sotto al mio naso, forse per farmi venire l’acquolina in bocca, cosa che non funziona. Quando lo capisce, si avvicina bruscamente e con un colpo secco richiude il portatile e lo sposta dalla mia vista, al suo posto mi vedo piazzato un piatto di plastica con una grossa fetta di pizza dal profumino invitante.

Il mio sguardo si posa sul suo viso serio e che non ammette obiezioni, poi lo rivolgo a fissare il vuoto di fronte a me e congiungo le dita davanti alle labbra, immerso completamente nel mio palazzo mentale, dove ho avuto modo di immagazzinare ogni foto che poco prima stavo studiando. Ma proprio mentre la mia mente elabora ogni possibile prova, sulla mia spalla sento posarsi la mano di John. La mia concentrazione pian piano si affievolisce per quel singolo tocco. Sbatto le palpebre per un po’ prima di alzare lo sguardo verso di lui. Non è arrabbiato, mi guarda come se fossi un bambino capriccioso, ma allo stesso tempo i suoi occhi tramettono sicurezza e tenerezza.

- Per favore, Sherlock. – Dice con voce ferma e decisa, mentre le mie mani si poggiano automaticamente sul ripiano del tavolo.

- Non sono un bambino, John. – Sul suo viso si allarga un sorriso divertito, mentre il pollice della mano che ha messo sopra la mia spalla comincia a muoversi in delle piccole e dolci carezze.

- Lo so – Mormora a bassa voce - Ma è un caso strano, e mangiare potrebbe aiutarti a concentrarti, e no! Non dirmi che ti rallenta, perché io sono un dottore e so come funziona il metabolismo umano. Ti voglio in forze. – Non aggiunge altro, si limita a spostare la mano dalla mia spalla, e la mia tensione viene allentata all’improvviso, come se avesse tagliato le corde che mi tenevano dritto come un burattino.

Riesce a convincermi, non so come ma due minuti dopo mi ritrovo a divorare anche un secondo pezzo della pizza, scoprendomi più affamato di quanto pensassi. John mi guarda soddisfatto, quel sorrisetto sulle labbra mentre mangia indica quanto lo sia, facendo nascere in me un certo senso di fastidio. Non era mai riuscito a convincermi e né io mi ero mai abbassato ai suoi ordini, assomigliando tanto ad un bambino indifeso, capriccioso e viziato, termini che la maggior parte della gente mi affibbia già dal primo momento che mi sente fare una conversazione che però io ritengo seria.

Oh, John… la tua continua ricerca del pericolo ti fa restare ancorato a me, ma è solo questo che ti porta a sopportarmi per tutto questo tempo?

Rimane in salotto con me a leggere un libro, poi mi comunica la sua stanchezza e si avvia sbadigliando nella sua camera al piano di sopra. Si addormenta alle 23.05, mentre io rimango sveglio fino alle 2 del mattino per cercare di capire lo strano caso dei Jefferson, poi, notando che il cibo ha indotto in me una strana sonnolenza e stanchezza (maledetto sia il momento in cui ho deciso di dare retta a John), mi stendo sul divano, raggiungendolo con dei movimenti meccanici, e crollo in un profondo sonno.

Non so quanto tempo passa, ma ad un certo punto uno strano rumore mi fa rigirare nel sonno. All’inizio credo che quel suono sia nella mia testa, ma poi mi rendo conto che non è così ed apro gli occhi. Fuori è l’alba e mi ci vuole un bel po’ prima che miei occhi si abituino alla luce che passa dalla finestra. Mi rigiro dalla parte opposta e sobbalzo a sedere quando vedo che alla scrivania a curiosare il mio portatile c’è un uomo che non ho mai visto prima. Nonostante ciò, lo riconosco e lo metto a confronto con la descrizione di Tracy Jefferson.

- Lei! – Dico con un vocione rabbioso, mettendomi in piedi e puntandogli un dito contro.

- Oh, è sveglio! – Esulta, sollevando lo sguardo verso di me e incurvando le labbra in un sorriso entusiasta.

- Che ci fa lei qui? – Chiedo, mantenendo un tono minaccioso. Come risposta solleva un portadocumenti, come ad indicarmi le sue referenze. Con uno sguardo scioccato e confuso, mi avvicino barcollando leggermente per il risveglio brusco. - Quel foglio è bianco! Mi dica cosa ci fa qui. – Lo vedo stupirsi alle mie parole e ripone nuovamente il portadocumenti nella tasca della giacca, poi si alza e con un dito sistema meglio gli occhiali sul naso.

- A questo punto, se la carta psichica non funziona su di lei, direi che è meglio essere sinceri. – Lo guardo come se stessi ascoltando un pazzo appena uscito dal manicomio, e a quella mia espressione sorride divertito. – Sono qui per aiutarla. –



Note autrice:

Buonsalve gente, eccomi con un nuovo capitolo. Ho notato che questa storia è piaciuta, quindi ho deciso di aggiornare, e lo farò ogni due giorni (salvo qualche volta in cui sarò impegnata).
Ringrazio chi ha recensito e vi mando un grosso bacio, sperando che anche questo capitolo vi piaccia, a mercoledì (si spera).

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Capitolo 3
*** 5 dicembre 2003 ***


5 dicembre 2003



- Perché la signora Hudson l’ha fatta entrare? – Chiedo affacciandomi dalla porta che conduce alle scale per controllare che la donna sia ancora lì. La sento canticchiare dal suo appartamento e sbuffo sonoramente. Saranno circa le sette del mattino, la signora Hudson è sempre stata mattiniera. E lui è qui dentro da circa un’ora.

- Le mie referenze hanno funzionato su di lei. – A quel punto mi soffermo a guardarlo. Indossa un completo blu con una camicia azzurra, il tutto accompagnato da una cravatta rossa e… da un paio di inusuali scarpe di tela rosse. Il resto della descrizione la conoscete già grazie a Tracy, che non scherzava affatto sul taglio di capelli bizzarro. Dimostrava meno di quarant’anni ma i suoi occhi… sembravano così vecchi, talmente tanto vecchi che la scusa del leggere molto non mi avrebbe per nulla convinto se solo me lo avesse detto. Era così diverso.  – Credo che abbia pensato fossi un agente di Scotland Yard, mi ha subito chiesto se lavorassi insieme ad un certo Lestrade. Ho risposto di sì e mi ha fatto entrare. Non credevo che un tipo come lei dormisse così tanto e così profondamente! – Per un attimo ho l’istinto di controbattere all’ultima sua affermazione, ma il suo discorso insensato mi fa scuotere la testa.

- Quel foglio era bianco. – Dico, ritornando alla mia espressione fredda e calcolatrice di sempre.

- Beeeeh, non funziona su tutti. Molti vedono sulla carta psichica ciò che vogliono vedere, mentre le persone più intelligenti e più geniali vedono solo un inutile foglio bianco. - Non riesco a seguire il suo discorso, né riesco a capire come sia possibile l’assurdità che mi sta dicendo… ma ciò che mi interessa di più sapere in questo istante è ben altro.

- Voglio sapere chi è lei e che ci fa qui. –

- Sono il Dottore! – Dice porgendomi la mano ed aspettandosi che io la stringa, cosa che però non succede. Assottiglio lo sguardo e lo scruto con attenzione mentre, deluso dalla mia mancata stretta, abbassa il braccio e lo riporta lungo il fianco.

– Il suo vero nome. –

- Beh, è questo il mio nom… -

- Non il nome con cui si fa chiamare, ma il suo vero nome, quello che nasconde a tutti da sempre, forse perché ha fatto qualcosa. Oh, allora è così! Ha fatto qualcosa di brutto, qualcosa di inaccettabile di cui si pente, talmente tanto che si vergogna ad utilizzare il suo vero nome e si nasconde dietro un titolo che la fa sentire meno in colpa di quanto vorrebbe, non è così… Dottore? – Gli occhi del mio nuovo conoscente si strabuzzano non appena mi sente pronunciare quelle parole con quel tono indagatore che mette la maggior parte delle persone che mi stanno attorno in soggezione, lui compreso.

- Oh, è proprio bravo come dicono… – Mi dice con un tono leggermente sconvolto, poi finge una leggera tosse, forse per gettare via la vergogna che gli si è dipinta sul viso mentre gli sputavo in faccia tutta la verità sul suo conto.

- Ovviamente. Ma lei non mi dirà il suo vero nome, no. Non lo conosce nessuno, perché dovrei conoscerlo io? – Sta per parlare e dire qualcosa, quindi lo interrompo appena in tempo. – Tracy l’ha vista nel suo giardino un paio di volte, e ieri pomeriggio mi ha spiato mentre parlavo di questo caso all’ispettore Lestrade. Non è affatto un criminale, non è stato lei a rapire il signor Jefferson e non mi sembra affatto una minaccia, quindi il suo volermi aiutare è la pura verità. Ma perché crede che mi serva il suo aiuto se sa che sono così bravo? –

- Perché non capisce cosa sta accadendo, signor Holmes. –

- E anche se fosse, lei come potrebbe aiutarmi? –

- Io so che fine ha fatto Jefferson, e so chi è stato. – Lo guardo come se mi avesse appena schiaffeggiato senza alcun motivo. La nostra interessante chiacchierata viene interrotta da John che, mezzo addormentato, ci raggiunge confuso in salotto. Indossa ancora il pigiama: una t-shirt bianca e dei pantaloni grigi della tuta. Quando nota l’uomo che mi sta di fronte, la sua espressione è prima sorpresa, poi confusa, ed infine imbarazzata, lo si può capire dalle sue guance che a poco a poco assumono un colorito rossastro.

- Ho interrotto qualcosa? – Chiede mentre cerca invano di nascondere il suo abbigliamento notturno.

- Affatto, lei deve essere il dottor Watson! – Dice lui porgendogli la mano e tirando fuori quel portadocumenti per mostrarglielo. John lo osserva incuriosito e subito dopo gli stringe la mano con vigore ed accenna un timido sorriso.

- Esattamente, ispettore Smith! Immagino lei sia nuovo a Scotland Yard, è qui per il caso Jefferson? – Con stupore strappo letteralmente il portadocumenti dalla mano del “Dottore” e lo studio con attenzione, sotto l’espressione confusa di John. È completamente bianco e non ho idea del perché il mio amico abbia riconosciuto il nostro nuovo conoscente come “ispettore Smith”. Forse la cosa che aveva detto poco fa è vera? O forse sono io che sto impazzendo per la difficoltà del nuovo caso che da poco stavo affrontando?

Il Dottore mi lancia un’occhiata d’intesa e poi espone la mano, aspettando che gli porga quella che lui chiama “carta psichica”. Lo faccio, titubante, e lui la ripone nella tasca della giacca, infine si rivolge al mio amico, che per tutto il tempo era rimasto in silenzio, confuso dalla mia improvvisa e strana reazione.

- Non sono un ispettore, John. Volevo solo dimostrare al suo amico che non è pazzo. – Dice, come a leggermi nel pensiero, lasciandomi leggermente interdetto.

- Allora quello era un documento falso? – Il Dottore punta nuovamente lo sguardo su di me con un sorrisetto divertito.

- Lo capirà col tempo, la cosa che importa sapere adesso è che la mia presenza qui potrebbe esservi di grande aiuto per quanto riguarda il caso di Luke Jefferson. – Io sono ancora intontito dalla situazione, e più lo osservo e lo studio, più non riesco a leggere nulla di lui, cosa che mi riusciva benissimo fare con chiunque (tralasciando Irene Adler).

D’un tratto afferra dalla scrivania un aggeggio strano che prima non avevo per niente notato. Il mio amico inarca un sopracciglio e sta per dire qualcosa, quando rimane con la bocca mezza aperta non appena sentiamo quel “ding” provenire dall’oggetto che ha in mano.

- Oh, lei è il tizio che Tracy ha visto! – So cosa sta pensando John, soprattutto quando mi accorgo della sua espressione tra lo spaventato e l’arrabbiato.

- No, John, non è lui il rapitore. Sta dicendo la verità, vuole aiutarci. –

- Quindi lei sa dove è stato portato Luke Jefferson? – La domanda di John pare stupirlo, perché lo vedo sollevare la testa dal suo strano aggeggio, assumendo immediatamente un’espressione sorpresa.

- Oh… oh, non lo sapete? Certo, come potete saperlo… Luke Jefferson è morto. – John sobbalza all’indietro, stupito da quell’affermazione, io mi limito ad osservare il Dottore con un pizzico di scetticismo dipinto in volto, cosa di cui, ovviamente, si accorge subito.

- Com’è difficile spiegare le cose a voi essere umani senza essere preso per pazzo! – Detto ciò, solleva quello strano oggetto a cui non so ancora dare un nome e comincia ad aggirarsi per la stanza, utilizzando quell’affare come se fosse uno stupito metal detector. – Luke è morto, ve lo posso assicurare! Andate al cimitero se non mi credete. -

- “Voi essere umani”? Lo sapevo che prima o poi sarebbe successo! Abbiamo un altro che si crede una mente superiore. – Dice John, accennando una risata incredula, e passandosi una mano fra i capelli ancora scombinati dal sonno.

- Oh no, non è per quello! Beeeeh, sì, sono una mente superiore… ma non mi riferivo affatto a quello. – Risponde lui mentre tira fuori dalla tasca un bullone arrugginito, che riconosco subito come quello che io e John avevamo trovato sulla scena del rapimento. – A proposito, grazie per questo! Non riuscivo più a trovarlo. – Dice rivolgendosi a me, mentre con fare esperto lo avvita ad una parte all’interno del suo “strano oggetto”.

- E allora cosa intendeva dire? –

- L’ho preso a Scotland Yard, mi hanno scambiato per uno nuovo della scientifica. Sono stato al gioco e l’ho preso. Vi posso assicurare che non ho ostacolato nessuna prova, dato che questo mi appartiene. – Quando solleva lo sguardo, storce il naso e ci fissa entrambi, mentre i suoi occhiali vengono sistemati per bene sul proprio naso. Ad un certo punto si sofferma sul mio blogger ed allunga una mano verso di lui a palmo spiegato. – Lei è un dottore, giusto? –

- Sì, sono un dottore. –

- Mi dia una mano! – John mi guarda, come a chiedermi il permesso o per assicurarsi, tramite le mie deduzioni infallibili, se potesse o no fidarsi di quell’uomo. Io annuisco, rassicurandolo, e lui in un attimo porta la mano col palmo rivolto verso l’alto su quella del Dottore. Quest’ultimo la afferra e gliela fa poggiare sul proprio petto, a sinistra, dove ci sarebbe dovuto essere il cuore. John inarca le sopracciglia e aspetta una qualunque delucidazione da parte del Dottore, che per fortuna non tarda ad arrivare. – Che cosa sente? –

- Il battito del suo cuore. –

- Benissimo. – A quel punto, il Dottore sposta leggermente la mano di John sulla parte destra. – Adesso cosa sente, John? - Quest’ultimo viene investito dalla sorpresa, lo posso dedurre dalle sue palpebre sbarrate e dalle sue labbra semiaperte, che borbottano parole incomprensibili. Quindi indietreggia, abbandonando la stretta dell’uomo e fissandolo come a chiedersi se egli fosse reale o se stesse solo sognando.

Il Dottore si aspettava quella reazione, riesco a capirlo dal suo comportamento per il quale porta entrambe le mani dietro la schiena, talmente tanto tranquillo che fa quasi paura. Ma più guardo la scena, più sono sicuro di non aver capito che cosa sia appena successo.

D’un tratto sentiamo un altro “ding”, e il Dottore tuffa subito la sua attenzione sull’aggeggio che ha in mano.

- Oh, appena in tempo! – Urla, in preda all’euforia mentre si aggira per la stanza come un bambino alla ricerca di caramelle. Nel frattempo quel “coso” continua ad emettere quello strano suono. Riesco a leggere nel viso di John quella sorpresa che ancora non lo ha per niente abbandonato, ma allo stesso tempo capisco che si sta chiedendo perché per tutto questo tempo non ho proferito una sillaba. – Qui non c’è nulla. – Si dirige verso la porta d’ingresso con fare svelto e, poco prima di mettere il piede sul primo scalino, si gira verso di noi e si inchina leggermente come segno di saluto. – Mi farò vivo io! – E, detto ciò, si precipita giù per le scale e sfreccia via sul marciapiede. Quando mi avvicino alla finestra è già sparito.
John è ancora fermo immobile a fissare un punto indefinito della stanza, con uno sguardo indecifrabile, mentre la sua mano, ancora a mezzaria, trema leggermente tornando lungo il fianco.

- Che cosa hai sentito? – Chiedo mentre mi avvicino con passo svelto a lui.

- Quell’uomo non è umano. – Scoppio in una risata incredula, scuotendo la testa ed incrociando le braccia al petto.

- Seriamente! –

- Sherlock, per amor del cielo! –

- Che c’è? –

- Quel tipo lì, ha due cuori. – Il silenzio cala immediatamente. La mia bocca è semiaperta, pronta per dire qualcosa, ma da essa non fuoriesce nessun suono. Con un lungo respiro cerco di darmi un contegno. Sarà per questo motivo che i suoi occhi sembrano così vecchi? Sarà per questo motivo che John riusciva a leggere le sue referenze mentre io non potevo? E quell’oggetto che lui aveva, era forse qualcosa di alieno? Per l’amor del cielo, gli alieni non esistono.

- Magari è quello che vuole farti cred… -

- No, Sherlock, sono un medico, e quell’uomo ha due maledettissimi cuori. - Non poteva essere possibile, anche se guardando John capisco che non sta mentendo, che ha davvero sentito qualcosa fuori dal normale quando lo ha toccato.

Improvvisamente, mentre il mio cervello cerca di mettere in ordine tutte quelle informazioni impossibili, John mi chiede di lui, di cosa è successo prima che arrivasse. Gli racconto tutto: del suo nome fittizio, dei suoi occhi anziani rispetto a tutto il resto, del modo in cui l’ho trovato a controllare il mio computer e di quella “carta psichica” che mi aveva lasciato senza parole. Io senza parole? Perfino il mio blogger ne era stupito.

- Vestiti, John! –

- Perché? Dove andiamo? –

“Andate al cimitero se non mi credete.”

- Sembra che il nostro nuovo amico ci abbia appena lanciato una sfida. Come posso rifiutare! Voglio verificare di persona. –

In poco tempo il mio amico è già vestito e pronto ad andare insieme al sottoscritto. In un attimo, grazie al taxi che avevamo chiamato, ci ritroviamo al cimitero.

Il custode è un mio vecchio amico. In verità lo avevo assolto da un tentato omicidio senza recargli alcun danno e mi disse che per qualunque cosa sarebbe stato disponibile ad aiutarmi. Molti dei miei casi sono stati risolti grazie alle sue testimonianze e al suo aiuto.

- George! – L’uomo sulla cinquantina, leggermente sovrappeso e ormai calvo, si stava occupando delle pulizie. Quando mi vede sorride sorpreso e corre quasi, per raggiungermi e stringermi la mano.

- Oh, Sherlock! Che piacere, cosa posso fare per te? –

- Lui è John Watson. – I due si stringono la mano, mormorando un “piacere di conoscerla”. – Vogliamo sapere dove si trova la tomba di Luke Jefferson. – Lui pare pensarci su ed io capisco che le parole del Dottore erano solo una grande menzogna, ma devo subito ricredermi, perché George si illumina.

- Oh, ma certo! La ricordo bene perché quasi nessuno va a far visita a quella tomba e non so perché. – Detto questo inizia a camminare per farci strada e noi lo seguiamo. Durante il tragitto, John sofferma lo sguardo su qualcosa e mi accorgo che è proprio il punto in cui, tempo fa, c’era la mia lapide. Il suo sguardo è triste, malinconico, deluso, e per un attimo mi sento più in colpa del solito. 

- Ecco qui! – Per fortuna la voce di George lo distrae e John torna a concentrarsi sul nostro caso.

- Sherlock, come diavolo è possibile? – Chiede mentre guarda la lapide di fronte a noi. Non è stupito perché Luke è morto, ma del fatto che la data di morte non è affatto quella che ci aspettavamo.
5 dicembre 2003. Tredici anni fa.



Note autrice:

Ok, so di essere un po' in ritardo, ma come ho detto ci sono casi in cui non posso aggiornare regolarmente per via degli impegni.
Grazie comunque di continuare a seguire questa storia, buona lettura!

 

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Capitolo 4
*** Con amore, vostro padre ***


Con amore, vostro padre



Non ho avuto il tempo di reagire a quella data surreale incisa sulla lapide, perché nello stesso momento, mi arriva la telefonata di Tracy. Lo lascio squillare per un po’, perché stavo cercando di immagazzinare quella nuova prova nel mio cervello, ma la cosa sembra davvero urgente, dato che la suoneria continua a riecheggiare nelle mie tasche. Con un sonoro sbuffo, prendo il cellulare e lo porto all’orecchio.

- Sherlock Holmes. –

- Signor Holmes, credevo non mi rispondesse più, stavo perdendo le speranze. – John mi si avvicina confuso, si posiziona proprio accanto al me, così da riuscire a sentire anche lui la conversazione. Tracy sembra spaventata, scossa, il suo tono di voce trema, sembra abbia appena pianto.

- Mi spieghi. –

- Mi è arrivata una lettera questa mattina e… oddio, è così difficile da spiegare tramite un telefono. La sto raggiungendo a Baker Street. –

- Signorina Jefferson, non sono nel mio appartamento in questo istante, se mi dà il tempo di raggiun… -

- No, resti dov’è, la raggiungo io. Dove si trova? –

- Sono al cimitero. –

- Sono subito da lei. – La sua voce tremante viene sostituita dal segnale della chiusura della telefonata. Ripongo subito il cellulare nella tasca dei pantaloni e poggio lo sguardo su John, che storce le labbra per ciò che ha appena sentito.

- Sembrava molto scossa. – Dico spostandomi verso la lapide col nome della nostra vittima inciso sopra.

- Non ti sembra un po’ azzardato farla venire qui dove c’è la tomba di suo padre? – Mi chiede John, passandosi una mano fra i capelli, ancora intontito dalla situazione.

- Oh, John, quanto sei ingenuo! – Il suo sopracciglio si solleva immediatamente, contrariato dalle mie parole. – Posso assicurarti che è praticamente impossibile che si tratti proprio di Luke Jefferson, il nostro Luke Jefferson. - Dico mentre noto che George si è ormai allontanato dopo avermi rivolto un cenno di saluto, così da poter tornare alle sue mansioni da svolgere. Era sempre così con lui: mi lasciava campo libero, fidandosi ciecamente di ogni mia mossa.

- Abbiamo appena constatato che non è così, Sherlock, che le cose impossibili possono capitare eccome! – Dice John. Probabilmente sta ancora pensando all’inusuale episodio di questa mattina a casa nostra. Il tocco sul petto di quell’uomo che lo aveva sconvolto a tal punto da credere nelle cose impossibili.

- Mettiamo che il Dottore non sia davvero umano... anche se devo ancora spiegarmi come, ma cosa c’entra con il fatto che Luke sia morto tre anni fa, quando invece la sua sparizione è recentissima? Dobbiamo accertarcene. E ciò che Tracy ha da mostrarci potrebbe essere d’aiuto. - Il mio amico annuisce. Ha capito che ho ragione.

Poco dopo, all’esterno della recinsione del cimitero, raggiungiamo Tracy che è appena scesa da un taxi insieme alla sorella. Il suo viso è sconvolto e distrutto, le lacrime le rigano le guance e noto i tremori costanti alle sue mani mentre stringe una grande busta ingiallita. Amber invece la segue a testa bassa, nessuna espressione dipinta in faccia.

Ciò che ha da farci vedere è proprio quella busta ingiallita. Dopo averci raggiunto, la apre e senza dire nulla porge delle foto in bianco e nero a John, ed una lettera a me.

- Stamattina è passata una donna alla villa, aveva circa sessant’anni. Mi ha dato questa dicendo che doveva essere consegnata proprio oggi a quell’ora. La legga e dopo le spiegherò il resto. - La apro velocemente, dato che è piegata in tre parti, e non appena il foglio è ben spiegato, noto una calligrafia veloce da una penna leggermente sbiadita. Inizio a leggere senza tante cerimonie.

 
Londra, 18 giugno 1946

Mia carissima Tracy,

Ti starai chiedendo cosa è accaduto, e spero che questa lettera ti venga consegnata nel momento giusto, così che io possa spiegarti tutto. Nel tuo punto di vista sarà successo da qualche giorno, qui succederà fra 70 anni.

Probabilmente non mi prenderai sul serio, anche io stentavo a crederci quando lui mi ha spiegato tutto. Ma di questo ti parlerò dopo. Vorrei quindi raccontarti dall’inizio:

Ti ricordi quel rumore che sentimmo in giardino? Io andai sul retro, mentre tu restasti sul porticato. Non immagini cosa abbia visto! Quel rumore strano si è ripetuto altre due volte, molto più flebile. Non capivo da dove provenisse e mi sono guardato intorno, ma ad un certo punto, senza sapere come e perché, mi hanno afferrato e mi hanno scaraventato qui, nel 1946.

