Weg zur Hölle - Una storia di guerra

di HeyAM
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Notte di Natale, 1943.
 
Rubiano contava circa quattro mila anime prima della guerra, ora erano rimasti in poco più di tre mila.
Si sa, i giovani erano stati chiamati alle armi, altri invece si erano spostati dal paese per riunirsi con le famiglie, ma alcuni erano rimasti.
A quei tre mila poveri disgraziati era rimasto ben poco, eppure l’atmosfera della notte di Natale faceva sembrare tutto diverso. Riuniti nella chiesa del paese, tutti con i loro abiti della domenica, i più vecchi di cinque o sei anni, ascoltavano le parole di padre Guglielmo, il parroco del paese, un buon uomo che andava ormai verso la settantina.
Erano parole di speranza quelle del parroco, erano le parole che ognuno di loro aveva bisogno di sentire, anche Elisabetta, che aveva compiuto diciotto anni proprio il giorno prima. Sedeva in terza fila col padre Mauro, la madre Giovanna e Marina, sua sorella più piccola di dieci anni. In realtà i figli di Mauro e Giovanna Colli erano tre, ma se le due più giovani erano sedute con loro l’altro, Luciano, era in un campo di prigionia in Germania, ci era finito solo due giorni dopo l’armistizio del generale Badoglio.
Non sapevano tanto di Luciano, prima sapevano che era in Russia a combattere e poi un mese fa, gli era arrivata una sua lettera che diceva che i tedeschi e lo avevano arrestato e che ora era in un campo per prigionieri di guerra, diceva anche che era freddo e che c’era cibo, ma che non veniva trattato male.
Avevano paura, avevano paura perché sapevano cosa erano in grado di fare i tedeschi. Erano arrivati i tedeschi a Rubiano, circa una ventina, qualcuno ad Elisabetta aveva detto che erano della Wehrmacht. Tobia, a cui la guerra aveva portato via la gamba sinistra, le aveva raccontato che finché c’erano quelli della Wehrmacht non dovevano aver paura, ma che il problema sarebbe stato se fossero arrivati quelli con i teschi sul cappello, le SS, a Elisabetta facevano già paura quelli lì, non le serviva qualcosa di peggio.
“La messa è finita, andate in pace. Auguro a tutti voi un felice Santo Natale.” Così aveva detto padre Guglielmo prima di lasciare che tutti i poveri disgraziati di Rubiano affluissero fuori dalla chiesa. Eppure quell’augurio non portò altro che morte e desolazione in quel paesino.
 
 
 
 
Mattina di Natale, 1943.
Casa di Elisabetta distava un chilometro e settecento cinquanta metri dal paese, eppure i colpi di fucile si sentirono fino a lì. Circa una ventina, forse una scarica di una mitragliatrice e poi un’esplosione.
Questo si era portato via tre tedeschi e due giovani ragazzi dei partigiani che vivevano nelle campagne attorno a Rubiano, ma di questi non importava poi così tanto, quelli che avrebbero causato problemi erano i tre soldati della Wehrmacht.
Mauro Colli lo aveva saputo solo il pomeriggio dal postino e tutte le tremila anime di Rubiano si aspettavano che la reazione da parte dei tedeschi sarebbe arrivata da un momento all’altro, eppure non fu così. Sarebbero stati dieci i giorni di attesa.
 
4 Gennaio 1944
Non era poi così freddo quell’inverno, ma i vestiti non erano dei migliori e l’aria fredda penetrava fin sulla pelle. In un cappottino marrone scuro Elisabetta avanzava per la piazza del paese, le mani pallide tenevano la cesta con il pane che portava dal fornaio a casa sua. Solo ogni tre giorni riuscivano ad avere il pane, ma era meglio che niente e questo Elisabetta lo aveva capito bene in quegli anni di guerra. I capelli castani chiari erano lasciati sciolti, così da cercare di coprire le orecchie da quell’aria fredda. Accanto a lei c’era Marina che senza dire una parola si limitava a seguirla.
E mentre lei era lì in quella piazza arrivò ciò che avrebbe portato così tanto scompiglio a Rubiano.
Una trentina di uomini marciavano davanti a una camionetta verde militare, le loro uniformi erano nere, portavano tutti un elmetto e imbracciavano una mitraglietta, sembravano tutti uguali, inespressivi, come delle macchine. A Elisabetta si gelò il sangue nelle vene, posò la cesta a terra e prese sua sorella per le spalle tenendosela a sé. E in quel momento lo vide.
Una jeep seguiva la camionetta, nei posti davanti sedevano due soldati come quelli che marciavano mentre dietro vi erano quelli che Elisabetta pensò fossero ufficiali: portavano un cappotto grigio scuro sopra la divisa. I loro capelli erano coperti da un cappello e su questo spiccava, argentato, il Totenkopf, il teschio.
E lui era lì, guardava con sguardo freddo ciò che accadeva attorno a lui, dava l’impressione di essere alto anche se era seduto, le mani erano coperte dai guanti di pelle nera. Gli occhi azzurri dell’uomo la congelarono, sentì una strana sensazione dentro di sé, le cose sarebbero cambiate.
                                                                                                                                                                                                 
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Ciao e grazie per essere arrivato fino a qua sotto! Questa è supposta essere la mia prossima storia, è da un po’ che la ho nella testa ma non mi sono mai decisa a pubblicarla perché mancava quel qualcosa, ora che quel qualcosa c’è ho intenzione di svilupparla.
Ci tengo a precisare che Rubiano è una località di mia invenzione così come tutti i personaggi. Nomi e cognomi sono puramente casuali.
Se avete voglia di lasciare un commento per aiutarmi a migliorare ve ne sarei grata!
Alla prossima.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


14 Gennaio 1944

Esattamente dieci giorni erano trascorsi da quando la Wehrmacht aveva abbandonato Rubiano e aveva lasciato spazio alle SS.
Che non erano come loro Elisabetta lo aveva capito subito. Avevano liberato il piccolo municipio, avevano perfino sfrattato il sindaco dal suo ufficio e vi si erano stanziati loro. Se i tedeschi della Heer, l’esercito regolare tedesco, si vedevano raramente per le strade, loro erano perennemente presenti, si atteggiavano con un’aria da padroni per le vie del paese ricordando a tutte le povere anime di Rubiano che chi comandava erano loro.
Inoltre avevano l’abitudine di perquisire le case, senza avvertimento e anche senza motivo. A casa loro non erano arrivati, non ancora almeno, ma da Tobia erano stati.
Tobia aveva l’età di suo fratello, cinque anni più di lei. Era partito insieme a lui per la guerra ma era stato rimandato indietro dopo tre mesi. Una pallottola lo aveva colpito alla gamba durante un assalto, la ferita non era stata curata subito e si era infettata costringendo il medico militare ad amputargliela.
Così era tornato indietro, senza una gamba, ma vivo. Nell’ultimo periodo veniva spesso a casa della sua famiglia, nonostante gli costasse molta fatica, per chiedere notizie dell’ex compagno di armi, anche se queste mancavano da tanto tempo pure a loro.
“Sono entrati dentro in casa nostra come se fossimo dei criminali.” Aveva raccontato due giorni fa a lei e ai loro genitori dentro la cucina della loro modesta casa. “Nessuno di loro parlava italiano, meno male che ricordavo qualcosa da quando ero al fronte. Mamma era disperata, hanno spostato tutto, mobili, letti.” Aveva scosso il capo Tobia e lei si era accorta del terrore negli occhi della madre.
Quel giorno era tornata in paese, ci andava tutti i giorni a dire il vero, in inverno c’era meno da fare nei campi e non c’era bisogno che aiutasse i suoi genitori, così ne approfittava per fare una camminata fino al centro. Una volta usava la bici, ma con l’avvento della guerra tutte le biciclette erano state requisite.
“Elisabetta.” La richiamò una voce, si voltò e si accorse di Letizia. Era quella che poteva definire la sua migliore amica, erano cresciute insieme ed erano rimaste insieme fino ad allora.
“Ciao.” Calma lei quando si girò. “Come stai?” Aggiunse poi, le mani che si allungavano a prendere le maniche del cappottino così da coprirsi con queste. “Non c’è male. Te?” Mentre l’altra posava la cesta che portava in mano. Si occupava di lavare i panni delle uniche due famiglie in paese che potevano permettersi una persona che lavorava per loro, ovvero quella del sindaco e i De Roberti, i proprietari dei terreni attorno al paese.
Elisabetta scrollò le spalle sperando che all’amica andasse bene come risposta. “Sai sono stata dai Roberti, sapevi che ospitano un tedesco?” La notizia la colse di sorpresa. “In casa? Sapevo che si erano presi la scuola per alloggiare.” L’altra fece un segno negativo col capo. “Non tutti, mi ha spiegato la signora che i soldati semplici sono lì, mentre i due ufficiali comandanti sono stati assegnati alla loro famiglia e a quella di Marchesi.” Emilio Marchesi, ovvero il sindaco del paese.
“Dovevi vederla, era disperata...” continuò lei. “Ha detto che si è presentato questo qui con un soldato che gli portava la valigia e una lettera in cui spiegava che sarebbe stato ospitato da loro. Gli hanno dovuto dare una stanza e si è preso lo studio di De Roberti.” Un’espressione spaventata sul volto di Elisabetta. “Sai cosa Letizia, siamo fortunate a non essere benestanti.” Accennando un sorriso sul finale.
Si salutarono così e lei silenziosa tornò verso casa. Solitamente la strada di ritorno prevedeva il passaggio davanti al municipio, ma in quegli ultimi dieci giorni aveva preferito scegliere una via, seppur più lunga, che le permetteva di mon transitare dinnanzi al nuovo comando delle forze di occupazione da poco arrivate in paese. 
Sapeva che era sciocca come cosa, ma se qualcosa bastava a farla sentire più sicura andava bene così.
 
Una volta lasciato il paese si addentrò per la strada sterrata che, circondata dai campi, si dirigeva verso casa sua. Con l'avvento dell'inverno non c'era quasi nessuno per i campi, in circostanze normali le avrebbe fatto piacere una tale quiete, ma con la guerra, i nuovi tedeschi in paese e i ribelli per i campi provava una certa angoscia. Cominciava a vedere la casa in lontananza quando da dietro di sè sentì il rombo, ben distinguibile, di un veicolo. Quando si voltò e nella polevere alzata dal mezzo vide la jeep che aveva visto giorni prima in piazza quel senso di angoscia divenne ancora più forte. Immobile si scostò ancora più in parte facendo finta di niente, ma chi sedeva nell'automobile non era dello stesso avviso.
Si fermarono affianco a lei e solo ora ebbe occasione di distinguere chi sedeva in questa. Accanto all'autista, un ragazzo che sembrava aver poco più della sua età, sedeva l'ufficiale dagli occhi azzurri e freddi che aveva già visto il giorno del loro arrivo. Un altro soldato sedeva dietro imbracciando una di quelle mitragliette che parevano così care ai soldati teutonici.
 
Istintivamente lei fece un passo indietro alternando lo sguardo tra questi.
"Signorina" iniziò l'ufficiale con un italiano fortemente marcato dall'accento tedesco. "Abita qui?" Chiese. Lei annuì con un cenno del capo incapace di mettere insieme una frase di senso compiuto. "Sì signore, qui avanti." Riuscì ad aggiungere solo dopo qualche istante. 
"Gut." Esclamò quindi lui, non c'era nulla nella voce dell'uomo che potesse tradire una qualche emozione, tanto che ripensandoci dopo Elisabetta si domandò perfino se quell'uomo fosse in grado di provarne, di emozioni. 
Osservandolo meglio ora notò che indossava ancora il cappotto di pelle grigio scuro, portava sempre il cappello con il teschio e un'aquila che teneva tra gli artigli quello che riconobbe essere il simbolo del partito nazional socialista. 
"Sa dove vivono i Rossini?" Tornò a chiedere lui, sempre atono.
Annuì di nuovo chiedendosi cosa potessero volere da quella famiglia che conosceva grazie alle giornate nei campi, ma ovviamente mai avrebbe rischiato di chiedere delucidazioni a riguardo. 
"Se proseguite per questa strada ci arriverete, non vivono così lontani da noi." Spiegò lei cercando di mantenere la calma nonostante a volte quasi annaspasse nel cercare le parole. Lui annuì, disse qualcosa in tedesco all'autista affianco a lui per poi tornare su di lei.
"Danke signorina..." lasciando intendere che non ne conosceva il nome. 
"Colli." Disse lei, non dicendo nulla di più di quanto richiesto.
"Avrà anche un nome?" Sempre quell'accento tedesco così marcato.
"Elisabetta, signore." Replicò lei. Le labbra di lui si piegarono in un sorriso vagamente accennato.
"È stato un piacere, Elizabeth." Convertendo il suo nome dal tedesco all'italiano. Lei accennò un gesto col capo, incapace nuovamente di muoversi o parlare e loro ripartirono lasciandola nella polvere.
 
Quando tornò a casa le cose sembravano andare come al solito, se non fosse stata per la mancanza del fratello non avrebbe sentito neanche così insistentemente il peso della guerra, ma dentro sé stessa sentiva ancora il peso dell'incontro avuto poco prima. Non avrebbe raccontato nulla ai suoi famigliari, ciò avrebbe causato ulteriore preoccupazione in sua madre e suo padre probabilmente non le avrebbe più permesso di andare al paese da sola, ma lei ne aveva assolutamente bisogno. 
Continuava a chiedersi per quale motivo a quell'uomo, che conosceva ora il suo nome ma di cui lei ignorava ancora l'identità, interessasse dei Rossini. 
Temeva per loro, anche se le era già stato parlato di quelle ispezioni casuali che sembravano capitare pian piano sempre a più gente in paese.
 
