All'apparir del vero

di Mignon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


"All'apparir del vero" è la mia nuova bimba, sono stata via molto tempo, ho provato e riprovato a far uscire altre storie, a terminare quelle cominciate. Ma non ce l'ho fatta.
Perché c'era lei, era lì che gironzolava indisturbata incasinando tutto il resto.
Quindi sono qui a riprovarci. Spero di incontrare di nuovo tutte quelle persone che hanno seguito "Candido Autunno" (che avrebbe bisogno di qualche potatina...).
Vi lascio al primo capitolo, a tra pochissimo.


 
1



La luce entrava indisturbata dalle immense finestre che affacciavano al grande giardino perfettamente curato, riempiva ogni angolo della stanza, senza timidezza, padrona del tutto. In lontananza si poteva notare la sagoma indistinta di qualche sconosciuto che camminava per la tenuta.
Irritato dall’idea che qualcuno potesse solo minimamente pensare di intravedere la sua figura, andò a tirare le pesanti tende per evitare una qualsiasi possibile intrusione non desiderata.
Ora intorno a lui la stanza pareva addormentata, immobile. Come si sentiva lui in quell’istante: impossibilitato a muoversi, con le gambe come piombo. Si fermò davanti allo specchio, con il nodo della cravatta ancora da fare, mentre i due lembi di seta gli ricadevano al collo.
Gli sembrava di correre dietro al tempo, sentendosi sempre lievemente in ritardo rispetto agli avvenimenti, come se non fosse in grado di stare al passo con il mondo che, inesorabile, continuava ad andare avanti senza di lui.
Poteva essere passata un’eternità o poteva essere durato un battito d’ali quell’istante, regalandogli la solita sensazione di impotenza di fronte al grande tutto. Così si fece forza e con le mani esperte annodò la preziosa cravatta con innaturale perfezione.
Davanti allo specchio guardava se stesso e come uno spiacevole bagno in un’acqua gelida, fece capolino nel suo cuore, nel suo stomaco, una sensazione familiare. Non credeva sarebbe potuto succedere una seconda volta, invece eccola lì: il solo riflesso di se stesso lo nauseava, costringendolo ad andarsene da lì ed impegnare la mente in qualcos’altro.
Chiunque, chi meno inconsciamente degli altri, ha un rituale per prepararsi alle giornate importanti, qualche trucco per diminuire l’ansia e l’angoscia che non accennano ad andarsene e che mortificano il malcapitato aumentando ad ogni respiro.
Il suo piccolo cerimoniale consisteva nel liberare la mente dai ricordi più pesanti. Quelli talmente forti da essere quasi palpabili, quasi tangibili.
Impeccabile nel suo abito, non un capello fuori posto, con le scarpe perfettamente lucidate e la cravatta troppo stretta, avvicinò la bacchetta con classe e delicatezza alla sua tempia, respirò a fondo e lasciò che quella strana sostanza argentea seguisse i suoi movimenti verso l’elegante boccetta di vetro che teneva solidamente nell’altra mano.
E così fece altre innumerevoli volte, appoggiando ognuna di quelle preziose ampolle in una piccola scatola, con una sorta di riverenza.
Alcuni di quei ricordi erano così difficili da raccogliere, sembrava volessero restare nascosti e che quel processo stesse solo disturbando il loro sonno. Pareva, quasi, che chiedessero pietà.
Ma Draco lottò fino all’ultimo per sradicarli da lì e dare loro una nuova dimora. Anche i piccoli contenitori che li accoglievano sembravano più pesanti di altri.
L’ultima la rigirò tra le mani osservando quella materia leggera muoversi delicatamente all’interno del vetro, studiava come ne prendesse la forma per un secondo, per poi cambiare ancora, girarsi su se stessa, annodarsi. Il colore di alcuni ricordi era più scuro, il vetro che li conteneva era quasi più caldo. Era affascinato, quel ricordo cambiava la sua forma, era in costante movimento, ma il suo contenuto sarebbe rimasto lo stesso, identico, per l’eternità.
Stava per riporla quando l’esitazione prese possesso di lui, la sua mente ancora cercava di decidere cosa fare mentre il suo braccio già stava agendo.
L’acqua cambiò colore, disegnando piccoli arabeschi di fumo. La boccetta vuota era vicina al pensatoio e la testa di Draco già immersa nel ricordo.
Ne riemerse poco dopo, con una certa urgenza, come se volesse scappare, scomparire. Si sentiva scosso, rabbioso, confuso. Scagliò via il pensatoio, mentre il ricordo tornò sulla punta della sua bacchetta.
La mano gli tremava, era difficile da controllare. Prese aria e cercò di non disperdere una sola goccia del ricordo mentre lo raccoglieva. La mise insieme con le altre, chiuse la scatola con un incantesimo e la trasfigurò. Nascose il nuovo oggetto vicino ai libri, sperando di dimenticarsene per il resto della sua nuova vita.
Si stupì di sé e della lucidità che riusciva a mantenere, ma nel profondo già sapeva che sarebbe stato tutto inutile, che qualsiasi impulso lo avesse guidato in quel momento non lo avrebbe liberato.
Chiuse gli occhi, li strinse talmente forte da farsi male, serrando la bocca, aveva le vertigini, lo stomaco ringhiava. Prese a camminare per tutta la stanza forzandosi e facendosi violenza per mantenere il controllo, sentendo la magia sotto la pelle fremere per uscire, per distruggere tutto ciò che aveva intorno.
Poi improvvisamente una lieve ed insolita sensazione si impadronì di lui: la tristezza lo raccolse con sé, cancellando tutte le altre emozioni. Il tempo era perduto, le occasioni scomparse. Non c’era più motivo di sentire qualcosa.
Qualcuno bussò piano alla grande porta di legno, costringendolo a ricomporsi e a strozzare i pensieri.
Riuscì a sputare una frase tra i denti.
«Arrivo» la sua voce era tornata solida.
Si stirò il vestito con le mani ma non si avvicinò più allo specchio, non avrebbe potuto sopportare di nuovo la sensazione di poco prima, perché sapeva che sarebbe stata ancora peggiore, ancora più insopportabile. Mormorò qualche incantesimo a mezza voce e il suo aspetto tornò come avrebbe dovuto essere.
In cuor suo ora sapeva che nemmeno il mago più potente avrebbe più potuto salvarlo da se stesso.
La porta si aprì e la testa di Pansy fece timidamente capolino, nei suoi occhi si poteva leggere la dolcezza infinita che solo gli amici sanno regalare a chi condivide con loro il cuore.
Draco ne assaporò ogni singola goccia, pregando che quell’incantesimo naturale potesse tenerlo in vita fino alla fine di quella giornata. Dopodiché sapeva – sempre in cuor suo – che sarebbe scivolato di nuovo in quell’oblio da cui sperava di esserne ormai uscito. A quanto pareva si era sbagliato.
«Qualcuno non vede l’ora di sposarti» disse a mezza voce Pansy. «Stiamo aspettando te per cominciare».
Draco annuì e si mosse verso di lei, con le gambe che minacciavano di cedere nel bel mezzo di un passo. Si aggrappò a Pansy, stringendola in un abbraccio. La testa dell’amica trovò il suo posto preferito, incastrandosi tra la sua spalla e il collo, ricambiando la stretta.
«Andiamo, Draco. Sii forte».
E sulle note di quel sussurro il ragazzo prese la mano dell’amica e la seguì.
La porta della camera si chiuse con un tonfo sordo e lui credette di aver sentito lo stesso rumore dento di sé, domandandosi come facesse a rimanere ancora in piedi: dentro di lui sentiva di essersi rotto in mille pezzi, si essere stato dilaniato.
La consapevolezza di ciò che era accaduto in quell’anno lo aveva preso in ostaggio, ora si sentiva scomparire.





Eccoci, allora...
il titolo l'ho preso da un verso di "A Silvia", perché nella mia mente ci stava bene, magari capirete perché più avanti, se riuscirò a spiegarlo nella storia :D
Questo è il presente, dal prossimo capitolo si racconterà l'inizio, per poi arrivare alla fine di tutto. Cioè al presente...
Pensavo fosse più semplice da spiegare. Nella mia testa lo era.
Negli appunti un po' meno, avrei dovuto capirlo forse.
Voi immaginatevi un cerchio, quella è la storia. (?)

Io sono qui per qualsiasi dubbio, domanda, offesa (delicata però, vi prego ^^).
Spero di sentire qualche voce, a presto :*



 