Lui, il Dottore, così ha detto di chiamarsi, mi ha spiegato che una creatura aliena si è nutrita degli anni che avrei potuto vivere se tutto ciò non fosse successo, riportandomi quindi indietro nel tempo.

Purtroppo non posso tornare indietro, e ciò mi distrugge perché so che non potrò più vedere te ed Amber. Voglio che sappiate quanto vi voglio bene e che nella mia nuova vita in questa epoca sarete il mio unico pensiero fisso.

Il Dottore mi ha consigliato di cambiare identità, così che non avrei destato qualche sospetto nel tuo tempo, ma io ho deciso di non farlo, perché voglio che tu ed Amber mi crediate.

Quell’uomo è stato molto gentile, mi ha fornito tutto il necessario per potermi adattare a questo periodo, poi mi ha chiesto scusa di non poter fare nulla per aiutarmi.

Probabilmente nel tuo periodo sarò già morto da un pezzo, ma non voglio che tu ed Amber restiate fuori dalla mia vita, quindi ho deciso che da ora in poi immortalerò ogni cosa che mi succede qui e, in qualche modo, vi farò avere tutto.

Ciò che voglio dirvi è che non c’è nulla da cercare, smettete di farlo, perché è un caso chiuso e irrisolvibile.

Mie piccole bambine, non sapete quanto vi voglia bene… e quanto mi dispiaccia per tutto ciò.
 
Con amore, vostro padre.
 

A primo impatto, quella lettera poteva sembrare soltanto uno scherzo di pessimo gusto, soprattutto leggendo ogni singola riga. Sembrava un vero e proprio racconto di fantascienza, una cosa assurda inventata per far instupidire chiunque la leggesse, ma un’attenta analisi mi conferma che tutto ciò è vero e chiaro come il sole. Innanzitutto la lettera risale davvero al 1946. Non sembra essere stata modificata per farla sembrare più vecchia. Le sbavature della penna, la carta ingiallita con quel tipico odore di vecchio, la busta leggermente strappata lo dimostravano. Ma non solo quello…

Quando sollevo lo sguardo dalla lettera, vedo John intento a fissare una foto, pietrificato e con gli occhi strabuzzati. Mi avvicino per controllare le immagini, strappandogliele letteralmente dalle mani mentre gli suggerisco con lo sguardo di leggere ciò che su quel foglio ingiallito c’era scritto.

La prima foto che vedo è un primo piano in bianco e nero di Luke Jefferson, con lo stesso identico aspetto di quando è sparito, indossa soltanto dei vestiti più aderenti agli anni 40 in cui diceva di essere stato catapultato. Nella seconda foto è in compagnia di una donna, entrambi sorridono felici mentre lei sfoggia con vanità un abito bianco lungo fino alle ginocchia. Lui le cinge un fianco, lei tiene le mani incrociate sulla gonna, l’aria leggermente timida che le dà un tocco giovanile. Nella successiva i due indossano degli abiti da matrimonio, lei ha il velo che le ricado lungo la schiena fino a toccare il prato verde di fronte a quella che sembra proprio essere una chiesa. In mano tiene un bouquet, mentre tiene a braccetto Luke, anche lui tutto in tiro e sorridente. Continuo a studiarle, in un’altra foto Luke tiene in braccio una bambina appena nata… ma il resto delle foto racconta soltanto cose futili che le persone normali fanno durante il corso della vita, cose che io non voglio perdere tempo a fare o raccontare, ma semplicemente si nota quanto questa bambina stia crescendo.

- Capisce, signor Holmes? – Mi chiede la giovane Amber, che fino ad ora non aveva aperto bocca.

- Chi era la donna che è venuta a consegnarle questa lettera? – Chiedo, riuscendo a nascondere meravigliosamente il mio stupore. John sta ancora leggendo, fa scorrere gli occhi sulla pagina ingiallita come un forsennato, poi torna a leggere le righe precedenti, come se volesse accertarsi che ciò che sta leggendo è vero.

- Mi ha detto di chiamarsi Louise, e mi ha detto di essere la figlia di mio padre… la bambina nelle foto. – Mi risponde tremante Tracy.

- Le ha detto qualcos’altro? –

- Oh, è stato molto strano come incontro. – Mi risponde mentre si poggia alla recinsione per prendersi un momento di tregua da tutte quelle stupide emozioni da persone normali che sta provando. – Amber ha aperto la porta quando ha suonato il campanello… -

- Mi ha chiesto se fossi Amber o Tracy Jefferson, e io le ho detto che era proprio nella casa giusta. – Esordisce la sorella, stringendo la mano di Tracy come tentativo di calmarla. – Mia sorella è arrivata proprio in quel momento e la donna ci ha consegnato la busta, spiegandoci che suo padre l’aveva pregata di portarla al nostro indirizzo, proprio oggi, in questa data. Le chiedemmo perché, ma lei ci disse che non conosceva il vero motivo, diceva che suo padre glielo aveva chiesto quando si era ammalato, di non fare domande e di fare questa cosa per lui. Non conosceva il contenuto della lettera, ma diceva di aver messo lei stessa le foto all’interno della busta. – Nel frattempo John distoglie lo sguardo dal foglio e lo porta in un punto fisso davanti a sé, come a metabolizzare la cosa.

- Sapete niente di questa donna? A parte il nome ed il cognome… -

- Nulla, ha consegnato la lettera e se n’è andata. Ma era una donna di media altezza, capelli corti bianchi, sembrava una signora molto elegante, e somigliava terribilmente a mio padre.  – Dice Tracy mentre si mette in piedi, barcollante, con l’aiuto della sorella. – Questa cosa è vera, signor Holmes? Nostro padre è davvero finito nel 1946 come nei film sui viaggiatori del tempo o… o è tutto uno stupido scherzo? –

- Certo che è vero, Tracy! Insomma, non hai visto le foto? – Amber sembrava essersi irritata mentre rispondeva alla sorella che, nel frattempo, aveva spalancato la bocca con stupore. Ciò voleva dire che la ragazza non era solita a rispondere a tono, che di solito se ne stava per i fatti suoi.

- Ma come può essere lui? – Io roteo gli occhi, stufato dal loro litigio infantile e mi affretto a recuperare il telefono dalla mia tasca e comporre il numero di Lestrade.

- Lestrade? Ho bisogno che tu cerchi tutte le informazioni possibili riguardo ad una donna, Louise Jefferson. Ha settant’anni, sembra somigliare molto a Luke, la nostra vittima. È urgente, quindi datti una mossa, Scotland Yard! – Chiudo la telefonata non appena l’ispettore mi dà la sua parola per mettersi al lavoro, poi George ci interrompe. Ci guarda spaesato e poi se ne esce fuori con una frase che poteva benissimo evitare:

- Avete finito con la tomba di Luke Jefferson? – John si passa una mano sugli occhi con fare disperato, io lancio un’occhiata fulminante all’uomo che, come pervaso dalla mio sguardo omicida, si fa piccolo piccolo e con un leggero “scusatemi”, si allontana. Posso notare l’improvviso sguardo di terrore ed ansia dipinto sui volti delle sorelle Jefferson. Le due ragazze, come sospinte da una forza innaturale, si raddrizzano sulle spalle ed iniziano a correre come delle forsennate verso l’interno del cimitero. In un attimo io e John stiamo correndo dietro ad entrambe, ma non arriviamo in tempo perché Tracy, non appena nota l’incisione sulla lapide, crolla in ginocchio in un pianto disperato, seguita dalle lacrime incontrollate di Amber.

Non mi voglio dilungare a raccontare ciò che è successo dopo. In breve, John ha chiamato loro un taxi, dopo averle prese da parte per tranquillizzarle, e poi le ha detto che la questione non sarebbe più stata un mistero, che io l’avrei sicuramente risolto e capito. Abbiamo preso la lettera e le foto e ce ne siamo andati.

Ingenuo il mio John, vero?

Aspetta… “mio”? Da quanto penso a lui come mio?

- Cosa ne pensi? – Non rispondo alla sua domanda, mi limito a fissare il vuoto, imprigionato nel mio palazzo mentale, a cercare in tutte le stanze un filo logico e convincente. Il taxi si ferma davanti a noi ed io apro la portiera con un gesto meccanico.

- Questo taxi è mio, sali sul prossimo. – Dico con voce ferma e decisa mentre mi accingo a mettermi comodo.

- Perché? – Mi chiede irritato.

- Mi parleresti. – Non aspetto una sua risposta, chiudo la portiera e, dopo aver comunicato la destinazione al tassista, lascio John immobile sul marciapiede, la sua espressione delusa mi è rimasta impressa per tutto il tragitto.

Nella mia testa c’è ancora il vuoto, il mio unico pensiero si rivolge solo ad una persona, l’unica che probabilmente, mi duole ammetterlo, sa molto più di me.

Mi lascia proprio davanti al 221B. Con mia grande sorpresa, appoggiato alla porta, con braccia e gambe incrociate, ci trovo proprio il Dottore. Il suo sorrisetto fuori luogo mi fa sospirare rabbiosamente mentre a passo svelto lo raggiungo. Proprio chi volevo vedere!

- Dov’è il dottor Watson? –

- Mi raggiungerà a breve. – Sibilo mentre lo guardo dall’alto in basso.

- Vedo che ha con sé la lettera di Luke. –

- Come faceva a saperlo? –

- Perché io ho detto a Luke di scriverla. –

- Come? –

- Vuole sapere tutta la verità, Sherlock? – Non rispondo. Non voglio dargliela vinta con una risposta in cui, ahimè, mi arrendo al mio sapere e chiedo aiuto ad un Dottore sconosciuto. Il suo sopracciglio alzato mi fa capire che dal mio silenzio ha compreso tutto. – Aspettiamo il suo amico? – Annuisco con lo sguardo perso ad osservare la porta chiusa davanti a me. Con un giro della chiave la apro e sospiro.

- Le offro un tè. – Il suo sorriso esprime tutta la sua soddisfazione.



Note autrice:
Ok, eccomi, stavolta puntualissima! Possiamo dire che da adesso inizia la collaborazione tra i nostri bimbi del 221B e del Dottore.
Cosa ne pensate? Fatemi sapere, un bacio e alla prossima!

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Capitolo 5
*** Angeli piangenti ***


Angeli piangenti



Quando è entrato nell’appartamento, seguendomi fino al salotto, si è sfilato il lungo cappotto marrone e lo ha lasciato lungo disteso sul divano. Non ci siamo detti una parola, gli ho solo offerto una tazza di tè. Poco dopo, John ci ha raggiunti. Quando ha visto il Dottore lo ha fissato a lungo, poi ha sospirato e lo ha salutato con un cenno della testa.

Adesso siamo seduti in salotto, ognuno sulla propria poltrona, ma il Dottore ha soltanto deciso di aggirarsi per la cucina e analizzare ogni dettaglio, toccare le nostre cose come se fosse casa sua. Alzo un sopracciglio quando lo vedo afferrare il barattolo di marmellata di limoni. Svita il tappo e ci immerge dentro un dito per poi portarselo alle labbra. Il mio sguardo di rimprovero lo blocca con la mano a mezzaria, quindi sospira rassegnato e lo ripone nello scaffale.

- Prima che lei possa iniziare a spiegarci cosa succede… - Dico dopo un leggero colpo di tosse. – Deve spiegarmi chi o cosa è lei. – Il Dottore aggrotta la fronte contrariato e si avvicina lentamente a noi. Sembra offeso, forse per il “cosa”?

- Vengo da Gallifrey, è un pianeta che si trova nella costellazione di Kasterborous. –

- Non ho mai sentito parlare di questa costellazione. – Esordisce John mentre entrambi lo fissiamo sedersi sul tavolino di fronte al divano.

- Pensavo fossi un esperto in queste cose, John! – Dico guardandolo con delusione.

- Non parliamo del Sistema Solare qui! – Dice il mio amico allargando le braccia con fare disperato, poi si rivolge al nostro conoscente. – Sbaglio? –

- Non sbaglia. Aspetta ma… davvero non conosce il Sistema Solare? – Di nuovo von questa storia! Ancora mi chiedo perché sia importante sapere cosa ci sia al di fuori di questa Terra. Sbuffo sonoramente e butto la testa all’indietro con fare disperato. John risponde per me, affermando che pur essendo un genio non conosco una cosa futile come questa. – Ma è il Sistema Solare! – Esordisce il Dottore con un’espressione mista tra lo sbalordito ed il divertito.

- Non vedo che differenza possa fare, non m’interessa sapere intorno a cosa giriamo. – La risatina del Dottore riecheggia nella stanza, quindi stende le gambe e scuote la testa.

- Oh, se solo visitasse ogni posto di questo universo, sono sicuro che cambierebbe idea. –

- Cosa però impossibile. –

- Non per me. – Sto per controbattere alla sua affermazione, i miei occhi vagano indagatori su di lui, ogni cosa che dice mi lascia spiazzato, ogni scoperta che faccio su di lui mi sembra sempre impossibile, ma lui continua impertinente a parlare. – Sono un Signore del Tempo. Viaggio con la mia nave e vado ovunque ho voglia di andare. E faccio del mio meglio per risolvere certi problemi di natura aliena. – John è perplesso. Ce ne erano capitate tante, di tutti i colori, ma avere a che fare con un alieno… devo ammettere di essere ancora scettico sulla faccenda.

- Che è accaduto a Luke? – Chiede John mentre fa tamburellare le dita sul proprio ginocchio.

- Beeeeh… - Inizia lui, sistemandosi bene gli occhiali sul naso. – Angeli piangenti li chiamano, o assassini solitari. Sono delle creature di un altro mondo, nessuno sa bene da dove provengano, antiche quasi quanto l’universo stesso. All’apparenza sembrano delle normalissime statue di pietra, degli angeli che si coprono il viso, ma non per piangere come tutti pensano. Sono sopravvissuti così a lungo perché appunto hanno un sistema di difesa molto efficiente. Non possono essere guardati. Quando una qualunque creatura vivente posa lo sguardo su di loro diventano letteralmente di sasso, e non puoi uccidere un sasso. – Detto ciò prende la tazza in cui il suo tè ancora fumava. Ne beve un sorso abbondante, poi riprende la sua assurda spiegazione. – Ovvio che un sasso non può ucciderti ma se distogli lo sguardo o batti le palpebre, allora sì che si può. – Mi lascio sfuggire un sorriso completamente incredulo. Tutto ciò sembra così assurdo che è ovvio che non può essere vero… ma ciò che mi stupisce ancora di più è che John sembra credere ad ogni singola parola. – Si nutrono del tempo che una creatura vivente avrebbe potuto vivere senza il loro intervento. Sono velocissimi quando nessuno li vede, ed in grado di afferrarti e catapultarti nel passato. Questo è il modo in cui continuano a sopravvivere. Luke è stata la sfortunata vittima. –

- Un modo per fermarli? –

- Oh, un modo ci sarebbe, ma bisognerebbe prima trovarli. – Ascolto la loro conversazione con fare annoiato, poggiando la guancia sul pugno chiuso e guardando un punto indefinito della parete dietro al Dottore. Cerco con tutto me stesso di sembrare meno indifferente a quei racconti e a quelle parole, anche perché quello strano tipo sembra l’unico in grado di poter mettere in chiaro le cose, ma la faccenda è così assurda che non riesco a crederci. – Non possono guardarsi negli occhi a vicenda, si trasformerebbero in pietra per sempre e resterebbero delle normalissime statue. Quello che dovremmo fare, in sostanza, è questo, soprattutto per evitare altre vittime. – Con un ultimo abbondante sorso, finisce la sua tazza di tè, leccandosi poi le labbra con fare deliziato.

- Non sembra così facile. – Commento con tono annoiato mentre afferro il violino accanto alla poltrona per strimpellare qualcosa con le dita.

- Non lo è, infatti. Li sto ancora cercando, ma sono troppo veloci e mi sfuggono ogni volta che sono sul punto di individuarli. –

- Quanti sono? – Chiede John mentre si alza per recuperare la tazza vuota del Dottore. Lui lo ringrazia con un cenno della testa, piegando leggermente gli angoli della bocca in un leggero sorriso.

- Due, ne sono sicuro. –

- E adesso andiamo a prenderli con la sua navicella spaziale e li riportiamo sul loro pianeta? – Chiedo con ironia, mentre la mia risata fa irritare John che mi fissa con uno sguardo di rimprovero.

Come fai, John? Come fai a fare in modo che io ti dia ascolto? Nella mia vita nessuno ci è mai riuscito: Mycroft, i miei genitori, la signora Hudson… ma perché sembra che tu riesca a farmi credere nelle cose impossibili come queste? Come mai ti do retta come un cagnolino dà retta al suo padroncino?

- Lo scusi. –

- Non c’è da preoccuparsi, molte delle persone che incontro sono scettiche all’inizio. – Mi guarda e si porta l’indice e il pollice sotto il mento, accarezzandone la pelle liscia – Vuole una prova definitiva per potermi credere, vero? – Io lo guardo a mia volta, continuando a muovere le dita sul mio amato violino, ma non rispondo. – La avrà. – Un’altra volta, il mio sorrisino scettico spunta sul mio viso, ma lui sembra non farci abbastanza caso, perché si alza dal tavolino e fa ondeggiare le braccia per sgranchirsele al meglio. – Bene, direi che adesso vado. Devo tornare a cercare queste bestioline, ma mi farò vivo, come al solito. – Mentre lo dice afferra il lungo cappotto marrone e lo indossa.

- Sta già dando per scontato che la aiuteremo a fermarli? –

- Certo che mi aiuterà. – Dice con una naturalezza impressionante. – Sembra che i nostri Angeli abbiano una strana attrazione per questo appartamento. – Detto ciò, varca la soglia e sparisce al piano di sotto, lasciando me e John a fissare sconcertati le scale. Cosa voleva dire con quella frase?

- Che altre prove ti servono? – Mi chiede John, allargando le braccia.

- Delle statue di pietra che si muovono non appena volti lo sguardo… ma ti prego! – Mormoro con voce impastata mentre faccio muovere delicatamente le dita sulle corde per pizzicarle.

Il suo sbuffo mi fa bloccare con le mani sulle corde, apro gli occhi per guardarlo e noto che si è messo di nuovo seduto sulla sua poltrona. Ha chiuso gli occhi e si sta massaggiando le tempie con una mano. Conoscendomi avrei continuato a suonare, anzi… mi sarei alzato, avrei preso l’archetto e sarei andato davanti alla finestra per farlo, ma non questa volta. Capisco che ha l’emicrania. Ne soffre spesso da quel giorno.

È buffo sotto un certo aspetto, se ci penso. Passo la vita con dei serial killer alle calcagna, affrontando pericoli di ogni genere, e ciò che uccide Mary e la piccola… è un ubriaco alla guida. Magari non è buffo ma visti tutti i rischi che corro, come può accadere che qualcosa della vita mondana ti porti via ciò che ami?

Posso ancora benissimo ricordare quel periodo, o meglio, quel giorno.

Era notte fonda, io non stavo dormendo, ero impegnato nei miei esperimenti. Stavo sistemando sul vetrino una sostanza trovata sul corpo di una vittima a Hyde Park, quando dalla porta d’ingresso sentì un continuo battere di pugni che mi fecero sussultare dalla mia postazione. Fui tentato di urlare alla signora Hudson di andare a controllare, ma sapevo quanto la mia padrona di casa avesse il sonno pesante, durante la notte. Quindi mi alzai con uno sbuffo. Tutto potevo immaginarmi: un cliente disperato, magari con un problema di cuore, o con un problema abbastanza serio visto il modo in cui bussava, ma mai mi sarei aspettato di trovare John in lacrime disperate, a testa bassa e che si reggeva allo stipite della porta, quasi nell’orlo di una crisi di nervi.

Mi si aggrappò al collo in un abbraccio stretto, poi pianse sulla mia spalla finché non lo trascinai in casa. Sul mio viso si poteva notare la preoccupazione e l’ansia.

- John, che è successo? – Gli chiesi, prendendogli il viso fra le mani. Incrociai i suoi occhi e lessi il suo dolore, un dolore atroce.

Me lo raccontò. Mi disse che quella sera erano tornati a casa in auto, che lui era sceso per primo per aprire la porta d’ingresso, lei era rimasta a prendere le ultime buste della spesa, abbassata verso il sedile posteriore. Accadde tutto in un attimo.

Era morta sul colpo, e con lei anche la bambina in grembo. Non ebbe il tempo di arrivare in ospedale, era troppo tardi.

Poggio di nuovo il mio violino sul pavimento, accanto alla mia poltrona, poi mi alzo con calma e raggiungo la sua. Si accorge che mi sono avvicinato solo quando emetto un leggero tossicchio, al quale lui apre gli occhi e solleva leggermente la testa per puntarli su di me.

Che strana sensazione, quando mi guarda.

- Tutto bene? – chiedo, cercando di sembrare annoiato, ma qualcosa di me fa intuire che non lo sono affatto, che mi sto preoccupando davvero per lui.

- Perché me lo stai chiedendo? –

- Per iniziare una… conversazione? – Mormoro, non risultando abbastanza convincente, motivo per cui lui inizia a ridacchiare, spostando la mano dalla fronte per poggiarla sul bracciolo della poltrona.

- Una conversazione? –

- Si fa così, no? – John si alza e, con mio notevole disagio, finisce proprio di fronte a me, siamo talmente vicini che quasi i nostri petti si sfiorano.

Controllo, Sherlock, controllo!

Cerco con tutto me stesso di mantenere quell’espressione fredda e sicura, ci riesco quasi perfettamente… dico quasi perché non riesco a contenere alcune reazioni del mio corpo, non sto qui ad elencarvele perché le trovo strane e inusuali io stesso. Per fortuna, sembra non notare nulla.

- Ascolta, Sherlock. Mi fa piacere che tu ti preoccupi per me, ma non devi, io sto bene. –

- Io non mi sto preoccupando… e comunque non stai bene, hai l’emicrania. – John accenna un sorrisetto divertito, poi scuote appena la testa.

- Sei preoccupato, e sto bene, devi stare tranquillo. L’emicrania passerà. – So che non è così, ma non voglio controbattere per nessun motivo, ed è così strano perché controbattere è una delle mie specialità.

Poco dopo, mi afferra la mano, e nello stesso momento sento il cervello scollegarsi dalla realtà. Non mi sembra di ragionare razionalmente, il mio respiro si è mozzato senza che io riuscissi a mantenere quell’aria da persona fredda e distaccata.

- Adesso sembra che sia tu a non stare bene… - Mormora lui, con le sopracciglia aggrottate. È confuso, ma anche preoccupato, e… dannazione, non riesco a smettere di guardargli le labbra. Così sottili, così belle.

Chissà come starebbero sulle mie…

D’un tratto, un movimento nella stanza mi distrae e mi fa tornare lo Sherlock di sempre. Appena alzo la testa e guardo dietro il mio amico, mi accorgo che non siamo più da soli.

Proprio in cucina, accanto al frigorifero, mi accorgo con mio grande stupore, che una statua di un angelo è apparsa dal nulla. È proprio simile a quelle che il dottore ci ha descritto, si copre gli occhi con le mani e tiene le ali leggermente aperte.

John non capisce il perché del mio cambiamento di espressione. Sono sicuro che se potessi guardarmi in questo momento, avrei gli occhi strabuzzati come mai li ho avuti. Quindi si gira, e quando nota quello che ho visto io, fa un balzo all’indietro, gridando un “Da dove cazzo è sbucata fuori?”

Io sono imbambolato, continuo a fissarla e non riesco a spiegarmi tutto ciò. Mentre John si guarda intorno per controllare che non fosse passata da qualche finestra lasciata aperta, io chiudo gli occhi e scuoto la testa, cercando in tutti i modi di svegliarmi da quello che credo sia solo un sogno.

Quando li riapro, la statua è a 50 centimetri da me, le mani protese in avanti, come a volermi afferrare, la bocca spalancata che lascia intravedere i denti appuntiti come quelli di un cane rabbioso. Con un urlo indietreggio e John, distratto dal mio lamento spaventato, mi raggiunge e si mette davanti a me, come a volermi difendere.

- Come diavolo è riuscita a muoversi? Cristo, Sherlock, continua a guardarla. – Le parole sembrano essermi morte in gola, perché non emetto alcun suono, ma decido di seguire il consiglio di John e non le stacco gli occhi di dosso. – Che facciamo adesso? – Subito dopo averlo chiesto, la stanza viene inondata da una folata di vento. Intorno a noi fogli di giornale, documenti e cartacce si diffondono sul pavimento come sospinti da esso. D’un tratto uno stranissimo e forte rumore ci costringe a coprirci le orecchie. È seguito dal suono di una porticina cigolante che si apre e, senza che nessuno se lo aspettasse, la voce del Dottore ci arriva forte, chiara e rassicurante.

