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Non ho
mai avuto un debole per Swansea. Per i miei modesti standard di vita ho sempre
sostenuto che fosse una città inutilmente grande e con un’offerta non poi così
diversa rispetto a Llansamlet, il
paese da cui provengo. Anche Llansamlet ha una biblioteca, un centro
commerciale, caffè e pub a sufficienza per non costringere nessuno a doversi
fare venti minuti di macchina per raggiungere il grande centro – Swansea – solo
per poter passare una serata fuori.
La mia
poca passione per questa città mi ha perfino portata a scegliere di farmi più
di un’ora di treno – solo di andata – per raggiungere la mia facoltà
universitaria. Ho scelto Cardiff, la capitale per cui ho sempre avuto un
debole, anziché la più vicina università di Swansea. Tuttavia, se un posto non
piace, non piace e per quanto mi stia sforzando in quest’ultimo periodo di
trovare almeno qualcosa di veramente bello a Swansea, non ci sono realmente riuscita.
Da
diversi mesi, ormai, raggiungo la città quasi ogni giorno. I motivi sono
diversi; primo fra tutti il fatto che hanno una libreria-caffetteria su tre
piani meravigliosamente fornita – oltre che esteticamente perfetta – in cui ho
trovato una notevole quantità di volumi utili per la tesi a cui ho da poco
iniziato a lavorare.
Il
secondo motivo della mia costante presenza a Swansea è Niamh, la mia amica
storica, che non solo studia, ma lavora anche in città. Come ogni gallese che
si rispetti, sia io che Niamh siamo appassionate di rugby ed entrambe – da un
paio di anni, più o meno – non ci perdiamo più un match della squadra locale, la
Swansea RFC. A differenza degli Ospreys, una delle quattro franchigie di
Galles, nel club della RFC nessun giocatore è di caratura nazionale. Alcuni di
questi riescono a entrare nelle file degli Ospreys – e quindi possono riuscire
a diventare dei nazionali – ma finché questo salto non avviene, i sogni di
gloria per loro sono piuttosto limitati. Tuttavia le partite di questo club,
militante nella Welsh Premier Division, sono sempre
piacevoli da guardare e il clima è gioviale e molto rilassato.
È il
terzo motivo, però, quello che davvero mi sprona da circa un mese a salire quasi
ogni giorno sul treno per Swansea e si chiama Peter Hall.
Peter è
un giocatore della Swansea RFC, uno di quelli che non avrei mai pensato di
arrivare a conoscere se non fosse stato per Niamh. Non perché sia un tipo
importante, altezzoso o altro, ma semplicemente perché io, al terzo tempo della
RFC, non ci avrei mai messo piede. Per quanto sia appassionata di rugby non lo
sono mai stata a tal punto da desiderare ardentemente di conoscere i giocatori,
di prenderci una birra insieme o di scambiare due parole sulla partita.
Considerando che sto seguendo un master in Scienze della Terra e che sono
terribilmente pigra, ho sempre pensato che il mio mondo e quello di uno
sportivo fossero troppo diversi. Niamh, però, in un modo o nell’altro, è
riuscita a conoscere una buona fetta della squadra e un giorno – tutt’ora non
ne capisco ancora il motivo – ha deciso di presentarmeli quasi tutti. Con Peter
e con il suo migliore amico – Thomas Allen –, però, ho stretto subito amicizia,
a tal punto di uscire addirittura con loro e con i loro amici di tanto in
tanto.
Non so
ancora esattamente come sia stato possibile, fatto sta che è successo: fra le
file dei miei amici – non così numerose, lo ammetto – ora annovero anche una
coppia di rugbisti.
Negli
ultimi giorni il mio rapporto con Pete e Tommy è cresciuto ancora, forse
proprio per via della mia, ormai perenne, presenza a Swansea. Ai due ragazzi
piace molto bazzicare per la città e si dà il caso che la bellissima
libreria-caffetteria in cui sono solita andare sia anche il loro caffè
preferito. Tutto ciò ha fatto sì che noi tre ci vedessimo quasi ogni giorni e
ha portato me – ed esclusivamente me – a cominciare a fantasticare su un
ipotetico futuro fra le braccia di Pete. Ho tentato di usare il mio innato
scetticismo per evitare che l’innegabile fascino del ragazzo mi conquistasse, ma
è stato pressappoco impossibile. Peter è terribilmente alla mano e dotato di
umorismo – come Tommy, del resto –, inoltre è sagace e parecchio intelligente.
A coronare il suo carattere decisamente interessante c’è un fisico statuario,
capelli castani perennemente e perfettamente spettinati, una mascella
accentuata, un sorriso impeccabile e un paio di occhi blu che scopro osservarmi
fin troppo spesso.
Una
studentessa sotto tesi non dovrebbe perdere tempo a immaginare un’improbabile
vita accanto a un ragazzo che sembra essere stato scolpito e poi farcito delle
caratteristiche migliori, invece è quello che sempre più spesso mi accade.
Anche ora.
Il muro
davanti a me torna a mostrarsi nuovamente per quello che è: un muro. Abbasso lo
sguardo sul tavolo, ingombro di dispense, dopodiché lo faccio scorrere lungo le
persone sedute intorno a me. Sono decisamente più concentrate di quanto lo sia
io; continuano a scrivere, studiare e leggere come se fosse vitale. Vorrei
riuscirci anche io. Tuttavia è più di due ore che sono seduta al mio posto
senza una sola pausa e, considerando che sto studiando da questa mattina, penso
che sia comprensibile che non ne abbia più voglia. Mi serve un caffè.
Raduno
le mie cose e le infilo nella borsa, cercando di fare meno rumore possibile. Scendo
al piano terra dove si trovano caffetteria e ingresso e, raggiunto il bancone,
ordino un americano.
Mentre
aspetto che mi venga servito controllo sulla chat del cellulare e non rimango
sorpresa nel vedere che ho un messaggio di Niamh. Come suo solito usa poche e
semplici parole “Sto arrivando. Se sei ancora lì, aspettami”.
Appena
il caffè mi arriva davanti fermo il barista, chiedendogli se gentilmente può
prepararmi un mocaccino, la bevanda preferita della mia amica. Come mi viene
servito anche questo afferro entrambe le tazze e mi avvio verso i tavolini
posti all’esterno della libreria prendendo posto sotto uno degli alti funghi
messi per riscaldare. È un inizio di maggio piuttosto fresco questo, anche se
caratterizzato da una strana assenza di precipitazioni. Mentre aspetto Niamh
sorseggio con tranquillità il mio caffè, stringendomi per bene nella giacca e
osservando il via vai delle persone lungo la strada. La via è quella centrale
della città, proprio nel suo cuore, ed è piuttosto trafficata a qualsiasi ora
del giorno.
A un
certo punto, fra la folla che passeggia, vedo arrivare Niamh. Tiene le braccia
incrociate all’altezza del petto, avvolgendosi ulteriormente nella sua giacca a
vento azzurra. I capelli, lisci e biondissimi, sono raccolti in una coda di
cavallo e appena mi vede si aggiusta gli occhiali sul naso, sorride e mi
raggiunge in gran fretta. Si siede salutandomi e come nota il mocaccino – che
fortunatamente non dovrebbe essersi raffreddato più di tanto – si passa leggermente
la lingua sulle labbra e afferra la tazza.
«Ne
avevo proprio bisogno, grazie» esclama, bevendo poi un generoso sorso della
bevanda. Continua a tenere entrambe le mani sulla tazza quando torna a
guardarmi. «Come stai?» chiede.
«Direi
bene, soprattutto ora che mi sto concedendo un caffè» rispondo, sollevando a
mezz’aria la tazza. «Com’è andata al lavoro?»
Si
stringe nelle spalle, facendo una smorfia. «Al solito. Sono stata resa
partecipe di un’altra storia dalla dubbia moralità» dice, mostrando due dita in
segno di vittoria.
Sorrido,
divertita. Niamh lavora come estetista, anche se al momento è ancora
un’apprendista, dato che sta terminando gli studi nel settore. Tuttavia, da
quello che mi racconta, pare che lo stereotipo della donna che rivela la
propria vita privata all’estetista o parrucchiere sia vera. Da quando lavora in
quello studio Niamh ha scoperto una quantità di cose impensabili su una parte
della popolazione di Swansea, senza porre più domande del necessario. Sono le
clienti a raccontarle tutto, a lei basta solo annuire e chiedere qualcosa di
tanto in tanto. Alle volte ci troviamo a parlarne anche fra di noi; lei mi
racconta di alcune di queste persone e io elaboro la storia immaginando come
andrà a finire. Di rado finiscono bene le mie previsioni e altrettanto di rado
sono azzeccate, stando a quello che poi mi riferisce la mia amica.
«Come
sta procedendo la tesi?»
Guardo
per un lungo momento Niamh, senza replicare, dopodiché sento le mie labbra
distendersi in un’esaustiva smorfia: «Non ne ho idea» sentenzio.
«In che
senso scusa?» domanda lei, guardandomi confusa.
«Nel
senso che, a parte stamattina, non sono andata avanti molto. Questo pomeriggio
ho scoperto che le pareti di questo posto sono davvero interessanti» concludo
indicando l’edificio con un cenno della testa.
«È una
cosa terribilmente da te.»
Non
replico, consapevole del fatto che la mia amica ha decisamente ragione. I
troppi libri e film con cui nutro la mia mente mi hanno resa un’ottima macchina
in grado di immaginare le cose più assurde anche davanti ai paesaggi meno
ispiratori – di cui le pareti ne sono portavoce. Sono abbastanza sicura che
Niamh abbia già capito per quale motivo non sia riuscita a studiare come avrei
voluto, anche se spero che non abbia intuito chi sono i protagonisti dell’ultimo
film mentale che mi sono concessa.
«Beh,
comunque» riprende a parlare, agitandosi sulla sedia e illuminandosi in volto.
«Domani la RFC gioca, vieni a vedere la partita, vero?»
La
fisso, sbattendo ripetutamente gli occhi. Mi ero dimenticata della partita di
rugby e devo ammettere di non morire dalla voglia di andarci. Questa settimana
sono venuta a Swansea ogni giorno, in pratica e domani avevo pensato di
rimanere a Llansamlet, nellasperanza di riuscire a studiare.
Il mio
lungo silenzio fa sbuffare Niamh. «Hai intenzione di darmi buca, vero?»
domanda, leggermente stizzita.
La
bocca mi si contrae da sola e non faccio in tempo a replicare prima
dell’esplosione della mia amica: «Perché? Cos’hai di meglio da fare?»
«Dovrei
studiare e pensavo di farlo a casa anziché venire fin qui, almeno per una
volta.»
Mi
riparo dietro la tazza del caffè, bevendone un lungo sorso ormai freddo. Niamh
mi scruta a lungo, si aggiusta gli occhiali e dice: «Devi proprio?»
Inarco le
sopracciglia. Lei si corregge subito: «Non fraintendere. Voglio dire, hai
passato tutta la settimana a studiare e lo hai fatto per tutto il giorno.
Almeno domani un po’ di relax te lo meriti.»
Mi
secca ammettere che ha ragione. Avendo terminato le lezioni in università ho
davvero passato ogni ora possibile con gli occhi sui libri di testo, senza
concedermi poi così tanto svago.
«Beh,
non hai tutti i torti» rispondo, cautamente.
Niamh
si morde il labbro inferiore, eccitata. «Fantastico! Allora è deciso, domani
partita.»
Estrae
lo smartphone dalla borsa e comincia a cercare qualcosa. «Ryan mi ha anche
inviato la formazione.»
Ryan è
uno dei giocatori del Swansea RFC – uno dei piloni1, per la
precisione – nonché uno dei primi con cui Niamh ha fatto amicizia. È stato lui
a presentarle altri giocatori della squadra, inclusi Peter e Tommy.
Mi
allunga il telefono, uno screenshot della chat sullo
schermo. È la formazione della squadra di domani. Scorro i nomi partendo
dall’estremo2 e subito trovo quello di Thomas Allen, al numero 143
come sempre. Quasi subito trovo anche quello di Peter Hall, nel suo perfetto
ruolo di primo centro4. Domani giocheranno entrambi, il che
significa che li vedrò senz’altro al termine della partita. È strano che Pete
non mi abbia detto niente, di solito quando gioca me lo fa sapere. Con molta
probabilità avrà avuto di meglio da fare.
«Che te
ne pare?» domanda Niamh, riprendendosi il telefono appena glielo porgo.
«Direi
che è una buona formazione.»
«Sono
d’accordo. Prendiamo la mia macchina domani, ti va? Così possiamo rimanere
tranquillamente anche al terzo tempo. I ragazzi mi hanno chiesto se abbiamo
voglia di andare a mangiare qualcosa con loro.»
«Quali
ragazzi?» chiedo, incredula.