 
 
Febbraio 1944
 
Se gennaio era stato clemente e le temperature erano state miti lo stesso non poteva dirsi di febbraio. Era arrivato il freddo, quello vero che entra nelle ossa e ti gela.
Elisabetta aveva ridotto le sue visite al paese proprio per quello e molto spesso si trovava in casa, proprio come quel giorno.
Suo padre era nel fienile che si occupava delle bestie che avevano e sua mamma invece era in camera a cucire. 
Lei invece era nella cucina della modesta casa che possedevano, con lei sua sorella Marina che disegnava.
Tra le sue mani un libro, ormai letto e riletto, ma sempre meglio che nulla, la noia la faceva da padrona.
La quiete della campagna venne interrotta dallo stesso rumore che aveva sentito un mese prima circa tornando a casa dal paese. Non si alzò dalla sua seduta, non cercò di scorgere dalla finestra chi si dirigeva verso casa sua, sperando che comunque questo proseguisse dritto.
Il rumore cessò all'improvviso, sua sorella ignara della cosa sbirciò fuori dalla finestra.
"Betta, arrivano i soldati." Sbiancò e tornò quella sensazione di angoscia che così frequentemente provava ultimamente.
"Stai qua Marina." La richiamò lei dirigendosi verso la porta ma stando lontana da questa, come se si aspettasse che potesse venir buttata giù da un momento all'altro.
Tuttavia ciò non accadde, ci fu solamente un bussare e lei che si avviava verso di questa come un condannato si avvia verso il cappio.
Quando la aprì si trovò le due sfere di ghiaccio dell'ufficiale, solo ora capì quanto questo fosse più alto di lei, e ciò non fece altro che farla sentire ancora più indifesa.
"Buongiorno fräulein Elizabeth." Si era ricordato di lei e insisteva ancora a chiamarla con l'equivalente teutonico del suo nome. 
"Speravo mi venisse ad aprire lei." Aggiunse con un sorriso tremendamente sinistro che fece congelare il sangue nelle vene della giovane. "Ci fa entrare?" Indicando i due soldati che lo seguivano.
Non era ancora riuscita a dire nulla e annaspò.
"Oh si sì..." si affrettò a rispondere scostandosi e tenendo la porta così che i tre tedeschi potessero entrare in casa sua.
"Signore, vuole che vada a chiamare mio padre o mia madre?" Lui scosse il capo. "No, non sarà necessario." Tagliò Corto lui aggirandosi per il piano più basso dei due che componevano la casa.
Lei li seguiva, si sentiva un'estranea in casa tua.
"Sai Elizabeth, fa freddo e abbiamo dei problemi con i rifornimenti." Sempre l'accento tedesco più che presente nelle sue parole. Lei si limitava ad ascoltarlo e quando questo entrò in cucina perse dieci di anni di vita vedendo lui che osservava sua sorella che, a sua volta, guardava curiosa.
"Ha una sorella?" Le domandò lui girandosi verso di lei. L'unica cosa che Elisabetta riuscì a fare fu annuire con un cenno del capo e l'ufficiale se la fece bastare come risposta mentre si toglieva guanti e cappello tenendoli poi tra le mani.
"Come le dicevo da qualche giorno non ci arriva legna e non possiamo lavorare al freddo." Un sorrisetto ironico, ma lei era troppo spaventata per accorgersene. "Quindi ci serve la legna, immagino che non sarà per voi un problema collaborare con noi." 
"Signore, io non mi occupo di questo, dovrebbe parlarne con mio padre. Marina" apostrofò la sorellina. "Vai a chiamare papà." Preferì rimanere lei sola con i tre piuttosto che lasciare da sola la piccola c'è si alzò e fece subito quanto richiesto, mentre lei rimaneva lì, preda delle occhiate dell'ufficiale tedesco.
 
 
-
 
Ecco qua il primo capitolo vero e proprio della storia, si capisce ancora molto poco dell’ufficiale dal nome sconosciuto, ma lasciamo tempo al tempo!
Come sempre vi ringrazio per prendervi del tempo per leggere le mie creaturine e vi invito a lasciarmi un vostro parere.
Alla prossima!

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Quella situazione si era fatta alquanto imbarazzante, i due soldati si aggiravano per il piano terra mentre l'ufficiale era dinnanzi a lei, a qualche passo di distanza, che la sovrastava con quello che lei pensò fosse almeno un metro e novanta di altezza. 
Ogni tanto voltava il capo, verso la finestra, controllando quasi con ansia se il padre stava tornando a casa dal fienile.
"Ho letto che suo fratello è nostri prigioniero." Disse questo all'improvviso catturando la sua attenzione che alzò lo sguardo su di lui. La cosa la rese inquieta, quanto potevano sapere di loro?
Annuì con un cenno del capo.
"Sì, da circa un mese credo." Il tedesco non disse più nulla, rimase davanti a lei, le mani una sopra l'altra dietro la schiena, a Elisabetta incuteva timore solo guardarlo.

L'atmosfera divenne più sciolta quando Mauro Colli, seguito dalla figlioletta, entrò in casa. Sul volto un misto tra paura e rabbia, Elisabetta immaginò quanto lo potesse irritare vedere i tedeschi in casa sua ma non disse ovviamente nulla lasciando che fosse il genitore ora ad occuparsi della cosa.
"Herr Colli, buongiorno." Lo salutò l'ufficiale con il miglior falso sorriso che potesse sfoggiare.
"Buongiorno" titubante l'altro, ansioso di sapere cosa volesse l'altro.
"Sono lo Sturmbannführer Schwartz." Si presentò lui. Elisabetta non ne capiva molto di questioni militari, ma anche lei comprese che quello doveva essere il grado e l'altro il cognome. 
"Come spiegavo a sua figlia abbiamo bisogno di legna e siamo certi che otterremmo la vostra collaborazione." E nuovamente quel sorriso falso fece capolino sul volto sbarbato di Schwartz.
A Colli non andava bene come cosa, se ne accorse Elisabetta quando strinse i pugni e prima di rispondere si lasciò andare ad un grugnito, si accorse anche di come Schwartz abbassò lo sguardo sulle mani dell'uomo sollevando impercettibilmente il sopracciglio destro.
"Seguitemi." Disse quindi, nulla più, nulla meno.
L'ufficiale disse qualcosa in tedesco ai due uomini e questi seguirono l'uomo mentre il biondo rimaneva con le due sorelle.

"Dovrebbe insegnare a suo padre che non si deve avere certe reazioni." Disse lui all'improvviso una volta che i tre ebbero lasciato la casa.
Lei si irrigidì, sapeva benissimo a cosa lui si riferisse.
"Signore, è stato un anno duro per mio padre, non è colpa sua..." tentò di giustificarlo lei, seppur sapeva bene che non sarebbe stato facile.
Lui la guardò attentamente, impassibile, solo ora si era accorta che sua sorella aveva lasciato la stanza e ne fu felice, non voleva che sentisse le parole del tedesco.
Vedendo che non rispondeva si preoccupò, tornò ad alzare lo sguardo su di lui cercando per la prima volta gli occhi della SS.
"Signor Schwartz" pronunciando per la prima volta il cognome dell'uomo. "Per favore non gli faccia nulla, a mia madre manca già mio fratello, se prende anche mio padre ne uscirebbe distrutta."
Ne fu quasi stupito lui, sollevò il sopracciglio destro e poi accennò un sorriso che Elisabetta vide come alquanto sinistro. 
"Elizabeth" cominciò lui facendole gelare il sangue nelle vene e avanzando un passo verso di lei, costringendola ad indietreggiare, cosa che risultò poi per lei impossibile visto che si trovò con solo il mobile della cucina dietro, che le toglieva ogni altra via di fuga. "Elizabeth, non sarà per una sua supplica che decido se fare qualcosa a suo padre o no." Rispose lui, tanto che la giovane temette sul serio per il padre. 
L'ufficiale fece per aprire bocca per continuare ma lei lo interruppe.
"Non ha fatto nulla, alla fine la vostra legna la avrete comunque, siete ingiusti." Partì come un treno lei, non voleva perdere l'ultimo uomo rimasto a casa. 
Solo dopo si accorse però di cosa aveva detto, temette una reazione dall'ufficiale, che arrivò, ma non quella che lei si aspettava.
L'uomo scoppiò a ridere. 
"Ma davvero pensi che faccio arrestare una persona solo per quello? Sareste tutti in prigione allora in questo posto!" Esclamò lui, l'accento tedesco sempre presente nella sua pronuncia.
Elisabetta ne rimase sorpresa, ma ne fu sollevata, dopotutto voleva dire che il padre non avrebbe avuto conseguenze.
Appena l'altro ebbe finito la frase uno dei due soldati entrò in cucina, si rivolse in tedesco all'ufficiale che rispose sempre nella sua lingua. 
Dopodiché guardò la ragazza. 
"auf Wiedersehen Elizabeth." Non capiva il tedesco, ma comprese che doveva essere una sorta di saluto. Quando vide la jeep dei tedeschi allontanarsi si abbandonò sulla sedia, pensando a quando stupida era stata a rispondergli in quella maniera.




Erano tornati altre volte a prendere la legna, ma l'ufficiale non era più andato con loro.
Ormai avevano capito che bastava il loro arrivo per capire che serviva la legna e senza scambiare nessuna parola qualcuno di loro li portava nella legnaia lasciando che si servissero come meglio volevano.
Non potevano farci nulla, ma l'inverno non voleva dar loro tregua e la legna cominciava a scarseggiare. 

Era appena passato mezzogiorno quando la solita jeep entrò nel cortile di casa loro. 
Sua mamma stava lavando le stoviglie, mentre lei e il padre sedevano ancora a tavola, Marina invece era fuggita subito dopo aver finito di mangiare per andare a giocare nella camera che le due sorelle condividevano. 

"No, non avranno ancora legna, è da due giorni che non ne usiamo noi!" Esclamò suo padre saltando in piedi. Sua mamma si voltò verso di lui scuotendo il capo sconsolata.
"Mauro... Non possiamo farci nulla lo sai..." disse lei scrollando appena le spalle con fare rassegnato, lasciandosi poi ad un sospiro.
"Oh si che invece possiamo farci qualcosa!" Continuò lui inviperito per poi dirigersi a gran passo verso la porta.
"Papà fermati!" Si alzò anche Elisabetta cercando di fermarlo, sapeva che questa volta non se la sarebbe cavata se fosse uscito.
Ma l'altro era già fuori dalla porta, l'unica cosa che poté fare era vederlo attraverso la finestra urlare contro i tedeschi facendo segno di andare via. Questi non sembravano però capire o anche solo essere intenzionati a lasciare l'abitazione.
Ancora in preda all'attacco di rabbia questo si accovacciò, prese dei sassi dal selciato e cominciò a scaraventarli verso le due SS che questa volta non sembrarono molto clementi con lui.
Uno di loro si lanciò verso Colli, era molto più alto e giovane di lui, tanto che non gli ci volle molto per stendere suo padre a terra. A questo punto sua mamma corse fuori mentre lei non riusciva a muovere un singolo passo. 
"Lasciatelo... Lasciatelo..." urlava sua mamma disperata ma questi non accennavano a volerla ascoltare. Successe tutto velocemente: il soldato che aveva buttato Mauro Colli a terra si rialzò tenendo il contadino ancora al suolo, mentre l'altro puntava ora la pistola contro il padre. 

Elisabetta temeva una reazione anche dalla madre e solo questo la spinse ad uscire dalla casa giusto in tempo per vedere il padre caricato sulla jeep e bloccare la madre che urlava ai soldati di lasciarlo andare, per poi scoppiare a piangere contro la figlia quando la macchina si diresse verso il comando cittadino.




Alla fine si era lasciata andare anche lei alle lacrime, avrebbe voluto non farlo, per sua sorella era già stato abbastanza vedere la madre piangere, ma poi aveva ceduto pure lei. Si era chiusa in camera, nel suo silenzio, finché la madre non era venuta a bussarle.
Le faceva male vederla in quelle condizioni, aveva i chiari segni che ne testimoniavano il pianto e della donna di quattro anni fa ormai era rimasto ben poco.
"Betta, vado in paese a chiedere di tuo padre..." sospirò lei, lei si alzò del letto e scosse il capo. 
"Mamma è meglio se vado io, rimani con Marina te, ha bisogno di averti vicino." Tentò di accennare un sorriso, almeno per rassicurare la donna.

Mezz'ora dopo si trovava davanti alla porta di quello che era stato il municipio ma ora non era altro che il comando delle SS.
Tremava ma cercò di farsi forza, a loro serviva avere loro padre a casa, o almeno sapere quale fossero le sue sorti.

Varcata la soglia si trovò davanti due tedeschi, nella loro divisa verde, il capo scoperto. Quando la videro si scambiarono delle occhiate accompagnate da sorrisetti che la fecero sentire a disagio. 
Dopotutto non era una brutta ragazza, non era altissima vero, ma era sicuramente più bella della media.
Avrebbe voluto rispondergli a tono, ma se voleva ottenere anche solo qualcosa di utile doveva portare pazienza.
"Scusate, avrei bisogno di parlare con il signor Schwartz." Disse quindi lei ma vedendo le facce dei due capì che molto probabilmente non parlavano l'italiano. Uno dei due sparì in uno degli uffici e ne tornò con un ragazzo che avrà avuto circa uno o due anni più di lei. 
"Signorina, come posso aiutarla?" Domandò questo, aveva una pronuncia molto buona, probabilmente in un contesto diverso non avrebbe detto che fosse realmente tedesco. 
"Io avrei bisogno di parlare con il signor Schwartz." L'altro la guardò perplesso ma poi annuì. 
"Mi segua." Disse solo salendo la rampa di scale che portava al piano di sopra. Non si accorse di quasi nulla ciò che accadeva affianco, concentrata solamente su quello che avrebbe detto all'ufficiale.
"Prego." Disse quindi il giovane lasciandola davanti alla porta di un ufficio, che suppose essere quello di  Schwartz. 
Bussò e quando sentì dall'altra parte della porta l'invito ad entrare prese un profondo respiro ed aprì la porta.





