Dear Watson,

di Machi16
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Episodio 1 ***
Capitolo 3: *** Episodio 2. ***
Capitolo 4: *** Episodio 3. ***
Capitolo 5: *** Episodio 4. ***
Capitolo 6: *** Episodio 5. ***
Capitolo 7: *** Episodio 6 ***
Capitolo 8: *** Episodio 7 ***
Capitolo 9: *** Episodio 8 ***
Capitolo 10: *** Episodio 9. ***
Capitolo 11: *** Episodio 10. ***
Capitolo 12: *** Episodio 11. ***
Capitolo 13: *** Episodio 12 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

 

La pioggia tamburellava incessantemente sulle strade Londra come se volesse interpretare una poetica danza tra i passanti che, armati di ombrello e coraggio, si apprestavano a percorrere quelle vie in maniera assai rapida intenti a sfuggire a qualcosa di più delle semplici gocce d' acqua gelide:

forse scappavano da loro stessi, dai loro sentimenti e dalle loro paure.

Vi era però un osservatore stranamente apatico nei confronti di quel vagare senza meta dei passanti ai piedi dell' appartamento 221 B di Baker Street, era così noioso per lui osservare senza poter rispondere o formulare ipotesi che, senza rendersene conto, si era ancora una volta rinchiuso nel suo palazzo mentale ma con gli occhi sbarrati e il viso appiccicato al vetro di quell' enorme finestra risultava una persona qualunque immersa in pensieri ordinari e semplici collegamenti.

Invece no, quello che balenava nella testa di quello strano spettatore era molto più complesso di qualsiasi crimine avesse mai risolto, per la prima volta aveva a che fare con cose più difficili e intrecciate tra loro: i sentimenti.

"Cosa ti ha reso così?"

"Oh Watson, niente mi ha reso così. Io mi sono reso così"

Cosa spinge un uomo a diventare una macchina?

Il semplice allontanarsi da tutti ed annullare i sentimenti può risultare facile quando si possiede un cervello fuori dalla norma e un palazzo mentale nel quale chiudere fuori ogni minima pulsione ì, ogni sensazione ed ogni verità ma in quella fortezza fin ora disabitata era riuscito ad entrare un uomo, un soldato e un dottore in un'unica persona.

"Sei l' essere umano più umano che io abbia avuto il piacere di incontrare"

Fino a quel momento la definizione che aveva dato a se stesso era quella di un sociopatico iper-funzionale ma, idealmente, poteva essere anch' esso un essere umano? Una macchina è ancora più perfetta e precisa senza sentimenti e lui doveva rimanere tale costruendosi uno scudo ancora più forte e ancora più potente di quello che effettivamente aveva mostrato fino ad ora, John Watson era bravo nel suo lavoro ma non estremamente intelligente poiché offuscato da emozioni che, come mine, gli martoriavano il cervello esplodendo a tratti e nei modi più in aspettati.

Lui non era così eppure sul divano dietro di lui vi erano dei fogli che spacciava per appunti mentre in realtà erano note di emozioni che lui stesso di era negato di provare.





Hey!
​E' da tanto, troppo, che non uso EFP per cui dopo aver ritrovato i miei dati di accesso ho deciso di pubblicare anche qui la mia storia, non mi piace definirla FanFiction perchè la ritengo più un viaggio introspettivo nella mente dei miei due investigatori preferiti. L'ho pubblicata oggi stesso anche su Wattpad (https://www.wattpad.com/user/myanarchicjoy​) dove sono solita scrivere di più oramai ma mi dedicherò a riprendere in mano anche questo bel sito.

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Capitolo 2
*** Episodio 1 ***


"Il modo migliore per recitare una parte è quello di viverla."

 
Insensibilmente ironica era la vita di Sherlock Holmes, come un disegno costruito in ogni sfumatura, come l’ increspatura sulla lente o la polvere in un oggetto delicato, la sua vita era la più grande simulazione di un dettaglio e il dissimulare era la copertura perfetta per ogni imperfezione, ogni trasparenza e ogni minima traccia di impulsi che potesse offuscare quella spiccata intelligenza coltivata con tanta fatica e ricevuta come più di un semplice dono, forse il continuo contrasto con suo fratello gli aveva fatto bene per portarsi al grado più alto dell’ apatia. Un uomo in carne ed ossa può ritenersi prettamente apatico e senza sentimenti tanto quanto un uomo sociale può definirsi altamente emotivo. Era un qualcosa di non scritto, un appunto invisibile archiviato all’ interno di quella tecnica mnemonica chiamata “palazzo mentale” o “tecnica dei loci”, Sherlock aveva definito esattamente ogni stanza nella sua testa, ogni minimo percorso e ogni passo nel modo più preciso possibile per poterci archiviare il maggior numero di informazioni utili perché, a suo dire, esistono cose futili che non vale la pena archiviare e conservare in eterno. Almeno per la sua mente era così.
Il problema si era presentato qualche giorno prima che la pioggia cominciasse a cadere incessante su Londra, come se fosse un avvertimento, come se qualcosa in lui stesse cambiando o, per meglio dire, stesse emergendo dalle profondità dell’ abisso dove lui l’ aveva rinchiusa. Il sentimento della mancanza e della non appartenenza stava affiorando dalle cantine di quello splendido palazzo rompendo le catene con il quale era stato rinchiuso eppure era sicuro, o voleva esserlo, che non fosse tutto a causa del trasferimento di John. Come poteva mancargli qualcuno quando per tutta la vita era stato solo?
Tutto quello di cui aveva sempre avuto bisogno si trovava lì, nella sua testa, ed era anche la stessa cosa che spesso e volentieri lo teneva ancorato ad una realtà differente, lo imprigionava e lo salvava allo stesso tempo, senza controllo ne paura. La solitudine era probabilmente la sensazione che sentiva meglio ma non lo colpiva più profondamente perché l’ aveva resa un abitudine, un modo di vivere e una regola da non distruggere mai, la sua vita era una continua fuga dalla banalità dell’ esistenza che lo circondava e, la maggior parte delle persone del mondo, erano alquanto banali per il suo cervello. Lui non poteva vivere senza esso, che scopo avrebbe avuto la sua vita?
Da qualche giorno non riusciva ad entrare nel luogo più intimo della sua mente senza che qualcuno lo seguisse ma non riusciva a delinearne il volto e le fattezze, si sorprendeva a chiamarlo John ogni volta che gli compariva accanto per poi sparire come un fantasma, come se un qualcosa nel suo cervello lo volesse accanto a lui e allo stesso tempo un’ altro qualcosa della medesima forza lo spingesse via in maniera assai contraddittoria, e lui amava le cose contraddittorie, contorte e difficili da trovare.
Il suo palazzo mentale era diventato un labirinto fuori dal suo controllo di cui si sforzava di ricordare l’ uscita.

 

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Capitolo 3
*** Episodio 2. ***


"La prova principale della vera grandezza di un uomo e' la sua percezione della propria piccolezza."

 

 

L’ ultima goccia toccò il suolo di Baker Street proprio quando Sherlock aprì gli occhi lasciando che di fronte a lui si aprì ancora una volta una realtà noiosa e statica, ci era abituato se non fosse per una strana tristezza che gli era pervenuta in corpo una volta chiusa la porta del suo palazzo mentale, aveva preso qualcosa da lì dentro e se l’ era portata nella vita di tutti giorni ma, sfortunatamente, non era un informazione utile a risolvere un caso di rilevante importanza, era un sentimento.

