Il sangue della bestia

di vincey_strychnine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fede ***
Capitolo 2: *** Fuoco ***
Capitolo 3: *** Notti insonni ***
Capitolo 4: *** Il Negoziatore ***
Capitolo 5: *** In fiamme ***
Capitolo 6: *** Mostri e marionette ***
Capitolo 7: *** Follia ***



Capitolo 1
*** Fede ***


Clove non pensava molto spesso a Dio.

 

Ma mentre sedeva con le gambe incrociate sotto al suo corpo minuto e i suoi occhi scuri si concentravano sullo schermo davanti a lei che trasmetteva le repliche dell’ultima edizione degli Hunger Games, le venne in mente quell’entità. Questo solo per via della deludente ragazza disidratata che stava sdraiata a faccia in giù, morente sul suolo secco mentre le sue mani sporche tentavano di arraffare l’aria, che pregava questo Dio di salvarla. Per ragioni incomprensibili a Clove le telecamere continuarono a concentrarsi sulla scena patetica finché la già fioca luce negli occhi della ragazza diminuì e lei fu morta.

 

Immagino che il suo Dio non guardi gli Hunger Games. Gli angoli della sua bocca sottile si alzarono in un sorrisetto.

 

Credere in qualcosa di così triviale è una debolezza. Era evidente in ciò che aveva appena visto. Clove non lo capiva; mandare preghiere ciecamente all’orecchio di un’entità che non si è mai dimostrata reale e poi vivere secondo regole che essa potrebbe anche non aver creato. Per un momento non riuscì a pensare alla parola esatta che stava cercando -

 

Fede, le ricordò una vocina.

 

Sì, era di certo questo che aveva portato quella patetica ragazza alla morte. La sua fede.

 

Nel corso della sua vita nessuno le aveva mai predicato quel tipo di cose. Nessuno si era mai seduto con lei per farle accettare un qualche essere superiore. Nessuno le aveva mai suggerito di riempire la sua vita con opere buone e purezza.

Certamente i suoi genitori, con i loro volti di pietra, privi di espressione, non credevano in una tale idiozia. Era un dato di fatto che non conoscesse nessuno nel posto in cui viveva che ci credesse. Probabilmente perché il Distretto Due aveva già un potere maggiore in cui credere ed era Capitol City.

 

Ma tu in cosa credi?

 

La domanda la colse di sprovvista perché, nonostante fosse apparsa nella sua mente, di certo non era stata lei a porla. Lievemente confusa e irritata dal fatto che qualcosa di così irrilevante avesse invaso i suoi pensieri abbandonò rapidamente la domanda.

 

Non aveva bisogno di nulla in cui credere. Lei non era debole.

 

La sua concentrazione si spostò sui suoi imminenti Hunger Games mentre i volti dei partecipanti riaffioravano dai ricordi della cerimonia d’apertura e dalle mietiture dei vari distretti. Che abbiano pure le loro divinità, pensò amaramente. Vediamo se li salverà dai miei coltelli fin troppo reali.

 

No, non aveva assolutamente bisogno di nulla in cui credere. Non la piccola, letale, feroce Clove, la ragazza che aveva abbastanza odio dentro da radere il mondo intero al suolo, nonostante vi avesse vissuto solo per quindici brevi anni. La ragazza che non riusciva a capire nemmeno la sua stessa natura; che era cresciuta con un vuoto così grande che aveva dovuto riempire gli spazi con l’odio per evitare di diventare un guscio vuoto. La ragazza che non ricordava una sola volta in cui fosse dipesa da chiunque tranne che da sé stessa -e perché avrebbe dovuto? Non aveva un Dio. La sua famiglia era esistita solo per darle un cognome. Non aveva amici; nel corso della sua vita aveva avuto alleati.

 

Era nata per questi giochi.

 

Le ci erano voluti quindici anni per prepararsi. Tre giorni prima la sua mano si era alzata con sicurezza quando avevano chiesto una volontaria alla mietitura ed ora era finalmente lì, a Capitol City, al momento seduta su di un soffice divano verde nella sua suite temporanea ed era solo una questione di pochi giorni prima che i giochi iniziassero. Il suo distretto l’aveva generata per uccidere e per questo poteva vincere. Ma la vittoria non era una grossa preoccupazione per lei. Non perché pensava di non riuscirci- ne era più che capace nonostante la sua corporatura minuta; la sua perfetta tecnica con i coltelli l’aveva messa ben più avanti della sua classe e le aveva dato la possibilità di offrirsi come volontaria per i giochi quell’anno nonostante fosse molto giovane per essere un tributo del Distretto Due.

 

Ma ad ogni modo se avesse vinto, dopo non ci sarebbe più stato nulla. Sarebbe tornata a casa, e poi? L’avrebbero trasferita in qualche magnifica villa? Sarebbe stata acclamata dal suo distretto? Avrebbe avuto l’attenzione dei media per un anno intero? La fama e il denaro non significavano nulla per Clove.

 

Ma uccidere sì.

 

Percepire finalmente la soddisfazione di porre fine ad una vita umana la affascinava. Aveva già ucciso degli animali quindi poteva immaginare la sensazione del coltello che lacera la carne o si pianta nello stomaco. Ma l’idea di aggiungere la sensazione, tanto per dire, della ragazza del Sei il cui volto, di solito inebetito, si riempie improvvisamente di paura alla realizzazione del fatto che sta per morire. O magari anche il ragazzino dell’Otto che trascina a terra i suoi arti insanguinati  mentre usa l’ultimo briciolo di energia che riesce a raccogliere per strisciare via da lei… Questi pensieri erano sufficienti ad accelerare il suo respiro per l’emozione incontrollabile e a farle sgranare gli occhi già grandi sul suo viso di bambina- troppo fresco e giovane per abbinarsi alle fantasie oscure che vi sussistevano.

 

In poco più di una settimana sarebbe stata sul piedistallo in qualsiasi fosse stata l’arena, ad aspettare il suono del gong e l’inizio dei giochi. Non avrebbe giocato per vincere.

 

Avrebbe invece giocato perché la sua intera vita era stata finalizzata ad uccidere, poco importava se ne sarebbe uscita morta o viva, perché quando i giochi fossero finiti lo scopo della sua vita sarebbe finito con essi.

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Capitolo 2
*** Fuoco ***


Il suono di qualcuno che bussava strappò rapidamente Clove dalle sue riflessioni, cogliendola di sorpresa. Le ci volle un momento per esaminare ciò che la circondava e ricordarsi dove si trovasse.

 

Gli Hunger Games non erano ancora iniziati. Non era in un campo desolato, o in un deserto. Non stava accoltellando ripetutamente il ragazzino dell’Otto. Era, invece, seduta su di un divano fin troppo lussuoso nella stanza fin troppo lussuosa che Capitol City le aveva offerto per la sua permanenza fino al vero e proprio inizio dei giochi.

 

“Che c’è?” sbottò.

 

In risposta la porta si aprì a sufficienza perché la testa della sua mentore si introducesse nella stanza, il suo volto attraente osservò Clove con una certa curiosità. Nonostante a Clove non piacessero molte persone, aveva una sorta di ammirazione per quella donna alta e muscolosa. Il suo nome era Lyme, aveva vinto i giochi qualche tempo prima, e diversamente dagli altri nel vasto bacino di vincitori del Distretto Due non era arrogante e non si comportava con superiorità. Al contrario era tenace, abbastanza silenziosa e le parlava solo quando era strettamente necessario, cosa che Clove apprezzava molto.

 

Inoltre, a differenza degli altri vincitori del Distretto Due, non dava l’impressione di voler essere davvero lì.

 

“La cena”, disse Lyme tranquillamente. Eppure a giudicare dall’espressione lievemente contratta conferita ai suoi lineamenti forti, disapprovava il tono di Clove. Dal momento che Clove aveva una buona dose di rispetto per la sua mentore, invece che provocarla ulteriormente finse di non accorgersene.

 

Mentre lasciava che le gambe flessuose le scivolassero da sotto il corpo, percepì la familiare sensazione di aghi e spilli conficcati nei piedi. Per un attimo restò seduta, inarcando le dita e concedendosi del tempo per riacquisire sensibilità. Lyme continuò ad analizzarla dall’ingresso e proprio mentre stava per dire qualcosa, il rumore di stoviglie infrante contro il pavimento di marmo le spinse entrambe a voltarsi rapidamente verso la sala da pranzo fuori dal corridoio. Lyme si diresse subito là, ma Clove non si mosse, mentre un sorriso involontario si faceva strada sul suo volto.

 

Parecchie voci seguirono lo schianto, una di esse apparteneva a quello stupido grassone del loro accompagnatore di Capitol City e l’altra era profonda ma forte e lacerante nell’aria in origine tranquilla come la spada che lui era così bravo a maneggiare.

 

Lui era la definizione di un idiota arrogante ed egocentrico. Oltre ad avere un ego gonfiato, aveva anche un temperamento gonfiato e partiva costantemente per la tangente. Assomigliava parecchio ad un bambino con i suoi capricci, solo che a differenza di quello di un bambino il suo corpo era muscoloso ed imponente, e ciò rendeva questi episodi non esattamente innocui. C’era qualcosa di fuori posto in lui, qualcosa che Clove aveva notato nell’istante in cui si erano stretti la mano per le telecamere che trasmettevano in tutta Panem il giorno della mietitura. Non era stato quando le aveva stritolato aggressivamente la piccola mano, così forte che probabilmente stava tentando di spezzarle le dita, che lei se ne era accorta. Non era stato nemmeno quando gli angoli della sua bocca dalla forma regolare si erano sollevati in un ghigno mentre lo faceva nonostante quasi ogni schermo televisivo del Paese fosse concentrato sulle loro facce.

 

Al contrario, l’aveva visto quando aveva l’aveva guardato negli occhi, che apparivano sinistramente vacui nonostante l’animosità del suo volto.

 

Cato.

 

Lui le assomigliava sotto molti aspetti. Anche lui era vuoto, ma ad un certo punto nella sua vita doveva aver riempito gli spazi con rabbia e odio verso tutto, tutti e magari anche verso sé stesso.

 

Ma c’era abbastanza differenza fra i due perché lei continuasse a detestarlo… e per mantenere le cose interessanti.

 

Ad esempio, uno dei nuovi passatempi preferiti di Clove dalla mietitura era infastidire il suo caro compagno di distretto, e in ciò aveva tanto talento quanto nel lanciare i suoi coltelli. Anche se a dire il vero più o meno chiunque sarebbe stato bravo a far arrabbiare Cato, ma lei sembrava essere l’unica persona a divertirsi a farlo.

 

Con le mani fredde e sudaticce spostò il suo mantello di capelli scuri su una spalla e si lisciò la maglia, per poi dirigersi verso la zona di guerra.

 

Frammenti di porcellana giacevano sparsi sul pavimento di pietra e circondavano il lungo tavolo da pranzo in mogano della suite e i Senzavoce si muovevano freneticamente, quasi rischiando di scontrarsi mentre pulivano quel disastro. Cato stava in piedi di fronte ad una sedia rovesciata, il suo corpo possente piegato sul tavolo e le mani grandi strette sul bordo della sua superficie. I suoi denti bianchi erano digrignati e stava quasi ringhiando contro il suo mentore, Brutus, un vincitore sulla quarantina ugualmente minaccioso. Brutus si allungò sulla sedia con un braccio che penzolava pigramente da essa, ma un sorriso a trentadue denti si aprì sul suo viso, e la sua pelle abbronzata e ruvida fece apparire i suoi denti quasi abbacinanti.

 

“Hai finito?” chiese distrattamente.

 

Un rossore brillante si diffuse sulle guance lisce di Cato ed una delle sue narici si contrasse.

 

“Mi parli come se fossi un dannatissimo idiota,” ringhiò, scuotendo il tavolo mentre vi affondava entrambi i pugni.

 

Pallas, il loro tornito accompagnatore di Capitol, con i capelli tinti artificialmente di verde acido e un assurdo ombretto viola a fare pendant, all’improvviso si rianimò al prospetto di dover possibilmente sostituire il tavolo oltre alle stoviglie ormai rotte.

 

“Perché non ci sediamo e ci calmiamo, hmm?” disse in tono persuasivo torcendosi le dita grassocce con nervosismo.

 

Brutus non lo considerò. Al contrario si alzò lentamente dalla sedia, sovrastando di parecchi centimetri il già imponente Cato, e assunse una posizione simile, piegandosi sul tavolo con le mani che ne stringevano il bordo e il viso non lontano da quello del suo tributo. Vedendoli così, Clove non poté fare a meno di notare la somiglianza fra i due, dal momento che le uniche differenze erano la pelle rovinata e abbronzata di Brutus e i suoi capelli scuri opposti alla carnagione chiara e alla giovinezza di Cato.

 

“Questo perché sei un dannatissimo idiota. Forse dovresti ricordarti chi è che ha il controllo sui regali provvidenziali degli sponsor che vi vengono mandati nell’arena. Ora siediti e taci,” ruggì, ma nonostante il suo tono continuava a sorridere.

 

Per un momento mantennero le loro posizioni, squadrandosi a vicenda. Poi Cato si voltò di scatto e raddrizzò la sedia con una tale forza che a momenti la scagliò sul tavolo. Brutus tornò a sedersi e si appoggiò allo schienale con uno sguardo di approvazione che gli illuminava il volto. Per la maggior parte dei mentori, il comportamento di Cato sarebbe stato una dimostrazione di scarsissimo rispetto, ma questo mentore e vincitore veniva dal Distretto Due. A Brutus piacevano gli scatti d’ira di Cato, mostravano il fuoco del ragazzo che gli sarebbe stato utile non solo durante i giochi, la sua aggressività sarebbe stata una delle fonti principali di intrattenimento. Capitol City aveva sempre amato gli uccisori spietati.

 

Tuttavia, dal loro arrivo doveva essere almeno la quarta volta che Cato rompeva qualcosa, il che spinse Clove a chiedersi se Brutus non lo stesse facendo irritare di proposito.

 

Lyme se ne era stata seduta accanto a Brutus in silenzio durante la traversia, ad assicurarsi che lui ed il suo tributo non si attaccassero a vicenda. Pallas sospirò e fece un cenno stanco ai Senzavoce perché portassero il cibo mentre si sedeva Brutus si accorse della presenza di Clove e sorrise scherzosamente.

 

“Ma guardati un po’, piccola creaturina spaventata. Devi imparare le buone maniere ragazzo, non è questo il modo di comportarsi davanti ad una signora,” disse a Cato, e Clove percepì un pizzico di sarcasmo nella sua voce.

 

Le sue labbra si strinsero. Avrebbe potuto uccidere il vecchio bastardo. I suoi occhi saettarono verso Cato il cui sorrisetto stava chiaramente trattenendo qualche risposta irritante. L’unica ragione per cui non la diceva era perché erano proibite, almeno quando Lyme era nei paraggi. Una delle loro prime cene era finita con Clove che conficcava con forza una forchetta da insalata nella mano di Cato, gesto seguito rapidamente dalla mano illesa che si stringeva attorno alla sua gola e la sbatteva a terra prima che chiunque avesse avuto modo di reagire.

 

Per lo stesso incidente Lyme si alzò dal suo posto accanto a Brutus e si sedette vicino a Cato: ai due non era nemmeno permesso di sedersi vicini.

 

Pallas squadrò il gruppo attentamente dal posto a capotavola e si massaggiò la fronte: ogni anno i tributi del Distretto Due riuscivano sempre a sorprenderlo.

 

**

 

Cibi ricchi e multicolori erano allineati sul tavolo nei loro piatti ornamentali, ma Clove scelse un pezzo di bistecca, probabilmente proveniente dal Distretto Dieci i cui tributi avevano buone possibilità di morire per mano sua entro pochi giorni, pensò senza riuscire a trattenersi. La carne era al sangue, proprio come piaceva a lei.

 

Selezionò un lungo coltello da bistecca dal centro del tavolo. Ammirandone la semplicità le sue dita viaggiarono lungo la lama.

 

Il coltello era era diverso dalle altre armi perché la sua natura doveva essere personale. Poteva essere usato a lunga distanza ed era appunto questa la sua specialità. Ma diversamente dalle asce o dalle fruste o anche dalle spade, un coltello poteva essere usato da ben più vicino alla vittima e richiedeva meno forza e dita agili.

 

Mentre conficcava la lama nel cibo, si immaginò mentre feriva Cato.

 

I suo occhi si sollevarono per ottenere un’immagine di lui che lei potesse usare. La sua figura minacciosa era ricurva sul tavolo di fronte a lei, e affondava nel suo cibo con i pugni stretti attorno all’argenteria come se non sapesse come impugnarla appropriatamente. La civiltà non gli si addiceva, piuttosto che con il corpo imponente costretto fra un tavolo ed una sedia costosi, se lo immaginava meglio a correre attraverso la foresta e ad attaccare brutalmente un animale, a mangiarlo crudo. Dall’osservazione dei muscoli delle sue braccia che guizzavano sotto alla maglia scura e del modo in cui la sua mascella prominente masticava concluse che era ancora teso per via della discussione con Brutus.

 

Accorgendosi di essere osservato, Cato alzò istantaneamente i suoi occhi chiari per incontrare quelli di lei con una intensità tale che la distanza fra loro due sembrò restringersi. Quegli occhi erano una delle qualità che lo rendevano così minaccioso, le iridi erano di un blu così chiaro che potevano essere pezzi di ghiaccio. Mentre sostenevano lo sguardo di Clove lei si rese conto che sembravano a stento umani.

 

Ma non la spaventavano.

 

Le sue sopracciglia scure si sollevarono in risposta e lei sbatté gli occhi innocentemente prima di continuare ad affondare il coltello nella bistecca, senza interrompere il contatto visivo.

 

La superficie e la resistenza del grasso contro la lama le resero facile fingere di star tagliando l’interno della sua bocca, nella carne gommosa delle guance.