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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Lo Sturmbannführer Schwartz si aspettava tante persone quando bussarono alla porta, ma certamente non poteva aspettarsi l'ingresso della ragazza italiana.

Posò la penna stilografica nera che teneva in mano sui documenti che stava controllando precedentemente, sollevò il sopracciglio destro in quella che era una richiesta silenziosa di sapere cosa l'altra volesse.

La vedeva tesa, quasi tremare, stava in piedi davanti alla sua scrivania senza parlare.
Vedendo che l'altra non accennava ad aprir bocca lui sospirò.
"Elizabeth" non gli riusciva chiamarla con il suo vero nome, preferiva usare la versione tedesca. "Sono un uomo impegnato, può farmi la grazia di dirmi cosa la porta nel mio ufficio?" Domandò lui con un sorrisetto sinistro.

Quelle parole la riportarono probabilmente alla realtà tanto che rimediò subito. 
"Si... Mi scusi..." balbettò lei ancora in preda all'agitazione. "Si tratta di mio padre, signore..." aggiunse poco dopo, sempre insicura e incerta.
"Chissà perché ma la cosa non mi sorprende." La interruppe lui. "Ma non ne so nulla, cosa è successo?" Domandò poi.
"Signore è un periodo difficile per tutti noi, non stiamo usando il riscaldamento, lui ha sbagliato, ma non succederà più..." Schwartz continuava a capirne poco, ma la sua espressione si fece più dura.
"Cosa ha fatto?" Sillabò lui marziale.
"La legna... Lui si è rifiutato di darla ai due uomini che sono venduti a chiederla..." disse lei, non voleva andare nei particolari ma aveva già chiaramente capito che all'ufficiale erano questi che interessavano.
"È tutto?" Chiese lui, sospettava che ci fosse dell'altro. 
Elisabetta non rispose, cosa poteva dire d'altronde? Se avesse parlato anche del lancio dei sassi contro i soldati le cose sarebbero state più difficili. 
"Elizabeth ti ho chiesto, è tutto?" Aveva smesso di usare la forma di cortesia e questa cosa mise ancor più, se possibile, la giovane italiana a disagio.
Scosse il capo chiudendo gli occhi mentre le mani si stringevano a pugni facendo impallidire le nocche.
"Lui ha tirato qualche sasso contro i due uomini..." ammise abbassando il tono di voce. 

Lui scoppiò a ridere, ma non era una di quelle risate felici, era tutto tranne questo, era sinistra e fece rabbrividire la ragazza.
"Ti avevo detto di tenerlo a bada." Commentò poi lui. "Cosa vuoi da me Elizabeth? Ha aggredito i miei uomini oltre che essersi rifiutato di collaborare." Aggiunge poi tornando composto e marziale come poco prima. 

"La prego signore... Non potete portarci via anche lui... Mia madre, mia sorella, io, ne moriremmo tutte..." Lo supplicò lui, gli occhi appena lucidi nonostante cercasse di trattenere le emozioni.
Quella considerazione però ebbe effetto contrario su di lui, che sembrò arrabbiarsi maggiormente.
"Qua ti sbagli, tuo fratello non lo abbiamo preso noi, siete voi che avete tradito, voi sporchi italiani." Scattando in piedi e puntandole contro l'indice.
"Ma cosa ci posso fare io?" Replicò allora lei, le lacrime che lambivano i suoi occhi chiari. "So che non vedo mio fratello da quasi tre anni, so che ora è in un vostro campo e non abbiamo più sue notizie da tanto, non l'abbiamo voluta noi questa guerra, o quanto meno non io!" Rispose lei.
"Vuole prendere qualcuno? Prenda me, ma lasci mio padre, non farà più qualcosa di simile ormai." 
Sembrò colpito da quanto la ragazza disse e scosse il capo tornando a sedersi. Rimase qualche secondo in silenzio e quel lasso di tempo, seppur brevissimo, sembrò durare un'eternità per lei.
"Torna a casa Elizabeth." Sentenziò solamente lui.
"E che ne sarà di mio padre?" Tornò all'attacco lei.
"Elizabeth torna a casa." Sillabò nuovamente lui, quello era un ordine vero e proprio, come uno di quelli che dava ogni giorno ai suoi uomini.
La disperazione del momento aveva però dato alla giovane una sicurezza che non credeva di poter avere.
"E se non lo faccio cosa mi fai? Vuoi uccidermi? Tanto non sarebbe la prima volta o?" Non si rese conto di ciò che aveva detto finché lui non saltò in piedi dalla sedia passando oltre la scrivania fino ad arrivarle davanti. 
Cercava di indietreggiare, non doveva osare così tanto e lo sapeva bene.
"Signore..." mormorò lei ma lui non ci vedeva più dalla rabbia. Osò alzare, solo per qualche istante, le iridi chiare così da incontrare quelle azzurre e fredde dell'uomo e quel breve istante fu sufficiente per lei per leggere la rabbia nel suo sguardo.
"Non permetterti mai più di piombare nel mio ufficio e dirmi come fare il mio lavoro." Il tono piatto, lui che incombeva su di lei con quella enorme differenza di altezza. Lei ormai era alle lacrime, gli occhi chiari della donna non erano mai stati così lucidi. Sentirlo pronunciare quelle parole la fece cedere, tutta l'adrenalina del momento era svanita.
Sentì le gambe farsi molli e nel tentativo di allontanarsi inciampò nei suoi piedi.
Era pronta a sentire l'urto con il pavimento in legno della stanza quando le braccia dell'ufficiale la presero. 
Si ricorda ancora la sensazione che provò quando le mani dell'uomo cinsero le sue braccia. 
Si fece scappare un urlo per la sorpresa e quando alzò lo sguardo l'ufficiale la guardava con un volto inespressivo studiandola silenziosamente. 
Facendosi forza sulle gambe tornò in posizione eretta.

Lo sguardo era sulle sue braccia che erano ancora tenute dalle mani della SS.
"Stai bene?" Le chiese all'improvviso l'uomo, come se ignorasse che era stato lui ad indurla in tale stato. 
Annuì debolmente col capo. 
"Sei testarda Elizabeth..." scosse il capo lui mollando la presa dalle sue braccia.
"Cosa ne sarà di lui?" Chiese, arresa, a questo punto. Rialzò solo ora lo sguardo sull'uomo, le lacrime che silenziose e solitarie scendevano dagli occhi lungo le appena arrossate guance della donna.
"Non piangere bimba..." sospirò lui senza rispondere alla domanda.
Era cambiato qualcosa, prima l'aveva vista forte, scontrosa, ma ora era come annullata. 
"Non sto piangendo..." si sforzò di rispondere lei, negando l'evidenza. Lui accennò un sorriso, il più sincero che gli avesse visto fare fino ad adesso. 
La stessa mano che prima le aveva impedito di cadere si abbassò verso il suo volto e con l'indice, quello che le aveva puntato contro prima, le asciugò le lacrime. 
Elisabetta, dal canto suo, era come paralizzata.
"Perché?" Gli chiese solo. Indietreggiò di qualche passo, finché non sentì la parere della stanza toccare la sua schiena, si appoggiò e si fece scollare fino al suolo.
"Non lo so." Disse solo lui. Lei rimase in silenzio, in stato di trance per qualche istante, lui si era abbassato di fronte a lei ma l'unica cosa che riusciva a vedere erano le sue ginocchia. 
"Mi spiace." Fu lui a dirlo, le sue parole ruppero il silenzio dopo un'infinità di tempo.
Lei annuì, si rialzò in piedi e lui fece lo stesso. 
"Vai a casa Elizabeth." Ripeté le stesse parole di prima, ma questa volta il tono era più pacato, più mite e questo la convinse a fare ciò che lui le disse. 
Senza una parola uscì, a sguardo basso, così come era entrata, dalla stanza.





Era tornata a casa da qualche ora e si era chiusa nel suo silenzio, la discussione con Schwartz era stata più che distruttiva e lei ne era uscita sconfitta se non umiliata.
Era quasi sera e lei e sua madre sedevano al tavolo senza dire una parola, ogni tanto una delle due alzava lo sguardo sull'altra per qualche istante per poi abbassarlo nuovamente.
E mentre erano lì sedute udirono distintamente il rumore della serratura aprirsi. Si guardarono perplesse e sua mamma si alzò diretta verso la porta. Lei invece era anche solo incapace di fare questa semplice cosa, ma quando sentì la madre urlare il nome del marito e questa salutarlo un enorme peso le si tolse dallo stomaco, dopotutto forse non aveva proprio perso.





~

Ciao a tutti,
Ecco qui anche il terzo capitolo.
Volevo parlarvi di un mio piccolo dubbio, la storia non è ancora stata recensita e questo mi lascia un po' perplessa, mi farebbe davvero piacere sapere cosa ne pensate, andare avanti così è davvero molto difficile.
Comunque grazie mille a tutti quelli che leggono le mie creature e alla prossima!

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Era da ormai sei mesi in Italia, aveva cambiato quattro diverse località, ma era stato assegnato alla dirigenza di quel piccolo comando in un paesino nella pianura. I tre mesi precedenti erano stati piuttosto tranquilli, qualche diverbio con gli abitanti, ma i partigiani, o banditi, così chiamati dai tedeschi, non avevano disturbato più di tanto.
Non era un buon momento per loro, se all’inizio la guerra aveva volto a loro favore le cose erano poi degenerate, complice l’entrata in guerra degli Stati Uniti e il tradimento degli italiani.
Lo sapeva che ora sarebbe stato difficile vincere la guerra ma non demordeva, lui credeva ancora in una vittoria, era l’unica cosa che poteva fare.
Tornando a Rubiano non poteva lamentarsi della quiete dei mesi precedenti, anche se erano riusciti a scovare pochissimi antifascisti, il tutto era degenerato la notte prima però.
Erano circa le due di notte, era a casa del Sindaco, nella camera che gli era stata assegnata. Stava dormendo, non aveva mai avuto un sonno troppo pesante, ma le sue palpebre erano chiuse. Qualcuno aveva bussato alla porta, in un primo momento pensava si trattasse di qualche abitante della casa ma poi erano seguite delle urla.
“Herr Kommandant.” Signor comandante, solo i suoi uomini lo chiamavano così e con una pronuncia tedesca che solo un madre lingua può avere. Era letteralmente balzato giù dal letto con solo i calzoncini che usava per dormire, aveva recuperato una camicia e aveva cercato, senza successo, di indossarla.
Alla porta c’era uno dei sottufficiali del comando, Hugo Mayer, era quasi del tutto certo che si chiamasse così, poco più di vent’anni, capelli castani chiari e occhi azzurri.
Quando vide l’ufficiale si mise sull’attenti battendo i tacchi, non mancò neanche di alzare il braccio destro teso ed esibirsi nel classico “Heil Hitler”. Lui rispose con un semplice cenno del capo.
“Cosa diamine è successo?” Replicò Schwarzt marziale, se veniva svegliato nel mezzo della notte doveva esserci qualcosa di grande dietro.
“Herr, due dei nostri uomini, non sono rientrati al comando, li hanno trovati appesi ad un albero all’inizio del paese con dei cartelli al collo con scritto Crucco.” Disse l’altro serio e marziale composto davanti a lui. A sentire quelle parole il biondo sentì dentro di sé fermentare la rabbia.
Dopo quella comunicazione era stato portato al comando dai suoi uomini, si era assicurato che i corpi fossero stati tolti da tale sistemazione e si era chiuso nel suo ufficio.
“Voglio giustizia” Aveva dichiarato al suo diretto superiore in una telefonata che aveva fatto quando stava per albeggiare e poteva giurare su quanto di più caro aveva che se la sarebbe presa.
 
 
Da mezz’ora buona ora invece il suo ufficio ospitava la discussione con Ralf Baumann, anche lui ufficiale, era il secondo in comando lì. Baumann aveva qualche anno più di lui, aveva anche una moglie e due figli in Germania.
Baumann non era Schwartz, era una storia lunga quella di Ralf, aveva combattuto prima ad est e poi era stato in Boemia finché non aveva rischiato di rimanerci secco, imboscata mentre erano a bordo di una camionetta, era esplosa una bomba proprio sotto il mezzo, dei quattro uomini che vi erano sopra tre erano morti, l’altro era lui. Così gli aveva raccontato mentre raggiungevano l’Italia.
Baumann era più pacato, non aveva mai mancato nel suo lavoro, ma era la controparte che bilanciava le scelte quasi sempre drastiche del biondo.
“Non possiamo prendere tutta la popolazione e metterla davanti ad una mitragliatrice.” Gli stava dicendo Baumann cercando di farlo ragionare, lui lo aveva guardato con fare serio poi aveva scrollato le spalle. “Perché no?” Aveva chiesto lui sollevando il sopracciglio destro e accennando un sorrisetto, uno di quelli ironici che gli riuscivano così bene.
“Perché non si risolverebbe nulla, diamine! Schwartz non aspettano altro che noi rispondiamo, a loro non importa nulla dei civili, ma se facciamo una cosa del genere avranno un motivo in più per aizzarci contro la popolazione, la stessa che ci dà i viveri per mangiare.” Gli ricordò lui con fare saccente. L’ufficiale era sempre stato convinto che Baumann avesse due grandi difetti: il primo è che in ogni individuo sotto i diciott’anni vedeva il figlio, l’altro era che si comportava con lui come se fosse un fratello maggiore, nonostante sulla carta e anche de facto quello che dava gli ordini era lui.
“E cosa vuole fare lei? Lasciare che questi ci tengano per le palle? Non me ne frega nulla” Aveva detto saltando in piedi dalla sedia e sorpassando prima la scrivania e poi l’altro ufficiale, ancora seduto composto. “Stasera verranno prelevati venti uomini sopra i sedici anni dal paese, diamo precedenza ai prigionieri che abbiamo qui a marcire, li impicchiamo e poi li mettiamo nella piazza.” Aprendo la porta e uscendo dal suo stesso ufficio.
Era sicuro che dietro di lui Baumann avesse scosso il capo sospirando.
 