La mia
amica spalanca gli occhi, come se non capisse la mia reazione. Fa spallucce e
increspa leggermente le labbra prima di rispondere: «Ryan e gli altri. Domani
sera, dopo la partita, escono con amici e fidanzate e hanno invitato anche
noi.»
«Credo
ci saranno anche Tommy e Pete se può servire a tranquillizzarti» aggiunge,
probabilmente vedendo la mia faccia.
Non so
per quale motivo, ma l’idea di uscire con mezzo squadrone di rugby e tutta
un’altra serie di sconosciuti non è esattamente il mio tipo ideale di serata.
«Per
quale motivo fanno questa uscita?»
«C’è
bisogno di un motivo speciale? L’hanno organizzata e basta. Guarda che se non
vuoi non andiamo.»
«No,
no, andiamo pure. È solo che… boh, mi fa uno strano effetto» rispondo in modo
sbrigativo.
«Allargare
le proprie conoscenze non può che fare bene» replica lei.
La
guardo, scettica. «Sei tu quella che vuole allargare le proprie conoscenze in
questa città. La mia compagnia di amici a Cardiff è più che sufficiente.»
Niamh
si stringe nelle spalle e sorride, colpevole. Ha sempre desiderato conoscere
dei giocatori di rugby – e anche mettersi con uno di loro – perciò tutta questa
storia sta accadendo perché lei si è messa d’impegno per farla accadere. Tuttavia
è la mia migliore amica e io non posso fare a meno di appoggiarla. Se ci tiene
a una serata fuori con la Swansea RFC la accompagnerò.
«A che
ora domani?» chiedo infine, sbuffando leggermente.
Il
sorriso della mia amica si allarga ulteriormente: «Passo da te alle due,
giocano alle tre.»
Annuisco
e mi appresto a finire di bere il fondo del mio – ghiacciato – caffè. Non so
perché ma il sabato pomeriggio che si è appena delineato davanti a me mi fa uno
strano effetto. Da un lato l’idea di gustarmi una partita di rugby con una
birra in mano mi ispira molto, ma dall’altro il pensiero di partecipare al
terzo tempo e poi all’uscita con una parte della squadra mi innervosisce. Il
fatto che ci sia Peter può certo aiutare a convincermi ad accompagnare la mia
amica, tuttavia devo comunque ammettere a me stessa che il mio continuo
immaginare di avere una storia con lui non mi tranquillizza molto. Non ho idea
di cosa potrebbe succedere a stare tanto tempo accanto al ragazzo, soprattutto
perché è da un po’ che non trascorro insieme a lui più di una mezz’ora – più o
meno da quando ho capito che il fatto di continuare a pensarlo non era
correlabile solo alla simpatia che provo nei suoi confronti.
Non so
come affronterò domani e la cosa mi sta agitando già ora. Credo mi serva un
altro caffè.
Note:
1:
piloni. Il pilone (Prop, in lingua
inglese) è un ruolo del rugby. Nella formazione del rugby a 15 sono presenti
due piloni (pilone sinistro e pilone destro, rispettivamente con numero di
maglia 1 e 3) che, insieme al tallonatore, compongono la prima linea del
pacchetto di mischia. Il compito dei piloni è di sostenere il tallonatore
durante la mischia ordinata e di fornire un aiuto dinamico e funzionale ai
saltatori nell'azione di touche. Insieme alla seconda linea, i piloni devono
assicurare potenza nella spinta durante la mischia ordinata.
2:
estremo. L'estremo (ing. Fullback) è un
ruolo del rugby contrassegnato dal numero di maglia 15.Ha il compito di rimanere in posizione
arretrata per difendere gli attacchi che superano la prima linea di difesa.
Come ultimo giocatore di difesa, l'estremo, deve avere buone capacità di
placcaggio. Gli estremi devono anche prendere i palloni che vengono calciati e
che vengono denominati "up and under", "garryowen"
o "bombe". Una volta presi questi palloni, l'estremo può anche
calciare a sua volta, motivo per cui sono necessarie buone capacità di visione
del gioco e nei calci. Sempre più spesso gli estremi vengono chiamati in causa
in azioni di contrattacco che partono da dietro la linea di difesa. Per questo
devono anche possedere buone capacità di attacco, velocità ed esplosività nella
corsa in campo aperto.
3:
numero 14. Il numero 14 in una formazione di rugby a 15
corrisponde all’ala destra. Le ali (ing. Wing) sono responsabili delle
fasi finali delle azioni di gioco volte a segnare una meta. L'idea è che per
poter attaccare venga creato uno spazio dai giocatori di mischia e dai
giocatori tre quarti compresi tra la mischia e l'ala in modo che, una volta
ricevuto il pallone, questo giocatore possa avere un corridoio di corsa libero
per poter segnare una meta. Le ali sono spesso i giocatori più veloci della
squadra, ma devono anche essere in grado di fare un veloce cambio di passo e
poter così evitare gli avversari e segnare una meta.
4:
primo centro. (ing. Centre) In una
squadra di rugby a 15 si hanno due centri: primo centro (numero 12) e secondo
centro (numero 13). I centri devono avere buone capacità per tutti gli aspetti
del gioco: devono essere in grado di rompere la linea difensiva avversaria e di
poter fare dei buoni passaggi. Quando si passa all'azione di difesa, i centri
devono essere degli ottimi placcatori.
Ricompaio
dopo un po’ con un nuovo racconto.
Faccio
solo un paio di brevissime precisazioni. Anche qui c’entra il rugby, anche se
non tanto quanto nella mia altra storia di Cenerentola
non lucidava palloni da rugby. Questo per due motivi principalmente: il
primo perché l’ispirazione mi è venuta al termine di una partita di rugby a cui
ho assistito; secondo perché delle mille che ho iniziato questa storia è la
prima che sono riuscita a concludere.
La
seconda breve precisazione è legata al fatto che questo racconto vuole essere
qualcosa di semplice, una storia leggera di quelle che io amo leggere – e
soprattutto scrivere – ma che sempre più di rado riesco a trovare.
Perdere tredici a quindici una partita che
sembrava a portata di mano è snervante. Mi viene inevitabile pensare a ogni
singolo errore che ho compiuto, a ogni maledetto passaggio che ho sbagliato. So
che non serve a niente piangere sul latte versato, ma ogni volta che il Swansea
RFC perde una partita mi sento sempre come se avessi potuto evitare la cosa.
Mi spettino i capelli e torno a distendere le
braccia, rimanendo a osservare il cielo azzurro e cristallino sopra la mia
testa. Il prato del St Helens è meravigliosamente comodo, come sempre.
Terminata la partita e concluse le strette di mano con gli avversari non ho
resistito alla tentazione di sdraiarmi sul prato, cosa che ho sempre fatto da
quando ho iniziato a giocare a rugby a tredici anni.
Improvvisamente il cielo viene oscurato dalla
faccia di Peter, che mi compare davanti ancora affaticato, mentre qualche
goccia di sudore minaccia di cadere dal suo volto al mio.
«Vuoi rimanere lì ancora per molto?» mi chiede.
Non lo degno di risposta. «Tu hai finito di
parlare con Ella?»
Si irrigidisce leggermente. «Non stavo parlando
con lei» si difende.
Mi metto a sedere, voltandomi verso le tribune.
In effetti non c’è traccia né di Ella, né di Niamh. Torno a guardare il mio
amico che ha seguito con gli occhi il mio gesto e abbozzo un sorriso, in parte
divertito e in parte deluso.
Pete ha un debole per Ella – Arabella per la
precisione, ma lei stessa ci ha proibito di chiamarla così –, un’amica di
Niamh, che abbiamo conosciuto grazie a Ryan. Ella è decisamente simpatica e sia
a me che a Pete piace. La differenza sta nel modo in cui ci piace. Per me è una
buona amica, con cui passare una serata di tanto in tanto e con cui prendere un
caffè o una birra. Per Peter, invece, le sfaccettature della ragazza la rendono
notevolmente più interessante. Nonostante lui continui a ripetere di non avere
idea di cosa “esattamente provi per lei”, io sono piuttosto certo che spesso la
tentazione di invitarla a uscire venga soffocata a fatica. Tuttavia conosco
alla perfezione il mio amico e so che mettergli pressione perché si decida a
chiedere un appuntamento a Ella non porterebbe a niente.
Peter si avvia verso lo spogliatoio, senza
proferire parola. Mi alzo in fretta e lo raggiungo, urlandogli un’imprecazione
per il fatto di non avermi aspettato. Anche questa volta non replica in alcun
modo.
Negli spogliatoi il morale è abbastanza basso.
Alcuni ragazzi chiacchierano fra loro, ma per lo più le parole che si scambiano
sono poche e frettolose. Seguo Pete fino alle nostre borse e poi alle vasche
dell’acqua ghiacciata, in cui ci immergiamo per pochi minuti prima di concederci
una doccia.
Durante tutto il tempo che impieghiamo per
renderci presentabili torniamo a più riprese sulla partita appena trascorsa.
Anche Pete non è soddisfatto del modo in cui ha giocato. Siamo entrambi due
perfezionisti e dato che nessuno dei due ha già ricevuto la proposta di passare
agli Ospreys – considerando che io ho ventisette anni e Pete ventisei è
improbabile che ci venga fatta – pretendiamo sempre il meglio da noi stessi,
almeno in modo da essere ottimi giocatori per la RFC.
Tuttavia parlare della partita non porta a
niente di buono. Il buonumore tipico che mi caratterizza sta rischiando di
scomparire e prego il mio amico di cambiare argomento. Nel farlo ci
incamminiamo fuori dagli spogliatoi, verso la club house in cui si svolge solitamente il terzo
tempo.
Siamo fra gli ultimi ad arrivare; il locale è
abbastanza affollato. Come al solito ci sono i famigliari, gli amici e svariate
partner, ma nessuno di più; di rado i tifosi rimangono.
La prima cosa che faccio come entro è trascinare
Peter al bancone. Mi serve una birra e voglio che il mio amico mi faccia
compagnia nel berla. Ordino due bionde e non stacco letteralmente gli occhi dal
barista – il buon vecchio Sam – finché non mi appoggia i due bicchieri colmi di
liquido dorato sotto al naso. Allungo uno dei bicchieri a Pete e dopo un
brindisi sbrigativo – più per abitudine che per altro – mi metto a scrutare fra
i presenti alla ricerca di qualche persona che conosco. Quasi subito noto Niamh
e, come prevedibile, a un passo da lei c’è Ella. Quest’ultima si sistema i
capelli scuri con la mano e torna a concentrarsi sull’amica. Sono in procinto
di tirare una gomitata a Peter per fargli notare la ragazza, ma come mi volto
verso di lui mi accorgo che ha già adocchiato Arabella; ci sono buone possibilità
che l’abbia vista prima di me. Gli do ugualmente la gomitata; lui si volta a
guardarmi.
«Andiamo a salutare le ragazze?» propongo,
indicando nella loro direzione con il bicchiere. Pete acconsente e raggiungiamo
la coppia di amiche.
«Salve signorine. Possiamo offrirvi da bere?»
esordisco.
Entrambe si voltano, regalando subito dopo un
sorriso a me e Peter. Dopo i vari convenevoli ci perdiamo in chiacchiere
tornando, come prevedibile, sul risultato del match.
«Preferirei non parlarne. Avrei potuto giocare
decisamente meglio e questa consapevolezza mi perseguiterà per un altro po’ di
ore» taglio corto.
Niamh apre bocca per ribattere, ma a quanto pare
ci ripensa, perché serra le labbra senza dire niente, limitandosi a stringersi
nelle spalle.
«Venite anche dopo? All’uscita che ha
organizzato Ryan?»
La domanda di Peter porta la conversazione su
tutt’altro piano. Lancio un’occhiata al mio amico, piuttosto certo che il
quesito, pronunciato in tono del tutto casuale, nasconda la speranza di
ricevere una risposta affermativa. Reprimo a fatica un sorriso malizioso, anche
se temo che la mia espressione sia comunque fin troppo eloquente.
Fortunatamente gli occhi delle ragazze sono puntati su Pete e non paiono
essersi accorte della mia reazione alla domanda del mio amico.
«Sì, certo» risponde pronta Niamh. Ella invece
si limita a guardare prima l’amica poi Pete, infine mi lancia un’occhiata e le
sorrido.
«Come mai Ryan l’ha organizzata? C’è da
festeggiare qualcosa?» chiede Niamh.
Peter fa spallucce. «Non che io sappia. Sospetto
che avesse semplicemente voglia di un’uscita in compagnia, magari con qualcuno
che di solito non viene.»
«Beh, a me ha fatto molto piacere che ci abbia
invitate. Penso sia un’ottima occasione per approfondire qualche amicizia. Sei
d’accordo Ella?»
«Come no?» risponde lei. Il suo tono sarcastico
strappa una risata sia a me che Pete, mentre la risposta di Niamh è uno sbuffo
infastidito. «Voleva restare a casa a studiare. È tutta la settimana che non fa
altro. Ho dovuto pregarla di venire con me» ci spiega la ragazza.