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Capitolo 2
*** 2 ***


2
 


Hogwarts stava per diventare un ricordo, certamente un pezzo di storia importante. Gli esami erano finiti e quel diploma, preso per amore di un’amica, era ormai nella sua tasca.
E il mondo non gli faceva più paura di così.
La guerra era stata un valido motivo per restare vivo, tutto era scandito dalle azioni già calcolate e decise da altri, servitegli su un piatto d’argento, bisognose solo di essere messe in pratica. In quel momento però Harry Potter era sperduto. La sua vita normale cominciava in quel momento; la sua come quella di tutti gli altri studenti intorno a lui.
Sapeva cosa avrebbe fatto uscito di lì, tutti lo sapevano e se lo aspettavano come si fa con la nebbia in autunno. L’accademia di Auror aveva già le porte aperte per lui.
Si girò un’ultima volta verso quelle mura ricostruite sulle anime e sul sangue dei caduti. Lo poteva sentire chiunque mettesse piede nel castello: la morte lo aveva reso più forte, più vivo.
Mentre i suoi occhi vagavano per l’ultima volta intorno al perimetro, scrutando i dettagli che sperava gli restassero per sempre nella memoria di eterno studente, si incuriosì nel trovare Draco Malfoy fare la stessa cosa.
Ciò gli suscitò una lieve risatina nervosa.
«Si sta ammattendo. La sua sanità mentale è durata fin troppo» sentenziò Ron, dando una leggera gomitata ad una Hermione impegnata a ricontrollare se tutti i suoi preziosi libri erano nel baule. Alle parole di Weasley la ragazza alzò gli occhi al cielo, pestando il piede al fidanzato: «Ronald».
Harry non li stava guardando, ma sorrise.
Si girò velocemente verso di loro «Adesso arrivo» disse con una certa urgenza nella voce.
Nessuno gli chiese dove stava andando. Non c’erano più pericoli.
Camminava con lentezza, calcolando quanti passi lo dividevano dal ragazzo biondo in parte al sentiero. Tutti ormai conoscevano la grandezza e la potenza di Potter: questo gli permetteva di agire come uno sprovveduto in ogni situazione.
«Sfregiato, ti sento respirare».
«Ti dispiace che sia ancora in grado di farlo?».
Gli occhi di Malfoy si posarono su di lui, con il solito sopracciglio alzato, e Harry si sentì quasi fortunato di avere la possibilità di guardarli ancora una volta.
Averlo salvato, avergli dato un’altra opportunità permettendogli di far vedere a quegli stessi occhi gelidi come il mondo desiderasse cambiare, era un piccolo traguardo che sentiva di aver raggiunto. Più per se stesso che per Malfoy.
«Cosa vuoi? Dovremmo continuare ad ignorare di esistere l’uno per l’altro. Quindi te lo richiedo, di grazia, che cosa vuoi Potter?» le parole erano lente e prive di qualsivoglia emozione.
Ma Harry non aveva perso ancora l’innocenza dei ragazzini spensierati, aveva lottato per tutta la sua vita per non perdere se stesso. Così, come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se la guerra non fosse mai esistita e loro due non avessero mai fatto parte di fazioni opposte: sorrise.
«Niente». E se ne andò, ancora allegro, con più leggerezza.
 
L’adulto Harry Potter si svegliò al suono della sveglia incantata, uno degli utili regali di Hermione. Spense l’aggeggio con la mano, mentre con l’altra si stropicciava gli occhi.
Il sogno lo aveva confuso un po’. Quel ricordo era seppellito nella sua mente da anni ormai ed era buffo come la sua mente decidesse di fargli tornare alla memoria le cose più disparate.
Si alzò per andare verso il bagno e con sé portò un po’ di quell’allegria che aveva contraddistinto quell’ultimo giorno di scuola di quasi sei anni addietro.
 
Quella mattina aveva avuto un inizio quasi da manuale. Forse era la sua giornata.
Hermione gli aveva messo in testa quella strana storia: chiunque, almeno una volta nella sua vita, vivrà la sua giornata. In cui ogni cosa andrà per il verso giusto. In poche parole una normale bella giornata.
Per Harry era tutta questione di fortuna, ma che male c’era nel crederci?
Così non si meravigliò quando l’orologio attaccato alla parete della cucina di Grimmauld Place gli disse di fare pure con calma e di gustarsi la colazione «È stranamente in anticipo, Harry Potter».
«Grazie Clock» disse, rivolgendosi all’ennesimo regalo di Hermione. Quando in una delle cene a casa sua aveva chiamato per nome l’aggeggio incantato, Hermione gli chiese più volte che senso avesse chiamare “Clock” un orologio, fortunatamente Ron era dalla sua parte – «Geniale» aveva commentato l’amico­ – e Harry dovette passare l’ora successiva a sentire i due ragazzi litigare perché «Questa cosa non ha senso. Ronald». Tutto sommato era stato come tornare alle cene in Sala Grande.
Quella stessa mattina l’orologio, emozionato per il ringraziamento da parte di quell’umano sempre troppo di corsa perché lo guardasse, prese a cantare una strana melodia dettata dal ticchettio delle lancette.
Harry uscì di casa fischiettando quelle note, non prima di aver salutato calorosamente Kreacher.
Camminare per strada non era mai stato così piacevole, l’aria era umida, satura dell’imminente pioggia, ma le strade erano sgombre e la temperatura quasi sopportabile per essere la fine di novembre. Poté assaporare i rumori lontani dei bambini che attendevano l’arrivo dello scuolabus, il suono delle foglie umide sotto gli pneumatici delle auto in corsa. Aveva quasi voglia di sorridere. Guardò l’ennesimo orologio, regalato anche questo da Hermione, durante il periodo in cui era ossessionata dal tempo, e stufa dei continui ritardi Harry. Decise che era arrivato il momento di andare in ufficio; si infilò in una piccola via a pochi metri da un bar dove c'era un uomo che stava sistemando i tavoli per il servizio. Pochi secondi dopo all’ignaro Babbano era sembrato di aver sentito un piccolo crac in lontananza.
Decise di utlizzare l’entrata per gli ospiti per evitare la confusione, entrò nella cabina telefonica e inserì il codice, mentre la voce metallica gli dava il consueto buongiorno e benvenuto, il pavimento cominciò a scendere e in ben che non si dica si ritrovò al Ministero.
Non gli era capitato spesso di trovarsi a quell’ora nel grande palazzo, spesso e volentieri doveva far infuriare Shacklebolt per convincerlo ad aprire il passaggio della Metropolvere tra il camino di casa sua e quello del suo ufficio per evitare di tardare più del solito.
Ancora prima di trovare quella soluzione gli capitò, accidentalmente, di essersi Materializzato direttamente in ufficio, rompendo tutte le barriere e gli incantesimi del Ministero. Quel giorno pensò di dover assistere alla prematura morte del suo capo.
Ora, con Hermione Ministro della Magia, gli incantesimi di protezione si rivelarono anche a prova del grande Harry Potter.
Strizzò appena gli occhi quando vide proprio la sua amica che procedeva a passo spedito verso di lui, con quel cipiglio preoccupato che riservava solo per le grandi occasioni.
«Harry! Cos’è successo?» gli passò la mano sulla fronte, girandogli intorno per controllare che avesse ancora tutti gli arti attaccati al posto giusto. Harry provò ad aprire la bocca per ribattere ma lei era più svelta. «Oh mio dio, è Ron? Che gli è successo? Harry! È successo qualcosa a Teddy? Ginny sta bene? Harry parla!».
«Hermione, se smettessi di scuotermi, forse potrei dirti che stanno tutti bene e non è successo nulla. Perché una persona non può venire al lavoro tranquillamente?» rispose un po’ infastidito.
Questo non sembrò calmarla, però la fece tornare in sé e si ricompose, sistemando la gonna e allontanandosi dall’amico permettendogli di ricominciare a camminare verso gli ascensori.
«Oh» restò appena qualche secondo con la bocca aperta. «Allora che ci fai qui?».
«Sono il Salvatore del Mondo Magico e sono qui per compiere il mio dovere di Auror, Hermione».
L’ironia di Harry la fece rilassare, poi un pensiero le balenò nella mente; sembrava quasi decisa a lasciarselo sfuggire quando strabuzzò leggermente gli occhi e toccò di nuovo la tempia di Harry con fare materno, come per controllare se il suo amico fosse febbricitante.
«Sei in anticipo!» disse sollevata. «Oggi non riceverò nessuna visita di Shacklebolt. Grazie Harry, mi hai risparmiato un’ora di lamentele».
Harry alzò le spalle, guardò Hermione che aveva prontamente aperto l’agenda e stava segnando qualche altro nuovo impegno. «Vuoi un caffè?» chiese, deviando la strada verso il piccolo bar all’entrata.
«No, vai pure. Io devo tornare in ufficio. Ricordati della riunione Harry. Ci vediamo dopo!» non fece tempo a ribattere, l’ultima immagine che vide era l’angolo della tunica del Ministro che scompariva dentro ad un ascensore.
 
Quel giorno tutti sembravano preoccupati e si sentivano in dovere di osservare Harry per essere sicuri che stesse bene, così scelse di mettersi in un angolo del grande bancone di marmo, cercando di stare lontano da occhi troppo curiosi e sorpresi di vederlo lì.
Era forse la seconda volta che entrava in quel bar, fatto costruire da Hermione l’anno prima. La prima volta era stata all’inaugurazione.
Il barista gli servì il caffè e mentre girava distrattamente le pagine della Gazzetta del Profeta, qualcuno si mise vicino a lui.
«Harry!» la voce di Seamus gli fece distogliere l’attenzione dalla rubrica di Pansy Parkinson. La ragazza si era messa a scrivere per il giornale un paio d’anni dopo la faine della guerra, con un certo successo. La sua rubrica di consigli trattava gli argomenti più disparati, mantenendo toni schietti e ironici. In puro stile Serpeverde. A Harry non dispiaceva e in alcune occasione si era trovato a ridacchiare per le risposte della ragazza. «Pronto per questa giornata?» chiese il compagno.
«Ehi Seamus» rispose, allungandogli una pacca amichevole sulla spalla. «A che ora è la riunione?» chiese, un po’ preso dall’ansia. Chi l’avrebbe sentita Hermione se avesse tardato proprio quel giorno?
«Alle dieci in punto nella camera vicino all’Ufficio Misteri» rispose il ragazzo, togliendosi delle briciole dalla divisa. «Abbiamo il tempo di sistemare le carte dell’ultimo caso. Ieri sera il Capo ha mandato un gufo per ricordarmelo. Mi ha espressamente chiesto di obbligarti a finire il lavoro oggi» ridacchio.
Harry non poté far altro che annuire e allontanare la spiacevole sensazione di avere Shacklebolt con il fiato sul collo e la sua bacchetta puntata alle spalle. Era meglio mettersi al lavoro.
Chiuse il giornale, pagò e si allontanò con il collega.
 