 
 
 
 In un paese così piccolo ci si conosceva tutti e Elisabetta conosceva tutti quei venti che vennero impiccati e poi appesi al porticato della piazza.
 
Spaghettifresser
 
Mangia spaghetti. Così avevano risposto le SS alla morte dei loro due soldati, non si trattava di un occhio per un occhio, si trattava di dieci italiani per un tedesco. Avevano sentito di questo modo di lavorare dei tedeschi, ma mai nessuno aveva creduto che potessero davvero spingersi a farlo, eppure quei corpi che rimasero a penzoloni nella piazza per due giorni ne erano la testimonianza.
Il parroco aveva più volte chiesto alle forze di occupazione di restituire i feretri alle famiglie, ma questi erano stati inflessibili e solo prima della seconda notte avevano consentito a rendere i venti cadaveri a mogli, madri e figli disperati.
Elisabetta appena vide quell’oscenità fu certa che non se la sarebbe scordata facilmente, tornò a casa di corsa e finché non ebbe la certezza che le povere venti vittime di quella follia avessero avuto una degna sepoltura non osò neanche uscire di casa.
Ma loro dovevano andare avanti e essere grati che la loro famiglia non fosse stata colpita da tale disgrazia, sua madre aveva detto qualcosa del genere quando la giovane italiana si era chiesta il perché di un gesto così estremo.
Non era indifferente alle vittime di quel martirio, rivedeva ancora i loro volti privi di espressione, ma alla fine era andata avanti, anche se alla sera, nel segreto di camera sua, recitava un rosario per quelle povere venti anime che se ne erano andate prima del tempo. D’altronde non era colpa sua se loro erano morti e lei no, era questa la crudeltà della guerra, vedere tutto sgretolarsi e sentirsi impotenti nel non poter fare praticamente nulla.
Con la fine di marzo e il conseguente inizio della primavera il lavoro nei campi era ricominciato a pieno ritmo e ciò includeva anche lei che spesso aiutava il padre soprattutto con le bestie che avevano: due galline, una mucca e una capra. Non era tantissimo ma in un’epoca come quella dove i beni naturali scarseggiavano avevano sempre la certezza di avere qualcosa da mangiare.
A volte invece si dedicava a preparare la marmellata con i mirtilli che crescevano poco distanti dalla loro abitazione, come stava facendo quel pomeriggio primaverile quando udì qualcuno bussare alla porta. Attese di sistemare la marmellata in cottura e poi arrivò all’ingresso.
Sulla soglia c’era chi non avrebbe mai voluto vedere, soprattutto a casa sua.
I capelli biondi ben pettinati all’indietro, nonostante il leggero venticello nessun ciuffo scappava via, le mani dietro la schiena, gli occhi freddi di quell’azzurro così profondo, sul volto nessun tipo di espressione, una maschera che nascondeva qualsiasi cosa dal suo viso.
Ebbe l’impulso di richiuderli la porta in faccia ma l’uomo fece un passo avanti allungando un piede così da impedirle di fare ciò che stava premeditando.
Stava per chiedergli, dopo un lungo momento di silenzio, cosa lo portasse lì, ma questo la precedette allungando una busta bianca.
“Elisabetta Colli, o sbaglio?” disse atono, lei realizzò che era la prima volta che le labbra di lui pronunciavano il suo vero nome senza storpiarlo in tedesco. Ebbe solo il tempo di pensare a quello prima di comprendere che un ufficiale delle SS le stava dando una lettera indirizzata a lei.
Tremante prese la busta alzando poi le iridi chiare per trovare il viso del tedesco.
“Di cosa si tratta?” domandò esitante mentre se la rigirava tra le mani.
“Aprila, nel mentre, ci servirebbero uova e vino, so che avete ancora animali.” Atono lui, lei annuì, dopo che aveva graziato suo padre non avrebbero più osato ostacolare una singola richiesta dei tedeschi, soprattutto dopo aver visto cosa avevano fatto in piazza. Inoltre si sentivano enormemente fortunati a possedere del bestiame, con l’inizio dell’occupazione a molti dei loro compaesani, così come a tutto il resto della popolazione italiana, erano stati requisiti da Wehrmacht e SS.
Annuì con un cenno del capo. “Certo, abbiamo tutto.” Accondiscendente lei, si sentiva uno schifo a essere così disponibile con chi aveva molto probabilmente ordinato quel massacro di innocenti, ma d’altra parte era anche l’uomo che aveva rilasciato suo padre.
Sempre insicura aprì poi la busta e le sue mani pallide estrassero la lettera, sapeva leggere, aveva frequentato la scuola fino all’anno prima, poi la situazione era iniziata ad essere invivibile e l’anno scolastico non aveva più ripreso a Rubiano.
Quando lesse le prime frasi i suoi occhi si fecero lucidi e con un fil di voce riuscì a dire un semplice “Oh mio dio…”
 
 
-
Eccomi qua con un altro capitolo, mi sto stupendo delle mie capacità di aggiornare velocemente! Speriamo rimangano tali. Intanto grazie come sempre a chi mi fa avere il suo parere ma soprattutto a chi legge quello che scrivo.
In questo capitolo c’è una prima parte incentrata unicamente sulle forze d’occupazione con l’introduzione di due personaggi che rincontreremo ancora nel corso del racconto e che avranno la loro rilevanza.
Nella seconda parte torniamo invece prima su una cronaca di quello che era la vita all’epoca, di una routine quasi quotidiana fatta di morte e di violenza e poi sull’incontro dei due. Si capisce qualcosa di più su Schwartz, sicuramente una caratteristica che si può notare ora è la sua doppia personalità, da una parte un convinto ufficiale delle SS, dall’altra invece un uomo che non ha avuto una vita semplice.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***





                   

Germania, 11 febbraio 1944

Miei amati genitori, mie adorate sorelline,

Mi spiace non esservi riuscito a scrivere prima, ma non ci è mai stato dato tempo per poterlo fare nelle scorse settimane. 

Qui dopotutto le cose non vanno malissimo, se si rispettano gli ordini dei tedeschi e si lavora va tutto bene. 

Della mia divisione siamo rimasti circa in venticinque, qualcuno dei nostri aveva tentato la fuga, sappiamo che i tedeschi li hanno catturati e niente più. C'è chi dice siano stati uccisi e chi invece che siano stati trasferiti.

Non so bene dove sia situato il nostro campo, siamo in aperta campagna, ogni giorno per andare  alavorare dobbiamo camminare circa due o tre chilometri, il paese si chiama Korpfeld, c'è una fabbrica che produce armi e siamo quasi tutti impiegati lì. 

Ora penserete, il nemico fa le armi per loro, però la realtà è che non c'è alternativa. Non nel mio gruppo ma in quello di altri prigionieri c'è stato qualche tentativo di sabotaggio, i responsabili sono stati mandati a riparare la linea ferroviaria e credetemi, qui l'inverno è davvero freddo, niente a che fare con i nostri, tanta neve e tanto vento, ho pensato di morire di freddo qualche notte, ma non temete, sono ancora vivo e ormai la primavera è in arrivo.

Il cibo non è un granché, ma almeno si mangia. SI tratta quasi sempre di patate, zuppe, un pezzo di pane, ma quasi mai carne, solo il giorno dopo Natale ci hanno dato del maiale, è stato il miglior regalo che potessero farci. 

Purtroppo da qualche settimana non disponiamo più dell'acqua calda, c'è solamente a volte, ma le più siamo costretti a lavarci con quella fredda, ma ormai non è più nulla di insopportabile.

I tedeschi sono abbastanza magnanimi con noi se non causiamo problemi, quelli che lavorano qui, tranne qualche ufficiale, sono quasi tutti ragazzini, avranno circa l'età di Betta. Uno di questi, si chiama Hermann, è un sottufficiale, ha la mia stessa età e prima di venir chiamato alle armi studiava medicina, parla un po' di italiano. L'ho conosciuto perché una volta in fabbrica mi sono tagliato con un pezzo di lamiera e si è occupato lui di medicarmi. Se non fosse stato per lui non sarei riuscito a scrivervi una lettera, ha detto che l'avrebbe mandata ai tedeschi che, da quanto ho capito, sono arrivati anche a Rubiano.

Mi spiace non essere con voi per affrontare questo difficile momento, mi mancate tutti quanti così tanto, ma la guerra non durerà per sempre. 

Se avrete voglia di rispondermi vi chiedo di dare la risposta a chi vi ha consegnato questa lettera, attendo con ansia di sapere come state e ogni vostra novità.

Mi mancate tantissimo tutti e tre,

Vostro figlio e fratello.

Divorò la lettura di tutta la lettera ancora sull'uscio di casa, gli occhi arrossati per l'emozione, si strinse quel pezzo di carta al petto. Quando alzò lo sguardo e vide l'ufficiale ancora davanti a lei sussultò, si era totalmente dimenticata della sua presenza troppo presa da leggere le parole del fratello.

"Non ci speravamo più..." ammette lei rivelando tutta la sua debolezza nella paura di perdere il fratello. Lui la guardò in silenzio senza dire nulla, impassibile nel suo portamento da soldato. 

Quando si accorse che non c'era più nulla da dire scosse il capo e poi si avviò verso la cucina facendo cenno al tedesco di seguirla. 

"Vino e uova ha detto vero?" Con un ritrovato buon umore dopo aver appreso che il fratello è ancora vivo e comunque in buone condizioni. Lui serio annuì seguendola nella cucina dello stabile, dove già era stato quando era andato la prima volta a casa loro attendendo che la donna si procurasse quanto aveva chiesto.

Elisabetta era troppo euforica in quel momento per pensare al fatto che per l'ennesima volta dovevano cedere qualcosa per cui loro avevano lavorato ai tedeschi, dopo aver posato la lettera sul tavolo della cucina si era diretta nella piccola dispensa della casa, non era mai stata davvero piena, ma quello era sicuramente il suo periodo più buio.

Tornò con una cesta con dieci uova e due bottiglie di vino e una volta giunta davanti al grande pianale della stanza posò il tutto su questo con delicatezza. Sempre impassibile il tedesco la guardava studiandone ogni singola mossa.

"Signore di vino è rimasto solo o questo rosso o questo qua bianco." Indicando le bottiglie. "Ma io temo di non sapere la differenza" ammise poi. Lui guardò le bottiglie pensieroso e poi scrollò le spalle. "Nel dubbio le prendo entrambe allora." Accennando un sorrisetto. Una cosa che aveva già capito da un po' di tempo su quell'uomo è che non era in grado di fare un sorriso sincero, si limitava a incurvare le labbra guardando le altre persone con fare ironico, o almeno, con lei aveva sempre fatto così.-+

"Oh si... Va bene..." Commentò la scelta del soldato ben sapendo che non c'era altra scelta per lei ma solamente l'obbligo di servire con tutti i mezzi a loro disposizione le forze d'occupazione. Lui annuì solamente prendendo le due bottiglie e posandole con cura nella cesta facendo attenzione a non rompere le uova. Solo ora lei si accorse che c'era una delle classiche jeep ad attenderlo fuori.

"Fammi avere la lettera." Disse quindi lui prima di lasciare la casa, era ovvio che fosse già informato sulle metodologie per far avere la replica della missiva al fratello. Dopo quelle parole se ne andò, senza un ringraziamento e senza un cenno di saluto, ma Elisabetta non ci fece neanche caso. Non vedeva l'ora dell'arrivo del resto della famiglia a casa per riferire loro quanto aveva scoperto dalla lettera.

Schartz abbassò lo sguardo sul suo orologio da polso, anche questa volta aveva fatto tardi, considerò mentre entrava nella camera che gli era stata assegnata. Si slacciò la cinta a cui era attaccata la fondina estraendo da questa la pistola e posandola sul comodino accanto al letto, aprì poi la i bottoni della giacca e si allentò il nodo della cravatta. Si sedette poi sul bordo del letto e accese l'abatjour del comodino. Con la mano destra prese fuori dalla tasca interna della divisa una busta bianca, pressoché come quella che aveva consegnato in mattinata alla ragazza italiana. Prese la bottiglia di cognac dal comodino e se ne versò due dita in un bicchiere, non sarebbe stato in grado di leggere quella lettera senza aver prima bevuto qualcosa.

Mandò giù tutto in un sorso solo e sentì la gola ardere, posò di nuovo il bicchiere sul comodino e prese la busta aprendola e estraendone la lettera. 

Frankfurt, 27 febbraio 1944

Nostro amato Franz,

Penso sia scontato dire che manchi moltissimo sia a me che a Joachim. Nonostante siano ormai passati già quattro anni da quando sei partito faccio ancora fatica ad abituarmi ad avere una così grande casa solo per noi due, meno male che c'è lui che non mi fa mai sentire sola.

Joachim cresce ogni giorno di più ed è un bellissimo bambino, ti ho allegato una foto alla lettera, potrai vedere quanto ti assomiglia. Mi stupisce sempre quella piccola peste, è molto sveglio, deve aver per forza preso tutto da suo papà.

Una settimana fa abbiamo festeggiato il suo compleanno a casa nostra, niente di grande, c'eravamo solo noi, i Franken e ho invitato Frau Steiner e suo figlio Fabian,  lui e Jo giocano spesso insieme, quei poveretti hanno saputo un mese fa della morte del marito e padre sul fronte in Russia, siamo riusciti tutti quanti a tirarci su il morale a vicenda e Jo si è divertito molto.