Peter coglie la palla al balzo: «Parli della
tesi? Come sta andando, Ella?»
Lei fa una smorfia. «Insomma. Ho cominciato a
lavorarci e ho le idee sufficientemente chiare su come svilupparla. Il più è
portarla avanti» conclude, con apparente disinvoltura. «Ma, se possibile,
preferirei anche io che non parlassimo di questo argomento» si affretta ad
aggiungere.
Peter alza una mano in segno di scusa e sorride.
Alla fine riusciamo a trovare qualcos’altro di cui parlare, almeno finché Ryan
non subentra nella conversazione e fa in modo di andarsene portando con sé sia
Arabella che Niamh, dicendo di voler presentare loro alcune delle persone che
verranno fuori con noi una volta terminato il terzo tempo.
Come Ryan si allontana a sufficienza – e con lui
le ragazze – mi volto verso Pete. «Deduco che stasera sarai dei nostri,
allora?» lo incalzo.
Alza gli occhi al cielo.
«Non alzare gli occhi al cielo» lo bacchetto.
«Vieni o no?»
La sua risposta si fa attendere, come se dovesse
pensare alle parole giuste o – forse più probabilmente – a come replicare a ciò
che certamente dirò io appena avrò sentito la sua risposta. Peter non voleva
venire questa sera; non gli andava più di tanto e aveva lasciato la scelta
definitiva in sospeso.
«Sì, ok. Vengo» sbuffa. Non aggiunge altro, ma
non ne ho bisogno. Sono piuttosto certo che Ella abbia aiutato notevolmente
nella decisione del mio amico.
*
Il pub scelto da Ryan per l’uscita di squadra è
il solito di sempre. The Westbourne1 è gremito di persone e quando
tutti noi finiamo di entrare sembra essersi ristretto tanto è stipato. Il
bancone in legno intarsiato della sala – posto al centro così che sia
accessibile su ognuno dei quattro lati – è preso d’assalto dai giocatori della
squadra, che finiscono così con il riempire la parte di spazio libera da tavoli
che circonda il bancone. Pete, accanto a me, osserva la scena con una strana
espressione, si passa una mano fra i capelli, infine le infila entrambe in
tasca e continua a guardare in direzione del bancone. Decisamente non ha molta
voglia di stare qui. Sono giorni che non si fa una dormita decente e sono
sicuro che questa sera avrebbe di gran lunga preferito riposarsi dopo la
partita. Tuttavia è venuto ugualmente, il che significa che qualcosa lo ha
convinto a venire, anche se sono più propenso a credere che si tratti di
qualcuno. Il suo sguardo, infatti, è puntato sul bancone, ma più precisamente
su un gruppo di persone davanti a esso, in cui spiccano i nostri compagni di
squadra Ryan e George e, davanti a loro, Niamh e Arabella. Per quanto Peter
possa ostinarsi a dire di non sapere se la ragazza gli piace o meno, io conosco
fin troppo bene il mio amico e ho imparato a leggere le sue espressioni.
Noto che al bancone si libera un buco e subito
lo faccio notare a Pete.
«Andiamo a prendere da bere» dice e ci avviamo.
Ci facciamo largo fra i nostri compagni di squadra e finalmente ordiniamo da
bere. Ottenute le nostre birre ci voltiamo verso la sala; Ella è talmente
vicino a noi che iniziare a parlare con lei è inevitabile. In breve tempo alla
conversazione si uniscono anche Ryan, George e Niamh e ci perdiamo in
chiacchiere. Finisco la mia birra nel mentre e quando mi appresto ad appoggiare
il bicchiere vuoto sul bancone mi accorgo di una ragazza che si fa strada fra
una massa di giocatori. Riconosco subito i capelli castani chiarissimi e il
loro taglio regolare con frangetta. Di scatto mi volto nella direzione opposta,
cercando in qualche modo di non risaltare fra le persone. Peter si accorge del
mio comportamento. «Che succede?» mi chiede, fortunatamente nel giusto tono di
voce.
«Vorrei sapere che cosa ci fa qui» sussurro.
Capisce subito qual è il problema. Sposta lo
sguardo oltre me, sulla folla alle mie spalle e, se possibile, si fa ancora più
serio. «Non serve a niente che ti nascondi, ti ha visto» mi informa.
Fa a malapena in tempo a terminare la frase che
lei mi chiama: «Tommy.»
Prendo una boccata d’aria, dopodiché mi volto.
Davanti a me, come già avevo capito, c’è Sharon. Non è cambiata di una virgola dall’ultima
volta che l’ho vista e il fatto di dover ammettere a me stesso che continua a
rimanere bellissima mi fa rabbia.
«Cosa vuoi?» le chiedo. Il tono della mia voce è
gelido e lascia chiaramente intendere che non ho alcuna intenzione di
interagire a lungo con la ragazza. In fin dei conti non vedo neanche perché
dovrei farlo; è sulla mia testa che è comparso un bel palco di corna da quando
lei ha deciso che il suo collega di lavoro potesse essere un’ottima alternativa
al proprio ragazzo – che, in quel periodo, ero io.
Intorno a noi l’atmosfera si è praticamente
trasformata. Pete ha già attirato l’attenzione di Arabella e Niamh e anche i
miei compagni di squadra stanno facendo il possibile per ignorare me e Sharon,
tuttavia l’aria tesa è innegabile. Sono piuttosto sicuro che una buona fetta di
Swansea sappia del modo in cui la ragazza mi ha fatto sapere che non gli
interessavo più, tuttavia non sopporto che tenti in qualche modo di farsi
perdonare continuando a cercarmi per “spiegarmi come sono andate veramente le
cose”.
«Voglio spiegarti» replica lei, stringendo con
forza maggiore il manico della borsa.
Non rispondo subito, per quanto vorrei farlo
così da porre fine immediatamente a tutto questo. Tuttavia c’è troppa gente
intorno a noi e non ho alcuna intenzione di rendere altre persone partecipi
della mia attuale situazione. Faccio un cenno a Sharon in direzione della
porta, in modo che capisca che deve uscire. Mi avvio davanti a lei verso
l’ingresso e non mi preoccupo di sapere se mi ha seguito o meno finché non
raggiungo l’esterno. Qui mi sposto dalla porta e mi volto, trovandomi
nuovamente la ragazza davanti. Mi guarda un momento e appena mi accorgo che sta
per dire qualcosa la precedo: «Senti, non c’è niente da spiegare, d’accordo?
Non capisco neanche perché ti ostini tanto a continuare a cercarmi.»
Il nervosismo mi ha pervaso. È incredibile come
l’irritazione prenda il sopravvento e si unisca alla frustrazione ogni volta
che incontro Sharon. Siamo rimasti insieme per dieci mesi e in ognuno di quei
giorni non mi era mai passato per la mente che saremmo potuti finire così, con
lei che cerca di farsi perdonare da me per qualcosa che mi impedisce di darmi
pace.
«Si può sapere perché non mi permetti di darti
una spiegazione?» domanda, lo sguardo determinato negli occhi, quello stesso
sguardo che mi aveva impedito di ignorarla quando l’ho incontrata per la prima
volta.
«Spiegare che cosa, Sharon? Che cosa? Dopo dieci
mesi che stavamo insieme hai ben pensato di andare a letto con qualcun altro e
io lo sono venuto a sapere quasi per caso. Adesso dimmi se davvero c’è qualcosa
da spiegare.»
Ogni sensazione positiva provata nell’arco della
giornata mi ha completamente abbandonato. Non riesco a fare a meno di provare
rabbia per la ragazza che ho di fronte. Se solo mi lasciasse in pace sono certo
che le cose sarebbero meglio per entrambi.
Sharon si morde il labbro inferiore, distoglie
lo sguardo, puntandolo un momento in direzione della strada, in cui stanno
passando un gruppetto di persone. Torna a guardarmi quasi subito e mi accorgo
che i suoi occhi si sono fatti lucidi.
«Lo so di aver sbagliato, non so più in che modo
scusarmi. Mi dispiace, devi credermi. È stato un momento di debolezza.»
Sollevo le sopracciglia. «Momento di debolezza?
Anche io ne ho avuti, cosa credi? Eppure ti sono sempre rimasto fedele.»
Non ribatte, distoglie nuovamente lo sguardo,
iniziando a tormentare il manico della borsa. Mi passo entrambe le mani sul
volto e inspiro con forza. Appena sento la ragazza prendere fiato l’anticipo:
«Sharon…»
La guardo. É sorpresa, come se non si aspettasse
di sentirsi chiamare per nome e la cosa la fa zittire prima ancora che potesse
parlare.
«Ti prego… lascia perdere. Non serve a niente
continuare a insistere. Vorrei che lo capissi.»
Non aggiungo altro e guardo da un’altra parte,
oltre alle spalle di Sharon. Il silenzio dura per svariati secondi, disturbato
solo dalle voci dei passanti e dalle auto che transitano lungo la careggiata.
«Bene» pronuncia alla fine.
Torno a guardarla e lei risponde al mio sguardo,
dopodiché si avvia verso il parcheggio con passo rapido, senza dire altro o
voltarsi a guardare. Scompare in fretta, ma non la osservo allontanarsi. Cerco
di riprendermi un momento prima di rientrare al The Westbourne,
consapevole che gli occhi di molti saranno certamente puntati su di me. Devo
fare il possibile per evitare che la rabbia che mi è montata si noti, o che
possa in qualche modo influire sul resto della serata. Avrei preferito che
Sharon non fosse venuta o, ancora meglio, che non le avessi mai chiesto di
diventare la mia ragazza una decina di mesi fa.
Note:
1 The Westbourne: il pub esiste realmente a Swansea ed è
piuttosto conosciuto. L’aspetto non è come l’ho descritto io, mi sono concessa
un po’ di licenza nell’arredamento.
Tommy
è stato piuttosto intrattabile per i due giorni successivi al suo ultimo
incontro con Sharon. Decisamente l’uscita organizzata da Ryan non è stata una
delle migliori per il mio amico. Fortunatamente lo conosco così bene che so
come mi conviene comportarmi per evitare di farlo innervosire e il buonumore
che lo caratterizza pare essere ritornato.
Per
quanto mi riguarda la serata al The Westbourneè stata positiva. Anche se in un primo
momento avrei preferito rinunciare e rientrare a casa per abbracciare il mio
letto, sono felice di non averlo fatto, almeno finché l’ex di Tommy non ha ben
pensato di presentarsi. Prima di quel momento, però, è andato tutto per il
verso giusto.
Da
quando Thomas ha ricominciato a essere il solito Thomas – quindi più o meno da
questa mattina – non ha perso occasione per punzecchiarmi con la questione “Arabella”.
Nonostante si ostini a dirsi convinto di sapere per certo che ho un debole per
lei, io non ne sono altrettanto sicuro. È vero che la considero una bella
ragazza – con quel suo viso a forma di cuore,le labbra piccole, gli occhi castani sfumati di rame, i capelli
indomabili e un sorriso dolce e astuto – ed è vero che apprezzo la sua
compagnia, ma non penso che questi fattori siano sufficienti per farmi dire di
provare qualcosa per lei che vada oltre la simpatia.
Non
sono mai stato molto fortunato con le ragazze – ho collezionato una tale
quantità di due di picche da averne un mazzo intero. Con molta probabilità sono
sempre stato attratto dalle personalità sbagliate, o forse erano loro a farsi
un’idea errata di me, perché la maggior parte mi ha etichettato unicamente come
sportivo ignorando totalmente il
fatto che ho anche altre ambizioni nella vita, che esulano completamente
dall’inseguire un palla. Arabella non è così; lei sa che sono anche
appassionato di letteratura e musica oltre che di rugby, per questo parlare ci
riesce così semplice: sa che si può discutere di altre cose e non solo di
palloni ovali in mia presenza. Comunque sia, continuo a essere piuttosto
indeciso su cosa fare con lei e per evitare di creare strane situazioni,
preferisco non fare niente. Tommy, ovviamente, non è dello stesso avviso, ma
sono piuttosto bravo a sviare l’argomento ogni volta che lui tenta di proporlo.
Thomas
ricompare all’esterno del locale, due boccali di birra stretti in mano. Il pub
in cui siamo è uno di quelli vicini al Liberty Stadium – lo stadio in cui
giocano gli Ospreys – anche se in verità è più corretto dire che è a pochi
passi dalla stazione dei treni. Con la Swansea RFC abbiamo terminato gli
allenamenti e io e il mio amico abbiamo ben pensato di andare a risanarci dagli
sforzi con una buona birra, in fin dei conti lo facciamo spesso. Le sette di
sera sono passate da un pezzo e il cielo comincia a tingersi di una
meravigliosa sfumatura rosata.