Uno sciocco e stupido sentimento senza valore che in verità valeva moltissimo.

 

“Diamine Sherlock, sei ancora lì?”

 

Una voce inondò il salotto arredato completamente a caso, pieno di libri, pieno di scartoffie, pieno del caos che una mente contorta poteva produrre, era esattamente lo specchio della mente dell’ uomo che lo abitava.

 

“Dottor Watson?!”

 

Nel voltarsi, Holmes, si ritrovò faccia a faccia con quello che fino ad un momento prima aveva visto come un ombra nel suo luogo più intimo ma, per quale assurdo motivo dalla sua bocca erano uscite parole tanto formali?

 

“Oh mio Dio, sei ancora sotto l’ effetto della cocaina o cosa? “

 

No, non lo era più. I suoi occhi erano tornati a vedere con lucidità anche se la sua mente era completamente annebbiata o, per meglio dire, lo era stata fino al momento in cui il Dottor John Watson aveva fatto irruzione nella stanza spazzando via quella strana sensazione di malinconia che aveva preso il posto di un apatia costante e ben ricercata. Sherlock guardò John senza proferire parola come era solito fare nei momenti in cui gli ingranaggi della sua mente lavoravano in maniera energica per trovare una risposta logica ad una situazione difficile ma, quella volta, riusciva solo a visualizzare l’ immagine del suo fidato compagno mentre l’ aereo decollava. Aveva rischiato di non vederlo mai più e forse era stato quel turbinio di sensazioni a farlo diventare così poco lucido e non tutte le droghe che aveva ingerito.

Come si dice addio?

Spesso si era trovato sul limite di quella strana parola e altrettanto spesso l’ aveva pronunciata senza significato o l’ aveva proferita sotto forma di bugia prima di lanciarsi nel vuoto. Fu doloroso anche quella volta ma non se ne rese conto fino al momento in cui l’ aereo del suo esilio non decollò.

“Allora che hai intenzione di fare con Moriarty?”
 

Moriarty.

Moriarty.

Moriarty.

 

Quel nome fece eco tra i suoi pensieri facendolo scuotere da tutto quel caos, perché Watson era sempre così agitato? Tutte quelle domande sparate a raffica senza cercare una vera risposta, senza scavare nella logica. Quell’ ingenua dipendenza dalle sue risposte lo fece sorridere perché era questo il motivo, lui voleva una soluzione da lui e solo da lui.

“Aspettiamo”
 

“Aspettiamo? Che stai dicendo? C’è un pazzo criminale risorto in circolazione!”

 

“ Sei noioso! Ti ho detto che è impossibile che sia sopravvissuto, qualcuno mi voleva qui e quel qualcuno non è Moriarty”

 

La sensazione che provò durante quella specie di battibecco fu la stessa che si prova a tornare a casa ma che diamine di sensazione può essere per uno come Sherlock Holmes che di sensazioni ne aveva provate ben poche? Eppure era tutto lì davanti a lui, come prima che se ne andasse con Mary, si era seduto su quella poltrona che era la sua poltrona in quella casa che era la sua vera casa.

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Capitolo 4
*** Episodio 3. ***


“Una persona che si basa sulla logica deve vedere ogni cosa esattamente com’è, e la sottovalutazione di se stessi costituisce una deviazione dalla verità quanto l’esagerazione delle proprie capacità.”




 

Watson fissava Sherlock con fare estremamente confuso, nel vano tentativo di pronunciare qualche parola che non potesse essere smentita o sminuita dalla sua geniale mente, spesso si era trovato  di fronte a  questa grande difficoltà sentendosi un piccolo ed inutile uomo, talmente fragile da poter essere spezzato con una parola, una frase o una semplice affermazione. Vi era però un argomento nel quale Sherlock si trovava in estrema difficoltà e cercava sempre di sviarlo in modi e tecniche che risultavano estremamente forzati e stretti per la sua intelligenza.

 

“Come ti senti?”

 

John giocò d’ anticipo per sorprenderlo in una maniera talmente semplice e naturale che lo sgomento nel viso del suo interlocutore sembrò essere doppio, eppure lui non mostrava mai alcun segno visibile di stupore, sorpresa, tristezza o felicità come se addosso indossasse una maschera troppo spessa per intravedere cosa si nasconda dietro ma ora, per qualche strano motivo, si era aperta una crepa che lasciò intravedere un qualcosa di estremamente diverso almeno per un secondo.

 

“Cosa intendi dire?”

 

Passato quell’ attimo tornò l’ Holmes di sempre e con le mani congiunte sotto al mento e gli occhi socchiusi tentò di stravolgere quella domanda innocente per portarla a qualcosa di più razionale. Come si sentiva?

Idealmente avrebbe dovuto rispondere che non si sentiva affatto e che tutto quell’ marasma nella sua testa gli stava causando dei seri problemi a percepire le cose in maniera logica e razionale, gli era difficile concentrarsi su qualcosa di specifico e non per l’ effetto della cocaina oramai in esaurimento ma per il nascere di qualcosa che aveva tentato di sopprimere. Qualcosa di perfino più forte dell’ ammirazione che aveva provato per Irene Adler tanto tempo fa, qualcosa di più misterioso di cui non conosceva il nome ma che rispondeva ad una domanda che John gli aveva più volte posto nel tentativo di scavare nella sua vita privata: “Hai mai avuto una relazione Sherlock?”

Che diamine importava se e quante volte fosse stato con una donna? Era come se il valore di una persona si potesse misurare in relazione ad esse, eppure Watson ne aveva avute parecchie e le cambiava talmente spesso da far si  che persino Sherlock potesse confonderle e, tutto questo, che scopo aveva realmente?

Sherlock fece un sospiro corto e fermo prima di tornare a guardare John e i suoi strani maglioni.

 

“Intendo dire se stai bene Sherlock, sai con la storia di Moriarty, l’ esilio e insomma hai ucciso un uomo e ti sei imbottito di droghe. Ora stai di fronte a me in vestaglia a pensare a chissà cosa e, lo ammetto, mi fai preoccupare?”

 

“Preoccupare?”

 

Preoccupazione.

Un’ altra strana parola che poco spesso aveva usato o almeno non nel suo pieno senso, ne aveva però sentito l’ essenza fin nel profondo ogni volta che il suo fedele compare era stato in pericolo e lui si era prodigato per aiutarlo fiondandosi senza pensare e quell’ assenza di pensiero logico spesso lo spaventava, era diversa da qualsiasi cosa avesse mai provato.

 

“Si, preoccupare, sembri strano e assente. Io sono stato in guerra e so come ci si sente ad uccidere qualcuno.”

 

Disse questo tutto d’ un fiato mentre si strofinava le mani sudate sui pantaloni grigi e leggermente sbiaditi.

 

“Dovevo pur proteggerti”

 

Qualcosa sfuggì al controllo del famoso detective e finì sulla sua bocca sotto forma di parole dal dubbio significato e  dall’ atroce verità, tossì nel tentativo di dissimulare quella frase detta per errore.

 

“Proteggermi?”