Io sto bene, dopotutto qui le cose non vanno malissimo, ti ringrazio per aver fatto notare a Schneider la nostra situazione, ci ha permesso di tenere la macchina, capisco la necessità di mezzi per la guerra, ma casa è davvero troppo lontana dal centro e non sarebbe proprio possibile fare senza, in compenso gli ho ben volentieri dato diversi tuoi vestiti che non usi più, ha detto che andranno per gli sfollati e per i soldati al fronte.

Tornando a Joachim sta bene, davvero, anche se tu gli manchi molto, non lo dice però si vede, continua a chiedermi di parlargli di te, ti adora. Non mi piace chiedertelo perché lo so che è difficile, però faresti molto contenti sia me che lui se potessi tornare qui anche solo per pochi giorni, so bene che sei lontano e che devi lavorare, ma tutti i soldati hanno diritto ad una licenza.

Ci manchi tanto e ti prego, stai attento, fallo per me e Jo,

Con immenso amore,

Hannah.

-

Ciao a tutti e eccomi qui con un capitolo nuovo nuovo.

Questo qui è il capitolo delle lettere, una per Elisabetta e la sua famiglia e l'altra per il nostro ufficiale, entrambe rivelano parti molto importanti per la storia che si incastreranno con il proseguire dei capitoli.

Ci tengo a ringraziare tutti quelli che mi fanno avere il loro graditissimo parere e rinnovo l'invito a lasciarmi dei commenti su cosa ne pensate. 

A presto con un nuovo capitolo!

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Quando finì la lettera la posò sul letto accanto a sé, prese di nuovo la bottiglia e se ne versò altre due dita, un'altra volta mandò giù tutto d'un sorso, rimase a guardare il bicchiere vuoto per qualche istante e poi lo scagliò contro la parete che si ruppe in mille pezzi, avrebbe fatto pulire la mattina dopo. 
"Scheiße." Merda, urlò lui in un attimo di sfogo per poi posare i gomiti sulle ginocchia e portarsi la fronte contro i palmi delle mani. 

Prese poi la busta e da questa tirò fuori la foto di cui Hannah parlava nella lettera, sorrise appena vedendo quel bambino biondo proprio come lui, anche gli occhi erano dello stesso colore. Non era grasso ma si vedeva che non gli mancava il cibo, a differenza di molti altri ragazzi della sua età in periodo di guerra, aveva uno sguardo furbo ma nel complesso era un ragazzino tenero. Dimostrava forse qualcosa di più dei suoi sei anni appena compiuti.
Era cambiato tanto da quando aveva visto per l'ultima volta una sua foto e si rammaricò di ciò. Da quando era partito per la guerra, più di quattro anni fa, lo aveva visto tre volte e solo per pochi giorni, ma non poteva farsene una colpa, era così per quasi tutti i soldati e l'idea di combattere per il suo futuro lo aiutava molto. Guardò un'ultima volta la foto per poi piegarla in due e infilarla nella tasca interna della giacca della divisa che ancora portava.
Fatto questo procedette a togliersela e spogliarsi per poter andare finalmente a letto, anche se, pure questa volta gli ci volle diverso tempo per mettere da parte i pensieri e chiudere gli occhi.



La lettera di Luciano aveva portato un'ondata di buon umore e speranza in casa Colli, la madre aveva pianto dalla gioia di sapere il figlio ancora vivo e suo padre aveva sorvolato sulle due bottiglie di vino andate in mano ai tedeschi.
Insieme avevano provveduto alla scrittura della risposta, in realtà era stata solo Elisabetta a scrivere e gli altri avevano dettato le loro frasi, ma era stato un bel momento spensierato, come da tanto tempo non se ne vedevano. 

L'indomani, con la lettera tra le mani, si era recata di prima mattina al comando per consegnare la busta, meglio non perdere tempo. 
Si sentiva incredibilmente tranquilla seppur dovesse entrare in quel luogo che certo non era custode di bei ricordi per lei. 
Come la volta precedente fu scortata nell'ufficio di Schwartz dal soldato che parlava italiano e lasciata davanti alla porta del suddetto bussò. Immancabile sentì la voce ordinare qualcosa che lei presunse essere un invito ad entrare e senza esitazione, questa volta, aprì la porta.

Schwartz sedeva impeccabile nella sua divisa grigia antracite dietro la grande scrivania di mogano che una volta apparteneva al sindaco.
"Buongiorno." Salutò lei rispettosa, un po' timore verso quell'uomo così imponente era normale. 
"Elizabeth." La apostrofò la SS atono. "La lettera è già pronta o devi negoziare la liberazione di qualcuno?" Domandò lui sollevando appena il sopracciglio destro e svelando un sorrisetto ironico e questa volta lei rispose a questo.
"Oh no, non vorrei costringerla a capitolare un'altra volta." Rispose sorridendo raggiante.
"Non sarò così magnanimo la prossima volta." Disse l'ufficiale ora più serio, lei annuì.
"Non l'ho ancora ringraziata." Lui fece solamente un cenno del capo come risposta. 
"Eccola qui." Disse quindi lei estraendo la vista dalla borsa che portava con sé.
"Quando potrà tornare a casa?" Domandò poi lei, lui scosse le spalle.
"A guerra finita presumo." Disse il biondo vago. Lei annuì sospirando mente posava la missiva sulla scrivania dell'uomo.
"Ci vorrà ancora tanto?" Chiese quindi lei mentre lui con un cenno della mano destra le faceva segno di prendere posto davanti a lui su una delle due sedie, cosa che lei fece in attesa di una sua risposta.
"No, la guerra è quasi vinta" e voleva esserne così convinto come sembrava. "Solo che voi italiani ci avete complicato le cose." Constatò col suo marcato accento tedesco.
"Non capisco perché lei si ostina a dare la colpa a tutti noi, tanti di noi neanche sanno cosa succede in guerra."  Protestò la ragazza guardando l'altro negli occhi per una delle prime volte.
Schwartz attento la osservò per poi sospirare.
"È un discorso più complesso di quanto possa sembrare." Disse atono, in risposta lei scosse il capo.
"Non è vero, è semplicissimo, io capisco che voi state facendo il vostro lavoro, ma alla fine la popolazione qui che colpa ne ha se chi ci governa ha fatto delle scelte?" 
"Non mi sembra che nessuno di voi si sia ribellato, se qualcuno si è ribellato si è ribellato a noi." Ribatté prontamente l'uomo ricambiando lo sguardo. 
"Ma come potevamo? Qui sono rimaste solo le donne e gli anziani, l'unica cosa che importa a noi di questa guerra è che Luciano torni a casa e che per un qualche motivo qualcuno ci spari..." sospirò lei. "Lei non preferirebbe tornare in Germania? Non le manca qualcuno?" Domandò quindi la giovane italiana.
Il biondo scrollò le spalle. "In un momento questo non importa cosa voglio, importa cosa serve alla mia Heimat, la mia patria." Rispose lui spaventandola per quanta convinzione mise nelle sue parole.
"Ho capito..." commentò Elisabetta non sapendo davvero che altro dire a quelle parole. 
Il tedesco la studiò attento per poi sospirare.
"No, non credo tu possa." Disse accennando un vago sorriso di rassegnazione.
La ragazza annuì. "Già... Ma se potessi almeno non passerei la mia vita ad interrogarmi se ciò è giusto o no." Ammise sincera. "Insomma vi ammazzate tutti a vicenda e noi siamo nel mezzo senza poter fare nulla, da una parte ci siete voi che siete arrivati qua e..." e si interruppe, non poteva andare avanti o ne sarebbe andato della sua vita. 
"E?" Divertito l'uomo esortandola ad andare avanti. 
Lei scosse il capo. "Nulla..." a questo punto lui si alzò sorpassando la scrivania e poggiandosi a questa così da essere affianco alla ragazza.
"Suvvia sono curioso." Continuò tentandola.
"Così poi avrebbe un pretesto per spararmi? Sempre se le serve sul serio..." sospirò lei, aveva già detto decisamente troppo.
"Ti dò la mia parola, non succederà nulla." Elisabetta lo guardò come per capire se fosse sincero e lui capendo le sue perplessità si limitò ad annuire con un cenno del capo e lei credette di potersi fidare di lui.
"Io non ho nulla contro di voi" sperando che potesse aiutarla dire ciò. "però voi venite in casa nostra come se fosse vostra, vi comportate da padroni e noi non possiamo fare assolutamente nulla, solo sperare che a voi per qualche motivo non venga in mente un motivo per avercela particolarmente con qualcuno di noi. Come se l'unica cosa che voleste fare nella vita " Disse tutto d'un fiato. 
Schwartz la guardò per poi sospirare. 
"Non sai quanto ti sbagli." Elisabetta sembrava non capire, lo guardò attentamente come per capire ma lui non diede spiegazioni.

E fu in quel momento che accadde l'impensabile. Lui si spostò davanti a lei e in un attimo si chinò su di lei e le posò la mano dietro il collo.
"Questo è quello che voglio fare ora." Replicò solo ora l'ufficiale a bassa voce e senza darle modo di rispondere le sue labbra andarono a trovare quelle della giovane donna.
Quelle dell'uomo, audaci, cercavano di farsi spazio su quelle della ragazza che impassibile lasciava fare al tedesco. 
Solo ad un certo punto sembrò risvegliarsi, si diede una spinta coi piedi e spostò indietro la sedia alzandosi in piedi.
"Lei..." mormorò attonita al tedesco che solo ora probabilmente si rese conto di cosa aveva davvero fatto, visto come la guardava incredulo.
"Elizabeth vai a casa." Disse solo, ancora sconvolto al pari della ragazza che non se lo fece ripetere due volte e spalancò la porta uscendo fuori di corsa.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Perché lo aveva fatto? Questa era la domanda che più o meno sia Elisabetta che Schwartz si facevano all'interno delle rispettive stanze quella sera.

Elisabetta si era rintanata nella sua camera senza dire nulla a nessuno, i suoi genitori avevano ipotizzato che non stesse bene e questo le aveva permesso di trovare un po' di pace.  
Non aveva mai baciato nessuno, la cosa più simile ad un bacio era stato quel goffo tentativo di Mario tre anni prima un pomeriggio nei campi ma aveva fatto in tempo a scappare prima che le sue labbra toccassero le sue.
Lo aveva fatto per provocarla, ne era sicura e lo odiava per ciò. In realtà lo odiava per altri mille e forse più motivi, ma soprattutto odiava il ricordo dei suoi occhi azzurri così vicini ai suoi, il sapore di dopobarba che aveva sentito sulla sua pelle e la sensazione della sua lingua che cercava di farle dischiudere le labbra e lei ferma immobile incapace di intendere e volere, presa completamente alla sprovvista da quel gesto improvviso dell'ufficiale.

Franz Schwartz si era a sua volta chiuso in camera e si era fatto portare la cena lì, ma d'altronde non era una novità per la famiglia che lo ospitava, la differenza è che era ancora a metà cena e la quantità di cognac nel suo sangue era già nettamente superiore a quella che si concedeva normalmente. 
Come era potuto essere così stupido? 
All'inizio sentendo le parole della ragazza avrebbe voluto schiaffeggiarla, poi però l'aveva vista lì davanti a lui, con quel volto ancora da bambina, stavolta non era stata così remissiva come la volta precedente, anzi, gli aveva risposto a tono come piena di una nuova energia.
E davanti a quelle accuse gli era semplicemente venuto l'impulso di baciarla, non sa bene spiegarsi il motivo, sa solo che si era trovato piegato sulla giovane italiana a cercare di farsi spazio tra le sue labbra. 

 

Il giorno dopo si era svegliato con un forte mal di testa e quando aveva visto la bottiglia di cognac vuoto aveva compreso anche la causa. 
Era da molto che non beveva più di quelle due dita che solitamente si versava dopo cena o più di quel bicchiere e ora ne pagava le conseguenze.
Tutta colpa di quella ragazzina, arrivare ad avere i postumi solo per una italiana appena diciottenne.
Non si ricordava di essere mai stato più in basso di quanto lo era stato la sera prima.

Sceso in cucina si era trovato Marianna davanti, la donna che solitamente si occupava di preparargli i pasti. 
"Signor Schwartz" storpiando ogni volta in maniera impressionante il suo nome. "Come sta?" Avrà avuto circa sessant'anni, i capelli ancora neri anche se qualche ciocca cominciava ad essere grigia. 
Era l'unica che sembrava non essere realmente spaventata da lui, probabilmente perché non aveva più nulla da perdere.
In risposta l'ufficiale bofonchiò qualcosa, si sedette e osservò il suo caffè portandosi le mani alla fronte.
"Mal di testa?" Odiava il modo in cui l'anziana donna si immischiava nella sua vita, soprattutto quando voleva solamente essere lasciato in pace. 
Lui bofonchiò qualcosa guardando la donna che prese un uovo e glielo spaccò dentro il caffè lasciandolo allibito.
"Che diamine fa?" Domandò scontroso. La cameriera scosse le spalle, incurante come sempre.
"Per il mal di testa. Lo beva." L'ufficiale alternava lo sguardo scettico tra la bevanda e la vecchia.
"Se mi fa star male la faccio arrestare." Disse prendendo la tazza e buttando giù tutto d'un sorso, facendo lo sforzo di deglutire il tutto.
Chiuse gli occhi, il sapore orribile dell'intruglio ancora nella bocca, dovette mandar giù del pane per toglierselo.
Dopotutto però non avrebbe arrestato la domestica, visto che in quindici minuti il mal di testa aveva cominciato ad affievolirsi.
 

Elisabetta odiava quell'uomo, aveva capito che quell'astio e quel disgusto che provava quando lo aveva di fronte a sé, o anche solo ci pensava, non era altro che odio. 
Odiava il suo sorrisetto, odiava quel suo sentirsi superiore e odiava immensamente il modo in cui si era impossessato, seppur per pochissimo tempo, delle sue labbra. 
Ripensava a questo mentre, stesa nel letto, cercava inutilmente di dormire.
Era rimasta da sola a casa, i genitori si erano recati dalla nonna materna che abitava nella prima città grande vicina a Rubiano, la nonna di Elisabetta si era ammalata e non aveva nessuno che poteva provvedere a lei, ma qualcuno doveva pur rimanere a badare alle bestie e, nonostante le proteste del padre, alla fine questo compito era spettato a lei.