- Indietreggiate verso la mia voce, ma continuate a guardarla. Fate presto! – Ubbidiamo subito e cerco di indietreggiare, allungando le braccia all’indietro per non andare a finire su qualcosa. Mi sento afferrare dal Dottore e sospingere dentro quella che sembra una cabina telefonica blu della polizia. Finisco seduto sul pavimento, per colpa della forte spinta dell’uomo. La porta viene chiusa subito dopo l’ingresso di John. Ciò che vedo davanti a me va oltre l’impossibile.




Note autrice:
Buonassssera gente, come state?
Puntuale di nuovo. Che ne pensate di questo incontro con gli Angeli?
Secondo voi, come reagirà Sherlock alla vista del Tardis?
Al prossimo chapter

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Capitolo 6
*** “Vedere il Sistema Solare ne è valsa la pena alla fine, eh?” ***


“Vedere il Sistema Solare ne è valsa la pena alla fine, eh?”



Quello che è accaduto in seguito, potete benissimo immaginarvelo.

John si guardava intorno con aria sconvolta, inciampando quasi sui suoi stessi piedi mentre si girava su sé stesso e rideva nervosamente, incredulo per la faccenda. Tutto ciò che diceva era solo “è più grande all’interno”, affermando stupidamente l’ovvio.

La mia reazione è stata diversa. Da quando il Dottore mi aveva scaraventato all’interno della cabina, ero rimasto seduto sul pavimento e avevo fatto svettare gli occhi su ciò che mi si era ritrovato davanti. All’inizio credevo di stare sognando, ma poi, dopo aver verificato con dei pizzicotti, mi resi conto che era tutto vero. Non me lo spiegavo, ero terrorizzato, stupito, e per la prima volta mi sentivo così vulnerabile, così piccolo di fronte a qualcosa che non riuscivo a spiegarmi. Per un attimo avevo udito il mio palazzo mentale tremare come colpito da una forte scossa di terremoto. Provavo il dubbio, quella era la mia scossa. Una scossa che voleva distruggere tutte le conoscenze che avevo costruito, la stessa che provai vedendo il mastino a Baskerville...

Non volevo andasse tutto in fumo per una stupida cabina, quindi chiusi gli occhi e cercai di concentrarmi e riprendermi da questa storia.

Adesso mi trovo seduto dietro al Dottore che si muove esperto fra tutti quei comandi sulla console. Sono ancora bianco come un lenzuolo dallo stupore, John ha dovuto farmi fare degli esercizi di respirazione per farmi riprende, ma sono comunque molto scosso. Quest’ultimo sta in piedi davanti alla porticina da cui siamo entrati, la fissa e la studia meticolosamente, poi fa qualche altro passo e ispeziona un altro angolo, poggia la mano sulla parete per accertarsi della sua esistenza, poi sorride incredulo e fa lo stesso con un altro dettaglio.

Inizio a pensare a quell’Angelo. Un’altra delle cose impossibili che non so spiegarmi. John si era proteso davanti a me come uno scudo, pronto a difendermi, pronto a sfoggiare tutto il suo coraggio soltanto per tenermi al sicuro. Lo fa molto più spesso da quando Mary mi ha sparato…

Il solo pensiero che quella statua avrebbe potuto afferrarlo e catapultarlo nel passato mi fa rabbrividire. Che strana sensazione di paura che ho provato, non solo per la vista di quella creatura, ma soprattutto per la possibile perdita di John.

- Non preoccuparti, è al sicuro qui dentro. Il Tardis è il luogo più sicuro che esista. – Il Dottore si rivolge a me in tono confidenziale, non utilizza più il “signor Holmes” e non mi dà più del lei… ma ormai non ha più importanza.

Forse sembro abbastanza preoccupato, vista la sua affermazione. Nego immediatamente, scuotendo la testa, ma appena cerco di parlare, lui mi interrompe, abbandonando i comandi sui quali stava armeggiando e prendendo posto accanto a me, le gambe distese lunghe come al solito.

- Non cercare di nasconderlo, almeno non a me. Ho capito tutto. – Continuo a tenere lo sguardo fisso davanti a me, evitando il suo che si aspetta che mi giri.

- Leggi anche nel pensiero? – Azzardo mentre tengo le dita delle mani intrecciate fra loro. Lui ridacchia e percepisco la sua testa che si scuote come risposta.

- Neanche tu leggi nel pensiero, eppure sai tutto. L’ho capito dal tuo sguardo. –

Sherlock, Sherlock! A quanto pare l’amore per John Watson è l’unica cosa che non riesci proprio a nascondere… aspetta, “amore”? Ho davvero usato quel termine.

- Perché non vuoi dirglielo? – A quel punto riesco finalmente a voltarmi per guardarlo. Ha le braccia incrociate al petto, in attesa. Corrugo la fronte per un attimo.

- Che cosa? – Lui solleva un sopracciglio e sbuffa un risolino divertito. Ormai è inutile nasconderlo. Ha capito e non posso negare, quindi sospiro e abbasso lo sguardo verso il pavimento della “navicella”. - Ha perso la moglie e la figlia in un incidente, non voglio turbarlo. –

- Non volevo dire questo. –

- E allora cosa? –

- Anche se dovesse superarlo, tu non glielo dirai comunque. – John sta ancora guardandosi intorno, con il sorriso di un bambino di fronte ad un nuovo giocattolo. – Perché, Sherlock? – Cerco di non fare caso a quanto il Dottore abbia ragione su questa cosa. John non deve sapere del mio interesse nei suoi confronti, ed in fin dei conti gliel’ho sempre tenuto nascosto, anche da prima che Mary entrasse nelle nostre vite.

Io, l’uomo di ghiaccio, innamorato di una persona così… ordinaria? Una persona che però ha tutt’altro interesse.

- Non è così semplice, il mio lavoro è pieno di rischi e lui potrebbe essere un’esca perfetta. Fin troppe volte è stato in pericolo per colpa mia. – Il Dottore rotea gli occhi, poi si alza e raggiunge la console. Inizia ad occuparsi di alcuni dei comandi, ma non perde la sua attenzione verso le mie parole, e continua ad ascoltarmi mentre inizio a capire certe cose sul suo conto che lo fanno somigliare spaventosamente a me. – Anche tu avevi qualcuno, vero? Amici, persone a cui tenevi? Gente che adesso non c’è più per colpa tua, vero?
Per questo sei solo. Per questo non ti vedo mai in compagnia di qualcuno, hai paura di perdere le persone di cui ti affezioni. – Alle mie parole, il Dottore abbandona i comandi e solleva lo sguardo verso John. Sta immaginando uno dei suoi amici mentre lo guarda, riesco a capirlo perfettamente dai suoi occhi tristi e ricchi di nostalgia e malinconia. – Per il mio stesso identico motivo! Quindi non venire a dirmi che è sbagliato quello che faccio per proteggerlo! – Mai mi sarei aspettato di poter dire tutto questo a qualcuno, di poter dire apertamente che ciò che faccio è solo ed esclusivamente per la sicurezza di John. Ma il fatto che lui mi somigliasse così tanto, mi fa sentire come un libro aperto ai suoi occhi.

Nonostante ciò, le mie parole ed il mio tono sono duri e severi, lo hanno segnato profondamente e riesco a capirlo dal suo atteggiamento e dal suo successivo colpo di tosse, forse per riprendersi.

- Non dico che sia sbagliato. Hai ragione. Sono solo, ho scelto di viaggiare da solo per proteggere la gente che amo perché la caccio continuamente nei guai. Ma ciò che faccio io è diverso da ciò che fai tu. E le persone con cui ho viaggiato sono diverse da John. Lui è coraggioso, un soldato, se ne hai passate tante con lui, come vedi è sempre lì accanto a te, è un uomo che resiste, che sa come difendersi. I miei amici non erano soldati, non erano forti abbastanza, ed io li mettevo in situazioni più grandi di loro. Ho fatto questa scelta, viaggiare da solo, e fa male. Tu hai la possibilità di avere chi ami accanto, non sprecarla. – Non dico nulla, non so cosa dire in realtà perché il suo discorso mi ha spiazzato. John ne ha passate tante e ha sempre saputo cavarsela, a parte alcune volte in cui ho rischiato di perderlo se non fossi intervenuto. In realtà… se ci penso bene, io e lui siamo in grado di proteggerci a vicenda e di sopravvivere per l’altro, perciò il discorso del Dottore non faceva una piega.

Sto per esprimere qualcosa, ma John ci raggiunge a passo deciso e ci interrompe… ma forse è meglio così, non voglio rovinare tutto.

- Questa nave è spettacolare. – Dice con un sorriso che non gli vedevo in volto da fin troppo tempo.

- Oh, lo so bene. – Dice il nostro nuovo “amico” mentre batte due colpi amichevoli alla console, come a complimentarsi con la macchina stessa della sua bellezza.

- Cosa sa fare? –

- Può viaggiare nel tempo e nello spazio. – Io e John ci rivolgiamo uno sguardo che fa intuire che abbiamo avuto lo stesso identico pensiero.

- Nel tempo? – Chiedo stranito mentre mi alzo in piedi.

- Sì, nel tempo. Passato, futuro, qualsiasi epoca si possa immaginare. Inizio del tempo, fine del tempo… -

Non stai sognando, Sherlock, a quanto pare sta dicendo la verità, quindi fai di tutto per crederci.

- Non possiamo semplicemente tornare indietro e prendere Luke Jefferson? – Mentre i due continuano a parlare fra di loro, io inizio ad aggirarmi per la “cabina”. Cammino intorno a quella miriade di pulsanti e leve, li osservo per bene. Cerco di immaginarmi a cosa servano.

Quale di quelli fanno comparire la cabina? E quale la fa scomparire? Le leve servono forse a decollare o ad atterrare?

- Oh, non possiamo. Ciò che gli angeli piangenti fanno è un punto fisso nel tempo. Non posso cambiarlo, causerebbe un collasso temporale. -

- Un cosa? - Chiede John con voce stridula e confusa. Io ho le sopracciglia sollevate. Ecco un'altra delle cose che non riesco a capire. Non mi piace non sapere, e adesso nel mio palazzo mentale si sta per erigere una nuova stanza: sulla porta c'è inciso "Dottore".

Tutto ciò che riguarda lui e le sue teorie strampalate sono chiusi lì dentro, il suo pianeta, gli angeli, la sua nave, i viaggi nel tempo e nello spazio, e tutto quello che per me sembra inspiegabile.

Ma se ho deciso di tenere tutto nel mio palazzo mentale vuol dire che ormai ci credo, che ho visto con i miei occhi senza essere sotto l'effetto di una qualche droga nascosta nella nebbia. Non tutti ne hanno una tutta per loro nella mia mente.

John ne ha una. Ci entro tutti i giorni.

- Un collasso temporale. Il tempo smetterebbe di esistere. – Alle sue parole, John si zittisce e incrocia le braccia al petto, storcendo le labbra verso destra. Sta cercando di farsi venire in mente qualche idea, senza successo.

- Come facevi a sapere che l’Angelo sarebbe arrivato da noi? – Mi intrometto anche io nella discussione, e faccio scorrere lo sguardo indagatore sul viso del Dottore, che accenna un sorrisino prima di tirare fuori da sotto la console il famosissimo aggeggio che fa “ding”, a cui non so ancora dare un nome.

- Con il mio rilevatore di tempo transitorio. – Esordì, mostrandocelo. - Dopo che ho lasciato il vostro appartamento, i segnali mi hanno fatto tornare indietro. Si stava avvicinando pericolosamente, e ho deciso di recuperare il Tardis per evitare che anche voi diventaste delle vittime. Non penso che avreste voluto vedere le vostre tombe accanto a quella di Jefferson! –

- Non sarebbe stata una novità… - La frase di John mi fa sollevare improvvisamente la testa verso il suo viso. Si sta guardando le punte dei piedi, la sua espressione è triste e ha tirato su con il naso. Il Dottore ci guarda straniti. Non capisce la nostra reazione, è come se si sentisse in colpa per aver detto qualcosa di sbagliato.

“Non essere morto… basta, smetti questa farsa…”

Tutto sembra come se fosse successo ieri.

“Ti ho sentito.”

- Ehm… potrete tornare nel vostro appartamento più tardi. – Dice in imbarazzo, facendo rimbalzare lo sguardo da me a John, come a cambiare discorso per non farci pensare a ciò che le nostre menti stavano ricordando.

- Se è una macchina del tempo, perché non ci porti adesso? – è vero, posso sembrare impaziente, ma il mio cervello rischia di esplodere con tutte queste novità aliene, ho bisogno di riordinare tutte queste nuove informazioni e il silenzio tombale del mio appartamento, rotto solo dallo sfogliare dei libri di John, sarebbe proprio l’ideale.

- Perché devo mostrarvi una cosa, soprattutto a te! – Il Dottore mi punta il dito contro e, non appena si avvicina ai comandi, indietreggio dalla console, lasciando che si diverta a schiacciare tutti quei pulsanti. Quando tira una leva, la nave emette una leggera turbolenza che ci fa traballare come degli ubriachi. Sono costretto a tenermi al corrimano, e lo stesso fa John mentre si trova accanto a me. Nel farlo ha poggiato la mano sulla mia e si tiene con tutte le sue forze… solo che non sembra farci caso.

Mantieni la calma, Sherlock!

Ci sono altri strani balzi della macchina, poi si ferma, facendoci ondeggiare pericolosamente, e il Dottore si strofina le mani mentre si avvia alla porticina d’ingresso.

- Che state aspettando? – Ci chiede, guardandoci mentre ancora ci reggiamo, inutilmente, al corrimano. Solo in quel momento John si rende conto della sua stretta sulla mia mano. Con lo sguardo mi comunica le sue più sincere scuse, e poi si rimette in posizione eretta per raggiungere l’uomo alla porta.

Non devi affatto scusarti…

Poco dopo, siamo tutti e tre davanti alla porta. Il Dottore ci guarda eccitati prima di aprirla e lasciarci vedere.

Davanti a noi, come non l’avevamo mai vista, la Terra si presenta in tutta la sua bellezza. Contornata dallo spazio più profondo, una parte ricoperta dall’oscurità, l’altra ancora illuminata dai raggi del sole. Le nuvole la circondavano e i mari azzurri la rivestivano di quel colore meraviglioso. Non molto lontano, la luna sembrava vegliare vigile la Terra, molto più grande e maestosa di quanto la immaginassi.

La visione di tutto ciò rende la mia giornata ancora più surreale, se prima ero stupito, adesso non trovavo un termine adatto per descrivere il mio stato d’animo.

- Mio Dio… - Mormora John tenendo lo sguardo fisso sul pianeta che abbiamo davanti. Un sorriso gli sbuca sul viso, e non posso fare a meno di lasciarmene sfuggire uno anche io.

Mio Dio… è così bello. E non parlo dello spazio.

Non credo di averlo mai visto così felice in tutta la vita. È la luce nei suoi occhi a comunicarmelo.

- Vedere il Sistema Solare ne è valsa la pena alla fine, eh? – Sussurra il Dottore al mio orecchio, in modo che John non possa sentirci. So che si riferisce a lui e al modo in cui ho reagito al suo sorriso sorpreso, ma non rispondo. Mi limito a guardare dinanzi a me, mentre il Dottore indietreggia verso la console per lasciarci da soli.

Rimaniamo quasi mezzora ad osservare quella meraviglia, seduti sul bordo del Tardis, con i piedi penzolanti nel vuoto, poi il nostro nuovo “amico” decide che è meglio tornare a Baker Street. John abbandona il suo posto a malincuore. Sembrava così rilassato mentre osservava l’infinito.

La nave atterra proprio davanti alla porta d’ingresso.

- Tornerò quando riuscirò a trovarli. – Mi comunica l’uomo, mentre il mio amico, dopo un’euforica stretta di mano al Dottore, ha già raggiunto il piano superiore.

Dopo aver detto ciò, allunga la testa per controllare se John è ancora presente, poi mi sussurra, tenendo amichevolmente la mano sulla mia spalla:

- Io inizierei con una bella cenetta. – Mi fa un occhiolino ammiccante, lasciandomi qualche pacca leggera, poi torna dentro, richiude la porta ed il Tardis svanisce davanti ai miei occhi, accompagnato da quell’assordante rumore meccanico.



Note autrice:
Bene, non credo di aver molto da aggiungere, a parte ringraziare tutti i seguiti, i preferiti e chi mi recensisce ogni volta, facendomi venire ogni volta la voglia di scrivere sempre più spesso.
Spero che questo aggiornamento sia di vostro gradimento, al prossimo capitolo!

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Capitolo 7
*** Grazie Dottore ***


Grazie Dottore



Sono passati due giorni dall’incredibile viaggio col Dottore sul suo Tardis. Non lo vediamo né sentiamo da quel giorno, ciò vuol dire che non ci sono novità riguardo agli Angeli, e quello che ci resta da fare adesso è solo aspettare.
Tracy ed Amber non si sono più fatte sentire, ma Lestrade ha detto che ogni tanto viene contattato da loro solo per sapere gli sviluppi dell’indagine poi, quando capiscono che non abbiamo informazioni, mettono giù con un sospiro rassegnato.

Per il momento ho deciso di non riferire nulla riguardo agli ultimi eventi capitataci. Nulla riguardo al Dottore, nulla riguardo agli “assassini solitari”… almeno finché non avremmo avuto delle prove concrete e soprattutto credibili, data la natura fantascientifica della situazione. Anche John era d’accordo sul mantenere il silenzio per lo stesso motivo.

Oh, a proposito di John! Ha ripreso a scrivere sul suo blog dopo mesi e mesi. Ovviamente non racconta nulla di queste assurde avventure. Ha parlato del caso Jefferson, tralasciando tutti questi stranissimi elementi che avrebbero potuto far nascere il sospetto dell’esistenza di qualche creatura aliena. Poco fa l’ho letto. Il modo in cui mi ha descritto mi ha fatto sorridere come un ebete di fronte allo schermo del portatile. Il modo in cui ha cambiato il corso degli eventi per far sembrare che io avessi già la soluzione in tasca, per non farmi apparire come l’idiota senza alcuna delucidazione che sono realmente stato sulla scena del rapimento.

È bello sapere che tu mi veda così, John…

Quando è rientrato a casa dopo il suo turno in ospedale, mi è sembrato più rilassato e contento del solito. Fischiettava come quella volta in cui preparava il tè quando tutto è cominciato.

Mi sono soffermato a guardarlo a lungo, pensando all’ultima frase che il Dottore mi aveva detto prima di andare via:

“Io inizierei con una bella cenetta.”

Non sono ancora del tutto sicuro, neanche dopo la nostra chiacchierata sul Tardis, di volerne parlare con John. La paura di perderlo per colpa mia mi attanaglia e mi costringe a mantenere il silenzio, a continuare a farlo andare avanti con la sua vita, mentre io me ne sto in disparte ad osservare.

Ma ho anche analizzato la possibilità di potergliene organizzare una. Non avrei dovuto per forza dirglielo. Magari sarebbe stata un’occasione per non fargli pensare a nulla.

Al diavolo, ora o mai più.

- Il latte è finito. – Mormoro a bassa voce mentre scorro la mail di Lestrade con le foto del giardino dei Jefferson.

- Ero sicuro di averne comprato due confezioni, ieri. –

- Le ho finite. – Il suo silenzio mi fa intuire che sta cercando ogni modo possibile per non mandarmi a quel paese o picchiarmi.

- Le hai finite? – Mi chiede con notevole stupore nella voce, dopo qualche secondo di silenzio.

- Un esperimento. – Lui sbuffa contrariato. Molti dei miei comportamenti sono esasperanti, ma so che è una parte di me che adora, nonostante io lo faccia impazzire. Se no perché sarebbe ancora qui con me?

Lo vedo afferrare la giacca ed infilarsela velocemente, mettere il portafoglio in tasca insieme alle chiavi e raggiungere a passo svelto la porta delle scale, mormorando maledizioni incomprensibili e facendomi sbucare un leggero sorriso divertito sulle labbra mentre lo sento uscire in strada.

Solo quando mi sono assicurato che se n’è andato, mi alzo dalla sedia quasi di scatto, come se fossi stato lanciato all’improvviso da una molla collocata sulla sedia. Richiudo velocemente il portatile e a passo spedito raggiungo il piano di sotto fino ad arrivare all’appartamento della signora Hudson. Busso alla sua porta con insistenza e sbuffo per la sua lentezza nel raggiungerla.

- Sherlock caro, ho una certa età! – Dice in tono stupito mentre si fa da parte per farmi passare. Sul tavolo c’era la spesa che lei aveva fatto per me. L’avevo pregata di comprare tutti gli ingredienti di cui avevo bisogno e di tenerli nascosti nel suo appartamento fino al mio arrivo. Quando mi ha chiesto il perché di quello strano favore, ho risposto soltanto che dovevo cimentarmi in un esperimento… ma la mia padrona di casa sapeva essere un tipo abbastanza curioso.

Sbircio all’interno e analizzo con lo sguardo tutti gli ingredienti, rendendomi conto che erano proprio quelli giusti… il latte di cui mi ero liberato e che avevo usato come scusa per far uscire il mio coinquilino era proprio lì in mezzo a tutte quelle leccornie.

- Hai bisogno di una mano? – Mi chiede con quella voce da madre dolce e gentile, mentre io afferro le buste per portarle al piano di sopra.

- Non ce n’è bisogno. – Detto ciò, con considerevole fretta, raggiungo le scale ed inizio a salirle, raggiungendo in poco tempo il piano di sopra e sbuffando nel sentire le raccomandazioni della signora Hudson che ha osservato curiosa e preoccupata il mio tragitto verso il mio appartamento.

- Mio caro, se devi cucinare qualcosa, cerca di non far incendiare l’edificio! –

Per l’amor del cielo, sono un ottimo cuoco! Beh, almeno ci provo… d’accordo, è una cosa che nessuno sa, ma anche io ne sono capace. Mi è servito per un caso: Il killer che cercavo quella volta (successe molto prima di conoscere John) stava progettando di uccidere il suo insegnante di corso. Io lo avevo capito tramite degli indizi molto evidenti che Lestrade e tutti i suoi poliziotti al seguito non avevano intuito. Sapevo che si sarebbe iscritto a quel corso di cucina, ma non avevo ancora idea di chi tra tutti gli allievi era il nostro assassino. Quindi mi iscrissi anche io, sotto il nome di James Foreman, e partecipai a tutte le lezioni di cucina, in attesa di un’eventuale mossa da parte del misterioso omicida.

Accadde nell’ultima lezione, il giorno della prova finale. Ognuno di noi doveva preparare un pasto completo e presentarlo ad una giuria di fama internazionale. Io ero l’ultimo che si sarebbe dovuto presentare… il primo era un certo Troy Dorn, uomo di cui avevo sospetti fin dal primo momento in cui lo vidi, ma dovevo aspettare una prova tangibile e mi arrivò proprio quando stava entrando nella sala a presentare agli chef la sua portata culinaria. Il carrello in cui la trascinava era molto sospetto. Sotto la tovaglia, infatti, vi era nascosto un fucile da caccia che l’uomo non esitò a tirare fuori quando fu davanti all’organizzatore del corso. Per fortuna, alle lezioni portavo sempre con me una pistola e, quando mi accorsi del pericolo imminente, la tirai fuori e lo centrai sul polpaccio, facendogli cadere l’arma dalle mani mentre si accasciava per il dolore. In poco tempo arrivò la polizia e lo arrestò… di solito Scotland Yard non era così veloce, per questo chiamai Lestrade molto prima che il danno accadesse, convinto al cento per cento che avrei fermato il signor Dorn.

Come mai voleva uccidere l’organizzatore? Indovinate un po’! Problemi di cuore. A quanto pare la donna di Troy era finita nel letto del professore del corso, nonché organizzatore, e Dorn sentiva l’imminente bisogno di vendicarsi. Quindi, si informò sul suo conto e scoprì che avrebbe tenuto delle lezioni di cuicna, un ottimo scenario per poter mettere in atto il suo piano che, sotto il mio punto di vista, era del tutto scontato e stupido.

Ebbene, quel corso è stato molto utile perché ho imparato qualcosa… anche se, effettivamente, non avevo mai mostrato queste mie capacità né a John, né alla signora Hudson… né a nessun altro.

Ovvio che per cucinare avrei sprecato molto più tempo di quanto pensassi, e John avrebbe dovuto comprare soltanto due confezioni di latte, impiegandoci al massimo 45 minuti, data la distanza del supermercato. Ma avevo calcolato tutto. Con una telefonata avevo chiesto a Mike Stamford di raggiungere il supermercato e di fermarsi a chiacchierare e bere qualcosa con il mio amico, così da fargli perdere tempo, e Mike è stato felice di aiutarmi.