 

“Si, se fossi stato arrestato chi avrebbe badato a Mary e a tuo figlio, di certo non io!”

 

Subito tornò cinico e scostante come se quella defiance fosse solo una mancanza momentanea del suo ragionamento psichico e non una vera condizione mentale, doveva controllarsi di più e scegliere le parole con più peso.

 

“Credo dovremo dormirci su Watson! La tua camera è ancora intatta al piano di sopra”

 

Sherlock prese il violino e iniziò a suonare una strana melodia guardando fuori dalla finestra quel mondo che gli apparteneva solo in parte, le note fluirono senza paura perché quello era l’ unico modo che aveva di esprimersi e mettersi a nudo ma, quella volta tentò solo di coprire le parole scontate del suo amico.

 

“Devo tornare da Mary e lo sai”

 

“Certo mi sembra ovvio!”

 

Non si curò più di lui mentre le sue mani suonavano la triste melodia del suo cuore.

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Capitolo 5
*** Episodio 4. ***


Caro Watson,

 

Ho fatto pratica con le parole meno razionali questi giorni e credo di aver capito che, con ogni probabilità, i sentimenti siano un difetto chimico fuori dal mio controllo ed anche se ho sempre creduto di essere una macchina perfetta per ognuna di esse esiste un virus, il mio nasce con il seme del perdono che non sono mai riuscito seriamente a pronunciare tanto che è germogliato in me mettendo radici profonde nel giardino del mio palazzo.

Le parole non sono il mio campo, John, ma il tuo quindi spero mi perdonerai se risulteranno alquanto banali e prive di fondamenta o nesso logico, mi trovo più a mio agio con la musica perché forse è l’ unica parte di me che ancora riesce a percepire qualcosa e lasciare spazio alla normalità, se così si può definire il contrario del mio essere.

Ho spesso detto cose orribili, cose che partivano dalla mia bocca per arrivare alle orecchie di chi mi era di fronte per poi spezzargli il cuore, un esempio può essere quello di Molly, ma non me ne rendevo mai veramente conto fino a che esse non uscivano dalla mia mente e le facce di chi mi stava attorno diventavano un misto tra sorpresa e delusione perché quella che io definivo un ovvia e scontata deduzione poteva essere un segreto ben custodito nella mente di qualcuno. Mai mi era saltata agli occhi la crudeltà del mio modo di agire prima di incontrare il tuo parere in merito perché è forse questo che fanno gli amici, danno pareri. Non pareri banali come feci io quando ti suggerì di toglierti quei ridicoli baffetti perché ti invecchiavano ma pareri sinceri provenienti dal cuore, io sfortunatamente ho sempre dato per scontato di non averlo e quindi mi sono lasciato andare credendomi che tutto mi fosse dovuto ma, forse, qualcosa dentro di me c’è ed è seppellito nei meandri di un palazzo mentale che mi sono creato per rinchiudere me stesso oltre alla marea di informazioni che negli anni ho accuratamente archiviato, ci sono anche tutte le volte che sbadatamente ho affermato che la tua mente fosse nella media, normale o addirittura inetta, tutte le volte che ho sottovalutato le tue capacità perché il mio ego cercava di saltare fuori a più riprese ed io dovevo avere l’ ultima parola. Ne sentivo il bisogno come lo sentivo della nicotina o di qualsiasi altra droga che mi dicevo di saper controllare quando non era così ed ho sbagliato.

E’ stato tutto un enorme errore culminato con la mia morte, la mia finta morte, agendo per proteggerti ho trascurato tutta una serie di fattori che non avevo minimamente calcolato tra le tredici possibilità che il mio cervello era riuscito a produrre e, forse, ho agito più per vedere dove potevo spingermi che proteggere te eppure mi hai perdonato dandomi dell’ “Essere umano”.

Ora come ora non so cosa significhi e quando la razionalità viene meno e la mia mente si insinua nel dubbio più profondo ho paura ma allo stesso tempo una sola parola capeggia nella mia testa: Perdono.

Perdonami John per tutto il male che in un modo o nell’ altro ti ho arrecato.

-SH
 

Il violino smise di suonare mentre il suo cuore produceva una melodia malinconica che aleggiava per tutta la stanza. Sherlock si tolse la vestaglia e indossò il suo solito cappotto con fare disinvolto e sicuro, l’ unica incertezza gli venne quando indossò il cappello ma non capì perché.

Si guardò indietro solo una volta e fissò il punto preciso della stanza in cui aveva nascosto quelle parole poi riaprì gli occhi e velocemente chiuse la porta del 221B di Baker Street, ancora una volta quel posto sarebbe stato un po’ senza di lui e ancora una volta avrebbe lasciato John commettendo lo stesso errore di calcolo ma lui era Sherlock Holmes e gli piaceva essere Sherlock Holmes.

 

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Capitolo 6
*** Episodio 5. ***





 

"Sono proprio le soluzioni più semplici quelle che in genere vengono trascurate."


 

Il 221B era di nuovo vuoto, immerso in una solitudine che probabilmente gli apparteneva interamente poiché anche colui che l’ aveva abitata era così dannatamente solo nonostante, con il passar del tempo, molti si fossero affezionati a lui questo sentimento rimaneva fisso nel suo cuore come se gli appartenesse fin dal principio e, ogni cosa che sfiorava, assorbiva questa parte di lui.

Baker Street  era piena di niente senza Sherlock Holmes, sembrava un quadro senza colori attaccato ad una parete senza poter risplendere e vantarsi della sua bellezza.

 

“Sherlock, Sherlock, Sherlock… oh diamine, dove siete andato questa volta?”

 

La signora Hudson fu la prima ad accorgersi di quella inestimabile mancanza quando, con fare innocente, varcò la porta del suo vicino per chiedergli semplicemente se aveva bisogno di qualcosa come era solita fare. Non nascondeva la sua ammirazione per lui e soprattutto non tentava di oscurare le sue stranezze, era una padrona di casa assolutamente negligente e comprensiva ma in quel momento si sentì tradita ancora una volta, come se quel suo scappare rappresentasse un altro tipo di abbandono che non era pronta a gestire, poteva sopportare ogni cosa, dagli esperimenti folli alla troppa polvere sui suoi mobili ma non questo continuo andarsene senza tornare, questo suo rifiuto di aiuto e bisogno di solitudine.

Con fare preoccupato compose il numero di John per dargli la notizia e a sua volta lui stesso digitò quello di Mycroft e fu così che nel 221B tornò un po’ di vita, un po’ di voci confuse e molta preoccupazione.

 

“John dovevi rimanere qui a guardarlo?”

 

“Ho una moglie incinta, non posso badare sempre e solo a lui.”

 

Mycroft sembrava furioso ma allo stesso tempo estremamente preoccupato per il fratellino minore, che, ancora una volta aveva deciso di fare di testa sua ed inciampare negli stessi identici errori che lo avevano portato ad uccidere Magnussen. Perché non chiedeva mai il suo aiuto confidandosi con lui quel poco che bastava per salvargli la vita? Quella testardaggine intrinseca era un vizio di famiglia che contraddistingueva anche lui ma, lavorando nei servizi segreti, aveva comunque imparato a gestirla scambiandola con un ben dosato lavoro di squadra.

 

“ So cavarmela da sola!”