 

Involontariamente si perse nel momento. Fissare Cato, tagliare la carne, sembrava tutto troppo reale. La sua vista cominciò ad oscurarsi agli angoli mentre affondava nel ragazzo di fronte a lei all’improvviso molto arrabbiato, le narici del suo naso dritto che si dilatavano, le sue spalle larghe più tese di prima. La sua mascella perfettamente angolata ora era serrata. La pelle sul suo viso era così liscia. Chissà se avrebbe urlato mentre lei lo faceva? Chissà se-

 

Il ritmico rumore delle forchette contro i piatti e dei bicchieri di vetro contro al tavolo di legno si era fermato. Il silenzio della stanza strappò Clove alla sua trance.

 

Per prima cosa si rese conto che aveva mosso la lama avanti e indietro contro la porcellana creando un terribile suono stridulo. In secondo luogo, si rese conto di quanto fosse tesa, i suoi denti si erano stretti così tanto che ora la mascella le sembrava molle, si era considerevolmente piegata sul tavolo e le sue nocche erano quasi bianche tanto aveva stretto l’impugnatura del coltello. Terzo, si accorse che tutti la stavano fissando.

 

Da brava mentore, Lyme inizio subito una conversazione.

 

“Avete già stretto le alleanze ufficiali?” chiese, e con la sua domanda il tavolo riacquistò nuovamente un po’ di normalità.

 

“Il Distretto Uno ci si è presentato,” rispose Cato, mantenendo gli occhi cautamente incollati a quelli di Clove per un momento prima di spostare lo sguardo lentamente.

 

Lyme annuì con approvazione, la tradizione dei Favoriti era tanto antica quanto gli Hunger Games. Erano i Favoriti che uccidevano la maggior parte dei tributi, creando effettivamente lo show. Il processo delle alleanze era importante. Era quasi sempre tra i Distretti Uno, Due e Quattro con l’aggiunta occasionale ma rara di tributi di altri Distretti se dimostravano una capacità che ne valesse la pena.

 

Ironicamente tuttavia il Distretto Uno era probabilmente uno dei meno graditi a Clove. Ogni anno sfornavano i soliti tributi altezzosi e sussiegosi, che avrebbe potuto giurare fossero sempre biondi, con la pelle morbida e una certa aria regale. E la coppia di quest’anno non era differente.

 

“E il Distretto Quattro?” chiese Lyme.

 

“Puzzano di pesce,” rispose Clove semplicemente e dopo la rumorosa risata di Brutus il suono dell’argenteria che tintinnava riprese.

 

Poiché pensava che non stesse guardando, si concesse di lanciare un’occhiata a Cato di nuovo, soltanto per ritrovarsi un’altra volta i suoi occhi incollati addosso.

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Capitolo 3
*** Notti insonni ***


Nell’oscurità della notte, le grandi costruzioni di pietra di Capitol City posizionate con maestria brillavano di luci cangianti che sembravano essere di ogni colore dello spettro. Palle di luce punteggiavano come minuscole stelle tremolanti le strade al di sotto, dove gli abitanti indaffarati potevano essere visti mentre saltellavano da edificio a edificio, i loro corpi e capelli dai colori vivaci davano l’illusione che fossero alieni provenienti da un altro pianeta. O forse non era un’illusione, quelle persone erano di un altro pianeta.

 

Nemmeno Clove, che stava in piedi appoggiata allo spesso vetro che la separava dalla città arcobaleno, poteva dire che il suo distretto, pur essendo uno dei più ricchi, fosse simile a quello spettacolo. Queste creature di Capitol City sarebbero apparse totalmente fuori posto nel suo mondo di gente di montagna e case di mattoni costruite su salite ripide, un posto dove c’era tanto cibo ma la vita era comunque dura. Pensò ai grossi muratori dalla pelle solcata, curvi sul loro lavoro come giganti minacciosi. Neanche i visi giovani dei privilegiati che si allenavano con lei nell’accademia avrebbero potuto rivaleggiare con questa razza di persone completamente nuova; queste bestiole ignoranti che non sapevano nulla del dolore, nemmeno un’avversità a pesare sulle loro insignificanti vite.

 

Il suo pollice sfregò contro il coltello stretto nella mano mentre li guardava.

 

Lyme sarebbe stata scontenta se si fosse accorta del momento in cui Clove l’aveva fatto scivolare nello stivale mentre i loro piatti venivano portati via a cena. Avrebbe pensato che volesse usarlo per uccidere Cato, o il loro accompagnatore, o chiunque altro. Ma non era questo il caso. Era solo qualcosa con cui giocherellare nelle notti insonni.

 

Non erano insolite per Clove.

 

La sua incapacità di dormire per più di una o due ore per volta un tempo la infastidiva immensamente, e anche ora c’erano comunque molte notti passate a girarsi e agitarsi senza posa mentre con gli occhi vuoti fissava la luminescenza rossa di un orologio. Ma aveva imparato a conviverci. Aveva un impatto minimo sulle sue funzioni giornaliere, o almeno per quanto lei ne sapesse. Talvolta voci che non esistevano le sussurravano all’orecchio. Talvolta lei rispondeva anche. Ma questi avvenimenti li considerava meno che piccoli misteri.

 

Per ragioni a lei ignote, le sue difficoltà a dormire erano iniziate quando era molto piccola. Da bambina vagava spesso per i corridoi vuoti e per le strade della sua città fino all’alba. In seguito crescendo aveva iniziato ad allenarsi con varie armi, compresi i suoi amati coltelli. Questo era, in parte, il modo in cui era stata in grado di avanzare così rapidamente all’accademia: gli altri nel corso avevano solo il numero limitato delle ore diurne per perfezionare le loro tecniche. Presto aveva iniziato a credere che il sonno fosse qualcosa di cui poteva fare a meno.

 

Dopo un’edizione degli Hunger Games in cui un ragazzo era riuscito a vincere seguendo i concorrenti e aspettando che si addormentassero prima di ucciderli, era giunta alla conclusione che anche questa fosse una debolezza, uno stato di estrema vulnerabilità. Di conseguenza qualcosa di cui poteva decisamente fare a meno.

 

Anche se a volte si trovava a chiedersi come doveva essere un sogno. O anche un incubo.

 

Il silenzio che riempiva l’aria della stanza fu spezzato dal suono di un respiro leggero e dallo scricchiolio di una caviglia.

 

Anche Cato non riusciva a dormire bene.

 

Clove rimpianse subito di aver sobbalzato al suono. Quello era il suo obbiettivo in fin dei conti, quantomeno intimidirla, figurarsi spaventarla muovendosi silenziosamente fino a che non fosse stato alle sue spalle, solo per dimostrarle che lei sarebbe potuta essergli in pugno. Se fossero stati nell’arena, avrebbe potuto tagliarle la gola, avrebbe potuto accoltellarla dritto nelle budella. Molte delle loro interazioni erano di questo tipo, cercavano di intimidirsi l’uno con l’altra, di infastidirsi. Era infantile, ma del resto, non erano forse ancora dei bambini?

 

“E cosa pensi di farci con quello?” disse in un sussurro così roco e basso che sarebbe potuto essere il rombo di un terremoto.

 

C’era qualcosa nel suo tono che le fece capire che lui sapesse cosa le era passato per la testa a cena. L’elettricità le scorreva nelle vene ma continuò a dargli le spalle. Il suolo sotto ai suoi piedi scalzi cedette un poco quando lui spostò il suo peso e le si avvicinò.

 

“Rubi l’argenteria adesso? Mi sembra una cosa un po’ da disperati,” proseguì. Poteva quasi sentire il ghigno sul suo viso prima ancora di voltarsi a guardarlo.

 

Cato la sovrastava considerevolmente in altezza e larghezza. Erano così vicini che lei dovette sollevare la testa per guardarlo negli occhi.

 

“Almeno io non la rompo,” bisbigliò lei. Il coltello le pareva leggero nelle mani mentre lo posizionava sul suo addome, muovendolo verso l’alto e sfiorando la linea definita fra i muscoli del petto con deliberata lentezza. Lui si irrigidì immediatamente ma le sue dita non si chiusero attorno al polso di lei finché la lama non fu contro la curva del suo collo.

 

Lei osservò la protuberanza sulla sua gola alzarsi e abbassarsi mentre deglutiva. La pelle si gonfiò leggermente con delicata morbidezza attorno alla lama, come se questa stesse premendo contro a un cuscino anziché contro al suo collo. La sua vista si stava oscurando nuovamente. Ciò che era iniziato come un dispetto innocente si trasformò in qualcosa di totalmente diverso. L’eccitazione le si diffuse in tutto il corpo, nelle braccia, nelle dita. La sua mascella si contrasse e i suoi occhi si spalancarono al pensiero del suo sangue. tutto quello che serviva era una spinta. Poteva farlo. 

 

E quindi lo fece.

 

Per un solo istante, con un lievissimo movimento del polso, la lama penetrò nella superficie morbida della sua pelle. Se lui non l’avesse trattenuta, avrebbe potuto squarciarla e far schizzare il suo sangue sulle pareti. Ma le sue dita grosse si chiusero sul polso sottile con forza sufficiente a lanciare il coltello via dalla sua mano e per terra. Prima che lei potesse controllarsi le sfuggì un rantolo per la pressione esercitata sul suo polso. La sua mano libera che, solo ora se ne rese conto, era aggrappata alla stoffa della maglietta sottile che lui indossava, volò verso la sua faccia di riflesso, solo per essere catturata dalle dita letali della sua altra mano.

 

L’alone ora rosso delle luci di Capitol City era riflesso dai suoi occhi vacui mentre gravavano su quelli di lei.. Uno squittio incontrollato e involontario le sfuggì dalle labbra mentre la sua presa si stringeva, ma stavolta non le importò nemmeno. Come un animale in trappola, era tornata agli istinti primordiali e si agitava nella sua morsa per liberarsi i polsi prima che si spezzassero. La linea dura della bocca di Cato s’incurvò in un sorriso alla vista della sua disperazione.

 

“Starei attento con quella cosa se fossi in te,” sussurrò con voce rauca, tirando il corpo di Clove contro al suo come se fosse stato leggerissimo. Tutto quello che gli occhi di lei riuscivano a vedere ora erano le sue spalle possenti e il collo che adesso era marcato da una sottile linea rosa.

 

Cercò di nascondere il dolore mentre gli domandava, con tono di scherno, “Perché? Hai paura?”

 

“No,” disse lui. “Ma tu sì.”

 

La risposta innescò dentro di lei un fuoco e il dolore della sua stretta d’acciaio si attenuò per un momento. Avrebbe anche potuto strapparle le mani, non le importava. Lei non aveva paura di Cato, non aveva paura di nulla.

 

A denti stretti quasi sputò le parole, “Invece no.”

 

Poi il volto squadrato di lui si avvicinò al suo, inclinato abbastanza perché il suo respiro caldo le sfiorasse le labbra. Le ciglia bionde si abbassarono un po’ sugli occhi chiari mentre questi restavano incollati ai suoi con un’espressione che lei non aveva mai visto sui suoi lineamenti, che poteva essere descritta come tra il letargico e il seducente. 

 

“Allora forse dovresti averne. Sei così…” tacque per un momento mentre le stringeva nuovamente i polsi, uno dei quali scricchiolò. Il dolore per lei era all’improvviso insostenibile. Le avrebbe spezzato i polsi. Detestava tutto ciò. Detestava non avere il controllo. Lacrime di agonia le inumidirono gli occhi e si morse forte il labbro per non urlare. “…Delicata.”

 

“Potrei ucciderti,” sibilò. “In questo momento, potrei ucciderti. Sarebbe così semplice spezzare il tuo bel collo sottile.”

 

E poi fu il suo turno di provare dolore. Quando il ginocchio di Clove andò diretto al suo inguine, Cato si piegò immediatamente in due e le allontanò le mani con tanta forza da scagliare tutto il suo corpo a terra. Un tonfo leggero scosse l’aria assieme alla voce di Cato, che sputò una dozzina di modi diversi di chiamarla puttana.Con difficoltà riuscì a strisciare fino all’utensile lanciato prima che stava per essere usato come arma. Avrebbe sofferto per qual suo giochetto. Se ne sarebbe assicurata.

 

“Sei piuttosto delicato anche tu, dolcezza,” ringhiò.

 

La stanza le sfrecciò davanti agli occhi prima ancora che potesse girarsi per accoltellarlo, e la sua testa fu improvvisamente sbattuta contro il muro. Luci brillanti le offuscavano la vista. Cato la stava tenendo per la gola, spingendo lentamente. La disarmò del coltello con facilità.

 

“Me la pagherai per questo,” ansimò lui, nonostante lei potesse a stento sentirlo per via del ronzio nelle sue orecchie.

 

Aveva già radunato un bel po’ di saliva nelle guance pronta a sputargliela contro quando le luci della stanza si accesero improvvisamente, accecandola con il loro bagliore inaspettato.

 

Brutus stava appoggiato alla fine di una scalinata di fronte a loro. La nitidezza della stanza illuminata permetteva una visibilità sufficiente a notare il sorrisetto in cui era torta la sua bocca sul viso irruvidito dalla barba scura e sfatta, e i suoi occhi erano illuminati da qualcosa che Clove non riusciva a decifrare. 

 

“Complimenti bambini, le folle lo ameranno,” si complimentò. Poi aggiunse, in tono molto più serio: “Cato, lasciala andare.”

 

Per un momento non fu certa che Cato gli avrebbe dato ascolto ma un istante dopo la sua mano si ritirò dal suo collo come se l’avesse morso. L’aria le bruciò fastidiosamente in gola quando inalò un respiro profondo e urgente, che quasi la fece soffocare. Afferrando le zone che le dita di lui avevano lasciato, le sue mani tremavano ancora.

 

Fu in quel momento che si rese conto del danno reale che le avrebbe potuto causare. I suoi polsi. Le sue mani. Il suo controllo. Senza la piena capacità e la precisione delle sue mani non era nulla, sarebbe stata inutile nell’arena. Alla luce poteva ora vedere i lividi già anneriti concentrati principalmente sulla pelle sensibile sotto ai palmi. Roteò nervosamente un polso, e ciò risultò in uno scricchiolio minaccioso e una fitta di dolore infuocata che le attraversò il braccio.

 

Quel bastardo. Quel fottuto bastardo.

 

Alzò gli occhi per lanciare un’occhiataccia a Cato che stava in piedi di fronte a lei e scoprì che l’aveva battuta sul tempo. Poi la mole di Brutus lo escluse dalla sua vista.

 

“Clove, fammi vedere i polsi,” disse con una delicatezza inusuale.

 

Per tutta risposta lei scosse la testa e li tenne saldi lungo i fianchi. L’unico modo per mantenere quel poco di dignità che le restava era soffrire da sola. Non voleva il suo aiuto, e soprattutto non voleva la sua compassione.

 

Subito la delicatezza evaporò dalla sua voce e lei realizzò che non avrebbe ricevuto alcuna compassione da parte sua.

 

Fammi vedere i tuoi dannatissimi polsi.” Abbaiò l’ordine con tanta durezza da abbattere il suo muro d’orgoglio e i polsi quasi volarono dai suoi fianchi.

 

Li girò rudemente nelle mani callose, ignorando i sussulti che lei cercava di trattenersi dal compiere. Dopo un momento la fissò con gli occhi scuri e disse con voce piatta: “Non sono rotti.”

 

Sapeva cosa voleva dire. Nessun danno irreparabile. Fattene una ragione.

 

Ciò nonostante le sue parole non le arrecarono sollievo. Non poteva essere certa che non stesse mentendo. Le venne in mente che Brutus poteva aver assistito a tutta la scena e aver deciso spontaneamente di non intervenire. Era il mentore di Cato, del resto. Perché mai avrebbe dovuto impedire al suo tributo di mettere in difficoltà la competizione? Allo stesso modo, perché avrebbe dovuto preoccuparsi che i suoi polsi non fossero davvero danneggiati? Dopotutto sarebbero stati uno degli ingredienti fondamentali perché un coltello si piantasse nel petto di Cato.

 

Il volto di Lyme si fece strada nella sua mente e si maledisse da sola per aver desiderato la presenza della sua mentore nel suo stato fisico già indebolito.

 

“Siete fortunati che Lyme sia fuori stanotte,” disse Brutus, leggendole nel pensiero. Ma i suoi occhi erano puntati su Cato. “Ovviamente dovrò riferirle l’accaduto. O almeno una parte.” Diresse la sua attenzione su Clove, “Dovrai farti sistemare questo piccolo infortunio prima dell’allenamento di domani. Non puoi andartene in giro con quei lividi. Non favorisce la nostra immagine.”

 

Per non parlare di quanto poco l’avrebbe favorita durante l’allenamento.

 

Un sorriso sinistro s’insinuò sul suo viso mentre giocherellava con il coltello di Clove. Non si era nemmeno accorta che l’avesse raccolto.

 

“Devo dire che siete di gran lunga i tributi più esuberanti che il nostro distretto abbia avuto da un po’ di tempo a questa parte. E vuol dire davvero molto. I vostri caratterini vi procureranno un bel po’ di sponsor. E il vostro slancio ad uccidere…” La sua voce calò di un’ottava. “…vi porterà lontano nei giochi. Non sono stato all’allenamento con voi ma da quello che mi avete detto gli altri tributi quest’anno sembrano ancor più deboli del solito.”

 

Era vero. I distretti costituivano scarsa competizione per il Due quell’anno. Clove li aveva osservati durante l’allenamento; il ragazzino storpio del Dieci, la coppia di spilungoni allampanati del Sei, il ragazzo malnutrito del Nove, la ragazza dell’Otto che sembrava sempre sul punto di piangere, la ragazza del Dodici che tentava sempre di imparare a fare i nodi e che appariva solo leggermente più difficile da uccidere rispetto alla sorella al posto della quale si era offerta così audacemente, la ragazzina dell’Undici…

 

Allora la presenza enorme ed incombente del ragazzo dell’Undici si insinuò nella sua mente. C’era qualcosa di lui che la metteva a disagio. Lui avrebbe costituito della seria competizione. Forse era per questo.

 

Brutus la strappò ai suoi pensieri.

 

“Mi sembra che tutto preannunci un vincitore dal Distretto Due quest’anno,” disse e Clove non poté non notare i suoi occhi fissi su quelli di Cato. “Il mio consiglio per voi due è di controllare bene il vostro tempismo. Prima di tutto controllatevi fino ai giochi. Una volta che sarete là concentratevi per abbattere i tributi più deboli per primi. Usate il Distretto Uno finché la maggior parte della competizione sarà morta e allora uccidete anche loro due.”