L’ufficio era al buio, le finestre incantate erano chiuse, come prima cosa entrambi i ragazzi agitarono le bacchette per far entrare un po’ di luce nella stanza, gli occhi di Potter si spostarono sulla sua scrivania e gli si drizzarono i capelli.
Il tavolo era pieno di fogli sparsi, cartelle aperte e file che andavo riordinati per permettere agli archivisti di catalogare tutto.
Seamus lo guardò con comprensione e un briciolo di tenerezza, poi andò a sedersi alla sua scrivania, di fronte a quella di Harry, per cominciare a firmare l’altra metà dei documenti. Per un attimo ad Harry mancò Hogwarts e la bellissima sensazione che gli dava il pensiero dell’aiuto di Hermione quando aveva dei compiti che non aveva assolutamente la forza di cominciare. Forse avrebbe preferito scrivere un tema di cinquanta centimetri sul Distillato della Morte Vivente.
Chiuse gli occhi e ripensò all’inizio da manuale di quella mattina, così si rimboccò le maniche e dopo circa due ore tutto il lavoro era terminato, arretrati compresi. Forse la storia di Hermione aveva un qualche fondamento di verità.
Quando il capo entrò nel loro ufficio e vide tutti quei fascicoli ordinati quasi si emozionò, guardò la scena per qualche secondo per imprimersela nella memoria e con un grande sorriso salutò la coppia di colleghi.
«Potter, Finnigan. È arrivata l’ora della riunione, andiamo. Su, su svelti».
Così, seguito dai due suoi Auror si incamminò verso gli ascensori, in testa a loro, con passo spedito e l’orgoglio sulle spalle.
Anche per oggi Harry aveva fatto la sua buona azione.
 
Il nono livello gli procurava ancora qualche sussulto e dei brividi non molto piacevoli. Dopo l’esperienza nella Stanza delle Profezie cercava in tutti i modi di evitare il più possibile quel piano. Purtroppo per lui Hermione aveva scelto proprio quel posto per adibirlo a sala riunioni degli Auror; a passo spedito e testa alta uscì dall’ascensore appena le porte metalliche si aprirono davanti ai suoi occhi e seguì Kingsley dentro la stanza prendendo posto in una delle prime file.
Attorno a lui tante voci concitate si chiedevano di quale noioso argomento avrebbero dovuto discutere, altri rileggevano l’ordine del giorno per provare ai primi che tutto ciò che dicevano era solo una perdita di tempo perché avrebbero dovuto leggere la lettera inviata dal Ministro. La sala era spaziosa, qualche incantesimo era stato piazzato per renderla più grande e far entrare tutte quelle panche che potessero accogliere tutti gli Auror chiamati a presenziare.
Alle pareti erano state appese le foto dei dirigenti, dei capi del Dipartimento e in cima a tutto troneggiava la foto di Shacklebolt; nella parete di fronte ad Harry la foto di Malocchio, di Tonks, dei genitori di Neville e le facce degli Auror sconosciuti caduti per mano di Voldemort, lo scrutavano con aria solenne.
Il brusio della stanza s’interruppe quando Hermione fece il suo ingresso e si mise accanto a Shacklebolt che l’aspettava dietro la scrivania. Appoggiò le mani al tavolo di legno e diede inizio alla riunione.
«Buongiorno a tutti» la sua voce tradiva una certa urgenza e i suoi occhi cercavano quelli di Harry con preoccupazione. «Buttate pure l’ordine del giorno: abbiamo un affare più grande da risolvere». Harry sapeva che tra tutti i grandi maghi in quella stanza l’unica persona che avrebbe voluto al suo fianco per combattere di nuovo era proprio Hermione e il suo fidanzato. In pochissimi casi l’aveva vista in balia del panico, una tra quelle era stato in onore della sua nomina come Ministro, un anno fa. La ragazza non aveva mai dato peso ai commenti poco amichevoli e in alcuni casi offensivi sul suo stato di sangue, ma essere nominata l’avrebbe messa di nuovo sotto i riflettori, avrebbe dovuto mettersi a nudo di fronte ad obiettivi e infime penne prendiappunti pronte a cambiare le sue parole in base alla corrente di pensiero del giornalista. La sera in cui scoprì di essere nella rosa dei candidati avevano appena finito di cenare a casa dei Weasley. Lui e Ron ebbero bisogno di tutta la notte per convincerla a non rifiutare.
«Il nostro uomo si è rifatto vivo. Un’ora fa un nostro informatore ci ha riportato delle voci di strada. Si mormora che l’Obliviatore sia tornato in pista, che abbia trovato una tana sicura dove rifugiarsi, proprio qui a Londra. Ho allertato i Goblin e il Primo Ministro Babbano, ci terremo in contatto per discutere di altre possibili tracce. Appena tornerete in ufficio troverete un fascicolo aggiornato. Ogni qualvolta riceverò un’informazione, questa verrà aggiunta al file così che tutti possiate vederla». I suoi occhi si posarono nuovamente su Harry, lui annuì leggermente sentendosi di nuovo un ragazzino in compagnia sua e di Ron, nel caldo della Sala Grande. Hermione parve leggergli nel pensiero, annuì di rimando e riprese a parlare. «Leggete il fascicolo, dovrete essere tutti informati sul caso, ma sul campo voglio solo le squadre che già si sono occupate di lui; gli altri continueranno a seguire i loro casi. Se ci sarà bisogno di voi Kingsley saprà bene cosa fare».
La sala si rianimò, gli agenti più anziani uscirono di corsa dalla stanza, salutando con un cenno del capo Hermione ma con l’unico pensiero di rimettersi al più presto al lavoro. Le reclute cercavano speranzosi di ricevere altre indicazioni da qualcuno più in alto di loro, appuntando qualche parola qua e là sui loro taccuini, o sfogliando le pagine alla ricerca di qualche aiuto nascosto agli angoli delle pagine.
Harry si girò verso il suo compagno. Lui e Finnigan lavoravano insieme da tre anni; dopo la fine dell’accademia Shacklebolt li aveva mandati subito nella mischia. I loro risultati erano stati talmente soddisfacenti da lasciar passare inosservati il carattere e il temperamento un po’ troppo temerario di Harry.
Entrambi si avvicinarono al grande tavolo di legno scuro su cui i loro due capi avevano appoggiato un enorme fascicolo che sfogliavano a colpi di bacchetta.
«Potter, Finnigan. Ci vediamo nel mio ufficio. C’è bisogno di fare il punto della situazione» la voce profonda risuonò nelle orecchie di Harry. Il grande uomo fece educatamente segno di passare ad Hermione e scomparì insieme a lei dietro la porta, verso il corridoio illuminato.
 