Tommy
alza il boccale e non dice nulla, bevendo il primo sorso solo quando i vetri
dei nostri rispettivi bicchieri hanno fatto il noto suono di un brindisi. Con
il dorso della mano si pulisce dalla schiuma che si è incautamente posata sui
suoi baffi, dopodiché punta lo sguardo verso il Liberty Stadium, visibile solo
grazie ai numerosi pennoni che ne sovrastano il tetto. So perfettamente che il
mio amico continua a desiderare di indossare la divisa grigio scura degli
Ospreys, nonostante sia anche consapevole che, con molta probabilità, non
accadrà mai. Nessuno di noi due è un fuoriclasse; anche se per il nostro
allenatore siamo due ottimi trequarti rimaniamo comunque nella media e allo
staff degli Ospreys i giocatori nella media non importano.
Evito
di domandare a Tommy cosa gli passa per la mente e bevo un altro sorso della
mia birra, magistralmente spillata. Poco dopo il mio amico prende parola:
«Pietro mi ha detto che sabato prossimo verrà a vedere gli Ospreys Warren Gatland1»
mi informa.
Pietro
è il gestore del pub in cui siamo. Warren Gatland,
invece, l’allenatore della nazionale gallese. Non è raro che capiti a Swansea
di tanto in tanto, ma ogni volta che lo fa la comunità rugbistica si mobilita.
«Vorresti
andare a vedere la partita?» gli chiedo.
Si
stringe nelle spalle, facendo una leggera smorfia. «Non saprei. Non è che abbia
molta voglia di andare a vedere gli Ospreys, sai come la penso.»
Lo
so benissimo. Per quanto Thomas sia soddisfatto della sua vita e del fatto di poter
giocare nel RFC, uno dei suoi rammarichi maggiore rimane proprio quello di non
essere riuscito a entrare nella franchigia gallese della sua città. A
differenza di me – che non lo bramo quanto lui – vorrebbe veramente poter
ottenere un posto nella nazionale. Alle volte ho l’impressione che la cosa lo
faccia stare davvero male.
«Mi
stavo solo chiedendo cosa si può provare a giocare una partita consapevole del
fatto che a guardarti c’è l’unico uomo in grado di decidere del tuo futuro a
livello internazionale» dice dopo un po’, tornando a guardarmi.
«Beh,
immagino che sia una consapevolezza che contribuisce notevolmente ad agitare,
ma è anche vero che la cosa non può permettersi di influenzare il modo di
giocare.»
Annuisce
ripetutamente con la testa alle mia parole, dicendosi d’accordo. Dopodiché,
dopo quel momento malinconico in cui si era messo a fissare sognante il Liberty
Stadium, inizia a fare uno di quei discorsi improbabili che solo il miglior
Thomas Allen può fare. Comincia a fantasticare di mete al limite
dell’impossibile – “Proprio sulla bandierina” –, di piloni che fanno drop2
– “Insomma, non marcheresti mai un pilone senza palla, anche sotto i pali” – e
di standing ovation – “Beh, per Richie McCaw3 l’hanno fatta”. A un
certo punto, mentre l’ennesima assurdità è in procinto di uscire dalla sua
bocca, si blocca all’improvviso.
«Ma
non è Arabella quella?»
Mi
volto immediatamente nella direzione che ha indicato, quasi sorprendendomi
della mia reazione improvvisa. Effettivamente dall’altra parte della strada – i
capelli smossi dal vento, il passo spedito e una grossa borsa di stoffa in
spalla – c’è Arabella. Prima che il mio cervello possa anche solo provare a
elencare le possibili azioni da compiere in questa situazione, sento Tommy
chiamare la ragazza a gran voce. Lei si ferma come sente il suo nome e si
guarda un momento intorno finché non ci nota. Fa un gran sorriso e solleva una
mano. «Ciao» urla.
Le
rispondo salutandola a mia volta con la mano, ma alle mie spalle sopraggiunge
la voce del mio amico: «Dai, vieni qui.»
Ella
non risponde subito; indica con un cenno nella direzione in cui stava andando.
«Veramente…» comincia, ma poi pare ripensarci e attraversa la strada, entrando
nella distesa del locale e raggiungendo la botte-tavolo intorno a cui siamo
sistemati io e Tommy.
«Come
state?» ci chiede appena arriva, guardando alternativamente me e il mio amico.
Quest’ultimo
risponde in modo affermativo prima di alzarsi e porgere il suo sgabello alla
ragazza.
«Tieni,
siediti» le dice, mentre realizzo solo in questo momento che si tratta di un
gesto che avrei potuto benissimo compiere io. Sembra quasi che il mio cervello
stia andando a qualche giro in meno.
«No,
non serve, grazie. In verità stavo andando a prendere il treno» replica Ella,
con un gesto. Tuttavia Thomas insiste: «Oh, andiamo, che fretta c’è? Fermati a
bere qualcosa con noi.»
La
ragazza pare in procinto di ribattere nuovamente, ma poi si accomoda sullo
sgabello, proprio fra me e Tommy. «Non mi fermo a lungo, però. Non vorrei
perdere il treno dato che poi ne ho un altro fra due ore.»
«Tu
non ti preoccupare, ti accompagniamo a casa noi.»
«Fino
a Llansamlet?»
Lui
si stringe nelle spalle: «Certo, tanto ho la macchina. Dai, Ella, non farti
pregare. Vado a prenderti una birra.»
Lei
ferma il mio amico mettendogli una mano sul braccio. «No, davvero. Non voglio
approfittare della vostra disponibilità.»
È
una sfida persa in partenza; se la ragazza conoscesse Thomas almeno la metà di
come lo conosco io saprebbe perfettamente che la sua capacità di insistere in
una conversazione porta allo sfinimento. Rimango a guardarli continuare quel
botta e risposta di sì e no finché Arabella – a quanto pare in cerca di
sostegno – si volta verso di me. Mi guarda con una sorta di supplica negli
occhi e, probabilmente, le dico quello che non si aspettava di sentirsi dire: «Ti
riaccompagniamo noi, tranquilla. Fermati a bere qualcosa.»
Rimane
a fissarmi, basita, dopodiché sbuffa sonoramente e torna a guardare Tommy.
«Avete vinto.»
A
Thomas non serve altro; con un grosso sorriso si dirige verso l’ingresso del
pub, lasciando me ed Ella da soli.
«Come
stai?» le chiedo.
Pare
sorprendersi della mia domanda solo per un momento, poi si stringe nelle spalle
e risponde: «Bene, bene. Tu?»
«Anche
io. Ultimamente ti si vede spesso qui a Swansea. Eri in libreria anche oggi?»
«Già»
sospira. «Sto disintegrando la mia vita sociale per quella maledetta tesi.»
Mi
metto a ridere. «So cosa vuol dire. Quando stavo preparando la mia vedevo i
miei amici solo agli allenamenti.»
Si
dà un leggero colpo in fronte con il palmo della mano. «È vero che hai una
laurea. Scusa ma a volte mi dimentico» aggiunge poi, stringendosi nelle spalle
come imbarazzata.
Mi
limito a sorriderle in risposta, non sapendo esattamente cosa poter dire.
«Posso
chiederti quanto ci hai messo per preparare la tesi?» domanda poco dopo.
Ci
penso un momento. Si parla di poco più di un anno fa – e la mia memoria vacilla
sempre una volta superate le quarantotto ore – ma dimenticare i mesi passati
sui libri a imprecare contro me stesso per aver scelto di continuare gli studi
è impossibile.
«Quasi
un anno, mese più mese meno.»
Ella
spalanca gli occhi. «Veramente?» chiede, sconvolta.
«Sì.
Ma perché non ci dedicavo tempo a sufficienza, cosa che, al contrario, mi
sembra stia facendo tu.»
Non
fa in tempo a rispondere. Thomas torna da noi e le appoggia sotto il naso una
birra, guardando entrambi con un sorriso che mi pare più malizioso del solito.
«Di
che parlate di bello?» domanda, rivolgendosi a entrambi.
«Di
tesi» replica Arabella, stendendosi poi su una porzione della botte-tavolo con
aria avvilita.
Tommy
mi lancia un’occhiata che decifro come un “Ma siete seri?” e subito rispondo
con uno sguardo che chiaramente intende “Non incolpare me”. Il mio amico sbuffa
e si appresta a risolvere la situazione; si sistema sullo sgabello e afferra la
sua birra. «Pessima scelta in mia presenza. Non si può parlare di un argomento
noioso su cui, oltretutto, non posso esprimermi.»
Ella
solleva la testa, guardandolo con le labbra lievemente arricciate. «Io non lo
definirei noioso. Piuttosto snervante, esasperante e incomprensibile.»
Mi
strappa un sorriso. Il sopracciglio di Thomas si incurva, esattamente come uno
degli angoli della sua bocca. «Questo per quanto ti riguarda. Per me, invece,
l’argomento tesi rimane noioso.»
La
ragazza sta per lanciarsi in una nuova sfida persa in partenza. Tuttavia questa
volta pare essersene resa conto; sorride e prende il proprio boccale. «Però mi
sa che hai ragione. Credo sia meglio parlare d’altro» dice e conclude bevendo
un sorso di birra.
Tommy
prende il tutto come il via libera che stava aspettando e, con un gran sorriso,
comincia a parlare di tutt’altro, coinvolgendo subito me e Arabella.
Quasi
un’ora e mezza dopo, i boccali vuoti abbandonati sul piano della botte-tavolo e
la brezza serale che si è fatta largo nel cielo ormai nero, io, il mio amico e
la ragazza ci alziamo dai nostri sgabelli e raggiungiamo la macchina di Thomas
parcheggiata poco distante.
Lungo
la strada per Llansamlet guido io per via del numero di birre – due, in verità,
ma bevute piuttosto in fretta – ingerite dal mio amico, che potrebbero mettere
a rischio la sua patente di guida. Ella è seduta accanto al posto del guidatore
e mi indica la strada per la sua casa continuando tranquillamente a
chiacchierare. Da una decina di minuti Tommy non apre più bocca, tuttavia,
quando mi fermo sul ciglio della strada, davanti a quella che Ella mi ha indicato
come casa sua, trovo il ragazzo piuttosto vigile e divertito al contempo.
Conosco quell’espressione soddisfatta e compiaciuta; dev’essere certamente
legata alla conversazione fra me e Arabella.
Smontiamo
tutti dall’auto e la ragazza ci guarda, la voluminosa borsa di stoffa
saldamente ancorata alla sua spalla. «Beh, ragazzi, grazie mille del passaggio»
dice, sollevando una mano in segno di saluto.
«Figurati,
non è certo stato un problema» le rispondo, facendo le veci anche per Tommy. Il
mio amico, infatti, acconsente con il capo, dando conferma delle mie parole.
Dopodiché aggiunge: «Noi ci siamo divertiti a chiacchierare con te, quindi
riportarti a casa era d’obbligo.»
Arabella
sorride nuovamente; credo sia in procinto di dire qualche cosa, ma Thomas è più
veloce di lei. Con il suo modo di fare affabile e sbrigativo si avvicina alla
ragazza, estrae lo smartphone ed esclama: «Dai, facciamoci una bella foto.»
Né
io né lei ne capiamo il motivo, lo deduco dall’occhiata smarrita che ci
scambiamo. Ci avviciniamo al nostro amico per assecondare il suo desiderio e
lui si prepara a scattare la fotografia, ma si ferma dopo un paio di tentativi
di messa in posa.
«Senti,
scattala tu ‘sta foto, Pete. Hai le braccia più lunghe.»
Mi
lascia il cellulare e io scatto un paio di foto di noi tre, sempre con le idee
piuttosto confuse riguardo la vera motivazione di una simile situazione. Quando
restituisco il telefono a Tommy e ci allontaniamo entrambi da Ella – che si
trovava in mezzo a noi mentre scattavamo –, lei ci guarda divertita. «Ok,
allora ci vediamo.»
«Sì,
ci vediamo» la salutiamo io e Thomas.
Ci
fa un ultimo cenno e si avvia oltre l’ingresso di casa sua. Monto nuovamente in
macchina, Thomas seduto accanto a me e avvio il motore. Durante i primi minuti
di viaggio nessuno dice nulla; con la coda dell’occhio mi accorgo che il mio
amico è impegnato a trafficare con lo smartphone, così mi decido ad aprire
bocca: «Questa cosa del selfie vorrei capirla» gli
dico.
Sghignazza,
divertito. «Non c’è un motivo, mi andava di farlo. Trovo che sia carino il
fatto che ora hai una foto insieme a Ella.»
Non
lo sto guardando, ma sono certo che si è dipinto in volto un’espressione fin
troppo da furbetto. Sento il mio telefono vibrare e il mio amico prende parola:
«Sono io. Ti ho inviato la foto.»
Scuoto
la testa. «Giuro che a volte non ti capisco» ammetto.
Tommy
scoppia a ridere e ripone il cellulare in tasca. «Non devi preoccuparti di
questa cosa» replica e subito dopo trova qualcos’altro di cui parlare.
Note:
1 Warren
Gatland: è veramente
l’attuale allenatore della nazionale gallese.