 

Cominciò ad allontanarsi con il capo reclinato in avanti e un sorriso che mostrava tutti i suoi denti bianchi e lucenti.

 

“Allora, al momento giusto,” disse, “Potrete usare tutte le vostre forze per uccidervi a vicenda.”

 

E con ciò spense le luci, lasciando Clove e Cato di nuovo nell’oscurità. L’unica interruzione nel silenzio giunse da un punto sulle scale dove Brutus si fermò prima di chiudersi alle spalle la porta della sua stanza per dire “Buonanotte, ragazzi.”

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Capitolo 4
*** Il Negoziatore ***


Lyme camminava come se ogni passo sottraesse sempre di più alla riserva di energia già esaurita del suo corpo mentre Clove si trascinava accanto a lei. C’erano cerchi viola sotto ai suoi occhi che quasi eguagliavano il terrificante colore dei polsi di Clove, ora gonfi. La sua mentore non era tornata alla loro suite la sera prima fino a molto tempo dopo che Clove era già tornata a letto, pensando ad un milione di modi diversi per uccidere quel bastardo del suo compagno di distretto.

 

Ora si muovevano attraverso un dedalo di corridoi nello scantinato dell’edificio, dove si trovavano sia il centro d’addestramento sia l’infermeria.

 

Quella mattina, Brutus aveva aspettato finché Lyme non si era fatta strada pigramente giù dalle scale fino al tavolo interamente occupato per suggerirle con un tono piacevolmente divertito che forse avrebbe dovuto dare un’occhiata ai polsi del suo tributo. Dopodiché Lyme era scattata in piedi e aveva sbattuto la sua tazza di caffè sul tavolo con tanta forza da far sobbalzare persino Brutus. Ma quando aveva preteso di sapere com’era successo, lui aveva semplicemente fatto un cenno del capo verso Cato senza proferire parola. E allora in un lampo aveva afferrato Clove e l’aveva trascinata nell’ascensore.

 

Clove era profondamente stupita da come Brutus avesse la capacità di essere, anche di mattina, uno stronzo ostinato.

 

Tuttavia nonostante la sua reazione immediata, Lyme era stata in silenzio per la maggior parte della loro camminata. L’energia che aveva mostrato quando aveva visto i polsi danneggiati di Clove era sparita tanto in fretta quanto era esplosa. Solo quando furono giunte davanti alla porta dell’infermeria pose una mano sulla spalla di Clove e parlò.

 

“Cos’è successo?” disse. Era curioso che avesse aspettato tanto a lungo per porre quella domanda.

 

Ma Clove non voleva parlarne. Non perché le avesse dato fastidio, ma perché non voleva tutta l’attenzione che stava ricevendo per via dell’incidente. La faceva sentire indifesa. Quindi si limitò a scrollare le spalle.

 

Lyme non l’accettò come una risposta e Clove fu pervasa da un senso di fastidio. Non le piaceva sentirsi forzata a fare nulla.

 

“Perché dovrebbe importare?” ribatté.

 

Il volto di Lyme rimase impassibile mentre continuava ad attendere. Clove strinse i denti. Non poteva vincere.

 

“L’ho minacciato e quindi mi ha stretto i polsi,” disse, tralasciando il discorso del coltello. Se non altro Brutus era stato così gentile da non informare Lyme che il suo tributo aveva tentato di accoltellare Cato la notte prima.

 

Per un attimo non sembrò che fosse stata una risposta soddisfacente ma Lyme alla fine aprì la porta con un sospiro di esasperazione. Ma prima di lasciare che Clove entrasse, Si piegò verso il suo orecchio.

 

“Non fidarti di Brutus,” mormorò.

 

Quando le parole finalmente iniziarono ad assumere un significato, Lyme era già a metà del corridoio.

 

**

 

Meno di un’ora dopo il dolore e il gonfiore dei suoi polsi era stato ridotto ad una quantità quasi inesistente grazie ad un gruppo di dottori dai colori vivaci e ai loro aghi. In effetti, la leggera macchia dove si trovavano una volta i lividi erano l’unico segno dell’esistenza dell’infortunio.

 

Tutto il danno era stato annullato. O almeno… la maggior parte.

 

Voleva ancora il sangue di Cato. La notte precedente si era fatta la piccola promessa che, prima di ucciderlo, si sarebbe assicurata di tagliargli via le mani con la sua stessa spada.

 

Ma questo non era il pensiero principale nella sua mente mentre andava dall’infermeria al centro d’addestramento. Non riusciva a smettere di pensare al semplice avvertimento della sua mentore.

 

Non fidarti di Brutus.

 

Che cosa significava? L’unica conclusione a cui riuscì a giungere fu che Brutus volesse farle del male. L’aveva già ipotizzato data la gloria che un mentore riceveva quando il loro tributo risultava vincitore. Ma forse era peggio di quanto pensasse data la reazione di Lyme quella mattina. Non poteva esserne certa. Ad ogni modo quell’avvertimento era superfluo.

 

Clove non si era mai fidata di Brutus.

 

Mentre svoltava l’angolo per arrivare al centro d’addestramento, dovette fermarsi all’improvviso per evitare di scontrarsi con Lux.

 

L’adorabile tributo del Distretto Uno era impegnata a sistemarsi la chioma bionda in una coda di cavallo morbida sulla spalla con le mani eleganti. I suoi occhi verdi adocchiarono la minuta Clove che era così diversa da lei nell’aspetto in tutti i sensi possibili. Invece che essere alta e atletica, era bassa e aveva ancora un corpo da bambina; invece di un viso stretto dagli zigomi alti e dalla pelle di luna, aveva un volto spigoloso con una spruzzata di lentiggini sulle guance e sul naso; invece di occhi smeraldini incorniciati da ciglia scurite dal mascara, aveva occhi grandi, tondi e di un verde così scuro che spesso da lontano la gente pensava fossero neri, o più realisticamente marroni.

 

Le sue labbra perfette si incurvarono in un sorriso compiaciuto. “Buongiorno Clove,” disse con dolcezza.

 

Clove le rispose aggrottando la fronte. Non vedeva l’ora di tagliarle via quella bocca dalla faccia.

 

Marvel, il suo compagno di distretto, stava accanto a lei a braccia conserte. Come al solito il suo viso pulito appariva assolutamente indifferente. Come Lux, aveva i capelli biondi appena mossi in onde sinuose, zigomi alti e il volto magro. Il suo naso sottile era quasi sempre arricciato verso l’alto come se non avesse potuto sopportare di respirare l’aria delle persone inferiori attorno a lui. Era alto quasi come Cato ma nemmeno lontanamente muscoloso come lui, ma questo era ovviamente una questione di conformazione. Come il Distretto Due, anche il Distretto Uno allenava i possibili tributi sin dalla tenera età e sceglieva ogni anno quali avrebbero potuto partecipare ai giochi.

 

Dei due, Marvel era di gran lunga la minaccia maggiore. Aveva un’abilità senza precedenti con le armi, specialmente se si trattava di lance. Persino Cato che era bravo a brandire quasi qualsiasi cosa non riusciva a scagliare una lancia contro un bersaglio bene quanto Marvel. Lux costituiva comunque una valida rivale: Clove l’aveva osservata una volta mentre inarcava la schiena con la leggerezza e la grazia di una ballerina, per poi tagliare un fantoccio in due in un colpo solo con una spada da duello. Ma nonostante ciò non aveva speranze contro il suo compagno altezzoso.

 

Gli occhi blu e freddi di Marvel saettarono sulla mano di Clove, saldamente fissata al fianco, che nascondeva le bende avvolte attorno ai polsi. Si ricordò troppo tardi che aveva dimenticato di toglierle. 

 

“Ti stavamo aspettando,” disse.

 

Ora che aveva sistemato i capelli, Lux sbirciò dietro a Clove come se stesse nascondendo qualcosa dietro alla schiena. “Dov’è Cato?” chiese.

 

Con un tempismo perfetto l’ascensore si aprì rivelando nient’altro che lo stronzo in persona, e a giudicare dalla sua espressione era più seccato del solito. Clove si chiese se la sua mentore l’avesse redarguito.

 

Lux fu l’ultima a voltarsi a guardare Cato. Ma a Clove non sfuggì il modo in cui fece scorrere attentamente le mani sullo spandex che le avvolgeva le cosce, poi sul suo didietro perfettamente scolpito per poi appoggiarle sui fianchi scoperti. Nemmeno a Cato era sfuggito. Rimase fermo nell’ascensore per un attimo, squadrando il suo corpo.

 

“Buongiorno Cato,” disse con indifferenza, ma una volta che si fu girata un sorrisetto comparve sul suo viso.

 

Marvel gli fece soltanto un cenno e sospirò, “E ora ne mancano solo due. Sono sempre in ritardo.”

 

Cato chiuse il cerchio, appena più vicino a Lux che a Marvel, come Clove non poté fare a meno di notare. Ma i suoi occhi ora si erano posati sulle bende di Clove. E iniziò a sorridere.

 

Ovviamente.

 

“Come procede la guarigione?” le chiese.

 

Clove voleva prenderlo a pugni. Ma si accontentò invece di riprodurre nella sua testa il modo in cui si era piegato in due la notte prima dopo che gli aveva tirato un calcio dritto negli organi di cui, in quanto femmina, non si doveva mai preoccupare.

 

“Bene, e a te?” disse.

 

Le sue narici si allargarono lievemente ma il sorriso gli rimase incollato in faccia. “Non c’e male. Del resto, io non ho avuto bisogno di essere portato in infermeria questa mattina per il mio infortunio.”

 

Con il sorriso più dolce e femminile che riusciva a fare, lei rispose “Non ancora, per adesso.”

 

Poi l’ascensore si aprì per far uscire i tributi del Distretto Quattro. Erano entrambi alti e abbronzati, dal torso lungo e dalle gambe muscolose conferite da una vita passata a nuotare. Il ragazzo pareva quasi un pesce per il modo in cui i suoi grandi occhi marroni erano collocati distanti l’uno dall’altro sulla faccia. Persino i lati delle sue guance squadrate si infossavano in un modo così strano quando parlava che sembrava avesse le branchie. Clove non ricordava mai il suo nome, e quindi si riferiva a lui come Testa di Pesce. La ragazza aveva una chioma di ricci crespi del colore della sabbia che scendevano lungo la sua schiena scurita dal sole. Clove sapeva che il suo nome era Marina perché spesso la coglieva mentre la scrutava con cautela negli occhi blu cielo. La piccola lumaca di mare la temeva. E Clove ne era felice.

 

Mentre facevano tutti la loro entrata in gruppo nel centro d’addestramento, Lux trottò accanto a Clove.

 

“Allora, cosa è successo ai tuoi polsi?” la stuzzicò, divertendosi parecchio.

 

Clove fu rapida a trovare una risposta che sapeva per certo l’avrebbe infastidita.

 

“Beh ecco è stato ieri notte e santo cielo… Non potrei dirlo a dire il vero. Il nostro mentore era così arrabbiato quando ci ha beccati però,” disse, aggiungendo un risolino piazzato ad arte. “Cato fa davvero meraviglie con le mani che si ritrova.”

 

Il messaggio era già chiaro ma solo per divertimento Clove sollevò le mani sopra la testa come se qualcuno gliele stesse tenendo ferme. La reazione sul viso di Glimmer fu immediata. Le sue sopracciglia arcuate si abbassarono e le sue labbra si schiusero in un’espressione che comunicava sorpresa se non addirittura disgusto. Mentre aumentava il passo per allontanarsi da Lux, Clove poté giurare che i suoi occhi smeraldo fossero ancora rivolti verso di lei.

 

**

 

L’allenatore che gestiva la stazione di lancio dei coltelli decise di aumentare un po’ la difficoltà quando fu il turno di Clove: dopo due giorni di allenamento era diventata la sua preferita.

 

I fantocci iniziarono a muoversi automaticamente da un lato all’altro, avanti e indietro. L’allenatore le si avvicinò con un baule pieno fino all’orlo di coltelli di ogni tipo. Diversamente da quello con cui aveva quasi accoltellato Cato la notte prima, questi erano fatti specificamente per le persone, non per il cibo. Prese in mano il primo con delicatezza come se la fretta avesse potuto romperlo. Era totalmente un’illusione, però. Il coltello era degno di nota per la forma, con un’impugnatura di cuoio spessa e una lama che non era mai stata toccata.

 

Con la forza e la precisione guadagnati grazie ad anni di pratica, lanciò il primo coltello dritto al centro del bersaglio sulla testa del fantoccio più lontano. Le piaceva sempre abbinare una faccia ad ogni manichino: quello era la ragazza del Quattro. Subito dopo venne il ragazzo del Sei. Con un po’ più di aggressività stavolta, scagliò il coltello contro il secondo bersaglio.

 

Ancora una volta, non lo mancò. Il coltello tracciò in aria una linea diretta dentro l’occhio del manichino.

 

Quattro, morta. Sei, morto. A chi sarebbe toccato ora? Si girò verso il resto del centro e scandagliò i tributi che vagavano di stazione in stazione, alla ricerca di un candidato interessante. Poi i suoi occhi si posarono sul retro di una testa i cui capelli scuri erano acconciati nella solita treccia. Il sorriso che già era sul suo volto divenne malefico.

 

Sì, lei sarebbe stata perfetta. La ragazza in fiamme.

 

Clove selezionò un coltello sofisticato stavolta, solo il meglio per la cara piccola minatrice. Questo era più pesante, e si presentava con un po’ più di difficoltà rispetto ai precedenti. Il fantoccio che si muoveva lateralmente più vicino a lei, e quindi quello che andava più veloce, all’improvviso aveva la pelle olivastra e un paio di saggi occhi grigi. Con un grugnito impercettibile lanciò il coltello e questo si conficcò esattamente dove lei aveva previsto.

 

Dritto nel cuore.

 

Qual era il suo nome, poi?

 

Katniss.

 

L’applauso dell’allenatore la riportò al centro d’addestramento. Lo ignorò, all’improvviso di cattivo umore alla realizzazione del fatto che quello era solo allenamento e quelli erano solo manichini. Una sconfinata sensazione di vuoto si impadronì di lei come spesso accadeva. Era così concentrata nel tentativo di provare qualcosa che quasi non si accorse di Cato prima di inciampare in lui.

 

“Sta’ attento!” sibilò, nonostante fosse stata lei a scontrarlo.

 

“Scusami,” mentì lui. Poi con un cenno del capo verso il punto in cui Marvel e quelli del Distretto Quattro si trovavano, un paio di stazioni più in là, aggiunse “Ci chiamano.”

 

Quando raggiunsero Marvel, i suoi occhi blu scuro erano fissati su qualcosa dall’altro capo del centro d’addestramento. A Clove non servì molto tempo per capire cosa stesse guardando: era un ragazzo che poteva essere descritto accuratamente come una gigantesca nave in un mare di nullità.

 

Si stava allenando da solo alla sua stazione, le sue mostruose braccia scure sollevarono un’ascia la cui lama doveva essere stata della dimensione del torso di Clove. Il modo in cui colpiva con essa lo faceva sembrare un gigante di montagna uscito da una delle poche fiabe che aveva sentito da piccola. Proprio come uno di quei giganti, il suo volto determinato sarebbe tranquillamente potuto essere sporco del sangue di bambini mentre si concentrava sul suo prossimo avversario-fantoccio con i suoi inquietanti occhi dorati.

 

Poi, come se la sua ascia fosse stata leggerissima, la fece oscillare attorno al suo corpo e tagliò quello del manichino con una linea verticale che partiva dalla testa. Una tecnica così si poteva acquisire solo con anni di allenamento. Solo che quel ragazzo non si era mai allenato, almeno non stando a ciò che lei sapeva del suo Distretto. L’Undici era uno dei distretti più poveri di tutta Panem.

 

Quella mossa aveva convinto Marvel.

 

“Potremmo decisamente usarlo,” annuì. Dal modo in cui l’aveva detto, sembrava stesse concordando sul prezzo finale di un diamante o di uno degli altri beni di lusso che il suo distretto produceva.

 

“Ma ovviamente,” aggiunse con un sospiro, “La decisione non spetta solo a me.”

 

La sua espressione era di nuovo distante quando si voltò verso Cato. Nonostante non l’avessero concordato a parole, Cato era stato nominato leader del gruppo. In fin dei conti, era il più forte, il più aggressivo e il più instabile. Sembrava quasi che avesse ottenuto lo status di divinità fra di loro e che una sola mossa che l’avesse irritato avrebbe causato la loro fine. Tuttavia, Marvel faceva parecchia fatica ad adeguarsi. Clove immaginava che fosse perché in vita sua non si era mai dovuto subordinare a nessuno.

 

Cato scrutò il ragazzo dell’Undici con gli occhi socchiusi. “Ci dirà di no,” disse con un intuito sorprendente.

 

“A noi?” disse Marvel divertito. “Mi sembra altamente improbabile.”

 

“Viene dall’Undici,” disse Cato. “Non accettano volentieri i Distretti i cui abitanti non sono coperti di sporcizia.”

 

I tributi del Quattro stavano ancora fissando il ragazzo dell’Undici con gli occhi sgranati, ed era ovvio che concordassero con Marvel. Ma nessuno voleva opporsi a Cato.

 

Capendo che rischiava di perdere, Marvel si voltò verso Lux che si trovava alla stazione più vicina a loro con un arco pronta a tirare.

 

“Lux!” intimò. “Vieni qua!”

 

La distrazione di sentire il suo nome pronunciato in maniera tanto irrispettosa fece sì che la traiettoria della sua freccia quasi mancasse il bersaglio del tutto. I suoi occhi verdi si strinsero mentre lo guardava ma si girò comunque e consegnò di malavoglia l’arco al suo istruttore. Poi si trascinò verso di loro.

 

“Guarda,” disse lui mentre si avvicinava, indicando con la testa l’Undici. Ora si stava allontanando dalle asce per andare, fra tutte, alla stazione delle piante commestibili. Ma Clove vide il motivo.