L’ufficio dell’Auror era estremamente ordinato, ad una prima occhiata poteva sembrare quasi asettico, ma avvicinandosi alla scrivania si potevano notare una grande quantità di foto sugli scaffali addossati ai muri. In quell’ufficio faceva timidamente capolino una parte della vita di Kingsley Shacklebolt.
Hermione si era accomodata su una poltrona foderata di tessuto beige e non avendo mai perso l’abitudine di stringere a sé un libro teneva sulle gambe il grande fascicolo di poco prima.
Harry e Seamus occuparono un posto sulle poltrone accanto a lei che, nel mentre, tornava a sedersi composta.
«Allora… è tornato» cominciò Seamus, scambiandosi un’occhiata con Harry che finì la frase al suo posto «Avete avvisato Molly e Arthur?» chiese.
Hermione mosse nervosamente la gamba e annuì «Ho mandato un gufo a Ron, parleremo con loro non appena finito qui» disse infine. Shacklebolt continuava a dividere delle lettere in due grossi cumuli, attento a leggere ogni parola e prendere qualche appunto, con la sua grafia piccola e ordinata. Il capo degli Auror attese che Hermione finisse di parlare e si rivolse ai due agenti.
«È stato visto dalle parti di Nocturne Alley. Pensiamo stia bazzicando nelle zone della Londra Babbana vicino al Paiolo Magico. Ho bisogno di voi due di nuovo sul campo. Non vogliamo che si ripeta qualcosa di simile alla scorsa volta. Voglio solo delle persone qualificate su questo caso» disse grave. Poi puntò gli occhi scuri in quelli di Hermione «E nessun tipo di aiuto dal Ministero». Hermione abbassò la testa e cominciò a martoriare l’angolo di un foglio che teneva tra le mani.
«Spiegatemi il caso» disse il capo ai due ragazzi. Era una pratica ormai consueta per gli agenti. Shacklebolt voleva che tutti i suoi Auror conoscessero perfettamente il caso su cui erano impegnati.
«Agisce perlopiù durante la notte, non ci sono mai stati avvistamenti durante le ore di luce. Lavora da solo, sappiamo che padroneggia bene la Trasfigurazione umana e per questo non sappiamo che volto abbia precisamente. L’unico particolare sembra essere una grossa cicatrice sul viso, vicino al mento che non riesce a camuffare mai completamente» rispose Seamus. Harry sapeva che il collega aveva una grandissima capacità di memorizzare le informazioni e i particolari, cosa che si rivelava molto utile nel lavoro, ma quel particolare caso lo conosceva bene anche lui.
«Incanta le vittime e cancella ogni loro ricordo. Sembra che ne conservi alcuni; non ne abbiamo la conferma e non sappiamo neppure cosa potrebbe farne. Lo pensiamo perché sono state trovate delle ampolle vuote in uno dei posti in cui abbiamo ricondotto uno di primi attacchi. Gli abbiamo attribuito almeno cinque persone, ma stiamo ancora controllando i registri del San Mungo per controllare qualche caso analogo magari sfuggito». Le vittime non avevano niente in comune, non si conoscevano, il loro unico errore era stato quello di combattere una guerra. Quello era l’unico collegamento che avevano tra loro: aver fatto parte di qualche squadra, di qualche esercito durante la lotta contro Voldemort.
Il primo che avevano trovato era stato un Auror ormai in pensione. La seconda vittima era una ragazza poco più grande di Harry, ex studente di Hogwarts, il terzo era un Goblin.
Cercarono di trovare dei collegamenti con il Ministero, avevano indagato su alcuni impiegati, ma la pista si era rivelata infruttuosa. L’Obliviatore seguiva i loro progressi, questo gli Auror lo avevano capito, ma rischiò comunque di farsi catturare, e da quel momento cominciò ad essere più cauto e attento.
Per trovare l’ultima vittima erano passati dei mesi, in quel caso si trattava della figlia di un funzionario del Ministero che passava tutte le informazioni che poteva all’Ordine della Fenice.
Harry le aveva viste quelle povere vittime. Era stato al San Mungo, voleva essere sicuro di aver provato ogni cosa; era stato avvertito dai medimaghi che sarebbe stato difficile se non impossibile chiedere informazioni ai loro pazienti. Li aveva visti e li ricordava perfettamente: non erano più persone. Tutto era stato cancellato dalla loro mente, tutta la loro vita, il loro essere. Non ricordavano il loro nome, non riuscivano a parlare, a camminare, avevano dimenticato tutto. Se ne stavano distesi nel letto, con gli occhi aperti – Harry si chiedeva se riuscissero a vedere – senza capire cosa stava succedendo. Dimenticandosi di essere vivi.
Quelle stanze di ospedale, tutte quelle macchine e quei tubi che li tenevano in vita fecero parte dei sogni di Potter in modo molto vivido per molto tempo.
Harry prese parola. «Non è mai stato violento, fino a nove mesi fa, alla quinta vittima, che coincide con la sua scomparsa dai giochi, fino ad oggi almeno» si fermò per riprendere poco dopo. «A lui si attribuiscono il rapimento e l’omicidio di Percy Weasley».
Hermione emise un piccolo sbuffo come se avesse trattenuto il respiro fino a quel preciso momento. Harry fece in modo di non lasciarsi influenzare e riprese a parlare senza far trapelare nulla dalla sua voce. «Il 5 gennaio a casa Weasley è stato recapitato un pacco anonimo. All’interno c’erano la bacchetta di Percy e la sua tunica del Ministero macchiata di sangue. Un pezzo di pergamena riportava la scritta…».
«“Chi sarà il prossimo?”» recitò a bassa voce Hermione, terminando la frase di Harry. Teneva una mano davanti al volto, l’altra era stretta a pugno. Si lasciò cadere sulla poltrona, sospirando.
«Me lo ricordo come se fosse ieri, quel giorno» nessuno pensò che servisse aggiungere qualcosa.
L’aria era tesa, un velo di tristezza era sceso sulle spalle di tutti i presenti. Nella mente di Harry ed Hermione c’erano scolpite le lacrime e le urla di Molly, gli occhi sgranati di Arthur e l’incredibile compostezza dei fratelli. Ginny prese per un po’ le redini dell’intera famiglia, si era trasferita di nuovo alla tana, aiutava Hermione a tenere a bada Ron e non smetteva mai di essere presente per Harry. La loro storia continuava a rilento, ma resisteva. Ron si buttò a capofitto sul lavoro, aiutando Fred ad aprire altri negozi in alcuni villaggi di maghi, senza pronunciare mai più il nome di quel fratello perduto per la seconda volta.
In quel periodo Harry capì come quella famiglia fosse ormai legata indissolubilmente alla morte, e promise a se stesso di fare il possibile per alleviare le pene delle sue persone preferite.
Il silenzio regnava da alcuni minuti, quando bussarono alla porta. Un Auror chiese di parlare con il capo, così lui uscì e lasciò i tre da soli. Rientrò poco dopo nell’ufficio stagliandosi di fronte ai suoi due agenti. «Dovete andare. Vi voglio subito sul campo. Ci sono strani movimenti, sembra che il nostro uomo abbia voglia di rimettersi in gioco. Andate, vi daranno tutte le informazioni» disse con compostezza e una luce negli occhi tipica di chi riesce ancora a sperare.
Seamus fu il primo a congedarsi, mentre Harry si trattenne quel poco in più di tempo per tenere la mano di Hermione, come una tacita promessa.
«Stai attento Harry». Fece per rispondere quando dalla porta entrarono Ron e Ginny, accompagnati dai genitori. Molly Weasley andò ad abbracciare il ragazzo, prima di cominciare una dolorosa discussione con Shacklebolt. Harry si avvicinò a Ginny e le posò un bacio sulla fronte, incontrò i suoi occhi che capirono senza bisogno di una parola.
Harry era già lontano mentre lei sussurrava un lento ti prego, fai attenzione.
 
Si Materializzarono nel vicolo accanto ad una banca, a pochi isolati dall’indirizzo che gli aveva comunicato poco prima l’Auror a cui era arrivata la soffiata.
Vestiti in abiti Babbani, i due ragazzi presero a camminare in mezzo alla folla, in modo naturale, ma con la bacchetta pronta ad essere sfoderata in qualsiasi momento.
La giornata era tornata limpida e la temperatura si era un po’ rialzata rispetto alla mattina, allontanando il pericolo di pioggia. Gli Auror guardavano attorno, fingendosi interessati alle vetrine, continuando nella loro solita farsa di quando dovevano lavorare nel mondo Babbano.
Parlavano dell’ultima partita di basket o football, inventandosi famiglie che sarebbero esistite solo per la durata della missione.
Stavano per arrivare al punto indicato dal pezzo di pergamena quando delle urla accompagnarono un grosso boato; in un attimo una fiumana di persone correva verso di loro, in preda al panico, calpestando la strada e tutto ciò che si poteva trovare sotto alle loro scarpe. Harry e Seamus si trovarono costretti a lanciare incantesimi di protezione per salvare donne e ragazzi che urlavano e rischiavano di cadere a terra per la massa di corpi che continuava a farsi spazio per la via.
Corsero verso il punto dall’altra parte della strada in cui era scoppiato un incendio che cercava di inghiottirsi un negozio lì accanto. In lontananza si sentivano le sirene della polizia e dei vigili del fuoco e Seamus si limitò a compiere un gesto con la bacchetta per limitare l’agire del fuoco e non farlo rinforzare, dopodiché seguì il compagno verso i vicoli lì accanto.
«L’ho visto Seamus, sono sicuro che fosse lui» disse Harry con il fiato corto. «Andiamo».
Seamus sapeva di non poter far altro che fidarsi del compagno, del suo istinto. Seguirono il percorso del vicolo stretto che Harry aveva imboccato, nel rumore della gente si poteva distinguere il suono dell’acqua che domava l’incendio. Il vociare della gente diminuiva ad ogni passo che si permettevano di fare solo dopo aver controllato che la via fosse completamente libera.
Seamus andò in testa al compagno, sapevano coordinarsi perfettamente, entrambi si coprivano le spalle a vicenda, riuscivano ad anticipare gli uni le mosse dell’altro ed essere pronti al contrattacco in qualsiasi momento.
Ma in quella situazione non fu abbastanza.
Accadde tutto velocemente; un lampo di luce colpì il braccio di Seamus, ferendolo alla spalla. «Harry attento! È dietro quell’angolo!» ormai non c’erano più posizioni da mantenere segrete, il mago li aveva trovati e tesi in una trappola, e Finnigan lo capì in fretta, così urlo a Harry di abbassarsi, sperando che il compagno lo sentisse nonostante la voce rotta dal dolore al braccio che continuava ad irradiarsi in tutto il corpo immobilizzandolo. Non conosceva l’incantesimo con cui era stato colpito, non sapeva come rimettersi in piedi e la situazione in cui si trovava era talmente frustrante, che sentiva il nervoso ribollire nello stomaco. Harry si girò a controllare il compagno; davanti a lui non c’era nulla, si affacciava ai lati delle pareti, controllava verso il cielo, sulle finestre e sui tetti in lontananza. Ma non c’era nessuno.
Si avvicinò a Seamus, vide il suo braccio tumefatto e uno squarcio di una quindicina di centimetri che attraversava il cappotto e gli aveva lacerato la pelle. Richiamò alla mente qualche incantesimo curativo mormorandolo a mezza voce e sperando avesse effetto. Passò la bacchetta sulla ferita e la pelle si richiuse, facendo scivolare un sospiro di sollievo e gratitudine fuori dalle labbra di Seamus che fu in grado di ricominciare a muovere in modo sgraziato la parte superiore del corpo.
Harry stava mandando il suo Patronus al quartier generale quando alle sue spalle sentì Seamus gridare, non capì che parole stesse pronunciando: l’unica cosa che sentiva era un fischio acuto perforagli i timpani.
Si portò le mani alle orecchie, il dolore era insopportabile, gli sembrava di essere intrappolato sott’acqua.
Una luce bianca lo avvolse, il respiro smorzato nella gola. E un lancinante dolore. Il fischio era scomparso e al suo posto sentì una voce calda ed eccitata. «Bene, bene. Harry Potter…».
Cercò in tutti i modi di ritrovare la sua bacchetta, ma era intrappolato. Il mago avanzava lentamente verso di lui, dalla sua bacchetta uscì un fiotto di luce e poi più nulla. Harry perse conoscenza.
Forse quella non era più la sua giornata.




 

Buon pomeriggio, grazie per aver letto fino a qui.
Grazie anche a tutte quelle persone che hanno letto silenziosamente il primo capitolo, spero che questo appena pubblicato vi faccia venire voglia di farmi sentire lavostra voce :)
A presto!