In poco tempo, tiro fuori ogni cosa dalle buste e mi do da fare. È vero che il giorno della prova finale al corso di cucina non ebbi il tempo di far assaggiare le mie preparazioni alla giuria, ma sono convinto che quei piatti fossero venuti a regola d’arte, perciò avevo deciso di riprepararli per l’occasione: Ravioli ai gamberetti e filetto in salsa di funghi… i due piatti che, non per vantarmi, sapevo preparare meglio.

Quando ho finito di cucinare, preparo la tavola meglio che posso, sistemando le posate, i piatti ed i bicchieri, cercando di imitare John quando lo faceva. Sarebbe stato felice di poter mangiare finalmente in cucina e non in salotto per colpa dei miei strumenti scientifici che ogni volta occupavano il tavolo.

Sistemo tutto nei piatti e poggio la bottiglia di vino bianco al centro del tavolo appena in tempo, perché cinque minuti dopo John ha già aperto la porta al piano inferiore.

- Scusa se ci ho messo tanto! – Dice a voce alta per farsi sentire mentre io mi poggio soddisfatto al ripiano della cucina. – Fuori dal supermercato ho incontrato Mike Stamford e ci siamo fermati per una birra a… - Sembra sconvolto e sul punto di svenire quando vede la tavola apparecchiata con le pietanze pronte per entrambi. Il suo sguardo si alterna dal piatto a me che verso il vino nei due bicchieri, noncurante della sua espressione sorpresa.

- Lo so, John. Adesso perché non metti le confezioni a posto e non ti siedi? – Mi guarda come se fossi ubriaco, o strafatto. Ammetto di aver sentito la mia voce tremare leggermente quando ho pronunciato quella frase… ma poco importa. Spero solo che non se ne sia accorto, che la smetta di fissarmi in quel modo così sconcertato e che si sieda per mangiare. Non credevo che la sua reazione potesse essere così snervante.

- Hai ordinato del cibo da qualche parte? – Mi chiede mentre poggia la busta sul pavimento accanto alla porta.

- Ho cucinato io. – Mormoro mentre poggio la bottiglia sul tavolo e porto le mani dietro alla schiena.

- Ok, che ci hai messo dentro? A cosa devo fare da cavia? – Si avvicina con fare indagatore al suo posto ed ispeziona con lo sguardo e con l’olfatto ciò che io avevo preparato. Quando i suoi occhi sono su di me, poco dopo, lo vedo improvvisamente cambiare espressione, e so anche perché. Le sue parole mi avevano ferito. Beh, era vero che io sperimentassi delle soluzioni per poi fargliele ingerire, ma non questa volta.

- Volevo solo essere gentile. – Il mio tono ferito diventa grave e infastidito, mentre mi allontano a passo pesante dalla cucina per afferrare in modo poco carino il mio violino. John mi segue preoccupato e poggia una mano sulla mia spalla, notando la mia evidente rabbia.

- Sherlock, non volevo. Mi dispiace, è che non avevo idea che sapessi cucinare. È stata una reazione… spontanea. – L’archetto del violino rimane immobile sulle corde mentre lo guardo dal riflesso della finestra. È veramente dispiaciuto.

- Davvero? –

- Davvero. – La sua risposta riesce a calmarmi e metto giù sia il violino che l’archetto. – Allora… mangiamo? – John annuisce ed insieme ci accomodiamo al tavolo. Lui guarda curioso il piatto ed afferra la forchetta.

- Devo dire che ha un profumo fantastico. – Quando, poco dopo, assaggia il primo boccone, il suo stupore è così tanto che sono convinto abbia trovato qualcosa che non va nei ravioli, quindi ne assaggio un po’ e lo mastico con attenzione.

- Non mi sembra faccia così schifo, John! – Lui pare risvegliarsi da un momento all’altro e scuote la testa ridacchiando.

- No, no, è che… è davvero eccellente, non credevo sapessi cucinare! Non lo hai mai fatto… - Sorride, in quel modo così bello che adoro e che mi ripaga di tutta la fatica sprecata ai fornelli. Gli sorrido anche io, senza nemmeno rendermene conto. Le azioni e le reazioni spontanee nei suoi confronti sono aumentate così tanto ultimamente che mi stupisco di me stesso.

Iniziamo a parlare del più e del meno, gli racconto di come ho imparato a cucinare, del caso che mi aveva spinto a seguire il corso, del modo in cui avevo catturato l’omicida. Durante le mie spiegazioni lui mangia con piacere ciò che ho preparato e noto con mio grande stupore che gradisce ogni singolo boccone fino alla fine.

Poi i nostri discorsi si spostano su altro. Mi parla dei suoi pazienti, della sua chiacchierata con Mike ed infine di ciò che ha provato quando ha visto l’universo seduto con le gambe a penzoloni su una cabina della polizia. Sono quasi affascinato da come descrive i suoi sentimenti, ed il sorriso non abbandona le mie labbra nemmeno per un secondo, e nemmeno il suo lo fa. Sembra così felice. Soprattutto quando nota le confezioni di latte che io avevo nascosto sul ripiano della cucina. Ha capito che era una scusa bella e buona per la riuscita della mia sorpresa, ma da un certo punto di vista ne è felice, perché non mi rimprovera come al solito, ma sorride e fa finta di nulla, grato di ciò che ho fatto per lui.

Grazie Dottore.

La serata finisce con quantità eccessive di vino bianco, e posso dirlo perché in questo momento stiamo ridendo senza alcun motivo, e ridiamo così tanto da sentire le lacrime agli occhi.

Non ricordo cosa è successo dopo, ma mi sono risvegliato sul divano, con la testa poggiata sulle gambe di John. Mi alzo di scatto, quando me ne accorgo. Non ricordo come sono finito ad addormentarmi sulle sue gambe, la mia mente è ancora confusa. Lui sta dormendo profondamente. La testa all’indietro e poggiata allo schienale, la bocca semiaperta. Sento ancora il sapore del vino bianco in bocca e mi metto in piedi con fatica. La testa mi gira e sono costretto a toccarmi le tempie e massaggiarle per cercare di ritrovare un minimo di lucidità e di alleviare il dolore.

Quando ho messo a fuoco per bene la stanza e i suoni attorno a me, a parte il respiro profondo di John, la suoneria del mio cellulare, forte ed insistente, mi fa strizzare gli occhi. Il mio amico si sveglia di soprassalto e viene sopraffatto immediatamente dal mal di testa. Lo capisco dai suoi lamenti sommessi e dalle sue dita sulla fronte.

- Sh… Sherlock Holmes! – Mormoro quando rispondo alla chiamata senza neanche controllare il nome sullo schermo… mentre cado seduto sulla sedia.

- Sherlock, abbiamo un problema. –

- Riguarda il caso Jefferson? – Dico, improvvisamente interessato al suo tono preoccupato.

- Devi venire in obitorio, abbiamo un cadavere che dovresti controllare. –

- Mh… di che si tratta? – John si alza traballante dal divano e cerca di raggiungermi senza inciampare nei suoi piedi. Arriva proprio di fianco a me, tenendo le mani ben ferme sul tavolo mentre mi osserva curioso.

- Tracy Jefferson è morta. -



Note autrice:

Mi perdonate il ritardo vero? In fondo è solo un giorno. Stavo per pubblicare ieri ma ho avuto un guasto al computer e non ho potuto.
Ma eccolo qui, spero vi piaccia, a presto!

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Capitolo 8
*** John, devo confessarti una cosa ***


John, devo confessarti una cosa



Il corpo è steso sul tavolo dell’obitorio, ricoperto solo da un lenzuolo bianco. Molly si sta avvicinando per rimuoverlo e farci controllare il cadavere. Quando ne abbiamo la piena visibilità, John emette un mugolio infastidito e decisamente scioccato alla vista di quel volto. Tracy ha gli occhi sbarrati ed il terrore dipinto in faccia. Perfino Molly sembra turbata da quell’espressione perché fa di tutto per evitare di incontrare quello sguardo terrorizzato.

- Lo avete portato adesso dal luogo in cui è morta? – Lestrade annuisce accanto a me, tenendo gli occhi fissi sul cadavere con una nota di dispiacere evidente nello sguardo. – Dottor Watson? – Mi rivolgo al mio amico, che è ancora turbato. Lui capisce all’istante e si avvicina al corpo per ispezionarlo.

- Non c’è nulla che faccia capire che sia stata uccisa da una seconda persona… e a prima vista è evidente che sia morta di paura. – Comunica John, dopo aver controllato per bene il corpo. – Soffriva di attacchi di panico, probabilmente. –

- Deve aver visto qualcosa di… - Non finisco la frase perché… non so proprio come continuarla. Adesso che so dell’esistenza di alieni e creature sovrannaturali, le possibilità possono essere infinite. – Qualcuno ha assistito? –

- La sorella Amber, è qui fuori ma è troppo spaventata per parlare, non ha emesso un suono da quando siamo partiti. – Dice Lestrade mentre io mi avvicino e con la mia piccola lente d’ingrandimento inizio a cercare qualche traccia utile… non noto nulla di rilevante.

- Andiamo a parlare con Amber. – Dico mettendo di nuovo la mia lente in tasca. Riesco ancora a sentire il sapore del vino bianco e la testa girare ma sono abbastanza lucido da capire ogni cosa.

- Sherlock, è molto scossa e dalla paura non ha emesso un fiato. Ti prego di non turbarla ancora di più. – Faccio un gesto noncurante con la mano e, seguito da uno John rassegnato dal mio solito comportamento, raggiungiamo con passo spedito la giovane che si trova in sala d’aspetto.

Il suo viso bianco come un lenzuolo non promette bene. Non piange, non ha nessuna espressione. Sta fissando un punto indefinito della parete che ha di fronte. Accanto a lei è seduta un’infermiera che le accarezza la spalla per incoraggiarla, mormorandole parole dolci e, se posso dire, inutili. Non si può far sollevare il morale ad una ragazza così distrutta in quel modo. Che odio quell’infermiera, è completamente inutile lì, perché non va via?

- Ciao Amber. – Lascio che sia John a parlare per primo. Lui è capace di utilizzare un tono ed un modo di comunicare adatto alla situazione… io no.

Lui è il cuore e tu la mente, Sherlock!

Io avrei semplicemente chiesto l’accaduto, rischiando di traumatizzarla ancora di più… che complicazione parlare con gli essere umani normali!

- Che ne dici se ci alziamo e camminiamo un po’? Possiamo anche uscire dall’ospedale, se ti va. – Noto che l’infermiera ha lanciato uno sguardo di rimprovero rivolto a John. Io faccio lo stesso verso di lei. Per l’amor del cielo, se ne vada e lasci che lui faccia il lavoro che lei non è in grado di fare. – Ti va? In questo momento non mi sembra che l’ospedale sia un luogo adatto al tuo stato d’animo. – Detto ciò, allunga la mano verso di lei ed attende, sotto lo sguardo contrariato della donna che ancora prova a sollevare Amber con delle stupide carezze sulla spalla.

Poco dopo, quest’ultima solleva lo sguardo verso John. Nei suoi occhi vedo il vuoto, il trauma ed il dolore. Afferra la mano di John e senza dire altro si alza. John le sorride, ma lei per risposta si porta una ciocca di capelli dietro all’orecchio… poi lo segue ed insieme ci avviamo verso l’uscita.

Durante il tragitto riesco a percepire i passi dell’infermiera che ancora ci segue, convinta di poter essere utile al cambiamento d’umore della mia cliente. Scocciato mi giro all’improvviso, facendola fermare con un sussulto.

- Perché non va a fare il suo lavoro, invece di perdere tempo? – Mi guarda come se avessi appena bestemmiato. Poi i suoi occhi furenti mi squadrano dalla testa ai piedi, ed infine indietreggia e si allontana. Faccio un sorrisetto soddisfatto e raggiungo i due all’esterno.

Mi ritrovo dietro di loro a guardare come Amber si aggrappa al braccio di John. Noto che le ha trasmesso sicurezza, che il mio amico ha più capacità di quella sciocca infermiera.

- Adesso, Amber… so che per te è stato difficile, che vorresti cancellare tutto, ma noi abbiamo bisogno di sapere cosa è successo a Tracy. Sei l’unica testimone oculare, e vedrai che appena racconterai tutto sentirai un peso in meno sullo stomaco. – Dal completo silenzio e l’inespressività, la ragazza è passata al pianto disperato per il quale John ha dovuto abbracciarla per un minimo di conforto.

Com’è possibile che riesca a far esternare i sentimenti di chiunque?

- Non ho potuto fare nulla, è successo tutto in un attimo, mi creda. – Esordisce tra le lacrime incessanti.

- Ti crediamo, Amber, non preoccuparti. Devi solo spiegarci. – La ragazza si stacca dall’abbraccio e si passa le dita sotto gli occhi per asciugare le lacrime e cercare di riprendersi, così da poterci raccontare l’accaduto.

Pochi minuti dopo, ci ritroviamo seduti su una panchina, lei è in mezzo, tra me e John. Sta ancora giocherellando con i lembi della sua maglietta quando decide finalmente di cominciare a parlare.

- Ci trovavamo a casa. Stavamo aspettando un pacco importante contenente alcune delle cose di mio padre, ce le siamo fatte spedire da
una nostra zia che viveva nel mio stesso quartiere a Cardiff. Mia sorella era ancora molto scossa, non potevo tornare a casa per prendere gli effetti di papà e lasciarla sola, avrebbe potuto fare qualche pazzia… conoscendo il suo passato di depressione e i suoi attacchi di panico continui. Così ho contattato zia Maggie e ce li siamo fatti spedire.

Il pacco è arrivato in poco tempo e Tracy era uscita fuori a ritirarlo, mentre io sono rimasta sul divano per inscatolare le cose di nostro padre che avremmo donato in beneficienza. Quando mi sono girata verso la porta d’ingresso, mia sorella ha urlato così forte e in modo così straziante che un moto di paura mi ha investita. Il postino era sparito, al posto suo c’era la statua di un angelo terrificante. Teneva le braccia protese in avanti, la bocca spalancata e quei denti… quei denti, dottor Watson, erano così appuntiti. Mia sorella era stesa sul marciapiede, priva di sensi. Quando sono uscita, la statua sembrava essere svanita nel nulla. Ho cercato di rianimare mia sorella in tutti i modi ma era troppo tardi. La paura, alla fine, l’ha uccisa. – Io e John ci guardiamo. Dai suoi occhi capisco che ha avuto il mio stesso pensiero riguardo agli angeli e alla fine che il postino ha probabilmente fatto.

Dopo quel racconto, passiamo un altro po’ di tempo con la ragazza, poi John le raccomanda di tornare a casa a Cardiff il più presto possibile, dopo i funerali della sorella. Non avremmo voluto sicuramente un’altra vittima.

- La vista dell’angelo alle spalle del postino deve averla proprio terrorizzata tanto! Hai visto in che stato era la faccia del cadavere di Tracy, no? Povera ragazza. – Io e John ci troviamo da Angelo, adesso. Prima di tornare a Baker Street abbiamo deciso di fare un veloce pranzo fuori. La cosa che John ha trovato buffa è stato il fatto che invece del solito vino, ho ordinato una semplice bottiglia d’acqua, ancora tormentato dalla sbronza della sera prima. Ma posso dire che ne è grato anche lui.

Io non rispondo. Mi limito a battere nervosamente le dita sul tavolo e a guardare fuori dalla vetrina, sperando di vedere da qualche parte quella dannata cabina blu. Il mio piatto è ancora pieno, non ho toccato neanche un boccone di cibo.

- Sherlock! –

- Mh? – Mormoro senza smettere di controllare ogni angolo della strada, in attesa di sentire il suono stridente della sua nave.

- A che pensi? – Chiede poggiando le posate sul piatto quasi vuoto, con un tintinnio che riesce a risvegliarmi dalla mia distrazione.

- Lui dovrebbe essere qui. Dovrebbe impedire tutto questo. – All’inizio sembra non capire a chi o cosa mi riferisco, poi emette un sospiro ed incrocia le braccia al petto, puntando lo sguardo sulla strada.

- Lo sai che sono veloci, sfuggono sempre. Li hai visti anche tu. – Con una forza quasi disumana, afferro e infilzo la forchetta nella mia bistecca, tagliandola con uno sbuffo rabbioso e portandola subito dopo alle labbra. John mi guarda con un sopracciglio alzato. Forse non mi ha mai visto così nervoso, e i sensi di colpa si accumulano in fretta perché posso capire che per una persona come lui, vedermi in questo stato potrebbe risultare come un peso.

Prima non sapevo nemmeno cosa fossero i sensi di colpa.

Per un attimo mi viene in mente il nostro viaggio con la cabina, quando abbiamo visto parte del Sistema Solare in tutto il suo splendore. Tornati a Baker Street, ho aspettato che John si addormentasse, poi ho chiamato Mycroft. Gli chiesi se potesse procurarmi alcuni libri che parlassero proprio dell’Universo, dei pianeti, della Terra. Per poco non mi prese per pazzo, mi chiese a cosa mi servissero e come al solito fui molto vago. Decise poi di non insistere oltre e me li procurò in pochissimo tempo.

Di solito li leggevo quando John non c’era, o durante la notte quando il sonno non voleva saperne di arrivare.
Dovetti ricredermi dal fatto che conoscere qualcosa su un argomento simile non potesse essermi utile per dei casi… e poi è un argomento che John adora.

Possibile che io stia facendo tutto questo per lui?

Il pensiero di quell’esperienza mi tranquillizza per un attimo, ma un’improvvisa voglia di parlare, di esprimere tutto ciò che sento inizia ad attanagliarmi e parlo quasi senza pensarci su un attimo.

- John, devo confessarti una cosa, una cosa che non ti ho mai detto. – Solo dopo mi rendo conto di quello che la mia bocca ha fatto uscire fuori. Lo vedo guardarmi incuriosito ed io mi immobilizzo lì, con le labbra semiaperte e la forchetta ancora infilzata al boccone che di lì a poco avrei mandato giù.

Per un attimo mi sembra di tornare indietro a quella volta in cui ci siamo salutati in aeroporto, quella volta in cui avrei voluto parlare ma… alla fine ho cambiato idea.

“John, c’è una cosa che dovrei dirti. È tanto che volevo dirtela e non l’ho mai fatto. Dato che è improbabile che ci incontreremo di nuovo sarà meglio dirtela ora.”

Il pancione di Mary mi fece cambiare idea.

- Che cosa? – Mi incalza, mostrando la sua improvvisa preoccupazione per il mio cambio totale di espressione.

Sherlock, inventati qualcosa, e in fretta!

- Io… ho capito che… che il Dottore è l’unica persona che potrebbe risolvere questo caso. – Mi ero salvato, sì… ma ero riuscito a sminuirmi con una sola frase, a farmi sembrare un incapace, una persona non in grado di lavorare senza l’aiuto di un esperto.
Lui sorride e porta il boccone alle labbra. Dopo averlo mandato giù, emette una leggera risata.

- Lo avevo già capito. –

No John, non hai capito nulla. Grazie al cielo non hai capito nulla.

Arrivati al nostro appartamento e varcata la soglia del salotto, davanti a noi si erge la cabina blu che tanto speravo di vedere in strada.

- Dovremmo abituarci a questa cosa? – Chiede John con un pizzico di sarcasmo nella voce. Io sollevo leggermente l’angolo delle labbra, formando un sorriso sghembo di cui lui, per fortuna, non si accorge.

La porticina si apre con un cigolio fastidioso, da essa sbuca la testa buffa del Dottore che ci squadra da capo a piedi. Questa volta non porta gli occhiali e posso benissimo vedere quanto quegli occhi anziani contrastino con la sua eterna giovinezza esteriore.

- Oh, avete già saputo, immagino. – Dice con tono grave. Poi sospira e si fa da parte, invitandoci ad entrare. – Povera Tracy, povera povera Tracy. – Dice mentre io richiudo la porta alle nostre spalle. Lui è già ai comandi del Tardis ad armeggiare fra tutte quelle leve.

- Perché sei qui? – Chiedo mettendo le mani nelle tasche del mio lungo cappotto.

- Gli Angeli mi sfuggono in continuazione, sono troppo veloci per me. Ho pensato che, dato che sembrano attratti da voi e dal vostro appartamento in modo particolare, potrei usarvi come esca… e poi la tua mente geniale potrebbe essermi d’aiuto. – Tutto questo lo dice mentre si cimenta a tirare una delle leve, facendo stridere rumorosamente il Tardis.

Non so se sentirmi onorato per aver definito geniale la mia mente, o offeso per il fatto dell’esca…

- Hai seguito il mio consiglio, ho visto. – Mormora a bassa voce per fare in modo che solo io capissi a cosa si stesse riferendo. Avrà visto i piatti sporchi ed ancora in disordine in cucina. Guarda prima John e poi me, con un leggero sorrisetto ad increspargli le labbra, poi ridacchia e non mi dà nemmeno il tempo di poter dire qualcosa, perché inizia a parlare ininterrottamente:

- Sherlock Holmes, il grande detective. Lo sai che in un universo parallelo sei il protagonista di un libro ambientato nell’ottocento? Oh, sì. Li ho letti tutti. Il mio preferito è quello del Mastino dei Baskerville. Non immagini che ammirazione ho per i tuoi metodi, sono un tuo grande fan… - Io e John ci guardiamo senza capire nulla, stupiti e sconcertati. Universi paralleli? Di che diamine sta parlando?

- Che cosa? – chiede John sorpreso.

- Oh… oh, giusto, forse non avrei dovuto dirvelo. Sono cose che non posso rivelare, in effetti. Oh beeeh, fa niente. Fate finta che non abbia detto nulla. Meglio andare. – Decidiamo di tralasciare quella discussione (anche se, devo ammetterlo, mi ha parecchio lasciato incuriosito… e lo stesso John), adesso sono più curioso di sapere dove stiamo andando.

- Dove andiamo? – Lui accenna un sorriso triste, sembra che la sua euforia lo abbia abbandonato in un istante.

- A parlare con Joseph. –

- E sarebbe? – Chiede John, al posto mio.

- Il postino! – Risponde lui guardandoci come se la risposta fosse la più ovvia del mondo.




Note autrice:
Nulla da dire, a parte che ho scritto questo capitolo in una sola giornata e di fretta, quindi mi scuso se ci sono errori o "orrori" (anche se ho riletto, ma non si sa mai).
Un bacio a tutti e grazie a voi, che sopportate e supportate questa storia!

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Capitolo 9
*** Adesso non ti resta che sorprenderlo ***


Adesso non ti resta che sorprenderlo



Con un leggero scossone, il Tardis atterra, facendomi reggere al corrimano. John, invece, rimane immobile su due piedi, nemmeno il brusco arrivo riesce a farlo traballare.

Dopo aver armeggiato fra i comandi, il Dottore tira fuori da dietro la console una grande borsa a tracolla, che indossa senza alcun problema, poi afferra il suo rivelatore di tempo transitorio e lo accende.

- Allons-y! – Dice poco prima di raggiungere la porta. Sta per aprirla, quando si gira verso di noi e ci guarda preoccupato. Non capisco perché, ma poco dopo riprende a parlare per spiegarci il motivo: - Quello che vedrete appena usciremo da qui potrebbe causarvi… un piccolo shock, quindi mantenete la calma e restate dietro di me, non lasciate il gruppo per nessun motivo al mondo. Sono stato chiaro? – Il suo dito punta verso di me e, poco dopo, anche verso John, che ha aggrottato le sopracciglia senza capire.

- Sei tu l’esperto. – Mormora quest’ultimo portando le mani nelle tasche dei jeans. Il Dottore, quindi, si gira nuovamente verso la porticina cigolante e la apre.

Lo seguiamo fuori, io esco per ultimo. Siamo a Baker Street. Riconosco la facciata del mio appartamento e l’ingresso di Speedy’s… ma non è come mi aspettavo, affatto. Al posto delle auto ci sono grandi carrozze trainate da cavalli possenti, guidate da cocchieri con grandi mantelli neri, le donne indossano lunghi vestiti e strani cappelli con degli ornamenti bizzarri, gli uomini elegantemente vestiti con il panciotto e la bombetta ben ficcata sulla testa. Tutto intorno a me ha assunto quell’aspetto vittoriano che io e Watson avevamo visto ed appreso solo tramite i libri di storia.

- Londra, 1878. Riconoscerete la facciata del vostro appartamento, immagino. – Dice lui distrattamente, concentrato solo ed unicamente sul congegno che teneva in mano.

John ed io non riusciamo a credere ai nostri occhi. Sento che nel mio palazzo mentale si sta per erigere un’altra stanza dedicata ai viaggi nel tempo. Le cose che io credevo impossibili e appartenenti soltanto alla fantascienza e all’immaginazione delle persone stupide e dei bambini, adesso si sta verificando sotto i miei occhi, adesso lo sto vivendo in compagnia di un Dottore strampalato e dell’uomo di cui mi sono infatuato senza alcun preavviso.