 

La ragazzina del suo distretto gli stava facendo dei gesti concitati con un’espressione di gioia sul visetto da bambina.

 

Lux contorse la bocca di lato riflettendo, sembrava un coniglio quando mastica l’erba. Poi il suo sopracciglio si sollevò.

 

“Sarebbe una risorsa,” disse.

 

I tributi del quattro ancora in silenzio annuirono con approvazione. Allora si girarono tutti verso Clove.

 

Una nube nefasta sembrava seguire il terribile tributo ovunque andasse. Clove riusciva quasi a vederla quando lo guardava. Non aveva alcun senso; Cato era grosso quanto lui, forse persino di più. Eppure la prima volta che aveva conosciuto Cato non aveva provato la stessa cosa che provava anche solo osservando quella gigantesca creatura da lontano. Era una sensazione che le diceva di non volerlo nella sua squadra. In effetti, più lontano si fosse tenuta da lui durante i giochi, meglio sarebbe stato.

 

Era così insolito da parte sua, e lei stessa lo sapeva. Ma non c’era modo di negarlo: Clove aveva paura del ragazzo dell’Undici.

 

“No,” disse. “Prima lo uccidiamo, meglio è.”

 

“Vince la maggioranza,” disse Marvel in un tono che non ammetteva repliche, tuttavia i suoi occhi scattarono verso Cato. Solo che Cato non stava guardando Marvel, stava guardando Clove.

 

Questa era tutta l’approvazione di cui Marvel aveva bisogno.

 

Così come Cato era diventato il leader non dichiarato del gruppo, Marvel ne era diventato il portavoce, l’abile negoziatore. Era il ragazzo immagine dei Favoriti di quell’anno.

 

Ciò nonostante, il tributo del Distretto Uno aveva molte facce.

 

Quando era con Clove e con il resto del loro branco, era spesso spento e privo di qualsiasi espressione. Quando recitava per Capitol City, era carismatico e socievole, e sapeva esattamente come muoversi davanti alla folla. Quando incedeva in mezzo agli altri tributi, era altezzoso e terrificante a modo suo, con gli occhi gelidi e la sua eccezionale bravura a maneggiare le lance.

 

Ma quando si avvicinò al ragazzo dell’Undici, la facciata che scelse di indossare fu la solita: fredda e indifferente.

 

Cato lo seguì subito dietro e Clove decise che era sensato che lei andasse con lui. Erano quelli del Distretto Due, il vero fattore intimidatorio. Ma ogni passo che compiva sempre più vicino all’Undici si sentiva tutto tranne che intimidatoria.

 

Non appena li vide, l’Undici fece un gesto alla ragazzina che stava appollaiata dietro di lui. Clove notò con sorpresa che quella ragazzina li squadrava con più coraggio di alcuni tributi grandi due volte lei.  Non si mosse finché Undici non la mandò via.

 

Per qualche ragione una domanda uscì dalla bocca di Clove senza che ci avesse davvero pensato.

 

“Come si chiama?” sussurrò a Cato.

 

Cato non la stava guardando; tutta la sua concentrazione era su Undici. Ma le rispose lo stesso.

 

“Thresh.”

 

Thresh.

 

Dare un nome a quel volto la fece sentire un po’ meglio. Era la prova che quella creatura era almeno umana. Ma non la aiutò a calmare i nervi mentre Thresh si spostava per incontrare Marvel a metà strada. E di certo non si tranquillizzò quando poté vedere la faccia di Thresh e più specificamente i suoi occhi da vicino. La sua espressione era dura come la roccia. Era davvero come un gigante. Un gigante che avrebbe probabilmente strappato Marvel lo spilungone precisamente a metà. Che cosa stava succedendo? Non poteva esserne sicura. Ma Marvel doveva avergli offerto di entrare nel loro gruppo esclusivo perché ora Thresh stava aprendo la bocca per rispondere.

 

“No,” disse, la sua voce come un tuono.

 

Marvel lo guardò come se non avesse capito bene. “No?” ripeté.

 

“No.”

 

Marvel piegò la testa da un lato e un sorriso divertito curvò le sue labbra verso l’alto come se l’enorme ragazzo avesse appena fatto una battuta divertente.

 

Tu stai rifiutando noi,” ridacchiò. “Beh, ad ognuno il suo immagino.”

 

Clove voleva voltarsi e andarsene lì e ora, ma Cato si intromise.

 

“Grave errore,” disse. C’era un sorriso cupo sulla sua faccia ma la sua voce era quasi un ringhio.

 

In quel momento Cato appariva terribilmente minaccioso. Ma a Thresh non serviva tutta quell’animosità, rimase perfettamente immobile e l’effetto fu lo stesso. I loro occhi inusuali si fissarono, firmando un accordo comune che non aveva bisogno di parole: ad un certo punto dopo il suono del cannone a segnalare l’inizio dei giochi, sarebbe stato uno dei due ad uccidere l’altro. Poi senza avvertimento quegli occhi dorati si diressero su Clove.

 

All’istante fu sopraffatta dal desiderio di correre. Ma invece per ripicca puntò i piedi saldi a terra ed inarcò la schiena. Lui non avrebbe saputo quanto la terrorizzava. E poi, da cosa doveva essere terrorizzata in realtà? Era un essere umano. I suoi coltelli sarebbero stati tanto efficaci nell’abbatterlo quanto lo sarebbero stati per abbattere la sua piccola compagna di distretto.

 

Ma per qualche ragione mentre cercava di immaginarsi le sue armi predilette che lo mutilavano, la sua mente le mostrava solo una visione dli lui che se le sfilava dal corpo come fossero state nulla più che fastidiose spine. Era molto più facile immaginarselo mentre la sua forza bruta la sopraffaceva, come quella di Cato aveva fatto la notte prima. Solo molto peggio.

 

Nonostante il coraggio momentaneo, quando Thresh staccò gli occhi dai suoi, si ritrovò ad indietreggiare verso Cato. Era solo un piccolo movimento in sostituzione al nascondersi del tutto dietro di lui.

 

Contro di lei, il petto di Cato era duro ma irradiava calore. E il suo corpo esile si incastrava con quello di lui allo stesso modo frastagliato ma perfetto in cui due pezzi di pietra possono ancora combaciare dopo essere stati appena tagliati. Un soffio del suo respiro raggiunse i ciuffi che sporgevano dalle trecce di lei. Il suo cuore batté forse tre volte dietro alla sua testa. Per il momento, i suoi nervi furono calmati.

 

Poi realizzò cosa stesse facendo.

 

All’istante si staccò da lui. Perché era appena successo tutto ciò?

 

All’inizio pensò di non voltarsi a guardarlo, aspettandosi di vedere un sorrisetto o magari di sentire la classica domanda che sembravano porsi l’un l’altra in continuazione: “Hai paura?” Ma quando la curiosità ebbe la meglio, l’espressione che gli vide in volto era totalmente atipica; la stava squadrando con perplessità e sembrava… confuso. Come se lei fosse stata un rompicapo complicato che lui non riusciva a decifrare. Non c’era nemmeno un’ombra di sarcasmo sul suo viso. Non l’aveva mai visto così spontaneo.

 

Quando Marvel li superò a grandi falcate, stava ancora mettendo in discussione Cato e la sua stessa sanità mentale. Ma quello era il segnale che bisognava tornare al gruppo.

 

La negoziazione aveva avuto fine, la loro richiesta era stata rifiutata.

 

Tuttavia Clove era certa che Cato dicesse davvero quando aveva detto a Thresh che la sua decisione era un errore.

 

**

 

Marvel stava ancora blaterando del Distretto Undici mentre si sedevano nella mensa di fronte al centro d’addestramento.

 

“Dev’essere apatico. Onestamente non riesco a capire questi provinciali,” disse, indicando con una mano la maggior parte dei presenti nella sala. Alcuni dei tributi che si trovavano vicino a loro sollevarono lo sguardo dopo il gesto, e poi tornarono a mangiare a testa bassa.

 

La risata stridente di Cato riverberò dolorosamente nelle orecchie di Clove. Aveva davvero bisogno di essere sempre così odioso?

 

“Ti importa così tanto?” disse Cato, e poi aggiunse con tono più grave, “Sarà divertente da uccidere.”

 

Uccidere. Quella parola restò sospesa nell’aria per un attimo e portò con sé una cappa di intensità che ricoprì tutti loro. Clove si raddrizzò.

 

“Forse per te.”

 

Fu la voce ariosa di Marina a rompere il silenzio. I suoi lineamenti si indurirono mentre proseguiva, “Ma noialtri non siamo alti un metro e novanta e resistenti come dei muri.”

 

Non era un complimento. Le sue parole erano piene di risentimento. Clove percepì i suoi occhi stringersi mentre analizzava la ragazza che ora teneva la testa bassa e fissava lo strano pane sul suo piatto con amarezza. Il pane era punteggiato di alghe verdi.

 

Soltanto quella mattina, in una dimostrazione che persino Clove non poteva negare essere irresistibilmente letale, quella stessa ragazza aveva scagliato in un unico gesto fluido un arpione contro un manichino a sei metri di distanza per poi attiralo rapidamente abbastanza vicino a sé da sgozzarlo con forza.

 

Ma ora, mentre si mordeva il labbro e teneva gli occhi vitrei fissi sul piatto, era innegabilmente patetica.

 

Questa dimostrazione di debolezza pareva imperdonabile. Magari il suo posto era con gli altri tributi che sedevano soli ai tavoli con simili espressioni in volto; pena, amarezza, sconfitta. Marvel stava probabilmente pensando la stessa cosa, perché per un attimo Clove incrociò i suoi occhi blu e pensò di aver capito al volo.

 

L’avrebbero tenuta con loro?

 

Ciò che costituivano- Cato, Lux, Marvel, Marina, Testa di Pesce e lei stessa -era un’alleanza temporanea i cui membri si accordavano per non uccidersi fra di loro finché tutti gli altri avversari fossero stati annientati. Clove non lo dimenticava mai. Si rifiutava di far trasparire qualsiasi emozione davanti a queste persone o di mostrarsi vulnerabile in loro presenza anche solo per un minuto. Perché quando fossero rimasti solo loro, cosa che di certo sarebbe avvenuta, allora sarebbe iniziato il vero spettacolo.

 

Le finali più brutali erano sempre fra i Distretti Uno, Due e Quattro. Talvolta questi scontri erano talmente interessanti che gli Strateghi non dovevano nemmeno inserire artificialmente catastrofi meteorologiche o mutanti. Si ricordava di un’edizione in cui, subito dopo che i tributi meno forti erano stati massacrati, i restanti sei si erano scontrati sui cadaveri e il vincitore era stato dichiarato meno di un quarto d’ora dopo. Ecco quanto tempo era servito perché si rivoltassero gli uni contro gli altri.

 

E quell’anno sapeva che non sarebbe stato diverso.

 

A dirla tutta, all’interno del gruppo non si stavano simpatici affatto. Mettevano su una buona facciata in presenza degli altri tributi a scopo intimidatorio. Ma nonostante le occhiate amichevoli e le pacche scherzose, quasi tutta la conversazione, specialmente fra Marvel, Lux, Cato e Clove, era accuratamente calcolata, e la maggior parte delle frasi avevano un secondo significato nascosto sotto. La tensione fra di loro era quasi sempre alta, e Clove immaginava che sarebbe solo salita non appena avessero messo piede nell’arena.

 

Si chiese quale sarebbe stato lo scontro finale. Chi sarebbe rimasto? Perché se Marina o Testa di Pesce fossero stati ancora vivi, sarebbero certamente stati i primi ad essere uccisi. Ma poi chi? Forse Marvel si sarebbe voltato all’improvviso tentando di infilzare Cato, che fisicamente era la minaccia più grande? O Forse Lux avrebbe escogitato qualcosa di subdolo, come sparire per un po’ finché non fosse rimasto solo uno di loro per poi tornare con un attacco inaspettato? O molto semplicemente Cato li avrebbe finiti tutti prima che chiunque avesse potuto fare qualsiasi cosa?

 

Clove realizzò che se si fosse arrivati alla fine, la realtà non sarebbe stata nessuna di quelle appena ipotizzate.

 

Lei sarebbe stata la prima ad attaccare.

 

Sarebbe stato così facile e veloce colpirli tutti alla gola con un coltello. Ma non sarebbe stato molto divertente, o no? Sarebbe stata l’ultima occasione di uccidere della sua vita, anche se non fosse morta nell’arena. Avrebbe dovuto far sì che fosse memorabile. Chi avrebbe lasciato per ultimo? Lux magari? La sua faccia non sarebbe più stata così bella se Clove avesse avuto modo di calarvi sopra il coltello. E perché non Marvel? Che cosa avrebbe fatto se fosse riuscita in qualche modo a trattenerlo a terra sotto di lei, così tanto più in basso rispetto al suo alto cavallo su cui era solito sedere?

 

Poi la sua mente viaggiò su Cato. Lui sarebbe stato la sfida maggiore. Con entrambe le loro armi sarebbe stato il combattimento migliore di sempre. Lui poteva anche avere la sua forza bruta e la sua potenza, ma lei aveva agilità e tecnica. Una spada non era difficile da schivare, e nemmeno una lancia. Ma lui avrebbe avuto difficoltà. Lei non era solita mancare un bersaglio in movimento.

 

Il suo capo biondo cenere era leggermente inclinato e la sua bocca si stava tendendo in un minuscolo sorriso mentre i suoi occhi vuoti affondavano in Marina. Stava pensando di ammazzarla, Clove poteva leggerlo nell’immobilità del suo corpo.

 

Oh, che coppia perfetta che erano i tributi del Distretto Due.

 

Poteva anche non fidarsi di Brutus, ma l’ordine in cui uccidere che lui aveva suggerito era corretto. Eliminare la concorrenza, eliminare il Distretto Uno, e tenersi per ultimi. E poi, anche nella morte i tributi venivano messi in una classifica. Perciò non era forse un modo per far onore al suo distretto, se sia il primo che il secondo posto fossero stati occupati dai suoi unici due tributi?

 

“Beh,” la voce profonda di Marvel interruppe la quiete. Il bicchiere che si era portato alla bocca non copriva del tutto il suo sorriso. “Non si sa mai quali sorprese potresti trovare nell’arena.”

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Capitolo 5
*** In fiamme ***


Un’altra notte calò davanti ai suoi occhi ben aperti. Silenziosa. Lenta.

 

Quando finalmente il sole fece capolino nel cielo rosa sopra agli edifici sfavillanti di Capitol City, la stanchezza e la frustrazione iniziarono ad appesantirla. Mentre si muoveva, la sua mente elaborò solo alcune immagini; piedi pallidi su un tappeto verde soffice, un asciugamano rosso appoggiato su un braccio, una grande porta bianca, un viso inerte che la fissava dallo specchio, gocce d’acqua da una doccia.

 

Ancora due giorni.

 

Il pensiero fu sufficiente a risvegliare i suoi sensi intorpiditi.

 

Ancora due giorni.

 

**

 

“Dormito bene, Principessa?”

 

Cato le regalò uno dei soliti sorrisetti mentre si trovavano assieme in ascensore, dopo aver notato i capelli scompigliati che lei aveva raccolto in un concio scuro e le ombre violacee sotto ai suoi occhi che quasi le sfioravano le guance. Non si erano visti quella mattina a colazione, avevano entrambi avuto un incontro privato con i rispettivi mentori. Quello era il terzo giorno d’allenamento e, di conseguenza, il giorno delle sessioni d’addestramento a porte chiuse.

 

Non era dell’umore per discutere con lui.

 

“Va’ all’inferno,” ribatté.

 

Le sessioni d’addestramento erano un’occasione per i tributi di mostrare il loro talento agli Strateghi e di ricevere un punteggio che sarebbe stato comunicato a tutta Panem. Ma in quanto tributo del Distretto Due, il punteggio di Clove avrebbe significato molto di più che un semplice bel numero per attirare sponsor. Sarebbe stato uno specchio non solo di quanto diligentemente si era allenata nel corso degli anni, ma anche della sua accademia, del suo settore, e dell’intero Distretto Due. dai tributi del suo distretto non ci si aspettava solo un punteggio alto; ci si aspettava il più alto. L’unica cosa più importante dell’ottenere un buon punteggio era vincere gli stessi Hunger Games.

 

In cambio della possibilità data ai tributi di partecipare ai giochi, un punteggio eccellente era un modo per ringraziare il distretto per aver garantito quell’onore e quel privilegio.

 

Ad ogni modo, Clove aveva molto di più da dimostrare di quanto un normale tributo del Distretto Due avrebbe dovuto.

 

I tributi normali del Distretto Due avevano diciassette o diciott’anni. I tributi normali del Distretto Due, anche le ragazze, erano enormi per stazza e potenza. I tributi normali del Distretto Due avevano una forza bruta che si rifletteva nel loro aspetto fisico.

 

Ed eccola lì, nemmeno sedicenne, esile e bassa; col viso giovane cosparso di lentiggini. Anche alla mietitura, l’espressione dei suoi compagni era stata più che chiara mentre passava loro davanti per andare sul palco: quella era il loro tributo femminile per quell’anno?

 

Ma lei era più che meritevole.

 

Non solo aveva superato tutte le ragazze più grandi della sua accademia in bravura, aveva anche superato tutte le ragazze di tutte le accademie esistenti nel suo distretto. Ottenere l’approvazione per potersi offrire volontari alla mietitura non era semplice. Numerosi candidati venivano selezionati da tutti i quattordici settori del distretto e poi giudicati da un comitato nell’arco di quaranta giorni. Era un duro lavoro ma alla fine un maschio e una femmina che si fossero dimostrati adatti avrebbero avuto l’approvazione per partecipare ai giochi. Durante la mietitura nel loro distretto, i nomi non venivano nemmeno più sorteggiati. Semplicemente c’era Pallas, che era l’accompagnatore di Capitol City per il loro distretto da quasi un decennio, che saliva sul palco a chiamare i volontari. Nessun tributo proveniente dal Due finiva negli Hunger Games per caso.