Fu proprio in quel momento che da dietro le tende che coprivano la finestra cominciò a intravedere dei bagliori luminosi e dei boati a seguire. 
Pensò a un temporale, ma la cosa era improbabile vista l'estate, e poi all'improvviso un altro suono che mai prima di quel momento aveva dentro: la sirena della contraerea.

Gli alleati bombardavano la linea ferroviaria non lontanissima dalla loro casa, non era mai successo prima di allora ma i soldati tedeschi che avevano preceduto le SS lì a Rubiano li avevano avvertiti di quella possibilità.
A Elisabetta prese il panico, la loro casa non era dotata di un rifugio, doveva per forza uscire e recarsi a quello più vicino, a circa 500 metri da dove si trovava. Si alzò dal letto, indosso solamente la camicia da notte, ma quello era l'ultimo dei suoi problemi.

Scese di corsa giù per le scale e spalancò la porta dell'ingresso non curandosi di chiuderla e cominciò a correre sul bordo della strada, i piedi scalzi, quando all'improvviso il boato fu troppo forte, lo spostamento d'aria la fece finire con il voto a terra. All'improvviso la schiena le iniziò come ad ardere, le sembrava di avere mille aghi nella pelle.

I secondi che seguirono sembrarono durare ore, le faceva male tutto il corpo ma la cosa peggiore erano le orecchie, che fischiavano incessantemente e il mal di testa che non le permetteva di avere controllo sul suo stesso corpo e sul suo volto, ancora a contatto con la ghiaia della strada, scesero alcune lacrime silenziose.

Non sapeva ben definite da quanto tempo era in quella condizione, ancora incapace di fare qualsiasi cosa, scioccata da quanto accaduto, che sentì delle voci, anche se le era impossibile distinguere una singola parola.

"Herr Kommandant, kommen Sie hier, venga qui." Parlavano tedesco, questo lo aveva capito, ma nulla più. Non tentò neanche di alzare il volto finché non sentì dei passi avvicinarsi verso di lei.
"Mayer, andate avanti voi, me ne occupo io." Sempre in tedesco, la voce aveva un qualcosa di famigliare ma in quel momento  non era in grado di associarla.
Quando poi quella persona si avvicinò pericolosamente cercò di alzare lo sguardo verso di lui e solo allora riuscì a distinguere, a discapito dell'oscurità, la figura imponente di Schwartz. 
Si abbassò su di lei e quando fece per toccarla lei cerco di scostarsi seppur il dolore che provava alla schiena.
"Stai ferma." Le ordinò l'ufficiale tenendola giù per le spalle.
"Lasciami..." sussurrò lei ma non era così sicura che la sua voce fosse arrivata alle orecchie del tedesco.

L'uomo senza farsi troppi problemi le mise una mano sotto il sedere e l'altra dietro il collo sollevandola. 
"Lasciami..." mormorò nuovamente, stavolta cercando di alzare un po' la voce. 
"Dove ti porto? Devo medicarti la schiena." Rispose incurante della sua considerazione il tedesco.
"A casa per piacere..." Si era ormai rassegnata al fatto che non avrebbe accolto le sue suppliche, tanto valeva accontentarlo, non aveva altra scelta.

Chiuse gli occhi mentre l'uomo la scortava in braccio dentro casa sua. Lo sentì salire le scale, aprì due porte prima che intuisse quella che poteva essere camera sua. 
Lo sentì adagiarla di pancia sul letto dove qualche ora prima si rigirava pensando a quanto lo odiasse.
Lo sentì poi allontanarsi armeggiando per accendere la luce e quando ciò accadde dovette chiudere gli occhi abbagliati dopo ore di oscurità.

"Torno subito..." Disse Schwartz, le parole marcate dal suo solito accento tedesco.
Elisabetta non disse nulla rimanendo sdraiata sul letto, il volto adagiato sul cuscino.

Lo sentì rientrare ma non disse nulla, attese che lui si affiancasse a lei mentre posava una bacinella d'acqua sul comodino. 
Lo vide slacciarsi la giacca dell'uniforme e togliersela per poi rimboccarsi le maniche della camicia bianca fino ai gomiti.
"La bomba era lontana da te, però non c'era nulla a farti da scudo, hai delle schegge nella schiena, devo togliertele o c'è il rischio che i tagli si infettino." Le spiegò calmo lui, la ragazza capiva ancora poco ma almeno si era spiegata il dolore alla schiena.
"Devo toglierti la camicia da notte..." mormorò poi Schwartz, non pareva imbarazzato dalla cosa, lei invece lo era eccome.
"No... Non voglio..." Si oppose, portava solamente l'intimo sotto e non voleva farsi vedere in quelle condizioni.
"Non hai scelta Elizabeth." Lui mise le mani all'estremità di questa e con cautela iniziò a sollevarla dal corpo, ancora schiava delle parole dell'uomo non poté fare altro che far leva sui gomiti così da facilitare l'operazione.
Un gemito di dolore uscì dalla sua bocca quando l'ufficiale si trovò a sfilare la parte che sfiorava le ferite ma per sua fortuna fu solo un momento.

"Prendi l'asciugamano e mordilo." Lei lo guardò non capendo il motivo di ciò ma quando poi l'ufficiale iniziò a sfilare le schegge con una pinzetta tutto divenne più chiaro. Strinse forte l'asciugamano tra i denti, si dimenava, ma non poteva competere con la forza dell'uomo che riusciva a tenerla inchiodata al letto. 
"Ho finito..." Disse ad un certo punto il biondo, a Elisabetta sembrò essere trascorsa un'eternità. 
"Non sono un medico... Non so se è rimasto qualcuno al paese che può visitarti, ma ti converrebbe." Aggiunse poi lui. La coprì quindi con le coperte, si vestì e si alzò, l'opera di bene dell'anno l'aveva fatta,  era abbastanza per tenere zitta la sua coscienza.

"Ho paura..." Sussurrò lei. Lui sollevò il sopracciglio destro girandosi verso la ragazza. 
"Cosa?" Chiese, non aveva sul serio sentito.
"Se succede di nuovo?" Domandò Elisabetta, Schwartz scosse il capo.
"Stanotte non torneranno." Asserì serio lui, vedendo la ragazza scuotere il capo sospirò. Si sedette sul letto accanto a lei e guardò l'orologio da polso.
"Hai ancora un po' di tempo, dormi Elizabeth."
Dispotico, come sempre d'altronde.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


La prima cosa che videro gli occhi di Schwartz quando si svegliò fu una massa di capelli castani, gli ci volle un po' per ricordarsi della notte precedente ma appena lo fece si rialzò dal letto. 
Rimase qualche secondo ad osservare la ragazza che dormiva dove fino a qualche istante fa giaceva anche lui.
Indossava ancora la divisa che portava la notte prima, salvo per giacca e stivali che si era tolto prima di entrare nel letto con la ragazza, in realtà non era proprio la sua intenzione quella di addormentarsi con Elisabetta, ma il sonno lo aveva fatto capitolare.
Non si ricordava da quanto tempo non dormiva con una donna, certo aveva avuto delle avventure in quasi quattro anni di guerra in giro per l'Europa ma mai si era fermato con una di queste dopo aver soddisfatto i suoi bisogni.

Si ricordava perfettamente la nottata precedente, era ancora in ufficio quando avevano cominciato a intravedere i bombardamenti in lontananza, aveva dato l'ordine di contrattaccare con la contraerea. 
Più tardi, a allerta passata, si era recato con due dei suoi uomini a vedere se la ferrovia avesse subito danni, quando stava per rientrare uno dei suoi camerati lo aveva avvertito della presenza di una ragazza sul ciglio della strada e, a discapito dell'oscurità, l'aveva riconosciuta, non c'è bisogno di raccontare di nuovo cosa era successo poi.

Una volta che si fu composto scese le scale cercando di fare il minor rumore possibile, non voleva spiegare alla ragazza perché si trovava ancora a casa sua. 
Buttò un occhio all'orologio da polso, aveva ancora un po' di tempo per cambiarsi e farsi una doccia prima di dover rientrare in ufficio.
Chiusa così la porta della casa dei Colli dietro di sé si avviò, a piedi, verso quella che era divenuta la sua abitazione.





Nel suo letto era rimasto il profumo dell'uomo, quella stessa fragranza mista tra muschio e dopobarba che gli aveva sentito sulla pelle durante quel breve bacio nell'ufficio di lui.
Non si ricordava ogni particolare della notte precedente, o almeno non tutto da quando il tedesco la aveva raccolta da terra portandola in casa. 
Si risvegliò a fatica e come si aspettava l'ufficiale non era più con lei e ne fu sollevata, come aveva reagito durante la nottata non aveva nulla a che fare con il suo comportamento, era stata una situazione che non poteva aspettarsi, la sua reazione era stata dettata dal panico.



In mattinata si era occupata delle bestie e nel pomeriggio aveva deciso di recarsi in paese, aveva bisogno di distrarsi, di non pensare a quanto era accaduto la notte precedente, e la visita a qualche conoscente poteva essere un ottimo diversivo.

Nella piazza del paese aveva visto in lontananza la figura, purtroppo facilmente distinguibile, senza la gamba di Tobia.
Vedere l'amico del fratello l'aveva rallegrata, da quando era tornato dalla guerra era stato vicino alla sua famiglia e, sebbene tutti credevano che la perdita dell'arto lo avrebbe portato alla depressione, il ragazzo li aveva smentiti e aveva reagito in maniera completamente differente.

"Elisabetta." Esclamò lui vedendola arrivare, un accenno di sorriso si formò sul suo volto.
"Tobia" rispose cordiale. " come stai? È da un po' che non ti vedevo più in giro." Il giovane scosse le spalle.
"Non ti sei vista molto neanche te in giro, però ho parlato con tuo padre, sono contento che abbiate avuto notizie da Luciano." Elisabetta annuì, consapevole di quanto fossero stati fortunati.

In quel momento la quiete della piazza fu disturbata dal rumore di un veicolo motorizzato, entrambi i giovani si voltarono verso di questo e la jeep militare delle SS fece il suo ingresso.
A bordo c'erano tre soldati, uno di questi era Schwartz.

I due indugiarono su questo anche se il transito della macchina durò davvero poco.

"Non sai cosa si dice su quello..." sospirò Tobia, Elisabetta lo guardò perplessa sollevando il sopracciglio.
"Schwartz, l'ufficiale" continuò il ragazzo. "L'altro giorno sembra che qualcuno gli abbia riferito che in una fattoria a venti chilometri da qui la famiglia nascondeva alcuni della resistenza. Hanno trovato i partigiani, li hanno arrestati per interrogarli e Dio solo sa cosa ne sarà di loro. Ma la cosa peggiore è che hanno bloccato le porte della casa e le hanno dato fuoco con la famiglia dentro... Due donne e due bambini..." disse Tobia sospirando, Elisabetta lo guardò basita, fino a che punto potevano spingersi?

"Ed'è stato lui a dare l'ordine" e qui Elisabetta ebbe l'istinto di vomitare all'idea che il responsabile di tali atrocità fosse lo stesso che quella notte aveva dormito nel suo letto.

Rimase in trance guardando le sue scarpe, tanto che il ragazzo si preoccupò.

"Betta, tutto bene?" Chiese il ragazzo, lei scosse il capo.
"Non pensavo potessero fare cose del genere..." mormorò, non avrebbe mai svelato cosa era accaduto tra loro.
"Oh, loro fanno anche di peggio, non penso potrò mai dimenticare quanto ho visto in Russia con loro, ma non penso sia il caso che te lo racconti." Invece lei avrebbe voluto chiedergli di raccontarle tutto così da sapere cosa aspettarsi, ma l'idea poi di assistere ad altri racconti simili la fece desistere.
"No Tobia, preferisco non sapere..." ammise lei. Ancora non riusciva a capacitarsi della cosa, pensava all'uomo che ieri l'aveva raccolta dalla strada, medicata e che le era stato vicino quando aveva paura e che era lo stesso che si macchiava di tali crimini ingiustificabili.



Era sulla strada del ritorno dal paese verso casa quando, come la prima volta che parlò con Schwartz, venne affiancata dalla ormai nota jeep delle SS.
Questa di fermò accanto a lei ma Elisabetta non fece cenno di voltarsi, il racconto di Tobia l'aveva lasciata sconvolta, non voleva ritrovare quegli occhi azzurri.
"Elizabeth, ti accompagno a casa." Ed eccola, la sua voce, ormai aveva imparato a riconoscerla, era impossibile non distinguere quell'accento tedesco così marcato.
La jeep ripartì mentre l'ufficiale sostava in piedi accanto a lei.