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Capitolo 3
*** 3 ***


Mi merito i peggiori linciaggi, i know. Chiedo venia. Se ci fosse ancora qualcuno interessato, ecco qui un nuovo capitolo. Ho ripubblicato il terzo perché avevo notato degli errori. Spero che il prossimo sia di vostro gradimento. Bacioni






3

 
Il risveglio fu abbastanza traumatico e confuso. Aveva aperto gli occhi solo perché il brusio di sottofondo cominciava ad essere troppo forte e fastidioso. Sapeva di essere al San Mungo, riconosceva il colore dei muri della stanza.
Il cotone del lenzuolo era troppo ruvido e caldo, ogni parte del suo corpo era dolorante. Capì di aver avuto la febbre alta perché si trovava in una pozza di sudore e qualche infermiere doveva avergli messo del ghiaccio ai lati del collo.
Sentiva le palpebre pesanti, aveva bisogno degli occhiali ma il suo braccio non aveva intenzione di eseguire quell’ordine così semplice, così si arrese e mugolò qualcosa di incomprensibile.
Non riusciva ancora a distinguere a chi appartenessero le voci che sentiva, ma sapeva di avere tanta gente intorno a lui.
Si sforzò di aprire, e tenere aperti, gli occhi. Vedeva le sagome di due donne all’angolo della stanza accanto alle grandi finestre. Ai piedi del letto poteva riconoscere Ron dal colore dei suoi capelli che discuteva con un’altra figura.
«Vado a chiamare qualcuno» la voce di Hermione era impossibile da non riconoscere e capì che doveva avergli parlato ad una distanza molto ravvicinata perché la montagna di capelli della sua amica gli aveva solleticato il naso, lasciandogli una spiacevole sensazione. In suo soccorso arrivò Ginny che gli grattò la punta del naso facendo sospirare di piacere Harry.
«Grazie» disse sinceramente, e si accorse del filo di voce gli era rimasto. Ginny gli baciò la fronte dolcemente e prese posto vicino a lui, intimando a tutti gli altri nella stanza di fare silenzio.
Fortunatamente i suoi occhi non minacciavano più di chiudersi e il suo corpo ricominciava a seguire gli ordini. Si fece aiutare e alla fine riuscì a sedersi sul letto. Dopo aver inforcato gli occhiali si sentiva molto meglio. L’udito stava migliorando perché riuscì a capire che c’era qualcuno che cercava di parlare con lui.
«Ciao amico, ci sei andato vicino anche questa volta» disse Ron con ironia senza mai togliere la mano che aveva appoggiato sulla sua caviglia.
Harry ridacchiò e sorrise al rosso, contento di vederlo come il primo giorno d’estate passato alla tana.
Riuscì a mettere a fuoco anche la figura accanto a Ron, Seamus si stava avvicinando al collega con aria sollevata. «Grazie Harry, i Medimaghi hanno detto che senza quell’incantesimo avrei potuto perdere il braccio. Guarirà in fretta grazie a te». Seamus gli stinse la spalla, e Harry digrignò i denti per il dolore, cercando di nasconderlo dietro un sorriso rivolto al compagno. «Vado ad avvisare Shacklebolt che il suo pezzo forte è ancora vivo e vegeto. Tornerò domani, Harry».
L’Auror si congedò, lasciando Harry con Ginny e Ron; li poteva sentire discutere, riconosceva il tono stizzito di Ginny che rivolgeva solo ai fratelli. Riusciva a sentire solo dei pezzi di conversazione «No Ron, niente cena domani… avvisala tu tua madre e non fare quella faccia!... non può mangiare il polpettone Ronald!»; stava ancora ridacchiando per la faccia impaurita di Ron quando Hermione tornò nella stanza, era così contento di vederla che non fece caso all’aria imbarazzata che cercava di nascondere.
Ne colse il motivo quando riconobbe i capelli biondi del Medimago accanto a lei.
«Ci sono io di guardia oggi» disse una voce strascicata, come se cercasse di scusarsi «Signor Potter, devo controllarla, ora che si è svegliato».
Harry aveva perso il conto del tempo, non vedeva il suo volto da almeno un anno. Utilizzò le sue ultime forze per non farsi tradire dall’emozione, pregando Merlino di non far sentire a tutta la stanza il battito del suo cuore.
Pensava di svenire, sentiva l’ossigeno diminuire, il cuore scoppiare. Aveva sentito notizie di maghi deceduti per forti emozioni, non era quella la fine che voleva fare. Non di fronte a Draco Malfoy.
«Andiamo fuori, dai» Hermione corse subito in suo aiuto. «Ma Hermione, lo lasciamo qui…» disse Ron, roteando gli occhi prima verso Harry e poi verso Draco così velocemente che Harry credeva di vedere l’amico svenire da un momento all’altro. Ginny non batté ciglio, si sistemò la giacca alzandosi dalla sedia e uscì prima di tutti senza degnare di uno sguardo Malfoy.
Una volta soli il cuore di Harry cominciò a rilassarsi.
«Perché mi dai del lei ora? Pensav-» ma l’altro non gli fece terminare la frase.
«La devo controllare. Ho altri pazienti in questo reparto. L’essere Harry Potter non le permette di portare via del tempo ad altri». Il gelo si impadronì della stanza, Harry era incredulo, con la bocca spalancata.
Il suo ultimo ricordo con Malfoy era quasi amichevole. Avevano raggiunto un livello di sopportazione tale da potersi salutare con un mezzo sorriso quando si incontravano nei corridoi del ministero o nelle vie di Diagon Alley.
Quello doveva essere l’ultimo ricordo, l’ultimo di Draco.
Ciò che Harry aveva seppellito nella memoria era qualcosa di molto più grande. Era la felicità.
«Draco…» pronunciò il suo nome come se fosse la normalità, senza paura.
Il Medimago chiuse gli occhi, e quando li riaprì indossava la sua maschera più crudele.
Harry pensava di non doverla rivedere mai più.
«Per te sono Malfoy. Ora e sempre, Potter.» Malfoy appoggiò un dito sul petto di Potter, le sue labbra si muovevano, voleva dire qualcosa ma non riusciva a far uscire nessun suono. Scosse la testa chiudendo gli occhi.
Qualcuno bussò alla porta, riportando alla realtà i due ragazzi.
Draco rimase impassibile quando Ginny rientrò, Harry cercò di nascondere la confusione dietro alla stanchezza. La bacchetta del Medimago passò lungo il suo corpo, accompagnata da un piccolo sbuffo di aria tiepida.
«Alzati, per favore» Malfoy gli sistemò il cuscino dietro alla schiena, poi passò la bacchetta per continuare l’esame. «È tutto ok, deve solo riposare», disse guardando tutti i presenti nella stanza, tranne lui, «Già domani può tornare a casa». Ginny annuì e lo ringraziò, poi si avvicinò alla finestra e rimase lì con gli occhi intenti a scrutare qualche sagoma al di là del vetro.
Harry sapeva che stava fingendo.
Appena Malfoy uscì dalla stanza Hermione prese Ron sottobraccio «Andiamo a casa Ron, lasciamolo riposare», poi si rivolse a Ginny, «Mandami un gufo se hai bisogno di qualcosa». Assunse il suo cipiglio pensieroso quando il suo sguardo cadde su Harry e si allontanò dalla stanza con chissà quali riflessioni nella mente.
«Ginny, ceni qui con me?» chiese sporgendo il braccio verso di lei, ancora accanto alla finestra.
«No Harry, vado a casa. Il dottore ha detto che domani potrai essere dimesso. Devo sistemare delle cose prima che torni a casa». Si avvicinò al letto, gli passo la mano tra i capelli e dopo avergli lasciato un piccolo bacio sulle labbra, prese le sue cose per andarsene.
 
Rimasto solo non poté far altro che pensare, nonostante avesse imparato negli anni a chiudere la mente e smettere di rimuginare sulle cose l’incontro con Malfoy lo aveva scosso.
Mancava almeno un’ora alla consegna dei vassoi con la cena, forse dormire avrebbe allentato la tensione.
I tubi attaccati alle sue braccia resero difficili le manovre per trovare una posizione decente, nonostante le numerose visite al San Mungo, ancora non sapeva come destreggiarsi tra i cavi e finiva sempre per farsi in qualche modo del male. Alla fine, decise che la miglior cosa era girarsi sul fianco. Era impegnato nel sistemare il cuscino quando vide sbucare un pezzetto di qualcosa da lì sotto. Raccolse la bacchetta dal comodino e da sotto la federa ne uscì una specie di cartoncino banco.
Restò anonimo per un secondo, poi cominciò a disegnarsi un’immagine. Quando la foto fu completa, Harry pensò di morire di nuovo. Il cuore aveva cominciato a correre all’impazzata per la seconda volta, il respiro si fece più veloce e nella confusione pensò di essersi dimenticato come respirare, perché la morsa che sentiva al petto era talmente forte da non permettere ai suoi polmoni di espandersi normalmente. Tossiva così forte che i muscoli intercostali bruciavano dal dolore. Alcuni incantesimi d’allarme cominciarono a suonare, poco dopo entrò di corsa nella stanza un’infermiera: «Signor Potter la prego, cerchi di calmarsi. Sta arrivando il dottor Fude, sarà qui a momenti», la donna muoveva la bacchetta con grazia e ad ogni frustata nell’aria Harry cominciava a respirare meglio.
«Chiamate Malfoy, vi prego» chiese con un filo di voce, una volta ripreso il controllo delle vie respiratorie.
«È andato a casa signor Potter. Il dottor Fude è bravo, non si preoccupi. Ora starà meglio», gli disse dolcemente. Ma Potter sapeva che non era così.
Il Medimago arrivò quando Harry era ormai calmo, Harry lo vide discutere con l’infermiera e uscire dalla stanza. La strega fece comparire un paio di boccette nella sua mano, «Signor Potter, ora ho bisogno che lei prenda queste due pozioni. La aiuteranno a controllare l’ansia e a dormire. Verrò a controllarla più tardi». Non lo lasciò fino a quando l’ultima goccia di pozione finì nella sua bocca, poi lo aiutò a sistemarsi nel letto e si congedò.
Harry chiuse gli occhi, subito scivolò nei ricordi più belli. Camminava su di un piccolo prato, l’erba era fresca e umida sotto i suoi piedi. Il villaggio in cui alloggiava per il fine settimana si vedeva in lontananza, tra le montagne. L’aria tiepida era un toccasana per la sua pelle martoriata dal freddo e dalla pioggia di Londra.
Quel venerdì era cominciato come da manuale, avevano deciso di passeggiare seguendo uno dei sentieri segnati dalla mappa data dall’hotel, dell’acqua e dei panini al seguito ed erano pronti per rilassarsi. Avevano trovato quella specie di radura per caso e non era stato necessario discutere se fermarsi lì a mangiare o proseguire. Era proprio una bella giornata.
Passeggiava avanti e indietro, lanciando delle briciole ad un uccellino a pochi passi da lui. Quando il pezzo di pane finì tornò a sedersi sul telo, accanto alla sagoma imbronciata.
Harry sapeva bene che a Draco non piaceva essere messo in disparte.
Il resto del pomeriggio lo passò lì, con Draco appoggiato sulle sue gambe, accarezzandogli i capelli biondi fino a quando sentiva il respiro del compagno farsi più pesante, solo allora poteva smettere.
Mentre l’Harry del presente scivolava nella memoria - di nuovo tra i capelli biondi - nella foto appoggiata sul comodino lo stesso uccellino volava via da quel pezzo di prato che aveva reso felice i due amanti.
 