 

Ad ogni modo, se non avesse ottenuto un punteggio fenomenale, non avrebbe causato vergogna solo al suo distretto. Avrebbe causato vergogna a tutti gli insegnanti che aveva avuto negli anni e a tutto il suo settore. Non era comune che una persona così giovane potesse rappresentare il distretto che aveva reso gli Hunger Games una professione. Infatti, Lyme l’aveva informata solo quella mattina che era la concorrente più giovane del loro distretto in quarantacinque anni.

 

Dire che quello era un giorno importante per lei era un eufemismo.

 

“Non è carino da parte tua,” rispose Cato, proprio nel momento in cui le porte dell’ascensore si aprivano.

 

Nonostante fossero compagni di distretto, in questo caso stavano competendo l’uno contro l’altra. Anche se erano entrambi del Distretto Due venivano da settori totalmente differenti e di conseguenza accademie totalmente diverse; Clove dal settore sette che si trovava nella parte più orientale del distretto, più vicina a Capitol City, e Cato dal settore dodici che stava a nord. Mentre Clove aveva passato la vita in mezzo a strade ricche e pavimentate e privilegiati, Cato l’aveva passata in mezzo a muratori e alle montagne selvagge. Mentre la sua accademia era nota per la preparazione dei pacificatori, quella di lui produceva tributi violenti. E sempre riguardo alla gente del suo settore, questi erano noti anche per ben altro. Clove aveva sentito molte storie sui barbari rabbiosi e quasi privi di leggi del settore dodici, un luogo dove un piccolo litigio per un pezzo di terra poteva rapidamente trasformarsi in un combattimento cruento e mortale. Si diceva che la selezione naturale là valesse ancora per gli umani; i gracili e i deboli venivano uccisi prima che potessero riprodursi, e quelli fisicamente forti si accoppiavano e mantenevano il settore funzionante. Non c’era da meravigliarsi che Cato fosse così duro.

 

Quando entrarono nel centro d’addestramento la prima coppia che videro furono Marvel e Lux i quali, dopo averli visti, voltarono loro le spalle.

 

La piccola rivalità fra Clove e Cato per ottenere il punteggio maggiore per rappresentare il loro settore non era nulla in confronto alla competizione generale per ottenere i punteggi migliori e rappresentare il Due. Era cruciale per ottenere il supporto di Panem e l’onore per il loro distretto provando che erano migliori degli altri. Tuttavia, quasi ogni anno i tributi dei Distretti Uno, Due e Quattro ottenevano punteggi simili. Clove non ricordava nemmeno un’edizione in cui tributi minori avessero ottenuto punteggi più alti di questi.

 

Cato sogghignò alla vista di Marvel e Lux che facevano del loro meglio per evitarli mentre li superavano.

 

“Brutus te l’ha detto?” chiese Clove.

 

“Sì,” disse Cato. “Non mi sorprende. Quei coglioncelli  frivoli.

 

A quanto pareva era abitudine dei tributi del Distretto Uno ignorare completamente tutti gli altri tributi il giorno delle sessioni private, compresi quelli del loro branco. Clove immaginava fosse uno stupido stratagemma per mostrare la loro superiorità. Non significava che l’alleanza fosse rotta. Era solo una tradizione del distretto.

 

Il Distretto Due non aveva bisogno di una simile idiozia. La loro preminenza derivava direttamente dal loro nome.

 

Testa di Pesce si avvicinò a loro; agitandosi con tanta energia che sembrava volesse saltare sui muri, come al solito. Quel ragazzo camminava come un maledetto cagnolino. Ad ogni modo, la testa color sabbia della sua compagna poteva essere vista mentre gli oscillava dietro e puntava dritta verso la stazione di Lux.

 

“Ah, Finnick le ha detto di non parlare con loro,” disse Testa di Pesce.

 

Osservarono mentre Marina si appoggiava alla rastrelliera delle varie spade con un sorriso che non sarebbe potuto essere più falso di così. Lux dava loro le spalle ma Clove era certa che l’espressione non fosse ricambiata.

 

Quando Marina arrivò dov’erano, il suo sorriso sera trasformato in un ghigno.

 

“Che c’è?” chiese innocentemente in risposta ai loro sguardi perplessi. “Volevo solo farle un saluto.”

 

Forse la piccola lumaca di mare aveva più fegato di quanto Clove avesse pensato. Ma ciò non avrebbe reso ucciderla meno allettante

 

**

 

L’allenamento era inclemente quel giorno.

 

Era come se gli altri tributi fossero stati invisibili. La tensione fra i Favoriti era così tangibile che Clove riusciva a percepirla attorno a sé mentre camminava. Era uguale anche per gli altri. Scorse Cato che fissava Marvel subito dopo aver dato una dimostrazione feroce di come si tagliavano via tutti e quattro gli arti di un fantoccio in meno di un minuto. Vide Marvel sorridere soddisfatto in maniera irritante dopo aver colpito con la lancia il centro di un bersaglio a più di venti metri di distanza. Lux rivolse lo sguardo verso Clove pensando di non essere vista. Persino Marina, che probabilmente si sentiva terribilmente cazzuta quel giorno, riuscì a fare un sorrisetto a Clove dopo aver fatto il suo solito giochetto con l’arpione.

 

Ciò era sufficiente a far ridere Clove. Stupida ragazza. Stupida, stupida lumachina di mare.

 

Quei suoi occhi blu le sarebbero stati cavati dalle orbite entro pochi giorni.

 

Clove era la prossima per il combattimento corpo a corpo, che per sua somma gioia si faceva in mezzo alle stazioni attualmente occupate dai suoi colleghi Favoriti.

 

Ora gli avrebbe fatto vedere lei.

 

Alla sua vista, l’alto istruttore fece un cenno ad una donna in un’altra stazione. Ma Clove scosse il capo.

 

“No,” disse. “Voglio te.”

 

L’istruttore la squadrò.

 

“Non so se è una buona idea,” disse con esitazione.

 

Ho detto,” ripeté Clove con lentezza, “Che voglio te.”

 

“D’accordo,” ribatté l’allenatore, divertito dalla sua mancanza di rispetto. “Molto bene allora.”

 

Negli anni passati all’accademia, aveva imparato qualcosina sui punti di pressione nel corpo umano che era sufficiente a compensare la sua bassa statura e il suo scarso peso. Era il suo talento nascosto: forse non era in grado di abbattere le sue vittime con la sola forza, ma poteva metterle alle strette con una serie di attacchi mirati in zone specifiche solo con le mani, e tenerle a terra quanto voleva. Se era abbastanza precisa, poteva anche stordirle.

 

Era come uno scorpione: letale, rapida, velenosa.

 

Allora perché era nervosa per la performance di quel giorno? Quando fosse arrivato il momento, sarebbe stata perfetta.

 

Ma per ora si stava esibendo per i suoi alleati.

 

L’allenatore si mise in posizione di fronte a lei ma la sua postura era totalmente scorretta. Stava già iniziando a fare errori.

 

Lei si concentrò su varie parti del suo corpo e il diagramma studiato all’accademia prese vita davanti ai suoi occhi.

 

Una goccia di sudore gli rotolò lungo la clavicola. Arteria succlavia. Un muscolo si tese nel suo braccio. Brachiale. Un ciuffo di peli rossi che gli copriva l’orecchio e scendeva fino ai lati del viso. Superficiale temporale. L’elastico blu dei suoi pantaloncini. Iliaca. La parte interna della sua coscia. Femorale.

 

“Ora, cominceremo con qualcosa di facile, quin- AGH!”

 

Prima ancora che lui potesse finire la frase lei l’aveva già attaccato. Due dita indice nella sua zona pelvica erano bastate a farlo cadere a terra. Teneva le mani attorno alle sue braccia, spingendo sui punti sensibili sotto ad esse. I suoi piedi stavano sulle sue gambe, il suo corpo era inarcato come quello di un gatto mentre soffia.

 

“Cosa?” chiese timidamente.

 

Lui se la scrollò di dosso e riassunse la posizione, più in allerta.

 

“Bene,” disse con un tono così grave che solo lei poté udirlo. “A quanto pare abbiamo una professionista.”

 

I distretti non erano tecnicamente ‘autorizzati’ ad avere delle accademie. Ma tutti sapevano della loro esistenza. Gli altri distretti lo sapevano -per questo definivano i tributi dell’Uno, del Due e del Quattro i ‘Favoriti’. Capitol City sapeva della loro esistenza. Il Presidente stesso aveva fatto visita alla sua accademia quando lei era solo una bambina.

 

Per questo non era sicura del perché l’allenatore avesse messo tanta avversione nel modo in cui le aveva quasi sputato le parole contro. Forse perché l’aveva umiliato. O magari perché aveva qualche tipo di legame con i distretti inferiori. Ad ogni modo, non le importava.

 

La seconda volta, poiché se lo aspettava, fu più difficile da battere. Le afferrò subito il braccio destro ma prima che potesse fare lo stesso per il sinistro lei riuscì a conficcare due dita nel punto di pressione nel lato superiore della mascella- superficiale temporale. Poi con un calcio rapido al punto femorale, lo batté nuovamente.

 

Riuscì a fare la stessa cosa per altre tre volte anche se non consecutivamente, ma era comunque un buon risultato considerando che era grosso due volte lei.

 

I volti stupiti che la circondavano ne erano la prova. Certi appartenevano agli allenatori, altri ai tributi. Aveva guadagnato un discreto numero di spettatori.

 

La loro paura era inebriante.

 

Testa di Pesce aveva totalmente lasciato perdere il suo coltello e la fissava in una maniera decisamente appropriata al suo soprannome. Marina voltò a testa non appena Clove si voltò a guardarla ma a quest’ultima non erano sfuggiti i denti conficcati nel labbro della ragazza. Marvel era concentrato sul bersaglio alla sua stazione, forse un po’ troppo concentrato. Lux la scrutava con gli occhi a fessura.

 

Quando trovò Cato, la sua espressione non era come quella degli altri. Stava sorridendo.

 

Non solo non era ad una stazione, ma non stava nemmeno facendo finta di essere impegnato in qualcosa. Si trovava in piedi a nemmeno dieci metri da lei con le braccia incrociate. La sua testa era leggermente piegata di lato come se avesse appena visto una curiosa esibizione di strada, e stava con la schiena appoggiata ad un muro. La sua postura era totalmente rilassata. Ma i suoi occhi trasmettevano qualcosa del tutto differente.

 

L’intensità di quelle iridi glaciali avrebbe potuto soffocarla.

 

All’improvviso non appariva più così rilassato. Il modo in cui il suo petto si alzava e si abbassava, le dita piantate nella carne dei suoi bicipiti, i denti digrignati dietro al sorriso…

 

Dovette spostare lo sguardo altrove. Ma anche quando se ne fu andata dall’allenatore e si fu spostata ad un’altra stazione, si sentiva comunque esagitata. Qualcosa nel suo corpo pulsava e l’elettricità sembrava scorrerle nelle vene. Quegli occhi l’avevano inebriata.

 

**

 

Distretto Due - ragazza.”

 

La voce automatica risuonò negli altoparlanti della mensa. Clove si alzò con sicurezza.

 

Sperava che gli Strateghi fossero pronti per lei. era un peccato che lo spettacolo migliore della serata arrivasse così presto.

 

Cato stava gironzolando fuori dal centro d’addestramento mentre lei entrava. Sembrava tronfio, ma in realtà cosa poteva mai aver fatto di così speciale? Probabilmente aveva affettato un paio di fantocci. Niente che non avessero mai visto fare prima da un Favorito ben piazzato.

 

“Vedi di non tagliarti le dita,” le sussurrò mentre le loro spalle si sfioravano.

 

Bastardo.

 

Gli Strateghi erano tutti allineati nelle loro poltrone viola sovrastanti il centro. Sedevano attenti, alcuni con le mani intrecciate, altri mormorando fra di loro. La prova di Cato doveva essere stata particolarmente buona. Il capo degli Strateghi era seduto davanti. Le fece un cenno d’assenso.

 

Dopo aver ricambiato bruscamente il gesto si voltò e marciò verso la rastrelliera con le armi.

 

Oh.

 

Era davvero una vista spettacolare; coltelli e spade e asce di ogni tipo, sospesi sul velluto blu notte, luccicanti nella luce fioca come una piscina d’acqua alla luce della luna. Se avesse potuto sarebbe rimasta più a lungo lì, a far scorrere le dita sulle varie lame, ad ammirare la più fine opera d’artigianato, ma aveva uno scopo da raggiungere.

 

Con una cintura di coltelli sofisticati sui fianchi, si diresse al centro. Gli Strateghi la osservavano con curiosità. Bene, aveva la loro attenzione.

 

Un esercito di busti umani le stava di fronte. Assunse la posizione.

 

In precedenza quel giorno lei e Lyme avevano pianificato tutta la dimostrazione. Ci sarebbero stati tre atti letali.

 

Il primo atto era la velocità.

 

I suoi coltelli sibilarono nell’aria sottile mentre ognuno di essi giungeva esattamente sul bersaglio. Non ci fu nemmeno un istante in cui meno di due coltelli furono in aria allo stesso tempo: prima ancora che il primo avesse tempo di raggiungere la destinazione ne lanciava subito un altro. In sette secondi, dodici tristi busti se ne stavano sconfitti sui loro piedistalli davanti a lei, ognuno con un coltello piantato nel cuore.

 

Alcuni degli Strateghi annuirono ma la maggior parte restarono immobili. Non erano palesemente impressionati ma andava bene così. Non si aspettava che lo fossero ancora.

 

“Possono muoversi?” chiese, assicurandosi di aggiungere dolcezza alla sua voce.

 

A questo punto molti degli strateghi presero ad annuire e a rumoreggiare. Il capo degli Strateghi, il cui cognome era abbastanza certa fosse Crane, fece un gesto diretto ad un angolo della stanza. Il personale rimosse busti e li sostituì con dei manichini interi, posizionandoli su delle righe nel pavimento.

 

“Grazie,” disse, ed era certa di non essere mai suonata così educata in vita sua.

 

Il secondo atto era la precisione.

 

Si allontanò ancora di più. I manichini iniziarono a muoversi tutti in direzioni differenti. Alcuni erano rapidi, alcuni lenti.

 

Non importava quale fosse la loro velocità reale, lei li vedeva tutti immobili mentre il tempo rallentava. Un respiro ininterrotto le risuonò nelle orecchie. Le sue dita si strinsero sul coltello.

 

Lux le stava correndo davanti, la più veloce di tutte. Thwack. La ragazza del Dodici si muoveva verso il fondo, la sua treccia scura volava al vento. Thwack. La rossa del Cinque girava in tondo. Thwack. Marina, che era rimasta a guardare mentre gli altri morivano ora scappava da lei, terrorizzata. Thwack. Il ragazzo dell’Undici tentò di proteggere la sua amichetta. Thwack. Thwack.

 

Ne restava uno. Si fermò un attimo.

 

Cato stava puntando contro di lei, con la spada sguainata.

 

Fece oscillare un braccio attorno al corpo con forza il coltello finale volò dritto nella sua testa.

 

Il ronzio dei sussurri riportò la sua attenzione sugli Strateghi. Parlavano fra di loro con eccitazione. Persino Crane sedeva con i gomiti sulle ginocchia e la testa appoggiata ai palmi, osservandola con  intensità.

 

Li aveva tutti in pugno.

 

“In cerchio?” chiese.

 

Crane annuì e gesticolò verso il personale di nuovo.

 

Il terzo atto era l’agilità.

 

Ora i corpi di plastica si muovevano attorno a lei, molto distanti l’uno dall’altro. Chiuse gli occhi.

 

Quando li aprì si trovava nell’arena che aveva visto qualche anno prima. Era davvero piuttosto bella, un campo vasto e aperto fatto interamente di alti cespugli di lavanda. Era un mare viola. La maggior parte dei tributi quell’anno noni erano nemmeno mossi subito dai loro piedistalli, tanto erano incantati.

 

Nonostante la sua bellezza, tuttavia, doveva essere stata una delle arene più letali degli Hunger Games che avesse mai visto. Nessun luogo verso cui correre. Nessun luogo in cui nascondersi.

 

3…2…1.

 

Partì e conficcò un coltello nel suo primo ostacolo, il ragazzo del Cinque. Dopo di lui ecco Brutus, che correva verso di lei con la clava sollevata. La evitò rotolando a terra e comparve dietro di lui, piantandogli il coltello nella schiena. C’era di nuovo Lux, che stavolta puntava verso di lei. Clove evitò un fendente della sua spada e la colpì allo stomaco. Fece una svolta rapida e lanciò velocemente un coltello nella gola di Pallas che stava fermo con espressione inebetita nel campo. Accanto a lui c’era Lyme-

 

No, un momento. Non era Lyme. No, no. Lyme non era lì.

 

Era la ragazza dell’Otto. Sì, ecco di chi si trattava. La stupida ragazzina dell’Otto che tirava sempre su con il naso. Un altro coltello tagliò l’aria e atterrò nel suo occhio sinistro. Si voltò. Il ragazzo del sette ora la inseguiva, brandendo l’ascia che probabilmente sapeva maneggiare dalla nascita. Si scansò, evitandolo per un pelo. Poi gli saltò alla schiena, emettendo il grido di un animale mentre gli tagliava il collo con il coltello.

 

Il tempo si era fermato. Le piante di lavanda si muovevano ancora nel vento.

 

Percepì un respiro, il suo. Un battito cardiaco, il suo.

 

Respira. Rilassati. Rilassati.

 

Applausi.

 

Per primi tornarono i muri grigi del centro d’addestramento. Poi l’alone aranciato delle luci. Il ronzio delle voci.

 

Le sessioni private. Gli Strateghi. Giusto.

 

Quasi tutti erano in piedi ora. Alcuni avevano la bocca aperta dallo stupore. La guardavano, poi si guardavano fra di loro. La maggior parte sorridevano. Erano deliziati. Cane aveva gli occhi sgranati. Un sorriso gli illuminava il viso.

 

Aveva fatto centro.

 

Una performance perfetta.

 

“Grazie,” disse, con un piccolo inchino del capo.