"Tutto bene dopo ieri sera?" Chiese a questo punto l'uomo, ormai non poteva più evitarlo, si voltò verso di lui alzando lo sguardo nel tentativo di colmare quella enorme differenza di altezza tra loro.
Elisabetta non disse nulla abbassando lo sguardo e riprendendo a camminare.
"Mi ignori?" Riprese quindi lui seguendola. "Non mi aspetto un grazie per ieri ma almeno potresti considerarmi."
Elisabetta si girò di scatto verso di lui.
"Ti preoccupi per me e poi non ti fai problemi a uccidere una famiglia?" Era la prima volta che gli dava del tu, era la prima volta che si rivolgeva così a lui e l'ufficiale ne fu colpito.
"Cosa diamine stai dicendo?" La riprese lui tenendola per la spalla.
"Vieni qui, fai tanto il gentile con me e poi fai bruciare viva una famiglia. Sei un mostro..." sbottò lei guardandolo ora negli occhi.
Lui sospirò ricambiando lo sguardo.
"È la guerra..." disse solamente lasciandole  la spalla e riprendendo a camminare.
"Non può dire così..." ritornando a rivolgersi formalmente a lui.
"Ti sbagli, sono cose che succedono in guerra. Mi spiace ma non ho scelta, o si fa così o si fa così." 
Era colpita da quanto potesse essere incurante di uccidere delle persone e scuotendo il capo riprese a camminare.
"Ci saranno altri bombardamenti probabilmente." Disse lui, sempre accanto a lei. 
Non disse niente, continuando ad ignorarlo, l'idea dei bombardamenti la terrorizzava.
"Posso andare avanti da sola ora." Disse lei, Schwartz la guardò e fece spallucce, stavolta fu lui ad ignorarla e continuò a camminare accanto a lei.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


Erano arrivati davanti a casa sua ormai, Elisabetta si voltò verso di lui.
"Grazie per la compagnia." Ironica? No, sembrava più una cosa che si sentiva in dovere di dire, l'altro ghignò, evidentemente si era reso conto che la giovane non aveva poi così tanto gradito la sua presenza.
Per cortesia fece per prenderle la mano ma Elisabetta la ritrasse istintivamente muovendo qualche passo indietro così da aumentare la distanza dal tedesco.
Schwartz la guardò scuotendo il capo.
"Hai paura di me cara Elizabeth?" Quell'uomo era in grado di leggerla dentro e questa cosa la terrorizzava più di tutte le voci che si sentivano su di lui.
Non disse niente, preferì optare per il silenzio.
"Fai bene." Gelido l'ufficiale in quelle parole per poi girarsi e prendere la via del ritorno. 
Elisabetta rimase qualche istante a guardare il tedesco che si allontanava per poi sospirare e entrare in casa.
Cosa voleva dire il tedesco con quella frase? Doveva temerlo per un motivo preciso o per la sua posizione?
Cercava di non pensarci ma il profumo dell'ufficiale era ancora sulle sue lenzuola, aveva quasi pensato di prendere il letto di sua sorella per liberarsi da quella bruttissima sensazione. 
 

Per fortuna Schwartz l'aveva aiutata a dimenticarsi di lui e i suoi modi dal momento che da quel pomeriggio non lo aveva più visto per tre settimane buone, aveva anche pensato che fosse stato trasferito.
La vita, e la guerra con essa, avevano ripreso il loro normale corso.

Aveva ripreso ad andare al paese con più scioltezza e aveva anche ripreso il suo lavoro nei campi e con le bestie insieme alla sua famiglia, non avevano più avuto notizie da suo fratello, ma dopo quella lettera erano tutti più fiduciosi.

Se c'era una cosa che aveva capito dalla guerra era che la tranquillità e la quiete non durava mai per troppo tempo e infatti, una sera di maggio fecero la comparsa a casa loro Tobia e le sue stampelle, ormai erano praticamente parte di lui.

Si perse la loro conversazione Elisabetta, ma quando rientrò in cucina la madre aveva una faccia cupa e il padre guardava fuori dalla finestra con fare perso.
"Cos'è successo?" Chiese agitata lei, vedere i genitori preoccupati portava la giovane ad esserlo a sua volta.
"Hanno ucciso Giovanni Canali e hanno arrestato sua moglie, poi hanno bruciato la loro casa." Elisabetta sbiancò, non si sarebbe mai abituata agli orrori della guerra.
"Oh mio Dio!" Portandosi le mani alla bocca. "Perché?" Non sempre c'era una motivazione, anche questo lo aveva capito.
"Avevano nascosto la macchina nel fienile, i tedeschi lo hanno scoperto e hanno detto che se la sarebbero presa, Gianni" così suo padre chiamava l'ormai defunto compaesano. "lui si è opposto e ha piantato il coltello nella schiena del loro ufficiale." Disse poi.
"Lo ha ucciso?" Si preoccupò Elisabetta, le venne istintivamente quella domanda. Non era sicura che si trattasse di Schwartz, sapeva che c'erano altri ufficiali, ma, senza un motivo ben preciso, la cosa la rendeva irrequieta.
"Purtroppo no, anche se sembra stia per tirare le cuoia." Rispose suo padre irritato, questa volta fu sua madre a portarsi le mani alla bocca.
"Non dire così Mauro..." lo intimò la moglie. Non è che questa avesse a cuore la vita del tedesco, ma era una fervente cattolica e temeva che qualche maledizione o castigo divino si abbattesse su di loro per colpa delle parole del marito.
Questo non replicò ma era chiaro che era contrariato.
Nessuno aprì più bocca quella sera.

Fece fatica ad addormentarsi, non provava nessuna simpatia per il tedesco, anzi, ma l'idea che fosse su un letto a lottare tra la vita e la morte la rendeva particolarmente preoccupata.

La mattina dopo fece una scelta azzardata e probabilmente, se ci avesse pensato un po' di più, non sarebbe arrivata alla medesima conclusione. 
Alle dieci di mattina era davanti al comando e, con un po' di coraggio, decise di entrarci.
"Vorrei parlare con il Signor Schwartz." Disse in italiano al piantone. Questo la guardò spiazzato e poi si voltò dirigendosi al primo piano dell'edificio. 
Quello che scese le scale era, capì dalla divisa simile a quella di Schwartz, un ufficiale, ma non era quello che aveva richiesto.
Aveva almeno trentacinque anni, i capelli castani chiari corti, seppur alto e ben impostato non incuteva il terrore che riusciva a farle provare Schwartz.

"Lei è la signorina?" Domandò questo una volta raggiunta la giovane italiana.
"Colli, Elisabetta Colli." Rispose lei con un attimo di esitazione, perché c'era lui e non Schwartz.
L'altro le porse la mano destra per stringergliela.
"Sono Ralf Baumann, sono il vice comandante qui." Spiegò lui, aveva un accento tedesco meno marcato rispetto a quello di Schwartz. Lei strinse la mano del soldato senza dire nulla.
"So che ha fatto richiesta di parlare con Herr Kommandant, posso chiederle per quale motivo?" Domandò a questo punto, il tono di voce non era scontroso ma cordiale.
Elisabetta esitò, cosa doveva rispondergli?
"È una questione personale, signore." Incerta. L'altro interpretò male la cosa.
"Non pensavo fosse il tipo da queste cose..." mormorò Baumann. La giovane sembrò non capire, visto che lo guardò con fare interrogativo.
L'ufficiale però non si preoccupò di dare ulteriori spiegazioni.
"Signorina Colli, lo Sturmbannführer Schwartz è stato vittima nella giornata di ieri di un attacco ad opera di un suo compaesano." Seppur cordiale si era dimostrato ostile nel pronunciare quell'ultima parola.
Elisabetta si bloccò, aveva avuto la sua conferma, era lui quello che era stato ferito.
Non disse nulla, rimase impietrita davanti all'uomo che la studiava concentrato.
"Vuole vederlo?" La richiamò lui ad un certo punto. La ragazza esitò poi scosse i capo.
"Io... Non penso sia il caso..." Rispose, Baumann però, che aveva colto l'esitazione si girò.
"Mi segua." Disse solamente salendo le scale.

"È ancora incosciente." Spiegò l'uomo mentre la conduceva verso il luogo dove si trovava l'ufficiale. La cosa da una parte la tranquillizzò, la metteva meno a disagio il pensiero che lui non la avrebbe riconosciuta e non si sarebbe ricordato di qualcosa. 
Giunti davanti ad una porta Baumann si scostò lasciando che fosse la donna ad avere l'accesso a questa.
"Eccoci, ora signorina io torno alle mie mansioni." Disse lui girando i tacchi e lasciandola lì imbambolata.
Editando aprì la porta che dava su quella che doveva essere un'infermeria molto spartana.
Quattro letti erano predisposti lungo la stanza e su uno di questi lo vide.
Era sdraiato di pancia, il volto piegato sul cuscino, gli occhi chiusi e impegnato in un sonno agitato. Un panno bagnato sulla fronte e la faccia sudata.
Come un automa si avvicinò a lui a passi incerti. Si sedette sul letto vuoto affianco e lo guardò.
Non aveva nulla a che fare con l'uomo in divisa che seminava terrore e morte nei territori locali, aveva la febbre pensò lei visto quanto sudava e quando avvicinò, in un assoluto atto di coraggio, la mano alla fronte la sentì ardere benché avesse il panno bagnato sopra.
Immediatamente ritrasse la mano come temendo che lui potesse svegliarsi di colpo e trovarla in quella situazione.
Lo vide agitarsi e gemere per il dolore che molto probabilmente la ferita alla schiena gli provocava, la preoccupava, per un qualche sconosciuto motivo, vederlo in quelle condizioni e, per quello che poi definì un atto di misericordia cristiana, strinse la sua mano tra le sue. 
Era molto più grande delle sue notò. 
Rimase in quella situazione per un po' di tempo finché, resasi conto di cosa stava facendo, scappò letteralmente dal comando vergognandosi per quello che aveva fatto e chiedendo perdono a tutte quelle persone la cui vita era stata strappata da quella stessa mano che lei aveva stretto.

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


"Betta, secondo te morirà?" La voce squillante di sua sorella arrivò alle sue orecchie mentre cercava inutilmente di prendere sonno nel suo letto.
Si girò a guardarla, il suo letto era dalla parte opposta della stanza. A sua volta anche lei era avvolta tra le coperte, tra le mani teneva una bambola di pezza che le era stata regalata anni prima.
"Chi?" Chiede Elisabetta confusa.
"Quel tedesco, quello che papà ha detto che sta per morire." Sentendo tali parole strinse forte tra le mani le lenzuola.
"Non lo so Marina, ma che ti importa?" Chiese di rimando lei, la sorella scosse le spalle per poi rimanere in silenzio. Lei tornò a voltarsi verso la parete.



Dormì poco e male, come era possibile che si sentisse così tanto in pena per lui? Aveva sentito cosa aveva fatto e, con i corpi appesi in piazza, lo aveva anche visto, sapeva che quello non era un uomo per bene, eppure il ricordo di lui, sudato, che si agitava nel letto la distruggeva.
Forse ciò che la spingeva  a provare tali emozioni era l'idea che Schwartz, dopotutto, quella sera quando lei aveva creduto di morire, le era stato vicino, anche troppo per i suoi gusti.

Quella mattina si sentiva stanca, il suo fisico non era in grado di sopportare così tante nottate insonni e soprattutto tanti pensieri e preoccupazioni.
Come ogni tanto capitava quella mattina toccava a lei recarsi in paese per prendere il pane, la primavera era ormai inoltrata, anzi ormai era prossima l'estate e camminare all'aria aperta non era poi così male.

Quando transitò davanti al vecchio municipio una morsa le strinse lo stomaco, perché si sentiva così all'idea dell'uomo che in quel momento si trovava morente all'interno di quell'edificio? 
Rimase qualche istante a guardare l'ingresso e, dopo aver verificato che nessuno dei paesani fosse nelle immediate vicinanze, fece in silenzio il suo ingresso.

Perché lo faceva? Non lo sapeva, la sua testa era sconnessa, si sentiva che doverlo fare, aveva provveduto a mille giustificazioni per sé stessa, la realtà è che il vero motivo che la conduceva lì era ignoto a lei stessa. 

Come sempre fu accolta dai due piantoni che ormai si erano abituati a vederla entrare lì.
"Vorrei vedere il comandante Schwartz." Elisabetta invece non si era per niente abituata ad entrare lì dentro e ogni volta si sentiva estremamente ansiosa.
I due si guardarono, dissero anche qualcosa in tedesco che lei ovviamente non comprese e poi, uno di loro, le fece cenno di seguirla.
Fu lasciata davanti alla medesima porta e con la medesima esitazione del giorno prima, la aprì. 

La differenza dal giorno prima però fu che Schwartz era seduto sul letto, indosso un pigiama, appoggiato ad un cuscino posizionato tra lui e la testiera del letto.
Parve sorpreso quando la vide e lei fece per richiudere la porta e fuggire.
"Aspetta!" Sentì dalla camera, era sveglio ma il tono ancora particolarmente debole.
Sentendo la sua voce si fermò e riaprì la porta guardandolo meglio.
Quando l'aveva visto in servizio i suoi capelli erano sempre pettinati all'indietro impeccabilmente, ora erano scombinati e leggermente sporchi, sul volto aveva già degli accenni di barba, si vedeva che era da qualche giorno che non se la faceva.
Si avvicinò esitante a lui rimanendo comunque a debita distanza.

"Come stai?" Chiese Schwartz, ogni tanto la sua faccia si contorceva in un gemito di dolore, probabilmente quando la ferita andava in contatto con la testiera del letto alla quale era appoggiato.
"Dovrei essere io a farle questa domanda." Mormorò Elisabetta, il tedesco accennò un sorriso.
"Non sono facile da ammazzare." Ribatte lui. La giovane non disse nulla limitandosi a guardarlo, in quelle condizioni non sembrava essere lo stesso uomo con la divisa grigia antracite.
"Mi ha detto Baumann che sei venuta a trovarmi ieri." Le sue guance si tinsero di rosso, e lei che sperava nessuno venisse a sapere della sua visita se non chi l'aveva vista.
"Se il nemico è ferito è innocuo." Sorrise appena lei cercando di sviare la conversazione dalla sua visita del giorno precedente.
"Già, non si infierisce sul nemico ferito però." Ribatté lui, come se lei avesse il coraggio di fargli qualcosa.
"Siediti qua." Disse lui indicando la parte di letto libera accanto al suo corpo, Elisabetta esitò ma poi acconsentì e si sedette con cautela temendo di toccarlo.
"Le serve qualcosa?" Chiese a questo punto Elisabetta che in realtà non sapeva neanche più cosa dire e quello le sembrava un modo per rompere il silenzio.
"Dell'acqua per favore, c'è sul comodino..." le chiese Schwartz, Elisabetta si voltò, prese la brocca e ne versò un po' nel bicchiere, non troppa così da non renderlo troppo pesante, dopodiché glielo porse.
Si accorse del gemito che provò l'altro quando alzò il braccio per portare il bicchiere alle labbra ma non disse nulla, infine si limitò a riporlo da dove lo aveva preso.
"Danke." Sincero, come poche volte lo aveva sentito, lui.