 

Mary entrò nella stanza sfoggiando una sicurezza che prima di allora non aveva mai mostrato fino infondo, si era sempre nascosta alla luce del sole per dipingersi solo come un’ umile infermiera innamorata di un dottore ma, ora che tutti sapevano, era libera di mostrare il duo forte carattere senza paura o forse un po’ ne aveva ancora, aveva il timore di spaventare John.

 

“Invece di discutere come due donnicciole, avete idea di dove sia andato?”

 

“L’ ultima volta che ha fatto una cosa del genere l’ ho trovato in un covo di tossici completamente fatto!”

 

John sbraitava senza controllo, si sentiva tradito per l’ ennesima volta dalla stessa persona che gli aveva chiesto scusa una volta di troppo e lui l’ aveva accettata, l’ aveva sempre accettata. Lo spaventava a morte l’ idea di non poterci riuscire anche questa volta, lo terrorizzava più dell’ idea di non rivederlo più.

 

“Ragazzi, dovete pensare solo una cosa: cosa farebbe Sherlock Holmes?”

 

La voce squillante della signora Hudson rimbombò per tutta la stanza fino ad arrivare alle orecchie dei confusi interlocutori, fu in quel momento che John Watson provò un impeto di rabbia che riuscì a controllare giusto in tempo, prima che le urlasse di stare zitta, esattamente come faceva Sherlock quando doveva pensare.

Già, Sherlock.

Quel pensiero lo sorprese portandogli alla mente tante domande ma una sola risposta: non voleva iniziare a comportarsi come lui. Nella mente gli riaffiorarono tutti i nascondigli di quello che considerava il suo migliore amico ma, era certo, che qualsiasi cosa gli fosse saltata in testa sarebbe stata diversa dalle altre volte, non si sarebbe mai rinchiuso in un covo di tossici eppure una certezza l’ aveva.

Lui cercava Moriarty.

Un barlume gli luccicò negli occhi talmente forte da costringerlo a scendere di corsa le scale del 221B e scendere in Baker Street, infondo si era comportato esattamente come non voleva, andandosene senza dire niente aveva rispecchiato in pieno il carattere di Sherlock Holmes.

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Capitolo 7
*** Episodio 6 ***


"La mia vita non è che un continuo sforzo per sfuggire alla banalità dell'esistenza.​"

 


 

Il vagare senza meta era una cosa che Sherlock faceva spesso, aveva quella straordinaria capacità di rendersi invisibile tra la gente che oramai lo conosceva e lo etichettava o come il classico investigatore privato o, sfortunatamente, come assassino.

Forse quest’ ultima definizione gli calzava più a pennello facendolo sentire insolitamente calmo, freddo e distaccato, non si pentiva di quello che aveva fatto ma allo stesso tempo non se ne compiaceva, quello che diceva la gente era solo un dettaglio irrilevante di cui solo lui conosceva le sfumature: la vita di John era una di queste, una sfumatura più potente delle altre, una ragione su un milione di parole vaghe ma, ora come ora, doveva tenerlo fuori da quel disastro che si era creato intorno.

Svoltò un vicolo a destra, poi un altro a sinistra, poi un altro ancora nella stessa direzione senza rendersi conto di dove stesse andando con precisione, i sobborghi di Londra erano la sua seconda casa, ne conosceva le sfaccettature e le sfumature più oscure, molti dei suoi “segnalatori” vivevano lì ed era uno dei motivi per il quale doveva tenere un profilo basso. Ora non stava giocando, non più.

Sherlock chiuse gli occhi per un secondo, quando un alito di vento gli scompigliò i capelli, assomigliava al richiamo di un tempo passato o, per come lo percepì John di un presagio futuro.

 

Il Dottor Watson si ritrovò in bezzo ad una strada piena di gente insulsa, non era bravo come Sherlock ad orientarsi soprattutto se non aveva la minima idea di cosa cercare, gli e lo diceva sempre che la sua mente aveva capacità ristrette e, per quanto tali parole suonino come un insulto, riflettevano la cruda e semplice verità: Nessuno sarebbe mai stato al pari di Sherlock Holmes. Nessuno.

Per un secondo si mimetizzò in lui e chiudendo gli occhi provò a visualizzare la piantina di Londra come il suo partner aveva fatto nella loro prima avventura, all' epoca gli sembrò qualcosa di sconvolgente mentre in realtà era una cosa estremamente normale.

 

“Dove diamine è andato?”

 

Prese una strada a caso sulla sinistra senza badare a niente di quello che lo circondava. Perché lo stava cercando?

La risposta comparve come un barlume nella sua testa per poi dileguarsi immediatamente, aveva forse paura di perderlo ancora?

Effettivamente aveva un senso e sarebbe stato così se solo lui non avesse una moglie di cui occuparsi e una bambina in arrivo, la cosa più saggia sarebbe stata tornare indietro e aspettare proprio come aveva sempre fatto ma, quella volta, un istinto nascosto era prevalso in lui facendolo correre via per dimenticare ogni singolo pensiero quotidiano.

Stava ancora al gioco di Sherlock Holmes ma non più per quell’ assurda adrenalina che gli provocava ma per tirarlo fuori dai guai solo che ora non stava più giocando.

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Capitolo 8
*** Episodio 7 ***


 

 

“Mio caro Watson, ti prego di non cercare le tracce che eviterò di seminare quando i miei lenti passi si bloccheranno di colpo fino a raggiungere la meta che non mi è dato nominare ne a te ne a nessun altro. Mi scuso se per mia sciocca volontà posso arrecare dolore, lo faccio sempre, inconsapevolmente ma con la coscienza che il tuo bene (per qualche strana ragione) viene prima del mio”


 

L’ edificio che si parò di fronte ai piedi di Sherlock Holmes non era altro che una vecchia casa abbandonata in una magione senza nome, la fissò con estrema attenzione riconoscendo i tratti della bellezza oramai perduta che la contraddistingueva prima che le fiamme la divorassero portandola con loro in un inferno di cui non gli era dato conoscere il nome ma che era lo stesso dal quale il piccolo Holmes proveniva.

Fece un passo avanti, lentamente, provocando lo scricchiolio delle foglie secche sotto i suoi piedi, era un rumore che gli ricordava qualcosa ma non riusciva a focalizzare cosa nonostante nella sua mente si iniziavano ad aprire nuove stanze, nuove porte. Ora poteva vederlo chiaramente: Il giardino intorno a lui era immacolato, i fiori crescevano rigogliosi emanando un profumo addirittura troppo forte e pungente per i suoi gusti, gli attrezzi da giardino erano accuratamente riposti in una cesta appoggiata al muro di mattoni seminuovi e tirati a lucido, la vernice della porta verde smeraldo era intatta a parte per un piccolo segno vicino al pomello destro, un piccolo cerchio marrone fatto con il pollice quando la pittura era ancora fresca, di lato invece vi era una piccola casetta in legno di noce da cui spuntava fuori un musetto marrone e dolce che piano piano si portava avanti mostrando tutto il suo pelo ramato e le orecchie ondulate, corse incontro a Sherlock appena lo vide ed insieme varcarono la porta.

Una volta dentro tutto scomparve e il grigiore regnò sovrano divorando le scale a chiocciola e i pavimenti sottostanti, il profumo floreale fu coperto dalla puzza di cenere, fumo e animali morti.