 
 
Il giorno dopo era finalmente tornato a casa sua, nel suo letto e alle cure di Ginny che, di solito, rendeva le sue giornate meno pesanti e noiose. Era la parte peggiore della convalescenza, lo sapeva bene. Si era trovato troppe volte rinchiuso in casa per vari acciacchi o ferite durante i turni di lavoro.  A volte invidiava il lavoro d’ufficio.
In quella particolare occasione, però, sperava che Ginny ricevesse qualche chiamata urgente alla squadra, un qualche allenamento impossibile da perdere, sarebbe bastato qualcosa che gli permettesse di restare solo anche per un’ora.
Forse Merlino lo ascoltò. Il giorno seguente Ginny dovette lasciarlo solo - «Harry, hanno minacciato di lasciarmi in panchina per tutto il campionato se perdo un altro allenamento» - e lui non perse tempo: mandò un gufo ad Hermione pregandola di passare a Grimmauld Place.
Poche ore dopo il sonno indotto dalle pozioni in cui era caduto, venne interrotto bruscamente dagli incantesimi di protezione piazzati da Ginny prima di andarsene.
«Harry, ti saresti già fatto uccidere» disse sorridendo la ragazza, mentre guardava l’amico scendere le scale in modo traballante, con gli occhiali in una mano e la bacchetta nell’altra.
«Abbiamo un problema Hermione». La voce di Harry era rotta dal sonno spezzato e dai pensieri che pesavano nella sua testa.
Si accomodarono nel grande divano del salotto, tra le mani un tè fumante, mentre Harry raccontava per filo e per segno ciò che era successo il giorno prima al San Mungo.
«Lui ricorda».
E come un ragazzo stanco della vita che altri hanno voluto per lui, pianse. Pianse tutte le lacrime che si era trovato a dover trattenere per un lungo anno, pianse per l’amore che aveva incontrato, vissuto e dovuto letteralmente dimenticare.
Hermione restò in disparte, seduta al fianco del suo amico. Muta e attenta a non entrare nel suo dolore, per permettergli di restare solo e viverlo, sentirlo.
Lo riaccompagnò a letto, pensando a quanto fosse piccolo quell’uomo che teneva la testa sulla sua spalla, quanto stanco e ferito fosse.
Lei c’era, era sempre stata lì, dall’inizio.
Era lì quando la guerra stava per finire e gli animi stavano cambiando; lo stesso animo nero di Malfoy stava assumendo nuove sfumature, e lei lo vide, Harry, mentre ne scopriva alcune sorprendendosi e modificando l’idea che aveva di quel ragazzo. C’era, quel giorno in cui lui e Malfoy si scambiarono le prime parole senza offendersi apertamente, ma scoprendo quanto fosse facile fare dell’ironia.
Lo vide confuso e ferito di quella diffidenza che Malfoy riservava solo a lui, e lo vide alla fine cedere, deluso, all’amore insistente e genuino di Ginny.
Era lì mentre si spegneva piano e dava se stesso pur di non far pesare a lei l’amore che non poteva darle.
Hermione non era mai andata via, non aveva mai perso di vista l’amico. Nemmeno quando si stava innamorando. Probabilmente – come sempre – era stata la prima ad accorgersi del sentimento tra quei due ragazzi, ancora prima dei diretti interessati.
Così non poté far altro che annuire – “Oh Harry, quanto sei ingenuo amico mio.” – quando lui si presentò nel suo ufficio a confessarle di aver tradito Ginny e di essersi innamorato di Malfoy.
Non poté far nient’altro che annuire e decidere di aiutare il suo amico – “Oh Harry, quanto te ne pentirai amico mio.” – quando due anni dopo si presentò da lei a chiederle di cancellare la memoria a Draco.
Harry si addormentò sotto ai suoi occhi, il viso ancora umido. Se ne andò desiderosa solo di abbracciare Ron e addormentarsi tra le sue braccia – “Oh Harry, sarò qui anche questa volta” – .

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Capitolo 4
*** 4 ***


Buona lettura :*



 





4
Finalmente era tornato al lavoro, dopo quattro giorni di convalescenza forzata decise di terminare gli ultimi tre che gli restavano da scontare in ufficio. Aveva trovato un compromesso con Shacklebolt ed Hermione - non in veste di Ministro ma di guardiana della sua vita -, avrebbe potuto passare quegli ultimi giorni di malattia al Ministero, nel suo amato ufficio, ma senza provare a partecipare a riunioni o tanto meno ad azioni sul campo. Doveva far finta di non esistere, gli dissero.  
Aveva dovuto battere i piedi come i bambini e minacciare il suo capo di continue visite con la metropolvere per avere il permesso.
Superato quello scoglio, un altro problema ora gli pesava sulle spalle, anche la sua salute passava in secondo piano, se voleva mantenere ancora una parvenza di sanità mentale doveva trovare un modo per risolverlo. Ed una cosa che aveva ampiamente imparato sulla sua pelle era quella di capire, prima di avventarsi su di esso, che portata avesse quel problema. Così a naso poteva già pensare si trattasse di un problema decisamente problematico.
Da dove cominciare?
 