John sorride incredulo mentre si guarda intorno. Poi, scosso da qualche moto di eccitazione del momento, mi afferra la manica del cappotto e scoppia in una risata stupita. Io sono immobile, invece. Ormai i miei occhi ne hanno viste di tutti i colori. Sembra quasi che il Dottore si stia divertendo a prendere la mia mente e tutte le cose che ritenevo normali e ordinarie fino a qualche giorno prima, ad accartocciarle e a gettarle via come carta straccia, per sostituirle con delle cose assurde che non stanno né in cielo né in Terra.

Eliminato l'impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità.

A quanto pare non avrei più potuto eliminare l’impossibile.

- Oh, trovato! – Esclama il Dottore iniziando a camminare con velocità lungo il marciapiede. Per un attimo io e John rimaniamo immobili, ancora scossi dal viaggio nel tempo che avevamo appena fatto. Poi iniziamo a seguirlo a passo svelto fino ad un vicolo in cui, dopo un ding ben distinto del suo rivelatore, troviamo appoggiato alla parete dell’edificio un uomo con degli abiti completamente contrastanti con l’epoca vittoriana… come noi, d’altronde.

- Joseph! – Il Dottore gli si avvicina a passo svelto. L’uomo è seduto sull’asfalto e si massaggia le tempie con una faccia piuttosto scossa, l’espressione dolorante. Sembra esausto.

- Lei chi è? – Chiede il postino (a giudicare dalla sua divisa), mentre lo guarda con quella leggera punta di fastidio nella voce. Dopo pochi secondi, cerca di alzarsi puntellando le mani sull’asfalto, ma è così stremato che ritorna nella sua posizione iniziale all’istante.

Sento, nel medesimo istante, che l’istinto medico di John si sta risvegliando. So che vuole sapere cosa c’è che non va in quell’uomo, che vuole visitarlo per dargli una diagnosi e consigliarlo sul cosa fare per stare meglio. Infatti, sta per avvicinarsi ma il Dottore solleva una mano, come a dirgli di stare al suo posto. Il gesto lascia John insoddisfatto, ed irrita me per non so quale assurdo motivo.

- No no, Joseph, non muoverti. I viaggi nel tempo senza capsula sono devastanti, sta giù e cerca di riprenderti. – Il Dottore, a quanto pare, aveva già una diagnosi accurata per l’uomo. Era proprio Joseph, il postino che stava consegnando il pacco a Tracy ed Amber, scaraventato nel 1878 da un angelo piangente.

Il restante del tempo lo passiamo ad ascoltare il Dottore che spiega al mal capitato ciò che gli è successo. Quello sembra non crederci all’inizio, ma vedere la gente che lo circonda riesce a convincerlo. Gli viene consegnata dal nostro amico la borsa con cui aveva lasciato il Tardis. Dentro, a quanto pare, c’è tutto l’occorrente che servirà al povero Joseph per adattarsi alla nuova epoca, tra cui documenti per una nuova identità da ricostruire per una nuova vita. Infine, gli dice che avrebbe dovuto informare i suoi parenti nel 2016, e di scrivere perciò una lettera che avrebbe consegnato ai suoi discendenti, fino a farla finire nelle mani della sua famiglia. Avrebbe dovuto aspettare 138 anni perché loro la ricevessero.

Lo lasciamo in un’osteria poco lontana, poi gli auguriamo buona fortuna e ce ne andiamo. Il Dottore sembra turbato e triste mentre camminiamo per tornare al Tardis. Ma non sottovalutatemi, riesco a capire il perché del suo stato emotivo. Deve aver vissuto questa situazione parecchie volte nella sua vita. Forse uno dei suoi compiti era proprio questo: aiutare le vittime degli angeli piangenti quando venivano catturate. Vedere gente a cui veniva risucchiata tutta una vita, gente che non aveva avuto il tempo di salutare i familiari, con la consapevolezza che non li avrebbe mai più rivisti… al Dottore tutto ciò pesava particolarmente perché si metteva nei loro panni, e il fatto che non potesse fare nulla per farli tornare nella loro epoca era forse la cosa più dura da sopportare per uno il cui scopo era solo quello di aiutare e di evitare certe cose.

Oh… aspetta! Quei casi che non sono riuscito a risolvere, quelle strane sparizioni… erano perciò dovute agli angeli?

- Hai parlato di universi paralleli sul Tardis. – Dice John mentre si guarda curioso intorno.

- Già, non avrei dovuto parlarne. –

- Ma lo hai fatto. – Il mio amico solleva un sopracciglio e lo guarda con l’aspettativa di un’imminente spiegazione, che per fortuna non tarda ad arrivare.

- Esistono diversi universi paralleli. Non è possibile passare da un universo all’altro se non per delle fratture nello spazio tempo. Mi è capitato di dover oltrepassare queste fratture per… - il Dottore smette di camminare ed inizia a fissare il vuoto. La tristezza emerge per un attimo dal suo viso. Qualcuno di importante abbandonato in uno degli universi paralleli, eh?

Scuote poi la testa e riprende a camminare, raccontando il resto come se nulla fosse successo.

- Beeeeh, sì, in sostanza è un posto dove esistono altri noi con altre vite o altri caratteri completamente diversi. – Mentre lo dice, il Tardis è già a pochi passi da noi. Basta poco affinché lo raggiunga con un passo e che afferri la maniglia della porticina. – So che magari siete curiosi e vorrete farvi un giro in quest’epoca ma… credo che dovremmo dare la priorità agli angeli. Vi prometto che vi farò fare un giro dove volete qualche volta. -

Qualche minuto dopo ci ritroviamo attorno alla console, il Tardis è già in viaggio mentre John ispeziona il rilevatore di tempo transitorio, seduto sulla panca accanto al corrimano.

- Non hai detto una parola. – Osserva il Dottore mentre si sistema gli occhiali sul naso. Le sue mani sono ben ferme sui comandi.

- Non ho niente da dire. –

- Troppe novità per la tua mente geniale, eh? – Lo guardo leggermente irritato dalle sue parole che, mi duole ammetterlo, sono fottutamente vere. – Beh, come è andata la cena? – Cambia totalmente argomento e l’unica cosa di cui mi premuro è controllare se John sta facendo caso al nostro discorso, dato che si parla di lui. Per fortuna, però, sembra del tutto concentrato su altro e non fa caso a noi.

- Semplicemente, è andata. – Lui annuisce ed indica una leva con il dito, che si trova proprio davanti a me. All’inizio non capisco a cosa voglia riferirsi, poi mi rendo conto che vuole che io la sollevi, e lo faccio senza pensarci un attimo. La navicella atterra ed il Dottore si spolvera per bene le mani prima di raggiungermi.

- Adesso non ti resta che sorprenderlo e poi… buttarti. – Mi lascia due leggere pacche sulla spalla, e dal suo sorriso comprendo che anche lui si era ritrovato in situazioni del genere. L’amore coinvolge gran parte degli esseri viventi, perfino uno come lui… e vista la sua età, avrà avuto tante di quelle esperienze da perderne il conto.

John si avvicina ed io non ho il tempo di dire altro.

- Dobbiamo decidere cosa fare, io ho bisogno di voi e voi avete bisogno di me. Quindi sarebbe meglio che resti nel vostro appartamento per aspettare che gli angeli si facciano vivi. Beeeeeh, sì. Potrebbe sembrare un autoinvito ma è l’unico modo, fidatevi. – John acconsente, senza nemmeno sentire la mia opinione, a patto che lui parcheggi il suo Tardis nella camera di John, in modo da non far prendere un infarto alla povera signora Hudson non appena avesse visto la cabina piombata lì dal nulla.

Quella sera, ognuno decide di dormire nella propria camera. Il Dottore aveva assicurato a John che non sarebbe uscito dal Tardis e che il mio amico avrebbe potuto dormire in tutta tranquillità senza alcun disturbo.

Io non chiudo occhio, non ancora. Ho portato il portatile nella mia stanza, davanti a me c’è la foto della strana roccia che trovai quando Luke scomparve. Apprendo, solo dopo un’attenta analisi, che proviene da uno dei due angeli che ci stanno perseguitando. Il problema è sapere come quel pezzo di roccia si sia staccato dalle creature, visto il loro incredibile sistema di difesa.

Oh, per la miseria, è tutto così affascinante. Non avrei mai detto che questa situazione mi facesse eccitare come un bambino che ha appena ricevuto dei nuovi giocattoli. Imparare nuove cose sembrava dare i suoi frutti. E… mentre leggo con attenzione i libri sul Sistema Solare, mi rendo conto di quanto sia interessante, diversamente da come credevo.

Sono esattamente le 3.17 quando finisco di leggere, ed ormai sono convinto che non riuscirò a prendere sonno per il resto della notte. Mi alzo, avvolto nella mia vestaglia blu, e raggiungo la cucina per preparami del buon tè caldo. Prendo la teiera, la tazza, poggio tutto sul tavolo della cucina e sistemo l’acqua nel bollitore, quando all’improvviso un lamento familiare mi distrae. Proviene dal salotto e si prolunga in un rantolo infastidito. Con cautela mi avvicino alla stanza e, come mi aspettavo, vedo John disteso malamente sul divano. Ha gli occhi socchiusi e le braccia e le gambe sono lasciate andare come capita lungo lo schienale ed il bracciolo. Sopra di lui c’è una coperta troppo piccola per il suo corpo, non lo copre del tutto e lascia scoperti i piedi.

- Che ci fai qui? – Chiedo con un sorriso divertito sulle labbra mentre ritorno in cucina come se niente fosse.

- Quella cabina fa un rumore strano anche quando è ferma. – Mormora con la voce impastata dal sonno.

“Adesso non ti resta che sorprenderlo.”

Lascio che le palpebre si stringano forte mentre immergo la bustina del tè nell’acqua già abbastanza calda.

- Mi rigiravo nel letto ma… non riuscivo a prendere sonno, credevo fosse per il rumore ma appena mi sono sdraiato qui non sono comunque riuscito ad addormentarmi. –

Vai, Sherlock! Non è così difficile, è solo un atto di gentilezza, un gesto per sorprenderlo.

Senza pensarci su un’altra volta, prendo la sua tazza e sistemo il tè, quel poco che avevo fatto per me, all’interno di essa. Metto le sue solite due zollette di zucchero e poco dopo sono davanti al divano a porgergli la tazza fumante, accennando un sorriso ebete.

All’inizio mi guarda come se anche io fossi un alieno, proprio come il Dottore che in questo momento si trova al piano di sopra. È davvero raro che io prepari qualcosa per gli altri, anzi… in realtà non capita mai. John deve reputarmi strano ed insolito dopo la cena che gli ho preparato, e poi quel tè che dapprima era destinato al sottoscritto. Afferra la tazza mentre si sistema seduto sul divano e mi ringrazia con un dolce sorriso che riesce a farmi sentire il latte alle ginocchia. È quasi un miracolo che io non abbia tremato di fronte a lui.

- Non mi sembra che trovi comodo questo divano. – Dico poi, sedendomi accanto a lui che ha già iniziato a sorseggiare il liquido ambrato.

- In effetti è un inferno dormire qui sopra. –

- Puoi dormire nella mia stanza, con me. – Non lo guardo mentre lo mormoro con imbarazzo, tengo gli occhi puntati verso il pavimento e mi torturo nervosamente le mani.

Sto pretendendo troppo, vero? Ho azzardato con questa proposta?

- Non invaderò in alcun modo i tuoi spazi. – Mi affretto ad aggiungere nel sentire il suo silenzio. Poco prima udivo il suo sorseggiare, adesso niente. Le guance mi vanno a fuoco, non capisco perché. Posso solo immaginare cosa stia pensando di me in questo momento, o come mi stia guardando, dato che non ho il coraggio di girarmi verso il suo viso.

- Sherlock, cosa stai cercando di dirmi? – Maledizione ai sentimenti che non riesco a tenere a freno. Errore umano, l’ho sempre detto. Che mi prende?

- Nulla, io… dormirò qui se non vuoi. – Dico senza distogliere lo sguardo dal pavimento. Lui poggia la tazza sul tavolino e sposta il viso di fronte al mio, in modo da potermi guardare dritto negli occhi.

- Non dormirai qui, Sherlock. – La sua mano scivola sulla mia, lasciandoci sopra una tenera carezza con il pollice. Sembra quasi che voglia dirmi qualcosa, ma non voglio illudermi, nonostante la sua reazione mi faccia battere il cuore oltre il limite della sopportazione umana.

- Ma… -

- No, Sherlock. Dormirai con me nel tuo letto. – Non doveva essere lui quello sorpreso, invece che io?



Note autrice:
Ciao ragazzi miei, lo so che sono tremendamente in ritardo con la pubblicazione, ma vi spiego: domani parto e tornerò verso il 13 settembre, quindi in primis ho dovuto prepararmi. Non pubblicherò fino a quel giorno perchè dubito di trovare una connessione wi-fi, però porterò il computer con me e scriverò quando avrò del tempo libero, così al mio arrivo potrò pubblicare subito.
Non volevo lasciarvi senza un aggiornamento prima di partire, quindi eccolo qui.
Un bacio e ci vediamo appena torno!

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Capitolo 10
*** Una sintonia sorprendente ***


Una sintonia sorprendente



Il mio sguardo è puntato verso il soffitto. John è accanto a me, sdraiato allo stesso modo, ma non so se anche lui stia fissando l’intonaco chiaro che ci sovrasta. Sto facendo tutto ciò che mi è possibile per evitare di guardarlo. Mai nella mia vita mi è capitato di essere così in imbarazzo, spero succeda qualcosa che mi tiri fuori da questa situazione ingestibile.

- Un tipo davvero strano, eh? – La domanda di John mi fa sussultare, ero troppo concentrato a sperare che l’imbarazzo andasse via.

- Mh? –

- Il Dottore, non trovi? –

- Non direi, comprensibile. – Sento la stoffa del cuscino sfregare e capisco che si è girato verso di me, mi guarda mentre io ancora non ne ho stranamente il coraggio.

- Scommetto che sai già ogni cosa di lui. –

- Mi sono limitato ad osservare. –

- Beh? – Finalmente mi decido a puntare gli occhi nei suoi. Si è girato sul fianco e ha poggiato il gomito sul cuscino ed il mento sul palmo della mano, in attesa di una mia qualche delucidazione. Il suo sorriso mi fa capire che adora sentirmi mentre gli racconto questo tipo di cose.

Mi schiarisco la voce e, quindi, inizio col mio racconto.

- Dottore, nome fittizio, il suo vero nome è un altro. Nessuno lo conosce e nessuno credo lo conoscerà mai. Nasconde il suo vero nome, non per averne uno d’arte, non per farsi ricordare da quelli che incontra, ma perché ha fatto qualcosa in passato, qualcosa di cui si vergogna talmente tanto da spingerlo a scegliere un titolo come questo, in grado da farlo sentire meno in colpa.

Hai notato i suoi occhi, John? Ho sospettato della sua longevità solo guardandoli. È giovane, come hai notato, ma i suoi occhi sono decisamente più anziani rispetto a tutto il resto. Questo mi ha fatto capire che aveva qualcosa di sovrannaturale, nonostante io sia molto scettico riguardo a cose del genere.

È un uomo solo, ma non da sempre. Ha avuto amici molto cari per lui ma i suoi viaggi e le avventure che affrontava erano troppo pericolose per loro e sono finiti nei guai per colpa sua. Ti ricordi quando ci ha parlato degli universi paralleli? Ad un certo punto ha esitato. Ha lasciato uno dei suoi amici lì per salvarlo, e il modo in cui ha esitato mi ha fatto capire che per lui questa persona era più di un’amica. Viaggia da solo adesso, per evitare di mettere nei guai chi è con lui.

È una persona intelligente, forse la più intelligente che esista. Salva delle vite, evita disastri colossali, aiuta chi ne ha bisogno, in più ha una cabina magica che viaggia nel tempo e nello spazio. È ovvio e palese che delle creature gli danno la caccia per questi motivi. Tutti hanno dei nemici, ma visto la sua intelligenza e le cose che possiede, lui deve averne più di quanti se ne possano immaginare. –

- Straordinario! – Per tutto il tempo avevo continuato a guardare il soffitto, a parlare ininterrottamente, senza fare caso al modo in cui avrebbe reagito. Adesso posso notare il modo in cui ha trovato strabilianti le mie osservazioni, proprio come faceva nel periodo in cui ci siamo conosciuti. Per un attimo ho creduto si fosse abituato a quello che dicevo, non sentivo un “fantastico!” da un bel pezzo. Oggi invece mi ha stupito e sorpreso, come io ho fatto con lui raccontandogli del Dottore.

- Ti fa bene. – Dico incrociando le braccia sopra alla coperta. Lui inarca un sopracciglio, confuso dalla mia affermazione.

- Cosa? –

- La sua presenza… questo caso ti sta aiutando a non pensare. – Potevo sentirmi più inutile di così? Avevo cercato in tutti i modi di distrarlo. Invece è bastato l’arrivo del Dottore per fare in modo che non pensasse al suo oscuro passato.

- Tu dici? –

- Sì. Non ti ho mai visto così felice prima. –

- Lo sarei di più in un altro modo. – Questa affermazione riesce a smuovermi, sento la curiosità salire e opprimermi, ma non voglio esternare nulla e dai suoi occhi sembra che io non abbia affatto cambiato espressione. Sono piuttosto bravo in queste cose, sto imparando a controllare i sentimenti, a quanto pare.

- Come? – Chiedo, fingendo disinteresse, mentre porto le dita congiunte davanti alle labbra e chiudo gli occhi.

- Mh… nulla, lascia stare. – Dal suo tono capisco che l’affermazione di poco fa non voleva dirla davvero, che era solo un pensiero espresso ad alta voce. Ma era una cosa che voleva tenere per sé. – Dovremmo dormire, almeno per qualche ora. –

- Bene, dormi. – Dico mantenendo le dita congiunte e gli occhi chiusi. Lo sento sospirare. Non capisco perché gli dia così tanto fastidio che io non dorma molto come lui.

Il letto si muove e sobbalza ai suoi movimenti, ciò vuol dire che si è girato sul fianco dalla parte opposta. Mi sussurra un “buonanotte” prima di assopirsi lentamente, mentre io resto immobile in quella posizione per un altro po’. Solo quando mi rendo conto, grazie al suo respiro profondo, che si è addormentato, mi volto con la testa verso la sua schiena e sospiro.

John, se solo tu sapessi.

Com’è difficile, com’è complicato finire in situazioni del genere.

Mi viene per un attimo in mente il giorno del suo matrimonio, e la chiacchierata al telefono con mio fratello. Lui la penserebbe come quel giorno, sul fatto che non devo rimanere coinvolto. Se sapesse che il mio interesse verso John è cambiato in questo aspetto, so che riderebbe e mi direbbe di godermi il mio coinvolgimento, e poi farebbe qualche stupido riferimento a Barbarossa.

John non è un cane, per l’amor del cielo!

… ma potrei comunque perderlo.

Non so come né quando, ma riesco ad addormentarmi, e quando apro gli occhi John non è più accanto a me. Le coperte sono scostate e il cuscino è ancora tiepido. Si è alzato da poco.

Metto i piedi sul pavimento e mi massaggio le tempie per un po’, prima di mettermi completamente in piedi e raggiungere la porta. Prima che possa aprirla, sento dei mormorii, due voci familiari che riconosco come quella di John e del Dottore. Stanno parlando a voce bassa e, a quanto pare, il rumore della porta della camera da letto li fa smettere di confabulare, perché all’improvviso odo il silenzio.

Li raggiungo quasi subito, camminando lentamente. Li trovo entrambi in cucina: John è seduto al tavolo, la sua tazza vuota poggiata accanto al suo braccio. Il Dottore è in piedi davanti a lui, che sorseggia del tè caldo.

- Oh, sei in piedi! – Dice accennando un sorriso fintamente sorpreso.

- Un’affermazione alquanto stupida, Dottore. – Mormoro ancora assonnato mentre prendo posto a capotavola. Cavolo, è ovvio che sono in piedi! Non c’è mica bisogno di farmelo notare. So che stavano parlando di me, altrimenti John non eviterebbe il mio sguardo in quel modo. – Farò finta che il vostro argomento di discussione che riguarda me non m’interessi, è rimasto un po’ di tè? – John e il Dottore si guardano leggermente sorpresi, ma cambiano subito espressione. Vogliono evitare a tutti i costi che io ricada sull’argomento, anche se non ne ho proprio l’intenzione per il momento… e comunque saprei cosa fare se volessi scoprirlo.

- Beh, sì. – John accenna un sorriso e mi porge la mia solita tazza, colma del liquido caldo e ambrato. Gli sorrido di rimando e percepisco l’angolo delle labbra del Dottore sollevato mentre assiste alla scena.

Per la miseria, mi ha solo passato una tazza! Possibile che trovi ogni cosa un possibile flirt? Forse è stato il modo in cui gli ho sorriso ad ingannarmi.

- Stanotte, mentre cercavo di addormentarmi, ho fatto qualche piccola ricerca e ho trovato il tuo blog, John. – Il mio amico sembra quasi lusingato del fatto che perfino un alieno si sia interessato del suo operato. Lo capisco dalla sua espressione felicemente sorpresa.

- Cosa ne pensi? –

- Mi è piaciuto molto, e ho apprezzato il modo in cui hai cambiato le vicende di questo caso per escludermi dalla storia. – Il Dottore è sincero mentre poggia la tazza vuota sul tavolino. Nello stesso momento il mio cellulare vibra sul legno freddo del ripiano, e John, leggermente arrossito dalle lusinghe del Signore del Tempo, inizia a giocherellare con il manico della propria tazza.

È un sms. Lo apro:

Sherlock, abbiamo un nuovo indizio da parte di Amber. Se vuoi farti vivo a Scotland Yard ne sarei felice.
GL

- Che succede? – Chiede John allungando il collo per sbirciare.

- Graham ha notizie da Amber Jefferson. –

- Si chiama Greg… -

- Fa lo stesso. – Lo vedo scuotere la testa con quel sorrisino rassegnato, ormai ha capito che con me riguardo a quel nome non c’è più nulla da fare.

Che tipo di indizio?
SH

- Che altre notizie dovrebbe avere? Insomma… sappiamo chi è stato, sappiamo che c’entrano gli Angeli! È… sparito qualcun altro? – Chiede John mentre si accinge a portare tutte le tazze vuote nel lavandino. Il nostro nuovo conoscente, invece, strofina le lenti degli occhiali con un panno.

- Troppo scontato! – Io e il Dottore ci stupiamo nell’aver esclamato quella stessa frase nel medesimo istante. Ci scambiamo un sorriso complice e sorpreso, mentre il nostro amico ci guarda come se fossimo pazzi.

Una foto.
GL

- Una foto. – Dico mostrando l’sms ad entrambi.

- Che foto? –

- Non lo so, John. Andiamo a scoprirlo. – Quella frase da me pronunciata è bastata per far correre tutti a prepararsi.

Il Dottore ci ha suggerito di viaggiare con il Tardis, così da essere più veloci. Infatti, dopo essermi messo uno dei miei soliti completi abbinati con sciarpa e cappotto, ci ritroviamo sulla nave e subito dopo davanti all’edificio di Scotland Yard.

- Chi è lui? – Lestrade sembra quasi infastidito dalla nuova compagnia, ma fa di tutto per non darlo a vedere. Purtroppo non sa che il Dottore è dotato di un quoziente intellettivo elevatissimo, so che si è già accorto del fatto che l’ispettore ha iniziato a storcere contrariato il naso quando lo ha visto.

- Un esperto. – Mi limito a dire a bassa voce mentre raggiungiamo la sala dell’interrogatorio in cui è stata portata Amber. Ed eccola lì, con la testa abbassata, seduta su quella sedia con lo sguardo abbattuto di un cagnolino ferito. Quando mi vede solleva immediatamente il capo verso di me e stringe ancora più forte al petto la foto che tiene fra le mani. La vista del Dottore la fa esitare, probabilmente si ricorda di averlo visto in giardino o semplicemente trova familiare quel viso.

- Amber, il caso adesso è una questione che dobbiamo risolvere noi, e le abbiamo detto che per la sua sicurezza è meglio che se ne torni a Cardiff. – Dico con tono freddo mentre dietro di me, Lestrade, il Dottore e John osservano muti la scena.

- Lo so bene, signor Holmes. Stavo appunto per lasciare la città, ma passando per Hyde Park ieri sera ho scattato questa foto… ho pensato potesse essere utile per le indagini. – Me la porge con un gesto meccanico tenendo, intimidita, la testa abbassata, fissandosi bambinescamente la punta dei piedi. La afferro e faccio cadere lo sguardo sull’immagine leggermente mossa di quello che sembra un Angelo piangente.

- Dottore? – Dico senza voltarmi.

- Lo vedo, oh sì. – Mi prende letteralmente la foto dalle mani. La guarda con attenzione: l’Angelo si copre il viso, è come se fosse nascosto tra i cespugli ad aspettare la sua preda… e quell’immagine è talmente inquietante da mettermi i brividi.

- E se non stesse cercando una vittima? – Dico dopo averci pensato su un attimo. Attiro subito l’attenzione di tutti, perfino quella del Dottore che fino ad un secondo fa era intento a guardare la foto con fare pensieroso.