Barbarossa era sparita così come il sorriso di Sherlock che ora era solo la riprova di una concentrazione troppo attenta e allo stesso tempo troppo distante: sapeva dove andare senza bisogno di osservare niente, sapeva quale era la porta da aprire definitivamente.

Terzo piano lungo il corridoio, seconda porta a destra prima del bagno e vicino alla cassettiera il legno di quercia con le maniglie dorato e lo specchio con i decori del medesimo colore. Ora tutto quello non c’ era più, il nulla capeggiava come unico possessore di quella casa passando dalle finestre rotte sotto forma di un gelido vento d’ inverno.

Tutto era andato perso tranne quella porta, quel frammento di memoria che gli mancava per completare il suo palazzo mentale, quel dolore ricorrente che provava e quel tassello che gli faceva perdere il controllo, tutto per una porta grigia mangiata dalle fiamme e consumata dal tempo tutto lì o forse niente.
 

 

Quando ebbe il coraggio di entra nel lato oscuro della sua mente si ritrovò solo in un luogo che nemmeno la sua brillante mente riusciva a raggiungere ma, effettivamente, niente di quello che i suoi occhi si trovarono di fronte fu così sorprendente da giustificare il dolore che provava ogni volta che nel suo palazzo mentale cercava di varcare quella soglia. Era una stanza piccola con un letto che un tempo doveva essere rosso mattone accatastato alla parete, la rete sfondata e il materasso fatto a brandelli da qualsiasi uomo o animale avessero dormito lì negli ultimi dieci anni, i resti di un mobile si ergevano invece sulla parete sinistra coperti da ammassi di vestiti strappati e accatastati che non riusciva a riconoscere come propri o come quelli di Mycroft. Quello che però colpì la sua attenzione furono dei vetri rotti a terra vicino a dei residui di legno spigolosi che avevano tutta l’ aria di essere i frammenti di una cornice, Sherlock Holmes si abbassò ad esaminarli a cercare a terra quella che si rivelò essere una foto bruciata ai margini ma ancora si distinguevano bene le tre figure principali, tre bambini: Sherlock, Mycroft e uno più alto, più snello ma con i loro stessi tratti anche se leggermente più maturi.

“Non mi hai detto di avere un altro fratello!”

Il detective si voltò al suono di quella voce così familiare e lo vide, sulla soglia della porta che poco prima aveva varcato, era lui. John.

“Come mi hai trovato?”

“Ti credi sempre troppo furbo sai!”

Rise come era solito fare quando quelle rare volte stupiva il suo amico, rise con un’ insana arroganza.

“N- n – no, No! Non può essere mio fratello, me lo ricorderei! Io mi ricordo sempre TUTTO!”

Gli urli di disperazione cominciarono a rimbombare in quella casa vuota senza arrivare da nessuna parte.

“Mio caro amico, tu credi di ricordare tutto, forse la tua mente è mediocre come la mia o forse sei ancora fatto. Ammettilo, sei di nuovo fatto!”

“NO!”

Sherlock chiuse gli occhi come se quel gesto riuscisse a farlo urlare più forte, con più rabbia, con più tristezza ma, quando li riaprì si ritrovò solo.

Era un estraneo in casa sua.

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Capitolo 9
*** Episodio 8 ***


John Watson aveva perso il conto delle volte in cui sarebbe voluto entrare nel cervello di Sherlock Holmes, delle volte in cui gli sarebbe piaciuto scavare nei meandri di quella mentre altamente superiore in alcune cose ed infinitamente banale in altre, se la figurava spesso come un labirinto senza una precisa via d’ uscita e pieno di enigmi di cui solo il proprietario conosceva la soluzione.

Un puro caos perfettamente in ordine nella sua imperfetta confusione.

Sherlock era in grado di nascondersi se lo voleva, scappare se lo sognava e sparire se gli fosse stato utile, era in un fantasma in un enorme città piena di occhi puntati su di lui, come diavolo avrebbe fatto a trovarlo ancora una volta?

Fece un respiro che servì a poco a calmare i suoi nervi ma continuò a provarci, continuò a fingersi lui, a ragionare come lui ad essere lui ma niente di tutto quello che provava e sperimentava lo avrebbero portato al suo livello e ne era pienamente consapevole nonostante fosse passata una settimana durante la quale tutti sembravano essersi dimenticati di lui, del detective assassino con il cappello.

 

“Ricomparirà John, ne sono sicura!”

 

Le parole di Mary non facevano altro che innervosirlo portandolo a credere esattamente il contrario, spingendolo dalla parte opposta del fiume dei suoi pensieri e spingendolo negli abissi della sua mente, era orribile da ammettere quanto non riuscisse a sopportare il suono della sua voce in quei momenti: chi gli assicurava che non gli stesse mentendo?

Le bugie erano come una costante nella sua vita, una trappola che lo incatenava alle pareti di un esistenza che credeva essere completamente diversa, più semplice e possibilmente più lineare poiché mai nella vita si sarebbe aspettato di sposare una spia e poi perdonarla per le sue continue, assurde e profonde bugie ma l’ aveva veramente assolta dalle sue colpe?

Si fermò a pensare ad altro per un momento ricordando una cosa che in effetti non si era mai realmente lasciato alle spalle: la finta morte di Sherlock.

Lo aveva picchiato, gli aveva urlato contro, lo aveva odiato, rinnegato e poi ripreso, poi lasciato per poi infine vederlo uccidere per salvare la falsità del suo matrimonio.

 

“Io esco!”

 

Probabilmente Mary non udì quelle parole perché le disse solo in fondo alle scale, prima di salire sul taxi che lo avrebbe portato a Baker Steet, lì riusciva a pensare meglio, ad ordinare i pensieri senza darsi la colpa di ogni singolo gesto di Sherlock Holmes ma perché si preoccupava tanto di un uomo, una macchina, che non aveva fatto altro che abbandonarlo nei più disparati modi?

John Watson prese il suo posto sulla poltrona e osservò il vuoto di quella stanza e la solitudine del violino lasciato distrattamente in un angolo in fretta e furia. La melodia della sua vita era composta da suoni che quelle corde avevano suonato e silenzi in cui ne aveva sentito la mancanza, ora lo sapeva.

Chiuse gli occhi ma non vide niente, non conosceva le vie del palazzo di Sherlock Holmes, vide solo un enorme nero in perfetta tinta con la sua esistenza priva di definizione e di cita stessa, chi era veramente John Watson?

D’ impulso fece quello che non avrebbe mai fatto fino ad un secondo prima: si alzò di scatto e lanciò il coltello che era sul tavolino accanto a lui colpendo la parete di fogli accuratamente sistemata a casaccio, era un gesto non da lui ma dalla persona che voleva essere in quel preciso momento e, caso vuole, che nessun palazzo mentale potesse sostituire la fortuna di centrare proprio quel foglio, l’ unico indizio che Sherlock non aveva rimosso.

Era un foglio strappato da un blocco di appunti scritto con una calligrafia tremolante che di sicuro non era quella di Moriarty e nemmeno quella di Sherlock anche se ne ricordava vagamente i tratti, il sangue e le due parole però non mentivano:

 

MISS ME?