2 drop: è una delle
azioni che permette di fare punti. Si segna in una situazione di gioco aperto,
calciando il pallone dopo averlo lasciato rimbalzare sul suolo e facendolo
passare in mezzo ai pali e al di sopra della traversa. Vale 3 punti.
3 Richie
McCaw: ex capitano della nazionale di rugby a XV
della Nuova Zelanda. Ho voluto tributarlo in questo modo perché si tratta di un
giocatore per cui nutro profonda stima. Ai miei occhi rimarrà sempre un
autentico monumento.
Sono
a Swansea di domenica. Non ero mai venuta qui di domenica se non per via delle
partite della RFC e, in quei casi, con me c’era sempre Niamh. Oggi, invece, per
non so quale motivo, dopo pranzo ho infilato le mie cose in borsa e sono uscita
verso la piccola stazione di Llansamlet, per poi salire sul treno diretto alla
città. Vorrei capire che problemi ha il mio cervello per avermi spinta fin qui
da sola e senza niente in programma da fare. Sto girando a vuoto per il centro
da più di un’ora e la quantità di persone che hanno deciso di trascorrere
questa giornata curiosamente soleggiata fuori di casa sta aumentando ancora.
Imbocco
la via centrale senza riflettere e quando mi rendo conto di dove sono decido di
assecondare la mia dipendenza concedendomi un caffè alla solita caffetteria in
cui vado a studiare. Mentre mi avvicino al suo ingresso mi accorgo che i
tavolini all’esterno sono tutti occupati; la cosa mi fa subito intuire che, con
molta probabilità, anche quelli dentro si trovano nella stessa situazione. Mi
avvicino ugualmente all’ingresso e mentre faccio scorrere gli occhi sulla
vetrina sento qualcuno chiamarmi.
«Guarda
un po’ chi si vede.»
Thomas
è seduto solo a uno dei tavolini, una tazza vuota davanti e una rivista ormai
sgualcita in mano. Mi guarda sorridendo e mi fa cenno di sedermi.
«Ciao.
Come stai?» domando, mentre prendo posto nella sedia libera di fronte a lui.
Si
stringe nelle spalle. «Bene. E tu?»
«Anche
io» rispondo. Guardo un momento intorno e mi accorgo che non c’è traccia di
Peter; mi accorgo anche che questa cosa mi dà discretamente fastidio.
«Dove
l’hai lasciato Peter?» chiedo, con tono scherzoso. «È raro non vedervi insieme.
Siete inseparabili come il bue e l’asino.»
«Grazie
per avermi ricordato chi di noi due è il cornuto» replica lui subito, un
leggero sorriso in volto e il tono più disincantato di quanto sia possibile.
Mi
accorgo subito della gaffe che ho appena compiuto e, con la stessa rapidità,
sento un rossore affiorarmi in volto. «Dio, mi dispiace. Che idiota che sono»
tento di giustificarmi.
Tommy
non si scompone. Sorride con più intensità e fa un gesto con la mano.
«Tranquilla, ti prendevo in giro. Direi di averci fatto il callo, ormai.»
Non
replico neanche per mandarlo al diavolo, dato che la pessima figura è mia e lui
mi ha fatto il favore di sdrammatizzare. Davanti a me il ragazzo si dà
un’aggiustatina alla barba.
«Non
so esattamente dove sia Pete, comunque. Posso provare a sentirlo» dice ed
estrae subito il telefono da una delle tasche dei jeans. Faccio a malapena in
tempo a realizzare ciò che ha appena detto e, di certo, non riesco a bloccare
il giocatore dal portarsi il cellulare all’orecchio in attesa di una risposta
da parte dell’amico. Tommy mi guarda mentre aspetta di sentire la voce di
Peter, nel suo sguardo c’è una strana luce, come di divertita consapevolezza.
Capisco
che Peter ha risposto al telefono per via dell’espressione che il ragazzo
assume e, ovviamente, anche perché prende parola subito dopo: «Ciao amico, dove
sei?» esordisce.
Ascolta
la risposta e nel farlo arriccia le labbra, riflessivo.
«Ah,
sì direi di aver capito. Senti, visto che sei in zona perché non passi dal
caffè?»
Nuovamente
si zittisce, mentre io mi rendo conto di stare sperando che Thomas riceva una
risposta affermativa. Gli occhi del ragazzo si soffermano su di me. «Dai, c’è
anche Ella. Ti aspettiamo qui.»
Ora
mi sento nuovamente avvampare e mi auguro che lui non lo noti.
Tommy
sorride e mi fa un cenno affermativo con il capo. «Bene allora. Ci vediamo fra
poco.»
Conclude
la chiamata e ripone il telefono. «Il mio centro sta arrivando» mi informa,
alludendo a Peter attraverso il suo ruolo di gioco.
Tento
di non sorridere più vistosamente del necessario. Incurvo leggermente le labbra
e non andare oltre mi richiede un notevole sforzo. Ho raggiunto Swansea questa
mattina senza nessuna speranza in particolare e la possibilità di trascorrere
qualche ora con Thomas e Peter è decisamente meglio di quanto le mie più rosee
aspettative si sarebbero potute immaginare. Tuttavia la mia intenzione rimane
quella di mantenere un basso profilo, giusto per evitare che appaia troppo
palese il fatto che io sia tremendamente soddisfatta dell’esito del mio
incontro con il giocatore.
«Beh,
dato che dobbiamo aspettare Peter penso che andrò a prendermi qualcosa da bere,
intanto. Vuoi niente?» chiedo a Tommy, con un tono disinvolto magistrale.
Ci
pensa un momento. Fa scivolare gli occhi sulla tazza e poi torna a guardarmi.
«No, grazie.»
Mi
alzo, dirigendomi verso il bancone del bar per ordinare un caffè americano –
una tanica di caffè sarebbe l’ideale – e mi rendo conto di avere il cuore che
batte in maniera sfrenata. Non mi era mai capitato di sentirmi tanto in ansia
in presenza di Thomas, anche se sono piuttosto certa che ciò non sia legato al
ragazzo, bensì al suo amico. La consapevolezza che Peter sta per arrivare qui
mi agita e mi eccita al tempo stesso in una sorta di terza sensazione che non
conosco ma che sento già di odiare. Bevo un lunghissimo sorso di caffè quando
il barista me lo allunga e ringrazio ogni divinità conosciuta per aver creato
tale bevanda, in grado di calmarmi ogni volta. Tuttavia oggi non so quanto
possa funzionare.
Torno
al tavolo, sedendomi nuovamente davanti a Tommy. Il ragazzo, come suo solito,
intavola una conversazione in fretta, trasportandomi rapidamente in una
piacevole chiacchierata. Mi rendo conto, però, di essere piuttosto nervosa;
continua a guardare in ogni direzione, nella speranza di vedere Peter comparire
fra la folla e seguire il discordo di Thomas si fa sempre più complicato. Un
sorso alla volta termino il caffè in tempi record e mentre accarezzo seriamente
l’idea di andare a prenderne un altro, fra la folla intravedo Peter che si
avvicina con passo sicuro verso di noi. È davvero bello, come al solito. Si
porta una mano fra i capelli, spettinandoli ulteriormente e, come si accorge di
me, sorride, gli occhi blu puntati nella mia direzione.
Cerco
di mantenere il sangue freddo mentre con calcolata nonchalance mi rivolgo a
Tommy: «Sta arrivando» lo informo, facendo un rapido cenno in direzione del suo
compagno di squadra.
«Ciao»
ci saluta Peter appena ci ha raggiunti. Thomas solleva una mano, un ampio
sorriso a illuminargli il volto. «Ben arrivato.»
Indica
la sedia che ha gelosamente custodito fino all’arrivo dell’amico, chiaramente
per dirgli di prendervi posto.
«Arrivo,
entro a prendere un espresso. Voi volete qualcosa?» aggiunge subito.
Tommy
scuote la testa, mentre io sono parecchio tentata di chiedergli di ordinarmi un
altro caffè. Non lo faccio; non sono sicura sia una buona idea ingerire altre
sostanze eccitanti vista la tachicardia che non ne vuole sapere di lasciarmi in
pace. Non mi era ancora capitato di sentirmi in questo modo in compagnia di
Peter e Thomas, anche se credo che il solo Peter sia il vero responsabile del
mio attuale stato.
Il
ragazzo entra per ordinare il proprio caffè, lasciando soli me e Tommy.
Quest’ultimo mi guarda stranamente incuriosito. Comincio a sospettare che sia
ancora più astuto di quanto mi fossi immaginata e che inizi a sospettare che
per il suo amico io non provi della semplice simpatia.
«Come
va con la RFC?» chiedo, nel tentativo di svicolare da possibili domande
imbarazzanti. Lui assume l’espressione di chi non riesce a la spiegarsi la
motivazione della domanda, ma poi risponde: «Direi bene. In fin dei conti ci
stiamo allenando per i quarti di finale.»
«Ah,
è vero. Contro il Cardiff la prima, giusto? Magari posso chiedere ai miei amici
se vengono anche loro a vedere la partita.»
Mi
guarda, leggermente confuso. Mi affretto a dargli qualche delucidazione: «Parlo
dei miei compagni di corso all’università. È un sacco che non li vedo. Penso
che la partita di sabato possa essere una buona scusa per chiedere loro di
venire a Swansea.»
«Perché
no? Tifano Cardiff?»
«Alcuni,
non tutti. Gli altri penso che verrebbero principalmente per stare in
compagnia.»
«Beh,
allora per quanto riguarda gli indecisi, convincili a tifare per noi. Abbiamo
faticato per riuscire ad aggiudicarci la semifinale nel nostro stadio»dice, facendomi l’occhiolino.
Lo
guardo di sbieco. «Faticato. Non ti
sembra di esagerare? Avete vinto più partite di quante ne avete perse e anche
queste le avete perse per poco.»
Scoppia
a ridere, come se avessi detto una cosa terribilmente divertente. È contagioso
e finisco con il ridere anche io.
«Touché,
devo ammetterlo» risponde infine Thomas, appena si ricompone. Alzo due dita in
segno di vittoria, proprio come fa sempre Niamh quando sa di aver trionfato in
una discussione.
Poco
dopo torna al tavolo Peter; posa l’espresso e si siede fra me e il suo amico.
Guarda prima una e poi l’altro, dopodiché chiede: «Di che parlate?»
Tommy
mi lancia un’occhiata e subito dopo si rivolge al ragazzo: «Della RFC e delle
semifinali, vuoi unirti alla conversazione?»
«Direi
proprio di sì. Altrimenti cosa sarei venuto a fare qui?»
Infine
sorride e tutti e tre ci mettiamo a parlare.
Thomas
Vorrei
che Peter e Arabella si dessero una mossa, o almeno che lo facesse uno dei due.
È palese che sono reciprocamente interessati l’uno all’altra, non capisco di
cosa hanno bisogno per fare qualcosa. Se ho capito tutto io mi sembra
impossibile che loro, invece, non ci siano riusciti. Continuano a lanciarsi
occhiate ogni volta che uno non guarda e quando uno dei due sta parlando
l’altro lo osserva con fin troppo interesse. Pete può dire quello che vuole, ma
dopo oggi le mie convinzioni sulla sua cotta per Arabella si sono decisamente
fortificate; se non fa qualcosa entro breve lo costringo a farla io.
I
due sono talmente presi a parlare fra loro che non si sono neanche accorti che
negli ultimi cinque minuti sono riuscito a leggere un paio di articoli della
rivista senza prestare loro attenzione. Quando mi sono accorto che stavano per
cominciare a parlare di università e vita universitaria ho capito subito che
non avrei avuto voce in capitolo, perciò, almeno questa volta, ho preferito
lasciare che si immergessero nel loro mondo, cosa che hanno fatto fin troppo
bene dato che mi hanno ignorato lasciandomi il tempo di afferrare il loro
interesse reciproco e di farmi una piccola cultura sulle emissioni di
radiazioni di una supernova.
«Ti
stiamo annoiando, vero Tommy?»
La
voce è quella di Peter. Mi immagino la sua espressione anche senza doverla
guardare: le spalle basse, il sorriso lievemente imbarazzato. Sollevo lo
sguardo dalla rivista e trovo i due lì, la stessa espressione in volto – ovvero
quella di Pete che ho appena indovinato – intenti a osservarmi nella posa di
chi ha appena interrotto una conversazione avvincente.
«Oh
non preoccupatevi per me. Mi sto giusto facendo una cultura sul flusso
migratorio delle cicogne.»
Ella
scoppia a ridere, mentre il mio amico si limita a un sorriso divertito. Mi
guarda come per dirmi di smetterla di fare l’asociale e io alla fine lo
accontento, chiudo il periodico e torno a prestare attenzione ai due che ho
davanti.
«D’accordo,
scusate. Però, per favore, non parlate di università, non ho assolutamente
niente da dire a riguardo.»
«Hai
ragione» interviene Arabella. «Vuoi che parliamo del flusso migratorio delle
cicogne?»