 

**

 

Era sera inoltrata e Cato e Clove sedevano rigidamente fianco a fianco sul divano circondati dai loro concitati team di preparazione, stilisti, mentori e ovviamente dall’accompagnatore di Capitol City, tutti in attesa che venissero trasmessi i loro punteggi. L’intera squadra si era riunita per questo.

 

Normalmente i loro stilisti stavano da parte. Erano due donne alte, lunghe, simili a modelle con i loro zigomi modificati chirurgicamente e dei tatuaggi attorno agli occhi. Dal momento che erano del Distretto Due, Cato e Clove avevano il privilegio di avere due delle stiliste più in voga di tutta Capitol City al loro servizio. Gli unici tributi ad avere una coppia migliore erano quelli dell’Uno, ma non era una novità dal momento che era l’unico distretto a parte Capitol City ad interessarsi ad un capriccio come la moda.

 

In quel momento stavano chiacchierando con rabbia del Distretto Dodici. Clove riusciva a sentire lo strano odore di vino e naftalina che emanava la sua stilista. Il suo nome era Faun.

 

“-Cinna. Non so nemmeno da dove sia sbucato. Quello che ha fatto è stato tremendamente azzardato. Forse troppo azzardato per un debuttante,” sibilò con la sua voce profonda. “Non fraintendermi, i loro costumi erano carini. Ma il concetto mi è parso un po’ stupido. E ora chiamano quella ragazzina- oh, qual’è il suo nome? Ah, sì, Katfish, la chiamano ‘La Ragazza in Fiamme.’ Ma sul serio, essere in fiamme? Per me è semplicemente-“

 

Clove si distrasse rapidamente dal discorso. Pallas stava in piedi accanto allo schermo della televisione, e come al solito appariva nervoso. Perché era sempre così teso? I componenti dei loro team di preparazione multicolore erano qua e là, pronti a scattare agli ordini delle stiliste, rimbalzando da una angolo all’altro della stanza. Erano stancanti anche solo da guardare.

 

I loro mentori stavano appollaiati dietro di loro. Lyme era immobile, e i suoi occhi erano concentrati sullo schermo anche se al momento erano in onda solo pubblicità di Capitol City. Brutus era un po’ più vitale, prendeva in giro Pallas, rideva rumorosamente e beveva liquori.

 

Ma nessuno stava seduto sul divano a parte Cato e Clove. I due non si guardavano, non parlavano. Fissavano solo la televisione.

 

All’improvviso l’emblema di Capitol City apparve sullo schermo. Lyme alzò il volume, nonostante nulla a parte l’inno risuonasse durante la trasmissione. Era uguale ogni anno: l’inno suonava in sottofondo, una foto del tributo appariva sullo schermo, assieme al loro sesso e al simbolo del distretto con il loro punteggio lampeggiante sotto.

 

Marvel fu il primo. Aveva ricevuto un dieci. 

 

La reazione di Brutus rispecchiò i pensieri di Clove.

 

Merda,” borbottò. I pugni di Cato si contrassero. Era un male per loro. Se Lux avesse ottenuto lo stesso punteggio, il Distretto Uno avrebbe avuto un punteggio totale di venti.

 

Ma non era questo il caso. Con estremo piacere di Clove quando apparve il volto di Lux sullo schermo, sotto di esso lampeggiava il numero otto, un punteggio piuttosto basso per un Favorito.

 

Clove trattenne il fiato. Erano i prossimi.

 

Brutus chiuse le mani sulle spalle di Cato e le scosse leggermente mentre entrambi fissavano lo sguardo sullo schermo.

 

Cato aveva ricevuto un dieci.

 

Immediatamente emise un grido, Brutus colpì il suo petto con un pugno emettendo un lieve tonfo e gridò “Ah ha!

 

Clove percepì la mano tiepida di Lyme appoggiarsi sulla sua spalla mentre la sua immagine compariva sullo schermo.

 

Dieci.

 

Beh, non era più alto del punteggio di Cato ed erano già stati in tre a riceverlo, ma ad ogni modo, era buono. Non aveva portato vergogna al suo distretto. Magari non era l’unico punteggio più alto, ma era comunque il più alto. E di certo gli altri tributi non avrebbero fatto di meglio, dubitava che persino quelli del Quattro ci sarebbero riusciti. La competizione peggiore era già passata.

 

Il suo dieci lampeggiante aveva zittito le urla di gioia di Cato e Brutus.

 

Quando torse il collo per incontrare il volto del suo mentore, il suo punteggio iniziò a sembrare sempre di più un buon traguardo. Clove per poco non si contorse quando Lyme le arruffò capelli giocosamente, un gesto che lei non si sarebbe ami aspettata da quella donna minacciosa e stoica.

 

“Gliel’hai fatta vedere tu,” sussurrò.

 

Naturalmente, un contatto fisico così improvviso suscitò una reazione violenta in Clove. Ma la represse perché altrimenti l’avrebbe indirizzata su Lyme.

 

Si voltò quindi verso Cato, sicura di esibire un ghigno. La sua espressione era glaciale nonostante il suo sorrisetto sarcastico.

 

“Immagino che siamo pari,” disse.

 

“Sì,” disse Clove. “Immagino.”

 

Le squadre di preparazione applaudivano ed esultavano. Pallas parve respirare. Brutus chiese ai Senzavoce di portargli del whiskey.

 

Ora toccava al Distretto Quattro. Testa di Pesce aveva ricevuto solo un otto, e Marina un sorprendente nove. Ma comunque, non li avevano battuti.

 

“Ah,” sospirò Faun. “Questo significa che abbiamo i punteggi più alti quest’anno!”

 

Clove si sentiva bene ora. La sua reazione iniziale al punteggio ricevuto era stata causata in parte dalla sua natura ipercritica e in qualche modo cinica. Un dieci era buono. Anche se sia lei che Cato l’avevano ricevuto, non era necessariamente un punteggio standard per un tributo del Distretto Due. E ciò mostrava il suo valore. Lei non era da sottovalutare. Era pericolosa. Sarebbe stata un avversario serio. Aveva portato onore al suo distretto. I suoi pensieri si soffermarono vagamente sull’accademia, sui suoi vecchi insegnanti che annuivano con approvazione e indicavano la televisione, dicendo agli studenti di prendere nota.

 

Aveva dato motivo d’orgoglio al settore sette. Lyme aveva ragione. Gliel’aveva fatta vedere. A tutti.

 

Clove era così presa da sé stessa che quasi non se ne accorse. Se non fosse stato per gli urli di Brutus o per i suoi pugni che fecero agitare il divano con tanta forza da farla volare giù, avrebbe potuto sfuggirle. Ma eccolo lì, proprio davanti ai suoi occhi.

 

il simbolo del Distretto Dodici. La ragazza dall’espressione di pietra e dalla pelle olivastra. E l’undici che lampeggiava sotto al suo nome.

 

**

 

COSA?” strillò Clove. Schizzò su dal divano come un proiettile.

 

Un undici? La ragazza del Dodici, il più povero, il più disgustoso, il più patetico distretto di tutta Panem, aveva ottenuto un punteggio più alto del suo?

 

Il tavolino di legno all’improvviso stridette contro il pavimento, ribaltato di lato. I soprammobili ridotti a schegge acuminate. Cato stava ruggendo.

 

Quella fottuta puttana!

 

Quei dannati Strateghi erano forse ciechi? Si trattava di uno scherzo?

 

Clove non si era allenata per più di metà della sua vita per essere surclassata da una sporca piccola provinciale che doveva tornarsene da dov’era venuta: a vivere in una capanna e a rotolarsi nella merda.

 

Il suo distretto, il suo onore, tutto all’improvviso era in fiamme. La rabbia si gonfiava nel suo corpo. Era una cosa dotata di vita propria, respirava e la consumava di tanto in tanto. Era un’entità, un mostro, un vecchio amico. Ed era dappertutto adesso. Nelle sue vene pulsanti, nelle sue labbra tremolanti, nelle mani che si agitavano, nelle gambe irrigidite.

 

Diversamente da Cato che ora aveva un pugno incastrato nel muro, non la possedeva. Al contrario bolliva e bruciava mentre la teneva tutta dentro.

 

Quella ragazza doveva morire.

 

Non in modo qualsiasi, però. No. Meritava qualcosa di speciale.

 

Una volta Clove aveva visto spellare un maiale. Era vivo mentre lo facevano. La bestia piangeva e grugniva mentre tentava disperatamente di scalciare via la presa degli aguzzini. I suoi occhi marroni e sporgenti imploravano in un linguaggio che non necessitava traduzione. Ma avevano continuato a strappare gli strati viscidi della pelle giallastra, ogni nuovo strato più rosso del precedente.

 

Come sarebbe stato farlo sulla ragazza del Dodici? Che suono avrebbero avuto le sue grida? Che aspetto avrebbe avuto la sua pelle olivastra mentre veniva strappata via dalla sua faccia? Sarebbe stata gialla come quella del maiale? Magari verdognola? Quando avrebbe iniziato a sanguinare? Ci era voluto un bel po’ per il maiale. Solo quando avevano raggiunto lo strato roseo, venato e pulsante dei suoi muscoli il sangue aveva cominciato a colare in rivoli dai grumi di grasso biancastro…

 

La stanza era precipitata nel caos. Cato sembrava rompere qualcosa di nuovo ogni volta che una nuova ondata di rabbia si abbatteva su di lui. Brutus stava urlando al nulla. Pallas agonizzava per via del buco nel muro. Le stiliste e i team di preparazione stavano ai lati, attenti a non intralciare nessuno. Poi Lyme si diresse verso Cato per trattenerlo.

 

A Clove ci volle un po’ per quantificare il danno. Il tavolo i cui graffi marcavano righe profonde sul pavimento. Il buco nero irregolare che si spalancava davanti a loro come una bocca nel muro.

 

Dopo aver guardato nel vuoto oscuro del buco, il resto della nottata andò perduto per lei. La gente le parlava, le camminava davanti. Ad un certo punto doveva essere finita nel letto. Ma la sua mente era diventata un muro impenetrabile che bloccava fuori tutto ciò che le stava attorno, cosicché entro i suoi confini un solo nome potesse alimentare quel fuoco ardente.

 

Katniss. Katniss. Katniss.

 

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Capitolo 6
*** Mostri e marionette ***


Erano le due del mattino, ma Brutus sapeva dove trovarlo.

 

Le luci dell’ascensore assalirono i suoi occhi. Erano troppo potenti. Sulle etichette dei pulsanti sembravano esserci lettere piuttosto che numeri, ma sapeva che non poteva essere così; non aveva bevuto così tanto liquore. Ma aveva bevuto abbastanza da avere difficoltà a decifrare i simboli. Le porte dell’ascensore si erano chiuse già da un po’ quando finalmente riuscì a premere il bottone con sopra il numero 12.

 

Era tutto silenzioso nel corridoio buio che le porte rivelarono una volta aperte. Brutus rimase immobile finché non udì un tintinnio attutito e non scorse una luce da qualche parte in fondo al salone. La seguì.

 

L’uomo malconcio che stava cercando era seduto solo e accigliato in una stanza destinata ai Senzavoce, e tentava di placare i suoi tormenti con una bottiglia di liquore.

 

Brutus lo conosceva da qualche anno. Erano vincitori, erano stati mentori assieme. Nonostante ciò, era difficile dire se l’uomo lo detestasse completamente o meno, considerando il fatto che i tributi di Brutus sembravano uccidere i suoi ogni anno.

 

“Haymitch, mio vecchio amico.”

 

Il rumore inaspettato fu sufficiente a far saltare Haymitch giù dallo sgabello, scagliandolo diversi metri dietro di lui, e agitare un coltello nell’aria un paio di volte prima che realizzasse chi aveva davanti. I suoi occhi grigi iniettati di sangue si strinsero.

 

“Che cazzo ci fai qui, Brutus?” biascicò. Come suo solito era ubriaco. Forse anche più del solito.

 

“E’ una buffa storia, in effetti,” disse Brutus. “Un paio di ore fa ho avuto il piacere di contrattare con il proprietario dell’edificio su quanto mi verrà a costare il fatto che il mio tributo abbia aperto un fottuto buco nel nostro muro con un pugno. Così per farmi passare il mal di testa, mi sono fatto una bevuta. Ma poi ho esaurito le scorte del mobile-bar giù da noi.”

 

Haymitch prese un’altra sorsata. Quando la bottiglia colpì il tavolo con un tonfo disse con un tono secco, “Avresti semplicemente potuto ordinare dell’altra roba.”

 

“Beh, magari volevo un po’ di compagnia,” rispose Brutus.

 

Per parecchi minuti nessuno si mosse, Brutus rimase fermo sulla soglia, Haymitch continuò a guardarlo di traverso dal suo posto al tavolo. Dopo un po’ sollevò la bottiglia verso lo sgabello di fronte al suo, versò il liquore in un bicchiere pesante e lo fece scivolare in direzione di Brutus.

 

“E’ stata una mietitura interessante per te quest’anno,” disse Brutus.

 

L’unico suono che ricevette in risposta fu Haymitch che deglutiva. Poi agitò la mano, ignorando il commento. “Per favore, dimmi il vero motivo-“ si interruppe per emettere un rutto che pareva portasse con sé altro oltre al semplice gas, “-per cui sei qui.”

 

Brutus decise quale approccio adottare. Il silenzio calò di nuovo su di loro.

 

“Come ha fatto?” chiese finalmente.

 

Il sorriso sul volto di Haymitch aveva un che di sinistro. “Pensi davvero che te lo dirò?”

 

Brutus sentì la sua calma divenire sempre più sottile, così anziché assecondare la rabbia si allontanò un po’ dal tavolo e piegò indietro la testa per versare il contenuto del suo bicchiere in gola. Era forte. Era davvero forte. Haymitch non beveva roba leggera.

 

Quando aprì la bocca per espirare l’aria della stanza gli parve fredda. All’improvviso la nebbia che gli offuscava lo sguardo si addensò.

 

“Non ero sicuro di cosa pensare,” disse, piegando la testa di lato con un sonoro scricchiolio. “E’ solo che è una svolta incredibile. I tuoi tributi di solito escono con quanto? Un quattro… un tre… quest’anno non solo hai un otto ma addirittura un undici.”

 

“C’è una prima volta per tutto,” disse Haymitch. “Di solito i tuoi tributi non si mettono a rompere il muro a forza di pugni.”

 

Ancora silenzio. I due uomini si appoggiarono ai rispettivi schienali, osservandosi pigramente con i loro occhi socchiusi. Brutus ad un certo punto si piegò sul tavolo. Stava sorridendo.

 

“I tuoi tributi moriranno, Haymitch.”

 

Haymitch si lasciò andare ad uno scoppio di riso amaro. Poi sbatté il pugno sul tavolo e spalancò gli occhi. Le sue iridi grigie brillavano. I suoi denti erano digrignati dietro al sorriso. “No, merda. Non è lo scopo del gioco? Ventitré di quei tributi moriranno.” Si portò di nuovo la bottiglia alle labbra.

 

“Oh no, no, no sarei dovuto essere più specifico,” disse Brutus. “I miei tributi vogliono il loro sangue. No, forse dovrei dire il suo sangue. Sarà proprio uno spettacolo quando la prenderanno. Avresti dovuto vedere il fuoco negli occhi del mio ragazzo quando ha visto quell’undici.”

 

Haymitch rimase impassibile mentre si rigirava la bottiglia tra le mani. “Sono certo che ce n’era un po’ anche nei tuoi,” disse.

 

Brutus rimase infastidito dall’osservazione, pur essendo alticcio.

 

“Può darsi,” sorrise. “Non è molto importante come io mi sia sentito, però. Non ci sarò io in quell’arena. Ad ogni modo, dovrebbe essere un’edizione interessante quella di quest’anno… per entrambi.”

 

Haymitch era concentrato sulle venature nel tavolo di legno. Un ghigno lentamente si schiuse sul suo volto finché non divenne un sorriso da un orecchio all’altro.

 

“Ah ma non lo è forse ogni edizione, Brutus?” disse.

 

Poi all’improvviso divenne isterico, sfrenato come un bambino. La sua risata maniacale vibrò nei muri della stanza. Riverberò contro le pentole e le padelle appese sul lavandino. Soffocò la voce di Brutus che lo ringraziava per la bevuta e si allontanava dal tavolo. La risata seguì lungo il corridoio e dentro l’ascensore. Lo seguì dritta fino al secondo piano.

 

**

 

Anche se non sognava, Clove vedeva comunque delle cose nel sonno. Spesso erano ricordi, ricordi della giornata precedente, ricordi risalenti a molto tempo prima, pensieri ricorrenti. Nonostante ciò, sparivano in fretta.

 

I suoi momenti di riposo, quando c’erano, erano un paio di ore in cui il suo corpo soccombeva alla stanchezza, mentre lei entrava e usciva da uno stato di semicoscienza. Qualche volta veniva svegliata dalla sua stessa voce, altre volte dal suono di altre voci, reali o immaginarie. Quella notte vide immagini incise su un muro grigio.

 

Una nube tempestosa, un albero,mostri, bambini, sua madre, cavalli, un angelo, un ragno, un demone.

 

Poi vide un altro muro. Era blu stavolta. E non era sfocato, ma nitido e dettagliato. Questo muro era reale, era il suo soffitto. Il soffitto della sua stanza d’albergo. Era a Capitol City, attendeva l’inizio degli Hunger Games.

 

Ancora un giorno.

 

Si mise a sedere nel letto.

 

Quello era l’ultimo giorno. Il giorno seguente sarebbe stata nell’arena.

 

Sapeva che il sonno non le sarebbe tornato, così si alzò e iniziò a camminare per la stanza. Il giorno seguente era tutto per lei. Tutto quello per cui si era allenata per tutta la vita. L’emozione prese a farsi strada da qualche parte nel suo stomaco e all’improvviso le sembrò come se avesse pervaso tutto il suo corpo. Non riusciva a trattenersi. Il cuore le batteva forte, i suoi piedi si mossero rapidi uno davanti all’altro sempre più rapidamente.

 

Chi avrebbe ucciso per primo? Importava? No, no, non importava. Perché avrebbe ucciso. La sensazione, quella sensazione, oh come desiderava provarla in quel momento. Desiderava in un modo quasi disperato sapere cosa si provasse.