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Capitolo 10
*** Episodio 9. ***



 

Bastardo era il ticchettare senza senso di un orologio rotto e mai esistito.
Batteva incessantemente il suo tempo tra le pareti del cervello di Sherlock Holmes come a volerlo spaccare e rendere stupidamente inutile e inutilizzabile al pari di una mente comune e fin troppo basilare per essere compresa.

Tic-Tac, Tic- Tac.

Era il suono di una vita che si stava spezzando a causa di un esistenza sconosciuta segnata da un limite che qualcun’ altro gli aveva posto, un limite con un nome che non ricordava, un viso che non riconosceva e dei sentimenti che non gli appartenevano. Una sensazione fece breccia in quella fredda e desolata landa in cui si trovava, un’ altra blasfema emozione che il più delle volte è conosciuta come solitudine.
Sherlock in quella stanza distrutta avrebbe voluto gridare parole senza senso fino a soffocare ogni battito di quel cuore che stava andando all’ impazzata, alla deriva di un posto sconosciuto nel quale non avrebbe saputo ritrovare la strada. Furori non pioveva più, Londra aveva smesso di versare lacrime amare sui suoi abitanti ma lo stato d’ animo di quell’ eterna città sembrava essersi trasposto in un'unica persona che non era in grado di reggere tanti sentimenti tutti in una volta.
Da dove proviene il male?
Quel dolore insensato che provava era il sintomo di una rottura e la porta che aveva aperto poco prima era l’ orlo del baratro in cui era appena caduto, lo sapeva eppure lo aveva fatto, se qualcuno gli e ne chiedesse il motivo probabilmente non saprebbe rispondere, il silenzio era l’ unica via di fuga che poteva sopportare.

Tic-Tac, Tic-Tac.

Nel cappotto ce n’ era ancora una, una scorta di emergenza che aveva preso prima di scappare da uno spacciatore di fiducia, quel calmo nettare di pace che più volte aveva lasciato libero il suo cervello di vagare senza che lui si sforzasse a fermarlo ora era quello di cui aveva bisogno, era quello che voleva, che bramava, che desidera più di quanto avrebbe voluto avere John vicino, sfogarsi con lui, vedersi attraverso i suoi occhi.
Ma cosa c’ entrava lui adesso?  Cosa c’ entrava lui ancora?
Mai durante un caso Sherlock, me lo avevi promesso.”
Mai durante un caso, mai durante un caso.

Tic-Tac, Tic-Tac.

Le pareti intorno a lui si fecero più strette quasi a volerlo schiacciare al loro interno impregnandolo di quei ricordi che non sapeva di avere e che probabilmente, in quel preciso momento, non avrebbe mai voluto avere, quando non si hanno ricordi non si hanno sentimenti ed è forse questa la vera chiave per chiudere per sempre ogni sensazione in una cantina, dall’ amore all’ odio, dalla felicità alla tristezza. Si vive meglio senza il bene o il male, si vive d’ incanto nell’ apatia.
O forse no?
Sherlock Holmes era in una prigione di cenere e macerie non solo fisicamente ma anche il suo palazzo mentale sembrava essersi ridotto ad un cumolo di niente, come se fosse bruciato dall’ interno con la combustione di qualcosa senza un nome preciso, il suo posto sicuro era andato e la paura aveva preso il sopravvento tanto da spingerlo ad alzarsi da quel letto polveroso e distrutto.
Corse, corse per le scale con le mani nei capelli, ad occhi chiusi tentando di ricordare la strada perché lui ne era capace, doveva esserne capace ma invece continuava a sbattere tra le pareti di quella villa che un tempo chiamava casa, inciampava sui gradini, rotolava giù e si rialzava per correre ancora.
Era in trappola dentro la sua testa.

Tic-Tac, Tic-Tac.

Arrivò alla porta d’ ingresso e l’ apri per poi piantare un piede sullo scalino e finire giù tra il fango e i rottami di una vita che ora sapeva essere completamente sbagliata, si rialzò in ginocchio tentando di pulirsi alla meno peggio il cappotto fino a che poi si tradì da solo infrangendo la promessa che aveva più volte tentato di mantenere.
La sua mano destra sembrava essere fuori controllo quando si infilò nella tasca per prendere una piccola scatolina marrone, rettangolare e piatta con al suo interno una siringa dalla punta minacciosa e dal liquido fatale, la bramò per qualche secondo assaporando la liberà che si celava al suo interno e, con un sorrisetto compiaciuto si apprestò ad abbandonarsi ad essa.

“Mai durante un caso Sherlock.”

Una mano afferrò quella pozione di salvezza per gettarla a terra di modo che il suo nettare non fece altro che mischiarsi con il fango, questa volta però era reale ne percepiva il respiro, ne vedeva le scarpe infangate, la camicia ripiegata male e la maledetta giacca di pelle da ragazzino.

“Dai tirati su!”

Una mano gli si porse davanti al viso, l’ afferrò con la stessa veemenza con cui avrebbe voluto conficcarsi l’ ago nel braccio ma forse quello era meglio, era più forte, più vero e più reale.

“Devi smetterla di scappare, so sempre come trovarti”

John Watson sorrise con un misto di felicità e rabbia negli occhi.
 

"Mio caro Watson,
​Il dolore che provo è come una droga potente e malamente confezionata che mi porta ad avere strane allucinazioni, mi fa sentire vivo quasi quanto la paura o la morte perchè l' amore e la felicità non sono ancora predisposti nella mia macchinosa mente, credo che mai potrei esserti più grato per essere sfuggito alla tua quotidiana banalità ed aver preso una fetta del male che provo. Il mio palazzo mentale non sarebbe mai completo senza la voce dei tuoi sentimenti."

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Capitolo 11
*** Episodio 10. ***


 
 

"Ho vissuto nell'oscurità per molto tempo e negli anni i miei occhi
si sono adattati al buio, che è l'unico mondo in cui riesco a vedere."


Sparpagliava pezzi di se al suolo cercando di ricomporli tra il fango e la nebbia, continuava a cercare quelle piccole briciole di un esistenza scomposta proprio come un mendicante cercherebbe di raccogliere le monetine cadute per sbaglio dalla tasca di qualche ricco imprenditore.

Quel maledetto fango, però, continuava a coprire tutto mischiandolo, avvolgendolo, ingurgitandolo nelle profondità di una terra nascosta proprio come il seme della sua memoria e di quei ricordi che suo malgrado era riuscito a dimenticare, perché?

Per tutta la sua vita si era allenato ad immagazzinare solo le informazioni realmente utili e ad eliminare quelle che definiva mediocri o non importanti allo sviluppo non solo della sua attività ma anche della sua esistenza, non sapeva nulla di letteratura, filosofia o astronomia, capiva e si interessava relativamente poco della politica ma compensava questi suoi voluti limiti con la chimica, l’ anatomia o la politica scandalistica. Era sempre filato tutto liscio seguendo questo basilare schema di sopravvivenza, almeno fino a quel preciso momento in cui sfidando se stesso aveva sfidato anche ognuna delle sue mancanze riportandole alla luce nella maniera più brutale possibile, eppure, alla brutalità ci era abituato, ne conosceva i segni che a tratti riportava anche sul suo corpo.