Peter
reprime a stento l’impulso di scoppiare a ridere, ma i suoi occhi si
illuminano. Io guardo la ragazza di sbieco. «Divertente. Ma non sei tu quella
che si deve laureare in Scienze della Terra?»
«Appunto,
Scienze della Terra, non Ornitologia. Sono due branche completamente
differenti.»
«Perciò»
dico, arricciando le labbra e fingendomi tremendamente intelligente, «mi stai
dicendo che sulle cicogne ne so più io di te?»
Ella
è pronta per replicare, solleva un indice, inspira, ma viene fermata: «Ok, ok,
ora basta» interviene Peter, piuttosto divertito. «Non mettetevi a parlare di
cicogne, altrimenti sarò io quello che non ha nulla da dire a riguardo.»
Io
e la ragazza ci mettiamo a ridere e chiudiamo in nostro inutile – e divertito –
teatrino, riuscendo a trovare finalmente qualcosa di cui parlare tutti e tre
insieme.
Intorno
alle sei e tre quarti – ovvero dopo quasi tre ore insieme – Ella annuncia di
dover andare a prendere il treno; niente giri di parole, niente spiegazioni,
semplicemente si alza e dice: «Scusate ragazzi, ma è meglio che vada.»
Sia
io che Pete la guardiamo sorpresi.
«Di
già?» chiedo. «Non puoi prendere il prossimo treno?» tento.
Lei
si stringe nelle spalle. «No non è per quello, è che… beh, devo andare. Ci
vediamo prossimamente, d’accordo?»
Ci
saluta e si avvia dopo aver atteso la nostra risposta. Nonostante il modo
sbrigativo in cui Ella si è allontanata mi abbia lasciato un po’ perplesso di
certo non mi ha provocato la reazione di Peter. Continua a fissare il punto in
cui la ragazza è scomparsa fra la folla con la faccia di uno che sa di aver
detto la cosa sbagliata, anche se ciò non è assolutamente vero.
«Quindi
che fai?» chiedo all’improvviso. Pete si volta verso di me; mi fissa per
diversi secondi, come se non mi avesse sentito, ma so che non è così.
«Di
che parli?» domanda infine.
«Secondo
te di cosa vuoi che stia parlando? Di Arabella. Hai intenzione di fare qualcosa
oppure no?»
Alza
gli occhi al cielo, in una perfetta imitazione di un se stesso irritato. «Tommy
ne abbiamo già parlato. Non so neanche se mi piace.»
«Oh,
per favore» lo interrompo. «L’hai appena guardata allontanarsi come un cucciolo
di beagle.»
Pare
sorpreso.
«Per
me puoi anche aspettare, solo non venire a fare storie quando si trova un
altro» continuo.
«Ma
se non si sta frequentando con nessuno?» replica, ma la cosa pare buttata lì
piuttosto malamente.
«Ne
sei sicuro? Se n’è appena andata senza darci una spiegazione, chi dice che non
ci sia qualcosa – o qualcuno – sotto? Devo ricordarti che ha parte della sua
vita a Cardiff?»
So
di aver punto nel vivo il mio amico, lo capisco dal modo in cui il suo mezzo
sorriso si fa insicuro fino a scomparire. Il suo cervello sta certamente
lavorando a pieno regime e so anche che entro breve mi darà ragione.
«Va
beh, anche ammesso che tu abbia ragione, se sta già frequentando qualcuno c’è
poco che possa fare.»
Scrollo
le spalle. «Non è detto. Puoi chiederle di uscire e vedere cosa dice.»
«Chiederle
di uscire?» domanda scettico.
«Sì»
rispondo in modo ovvio. «Tutte le relazioni iniziano con un appuntamento.
Provare per credere. Può funzionare o può tirarti un bel due di picche, così ne
hai un altro da aggiungere alla tua collezione» concludo, sornione.
Pete
rimane a guardarmi, un sopracciglio inarcato. Improvvisamente abbassa lo
sguardo e non dice nulla per svariati secondi. Non so perché ma trovo la cosa
strana. Alla fine si scuote, batte entrambe le mani sui braccioli della sedia e
mi guarda, un lampo di determinazione negli occhi.
«Sai
che c’è?» esordisce. «Hai ragione, vado.»
Si
alza, lasciandomi perplesso. Allargo le braccia. «Ehi, aspe-cosa? Adesso?»
Solleva
le sopracciglia. «Sì, adesso. Mi conviene muovermi, l’hai detto tu.»
L’ho
detto?
«Ci
vediamo» taglia corto il mio amico, allontanandosi rapido in direzione della
stazione.
Sorrido
tra me, riprendendo a sfogliare la rivista che non ero ancora riuscito a
finire.
Il
razionale Peter è appena diventato il temerario Peter, una delle sue
sfaccettature che mi piace di più. Se Arabella accetta il suo invito a uscire
devo ricordarmi di prendermene il merito.
Cammino
in fretta verso la stazione, facendomi largo fra le persone. Non so se è dovuto
al fatto che voglio arrivare il prima possibile, ma è come se Swansea fosse
invasa. La gente sciama lenta verso il centro, esattamente la direzione opposta
a quella in cui sto procedendo io. Mi spiace molto essermene andata così su due
piedi, ma non so se sarei riuscita a rimanere ancora a lungo insieme ai due
ragazzi, benché la colpa non sia loro. Il basso ventre mi fa malissimo e non mi
serve a molto capire per quale motivo, dato che avevo già previsto tutto. Il
ciclo; quella maledettissima ricorrenza mensile che se dipendesse da me
potrebbe benissimo estinguersi. Sapevo che era solo questione di ore prima che
il dolore si facesse sentire e mi innervosisce parecchio il fatto che il ciclo
mi sia piombato tra capo e collo proprio mentre ero in compagnia di Tommy e –
soprattutto – di Peter. Il punto è che il primo giorno è sempre il peggiore e
solitamente riesco a superarlo solo stando sdraiata nel mio letto e bevendo a
cadenze regolari del the.
Raggiungo finalmente la stazione e mi chiudo
in bagno per dei lunghi minuti. Quando ne esco – dopo aver preso anche un
antidolorifico – finisco con l’appurare che il piccolo dubbio che avevo mentre
venivo qua è diventato una grande verità: il mio treno è partito venti minuti
fa, il che significa che il prossimo ci sarà fra quaranta minuti.
Cammino
nervosamente per la stazione; seduta non riesco a stare, tanto vale che
raggiunga il binario da cui partirà il mio treno, per lo meno non sarà
affollato. Raggiunta la piattaforma mi appoggio con la schiena a uno dei pali
in metallo, fissando distrattamente le persone che passano, corrono, si
salutano all’interno della stazione. A un certo punto vedo entrare una figura
con una moltitudine di tratti familiari e, appena lo metto correttamente a
fuoco, mi rendo conto che è Peter. Non riesco a spiegarmi la sua presenza qui e
– cosa altrettanto strana – ho la netta impressione che si stia guardando
intorno alla ricerca di qualcuno. Non riesco a smettere di guardarlo e sebbene
chiamarlo potrebbe essere una buona scusa per avere ancora a che fare con lui
oggi, preferisco non farlo; non voglio che sappia per quale motivo me ne sono
andata così in fretta.
Mentre i miei occhi sono ancora incollati su
di lui, mi vede. Sorride, solleva un braccio e dice: «Ehi, ti cercavo.»
Si incammina per raggiungermi e il mio
cervello fa subito play su uno dei
film mentali che mi propina più spesso, ovvero quello in cui Peter mi raggiunge
in posti da romanzo – stazioni, sotto un acquazzone, all’aeroporto – per
dichiararsi. Freno il mio cervello con uno sbuffo e il film si arresta,
evitando di accrescere ulteriormente le mie illusioni. Mi conosco,
probabilmente nella fretta di allontanarmi ho solo dimenticato qualcosa e lui
me la sta semplicemente riportando; potrei tranquillamente aspettarlo con la
mano tesa. Tuttavia Peter in mano non ha assolutamente niente e quando
ricompare davanti a me mi sento vacillare. Lui ha un meraviglioso sorriso in
volto e i capelli spettinati più del solito mi fanno capire che deve averci
passato una mano solo da poco.
«Non
sono riuscita a prendere il treno» dico istintivamente, quasi per giustificare
il fatto di essermi allontanata in fretta prima pur essendo ancora qui, ferma a
non fare niente. Peter annuisce con la testa e prima che possa dire qualcosa lo
precedo, sopraffatta dalla curiosità: «Comunque, mi cercavi, hai detto?»
Cerco
di essere il più calma possibile, ma non mi riesce molto semplice. Qualcosa
nella mia testa continua a domandarsi per quale motivo mi abbia seguita fin qui
– e proprio oggi, oltretutto.
«Ah,
sì. Volevo chiederti una cosa.»
“Chiedermi
una cosa” non è certo sinonimo di dichiararmi che gli piaccio. Le mie fantasie
si fermano automaticamente e ritrovo un po’ della consueta calma e anche tutto
il mio scetticismo; ancora una volta il mio cervello ha costruito castelli su
castelli inutilmente.
«Ok,
dimmi pure» lo incalzo.
Lui
si stringe leggermente nelle spalle, si morde appena il labbro inferiore – così
poco che me ne accorgo a malapena – e alla fine apre bocca: «Ci stavo pensando
da un po’, sai. Volevo chiederti se ti andrebbe di uscire con me un giorno di
questi.»
Rimango
a fissarlo, basita. Una gran parte di me si domanda anche se ho capito
esattamente ciò che intende – o, meglio, se lo intendiamo alla stessa maniera.
«Uscire
come?» chiedo, il tono incerto e il cervello che subito applaude
sarcasticamente per l’alto grado di intelligenza della mia domanda. Peter fa
una lieve smorfia divertita, senza scomporsi più di tanto.
«Beh,
non so cosa intendi tu per uscire con qualcuno, ma io lo interpreto in un modo
solo. È che…» ecco una lieve incertezza, «ormai ci conosciamo da un po’ e mi
piacerebbe davvero avere un appuntamento con te.»
Recupera
alla grande la breve indecisione e devo ammettere che è sorprendente il modo in
cui è riuscito a mettere in fila le parole con apparente semplicità. Tuttavia
il punto non è il modo in cui mi ha appena chiesto una cosa, bensì cosa mi ha
appena chiesto. Un appuntamento, uscire con lui, rendere finalmente concrete
tutte quelle fantasie che ho avuto su di noi. Il modo in cui mi sento ora –
pervasa dall’incredulità, instabile sulle mie stesse gambe, e convinta che
intorno a me non ci sia assolutamente nulla oltre a noi – mi lascia intendere
che quella che provo per Peter è una di quelle cotte che il tempo impiega poco
a trasformare in qualcosa di ben più sofisticato. Eppure la fitta dolorosa nel
basso ventre, la strana ansia che mi sta salendo, il desiderio di essere a casa
e non qui, mi fanno capire che tutto questo sta accadendo nel posto sbagliato e
che, forse, sotto sotto non è ciò che voglio.
«Quindi
Ella? Che ne pensi?»
È
probabile che stia in silenzio da troppo dato che Peter si vede costretto a
sollecitarmi. Lo guardo e i suoi occhi sono lì, che mi pregano di dargli una
risposta. Un’altra fitta più dolorosa della precedente arriva e
l’antidolorifico ancora non fa effetto.
«Scusami,»
attacco esasperata, «ma mi è appena arrivato il ciclo e ho le ovaie che fanno
un male cane.»
Mi
zittisco, sentendomi subito avvampare. Vorrei non aver detto una cosa tanto
imbarazzante. Se mi lanciassi sotto il primo treno in transito sarebbe
decisamente meglio per la mia reputazione. Prima di portarmi le mani sul viso,
a disagio, vedo Peter sollevare le sopracciglia, l’espressione confusa e
sorpresa. Mi aspetto che dica qualcosa in grado di farmi sentire stupida quanto
effettivamente sono, o che si dimostri offeso per la risposta che ho dedicato
alla sua domanda, invece quello che fa mi lascia letteralmente di stucco: ride.
Si mette a ridere con leggerezza, in modo piacevolmente naturale. Lo guardo,
senza sapere cosa dire; sono confusa, non so come altro potermi definire.
«Lo
vedi? È questo il motivo» dice infine, lasciandomi in quella situazione in cui
non si sa come replicare. «Tu non ti preoccupi di cosa pensano gli altri. Sei
spontanea e con te io ci sto terribilmente bene.»
Lo
ha detto sul serio; ha usato una parola dal significato negativo per andare ad
accrescere la bellezza di quella successiva.
«Allora,
usciresti con me?»
Mi
pone la domanda prima ancora che io possa riflettere su tutto con sufficiente
lucidità. Si tratta solo di un appuntamento, uno di quelli che volevo da un
po’, oltretutto. La risposta è una delle sillabe più semplici da pronunciare –
sì – eppure la mia bocca dice qualcosa di ben diverso: «Io… non so. Vorrei
pensarci un momento, prima.»