- Che vuoi dire? – Mi chiede John.

- Se stesse cercando il suo pezzo mancante? Hai detto che la roccia corrispondeva ad un pezzo mancante, no? – Vedo il Dottore illuminarsi, John pensieroso e Lestrade ed Amber confusi.

- Aspetta, ma di cosa state parlando? – Quasi dimenticavo di quanto l’ispettore fosse all’oscuro di quasi ogni cosa. Come posso spiegargli con che cosa abbiamo a che fare? Decido di non dargli retta per il momento, voglio che si fidi di me, gli avrei spiegato tutto quando la cosa si sarebbe risolta. Sicuramente avrebbe trovato qualcosa di ingegnoso da raccontare sulla risoluzione del caso, qualcosa che non includesse il coinvolgimento di alieni… magari poteva prendere spunto dal blog di John.

- Esatto! Oh, Sherlock Holmes, tu sì che sei un genio! – Il livello di entusiasmo di quell’uomo mi fa alzare per un attimo il sopracciglio. – Ci serve assolutamente quel pezzo mancante, oh sì. Amber lei ci è stata utilissima, davvero. – La ragazza non sembra mutare dalla sua espressione confusa nemmeno quando il Dottore la abbraccia con fervore per ringraziarla.

- Io non posso fornire prove ad una persona qualunque! – Dice contrariato l’ispettore. Il Dottore, quindi, sfodera il suo asso nella manica. Dopo avergli mostrato la sua famosa “carta psichica”, Greg sbianca e mormora delle scuse imbarazzatissime, seguite da un “vado subito a prenderle”.

- Che diavolo c’era scritto lì? – Chiede John sorpreso. Il Dottore muove una mano come per dire che non è la cosa più importante da sapere adesso, proprio mentre sistema il portadocumenti all’interno della giacca.

- Adesso dobbiamo solo pensare a prenderli, voi due… spero che vi liberiate da qualunque impegno e che mi seguiate. – Continua il Dottore mentre l’ispettore Lestrade gli fornisce la busta con il pezzo mancante.

- Perché, dove andiamo? – John ci segue all’esterno della stanza, dopo aver lasciato una Amber sbigottita in
compagnia di Lestrade.

- Ad Hyde Park, ovvio. – Stavolta non mi sorprendo della nostra affermazione detta nel medesimo istante.



Note autrice:
E sono tornataaaaaaa! Ho scritto il capitolo mentre ero in vacanza. Fra tre giorni avrete il prossimo, come sempre. Riprendiamo il ritmo di prima che partissi (salvo impegni o imprevisti della sottoscritta).

Spero vi piaccia, a presto!

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Capitolo 11
*** 31 dicembre 1986 ***


31 dicembre 1986



Decidiamo di dirigerci lì la sera stessa, dopo aver sgobbato in giro per il pranzo e passato il pomeriggio ad analizzare le foto, gli indizi e a cercare informazioni, più informazioni possibili sulle creature di pietra. Lo scanner, come lo chiama lui, è molto più funzionante di un qualsiasi altro computer terrestre esistente. Non ne sono sorpreso, visto che lui sa quasi ogni cosa. Ma un’altra delle fonti su cui abbiamo studiato aneddoti su questi assassini solitari è stata la biblioteca che il Dottore teneva ben nascosta sulla sua nave… il Tardis non era solo più grande all’interno, ma aveva anche tutte le stanze che si potessero immaginare. E la biblioteca era così immensa da perdercisi. Abbiamo cercato nella categoria “creature notturne”, in quella riguardante le “creature di pietra”, in quella degli “angeli”, “creature inquietanti”, “sistemi di difesa intelligenti”, e molti altri ancora. C’era un riferimento agli Angeli piangenti dappertutto, ma niente di diverso da quello che già sapevamo.

Quando atterriamo e John spalanca la porticina, mi rendo conto che non siamo affatto a Hyde Park, ma che davanti all’ingresso si trova la porta scura del 221B. L’aria è fresca ed è già buio… il tempo sembra essere passato in un batter d’occhio.

Vedo che John è confuso e non posso nascondere di esserlo anche io. Il Dottore sta ancora girovagando tra i comandi quando entrambi lo fissiamo in attesa di una spiegazione plausibile.

- Ho dimenticato il mio rivelatore di tempo transitorio nella tua stanza, John, ti dispiace? – Lui non accenna ad un minimo gesto contrariato e richiude la porticina dopo che ci ha lasciati da soli. Quando mi giro, il rilevatore si trova sulle sedute accanto al Dottore, intatto e senza alcun pezzo mancante. Allora mi chiedo il motivo di quella scusa assurda.

Il Dottore abbandona la console per un attimo e mi fa cenno di fare silenzio. Sente la porta al piano di sopra aprirsi, segno che John ha raggiunto il salone, e a quel punto rimette le mani sui comandi e solleva la leva. Il Tardis emette quei rumori insopportabili e poi atterra con un sobbalzo.

- Perché? Dove mi hai portato? – Il Dottore porta le mani nella tasca mentre mi raggiunge e si sistema accanto alla porta chiusa.

- Dal primo giorno che ti conosco mi sono sempre chiesto cosa ci fosse che non andava in te. Oh, per carità, sei intelligente e sei un genio, questo è decisamente perfetto. Ma io e te siamo simili. – Non so a cosa voglia andare a parare, quindi continuo ad ascoltarlo, tenendo le braccia distese lungo i fianchi e la fronte corrugata per il dubbio. Odio provare il dubbio. È strano che io non sappia dedurre niente dalle persone molto simili a me. Di persone così, per fortuna infatti, ce ne sono pochissime.

Ecco, siamo simili. A cosa vuoi arrivare Dottore?

- E per questo voglio aiutarti. Entrambi abbiamo subito qualcosa che ci ha resi simili. Vogliamo stare da soli, cerchiamo di allontanare i sentimenti, cerchiamo di non provarne, ma sono cose naturali. Sai meglio di me che certe sensazioni non si possono frenare. Come tu non puoi frenare ciò che provi per John. –

- Cosa stai cercando di… -

- Ti prego, lasciami finire. – Mi interrompe con tono severo, e io taccio come un bambino appena sgridato dalla madre. Cosa c’entra John adesso? Perché gli importa tanto? – Avevo una persona molto importante per me, una persona che mi accompagnava nei miei viaggi. L’ho messa in pericolo e l’ho persa. Si chiamava Rose Tyler. Era così intelligente, coraggiosa, avventurosa... – La mia espressione confusa non cambia, ma riesco a dedurre cosa accadde dopo, e non esito a dirlo.

- Universo parallelo. – Dico.

- Oh, già, a te non si può nascondere nulla. – Il sorrisetto nervoso che gli spunta sulle labbra mi fa rabbrividire, e non so perché.

- E tu l’amavi. –

- Terribilmente. – Risponde lui con occhi sinceri, lucidi, come se stesse per scoppiare a piangere da un momento all’altro. Da ciò posso anche capire che mai era riuscito ad ammetterlo, nemmeno a sé stesso.

Sentimentale.

Anche se… beh, è proprio una cosa spiacevole.

- Per questo mi stai spingendo a buttarmi con John? – Lui non risponde, e lo capisco perché è una domanda con una risposta troppo ovvia. – Non vuoi che perda l’occasione. –

- Ho capito che non vuoi metterlo in pericolo ma non riuscivo a spiegarmi perché. Sì, avrete avuto situazioni terrificanti da affrontare, ma non era quello. Stai cercando di farti avanti, ma qualcos’altro ti blocca. – Fa una pausa abbastanza lunga e snervante, poi lo vedo girarsi verso la console e sospirare pesantemente. – Così ho impostato il Tardis sulla tua linea temporale e, visto che dalla tua bocca non sarebbe mai uscito nulla a riguardo, sono andato a controllare di persona. –

Vuol dire che… oh.

Non dice altro, si limita ad allungare un braccio per aprire la porticina, e capisco che è un invito ad uscire.

Se ha visto ciò che penso, probabilmente mi trovo proprio nel posto in cui tutto è successo, tanto tempo fa. Ma come potrebbe questo aiutarmi? Come quella scena orribile potrebbe sbloccarmi?

Appena metto piede fuori, l’aria gelida mi travolge e sono costretto a stringermi nel cappotto. È buio e l’odore dell’erba tagliata mi fa storcere il naso. Non mi trovo sul luogo che avevo immaginato. Tutto intorno a me è così familiare che mi accorgo che quelli che ho addosso non sono brividi di freddo. Di fronte a me c’è la casa a due piani in cui per tutta l’infanzia ho vissuto. Adesso non appartiene più alla mia famiglia, ma riesco a vederla quasi nuova come lo era trent’anni fa. L’intonaco non è ingiallito, le piante e i cespugli sono perfettamente curati, l’odore e la vista del tagliaerba fa presupporre che un lavoro di giardinaggio era appena stato concluso. Riconosco la finestra, l’unica da cui trapela un po’ di luce, della mia cameretta. Riesco perfino a vedere l’ombra di un bambino riccioluto che legge un libro. Diamine, sono proprio io. Probabilmente è molto tardi, visto che ero solito rimanere sveglio mentre il resto della casa crollava tra le braccia di Morfeo.

Mi giro per un attimo verso il Tardis e, appoggiato alla porta, il Dottore mi fa segno di andare avanti. Riconosco l’albero su cui papà aveva costruito per me e Mycroft quella meravigliosa casetta. Ovviamente ero solito stare lì da solo, oppure costringevo mio fratello a scendere perché volevo i miei spazi. C’è stata una volta in cui lo spinsi giù dalla scaletta, facendogli slogare il braccio. I miei non mi permisero di salirci per un mese intero come punizione.

Percorro il vialetto in pietra chiara che conduce all’ingresso posteriore, ma non del tutto, infatti mi fermo a metà strada quando mi accorgo di essere osservato. All’angolo del giardino vi è un’ombra. All’inizio non capisco di cosa si tratta, ma poi riesco a scorgere la coda scodinzolante, le orecchie lunghe e pelose, il muso, la lingua che sobbalza ad ogni sospiro e il guinzaglio che lo tiene ancorato alla sua cuccia che io avevo completamente dipinto di blu.

Barbarossa.

Rivederlo mi fa rimanere pietrificato, e sono talmente stupito che non mi accorgo del Dottore che adesso è accanto a me.

- Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere rivederlo. So che per quell’incidente non hai avuto modo di salutarlo come si deve. – Ha visto tutto. È tornato indietro nel tempo e ha assistito al momento in cui Barbarossa, dopo essere fuggito dalla paura per colpa dei fuochi d’artificio, fu investito da quel camion. Mi ricordo che lo cercammo ovunque, e che quando lo vidi disteso sulla strada non riuscì nemmeno a reggermi in piedi dalla disperazione. Non avevo potuto salutarlo.

All’inizio mi viene da chiedermi “perché non hai fatto qualcosa per salvarlo?”, ma poi mi rendo conto che come Signore del Tempo è responsabile di qualunque cambiamento. Avrebbe potuto creare un paradosso, come lo chiamava lui.

- Avvicinati. – Mormora il Dottore, dopo aver capito che sarei rimasto immobile a fissarlo senza qualcuno a spronarmi. Mi riesce difficile rispondere, ho prima bisogno di tossicchiare per riprendermi da quella visione.

- Potrebbe non riconoscermi… non mi ha mai visto così. –

- Oh Sherlock! Non sai che darei io per poter rivedere Rose. Smettila e cammina! – Titubante, gli lancio un’occhiata preoccupata. Ma le sue parole mi spingono a fare il primo passo e in poco tempo arrivo davanti al cane, che confuso piega la testa verso sinistra. Probabilmente dal mio odore avrà capito chi sono… Ma sarà strano per lui vedermi cresciuto all’improvviso. Quando ero piccolo come quel piccolo me alla finestra, mi ricordo che per tranquillizzarlo mi bastava chiedergli di mettersi seduto, così lo faccio. Penso che mi abbia riconosciuto subito perché inizia a scodinzolare energicamente e ad emettere guaiti felici. Non esito un secondo prima di mettermi in ginocchio ed iniziare a riempirlo di coccole come non lo facevo da troppo, troppo tempo.

- Ciao, bestiolina. – Non credo di aver mai espresso così tanta dolcezza con una sola frase… ma con quel cane era sempre stato così.

Cosa sono queste gocce che mi stanno attraversando le guance, adesso?

- No, no. Non sono triste, è solo che per te deve essere passata qualche ora, mentre io non ti vedo da trent’anni. Fa un certo effetto. – Sussurro quelle parole mentre Barbarossa inizia a leccarmi le guance, facendomi ridere felicemente e nervosamente allo stesso tempo.

Posso percepire il Dottore ancora immobile accanto a me. Non credo che comunque stia assistendo attentamente alla scena. È un tipo un po’ sensibile. Probabilmente lo stava facendo prima, ma per evitare di commuoversi ha iniziato a guardare altrove, fingendo di fare la guardia nel caso fosse arrivato qualcuno.

- Sai, è proprio bello rivederti, mi sei… -

Mancato.

Non finisco la frase. Sono piuttosto occupato a cercare di mantenere le mie emozioni. Mi mordo le labbra quasi fino a farmi male mentre accarezzo il pelo liscio e appena lavato di Barbarossa. Sento gli occhi bruciare, ma riesco a non farmi sfuggire nemmeno un singolo singhiozzo. Non voglio farlo.

- Hai spento la luce in camera tua, stai per uscire in giardino. Sherlock, dobbiamo evitarlo. È un paradosso troppo grande se lui ti vede. – Vengo quasi strattonato da un braccio, ma io mi ribello quasi immediatamente. Ho capito che potrebbe esserci un pericolo se il piccolo me mi vede… ma ho bisogno di salutare per bene quella creatura senza nessun intoppo.

Inutile, il piccolo Sherlock è vicino.

Mi limito a lasciare un leggero bacio sulla testolina del cane, poi mi lascio trascinare dal Signore del Tempo verso la cabina. I miei occhi non si staccano da Barbarossa nemmeno per un secondo, mentre lo vedo abbaiare e guaire tristemente verso di me. Sparisce dalla mia vista solo quando la porticina si chiude davanti ai miei occhi. Barbarossa smette di abbaiare solo perché il Dottore ha fatto partire la cabina non appena ci ha messo piede. Adesso c’è solo il rumore assordante di quest’ultima.

- Mi dispiace, Sherlock. – Mi dice, sinceramente dispiaciuto, mentre io sono ancora impietrito a fissare la porta.

- Non importa. – Mormoro dopo qualche secondo di silenzio.

D’un tratto nella mia mente tutto si fa più chiaro ed inizio a ricordare:

Scendo velocemente le scale. Il rumore di passi mi aveva fatto rabbrividire. E adesso anche Barbarossa ha iniziato ad abbaiare all’improvviso. Non so perché faccia così, di solito a quest’ora sta bello e fermo nella sua cuccia, a dormire.

Raggiungo velocemente il prato fresco del giardino e attraverso il percorso di pietra fino ad arrivare davanti al cagnolino, che sembra talmente agitato da farmi preoccupare. Ma non è spaventato, è come se avesse visto qualcosa che gli ha fatto piacere. Non credo che però si tratti di un gatto, o di un cagnolino abbandonato che passava nelle vicinanze. Di solito quelli nemmeno li guarda.

- Che succede, eh? – Mi abbasso a fare i grattini dietro alle sue orecchie, come piace a lui. Gli chiedo di sedersi e lui si tranquillizza all’istante, scodinzolando felice alla mia vista. – Non devi fare casino all’una del mattino. Mamma, papà e Mycroft dormono e non sopportano quando tu abbai nel cuore della notte. – Il cane piega la testa verso sinistra ed io gli sorrido. – Sì, lo so che tu non li sopporti quando loro parlano durante il giorno, nemmeno io. Una cosa reciproca, a quanto pare. – Sospiro e sgancio il guinzaglio dal suo collare. – Credo che per questa notte tu possa dormire nella mia stanza. Non si arrabbiano troppo se domani dico loro che è un esperimento! – Detto ciò, ci avviamo dentro casa ed io richiudo la porta.

Ora mi spiego il perché di quel comportamento così strano di Barbarossa, quella notte. Aveva visto me. Era così felice solo quando vedeva me.

E poi, ricordo perfettamente quella notte. Era il giorno prima che morisse. Il 31 dicembre 1986, prima della notte di Capodanno.

Uno scossone mi porta alla realtà, il Tardis è appena atterrato. Saranno passati circa due minuti per John, infatti non è ancora sceso dall’appartamento. Ne approfitto dunque per tornare ad una normale espressione fredda e calcolatrice. Devo smetterla di provare queste insulse emozioni tutte in una volta.

- Ho guardato in camera mia ma non c’è nessun rilevatore… - John entra nella cabina ma, dopo aver posato lo sguardo su di me, la sua espressione muta all’improvviso. È maledettamente preoccupato. Forse il pallore da lenzuolo è ancora presente sulla mia pelle già abbastanza chiara.

- Stavo per avvertirti, l’ho trovato qui sul Tardis. Scusa del disturbo. – Dice il Dottore mentre è ancora attento ad armeggiare sui comandi. John però sembra non ascoltarlo, perché è troppo concentrato sulla mia faccia.

Si avvicina con lentezza. Lui sa che qualcosa non va, so che lo percepisce. Ormai tra noi due è così: sentiamo il dolore dell’altro come se fosse nostro. Mi sfiora un braccio con le dita, titubante all’inizio, forse per paura di una mia cattiva o, addirittura, schifata reazione. Ma sono immobile, il mio sguardo sembra tranquillizzante per lui, perché poco dopo la stretta si fa più forte sulla mia spalla. Accenna un sorriso dolce, lo fa per tirarmi su e stranamente ci riesce, perché due secondi dopo sorrido anche io. Non mi chiede nulla perché sa che non gli direi la verità, quindi si limita a cercare un argomento adatto a farmi distrarre.

- Quindi adesso si va ad Hyde Park per attirare gli Angeli? –

- Certo. Sarà pericoloso. –

- Stai cercando di scoraggiarmi? –

- No, ti sto reclutando. -  Mi sorride divertito e scuote esasperato la testa.

- Possiamo andare? – Dice il Dottore, dopo essersi ancorato alla leva che ci avrebbe fatti partire. Entrambi annuiamo. La mano di John è sulla mia spalla, ancorata ancora come poco fa. Il Tardis parte e mentre guardo John che mi sorride, non posso fare a meno di pensare ai soliti discorsi di Mycroft sul restare coinvolti. Il Dottore ha fatto un ottimo lavoro a portarmi lì. E ora credo di aver capito ciò che voleva farmi intendere: ovvero che Mycroft può andare a fanculo, che John non è Barbarossa. E che se per una volta resto coinvolto, non importa.



Note autrice:

Ho avuto giusto il tempo di pubblicare, dato che sto uscendo e avrò una giornata pienissima. Mercoledì ci sarà il prossimo aggiornamento.
Fatemi sapere cosa ne pensate. Ne approfitto per ringraziare i seguiti, i preferiti e i ricordati per aver sopportato così a lungo questa storiella ahahahaha.
Alla prossima!

 

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Capitolo 12
*** John, tu mi aiuti sempre ***


John, tu mi aiuti sempre



Hyde Park stasera ha un non so che di sinistro ed inquietante. L’aria è gelida. Il mio cappotto e la mia sciarpa non avrebbero contribuito abbastanza per rendere la situazione più sopportabile. Le luci dei lampioni e le ombre che le statue formavano, facevano sembrare quel luogo adatto a degli assassini solitari come gli Angeli. Sembra una scena di un film horror, i cui protagonisti sono un medico, un detective ed un alieno con una cabina blu… mai avrei immaginato di poter pensare cosa più bizzarra di questa.

- Oh, cavolo! – Il Dottore varca la porticina dopo di noi, e l’aria fredda che lo investe gli fa sfregare le mani per scaldarsi. È tutto inutile e dubito che il suo cappotto marrone migliori la situazione. – Freschetto, eh? – Mormora alitando sulle proprie mani. – Vi direi di restare nel Tardis, ma non riusciremo a vederli e ad agire in fretta se queste due bestioline si fanno vive. – Mi si avvicina e mi passa la busta con dentro il pezzo di roccia mancante. Attorno al collo aveva un cinturino di cuoio marrone che reggeva il suo rilevatore di tempo transitorio, gli occhiali come al solito sono inforcati sul naso e nell’altra mano stringeva quello che lui chiamava cacciavite sonico. A cosa serva quel coso, però, non l’ho ancora capito.

- Il piano? – Chiede John mentre lo guarda aggirarsi poco più in là.

- Oh, vedrete, l’ho già fatto una volta con degli altri Angeli. – Dice puntando il cacciavite sul suo rilevatore. – Beeeeh, in realtà sono stato aiutato. Io ero bloccato negli anni sessanta e il Tardis era rimasto in quest’epoca. Non sapete quanto sia divertente mandare messaggi dal passato. – Si divertiva. Il Dottore trovava divertente qualunque situazione di pericolo, adorava scoprire metodi per fermare la gente pericolosa e le creature (come in questo caso).

Già, come me.

- Abbiamo quattro esche assicurate. Al resto ci penserò io. –

- Quattro, Dottore? – John inarcò confuso il sopracciglio.

- Io e te, John. Il Dottore ha specificato che erano particolarmente attratti da noi, questi Angeli. Perché abbiamo preso questo! – Dico sollevando la busta con il pezzo, in modo che possa vederlo. – La terza esca ovviamente. Per questo credo che siamo potenziali vittime. La quarta esca, molto semplice: il Tardis è un mezzo di trasporto molto potente, immagino. Chi non ne vorrebbe uno? Ma, Dottore, hai omesso una quinta esca e sei proprio tu. Se gli Angeli hanno bisogno di nutrirsi di tempo, tu sei proprio in cima alla lista con i tuoi novecento anni, o sbaglio? In più sei un Signore del Tempo, chissà quanto potrebbe giovare a loro. – Entrambi mi guardano stupiti. Non capisco come John non riesca ad arrivare a conclusioni così ovvie.

- Esatto! – Dice il Dottore con un sorrisetto, poco prima di distogliere lo sguardo. John è in imbarazzo. Si è sentito inferiore per un po’… e ora il senso di colpa mi attanaglia. – Beeeeh, non so quanto ci metteranno, quindi che ne dite di una tazza di tè? Ho una cucina spettacolare qui dentro! Ci aiuterà a scaldarci. – Dice battendo due colpi sulla porta della cabina. Non ci dà il tempo di rispondere, perché continua a parlare. – Le preparo, quindi. Tenete gli occhi aperti! E comunque, se dovessero arrivare, il rivelatore emetterà un bel “ding”. Occhio al “ding”! – Detto ciò, scompare all’interno del Tardis, lasciando la porticina socchiusa.

- Stiamo per diventare le potenziali vittime degli Angeli piangenti e lui pensa a fare il tè. – John ridacchia mentre pronuncia quelle parole e prende posto su una panchina proprio lì accanto.

- Già. – Accenno una risata anche io mentre prendo posto accanto a lui, continuando a tenere lo sguardo fisso sul pezzo di roccia che avremmo usato come esca.

- Siete simili, in certi aspetti. –

Non sai quanto, John… non sai quanto.

- Dici? –

- Sì. – Non rispondo. Mi limito a guardarmi intorno e il parco è vuoto. Di solito anche di notte è possibile che alcune persone si rechino qui per fare jogging, andare in bicicletta, portare a spasso i cani o semplicemente per passeggiare. Questa sera no. È come se la gente sapesse di un potenziale pericolo nei paraggi… nonostante siano soltanto le dieci di sera.

John sembra nervoso, agitato. Si guarda intorno per cercare di trovare delle parole che non riesce a dire. Non è agitato per gli Angeli. È un soldato, la paura non lo scalfisce ormai così tanto. Il nervosismo è per qualcos’altro.

- Mi è… capitato di chiacchierare da solo con il Dottore, questa mattina. – Poco dopo si fa sfuggire una risatina nervosa. – Ma lo sai già questo. –

- Sì, ero l’argomento della chiacchierata. – Lui si zittisce e comincia a torturarsi le mani fra di loro, fissando un punto indefinito sul terreno.

- Non abbiamo parlato solo di te. – Mormora poi puntando gli occhi nei miei. I nostri sguardi si incatenano all’improvviso ed entrambi siamo sicuri di leggerci dentro, senza bisogno di dire nulla. Ma ciò che percepisco ha bisogno di conferme… voglio che parli. – Mi ha chiesto di raccontargli di me. Ha visto che sono diventato cupo e si è preoccupato. Così gli ho parlato di Mary. E sai cosa ha detto dopo? – Scuoto la testa in segno di negazione, e lui continua a parlare. – “Non sei sembrato tanto psicologicamente distrutto dal lutto, in questi giorni. Io non ho notato niente.” Ed è da qui che siamo arrivati a parlare di te. – Non so che dire. Non so a cosa vuole andare a parare e non mi piace non sapere. – Secondo lui sei stato tu a farmi dimenticare il dolore ed io credo che… -

Aspetta, il Dottore ha rivelato a John ciò che io gli ho segretamente confessato su di lui?