Il cielo era cupo proprio come la terra su cui era disteso Sherlock Holmes, uno dei più grandi detective Londinesi era sdraiato sul fango proprio come un maiale, inerme e a pancia in su per dichiarare una sconfitta che sapeva di muffa e marcio, nemmeno Moriarty era mai riuscito a ridurlo così. Il gioco con quel genio del crimine era stato divertente, una continua danza di menti brillanti che si incontrano e si scontrano fino all’ orlo della fine, la sua fine o forse no? Forse anche quell’ astuto criminale dai tratti semplici era semplicemente una marionetta in mano a qualcun altro, una mente così ampia tenuta sotto scacco da qualcuno che conosceva bene eppure non se ne ricordava.

Questa volta Sherlock era sicuro che nemmeno John lo avrebbe perdonato e, mentre la terra si impregnava ancora più insidiosamente su di lui, ricordò con un briciolo di tristezza il giorno in cui lo aveva condannato a ricadere nei suoi sbagli, nei suoi dolori e nel suo continuo e costante bisogno di adrenalina.

Può un soldato non essere più un soldato?

Ricordò in maniera assai buffa i suoi baffi e quanto quella peluria informe cresciuta virilmente sul suo viso lo facesse sembrare più vecchio e cupo allo stesso tempo quasi volesse nascondere volontariamente quel sorriso che a volte compariva in maniera assai flebile sul suo volto, quasi fosse un accenno di un qualcosa di molto potente all’ interno. Perché si, lui spesso sorrideva dentro ma teneva a portata di mano una specie di filtro per le sue emozioni che gli permetteva di mostrarle piano piano, in maniera timida poiché ne aveva paura allo stesso modo in cui Sherlock temeva che esse potessero distruggerlo.

Erano simili nella loro diversità e ora che quel dottore, soldato, amico, era l’ unico abitante della sua mente ne vedeva chiaramente i tratti più nascosti e disparati scavandogli dentro in un modo in cui non era mai stato capace prima, era strano, incredibilmente strano ma allo stesso tempo magicamente piacevole. Assomigliava molto ad un sussurro, un vento caldo che si faceva breccia con calma nelle stanze oramai distrutte della sua mente rendendolo inerme e allo stesso tempo forte.

Non sapeva però dargli un nome, tutto quel marasma di emozioni erano sempre state per lui un difetto chimico che si trova nella parte perdente del cervello e, in quel momento, era esattamente dove lui si trovava, una macchina però non può imparare nuovi comandi se prima non viene resettata. Fu così che un barlume si presentò nei suoi occhi ormai vuoti e lo costrinse ad alzarsi da quel terreno impervio, si tolse la sporcizia di dosso senza riuscirci veramente ma non gli importava d’ altro canto ora per un secondo si era sentito vivo come se tutto potesse essere possibile e i giochi fossero ancora aperti, lì a sua disposizione. Era talmente assorto nel suo entusiasmo che non vide nulla, non sentì il colpo sordo del collo di una pistola che lo colpì alla nuca, non vide il volto di colui che lo aggredì ma ne sentì  chiaramente la voce, era un timbro familiare e profondo proprio come il suo. Tutto accadde in un attimo, lo stesso attimo nel quale tutto era cominciato.

“Ti sono mancato fratellino?”

Sherlock Holmes cadde di lato come una bambola di pezza, i suoi occhi erano aperti ma riusciva a vedere solo a tratti i fasci d’ erba che lo contornavano facendogli da cuscino e più tentava di rimanere sveglio più la ferita alla testa prendeva a sanguinare copiosamente.

“Ti credevo più intelligente, sai?”

L’ aggressore con fare sicuro rimise la sua nove millimetri nella fondina di pelle nera che teneva accuratamente riposta sotto la giacca di cachemire grigia di prima qualità e conservata con cura quasi andasse sfoggiata nelle più grandi occasioni e , forse, quella era la più importante della sua vita da molto tempo, non si scompose nemmeno a trascinare il corpo del fratello giù per il vialetto fino alla sua macchina, si limitò a trascinarlo in maniera scomposta e a tratti crudele ridendo a crepa pelle dell’ ironia della situazione.

Era un piano che architettava da sempre in maniera assai precisa e meticolosa coltivandolo come il più proficuo dei pensieri e il solo scopo di una vita di solitudine e reclusione.

Ora i giochi si erano ironicamente ribaltati e l’ unico protagonista stava per diventare colui che era nato e cresciuto nell’ ombra oscura e tenebrosa di un destino scelto per lui. Era il frutto di ciò che gli avevano fatto o più probabilmente di ciò che si era fatto, ora non importava più perché mentre caricava il corpo inerme di suo fratello nella sua BMW nera riusciva a provare quel senso di appartenenza che per tutta la vita gli era stato negato, lo sentiva riempirgli i polmoni come se stesse respirando per la prima volta, come se si sentisse vivo e insensatamente felice di esserlo restando inerme alla luce del sole che d’ ora in poi non lo avrebbe più bruciato.

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Capitolo 12
*** Episodio 11. ***


"I said dangerous and here you are."



John se ne stava come se niente fosse, indispettito, sull’ orlo del baratro che lui stesso si era creato scavando nelle profondità di una vita che non gli apparteneva, pregando per far si che un giorno fosse anche la sua. Assomigliava molto ad un giocoliere che si destreggiava in un circo senza nome e forma ma pieno di spettatori con gli occhi puntati su di lui al solo scopo di mettere in discussione la poca stima che aveva di se stesso.

Era tutto lì, in quella casa confusionaria e nella sua mente assorta, era tutto chiaro ed evidente come quel foglio che stringeva tra le mani e quella scritta rosso scarlatto che spuntava con aria minacciosa, la fissava, ne toccava i contorni e la porgeva a favore della luce proprio come aveva visto fare Sherlock, si sentiva importante a giocare di nuovo al detective ma nonostante ciò era già conscio di quello che stava cercando: era sangue.

Per un momento, breve ma illuminante, si ricordò di essere un dottore e  un soldato ed era forse giunto il momento di smettere di essere qualcuno che non sarebbe stato, se si trova lì al 221B di Baker street non era per le sue doti investigative ma per le sue conoscenze mediche e forse, in parte, per il suo buon cuore.

“Sapevo che ti avrei trovato qui!”

Mary faticava a salire le scale con quel pancione che la costringeva ad ondeggiare lateralmente come se fosse una signora vecchia e stanca, non era abituata a quelle condizioni fisiche così stranamente difficili per lei, muoversi era importante per una persona del suo calibro, addestrata ad un certo tipo di movimenti silenziosi e precisi atti a muoversi silenziosamente e in maniera studiata. Era oramai da tempo che non riusciva più a sorprendere suo marito alle spalle e abbracciarlo mentre era immerso nei suoi pensieri, talmente profondi da farlo sobbalzare al tocco delle sue mani sui fianchi.

“Mary! Diamine, dovresti essere a casa a riposate!”

“Andiamo John, tu dovresti essere con me e invece ti ritrovo sempre qui. Siamo attratti entrambi dal gusto del pericolo.”

Per un secondo John Watson fissò il vuoto ricordando  il giorno in cui Sherlock Holmes gli aveva detto la stessa identica cosa, era il giorno in cui si erano conosciuti eppure sembrava conoscerlo da una vita intera, non erano le sue deduzioni a sorprenderlo ma il suo modo di capirlo. “Ho detto pericoloso ed eccoti qua”

“Cos’è quello John?”