"Le è già capitato di rimanere ferito?" Si fece coraggio di chiedere lei, lui sospirò appena poi annuì. 
"Una sera circa tre anni fa credo, ero in Boemia, stavamo tornando da un pattugliamento e siamo stati assaliti da due partigiani credo, sono stato ferito al fianco, una pallottola." Spiegò calmo lui. "È per questo che ti ho detto che è difficile ammazzarmi." Sorride leggermente lui. Elisabetta si chiese come potesse scherzarci anche se si tenne quel pensiero per lei.
"Posso farle una domanda personale?" Esordì quindi dopo un attimo di silenzio. Schwartz la guardò sorpreso, poi annuì con un cenno del capo.

"Come si chiama? Il suo nome intendo..." imbarazzata, le gote nuovamente arrossate. Lui accennò un sorriso vedendola reagire così.
"Franz." Disse solamente, Elisabetta annuì e non disse niente, rimase in silenzio a guardarlo finché la situazione non diventò insostenibile.
"Beh io penso che ora sia meglio se la lascio riposare." Facendo così per alzarsi quando però sentì la sua mano venire afferrata, si voltò e lo vide sorridere.
"Aspetta." La richiamò. "Grazie per essere venuta." Si era quasi convinta che qualche medicinale che aveva preso il tedesco gli avesse lasciato qualche strano effetto, non lo aveva mai visto così cordiale.

"Dovere." Disse solo Elisabetta realmente colpita dal ringraziamento dell'ufficiale. 
Franz Schwartz scosse il capo. 
"No, non penso sia questione di dovere." Disse solamente. La mano ancora tenuta dalla sua, Elisabetta abbassò lo sguardo su questa.
"Lasciami fare una cosa..." mormorò lui poi richiamando la sua attenzione, la giovane lo vide avvicinarsi pericolosamente verso di lei, seppur la cosa gli costasse parecchio sforzo.
Questa volta però non si ritrasse e non cercò di scappare, anzi si avvicinò lei temendo che potesse costargli troppo dolore quel gesto.
In un attimo le loro labbra si toccarono, tra i due era sicuramente quella più impacciata anche se cercava di rispondere al bacio come stava facendo l'ufficiale. 
Non seppe per quanto tempo le loro labbra rimasero unite e nemmeno chi dei due fu il primo a staccarsi, l'unica cosa che sapeva era che in quel momento si trovava accanto all'ufficiale, appoggiata alla sua spalla con la testa.

"Tra poco dovrebbe arrivare il medico del paese per la visita..." mormorò lui. "Non penso sia la cosa ideale per te farti trovare qui." E lei comprese, come la avrebbero vista in paese se si fosse sparsa la voce che era sdraiata nel letto del temuto comandante delle SS? 

In fretta e furia fece per alzarsi ma lui la fermò di nuovo. 
"Domani torni?" Chiese innocente lui. Lei accennò un sorriso.
"Mi serve una scusa, ma forse trovo qualcosa..." sospirò lei.
Franz annuì con un cenno del capo. Lei lo guardò e poi abbassò lo sguardo, come se all'improvviso si fosse resa conto di ciò che aveva fatto.

"È così sbagliato... Io non dovrei..." Rivelò all'improvviso le sue paure.
"Non ti sto obbligando... Non so il perché di questo, ma stiamo bene..." ammise lui, e era vero, era sempre così concentrato sul suo lavoro e sulla guerra e quei brevi momenti con lei lo facevano sentire in maniera diversa, come più leggero. 

Elisabetta sospirò guardandolo per poi scuotere il capo in segno di dissenso.
"Ho paura." Confessò la ragazza.
"Non devi avere paura di me."
Elisabetta lo guardò quasi con le lacrime agli occhi.
"Come posso?" Schwartz sembrò colpito, chiuse gli occhi portandosi alla mano alla spalla, mascherando così un gemito di dolore. 
"Fidati... Posso dirti solo questo." 
Non era nulla ma per Elisabetta fu abbastanza, annuì alle sue parole con un cenno del capo.
"Ora è meglio se vado, ciao Franz." Pronunciando per la prima volta il suo nome. 
"Ciao Elizabeth."

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***





            

Era tornata ogni giorno quella settimana, si erano visti ogni volta nell'ambiente spartano dell'infermeria del comando in una routine che per lei era sinonimo di tranquillità.

Ogni mattina si era svegliata e con una qualche scusa si era recata al vecchio municipio, due guardie l'avevano sempre accolta e ormai non c'era più bisogno che dicesse nulla, uno dei due la portava a quella porta che ormai conosceva così bene e lei faceva il suo ingresso. 

Poi si sedeva lì, vicino al suo ufficiale, parlavano tanto, soprattutto Elisabetta parlava, Schwartz le aveva chiesto molte cose sulla sua vita, voleva sapere tutto di lui. A sua volta anche la giovane italiana aveva provato ad indagare sulla vita dell'uomo ma senza i risultati sperati, però aveva per esempio scoperto che aveva 28 anni e che prima di arruolarsi aveva studiato un anno letteratura all'università e che l'italiano lo aveva imparato durante il ginnasio.

Franz Schwartz era una persona riservata e, quella unica volta che era capitato che uno dei suoi sottufficiali era entrato nella stanza quando c'era anche lei l'ufficiale aveva subito cambiato atteggiamento comportandosi in maniera distaccata nei suoi confronti.

Ma Elisabetta non gliene faceva una colpa, poteva ben comprendere che ci fossero delle cose a cui lui teneva particolarmente, come la sua immagine tra i soldati.

Quella mattina però, quando si presentò al comando, il soldato di turno la condusse in un'altra zona del comando, precisamente davanti ad una porta che conosceva bene ma che non era quella dell'infermeria bensì quella dell'ufficio del comandante.

Da una parte ne fu sollevata perché ciò voleva dire che il tedesco stava meglio, ma dall'altra parte sapeva già cosa si sarebbe trovata davanti quando avrebbe varcato quella soglia. 

Fu tentata di abbandonare e tornare a casa ma poi pensò che quello dopotutto era lo stesso uomo dei giorni precedenti.

Bussò e attese l'invito ad entrare che arrivò, dopo pochi istanti, in tedesco.

Aprì con la stessa esitazione delle precedenti volte la porta e se lo trovò lì, seduto dietro la scrivania, impeccabile nella sua divisa. La giacca grigia antracite portata sopra la camicia bianca, la cravatta nera al collo; sulla parte sinistra portava delle medagliette, sulle spalline vi erano i gradi. Alla cinta portava la fondina nera pelle dentro la quale poteva chiaramente distinguere la pistola dell'uomo. Il viso era completamente rasato e i capelli biondi lucidi e pettinati all'indietro con cura.

"Elizabeth." Sorrise lui da dietro la scrivania, quel sorriso la rese meno irrequieta, chiuse la porta alle sue spalle e si avvicinò a lui.

"Ti hanno lasciato andare." Sorrise lei riferendosi al fatto che l'uomo fosse stato riammesso al servizio dopo il periodo trascorso in infermeria.

"Non proprio." Sospirò lui alzandosi dalla seduta e sistemandosi difronte a lei appoggiato alla scrivania.

"Cosa vuol dire non proprio?" Domandò allarmata la ragazza.

"Mi mandano in Germania, così da essere sicuri che mi riprenderò dalla ferita." Elisabetta si bloccò, il sorriso che campeggiava sulle sue labbra sparì, non sapeva cosa dire, lui se ne andava già e figurarsi se si sarebbe ricordato di lei.

"Oh... Si beh in effetti ha senso... Insomma..." Blaterò lui, quella notizia l'aveva spiazzata, non se lo aspettava e le aveva fatto male la naturalezza e la scioltezza con cui lui gliel'aveva data.

Aveva già cominciato a muovere qualche passo indietro decisa a lasciare l'ufficio dell'uomo prima che questo vedesse quanto la cosa l'aveva destabilizzata quando arrivarono le sue parole.

"Non è poi una ferita così grave, ma per qualche giorno mi farà bene tornare a casa, è da un po' che manco." Sospirò lui. "Ma tranquilla, non ti libererai così facilmente di me." Sorrise poi lui. "Dieci giorni di congedo non sono poi tanti." Il peso sullo stomaco di Elisabetta si affievolì immediatamente. 

"Dieci giorni?" Mormorò lei confusa, l'uomo annuì sorridendo, probabilmente ora aveva capito cosa aveva portato la giovane a quel cambio d'umore. 

"Dieci giorni, non sono tanti ma in questo momento mi sento fortunato." Elisabetta sospirò lanciandosi su di lui con un coraggio che fino a qualche giorno prima non sapeva nemmeno di avere. 

"Io avevo capito che era per sempre." Sbottò lei. "Non potevi dirlo subito?" Indignata, ma in quel momento una dura verità prese forma in lei, era davvero così presa da lui da star male all'idea che se ne andasse? La risposta era sì, ma pure questa volta decise di ignorare la cosa.

Schwartz la strinse tra le sue braccia per la prima volta da in piedi e si sentì così piccola in confronto a lui, tanto che il suo volto poggiava sul suo petto e i suoi occhi sbucavano appena da sopra le spalline sulle quali vi erano i gradi dell'uomo.

"Chi ti aspetta a casa?" Domandò lei all'improvviso ricordandosi la frase dell'ufficiale di prima senza staccarsi da lui, non aveva mai visto una fede sulle sue dita anche se sapeva che molti dei tedeschi a casa avevano moglie e figli e dopotutto lui aveva passato l'età in cui i ragazzi all'epoca si sposavano. Lo sentì chiaramente inspirare e poi espirare per poi accarezzarle i capelli.

"Mio figlio." Ammise lui. Elisabetta si irrigidì allontanandosi immediatamente dal suo corpo. 

"Hai un figlio?" Chiese sconvolta. Come aveva potuto nasconderglielo? Lui annuì sperando che all'altra andasse bene quella come risposta.

"Sei sposato?" Domandò poi terrorizzata Elisabetta, era arrabbiatissima con lui e non dava cenno a nasconderlo.

"Lo sono stato." Ancora una volta la giovane italiana indietreggiò scuotendo il capo. Lui le aveva nascosto tutto.

Vedendo l'altra prossima a fuggire Schwartz mosse qualche passo in avanti verso di lei ma ciò ebbe l'effetto contrario da quello desiderato visto che si allontanò ulteriormente da lui.

"Elizabeth" Iniziò l'ufficiale ma lei lo interruppe. "Non mi importa, non me lo hai detto fino adesso perché dovresti dirmelo ora?" 

Se però il tedesco era rimasto calmo fino a quel momento non sembrò esserne più capace dopo quella frase.

"Non parlarmi così ragazzina." Iniziò ora tremendamente serio. "Il mio matrimonio e mio figlio sono delle cose mie private, per quale motivo dovrei avertene parlato? Per due bacetti?" 

Quelle parole ebbero un effetto devastante sulla ragazza, le gambe le cedettero e gli occhi chiari si fecero improvvisamente lucidi, senza dire nulla si voltò e spalancata la porta corse giù per le scale, da dietro Schwartz non aveva fatto assolutamente nulla per fermarla.

Si sentiva così stupida, il suo cervello aveva avuto un blackout in quei giorni e lei si era aperta a quell'uomo senza sapere nulla di lui, quei sette giorni in infermeria erano stati il paradiso, lui che la ascoltava e che la stringeva a sé, ma solo ora si rendeva conto che tutto ciò era stata una visione distorta sua personale della realtà.

Sulla strada del ritorno verso il paese scoppiò improvvisamente a piangere sfogando tutte le emozioni che si era tenuta dentro. Si vergognava profondamente di sé stessa, si credeva più intelligente e invece era cascata per colpa del diavolo in persona. Ragazzina, l'aveva chiamata l'ufficiale e lei si era convinta che dopotutto lo era sul serio, come poteva averci creduto tanto da riuscire a passare sopra tutti i crimini di cui l'uomo si era macchiato?

Aveva preferito saltare la cena in quanto non si sentiva in grado di sedere al tavolo con la sua famiglia e non avrebbe sopportato le loro domande nel caso si fossero accorti del suo stato. Si era chiusa in camera ed era decisa a rimanerci, si era rintanata sotto le coperte e cercava invano di dimenticare la farsa che era stata quella settimana.

All'improvviso la porta si aprì e lei non badò neanche troppo a chi fosse entrato, dava per scontato che l'unica persona che potesse entrare fosse sua sorella, ma quando sentì il classico rumore che aveva imparato a conoscere degli stivali dei militari. Non distolse lo sguardo dalla parete e non aveva intenzione di farlo. Trattenne poi il respiro quando sentì qualcuno sedersi sul suo stesso letto e riconobbe poi il profumo dell'uomo, gli occhi si fecero di nuovo lucidi al pensiero della discussione avuta la mattina prima.

"Non ho molto tempo, tra due ore devo essere pronto per partire e voglio chiarire questa cosa." Serio lui. Elisabetta però non aveva intenzione di perdere altro tempo con lui a farsi illudere dalle sue parole.

"Nessuno le ha chiesto di sprecare il suo tempo con una ragazzina." Senza muoversi di un millimetro. 

"Per questo ti chiedo di non interrompermi, così non ci impiegherò molto." Secco lui in quelle parole senza ammettere replica e tanto valeva lasciarlo fare, già sapeva che non avrebbe comunque avuto un'alternativa.

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