Le porte del San Mungo si aprirono davanti a lui, tirò fuori dalla tasca un foglietto in cui aveva scritto in modo sgangherato i turni del Medimago che stava cercando. Essere un Auror a volte aveva i suoi benefici, come quello di poter chiedere informazioni ritenute in un certo senso private senza dover dare spiegazioni. Chi lo avrebbe mai preso sul serio se avesse spiegato il reale motivo del suo interesse verso i turni di lavoro di Draco Malfoy? Meglio inventarsi qualche scusa, anche per se stesso valeva la stessa indicazione.
Non si sentiva molto a suo agio in quell’ambiente, le mura bianche e fredde lo riempivano di malinconia tutte le volte in cui si trovava obbligato a passare per di là. Tanti suoi colleghi, lui compreso, avevano pernottato in quelle stanze, colleghi più anziani li avevano rassicurati sul fatto che prima o poi, durante la loro carriera, avrebbero passato almeno una notte in tutti i reparti. Harry non aveva mai dubitato sulla verità di quella affermazione.
Il suo pensiero si stava per posare su quei colleghi usciti da quelle stanze non per tornare a casa ma per essere portati all’obitorio, a tutti quei Guaritori piegati sui loro corpi prima di pronunciare l’ora del decesso… «Signor Potter». Una vocina squillante lo distrasse, ne fu quasi sollevato.
La vocina proveniva da un personaggio di uno di quei quadri di cui erano tappezzate le pareti. La targhetta riportava il nome Victor Saxbury, un guaritore del 1300 che aveva scoperto una qualche malattia magica di cui non riusciva nemmeno a pronunciare il nome.
«Signor Potter» tossì di nuovo la grande testa dai capelli rossicci. «Uhm, salve signor Saxbury» gli rispose un confuso Harry Potter, dopo aver letto di nuovo il cognome del dipinto. Non gli dispiaceva passare il tempo a chiacchierare con i quadri, ma in quel momento era abbastanza impegnato. Al vecchio Guaritore sembrava non interessare. «Dicevano che se mi fossi trovato a parlare con lei avrei conosciuto un gentile ragazzo, forse si sono confusi con un altro Harry Potter» terminò un po’ stizzito. Harry preferì non rispondere, alzò gli occhi al cielo e sospirò.
Le lezioni di Piton gli tornarono alla mente e prese spunto da quelle per rispondere. «Mi dispiace, avevo la testa altrove. Come la posso aiutare?» chiese sfoderando il suo miglior sorriso.
Questo sembrò calmare l’animo del guaritore che scordò in fretta di essere arrabbiato con lui.
«Oh non si preoccupi ragazzo, di questi tempi è normale avere la testa tra le nuvole. Sa, a i nostri tempi invece non ci si poteva permettere di perdere per un secondo la concentrazione…» Saxbury continuava con il suo racconto ma ad Harry sembrava un bisbiglio lontano, perché la sua attenzione era rivolta altrove.
Ogni persona con il camice bianco poteva essere Draco, e lui doveva trovarlo al più presto.
«Capisce signor Potter?» il guaritore doveva aver terminato di raccontare qualche storia.
«Ma mi dica un po’, cosa la porta qui? Qualche collega? Qualche acciacco giovanile? Sicuramente nulla di grave, lei è giovane, non ha mica tutti gli anni che ho io».
Un breve sospiro uscì dalla bocca di Harry, si concentrò sugli occhi vispi del guaritore, che lo mettevano un po’ a disagio. Si ritrovò a rispondere con la verità «Sto cercando uno dei vostri colleghi, signore. Draco Malfoy, lo conosce?».
Un grande sorriso si disegnò sulla bocca stretta e larga dell’uomo «OH! Draco, oh dolce Draco. Certo, certo che lo conosco! Uno dei nostri migliori ragazzi, sa? Io stesso non ci avrei mai creduto. Quella sua altezzosità? No, no. Come avrebbe mai potuto una persona così fiera e nobile fare questo lavoro e mischiarsi con la gente normale? E invece! Oh, si, si si. Dolce Draco. Grandi mani, grande mente, grande pozionista!».
Certamente non si aspettava di dover ascoltare l’elogio a Draco Malfoy, tanto che gli scappò una risatina.
«Ma come? Non ci crede? Oh, aspetti che le racconto questa stor-».
«Oh, no no, signor Saxbury, ci credo! Non stento a crederci, mi creda» disse velocemente Harry per bloccare sul nascere quella ormai lunga conversazione. «Abbiamo passato tanti anni a scuola insieme, non avevo dubbi sarebbe diventato così bravo» terminò con un velo di nostalgia. «Ma, per caso, non è che l’ha visto qui in giro oggi?» chiese mantenendo un tono neutro.
«Certo caro ragazzo, certo che l’ho visto. Io vedo tutto da qui, e tutto ricordo! Ha passato molte ore a visitare i suoi pazienti. Grande guaritore, grande!» Disse scuotendo la testa, poi riprese: «poi l’ho visto andare negli uffici con dei colleghi, proprio dietro a quell’angolo» indicò a destra con un movimento del capo.
«Grazie signor Saxbury, grazie mille. Per favore, non dica a nessuno di avermi visto!» si allontanò con passo svelto, salutando il dipinto. Girato l’angolo poteva ancora sentirlo urlare qualche cosa, non era il momento di pensarci.
Si trovò di fronte a delle grandi porte scorrevoli, che riportavano la scritta “vietato l’accesso ai non autorizzati”. Chi più di lui poteva essere autorizzato? Certo, non era in divisa, non indossava il cartellino, non aveva nulla che potesse identificarlo come dipendente del Ministero ma, insomma, lui era…
«Potter». Esatto.
Un giovane uomo in camice bianco era proprio davanti a lui, dopo le porte scorrevoli. Come si suole dire: il fato.
Corti capelli biondi, pelle così chiara da poter ricordare il latte, occhi grigi, disprezzo per il suo nome. Poteva essere solo lui.
«Draco!» i centimetri che lo dividevano da lui non erano mai stati un problema ma in quel preciso momento si sentiva piccolo. Lo vedeva così alto, così grande, così arrabbiato da riuscire a sovrastarlo. Forse stava sbattendo le palpebre all’impazzata, forse stava cercando di balbettare qualcosa. Non capiva. Era confuso, il cuore che batteva forte, la bocca secca.
«Dracp, per favore parliamo». L’unica frase di senso compiuto. Avrebbe potuto dirgli qualsiasi cosa, scusarsi, mettersi in ginocchio, urlargli che ancora lo amava. Invece, l’unica cosa che era riuscito a dire era quella che sapeva lo avrebbe fatto infuriare. La reazione di Draco non tardò ad arrivare.
«Parlare?» urlò tra i denti. Aveva la mascella così serrata che Harry pensava non sarebbe mai più riuscito a sbloccarla. Draco si ricompose, si passò le mani sul camice per lisciarlo e le mise nelle tasche. Harry poteva vedere le dita che giocavano con qualcosa, forse qualche pezzo di carta ormai ridotto a brandelli. «No Potter, forse non ci siamo intesi. Non voglio mai più vedere la tua faccia, sentire il tuo nome, vedere degli stupidi occhiali, sentire la tua voce. Tu-non-esisti-più» disse tutto d’un fiato, guardandosi attorno per controllare che nessuno avesse sentito.
Harry accusò il colpo ma lo prese per un braccio e lo portò dentro ad una stanza, la porta si chiuse dietro di loro senza fare rumore.
Dentro la stanza c’era un signore di mezza età impegnato nella lettura del Profeta, quando li vide arrivare fece per alzare la mano e salutarli, ma entrambi i ragazzi silenziarono la stanza e Draco tirò la tenda accanto al letto per nascondere entrambi.
Draco era irrequieto, continuava a camminare da una parte all’altra, affacciandosi ogni tanto per controllare che il paziente non cercasse di ascoltare. Ad un certo punto tirò fuori la mano dalla tasca e avvicinò l’indice alla faccia di Harry. «Tu. Tu. Tu!» sussurrò con rabbia sottolineando ogni parola sbattendo il dito sulla fronte di Potter che per tutta risposta rimase fermo. «Tu, stupido-idiota-maledetto Potter. Sei sempre tu. Arrivi qui, pensi di poter parlare con me? Nel mio luogo di lavoro? Dove tutti i miei colleghi possono sentire?» disse allontanando di nuovo la mano e rimettendola in tasca. Harry aveva sempre invidiato il suo autocontrollo.
Harry lo guardò mentre cercava di ritrovare la calma, non era cambiato in quell’anno. I capelli, quelli si erano cambiati. Ora erano più corti, e aveva anche degli occhiali nuovi. Ma si ritrovò a pensare che era sempre così bello, austero. Provò ad aprire la bocca, nemmeno lui senza sapere cosa avrebbe potuto dire. Ma Malfoy lo precedette, appoggiandogli la mano sulla bocca e avvicinandosi con il viso.
«Ascoltami bene. Dirò queste cose una volta soltanto e poi tornerò a lavorare. Ho già perso fin troppo tempo con te» prese fiato e spostò la mano, senza allontanare il volto. Harry poteva sentire il suo respiro sulla guancia. «Tu» e il suo indice toccò il petto di Harry con forza. «Tu ti sei permesso di cancellare un anno della mia vita, la mia vita. E ora torni qui per cosa? Cosa vuoi da me? Hai fatto le tue scelte un anno fa, hai obbligato me a farne altre. Sai cosa è successo grazie alle decisioni che pensi di poter sempre prendere per tutti? Mi sono dovuto sposare. Sposare con una donna che non amo. Sono intrappolato in una vita che non voglio, una vita che avevo deciso di non seguire. Ma tu devi sempre pensare cosa è meglio per gli altri, senza interpellare mai nessuno. Gli anni in cui dovevi salvare le persone sono passati!» si allontanò da Harry e si avvicinò alla porta, di spalle.
«Gli anni in cui pensavi di dover salvare me sono passati, Potter. Ti devi dimenticare di me. Devi vivere con la consapevolezza che io mi sono scordato di te, che non voglio più saperne nulla. Che sei stato tu a rovinare tutto ciò che eravamo». Si girò per un secondo e Harry vide come il suo volto mostrasse solo rabbia. Non provò mai a dire una parola. «Devi vivere con la consapevolezza che per me non esisti».
Lo vide aprire la porta e scomparire dopo aver girato l’angolo, senza mai voltarsi un secondo. I pensieri di Harry correvano all’impazzata, ma lui restava fermo immobile. Non sapeva dove andare, cosa fare, che cosa provare. Annullò gli incantesimi, tirò la tenda senza mai guardare il povero uomo rimasto lì dietro ignaro di tutto e corse via. Corse davvero, senza ascoltare le lamentele della gente intono a lui, non gli importava di essere in ospedale, della gente che soffriva. Perché la sua di sofferenza in quel momento era insopportabile.
Uscì dal San Mungo, i Babbani intorno a lui camminavano tranquilli e ignari di tutto, non sentivano l’aria elettrica della magia involontaria che sprigionava Harry, che continuò a correre, fino a trovare una via solitaria. Si appoggiò al muro freddo, la fronte sudata e i vestiti incollati al corpo. Si smaterializzò senza sapere dove stava andando, forse sperando di spezzarsi in mille pezzi.
Toccò la terra pochi secondi dopo, atterrò così bruscamente che cadde sulle ginocchia, la testa ancora gli girava e la nausea era talmente forte che la colazione stava per riproporsi.
Si guardò intorno, una landa d’erba verde, delle colline sparse qua e là, ci mise pochi secondi per capire che si trovava sul terremo dei Weasley. Da lontano vedeva La Tana, piccola e sbieca. Sorrise e si sentì sollevato. Forse aveva pensato a Ron, e la sua magia lo aveva accontentato, lo aveva portato dal suo amico.
Si trovò davanti alla porta, fece per bussare, ma vide dalla finestra la signora Weasley intenta a preparare il pranzo e cantare. Era così tranquilla, non voleva disturbarla. Forse Ron non era nemmeno in casa, forse era al negozio con George, forse… forse era meglio andare via. Così fece. Si allontanò dal terreno, appena più lontano di smaterializzò di nuovo.
Di nuovo in mezzo ai Babbani, dove nessuno poteva vederlo o riconoscerlo. Erano una piccola bolla di serenità quelle strade.
Camminò per un’altra ora buona e si fermò al bar davanti l’entrata del Ministero, riconobbe alcune facce di dipendenti, un breve cenno del capo ed entrò.
Erano passato mezzogiorno da alcuni minuti, così segnava il grande orologio dietro il bancone. Tra poco Hermione sarebbe entrata dalla stessa porta. Non gli restava che aspettare, così ordinò qualcosa di alcolico e si sedette fuori.
La sua amica non lo deluse, una manciata di minuti dopo eccola camminare a passo svelto verso di lui. Quando lo vide strabuzzò gli occhi e si avvicinò al suo tavolo. Era in compagnia di altre persone, forse Indicibili, perché lo squadrarono dalla testa ai piedi senza emettere alcun suono. Si sapeva che tra l’ufficio degli Auror e l’ufficio degli Indicibili non scorreva buon sangue. Povera Hermione.
«Harry, non dovresti essere in ufficio? Cosa stai facendo? Devo forse proibirti di uscire di casa?» la solita apprensione, secondo Harry immotivata, secondo il resto del mondo invece…
Si congedò dal gruppo di persone insieme a lei e si sedette davanti all’amico, che ancora non aveva detto una parola. Spesso e volentieri Harry amava fare battutine agli Indicibili, fare domande scomode e aspettare un loro passo falso era uno dei suoi hobby, ma quel giorno non c’era gusto. Ci mise poco Hermione a capire che qualcosa non andava. E per la seconda volta in quel giorno, il Muffliato li isolò dal resto del mondo. E finalmente Harry prese a parlare, le raccontò tutto ciò che era successo poche ore prima. Del quadro, delle sue lodi per Draco, dell’emozione di riaverlo davanti e delle sue ultime parole. “Per me non esisti” aveva detto. Harry lo ripeté all’amica, con la stessa enfasi che ci aveva messo il biondo. Si muoveva sulla sedia, cambiava spesso posizione, il suo corpo era irrequieto come i suoi pensieri. Hermione ancora non parlava, non lo guardava nemmeno, il suo sguardo era invece oltre la sua spalla, ogni tanto alzava gli occhi, ogni tanto sospirava, si toglieva qualche ciuffo di capelli dal viso. Ma non parlava.
Harry finì il racconto, finì di vomitare le sue frustrazioni e i suoi dolori.
«Harry, ha ragione Draco. In tutta questa storia ha ragione lui» si sorprese lei stessa delle sue parole. Il tempo era passato, aveva imparato a voler bene anche lei a quel giovane snob, perché aveva visto nascere quell’amore sotto ai suoi occhi. Ma dire che Malfoy aveva ragione ancora le risultava un poco difficile. Ma lei era Hermione, sempre sincera, anche troppo. Quasi dolorosa da quanto risultasse diretta, certe volte. Harry sapeva che sforzo aveva fatto quella sua amica nel mantenere i suoi segreti, con la sua amica, con l’amore della sua vita nonché fratello di Ginny. Le aveva chiesto molto, ma lei mai si era tirata indietro.
Ora la ragazza lo guardava con sguardo serio, non poteva più scusarlo. «Ho fatto quello che mi hai chiesto, sono andata contro ogni mio valore per aiutarti. Sono qui, sarò sempre qui, lo sai. Ma lo hai voluto tu. Ti sei mai fermato a chiederti cosa significassi tu per lui? Ancora non ho capito per quale motivo hai voluto fare tutto questo, perché cancellare tutto quello che siete stati?» si sedette di nuovo, questa volta accanto a lui. Gli prese la mano e continuò. «Harry, tu sei forte, lo sei sempre stato. Hai sacrificato la tua vita per tutti noi. Ma le scelte difficili le incontrerai sempre, non può essere tutto semplice come vorresti. Devi fare i conti con quello che hai fatto e con le sue conseguenze. Forse l’hai perso, forse puoi ancora recuperare qualcosa. Ma prima devi chiederti, e risponderti: perché l’hai fatto?». Diete un bacio sulla fronte al suo migliore amico e tornò dentro dai colleghi con cui era arrivata.
Harry rimase lì ancora un po’, fermo a fissare il suo bicchiere ancora pieno. Bevve tutto in un sorso il liquido chiaro, che gli bruciò la gola. Strizzò gli occhi e tossì mentre si alzava dalla sedia.
Perché lo aveva fatto?
Non aveva nessuna voglia di tornare in ufficio, avrebbe fatto un favore al suo capo, se ne sarebbe andato a casa.
 