Mary indicò il foglio che John teneva tra le mani e lo fissò in maniera confusa e allo stesso tempo incuriosita, si trovava di fronte ad un altro mistero che la attirava a se quasi fosse una calamita in quel periodo di assoluta noia e staticità.

“Io non lo so”

Eppure avrebbe dato qualsiasi cosa per saperlo, per essere ancora più intelligente da individuare le falle di quel sistema quale era la sua mente, in quel momento odiò le sue emozioni che lo travolgevano, odiò se stesso per non riuscire a fare quello che Sherlock Holmes faceva di continuo: sopprimerle.

“Io si”

Una voce spettrale si fece strada nell’ appartamento echeggiando tra le pareti e i muri di quel rifugio contenente così tante storie da non poter essere spiegate  con semplici parole, vi erano i sospiri, gli echi di gioia e in quel momento il puro terrore. Per John e Mary non fu difficile vedere chi avevano di fronte, riconoscerne la provenienza o almeno immaginarla, i tratti erano distinguibili quasi come l’ eleganza che faceva di quel personaggio un misto tra la perfezione e il caos.

“E’ lei il dottor John Watson immagino…”

Quel sorriso gelido mise a disagio i due consorti tanto da farli indietreggiare di qualche passo quasi potessero convincersi che non fosse reale.

“Si… sono io”

Il medico deglutì mostrando più paura di quanto non volesse e poi perché? Come aveva la certezza di essere in pericolo?

“Devo chiederle gentilmente di seguirmi”

L’ uomo senza nome si appoggiò con aria sicura allo stipite della porta e fece segno con la mano a John di farsi avanti ma non si mosse di un passo, rimase lì, pietrificato di fronte a Mary che per la prima volta aprì bocca.

“Chi è lei?”

“Chi sono io…. E’ una bella domanda sa, si dovrebbe chieder chi non sono visto che non ci siamo mai incontrati prima e che presuppongo nessuno mi abbia mai nominato! Oh Mary, speravo davvero di non trovarla qui sa, potrebbe essere una scomoda testimone!”

Da quel momento fu tutto troppo veloce per essere spiegato, una nove millimetri si presentò sulla mano dell’ uomo quasi per magia, come se nessuno potesse dimostrare che l’ avesse estratta dalla fondina sotto la giacca. Un proiettile attraversò la stanza con una rapidità indescrivibile e si infranse sul petto di Mary che cadde a terra ansimante, morente.

John si gettò su di lei stringendola talmente forte da farle ancora più male, con entrambe le mani iniziò a tentare di bloccarle la ferita mentre le lacrime si fecero strada tra le sue guancie, era viva, ancora per poco ma era viva prima che il buio invase gli occhi di John facendolo cadere a fianco di sua moglie.

L’ uomo era ancora lì, nella sua giacca elegante e nel suo sorriso gelido a vegliare sul suo operato.

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Capitolo 13
*** Episodio 12 ***


Un ticchettio fastidioso si faceva spazio nel buio denso di una stanza senza nome, il freddo di quel luogo ghiacciava i respiri di chi lo abitava facendoli rimanere sospesi in lunghi silenzi colmi di pensieri e deduzioni difficili da dissipare senza ricondurle ad un filo logico e perfettamente delineato. Era tutto così assurdo anche per il miglior detective esistente, quello che aveva sconfitto Moriarty nonostante mille avversità.

D’ un tratto una luce fece capo nell’ oscurità sottoforma di un piccolo bagliore proveniente da una vecchissima lampadina appesa ad un filo penzolante, Sherlock non ci mise molto a capire che si trovava in un magazzino dismesso a giudicare dall’ altezza dei soffitti e dalla enorme quantità di scatoloni accatastati alla meno peggio affianco ai muri polverosi e scrostati, ci mise di più, però, ad accorgersi di non essere il solo a trovarsi ammanettato ad un palo d’ acciaio arrugginito e che la compagnia di John Watson non gli sarebbe stata molto utile se fosse rimasto incosciente.

Si trovava a pochi metri da lui e aveva la testa piegata sul lato sinistro e sulle guancie portava evidenti segni di lacrime, come se avesse pianto intensamente prima di essere rapito. Fu forse per questo piccolo accorgimento che Holmes stentò ad utilizzare i suoi modi rozzi per svegliarlo, aveva in parte paura di  riportarlo in una realtà che avrebbe fatto riemergere dei dolori freschi e difficili da inghiottire e provò rabbia per la crudeltà con la quale un uomo senza volto aveva osato ferire il suo caro Dottor Watson ma, in quel momento, fece perno su tutta la sua natura egoistica per prendere a calci il suo amico nel tentativo di destarlo.

“John, andiamo John!”

La sua voce era a metà tra un sussulto e una preghiera interrotta da qualche sospiro d’ affaticamento, probabilmente risentiva ancora del colpo  che gli era stato inferto.

“Sherlock?”

John aprì gli occhi e con aria sgomenta iniziò a guardarsi intorno senza rendersi conto che un’ insana paura gli stava scombussolando lo stomaco, qualcosa di cui non ricordava eppure sentiva estremamente vicino tanto da dargli un senso di nausea e vomito che percepì ancora più intensamente quando vide il suo maglione intriso di sangue.

“Cosa mi è successo?”

L’ amico lo guardò perplesso senza saper dare una precisa risposta alla sua disperata domanda e si vergognò ancora di più per non aver notato li sangue sparso addosso a lui, le sue capacità percettive stavano calando di fronte a Watson e si detestava per questo soprattutto in un momento del genere in cui osservare era fondamentale.

“L’ unica cosa di cui sono certo  che la persona che ci ha portati qui mi conosce e anche bene..”

La frase fu interrotta a metà da un inconsueto scricchiolare del pavimento, un cigolio appena udibile ma fastidioso e regolare a dimostrazione di un’ andatura sicura e a tratti fiera, la stessa di chi non ha mai paura.

“Meglio di quanto immagini, fratellino!”

Un uomo di bell’ aspetto e vestito elegantemente venne illuminato dalla fioca luce della lampadina e mostrò dei tratti estremamente familiari tanto che, John fu costretto a fare una deduzione alquanto stupida ma estremamente ovvia.

“Sherlock, è uguale a te e a Mycroft”

L’ uomo rise avvicinandosi al dottore per punzecchiargli un po’ le guancie, giusto il tempo di infastidirlo prima di rivelargli la notizia.

“Mi spiace Dottor Watson, ma sua moglie non è riuscita ad arrivare in ospedale, credo che sia morta dissanguata ma le posso garantire che non ha sofferto”

Quelle parole si insinuarono come una lama all’ interno della mente dell’ oramai vedovo provocandogli il ricordo che tanto temeva a far riaffiorare ma quell’ essere ripugnante gli tappò con forza la bocca con la mano destra per impedirgli di urlare.

“Da bravo, non faccia il bambino, la morte è un processo che ci accomuna tutti, prima o poi la rincontrerà!”

Lasciò la presa facendo si che le lacrime della sua vittima potessero scorrere rapidamente e in silenzio mentre con fare di superiorità si voltò verso il detective.

“Veramente non mi riconosci? Siamo sempre stati noi tre : tu, Mycroft e io, Sherrinford.”

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