 

Le sue mani si strinsero in dei pugni. Non aveva senso fare una doccia. Innumerevoli mani colorate non vedevano l’ora di tirarla a lucido quel giorno. Non vedevano l’ora di creare la loro piccola bambola da presentare a Capitol City. Quella sera si sarebbero tenute le interviste.

 

A Clove non importava nulla.

 

Era tutto solo una distrazione. Non le importava cosa Capitol City pensasse di lei in quel momento. Il punteggio dell’allenamento le era servito solo per ripagare il suo distretto, e ora niente era più dovuto. Ora si trattava solo di ciò che lei voleva e desiderava. E lei voleva entrare in quell’arena.

 

Aveva camminato per la stanza per ore, o forse anni. Ad un certo punto un pugno bussò alla sua porta e fu inondata di luce viola cavolfiore.

 

Ancora solo un giorno.

 

**

 

Degli uomini vestiti di grigio erano intenti a riempire il buco nel muro con qualcosa di denso e blu. I loro guanti bianchi vi passarono sopra più e più volte, per chiuderlo. Clove lo guardò chiudersi come l’occhio di un gigante addormentato.

 

“State attenti!” intervenne Pallas. Indicò il muro con il dito accusatorio e tozzo. “Non muovetevi troppo in fretta. Voglio un lavoro ben fatto!”

 

E poi l’ometto, che quella mattina era vestito come una caramella, spostò gli occhi piccoli per guardare storto Cato. Il loro accompagnatore di Capitol City era di umore particolarmente cattivo dopo il brutto tiro giocato dal ragazzo la sera prima. Non aveva più intenzione di nascondere il suo disprezzo per loro.

 

Clove realizzò che il suo compagno di distretto non doveva aver dormito troppo bene. Sembravano esserci ombre permanenti nelle pieghe delle sue labbra e nell’incavo delle guance. Piccole vene bluastre erano visibili sotto ai suoi occhi. Quelle vene colpirono Clove. Non importava quanto spessa la sua pelle potesse essere da qualsiasi parte, era comunque delicata sotto gli occhi. Era difficile pensare che qualcosa in Cato fosse delicato, ma era un essere umano e gli esseri umani hanno la pelle sottile e delicata sotto agli occhi.

 

Stava usando un cucchiaio per rimescolare qualsiasi cosa ci fosse nella sua tazza, producendo un ipnotico tintinnio che si fermò solo quando si rese conto che Clove lo stava fissando. Immediatamente si raggelò e la intrappolò nel suo sguardo. La sua bocca si piegò in una linea dura.

 

Clove smise di guardarlo.

“Allora,” sospirò Lyme dal suo angolo del tavolo. “Abbiamo solo fino a metà del pomeriggio per prepararvi all’intervista di stasera. Il resto della giornata sarà lasciato ai vostri stilisti. Clove, finisci la colazione in fretta.”

 

Quando si alzò per seguirla, Lyme la condusse in una piccola stanza sul loro piano tappezzata di libri. Come al solito, la sua mentore andò dritta al punto. Clove si era a malapena seduta quando disse “Ti servirà un’immagine. Dobbiamo venderti a Capitol City.”

 

“Non mi interessa se piaccio o no,” sibilò Clove.

 

“Oh ma ti importerà,” disse Lyme. “E ha due opzioni: o ti interessa ora, o ti interessa nell’arena quando stai morendo di fame.”

 

Clove strinse i denti, ma lasciò da parte l’orgoglio e deglutì le parole che la sua bocca minacciava di far uscire.

 

“Ecco cos’ho pensato. Magari non vuoi sentirtelo dire, ma non sei il tipico tributo del Distretto Due. Sei piuttosto esile. Sarà facile che la gente ti sottovaluti. Perciò dovremo ritrarti sotto una luce che non dia loro modo di farlo. Sappiamo tutti che approccio userà Cato.”

 

Non era necessario che Lyme lo dicesse. Certo che sapevano tutti che cosa avrebbe rappresentato Cato per Capitol City. Sarebbe spiccato come l’uccisore violento e brutale di quell’anno. Avrebbe ottenuto molti sponsor. E non avrebbe nemmeno dovuto ‘fingere’ nulla. La sua arroganza fin troppo reale sarebbe bastata da sola per loro, ne sarebbero stati attratti come moscerini sulla frutta marcia.

 

“Ma per te voglio fare qualcosa che non sia sottotono e nemmeno che ti faccia sembrare troppo 

presuntuosa. Sei una ragazza, e sei giovane. Faun farà in modo che tu sia bellissima-“

 

Clove vide un’immagine mentale di sé stessa vestita di tulle, che ridacchiava e mandava baci volanti a Capitol City. “Io non sarò Lux,” sbottò.

 

Lyme immediatamente smise di parlare e scavò con lo sguardo dentro Clove. Il messaggio che doveva starsene zitta fu più che chiaro.

 

“Dovremo fare qualcosa per questo tuo caratterino,” disse dopo un istante. “Un anno ho seguito una ragazza che scelse questo approccio e non ho mai visto un tributo del nostro distretto con così pochi sponsor. A nessuno piace una ragazzina viziata.”

 

Clove continuò coraggiosamente a guardarla di traverso, ma dopo aver fatto un respiro profondo Lyme proseguì.

 

“Tu sarai pericolosa,” disse con tono decisivo.

 

Clove prese in considerazione l’idea. Pericolosa. La parola venne ripetuta più volte nella sua mente e il suo suono le piacque sempre di più. Se proprio doveva mettere su un teatrino per quelle bestiole ignoranti, non le sarebbe dispiaciuto interpretare quel ruolo.

 

“Fai capire che sei una forza da tenere in considerazione. Sarai convincente e ferma. Non ridere troppo, non fare troppi sorrisi. Ma non essere di pietra o troppo distaccata. Non essere umile ma allo stesso tempo nemmeno troppo sicura di te. Sii minacciosa ma non ti comportare come se sapessi di esserlo. Imponiti come una presenza che non verrà dimenticata. Le folle già sanno di te. La tua immagine finora è buona, il tuo punteggio è stato uno dei più alti-“

 

Clove strinse i pugni a questa frase. Non voleva parlare dei punteggi degli allenamenti. Non voleva nemmeno che venissero nominati. Lyme probabilmente se ne accorse e cambiò discorso.

 

“Ascoltami,” disse con severità. “Non sappiamo cosa sia successo al centro d’addestramento ieri. Potrebbe essere successa qualsiasi cosa. Ma devi ricordare sempre una cosa: tu vieni dal Due, lei dal Dodici. Non lasciare che ti faccia imbestialire. Questo consiglio potrebbe tornarti utile anche nell’arena.”

 

Ora Lyme era accucciata su un ginocchio davanti a lei, con gli occhi fissi in quelli di Clove.

 

“Mantieni il controllo,” disse. “Nel momento in cui lasci che la rabbia prenda il sopravvento, potresti essere finita. Capisci?”

 

Dire che la sua rabbia potesse prendere il sopravvento equivaleva a dire che non aveva un’influenza costante su tutto quello che faceva. Era il suo carburante. La sua motivazione. Provocava ogni pensiero che aveva. E non se ne andava mai. Ma era una parte di lei, e di certo non qualcosa che potesse controllare.

 

Ma annuì comunque.

 

Le poche ore che seguirono passarono mentre Lyme le spiegava come parlare e rispondere alle domande in un modo che si adattasse all’approccio che avevano scelto. Lavorarono sulla sua insolenza, che era difficile da sistemare. Lyme la fece camminare a grandi passi attraverso la stanza e le insegnò a tenere la schiena dritta senza gonfiare il petto. Si allenarono per l’intervista ma non tutto andò liscio come l’olio a causa della poca creatività di Lyme con le domande. Ad un certo punto Clove non riuscì più a trattenersi.

 

“Non mi interessano gli sponsor,” sbraitò, quasi allontanandosi con un salto da Lyme. “Non mi interessano i loro regali. Non mi serve che mi salvino. Non mi importa che vogliano che io vinca. Non mi interessa nemmeno vincere.”

 

I tratti di Lyme si accesero improvvisamente di furia. Clove non l’aveva mai vista lasciar trapelare così tanta emozione.

 

“Non ti interessa vincere?” abbaiò, la sua voce rimbombò per tutta la stanza. “Allora perché sei qui?”

 

Per un momento, Clove non riuscì a trovare le parole. Lo sguardo indistruttibile del suo mentore sembrava scioglierla. Le occorse un’eternità per prendere abbastanza coraggio da riaprire la bocca. Ma la sua risposta fu onesta.

 

“Voglio giocare,” disse.

 

Sedettero in silenzio per un bel po’. Il volto di Lyme divenne di pietra e Clove non riuscì più a guardarla. Si concentrò su un pezzetto di vernice che sembrava dovesse staccarsi dal muro da un momento all’altro, da qualche parte dietro la spalla sinistra di Lyme.

 

Fortunatamente però, riprese a parlare.

 

“Vedi di fare in modo che questa intervista vada bene se non altro per gli insegnanti e tutte le persone che si sono sicuramente fatte il culo per farti arrivare fino a qui,” disse. Poi si alzò per lasciare la stanza ma prima di andarsene si voltò leggermente continuando a dare le spalle a Clove e aggiunse:

 

“Non rovinare tutto mandando all’aria il tempo impiegato e i loro sforzi.”

 

E poi se ne andò. Clove rimase da sola nella stanza, notando senza troppa emozione come quasi tutto il calore presente se ne fosse andato con lei

 

**

 

“Oh, tesoro, bisogna proprio che ti spazzoli i capelli più spesso.”

 

Il colorato e cinguettante team di preparazione di Clove le aveva legato le braccia e le gambe ad una sedia ed ora una mano verde le stava tenendo giù la fronte mentre uno strano aggeggio le tirava i capelli e li faceva fumare. Ogni tanto le bruciava lo scalpo. Di certo doveva essere qualche forma di tortura. Forse sarebbe stato meglio se non avesse tentato di attaccare uno dei membri del team. Almeno non sarebbe stata legata.

 

Ormai da ore la stavano preparando come un pezzo di carne pregiata. Le avevano sfregato strane creme addosso e le avevano spolverato polveri di ogni tipo sul viso che ora le prudeva incredibilmente. Le sue ciglia erano state aggredite più di tutto, ora le sentiva pesanti sulle palpebre e la sua visione era oscurata da un tetto nero. Le avevano soffiato brillantini sulla faccia. Le avevano pitturato le labbra con qualcosa di freddo.

 

La porta della stanza si aprì ed entrò la sua stilista, Faun. I suoi tacchi esagerati ticchettarono mentre attraversava il pavimento di marmo eccessivamente bianco. Come al solito, un lungo bastoncino rosa era pigramente appoggiato fra le sue dita, e da esso fuoriuscivano nuvolette di fumo quando lo portava alla bocca e lo aspirava. Clove non aveva mai visto nulla del genere prima, ma aveva un odore stranamente naturale, specialmente per una persona il cui corpo poteva essere stato tutto modificato geneticamente.

 

La vista di Clove legata portò un sorrisetto sulle sue labbra gialle. “Ti sei comportata male di nuovo, cara?”

 

Clove detestava quella donna.

 

Per tutta risposta le lanciò un’occhiataccia. Una voce dal capo opposto della stanza strillò, “Mi ha aggredito con delle pinzette, Faun!”

 

Faun alzò gli occhi al cielo. “E’ per questo che prima devi fare la ceretta e poi puoi fare domande. Adesso fuori. Tutti quanti.”

 

In un batter d’occhio una dozzina di creature artificiali di tutti i colori dell’arcobaleno scapparono verso la porta come scarafaggi alla vista della luce.

 

“Ora,” disse Faun, percorrendo con un’unghia lunga e laccata la mascella di Clove, appena fuori dal suo raggio di morso. “Ho fatto una chiacchierata con il tuo mentore riguardo al tuo approccio per l’intervista. Il tuo vestito deve abbinarsi alla perfezione.

 

Fece un passo indietro e agitò le mani a mezz’aria lasciando una scia di nuvole leggiadre di fumo. “Se hai intenzione di apparire pericolosa allora sarebbe appropriato ritrarti come qualcosa di potente, qualcosa di immortale. Una creatura di straordinaria bellezza, giunta direttamente dal mondo ultraterreno. Un essere antico che non è condizionato dalle misure umane del tempo e dello spazio, della vita e della morte: una dea.”

 

Un sorriso apparve sul suo volto mentre cercava negli occhi di Clove una qualche forma di emozione causata dalle sue parole. Ma non c’era nulla. Il suo sorriso divenne una smorfia.

 

“Il tuo entusiasmo mi uccide, cara,” disse, e poi i suoi occhi si strinsero. “Ti libererò. Ma prima che tu faccia qualcosa di avventato permettimi di ricordarti che ci sono delle telecamere qui, che osservano ogni tua mossa. E che io sono una cittadina di alta importanza della bellissima Capitol City. Mentre tu, beh, fra meno di ventiquattro ore te ne starai ad agitarti nel fango e nel sangue.”

 

La sua palese paura fece sorridere Clove. “Oh, non oserei mai,” disse in tono di scherno.

 

Quanto avrebbe voluto che la sua elegante stilista fosse stata in quell’arena il giorno dopo.

 

Dopo essere stata slegata, costretta in una gabbia di vestiti e incastrata nei tacchi, poté avvicinarsi allo specchio.

 

Quando lo fece vide una strana creatura intrappolata all’interno. La scrutava con interesse da sotto le ciglia spesse e nere. Schegge dorate erano posizionate attorno agli angoli dei suoi occhi in un disegno intricato ma sobrio e le sue sopracciglia erano archi scuri perfettamente disegnati. La pelle del suo viso sarebbe potuta essere seta, perfetta e opaca senza la minima lentiggine a macchiare le sue guance morbide. Un lungo mantello di capelli neri come il petrolio scivolava lungo una delle sue pallide spalle, decorato da una serie di trecce.

 

La creatura giocherellava con il tessuto de vestito che la conteneva, del colore di un petalo di glicine. Fece passare una mano sulle piccole mezzelune dei suoi seni pallidi coperti da due drappi di organza che formavano una scollatura elegante ma pericolosamente profonda. Poi la mano sfiorò la pelle dei fianchi scoperti e delle gambe che si intravedevano tra cascate di organza che si increspavano sui fianchi. Le sue labbra dipinte si arricciarono.

 

Questa bellezza ultraterrena non era lei. Non era mortale. Era una dea.

 

Ed era molto, molto più grande dei suoi quindici anni.

 

Lyme sarebbe di certo stata contenta di ciò che la stilista aveva creato. Assieme, Clove e questa creazione avrebbero attratto molti sponsor quella sera.

 

La prima prova della sua efficacia la ricevette dopo che Faun l’ebbe spinta nel corridoio dove si trovò in piedi di fronte a Cato.

 

Alla vista di lei, diverse emozioni attraversarono rapidamente il suo volto. Inizialmente le sue sopracciglia si sollevarono per la sorpresa, poi i suoi occhi si strinsero, forse perché realizzò che con il suo solo aspetto fisico avrebbe costituito una seria competizione per ottenere il favore della folla. Ma poi i suoi lineamenti si fissarono in qualcosa che le ci volle un po’ a capire. Quando gli angoli della sua bocca si tesero in un sorriso, non era per schernirla. I suoi occhi si soffermarono su ogni sua curva. Poi quando sembrarono fermarsi sul suo petto, riuscì a decifrare l’espressione.

 

Fame.

 

Anche lui era di certo affascinante, o no? La giacca che indossava era cucita alla perfezione. Contornava le sue spalle larghe e si stringeva nei punti giusti sulle braccia. La camicia grigia al di sotto era sbottonata al punto giusto, mostrando la pelle del petto. I suoi capelli biondi, che in origine erano tagliati a spazzola, erano cresciuti parecchio da quando erano arrivati lì ed erano stati pettinati in maniera scompigliata ma attraente…

 

Interruppe il flusso del suo pensiero. Attraente? Aveva forse appena abbinato Cato alla parola ‘attraente’? Si prese un momento per determinare quanto questo fatto fosse scandaloso.

 

Beh, era molto mascolino. Una volta aveva visto lo aveva visto a torso nudo, illuminato dal sole che filtrava dalla finestra del treno che li stava portando a Capitol City. Era stato come guardare una statua vivente, scolpita alla perfezione, il tipo di statua che gli artisti antichi creavano un tempo per ritrarre i guerrieri o gli dèi. I pettorali e gli addominali definiti erano scolpiti nella pelle liscia in un modo che li faceva assomigliare alla pietra. E di viso non era certo brutto, ora che lo guardava meglio: la mascella prominente dalla linea decisa, zigomi alti che potevano essere stati disegnati dalla mano di un artista, labbra dalla forma perfetta…

 

D’accordo, magari era attraente. questo non avrebbe comportato alcuna differenza nell’ucciderlo. Forse l’avrebbe reso ancora più divertente. Si chiese se accoltellarlo alla pancia sarebbe stato simile come sensazione a quella di tagliare un’anguria.

 

Nonostante questi pensieri, Clove si premurò comunque di sfregare il fianco contro la sua gamba mentre gli passava accanto.

 

**

 

Le interviste si tenevano sul grande palco che stava di fronte alla piazza centrale sotto all’edificio dove si trovavano i loro appartamenti e il centro d’addestramento. Tutti e ventiquattro i tributi sarebbero stati seduti a semicerchio attorno a Caesar, cosicché tutti avrebbero potuto assistere alle interviste altrui dal vivo. Clove e Cato furono gli ultimi ad arrivare ed immediatamente furono trascinati via dai loro stilisti appena le porte dell’ascensore si furono aperte.

 

Furono strattonati troppo in fretta per Clove, che a malapena riusciva a camminare bene sui suoi tacchi, figurarsi ad alta velocità. Ma ad un certo punto sorpassò qualcosa che attutì tutto quel trambusto.

 

Era proprio in fiamme quella sera. I suoi occhi grigi non guardavano Clove, sembrava confusa e di fretta come tutti loro. I suoi capelli non erano raccolti nella solita treccia. Il suo volto non appariva smorto come di consuetudine. Oh, che bella che era.