È
un silenzio glaciale quello che si forma fra noi, che non si espande per tutta
la stazione solo perché piena di persone a cui non importa nulla di me e Peter.
Il ragazzo si irrigidisce appena, inspira silenziosamente, toglie lo sguardo,
poi espira e torna a guardarmi. «Ho capito» dice, dopodiché abbozza un sorriso.
«Beh, ci ho provato. Mi spiace se ti ho messa a disagio, non era mia intenzione.
Però pensaci, ok?»
Annuisco,
sentendomi in colpa. Ho quasi sicuramente liquidato l’unico ragazzo che non
volevo liquidare, ma le parole per rimangiarmi tutto, darmi dell’idiota e
pregare Pete di rimanere con me non ne vogliono sapere di mettersi ordinatamente
in fila nella mia testa e sulla mia bocca. Il ragazzo è visibilmente
dispiaciuto, ma sta affrontando la cosa con indiscutibile classe.
«D’accordo
Ella, allora ci sentiamo» riprende poi.
«Ah…
ehm sì, certo.»
Lui
sorride, guardandomi attentamente. «Buon rientro.»
Lo
ringrazio e, alla fine, ci salutiamo. Peter si avvia verso l’ingresso della
stazione a testa bassa, ma quasi subito raddrizza le spalle, mostrando il suo
atteggiamento più sicuro. Rimango a guardarlo allontanarsi con un gran
subbuglio – fisico e mentale – dentro, complimentandomi con me stessa per aver
complicato tutto.
*
Il
giorno dopo il mio “incidente diplomatico con Peter” – è così che ho deciso di
chiamarlo perché il nome corretto, ovvero “il disastro compiuto da me” mi
faceva sentire davvero troppo in colpa – sono di nuovo a Swansea. È il primo
pomeriggio di lunedì e dalle mie frequentazioni con alcuni giocatori della
Swansea RFC, sono piuttosto certa che riuscirò a trovare chi sto cercando nel
posto in cui penso.
Il cielo rispecchia il mio umore; grossi
branchi di nubi dense si alternano sopra la città, eppure nessuno di questi ha
ancora scaricato la propria pioggia.
Mi faccio strada dalla stazione dei treni al
centro in modo quasi distratto, finché non sbuco nella via dove si trova la mia
consueta libreria. Più mi avvicino all’edificio più prego di trovare la persona
per cui sono venuta e appena arrivo all’ingresso – e quindi alla distesa di
tavolini della caffetteria – tiro un sospiro di sollievo.
Thomas è lì, una rivista fra le mani, una
tazza vuota davanti e la sua immancabile espressione appagata e felice sul
volto. Raggiungo il suo tavolino; non mi ha vista, perciò prendo un bel respiro
e lo chiamo: «Tommy.»
Lascio
le due sillabe in sospeso; lui solleva la testa e mi vede. Alza le sopracciglia
in una curiosa espressione, a metà fra il sorpreso e il divertito. «Uh, ciao»
mi saluta.
Replico
sollevando una mano e lui riprende: «Se stai cercando Pete hai sbagliato
posto.»
«No,
in verità cercavo proprio te» lo informo subito.
Ora
la sua espressione si fa interessata e, con un gesto della mano, mi invita a
sedermi davanti a lui. Mi accomodo.
«Dimmi
tutto» dice.
Fatico
un po’ a trovare le parole per iniziare; è più complicato di quanto mi fossi
immaginata affrontare il discorso “Peter” insieme a Tommy. Forse lui se ne
accorge, perché interviene: «Sei qui per parlarmi di Pete?»
Lo
chiede con il tono disinvolto di chi sa già tutto.
«Lo
sai?» domando, senza sapere se essere sollevata per la cosa oppure delusa.
Tommy
si stringe nelle spalle. «È ovvio. Secondo te il mio migliore amico non mi
informa dell’ennesimo due di picche ricevuto? Ah, e per la cronaca, ora ne ha
un altro da aggiungere al suo mazzo già bello pieno.»
Le
sue ultime parole mi fanno sentire tremendamente in colpa, così come il tono
disinvolto con cui le pronuncia. Scatto inevitabilmente sulla difensiva: «Io
non… non l’ho respinto» dico, consapevole che “due di picche” significa proprio
respingere a tutti gli effetti qualcuno.
«Sei
sicura? Ti ha invitata a uscire e tu gli hai detto che ci vuoi pensare.»
Ecco
un nuovo affondo.
«Appunto»
esclamo. «Ho detto che ci voglio pensare, non ho detto di no.»
«Ti
ha solo chiesto di uscire con lui. Se ti piacesse gli avresti dato una
possibilità» replica, con il suo solito tono rilassato. Non mi sta accusando di
niente, al contrario, sembra che tenti di farmi ragionare.
«Pete
ti piace?» chiede poi, all’improvviso.
Mi
blocco, guardando il ragazzo sbalordita. La domanda che mi ha appena posto
potrebbe benissimo essere considerata un colpo basso, sia per come mi è stata
posta – a bruciapelo, letteralmente – che per quello che ha chiesto.
«Cos…
in che senso?» farfuglio, lanciandomi nella domanda più idiota che si possa
porre al momento. Un altro Nobel alla stupidità in arrivo sul mio comodino.
Tommy
tuttavia non si scompone. «In nessun senso, Ella. Ti ho solo chiesto se Pete ti
piace o meno. Sai, la cosa è di notevole rilevanza» conclude, sarcastico.
Thomas
ha uno strano modo di fare per convincermi a vuotare il sacco. Mi guardo intorno,
come se le risposte che cerco fossero nascoste fra i tavolini del bar, sentendo
lo sguardo del ragazzo fisso su di me.
Certo
che Peter mi piace, altrimenti tutte le fantasie che mi faccio su un possibile
“noi” che senso avrebbero? È solo che dopo quello che è successo ieri non sono
più così sicura. Se lui mi piace davvero allora perché non ho accettato subito
il suo invito a uscire? Se qualcosa dentro di me si fosse resa conto che lui
non è ciò che penso e tentasse in tutti i modi di fermarmi?
Sospiro,
rassegnata. È inutile, sono troppo confusa. Tuttavia se sono qui è perché
volevo incontrare Thomas nella speranza che lui potesse aiutarmi a fare
chiarezza. E per farlo devo partire dall’unica consapevolezza che ho, ovvero
che non riesco a togliermi Peter dalla testa.
Prendo
una lunga boccata d’aria. «Io, beh, io penso di sì» ammetto alla fine.
«Pensi?»
mi incalza lui, calmo.
Lo
guardo in cerca di un possibile suggerimento sulla risposta da dare ma,
ovviamente, è tutto inutile. «È che… insomma, se lui mi piacesse veramente
allora perché ieri gli ho detto di no?» domando, piuttosto vicina al confine
che separa il dubbio dalla frustrazione.
«Perché
hai paura» risponde prontamente lui.
Non
replico; rimango a guardarlo, la consapevolezza che ha ragione mi sbatte
violentemente in faccia.
Tommy
si stringe nelle spalle e mi regala uno dei suoi sorrisi più amichevoli. «Tutte
le persone con un po’ di sale in zucca – e per fortuna tu sei una di queste –
sono spaventate quando si tratta di iniziare a frequentare seriamente qualcuno.
Potrai esserci passata un migliaio di volte, ma è sempre un salto nel buio e,
come tale, spaventa. Questo perché ci sono un sacco di incognite: lui potrebbe
lasciarti, potrebbe non andare a genio a tuo padre, potrebbe innamorarsi della
tua migliore amica o potresti essere tu a lasciare lui» indica sulle dita della
mano le sue affermazioni, mentre io rimango a guardarlo quasi stordita.
La
verità delle sue parole è sorprendente. Ha semplicemente ragione, ora me ne
rendo conto. È questo ciò che ieri mi ha dissuasa dall’accettare subito
l’invito a uscire di Peter: la paura, la paura di vedere le mie fantasie
infrangersi contro la realtà, la paura di scoprire che la parte più scettica di
me aveva ragione un’altra volta. Ecco cosa mi ha fermata.
Nel
frattempo Tommy si è zittito, osservandomi come se stessi pronunciando ad alta
voce i miei pensieri e lui mi stesse ascoltando. Lo guardo, lui risponde al mio
sguardo e mi sorride.
«Senti,»
dice infine, «se può servire, sappi che tu piaci a Pete. Magari questo può
aiutarti un po’ ad allentare le ansie.»
Sorride,
sornione, facendomi l’occhiolino. Io mi sento quasi sciogliere per quello che
ha appena detto. Avere la conferma di piacere a Peter è una sensazione
meravigliosa.
«Davvero?»
chiedo, in cerca di conferme, sentendomi a metà fra la gioia e l’imbarazzo.
«Oh,
sì. Conosco Pete da un sacco di tempo, puoi fidarti.»
Non
faccio in tempo a dire niente. Tommy distoglie lo sguardo, abbassandolo sulla
rivista che stava leggendo, prendendo a giocherellare con un angolo della prima
pagina.
«Se
può interessarti è in giro per Swansea, adesso» mi informa.
Non
riesco a reprimere un sorriso. So cosa vuole che faccia e ha ragione. Posso
risolvere il mio “incidente diplomatico” solo con la mediazione e lasciare
passare troppo tempo sarebbe un errore.
Allungo
un braccio sul tavolo, portando la mia mano sopra a quella di Tommy. Lui mi
guarda e io gli sorrido. «Sei un amico» dico.
Sorride
anche lui, poi mi fa un cenno per farmi capire di darmi una mossa. Io lo saluto
e mi alzo, avviandomi verso qualche direzione, cominciando a cercare sullo
smartphone il numero di Peter.
Guardo
lo schermo del cellulare finché questo non diventa nero, spegnendosi e facendo
sparire con la luce anche l’icona della chiamata appena conclusa. Ho ancora il
respiro pesante per via della corsa e essermi fermato sotto uno spicchio di
sole non mi sta aiutando molto a farmi passare il caldo che ho addosso.
Arabella
ha appena chiuso la telefonata con me e io farei meglio ad avviarmi verso
l’ingresso del parco dato che ci siamo dati appuntamento lì fra un quarto
d’ora. Sono dall’altra parte del parco, io, perciò – dato che non voglio
correre per evitare di sudare ancora – farei meglio ad avviarmi.
Devo
ammettere di sentirmi un po’ confuso. Appena ho risposto alla chiamata della
ragazza e lei mi ha sicuramente sentito ansimare si è zittita di colpo. Quando
poi le ho spiegato che ero semplicemente a Cwmdonkin
Park a correre si è lasciata andare a una risata che aveva in sé qualcosa di
imbarazzato e mi ha subito chiesto se potevamo vederci. Considerando che non è
la prima volta che mi capita una cosa del genere ero già convinto che il motivo
per cui avesse tanta fretta di incontrarci fosse legato al fatto che ha trovato
le parole giuste per rifilarmi un altro due di picche, ma il messaggio che mi
ha mandato Tommy – che leggo solo ora – mi lascia perplesso e mi fa capire che
forse devo ricredermi. Ha scritto solamente “È fatta” e poi ha aggiunto
quell’emoticon con la faccina super sorridente di cui, a parer mio, abusa.
Infilo
lo smartphone in tasca e mi avvio, cambiando anche la canzone che sto ascoltando.
Mi sembra strano che il messaggio di Tommy – all’apparenza privo di senso – e
la chiamata frettolosa di Arabella non siano collegate in qualche modo. Mi
auguro solo che la ragazza stia venendo fin qui per dirmi che ha voglia di
uscire con me, di uscire seriamente.
Arrivo
all’ingresso del parco in poco più di cinque minuti. Spengo il mio mp3 e
rimango in attesa, guardando verso l’inizio della via per vedere se compare o
meno Ella.
Non
ho esattamente l’aspetto che mi ero immaginato per ricevere un rifiuto
effettivo o per sentirmi dire da una ragazza che mi piace che, sì, potremmo
cominciare a uscire insieme. Ho corso per più di un’ora, sono ancora accaldato
e sono abbastanza sicuro di non profumare come un mazzo di rose. Avrei potuto
dire alla ragazza di trovarci in un’altra occasione, magari in serata, ma il
modo in cui mi ha chiesto se potevamo vederci mi ha fatto capire che chiederle
di posticipare non sarebbe stata la scelta migliore.
Per
qualche strano motivo mi torna alla menta il bizzarro messaggio di Tommy e,
proprio quando sul fondo della strada riconosco la figura di Arabella, quelle
due brevi parole assumono un significato. È probabile che, in quello che sta
per succedere, il mio amico c’entri. In che modo non lo so, ma lo sospetto
fortemente.