Dopo essersi smaterializzato tra le mura di casa, si tolse da dosso tutti i vestiti e li lanciò sul divano. Ciabattando, andò verso la camera da letto e si buttò rumorosamente sul materasso.
Pochi minuti dopo e lo stress si era trasformato in stanchezza: cadde in un sonno profondo. Stanco di pensare, stanco di sentirsi male, lasciò che il sonno lo cullasse da qualche parte. E lo portò ad un giorno lontano, di un anno prima.
Prendere due personaggi, a caso, farli interagire tra loro, inventare con minuzia e particolare attenzione ogni dettaglio della loro conversazione.
Fin da piccolo quello era uno dei suoi giochi preferiti.
Bastava un soldatino trovato negli angoli della casa, lasciato lì probabilmente in uno dei tanti attacchi di frustrazione del cugino. Oppure un pupazzo, donatogli perché non ritenuto all’altezza degli altri giochi, quindi perfetto per lui, considerato come l’errore e l’intoppo che non doveva presentarsi nella vita impeccabile dei suoi zii.
Forse la sua passione, il suo interesse e l’attaccamento verso quelle anime, quegli aspetti delle persone considerati diversi, errati e di conseguenza degni di essere denigrati, derivava proprio da quello che lui aveva passato nell’infanzia. Harry Potter si era sentito un giocattolo difettoso da quando aveva cominciato ad avere ricordi della sua vita.
La persona che si trovava di fronte non era esattamente il ritratto di quello che solitamente richiamava la sua attenzione. Soprattutto per la situazione in cui si trovava.
Avevano litigato tutta la notte, era volato qualche schiaffo, qualche spinta forse un po’ troppo carica di rabbia e tensione. Le parole ancora volavano per la stanza, ferendo ancora qualcuno, con meno intensità ma provocando lo stesso dolore.
Si domandava sempre in momenti come quelli perché le loro vite si fossero intrecciate, perché tra tutte proprio quella persona; lui, a cui nessuno si degnava di puntare un dito contro, di deriderlo per una frase o una parola di troppo, niente di ciò che faceva poteva essere preso in giro, sempre tutto perfetto. Non permetteva a nessuno di avvicinarsi abbastanza e di spiare al di là di quel muro, forse un poco crepato, con il rischio che qualcosa trapelasse.
Così si ritrovarono di nuovo in quella situazione. Due persone distanti nonostante si trovassero nella stessa camera da letto.
E Harry, che ancora faceva quel gioco di quando era piccino, cominciò a prevedere ciò che si sarebbero detti da un momento all’altro.
Nella sua testa prese forma la frase, tratto per tratto davanti ai suoi occhi la prima lettera si sistemò in posizione, poi la seconda, la terza…
Chiuse gli occhi e ascoltò: «Ascolta Harry,» l’angolo della bocca si allungò leggermente verso l’alto, «non possiamo più continuare così».
Annuì, guardò la persona di fronte a lui fin quando i loro sguardi si incrociarono, con la solita naturalezza. E richiuse gli occhi: “questa storia continua da troppo tempo”.
«Questa storia continua da troppo tempo».
Come non dargli torto, pensò. Chiedendosi anche quante altre frasi avrebbe indovinato ancora.
Però non fiatava, non poteva dire nulla, tutte le sue parole si erano rinchiuse nella sua gola, come al solito. Quello non era un gioco, lo sapeva bene, ma le sue difese si alzavano così facilmente e così velocemente, che l’unico modo per sopportare quell’enorme tristezza che lo avvolgeva in quel momento, era proprio di comportarsi come quando era un bambino. Con la differenza che le parole che sentiva in quel momento erano pronunciate da qualcuno che lui amava profondamente.
Un lungo sospiro, altre frasi, mani tra i capelli, passeggiate per la stanza per sgranchirsi le gambe e cercare di eliminare un po’ di tensione.
La solita scena. Il solito epilogo.
I due corpi tornarono vicini, con le mani intrecciate ma ognuno guardava la sua porzione di soffitto. «È come se dipingessi con l’acqua-».
«E solo io potessi vederlo» terminò Harry la frase. E poi aggiunse, guardando il pavimento: «Allora vattene».
Di colpo la tristezza uscì dal suo petto, volando per la stanza, lasciando libere le lacrime, il dolore, i dubbi.
Sentì il letto scricchiolare leggermente e il solito rumore sordo della Smaterializzazione, dopodiché la sua mano stava diventando stranamente fredda.
Aveva appena lasciato l’amore della sua vita, e capì perché assomigliava così tanto a ciò che lo attraeva con così tanta forza da quando era ragazzo.
Lui era l’unico che aveva spiato al di là del muro attorno a Draco Malfoy. Harry aveva contato una ad una tutte quelle piccole, minuscole crepe. Perché Draco glielo aveva permesso.
Si svegliò di colpo, con le lenzuola sudate addosso e il cuscino un po’ umido. Gli capitava spesso di piangere nella notte, per gli incubi e per i sogni, anche quelli per belli, ma con protagonista un Malfoy.
Fuori era buio, tra poco sarebbe tornata Ginny.
Si alzò e si spinse nel bagno a fatica, facendosi violenza. La luce fredda metteva in risalto le occhiaie profonde, colpa di quelle lacrime e quei pensieri.
Nel frattempo, l’acqua cominciò a scrosciare nella doccia, accesa da uno stanco colpo di bacchetta.
Fuori ancora si faceva sempre più buio, quel blu invernale estremamente freddo, cupo. Bellissimo.
Gli piaceva il buio. Era diventata quasi un’ossessione. Cercò di allontanare i pensieri, di restare finalmente solo.
Solo l’acqua bollente e la luce spenta, i brividi dati dal calore dell’acqua e dall’aria fredda che entrava dalla finestra lasciata leggermente aperta, un’abitudine.
Sentì da lontano il rumore della porta che si apriva, Ginny era tornata.
Chiuse gli occhi, li strinse forte, per far comparire i puntini di luce dietro le palpebre serrate.
Inspirò avido l’aria umida, trattenne il respiro.
L’acqua bollente fece il resto.
 
 
 
 

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