- Cosa ti avrebbe detto? – Il mio tono allarmato lo stupisce, e da quella reazione capisco che il Dottore ha tenuto la bocca chiusa sull’argomento e che mi sono totalmente sbagliato.

- Solo che la tua compagnia mi ha aiutato a dimenticare. –

- Oh! – Dico distogliendo lo sguardo sulla cabina. Riuscivo ad individuare movimento all’interno. Il Dottore stava facendo avanti e indietro in attesa.

- Però poi gli ho detto che… - si blocca, quasi come se quelle parole successive gli facessero paura, o forse credeva che avrebbero fatto paura a me.

- Cosa, John? –

Parla, ho bisogno di sapere.

Sussulto, perché John ha battuto i pugni sulle ginocchia in modo aggressivo, poi ha scosso la testa e ha strizzato gli occhi. Che diavolo sta succedendo? Cosa non riesce a dirmi? E perché continuo a farmi domande senza trovare alcuna risposta?

- Non ce la facevo più, Sherlock. Dovevo dirlo a qualcuno. – Il pezzo di roccia mancante perde del tutto il suo significato per me, infatti lo abbandono sulla panchina accanto a me e rivolgo la mia attenzione solo a lui. – E il Dottore, beh… lui mi sembrava così affidabile che gli ho confessato tutto. –

- Cosa gli hai confessato? – A quel punto mi ritrovo i suoi occhi che mi fissano, guardano i miei in attesa che io, forse, capisca. Però non mi esprimo… mi sembra di non riuscirci.

- Non sai dedurlo? – Mi chiede con una risatina nervosa. – Deduci sempre tutto ma quando si tratta di cose del genere, non capisci. –

John, ti prego.

- Potrei aver capito, ma ho bisogno che tu lo dica. – I suoi occhi sono lucidi, e quando gli afferro la mano, lui non esita a ricambiare la stretta, accennando una leggera carezza con il pollice. – Dillo, John. –

- Sherlock… - Fa un sospiro e ritorna immantinente il silenzio. Ne ho abbastanza. Voglio proprio reagire a modo mio, ma prima devo capire se ciò che ho dedotto corrisponde alla realtà: le sue mani sono sudate, a lui sudano le mani quando è nervoso ed agitato. Ha quel suo solito tic alla gamba, quella del suo passato problema psicosomatico. Quel tic sta a significare non solo che è nervoso, ma che ha paura, paura di un rifiuto, paura di essere respinto. Guarda altrove, evita il mio sguardo per lo stesso motivo, ma quando ho guardato i suoi occhi ho notato le pupille dilatate, ma non perché qui ci sia il buio della notte. Sono esageratamente dilatate, tanto che le sue iridi appaiono come un anello blu sottilissimo.

Ne sono certo adesso.

Posso agire.

E lo faccio.

Mi sporgo quel tanto che basta per azzerare le nostre distanze. Le mie labbra toccano le sue e per un attimo credo di sentire un mancamento. Solo dopo qualche secondo mi rendo conto che… che non ho mai baciato nessuno in vita mia e che quello che sto facendo per me è una cosa totalmente nuova. Mi sento un bambino inesperto e non so come continuare, non so come fare a mandare avanti le cose.

John, d’altronde, è rimasto pietrificato quasi quanto me, ho notato che ha sbarrato gli occhi quando mi sono avvicinato, è rimasto sorpreso da quella mia mossa repentina. Per un attimo mi viene il panico. E se non è quello che vuole? E se le mie deduzioni sono sbagliate? E se il suo nervosismo è dovuto ad altro? Non posso più rimediare, ormai ho agito.

Le mie paure vengono del tutto spianate quando sento la mano di John che si poggia delicatamente sulla mia nuca. Sento che non è più teso come una corda di violino. Si è rilassato e tiene gli occhi chiusi, mentre io sono ancora immobile incapace sul da farsi. Ma lui è John Watson.

John, tu mi aiuti sempre.

Infatti, inizia a guidarmi e ad istruirmi a dovere con il movimento lento delle sue labbra sulle mie, regalandomi il primo bacio migliore che avessi mai potuto ricevere in tutta la vita.

Non sembra poi tanto difficile, perché i movimenti successivi vengono naturali. Ognuno si appropria del labbro dell’altro e lo succhia avidamente, fino a sentire la pelle intorpidirsi.

Le sue labbra sottili sono belle come le immaginavo.

Le sue mani si sono spostate al mio collo ed i suoi pollici si preoccupano di accarezzare delicatamente la linea della mia mascella, facendomi rabbrividire senza controllo.

Io sono rimasto immobile. Le mani sono poggiate alla seduta della panchina, ma non perché io non voglia toccarlo, non voglia accarezzare il suo viso, il suo collo o le sue spalle… ma perché sono talmente in estasi da non accorgermi di niente.

Ci stacchiamo con un leggero schiocco ed io ho ancora gli occhi chiusi. Sto cercando di immagazzinare nel mio palazzo mentale ciò che è appena successo, e mi mordo le labbra al solo pensiero. Non è stato un bacio appassionato, nessuno dei due ha esplorato la bocca dell’altro con la lingua, le nostre lingue sono rimaste al loro posto. È stato un bacio a stampo, lungo, emozionante, da brividi.

Sento ancora le sue mani prendersi cura del mio viso, lo incorniciano e lo accarezzano come se fosse la cosa più preziosa al mondo.
Quando i miei occhi si aprono, i suoi ci si ancorano subito, e mi sorride. È felice, molto felice. E lo sono anche io.

- Era questo che volevi dirmi? – Chiedo in sussurro, ancora senza fiato.

- Sì. – Mi risponde con una leggera risata, mentre imbarazzato abbassa lo sguardo. – Sì, era proprio questo. – Io gli sorrido per un attimo, poi abbasso lo sguardo e porto la mano sulla sua che ancora è posizionata sulla mia guancia.

- Credo sia lo stesso anche per me. –

- Credi? –

- Ne sono sicuro. –

- Non è uno dei tuoi esperimenti, vero? – Sollevo lo sguardo stupito e scuoto la testa con decisione.

- Assolutamente no… sono sincero. –

- Bene, perché ricordati che sono un medico militare e potrei romperti tutte le ossa solo chiamandole per nome se solo vengo a sapere che non è così. – La sua minaccia mi fa sollevare l’angolo delle labbra. Anche lui ne è divertito. - Sai, comincio a pensare che il Dottore ci abbia lasciati soli di proposito. – Non ho il tempo di rispondere, perché quest’ultimo arriva alle nostre spalle con il rilevatore appeso al collo. È evidente che il “ding” sta andando avanti da un bel pezzo, ma eravamo troppo presi l’uno dall’altro che non ce ne siamo minimamente accorti.

- Mi dispiace interrompervi, ragazzi. – Dice sollevando l’oggetto davanti ai nostri nasi. – Ma abbiamo un problema in arrivo. – Ci alziamo di scatto e cominciamo a guardarci intorno con il cuore in gola. – Se sono davvero loro, ed immagino proprio di sì, allora voi dovrete restare qui. – Il Dottore corre verso il Tardis ed apre la porticina, restando immobile sull’uscio, in attesa.

- Oh, il pericolo tutto a noi, vero? – John sembra nervoso mentre lo dice, ha paura. Ma non deve averne. Mi fido del Dottore e so che farà di sicuro qualcosa per aiutarci e per evitare che entrambi diventiamo delle vittime.

- Non essere sciocco, John! – Esclamiamo in contemporanea. Ancora quella strana sintonia. Non ne sono infastidito.

- In poche parole: i nostri Angeli sono in due, Sherlock ne attirerà uno da un lato e tu dall’altro. Al resto ci penso io, senza il Tardis non possiamo fermarli, ed immagino che voi non sappiate guidarlo, quindi direi che è la soluzione più accettabile, non credi? – John muove leggermente la testa come per dare ragione al nostro amico. I nostri occhi vagano comunque per il parco, saettano da un punto all’altro alla ricerca di creature che all’apparenza sembrano solo delle innocui statue di pietra.

Passano secondi, passano minuti. Ma nulla. Il “ding” continua incessantemente a frullarci nelle orecchie, ma stiamo tutti in silenzio. Quando
il tempo passa ed ancora non c’è traccia di nessun Angelo, John sbuffa ed incrocia le braccia al petto.

- Dottore, sei sicuro che il tuo rilevatore funzioni? Qui non c’è nessuno. –

- Il mio rilevatore funziona beniss… -

- Ragazzi! – Esclamo tenendo gli occhi fissi sulla chioma folta del cespuglio che distanziava circa cinque metri da noi. Per un attimo ho sentito il fruscio delle foglie, un rumore di trascinamento abbastanza forte da farmi presupporre che non si trattava di uno scoiattolo o di un qualche altro animale.

Intorno però non si vedeva nulla del genere.

- Che succede, Sherlock? – La voce di John mi costringe a girare la testa verso di lui, ma appena il mio sguardo torna sul cespuglio, dietro di esso lo vedo. L’Angelo è comparso dal nulla e tiene le mani davanti agli occhi. Quell’immagine inquietante mi fa indietreggiare fino a sbattere contro quelle che sembrano le spalle di John. Anche lui è pietrificato dalla paura, probabilmente perché ha visto l’altro Angelo venirgli incontro.

Ciò che ho davanti sembra l’immagine che Amber ha scattato, la foto che il Dottore tiene nel Tardis, attaccata sul suo scanner.

- Continuate a fissarli, continuate a fissarli! – Urla il Dottore mentre si precipita all’interno della cabina.

Noi restiamo immobili, ma ogni volta che battiamo le palpebre, quei mostri continuano ad avvicinarsi sempre di più.

E adesso? Dottore, e adesso?



Note autrice:
Ci siamo, ecco il nuovo capitolo. Qui abbiamo proprio una vera e propria svolta nella storia. Ma le cose non finiscono qui.
Sappiate comunque che mancano davvero pochi capitoli alla fine.
Spero vi piaccia, al prossimo capitolo di sabato, baci.

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Capitolo 13
*** Esiste niente di più bello? ***


Esiste niente di più bello?
 



Non so come sia successo, ma improvvisamente ci ritroviamo dentro il Tardis, il Dottore accanto alla console sta cercando qualcosa, mormorando “Andiamo, dove ti ho messo?”. Ad un certo punto il Tardis viene mosso, e noi ci ritroviamo scaraventati da una parte all’altra.

- Che sta succedendo? – Chiede John mentre si aggrappa al corrimano per restare in piedi.

- Gli Angeli! – Diciamo io e il Dottore insieme.

- Esatto, stanno cercando di entrare. – Il nostro amico è ancora alla ricerca di qualcosa… cosa, però, resta un mistero per noi due. Alla fine esclama un “eccoti!” e dal pavimento della cabina, solleva una strana custodia di un cd.

- Non mi sembra il momento adatto per vedere un film, Dottore. – Il mio amico cerca inutilmente di rimettersi in piedi, mentre pronuncia quelle parole abbastanza ironiche. Non ci riesce e continua a cadere per colpa dei continui scossoni che ci costringono a reggerci.

- Dottor Watson, lei è davvero, davvero simpatico. – Mormora allora il Dottore mentre, traballante raggiunge la console. In un attimo estrae il cd dalla sua custodia e lo inserisce in un lettore che prima non avevo per niente notato. – Bene, state giù, stiamo giù e uniti. – Ci raggiunge senza mai cadere. È molto più abituato di noi a stare in equilibrio. Chissà quanti scossoni quella cabina avrà ricevuto. Tanti abbastanza da essere per lui un’abitudine.

Quando ci raggiunge si raggomitola vicino a noi sul pavimento, e siamo tutti e tre schiena contro schiena. Non capisco cosa abbia in mente, ma dopo qualche secondo vedo che il Tardis comincia pian piano a sparire. Gradualmente le pareti e tutto il resto della cabina diventano trasparenti e riusciamo a distinguere perfettamente le sagome scure degli Angeli che fino a qualche secondo fa stavano scuotendo la nave. Sono lì immobili, e rimangono tali anche quando la cabina è completamente sparita. La mano di John si poggia sulla mia, riesco a sentire perfettamente la sua paura. Gli Angeli che ci sovrastano hanno le braccia spalancate, così come gli occhi e la bocca, quella bocca spaventosa che lascia vedere quei denti affilati ed appuntiti. Sono uno davanti all’altro e noi ci troviamo proprio in mezzo a loro, seduti sul pavimento e stretti l’uno all’altro.

La risata del Dottore riecheggia nel parco vuoto. All’inizio non mi rendo conto di che cosa stia succedendo, ma ad un tratto mi accorgo che gli Angeli non si muovono, nemmeno quando distogliamo lo sguardo o sbattiamo le palpebre. Il Signore del tempo si alza ed inizia a girare attorno agli Angeli.

- Creature furbe e omicide, ma quando uno ha un Tardis ed un disco, allora la furbizia del Signore del Tempo passa in vantaggio. – Mormora mentre lascia due leggere pacche su una delle statue.

- Sono morti. – Dico mentre lentamente mi metto in piedi. John fa lo stesso subito dopo di me, ed ancora le nostre mani sono unite. -  Li hai fregati, si stanno guardando negli occhi. – Un sorriso di totale ammirazione sbuca sul mio viso, facendomi poi scoppiare in una risata liberatoria.

- Esattamente, non ci daranno più fastidio. – Solo dopo mi rendo conto che il Tardis si era spostato da noi solo di qualche metro più in là.

- Geniale. Davvero geniale. – I miei occhi si puntano in quelli vuoti ed immobili della statua. Sbatto le palpebre più volte per accertarmi della loro morte. Non succede nulla. Il Dottore è davvero riuscito a fermarle.

- Dovremmo festeggiare! – Esclama il nostro nuovo amico mentre apre la porticina del Tardis. Io continuo a guardare le statue anche mentre mi allontano. Nonostante sia tutto finito, non riesco a dimenticare quella scena terribile nel mio appartamento, quando una di loro ci è piombata all’improvviso nella stanza.

Quando entriamo nella cabina, io e John veniamo accolti da uno strano odore. Il Dottore sta versando in tre tazze di porcellana quello che dall’odore può sembrare del normalissimo tè, appositamente sistemato in un thermos.

Solo dopo ci viene spiegato che quel tè proviene da Barcellona, ma non la città, il pianeta. A quanto pare esiste un pianeta con questo nome. Mentre sorseggiamo quello stranissimo ma gustosissimo tè, il Dottore si mette seduto fra di noi.

- Direi che possiamo andare in un posto che preferite per festeggiare. Sceglierete voi dove io vi possa portare. –

- Intendi qualunque tipo di posto? – Chiedo mentre poggio lì accanto la tazza vuota.

- Qualunque! Passato, presente, futuro… ma non ora. – Dice strofinandosi le mani. – Sarete stanchi, di sicuro. Vi faccio riposare per questa notte e domani possiamo partire. Ma facciamo un solo viaggio. Non dovrete prenderci la mano. – John annuisce contento e mi guarda, accennando un sorriso spensierato e sollevato.

La morte degli assassini solitari ha tranquillizzato anche lui.

Ricordo ancora la sua paura evidente quando mi stringeva la mano.

Arriviamo al 221B in poco tempo. Mi soffermo a guardare John mentre percorre le scale e, prima che possa chiudere la porta, il Dottore è ancora davanti all’ingresso che mi guarda con una scintilla maliziosa negli occhi, le braccia e le gambe incrociate mentre è appoggiato allo stipite.

- Hai visto tutto, quindi? – Gli chiedo, riferendomi al bacio scambiato tra me e John qualche ora prima.

- Già, ma lo avevo anche previsto, più che altro. –

- John te lo aveva detto… che provava qualcosa per me. – Lui annuisce e porta la mano alla porticina.

- Avevate entrambi bisogno di un supporto morale, e guardatevi adesso. – Dopo averlo detto, tira su con il naso e si sfila gli occhiali. – Beh, buonanotte. Domani mi faccio vivo io. – Per risposta annuisco ed accenno un sorriso. Non parlo perché stranamente non esce nulla dalla mia bocca. Cosa avrei dovuto fare? Ringraziarlo? Non sono il tipo. Tacere mi riesce sicuramente molto meglio.

Mi fa un sorriso anche lui. È quasi piacevole averlo intorno, e detto da me è il più gran complimento del mondo. Di solito per me sono tutti degli idioti inutili, ma il Dottore è l’uomo più intelligente del mondo. E l’intelligenza è proprio il mio campo.

Ammettilo e basta, Sherlock. Provi un certo affetto per quello strano alieno con due cuori.

La porticina si chiude e, dopo quel solito rumore insopportabile, la cabina svanisce sotto i miei occhi. Sono solo, la strada è deserta e ciò che mi resta da fare adesso è raggiungere il piano di sopra.

John è seduto scomposto sulla sua poltrona, la testa poggiata contro lo schienale col collo scoperto e del tutto esposto, gli occhi chiusi per la stanchezza.

- Hai fame? – Mi chiede mentre mi sfilo sciarpa e cappotto.

- No. –

- Ovviamente. – Ridacchia. Probabilmente lo immaginava. Ma stavolta non mi costringe a mangiare un’intera pizza od un piatto di pasta preparato velocemente. Neanche lui ha fame e dubito abbia molta voglia di cucinare. – Qualche giorno potresti anche cucinare tu, visto che sei abbastanza bravo. –

- Ho già le tue mani e le tue braccia che lavorano in cucina. – Mi siedo proprio di fronte a lui, sulla mia poltrona. – Non voglio perdere tempo a cucinare, preferisco rendermi utile e concentrarmi sui miei casi. – Lo sento di nuovo ridacchiare e lo vedo aprire gli occhi per guardarmi. Il suo non è uno sguardo divertito, però. O meglio… si trasforma in uno sguardo sognante quasi, mi scruta come se fossi la cosa più bella del mondo, piegando la testa da un lato e poggiandola contro il palmo della mano. – Mi stai fissando. –

- Sì, ti sto fissando. –

- Ebbene? –

- Cosa? Tu non ti soffermi mai a fissarmi? – La sua domanda mi fa zittire all’improvviso. Mi aveva colto sul punto.

Non sai quante volte mi sono soffermato a guardarti, John, neanche te lo immagini. Guardare il tuo volto spensierato mi faceva stare bene, le tue iridi luccicati e le tue labbra sottili dal sapore meraviglioso mi fanno sentire in tutto un altro mondo. Mi sono sentito come te quando il Dottore ti ha fatto vedere il Sistema solare. Mi sento sempre così quando mi soffermo a guardarti, John. Tu non lo sai, ma ti ho sognato spesso. Sognavo quasi sempre il nostro primo bacio, nonostante non fossi in grado di sapere come si facesse a baciare qualcuno. La realtà è stata decisamente migliore del sogno. I tuoi capelli, vogliamo parlare di quelli? Ci sono già segni di invecchiamento, stanno diventando bianchi pian piano, ma non sai quante volte ho sognato di infilarci in mezzo le dita, di massaggiarli come si deve, di sentire come sono al tatto.

A dirti tutto questo, mio carissimo John, non sarò mai capace.

Per tutto il tempo sono rimasto in silenzio. Ma alla fine mi alzo dalla poltrona e mi spolvero la camicia con entrambe le mani.

- Ti auguro una buonanotte, John. –

Cosa dovrei fare? Baciarti di nuovo? Devo? Posso? Sto sbagliando tutto?

Sono terrorizzato.

Lo guardo solo per un attimo, invece, poi me ne vado e raggiungo in poco tempo la mia camera. Richiudo la porta e mi ci poggio contro stringendo gli occhi. Rapporti umani, dovevo ancora abituarmici. E lui è John. Non devo rovinare tutto.

Passo più di due minuti con la schiena incollata alla porta. Il mio respiro è accelerato, non so perché. Quando l’ho baciato, non credevo che dopo mi sarei sentito così insicuro. Ma lui sembra tenerci a me, l’ho visto nei suoi occhi, l’ho sentito mentre con dolcezza giocava con le mie labbra.

Mi sfilo le scarpe dai piedi e faccio lo stesso con le calze. La giacca del completo finisce subito, piegata come si deve, sulla poltrona accanto alla finestra, poi sfilo i bottoni della camicia dalla loro asola e… un rumore mi fa bloccare con le dita sulla stoffa. La porta si è aperta, so che è John, riconosco il suo passo leggero e scalzo, ed il suo profumo. Sono di spalle e non mi muovo, perfino il mio respiro sembra essersi dissolto, lo trattengo e lo lascio andare soltanto quando me lo ritrovo davanti. Dapprima mi guarda negli occhi, ed è talmente vicino che posso sentire il suo respiro sul mio collo. Poi il suo sguardo si abbassa e si posa sulle mie mani che ancora sono immobili sul bottone da sfilare.

Si è appena leccato le labbra.

- Non… dovresti essere a letto? – Chiedo in un sussurro, terrorizzato dalle sue possibili prossime mosse.

- Qui c’è un letto. – Cerco di dire qualcosa ma le sue mani hanno afferrato le mie e le hanno spostate lungo i fianchi, poi hanno incorniciato il mio viso e lo hanno accarezzato con devozione. I suoi occhi saettano dai miei alle mie labbra e, gradualmente, è sempre più vicino. Il mio respiro è corto, mi manca il fiato ed il cuore mi martella nel petto, nelle orecchie, nella testa. Sento anche le gambe tremare e sono sicuro siano sul punto di cedere adesso che John ha poggiato le sue sottili e dolci labbra sulle mie.

Come prima sento che niente intorno a noi è presente, c’è solo John, solo lui. Solo le sue mani che mi carezzano, solo le sue labbra che mi baciano. Sono sicuro di riuscire a ricambiare ogni singolo movimento della sua bocca, mentre mi aggrappo con decisione alla sua camicia, ma quando la sua lingua sfiora le mie labbra, sento il mio cervello che manda segnali indecifrabili, mi blocco e mi allontano terrorizzato, guardandolo ad occhi spalancati e lasciando che il mio respiro si mischi con il suo.

- Va tutto bene. – Mormora lui spostando le mani sulle mie spalle. Io chiudo gli occhi ed annuisco appena, mentre la stretta sulla sua camicia si fa sempre più forte. – Sherlock, va tutto bene. – Apro gli occhi ed osservo la sua espressione. Sembra quasi che abbia capito cosa mi blocca. Non credo di essere capace di baciare come si deve, ma lui è così tranquillo e rassicurante che non ci penso due volte prima di tuffarmi nuovamente sulle sue labbra.

E dopo succede. Le nostre lingue si incontrano timidamente, ed io rabbrividisco senza controllo. Le mie mani circondano la sua schiena, le sue sono sul mio petto e in poco tempo raggiungono i bottoni restanti per sfilarli dalle rispettive asole. Non so cosa provo esattamente, all’inizio mi sento spaventato per questa strana situazione, ma il modo in cui mi rassicura con quei baci mi fa sentire più sicuro, e dopo poco le mie mani si occupano anche della sua di camicia, non ho il loro controllo, sfilano ogni bottone. Il mio cervello sembra scollegato da tutto il resto. Sto seguendo il mio istinto, il mio cuore, sto facendo per una buona volta ciò che voglio senza che nessuno, nemmeno lui, me lo impedisca.

Le nostre labbra non si staccano un attimo nemmeno quando le nostre camice sono finite scomposte sul pavimento della camera. Mi spinge disteso sul letto e mi sovrasta col suo corpo. Sarà pure un corpicino piccolo il suo, ma era un soldato, un soldato abbastanza forte.

Non so come, nemmeno me ne accorgo, ma ci ritroviamo senza nessun vestito addosso. John fa scivolare le sue labbra sul mio petto, sul mio addome, e non smette di far vagare le sue mani esperte da medico sul mio corpo. Sa dove toccare, quali sono i miei punti più sensibili, quelli che mi fanno rabbrividire al solo tocco. Mentre io… mi ritrovo a stare immobile, non so cosa fare e l’unica mia azione è quella di ansimare a bassa voce, incastrando le dita fra i suoi capelli.

Quando dico che quelle mani sono abili, credetemi perché non scherzo. Non riesco a trovare altri aggettivi adatti mentre mi fanno tremare come un ragazzino imbarazzato. Le mie finora non hanno fatto nulla di che, a parte afferrare la sua pelle, aggrapparmi ad essa ed alle sue ciocche bionde e scompigliate.

- John... - Sussurro poi, quando è pronto a rendermi suo come mai prima d'ora. Suo in tutto e per tutto. Lui mi guarda, immobile.

- Vuoi... vuoi che mi fermi? – Il suo tono è preoccupato, mentre le sue dita accarezzano con delicatezza quello che è il mio zigomo arrossato. – Forse è stata... una mossa affrettata, magari non sei pronto... - Che stupidaggini! Perché si preoccupa per qualunque cosa? Lo zittisco mettendo la mano davanti alla sua bocca e lui mi guarda stranito.