Mi
sistemo la t-shirt della Swansea RFC mentre la sagoma della ragazza si
avvicina, mettendo sempre più in evidenza le sue forme ormai note e gli
indomabili capelli scuri. Si guarda intorno mentre cammina, voltando la testa
da una casa all’altra. Mi rendo conto solo in questo momento di essere nervoso
e il fatto che una coppia che si tiene per mano mi sia appena passata davanti
non aiuta. Ella mi sorride appena si accorge che la sto guardando. La saluto
con la mano, aspettando che mi raggiunga proprio sotto all’arco che introduce
al parco.
Appena è davanti a me si ferma. «Ciao» mi
saluta.
«Ciao»
rispondo. «Come stai?»
Si
stringe nelle spalle, annuendo ripetutamente con la testa. «Direi piuttosto
bene, grazie. Scusami se ti ho disturbato mentre ti allenavi, prima.»
«Oh
non preoccuparti. Come si può notare del mio aspetto non avevo appena
iniziato.»
Ride
leggermente, lanciandomi un’occhiata. Tuttavia non aggiunge altro. Si guarda
intorno, in direzione del parco e lascia passare una persona che ci sfila accanto
e si avvia lungo la stradina di accesso a Cwmdonkin
Park. Ella la segue con gli occhi per un breve momento, infine indica nella
direzione in cui la persona si è avviata e torna a rivolgermi la parola: «Ti va
se facciamo due passi?»
«Certo»
rispondo, invitandola con un cenno della mano. Si affianca a me e ci avviamo in
direzione del centro del parco, seguendo uno dei suoi sentieri meno trafficati.
Fra
di noi cala il silenzio e mano a mano che ci allontaniamo dalle persone
presenti questo si fa più insistente. Vorrei dire qualcosa, ma so perfettamente
che non servirebbe a niente. Arabella mi ha chiesto di vederci perché lei ha
qualcosa da dire a me, qualcosa che, a quanto pare, non le riesce semplice;
deviare la conversazione su altro non servirebbe a nulla.
Alla
fine, quando le persone intorno a noi sono diventate decisamente poche, la
ragazza prende fiato: «Senti, io… ci tenevo a scusarmi con te per ieri.»
La
guardo, lei risponde brevemente alla mia occhiata, poi torna a fissare davanti
a sé, giocherellando distrattamente con uno dei cordini della felpa.
«Mi
sono comportata in modo imbarazzante» precisa.
Sorrido
ripensando al momento a cui si sta certamente riferendo, infine dico: «Beh, c’è
anche da dire che non ti ho presa proprio nel momento migliore» tento di
sdrammatizzare.
Tuttavia
Arabella rimane seria, come se fosse veramente arrabbiata con se stessa.
«Non
c’entra. Voglio dire, tu ti sei esposto e, personalmente, penso che avrei
potuto benissimo evitare di dire certe cose.»
Non
so esattamente cosa intenda con “certe cose”, so solo che siamo arrivati al
punto cruciale della nostra conversazione: la risposta alla mia domanda.
Smetto
di camminare; Arabella se ne accorge solo qualche passo dopo, si ferma anche
lei e si volta verso di me, guardandomi perplessa.
«Ci
hai pensato?» le chiedo.
Non
serve aggiungere altro, sa di cosa parlo, lo capisco dal modo in cui
irrigidisce le spalle e schiude le labbra. Annuisce mentre si avvicina a me,
guardandomi. Vorrei incalzarla, dirle di darmi una risposta – di qualunque tipo
– in fretta, ma non faccio niente; rimango a guardarla e basta, in attesa. Lei
solleva lo sguardo.
«Mi
piacerebbe molto uscire con te.»
Mi
sento improvvisamente alleggerito da un peso appena finisce di pronunciare
queste parole.
«Ne
sono contento.»
Ella
sorride, rimanendo a guardarmi. Per evitare che il silenzio diventi qualcosa di
eccessivamente imbarazzato mi affretto a organizzare come posso questo nostro
primo appuntamento. «Quando vogliamo fare?» le chiedo.
«Quando
sei più comodo tu, in modo che non influisca troppo sui tuoi allenamenti con la
squadra.»
Non
ci penso su a lungo: «Che ne dici di venerdì?»
«Venerdì?»
ripete, come a dare un senso alla parola.
Io
annuisco: «Sì. È il nostro day off per via
della partita di sabato.»
«Oh
giusto, i quarti di finale contro il Cardiff» esclama, schioccando le dita. «Va
bene allora. Vada per venerdì.»
«Perfetto.
Hai qualche posto particolare dove vorresti andare o scelgo io?»
So
che non funziona così un primo appuntamento – non uno serio, almeno – so che
dovrei portarla fuori in posti che non si aspetta, sorprenderla. Ma qui si
parla di Arabella; la conosco ormai ed è una ragazza fuori dagli schemi. Non è
certo portandola in un bel ristorante che la conquisterò.
Lei
sta ancora pensando alla risposta da darmi e, alla fine, dice: «Sai cosa? Tu
sei un ragazzo intelligente, giochi a rugby, hai una laurea, conosci alla
perfezione Swansea. Francamente non penso che tu debba darti ancora da fare per
fare buona figura con me.»
La
guardo, confuso, ma Ella pare piuttosto certa di ciò che sta dicendo.
«Per
una volta vorrei essere io a fare buona impressione su di te.»
Mi
guarda, un lampo determinato negli occhi. Io sorrido, divertito. «Ma non serve»
la rassicuro.
Scuote
la testa, parendo una ragazzina. La trovo adorabile.
«Anzi,
ribaltiamo tutto» esclama poi, illuminandosi. «Ti andrebbe di uscire con me?
Vorrei portarti a Cardiff.»
Rimango
a osservarla in silenzio, mentre lei non stacca gli occhi da me. Se ripenso
solo a ieri, al modo in cui era chiaramente agitata mentre cercava di prendere
tempo dopo la mia proposta, mi sembra di avere davanti una persona diversa,
anche se sono consapevole che non è così. Rispetto a ieri Arabella ha
semplicemente ritrovato la sua sicurezza e ciò significa che – come per me – sa
di star affrontando qualcosa da cui riuscirà a uscirne rafforzata,
indipendentemente dall’esito.
Porto
le mani sui fianchi e sorrido. «Perciò abbiamo invertito le parti» dico,
piacevolmente sorpreso dalla nostra conversazione. Non sono più io ad aver
invitato fuori lei, ora, bensì è lei ad aver chiesto a me di uscire.
Ella
sorride, stringendosi nelle spalle. «A quanto pare» risponde, rimanendo poi in
attesa.
«Beh,
se le cose stanno così non posso che accettare. In fin dei conti è da un po’
che speravo in questo invito.»
Il
suo sorriso si allarga ulteriormente e non posso che essere felice di vederla
così.
«E
Cardiff sia. Conosco dei posti che ti piaceranno certamente» mi informa.
«Bene,
buono a sapersi. Ti va di anticiparmeli mentre passeggiamo un po’?» chiedo,
indicando con un cenno della mano il sentiero del parco che si addentra proprio
nel suo cuore, su cui io e Arabella ci siamo fermati senza più ripartire. Lei
acconsente e si incammina accanto a me. Per un momento mi torna alla mente il
messaggio di Tommy e nella sua assurdità, ora, mi appare più chiaro che mai.
Sono certo che il mio amico mi debba raccontare qualcosa o, con molta
probabilità, è lui che si aspetta che io racconti qualcosa. Sicuramente lo
accontenterei anche solo mandandogli un messaggio fotocopia del suo, solo che,
almeno nel mio, l’emoticon non la metterei.
Thomas
La
vittoria ai quarti di finale profuma di Swansea, terra bagnata e carne alla
griglia. È un miscuglio di odori vari che accresce notevolmente il mio buonumore.
Nonostante il tempo grigio del cielo – a tratti ha piovuto, poi si è lievemente
schiarito in attesa di un nuovo, cupo, banco di nuvole – l’umore di tutti è
alle stelle. Con la vittoria contro Cardiff siamo riusciti ad accedere in
semifinale e siamo ancora in lizza per vincere il campionato, un traguardo che
lo scorso anno abbiamo visto sfuggire troppo in fretta. Il St Helen oggi era
colmo di tifosi; molti di loro provenivano dalla capitale, ma anche i
sostenitori della nostra RFC hanno preso parte in massa a questa partita,
affrontando caparbi un clima poco incline all’ospitalità.
Anche
al terzo tempo c’è un’atmosfera meravigliosa. La club house
è piena di persone come non succedeva da tempo e ovunque si sentono risate,
chiacchiere e addirittura qualche canto. Nonostante la sconfitta anche i
giocatori del Cardiff prendono parte a questa festa e lo fanno come ho sempre
visto farlo nel mondo del rugby: con fierezza. Si deve uscire fieri da un campo
di gioco, sia con una vittoria che con una sconfitta perché, indipendentemente
dal risultato, hai comunque lottato dando il meglio di te.
Saluto il mediano di mischia del Cardiff con
cui mi ero perso in chiacchiere e torno a rivolgere lo sguardo verso la sala
della club house. Frugo fra i presenti con lo sguardo
fino a trovare Peter. Inevitabilmente accanto a lui c’è Arabella e alla destra
della ragazza c’è anche Niamh con Ryan. Raggiungo i quattro e mi introduco fra
loro con poche cerimonie. Riprendono a parlare e cerco di seguire attentamente
la conversazione così da poter intervenire quando ne ho la possibilità. Anche
loro sono visibilmente felici e perdo completamente il filo del discorso quando
mi soffermo a guardare Pete e Ella.
Sembrano
una di quelle coppie rodate dagli anni. Se ne stanno una accanto all’altro con
grazia, parlano senza interrompersi, scherzano. Trovo che sia bellissimo
vederli così e sono piuttosto certo che ci sia qualcosa che i due devono
raccontarmi, dato che ieri sera sono usciti insieme.
L’esito
non può che essere stato positivo vedendoli ora e – poco modestamente – devo
ammettere di sentirmi in parte responsabile della cosa. So che dopo quello che
le ho detto Arabella ha raggiunto Pete e, alla fine, i due sono usciti da Cwmdonkin Park con un appuntamento organizzato nella
Cardiff del venerdì. Questo particolare l’ho scoperto solo il giorno dopo,
quando mi sono trovato faccia a faccia con il mio amico dato che, prima di
allora, mi aveva informato solo con un messaggio fotocopia del mio a cui non
aveva aggiunto l’emoticon – che in quella circostanza sarebbe stata perfetta.
E
ora devo trovare il modo di cavare a forza le parole dalla bocca di Pete per
sapere dell’appuntamento di ieri, che di certo gli ha dato una buona spinta
dato che oggi ha giocato divinamente. Sono piuttosto certo che l’aver
riaccompagnato a casa Arabella a fine serata abbia portato con sé qualcosa di
più di un semplice saluto, anche se per averne la conferma devo aspettare
ancora un po’.
Smetto
di guardare i miei amici e torno a concentrarmi sulla conversazione. Abbiamo
appena vinto la partita di accesso alla semifinale e sono in uno dei posti che
più preferisco – la club house del St Helen – con i
miei amici. Oggi nulla potrebbe
rovinare questa bella giornata, soprattutto perché se dovesse succedere mi
basterebbe guardare Pete e Ella per sentirmi meglio, dato che finalmente hanno
capito di piacersi e sono visibilmente felici della cosa. Che sia merito mio
oppure no poco importa, ciò che conta è che loro due ce l’abbiano fatta a
scoprirsi ricambiati dall’altro. E poi, ciò che per me rende tutto ancora più
stupendo è il fatto che Peter sia più felice del solito e lui, quando è così,
diventa un compagno di bevute ancora migliore.
La
storia finisce qui. So che avrei potuto renderla più lunga, più articolata, ma
ho preferito lasciarla così, volevo semplicemente scrivere qualcosa di leggero
e, forse, quotidiano, senza troppi fronzoli o complicazioni. Certamente sarà
una banalità questo mio lavoro, ma è una banalità che mi sono divertita molto a
scrivere.
Per
quanto la protagonista di questa storia possa apparire Arabella per me, in
realtà, è Thomas. Sarà che mentre scrivevo questo racconto (che ha impiegato
molto più tempo di quanto si possa pensare a concludersi) mi sono affezionata
particolarmente a lui, fatto sta che per me il protagonista è proprio Tommy.
Nel suo piccolo compare sempre, muovendo fili invisibili attraverso le parole
rivolte a Peter e Arabella e, alla fine, vince anche.
Il
titolo è un gioco di parole (neanche tanto furbo) fortemente legato al mondo
rugbistico (a cui sono attaccatissima, come chi ha letto il mio lavoro Cenerentola non lucidava palloni da rugby
sa benissimo) e si riferisce al ruolo di Thomas e quello di Peter. Tommy è
un’ala, Peter un centro. Il concetto dell’ala spostata a centro ricalca il
ruolo sportivo di Tommy (l’ala, appunto) solo che il “centro” in cui viene
spostato non è quello proprio del campo da rugby, ma il centro posto fra Peter
e Arabella in cui lui deve destreggiarsi per far avvicinare i due.