- Voglio solo che fai piano. – Mormoro poi, spostando le mani ad incorniciare il suo viso. Mi sorride e da quegli occhi posso leggere tutta la sua felicità, erano mesi che non vedevo quegli occhi trasmettere quell'emozione. Adesso sta bene. E sapere che è merito mio mi fa sentire un certo calore dentro che non riesco a spiegarmi.

E quel calore si sparpaglia per tutto il mio corpo, ancora di più, quando finalmente sento che siamo diventati una cosa sola... ma fa male, un dolore che mai avevo provato e che non immaginavo potesse essere così. John mi lascia uno e più baci sulla guancia ed aspetta che io mi abitui a tutto ciò. Ma poi quel dolore svanisce, con fatica, ma svanisce. Viene sostituito dal piacere più intenso, più bello che io abbia mai provato.

E John è così bello, è tutto fin troppo bello che non mi sembra reale.

Raggiungiamo l'apice nello stesso momento, e il mio cervello si scollega nuovamente dalla realtà.
Non c'è un vero e proprio dialogo, subito dopo, ma siamo rimasti abbracciati e muti a guardarci negli occhi, finché John non li ha chiusi per la stanchezza e non si è addormentato con il sorriso sulle labbra.

Esiste niente di più bello?





Note autrice:
Un giorno di ritardo, è vero, ma ho avuto degli impegni. Oggi sono qui, comunque.
Ammettetelo, aspettavate un capitolo così da tanto, eh? AHAHAHAHA
Spero vi sia piaciuto.
Un bacio e aalla prossima.

 

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Capitolo 14
*** Un ultimo sguardo ***


Un ultimo sguardo



Sono stato l’ultimo ad addormentarmi e il primo a svegliarmi. Non mi dispiace affatto continuare a guardare John che dorme. Mi è capitato spesso di farlo… cioè, non al punto da entrare in camera sua e fissarlo, ma quelle volte che crollava sul divano dopo una giornata di lavoro faticosa o… quando ha passato il brutto periodo del lutto. Capitava spesso che si addormentasse, diceva che lo aiutava a non pensare, e aveva spesso bisogno di non pensare, quindi passava tutta la giornata a sonnecchiare. A volte ho creduto che forse se continuavo a guardarlo dormire e pensare quanto fosse bello e quanto avrei voluto che dormisse con me, sarei risultato un po’ troppo egoista, vista la situazione in corso. Ma non riuscivo a farne a meno.

Quando John dorme tiene le labbra socchiuse. A volte capita che sbavi, ma anche se trovo la cosa abbastanza divertente, non mi importa. Le sue labbra semiaperte sono bellissime. Di solito sistema la mano sotto la guancia, come i bambini piccoli, e adora dormire a pancia in giù, come adesso insomma.

Non parla nel sonno, ma a volte ha uno di quegli incubi riguardanti la guerra ed inizia a tremare, a girarsi e rigirarsi fra le lenzuola, a sudare e a mormorare parole incomprensibili. Oggi no, è tanto tranquillo. Sembra anche che sorrida.

Mi giro a controllare l’ora. Le sette del mattino. Ne approfitto per restare ancora a guardarlo, ancora un po’. Contemplo in silenzio il suo viso e vorrei tanto carezzarlo con la punta delle dita, ma non mi va di svegliare e di infrangere quella sua tranquillità. La sua schiena si alza e si abbassa al ritmo del suo respiro, ma quella… non resisto dal non toccarla e delicatamente poggio il palmo aperto sulla sua pelle calda. Mi limito a muovere delicatamente il pollice per carezzarlo e fortunatamente non lo disturba poi così tanto.

Si sveglia solo qualche minuto più tardi. Apre delicatamente un occhio e poi l’altro, mi guarda per un attimo confuso, poi sorride con dolcezza e si sistema sul fianco, in modo da poter essere faccia a faccia con me. Si stiracchia appena, allungando il braccio sopra alla sua testa e sbadiglia.

- Era ora! – Esclamo con ironia mentre porto un braccio piegato sotto alla guancia. – Stavo per ricorrere alla tipica secchiata d’acqua gelida. – Lo sento ridacchiare e subito dopo mi circonda il collo con un braccio.

- Buongiorno anche a te. – Mi sussurra a fior di labbra, prima di lasciarci sopra qualche piccolo bacio a stampo.

- Sei radioso! – Esclamo con un sorriso soddisfatto. Lui poggia il mento alla mia spalla e mi guarda, quel viso così rilassato e quelle labbra che non smettono un attimo di sorridere.

Dannazione, è così bello.

- Si nota tanto? -

- Abbastanza, John. – La sua leggera risata rimbomba dolcemente nelle mie orecchie, e i movimenti lenti e rilassanti delle sue dita fra i miei capelli mi fanno sospirare felice. Quante volte ho odiato che la gente giocasse con i miei capelli. Ma John è John. – Mi chiedo da quanto tempo. Insomma, avrei dovuto accorgermene, ma mi sa che in queste cose riguardo ai sentimenti sono proprio una frana. –

- Da quanto tempo cosa? –

- Da quanto tempo provi attrazione sessuale per me. – Lo vedo arrossire all’improvviso e mi colpisce piano un fianco con un leggero pugno, indignato da ciò che ho appena detto.

- Non è solo quello. – Il suo viso rimane appena nascosto dalla mia spalla, poi emette un sospiro e solleva la testa per guardarmi. – Non è solo attrazione sessuale. –

- Lo so, John. – Il mio sorriso è sincero e rassicurante mentre lo guardo, e per risposta lui mi afferra una mano e la porta alle labbra, lasciando un dolce bacio sulle mie dita affusolate. Nonostante ciò mi piaccia fino all’inverosimile, io voglio sapere, non mi ha ancora dato una risposta. – Da quanto? – Allontana le labbra dalla mia mano e mi guarda senza dire nulla, poi sospira e stringe in modo quasi possessivo le mie dita fra le sue.

- Non lo so, di preciso. Ma prima che tu fingessi la tua morte sentivo che qualcosa era cambiato. Stavo bene in tua compagnia, e mi sono accorto che l’essere solo il tuo migliore amico non mi bastava più, solo che… quando stavo per avere il coraggio di dirtelo tu sei “morto”, e poi è arrivata Mary. – Fa una pausa abbastanza lunga nella quale si accarezza le tempie con una mano. La sua perdita fa ancora male, ed è assolutamente comprensibile, visto ciò che i due avevano passato insieme. – E quando sei tornato mi sono reso conto che le cose che provavo non erano cambiate. Certo, amavo Mary. – Si mette seduto ed inizia a guardare un punto fisso sulla parete di fronte a lui. – Ma tu eri il primo. – Non dico nulla e mi limito a guardarlo con il lieve accenno di un sorriso. Le sue parole mi spiazzano, in un certo senso. Non mi ero mai accorto di nulla in tutti quegli anni di convivenza. O magari sì, però se si tratta di cose come i sentimenti mi tiro sempre indietro, o faccio finta di non vedere. – E tu? –

- Non so, credo da sempre ma sono riuscito ad ammetterlo a me stesso solo in questi ultimi mesi. – Sono di poche parole, non ho niente di più da dire, anche perché la verità stava in quell’unica frase. E lui lo capisce perché poggia la mano fra i miei capelli e li accarezza con dolcezza, prima di lasciarmi un bacio sulla fronte.

Non ci penso un attimo e lo circondo con le braccia, spingendolo a stendersi su di me, facendolo ridacchiare contro la mia pelle, ed infine… mi lascio trasportare da un bacio passionale che sembra non avere più fine. Sono sicuro anche di aver rotolato fra le lenzuola, al solo pensiero mi stupisco di me stesso. Ma tutto è così naturale che non mi rendo pienamente conto di ciò che sto facendo.

Le mie dita si incastrano fra le sue ciocche bionde e le stringono possessivamente, le nostre lingue non smettono di rincorrersi e le sue mani non smettono di esplorare il mio corpo.

Attorno a noi tutto svanisce, come ogni volta che sento il contatto con quelle labbra sottili, come ogni volta che sono con lui, ma… forse sarebbe stato meglio che io avessi prestato attenzione a ciò che c’è attorno a noi.
Veniamo distratti da uno strano cigolio e ci stacchiamo solo quando entrambi siamo consapevoli di aver sentito la stessa cosa. Ci voltiamo verso il fondo della stanza e… il Tardis è lì, e sulla porta un Dottore distratto.

- Ragazzi spero che siate pronti per… - Si blocca all’improvviso non appena ci vede e si porta immediatamente una mano sugli occhi, girandosi dal lato opposto, mentre John, ancora su di me, afferra con una velocità innata il lenzuolo e ci copre entrambi fino a sopra le spalle. – Per la miseria… mi dispiace, non pensavo che voi due… dannazione! – Si gira di nuovo con gli occhi serrati e afferra la maniglia della porticina alla cieca per chiudersi all’interno della cabina, fin quando non sentiamo la sua voce ovattata che proviene da dietro la porta del Tardis. – Scusate ragazzi, davvero, non credevo che voi due stavate facendo… quello, beh. Vi aspetto qui o se volete passo più tardi. -

John sopra di me si copre il viso con entrambe le mani e scuote la testa. Riesco ad intravedere il rossore delle sue guance fra le sue dita. È imbarazzato da morire mentre ancora si nasconde del tutto sotto il lenzuolo blu del mio letto. Io non sono in imbarazzo. Mi è capitato di andare con solo un lenzuolo a Buckingham Palace, figuratevi se questo può imbarazzarmi più di tanto. Anche se… beh, sono con John, siamo nudi sul letto, in effetti è un po’ imbarazzante essere visti da una terza persona. Quando me ne rendo conto le mie guance assumono il color porpora che tanto avevo sperato di evitare, ma ciò dura pochi secondi, perché sono in grado di ritornare lo Sherlock di sempre.

- Dacci cinque minuti. – Dico ad alta voce, per farmi sentire dall’uomo nella cabina. Lo sento allontanarsi e mi lascio sfuggire una risata divertita. John mi guarda malissimo, mi fulmina con lo sguardo. Se avesse potuto sparare raggi laser mi avrebbe già incenerito. – Andiamo, John! – Dico fra una risata e l’altra. – Non sei contento che gli alieni abbiano visto il tuo culo sodo? – Continua a guardarmi male, ma la mia risata lo contagia in poco tempo e ci ritroviamo a sghignazzare fra le lenzuola come due ragazzini.

- Sei un idiota. – Mormora poi, lasciandomi un bacio dolce sulla fronte. Infine si alza dal letto ed io mi soffermo qualche secondo a guardarlo prima di alzarmi a mia volta ed iniziare a vestirmi.

Circa dieci minuti dopo, mi ritrovo nel Tardis insieme al Dottore, aspettiamo che John finisca di prepararsi. Il Signore del Tempo mi guarda con un piccolo sorriso malizioso, non ha smesso da quando ho varcato l’ingresso.

- Non avete perso tempo… -

- Sta zitto. – Lui ridacchia divertito mentre si poggia alla console a braccia incrociate sul petto, contagiandomi. È così che John ci trova quando ci raggiunge. All’inizio ci guarda come se fossimo pazzi, poi scuote la testa ed accenna un sorriso mentre richiude la porta.

- Allora, dove dobbiamo andare? – Chiede quando il Dottore poggia la mano sulla leva per far partire la nave.

- Beh, dovete scegliere voi. Su su, passato, presente, futuro? –

- Non ci siamo veramente soffermati a pensare ad un luogo dove andare. – Dice John mentre mi affianca ed incrocia le braccia al petto.

- Eravate molto impegnati, da quel che ho potuto vedere. – John apre la bocca per dire qualcosa, ma dalle sue labbra non esce alcun suono, si riescono a vedere solo le sue guance che cambiano completamente colore, ed anche io nascondo il viso nel bavero del mio cappotto scuro, tenendo lo sguardo puntato verso il basso e un piccolo sorriso sulle labbra. – Se non avete preferenze, posso proporvi qualcosa io. -

- Ci affidiamo a te. – Dico facendo sbucare le labbra fuori dalla mia sciarpa, mentre ancora sento l’imbarazzo evidente di John accanto a me, che ha distolto lo sguardo e ha iniziato a strofinarsi una guancia con la mano.

- D’accordo. Che ne dite del pianeta Barcellona? Ve ne ho parlato mi pare. Futuro, futuro molto lontano. Un pianeta di riserva per la Terra, che ormai non è più vivibile come prima. Gli essere umani lo hanno trovato e colonizzato. Si sono evoluti e hanno delle caratteristiche un po’ diverse da voi, ma sono pur sempre umani. Avete mai visto i cani senza naso? Loro li hanno. Sono divertenti! – Mentre lo racconta, inserisce le coordinate sullo scanner, poi aziona la leva e la cabina parte senza esitare. Quando raccontava di queste cose strane ed assurde, assumeva un tono da ragazzino esultante e cominciava a gesticolare e ad accennare risatine buffe che facevano sfuggire sorrisi straniti anche a noi.

Eh sì, alla fine siamo arrivati su questo pianeta. Bizzarro e incredibile pianeta dai palazzi dalle forme strane, con umani vestiti con completi inusuali, e i cani… senza naso di cui parlava il Dottore. Ma non c’erano solo umani, no. Il Dottore ci ha spiegato che col passare del tempo gli umani sono diventati più ospitali e adesso anche alieni di altri pianeti e sistemi dell’universo fanno visita a Barcellona, che pare essere famosa per le incredibili fragranze delle piante curative, per le tisane e per le stranissime foglie di tè. Ecco perché le altre specie si recano qui come turisti, perché è un luogo davvero adatto per rilassarsi.

Ma non solo per questo, a quanto pare ci sono anche vari divertimenti a Barcellona. Nonostante sia un pianeta molto piccolo, si dice ci sia uno dei parchi divertimenti più grandi dell’Universo. John ci è andato, ha fatto alcune delle attrazioni e mi ha trascinato con lui anche se io non ne volevo sapere. “Sei un guasta feste” mi dicevano.

Come ultimo step, abbiamo visitato il mercato tipico. Non so quante tisane mi ha fatto provare quell’uomo. Più di quanto riuscivo a berne in una settimana, e poi il tè. Di ogni sapore e di ogni fragranza possibile, il tipico tè che tutti conosciamo e poi il tè fatto con i frutti strani e nativi di Barcellona. Ne abbiamo preso un paio di scatole da portare con noi al 221B. Lì si paga con i crediti. Di preciso non so spiegarvi come funzionano.

Durante il tragitto per tornare sul Tardis, il Dottore ci ha fermati e ci ha detto di guardare il cielo. Lo abbiamo fatto e all’improvviso è calata la notte.

- Qui le notti durano dieci minuti. E ce ne sono circa tre al giorno. – Non vediamo solo la notte. I pianeti, più di quanti ne potessi mai contare, sono lì che circondano Barcellona, e poco lontano una scia argentea percorre il cielo. – Quella è il motivo per cui molti turisti vengono qui. Rilascia endorfine, strano ma vero. Ogni essere vivente che lo vede si sente felice ed appagato. Ma non fa male, si vede solo di notte. – John afferra la mia mano e sorride mentre i suoi occhi sono puntati verso il cielo, e nel vederlo non posso fare a meno di sorridere anche io, ma non è colpa di quella scia, la mia felicità è dovuta ad altro.

Adesso siamo sul Tardis. Un po’ ci dispiace dover tornare a casa, ma abbiamo gironzolato e festeggiato abbastanza. Io e John siamo seduti sul pavimento, il Dottore sta armeggiando come al solito sui comandi, poi inizia a fissare lo scanner, ma non è lo schermo che guarda. È la foto dell’Angelo che ha appeso proprio lì. Sembra pensieroso, e per un attimo mi preoccupo.

- Tutto ok? – Chiedo, e lui si risveglia da quella trance. Mi sorride allegro come se nulla fosse.

- Certo! – Tira su la leva e la nave parte nuovamente.

- Ti sarei grato se ci lasciassi a Scotland Yard, devo parlare con Lestrade e spiegargli tutto, così che si inventi una storia da raccontare alla stampa. –

- Scotland Yard, allons-y! – Non so quante altre volte lo aveva detto. Quella parola sembrava il suo pane quotidiano.

Poco dopo atterriamo. John apre la porticina e davanti a noi c’è l’ingresso della stazione di polizia. Esce ed aspetta lì davanti, sto per raggiungerlo ma non sento i passi del Dottore dietro di me. Quando mi giro è ancora intento a fissare la foto e stavolta è stupito.

- C’è qualcosa… - Mormora più di una volta. Io mi avvicino, allarmato da quello sguardo. – C’è qualcosa che mi sfugge. – Lo guardo in attesa, poi sposto gli occhi sulla foto e anche io rimango senza parole. C’è il cespuglio, c’è il parco, ma l’Angelo è sparito.

- Che significa? – Chiedo, ma lui pare non sentirmi, sta ancora fissando ad occhi sbarrati quell’immagine.

- L’immagine di un Angelo… l’immagine di un Angelo è anch’essa un Angelo. – Continua a mormorare a bassa voce, poi batte all’improvviso le mani. – Ma certo, l’immagine di un Angelo è un Angelo! – Dice quasi urlando, attirando anche l’attenzione di John, che però rimane fuori ad osservarci stranito. – Questo vuol dire che… - Si blocca e mi guarda quasi impaurito. – Oh no! – Inizia a correre verso l’ingresso ed io lo seguo solo qualche secondo dopo. Non capisco e l’unico modo per farlo è seguirlo. – John! -  Urla allarmato. Corre verso di lui e solo quando il mio sguardo incontra il mio blogger capisco cosa intende.

Succede tutto in un attimo, ma io vedo la scena a rallentatore, come nei film drammatici che John ama tanto guardare: un attimo prima John è lì che ci fissa senza capire, un attimo dopo svanisce, e al suo posto, dietro il punto in cui prima c’era lui, un Angelo tiene un braccio sollevato, la bocca spaventosamente aperta. Io cado in ginocchio e sento il terreno girare vorticosamente sotto di me. Stringo gli occhi, cerco di capire, e quando li riapro il Dottore è immobile e scioccato, in piedi accanto a me, a guardare il punto in cui prima c’era John.

L’Angelo è sparito.

John è sparito.

- Vieni dentro. – Mi prende quasi con la forza e mi trascina all’interno dalla cabina. Io non riesco a muovere un muscolo. Sono ancora pietrificato e quella scena si ripete nel mio cervello in continuazione. Mi rendo conto che sto piangendo solo quando il Dottore chiude la porticina. È scosso anche lui, trema quasi mentre fa partire la nave, e non mi dice dove stiamo andando finché non atterriamo.

Siamo al cimitero.

- Devo accertarmene, anche se… credo che ormai… - Non finisce la frase e sospira, comincia a camminare ed io lo seguo con le lacrime che rigano le mie guance. Non ci vuole molto prima che si fermi e scuota disperato la testa. – Mi dispiace. – Dice poi. Guardo la lapide. A caratteri cubitali il nome “John Hamish Watson” risalta ai miei occhi.

Stava andando tutto così bene, come è possibile?

- Hai una macchina del tempo, riportalo indietro. – Dico senza lasciar trapelare nemmeno un’emozione.

- Lo farei Sherlock, lo farei davvero… -

- Allora fallo. –

- Sai che non posso. L’Universo collasserebbe se io provassi a… -

- CHI SE NE FREGA, VAI A PRENDERE JOHN! – Il mio tono è maledettamente alto. So che non può farlo, ma non può finire qui. John non può morire. Ci deve essere un altro modo. Il Dottore fa un passo indietro, spaventato dalla mia rabbia, poi abbassa lo sguardo e sospira. Non sa cosa dirmi. – Vattene. –

- Sherlock… -

- Ho detto vattene. Non voglio vederti mai più. -

- Ti ho detto che non… -

- Ho detto che devi sparire. – Il Dottore mi guarda mortificato, poi indietreggia lentamente e alle mie spalle riesco a sentire prima la porta del Tardis che si apre e si richiude, poi il suono inconfondibile della cabina che se ne va.



Note autrice:
Bene, mi dispiace informarvi che ciò che avete appena letto è l'ultimo capitolo. Eh già... ve lo aspettavate?
Domenica pubblicherò un piccolo epilogo per dare una conclusione definitiva.
Non uccidetemi per quello che ho fatto, ma non potevo lasciare finire tutto rose e fiori, non è da me.
Farò dei ringraziamenti appropriati a tutti voi nelle note dell'epilogo.
Quindi vi saluto per adesso, a domenica!
Un bacio!

 

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Capitolo 15
*** Epilogo ***


Epilogo



È sempre lì. Quando mi affaccio dalla finestra anche solo per pochi secondi, il Dottore è lì che mi fissa. Guarda e aspetta. Molte volte ha suonato alla mia porta e molte volte gliel’ho sbattuta in faccia.

Il primo giorno, quando è venuto a farmi visita dopo quell’avvenimento terribile, mi ha chiesto come stavo. Retava lì solo per sapere come stavo. Gli ho riso in faccia, mi ricordo questo. Poi l’ho cacciato.

La povera signora Hudson è stata costretta ad inventarsi non so quante scuse pur di mandarlo via nei giorni successivi. Lui le diceva “gli dica solo che io sono qui, per qualunque cosa”.

Ma lui non demorde, ed ogni giorno aspetta.
 
Cosa vuoi che faccia, Dottore?
 
Mi hai portato via John.
 
La mia vita è cambiata. Sono passati due mesi, due maledettissimi mesi e non ho più seguito un solo caso da allora. Sono rinchiuso tra le quattro mura del 221B da quel giorno e non mi sono più mosso. Mangio (quel poco che serve a sopravvivere), bevo, fumo, suono qualcosa, poi vado a letto. Rifiuto qualunque contatto con le persone, con Mycroft, perfino con la mia padrona di casa. Ho dovuto dirle che John era partito urgentemente per stare dalla sorella che si era ammalata. Ma quanto avrebbe retto questa scusa?

Di solito arrivava a suonare alla mia porta verso le nove del mattino, ma non oggi. È arrivato alle sette, ha suonato insistentemente e ha urlato il mio nome dal piano di sotto, bussava così forte che ho perfino creduto che avrebbe buttato giù la porta. Sembrava così impaziente, diversamente dai giorni precedenti.

Ne ho abbastanza delle sue continue visite quindi, mosso da una furia incontrollata, mi alzo dalla mia poltrona e scendo di corsa le scale, superando la signora Hudson che, turbata, torna di nuovo all’interno del suo appartamento.

Apro la porta e me lo ritrovo lì, in piedi. È ancora mortificato, apre la bocca ma nessun suono ne fuoriesce. Io lo precedo. Non voglio sentire cosa ha da dire.

- Devi lasciarmi in pace, sono due mesi che non mi dai tregua. –

- Lasciami parlare, Sherlock… stavolta è importante. -

- Non voglio sentirti dire “mi dispiace”, Dottore. Hai fatto il danno. Se proprio ci tieni a tirarmi su il morale, vattene. – Chiudo subito la porta, senza aspettare una risposta.

Faccio per salire il primo gradino, ma la frase che dice subito dopo mi spiazza: risulta ovattata per colpa della porta che interferisce con il suono della sua voce, per un attimo infatti mi sembra di aver capito male, ma non è così. Quella semplice frase mi fa tornare indietro e mi costringe ad aprirgli la porta.
 
- Posso salvare John. –



Note autrice:

Ebbene, siamo alla fine definitiva... oppure no. Come avete visto dalla fine potrebbe esserci un continuo, se lo volete, oppure posso semplicemente lasciare un finale aperto. In ogni caso, se volete un continuo e volete essere avvertiti su quando lo posterò, vi basterà chiederlo nelle recensioni e al primo capitolo vi verrà immediatamente spedito un messaggio.
Altre informazioni che potrebbero interessarvi se avete seguito questa storia e vi è piaciuta:
1. Sto pensando di fare la versione cartacea per venderla.
2. Non solo, siccome me la cavo abbastanza bene con il disegno, ho pensato di fare anche il fumetto e poi venderlo. Ho pensato che sarebbe una cosa figa. Ma sono solo idee, voi che dite?
3. Se volete seguirmi altrove e avere altre informazioni, questi sono le mie pagine e il mio tumblr
:
Citazioni improbabili di Benedict Cumberbatch, Art is in my soul., SherlokidAddicted
Infine, i ringraziamenti: per i 22 seguiti, i 2 ricordati e i 10 preferiti che, anche se non hanno lasciato recensioni, sono contenta abbiano letto fino alla fine e, spero, apprezzato. E poi anche
CreepyDoll e Evola_Love_Beatles, che hanno letto e recensito ogni capitolo, facendomi capire quanto tutto ciò sia piaciuto. Grazie a tutti voi.
Alla prossima, baci.

P.S. ricordatemi di farmi sapere se volete un seguito con una recensione.

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