 

Katniss. La sua dolce piccola Katniss.

 

Poteva sentire il suo profumo, tanto le era vicina. Così vicina. Abbastanza vicina che non le sarebbe servito nemmeno allungare un braccio per afferrarla alla gola…

 

La mano di Clove si mosse involontariamente dal suo fianco, ma la ragazza se ne era già andata. Stavano sorpassando gli altri tributi adesso, i loro corpi drappeggiati di tessuti di ogni tipo e colore. Poi furono depositati vicino a Marvel. Clove per poco non inciampò in lui. Quando si voltò verso di loro, la squadrò divertito.

 

“Vi hanno ripulito per bene, eh?” disse.

 

Assieme, lui e Lux rappresentavano il Distretto Uno fin troppo letteralmente: Marvel con il suo completo argentato che pareva essere fatto di metallo puro, e Lux con un vestito dorato praticamente trasparente che avvolgeva ogni curva del suo corpo ed era dello stesso colore dei suoi capelli.

 

“Parlate per voi,” disse Cato, ma i suoi occhi erano concentrati solo su Lux, che gli stava sorridendo con le sue labbra rosse.

 

Ma non ebbero tempo per altro, perché un uomo apparve davanti a Lux e li condusse sul palco.

 

La prima cosa che Clove percepì fu l’aria notturna che colpì il suo viso con il suo freddo bruciante. Si rese conto involontariamente che quella era la prima volta che usciva all’aperto da quando si era offerta volontaria alla mietitura. Luci intense creavano un alone dietro la testa già dorata di Marvel e lei lo seguì senza pensare come una falena. Le ondate di voci urlanti si abbatterono su di lei. Erano incredibilmente rumorose, quasi ipnotizzanti. Quando i suoi occhi si adattarono alle luci accecanti del palco, riuscì a vederne la fonte.

 

Migliaia di persone.

 

Era quasi letteralmente un mare. Un mare punteggiato di macchine fotografiche e flash improvvisi. Le persone avevano sommerso il pavimento,si sporgevano dai balconi, agitavano le mani ed esultavano. Le loro grida invasero la sua mente, si impadronirono del suo corpo e la spinsero via dal palco. Aveva appena mosso un passo verso quel suono che una mano la trascinò forzatamente al suo posto a sedere. Frastornata, si guardò attorno. Marvel sedeva alla sua destra e Cato, la mano che l’aveva trascinata, sedeva alla sua sinistra e la squadrava accigliato.

 

Tutti i tributi erano seduti. Quella notte non erano altro che marionette attaccate ad un filo, mosse dai loro mentori e dagli stilisti per intrattenere le masse di Capitol City.

 

Caesar saltellò sul palco in un istante, tutto colorato di azzurro polvere. Questo non fece altro che incrementare il volume già alto del rumore della folla. Da qualche parte, la musica iniziò a suonare. Il suono delle trombe lacerò l’aria.

 

E lo spettacolo dei burattini iniziò. Ognuno aveva un ruolo da interpretare.

 

Lux fu la prima, la civetta.

 

Una delle più grandi fra di loro, con curve prosperose appropriate per la sua età. Camminò con ostentazione sul palco, facendo dondolare i fianchi coperti d’oro liquido. Caesar le baciò la mano. Arricciò le labbra color ciliegia, regalò uno sguardo color smeraldo agli uomini di Capitol City nelle prime file del pubblico. Le sue mani svolazzarono mentre colpiva scherzosamente il braccio di Caesar. Il timer suonò. Aveva finito. 

 

Ora era Marvel a calcare il palcoscenico, l’uomo di mondo.

 

Un ragazzo che ci sapeva fare, bello, dall’aria superiore. Conquistò la folla nel momento il cui si pose al centro del palco. Riuscì a coinvolgerla nelle sue risposte a Caesar dimostrando una straordinaria abilità artistica. Lanciava sorrisi candidi. Quando Caesar gli chiese se pensava di avere qualche serio avversario, si voltò verso i tributi guardandoli con indifferenza e scrollò esageratamente le spalle. “Non lo so Caesar,” sospirò. “Penso di riuscire a tenerli a bada tutti. Ma potremmo avere un’opinione del pubblico a riguardo?” Indicò la Piazza e il ruggito di assenso esplose prima ancora che Caesar avesse avuto modo di chiedere “Che ne pensate gente? Abbiamo un vincitore qui?”

 

Le loro grida continuarono anche una volta che il timer ebbe suonato e Marvel si fu seduto.

 

Ancora una volta il mondo prese a muoversi con una lentezza esagerata. Caesar stava alzando le braccia verso la folla che si increspava e pulsava visibilmente come fosse stata un’unico essere vivente. Attorno a lui brillavano le luci come supernove. Per un istante non udì altro tranne le parole:

 

“E ora ecco il primo tributo del Distretto Due.”

 

In quel momento non era la maschera che indossava ad essere immortale, lei era immortale. Si alzò dal suo posto. Potente. Minacciosa.

 

Clove!”

 

Pericolosa.

 

L’incredibile rumore della folla era ormai diventato quasi un’entità visibile e forte come il vento. La colpì mentre si dirigeva verso Caesar. Le luci potenti del palcoscenico illuminavano ogni dettaglio di ciò che stava sotto di esse, anche le piccole particelle che fluttuavano nell’aria attorno a lei e a Caesar. Da vicino poteva vedere ogni poro del suo viso sotto agli strati di cipria bianca che lo coprivano, ogni increspatura delle sue labbra blu. Le ricordava un mostro.

 

Caesar si complimentò per il suo vestito e la voce di Lyme le risuonò in testa: a nessuno piace una ragazzina viziata. Lo ringraziò cortesemente.

 

Iniziò a tempestarla di domande riguardo alla sfilata dei tributi, alla sua stilista, ai pericoli dell’allenamento. Lei si tenne sul vago ma fece in modo da includere piccoli sorrisetti quando necessario. Il suo volto era proiettato su tutti i giganteschi schermi appesi ai vari edifici della Piazza. Quello che vedeva, tutto ciò che stava accadendo, assunse un tono surreale. La sua stessa vista si era fatta annebbiata.

 

L’intervista era volata e la fine si avvicinava. Ma sapeva che Caesar aveva tenuto il meglio per ultimo.

 

“Dunque, noi amiamo sempre i nostri tributi del distretto due. Non è così?” Si voltò verso il pubblico che gridò il suo assenso. Continuarono mentre lui si concentrava di nuovo su di lei.

 

“Anche se devo dire che sei di gran lunga il tributo più giovane che ho visto offrirsi volontario per il tuo distretto negli ultimi anni. Cosa ti ha convinto a farlo?”

 

Clove rispose onestamente. “Ero pronta a combattere,” disse.

 

La reazione della folla fu immediata. Esultavano per lei. Caesar scoppiò in una forte risata.

 

“Allora devi essere davvero emozionata per domani,” disse.

 

“Sì,” rispose Clove con un sorriso sinistro. “Sì, lo sono.”

 

“Beh, a vederti qui così, ora, devo dire che non riesco a immaginarti mentre fai del male ad una mosca,” si rivolse nuovamente al pubblico. “Voglio dire, guardatela! E’ semplicemente bellissima, o no?” Seguirono grida d’assenso. Caesar tornò a lei, ma non aveva una domanda da farle, stava aspettando la risposta.

 

Avrebbe voluto dirgli che poteva gettarlo giù dal palco e straziare il suo corpo artificiale finché non fosse stato altro che una pozza sanguinosa a terra, ma invece disse “Le apparenze ingannano.” Ora era il suo turno di voltarsi verso il pubblico. Si girò in modo da fronteggiarli tutti, quelli in prima fila, quelli che si sporgevano dai balconi, quelli seduti davanti al televisore in tutta Panem.

 

“Perché sono letale.”

 

l’improvvisa ondata sonora che aveva sollevato con una sola frase la colpì con così tanta forza che le parve di barcollare. Fischiavano e gridavano. Pestavano piedi. Sembrava quasi che saltassero l’uno sull’altro. L’amavano. Amavano i tributi impazienti. Amavano chi sapeva mettere su un bello spettacolo.

 

Caesar dovette zittirli per poter continuare. “Ah ha! Sì! Che personaggio che sei mia cara. Ora, il tempo a nostra disposizione sta finendo perciò permettimi un’ultima domanda. Cosa vorresti dire ai tuoi avversari di quest’edizione?”

 

Le telecamere inquadrarono rapidamente i volti dietro di lei. Cosa voleva dire ai suoi avversari? Che voleva ucciderli ad uno ad uno? Che fantasticava sui modi in cui massacrarli dal momento che aveva visto le loro facce? Che desiderava il loro sangue, la loro sofferenza? Che se avesse potuto si sarebbe alzata e li avrebbe annientati tutti, in quell’istante?

 

Le sue labbra si arricciarono in un sorriso e ripeté, “Cosa vorrei dire ai miei avversari?”

 

Con un gesto ad effetto si voltò a guardarli al di sopra della sua spalla e scorse alcuni dei loro volti. Con voce dolce disse, “Buona fortuna.”

Di nuovo la folla esplose, ma stavolta ancora più forte di prima. Clove non riuscì a sentire il timer. Udì appena Caesar che le prendeva la mano e la sollevava in aria. “Signore e signori, la piccola, la bella, la letale… Clove, del Distretto Due!”

 

Quando fu tornata al suo posto, il pubblico stava ancora impazzendo, tanto che Caesar dovette calmarli. L’amavano. Amavano la piccola, bella, letale Clove. Accanto a lei, Marvel la schernì, “Che cosa carina.” Ma prima che lei potesse rispondere, Cato venne chiamato sul palco. 

 

Cato, l’uccisore spietato.

 

Non dovette neppure dire niente e la folla andò fuori di testa di nuovo. Caesar non perse tempo in domande futili con lui. Andò dritto a quello che tutti volevano sentire. Ogni minaccia, ogni commento arrogante di Cato riceveva sempre più plauso. La brutalità delle sue parole trasformò la folla in animali: abbaiavano, ruggivano, urlavano. Quando Caesar gli chiese se aveva delle ultime dichiarazioni da fare, si rivolse al pubblico. Clove osservò gli schermi intensamente mentre inquadravano il suo viso, i suoi occhi blu che perforavano i suoi nonostante il monitor. 

 

“Vi offrirò un bello spettacolo,” sorrise. Era il frutto dell’ottimo lavoro di Brutus, di sicuro. Ma la reazione fu più forte di quella di Clove, Marvel e Lux tutte assieme. La ragazza del Tre che fu chiamata subito dopo per la sua intervista ne fu quasi sopraffatta.

 

“E’ così che si fa,” puntualizzò Cato a Clove mentre tornava a sedersi, le sue parole erano piene di alterigia. Clove continuò a guardare fisso davanti a sé mentre gli rispondeva, “Un altro grosso bastardo. Come se non l’avessero mai visto prima.”

 

Si aspettava di vederlo arrabbiato alle sue parole, ma di nuovo Cato la sorprese. Sembrava divertito. Questo la infastidì, e probabilmente si vedeva, perché il suo sorrisetto divenne un ghigno.

 

Clove tornò a concentrarsi sullo spettacolo di marionette, che ora vedeva il ragazzo del Tre fare l’intelligente. In qualche modo lui e Caesar avevano intavolato una conversazione su di un gadget usato spesso a Capitol City e su come funzionasse. Non si capiva se Caesar fosse davvero interessato o se fosse solo un buon attore. Clove optò per la seconda.

 

Ora toccava a Marina che fluttuò sul palco in un vestito del colore di una conchiglia, con i capelli solitamente crespi che ora ricadevano in dei boccoli sulla sua schiena. Il suo personaggio era dispettoso e scherzoso. Fece un’analogia fra i suoi avversari e gli squali e i tonni. “Alcuni sono grandi, altri piccoli, altri hanno i denti affilati… ma se uno ha la rete adatta può intrappolarli tutti, gusto?”

 

Testa di pesce non sembrava avere molta presenza scenica. Ciò nonostante rigirò le domande di Caesar, ed in pratica alla fine fu lui a fare tutte le domande.

 

Quando toccò a quelli del Distretto Cinque, Clove stava iniziando ad annoiarsi. La sua attenzione non si risollevò finché non toccò agli ultimi due tributi. Un sorriso si fece strada sul suo volto. Si accomodò meglio sulla sedia. Coraggio, Katniss, tocca a te.

 

La ragazza era completamente frastornata quando arrivò sotto al riflettore. Si sfregò nervosamente le mani sul vestito. Si tormentava le dita. Strinse gli occhi grigi e scrutò la folla. Clove sentì un fuoco invaderle nuovamente il corpo alla sua vista. Voleva alzarsi e aggredirla proprio lì al centro del palco. Quello sì, avrebbe di certo offerto un discreto spettacolo al pubblico. Oh, l’avrebbero semplicemente adorato.

 

Ora Katniss stava facendo piroette sul palco. Ridacchiava. La folla l’amava. Quando iniziarono a parlare dell’undici ottenuto alle sessioni d’addestramento, udì Marvel sbuffare. Si voltò a guardarlo.

 

“Ci ha fatti sembrare tutti scemi,” bisbigliò lui. “La voglio morta.”

 

Quando il ragazzo del Dodici fu sul palco, Clove realizzò che non gli aveva mai prestato troppa attenzione. Il suo personaggio era amichevole e senza dubbio gradevole. Solo che non sembrava stesse interpretando un ruolo. Risollevò immediatamente la folla nonostante fosse l’ultimo tributo. Pendevano dalle sue labbra, ridevano, esultavano. Verso la fine Caesar gli chiese se aveva una ragazza a casa, al che egli rispose semplicemente di no, ma che c’era una ragazza che lui amava. E poi all’improvviso, cinque piccole parole furono tutto ciò che occorse a quel minatore sempliciotto per incendiare tutte le interviste precedenti e non lasciare altro che cenere, come non fossero mai avvenute.

 

E’ venuta qui con me.”

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Capitolo 7
*** Follia ***


Respira, Peeta, respira.

 

Se lo ripeteva da solo mentre guardava Katniss tentare di mettere quanta più distanza fra loro possibile. Non lo aveva sorpreso dopotutto che lei non fosse stata contenta di quello che era appena successo. Sapeva che non le sarebbe piaciuto.

 

Ma per ora, andava bene. Haymitch l’aveva avvertito. Quella era l’unica possibilità che avrebbe avuto per cercare di salvarle la vita.

 

Individuò subito i Favoriti. Tutti e sei si spintonavano per salire sull’ascensore in fondo al corridoio, il più lontano da lui. Doveva muoversi in fretta.

 

Respira, respira.

 

**

 

L’odio stava contorcendo lo stomaco di Clove con effetti dolorosi mentre saliva sull’ascensore. Per la seconda volta quell’anno, il Dodici era riuscito a far passare in secondo piano il Distretto Due. Non era giusto. Ogni anno, sui tabelloni, l’Uno, il Due e il Quattro ottenevano risultati simili in tutti gli aspetti- l’attenzione, i punteggi, gli sponsor. E perché mai l’anno dei suoi Hunger Games doveva proprio essere il primo ed unico in cui un distretto così misero riusciva a ottenere il favore di Capitol City prima ancora di entrare nell’arena? Nonostante tecnicamente non fosse colpa sua, stava arrecando vergogna al suo distretto- lei stava arrecando vergogna al suo distretto permettendo che accadesse.

 

Ad ogni modo, non era l’unica a dover portare quel peso. Cato sembrava letteralmente ribollire mentre entrava in ascensore accanto a lei.

 

“Non riesco nemmeno a crederci- i poveracci del Dodici sono state le star dello show. Il Dodici! Sono impazziti tutti a Capitol City, per caso?”

 

Lux accompagnò oggi parola pestando i piedi in un gesto di stizza.

 

“Taci e premi il pulsante, Lux. E’ passato solo un quarto d’ora e già non ne posso più di sentirti parlare di questa storia,” sbottò Marvel dal suo angolo dell’ascensore. Era praticamente schiacciato contro il muro, nel tentativo di non sfiorare Marina o Cato.

 

Clove non avrebbe potuto essere più d’accordo. Che importanza aveva, in fondo? Per quanto fosse arrabbiata, non riusciva a sforzarsi di andare su tutte le furie. In fin dei conti, i giochi sarebbero iniziati l’indomani. In meno di ventiquattro ore. Bastava resistere ancora solo una notte e poi…

 

Quando le porte iniziarono a scorrere per chiudersi, un paio di mani le spalancò. Appartenevano, fra tutti, proprio al ragazzo del Distretto Dodici.

 

“Scusatemi,” sbuffò, guardandoli con indifferenza. “Non potevo resistere un minuto di più con lei.”

 

Le sue parole ricevettero in risposta solo silenzio. Nessuno di loro sembrava sapere come reagire inizialmente per una serie di ragioni: la prima era quello strano istinto a tacere scatenato dal vedere una persona subito dopo aver parlato di lei, la seconda era la palese apatia del ragazzo nei confronti delle persone con cui si trovava all’interno dell’ascensore, ed infine ciò che aveva appena detto.

 

Dopo che lo shock dovuto alla sua semplice presenza fu passato, Clove stava ancora tentando di capire il motivo di tanta spavalderia. Non aveva ancora preso in considerazione le parole del ragazzo quando Marina gli chiese, “Katniss?

 

“Sì,” sospirò il ragazzo. “Non la sopporto. E sembra che lei mi stia sempre attaccata. Quella ragazza ha la personalità di un sasso. Il fatto che Haymitch mi abbia costretto a mettere su questa farsa con lei mi sta semplicemente uccidendo.”

 

Cos’aveva appena detto? Farsa? Clove storse il naso mentre il resto dei Favoriti si guardavano l’un l’altro meravigliati.

 

Come?” scattò Lux.

 

Lui inarcò un sopracciglio.

 

“Ma come, ci avete creduto davvero? Immagino di essere stato bravo, allora,” disse, quasi ridacchiando fra sé e sé.

 

“Che cosa vuoi dire con ‘ci avete creduto davvero’?” sibilò Marvel all’improvviso. “Lo hai appena annunciato in diretta a tutto il Paese!”

 

Allora, il ragazzo strinse gli occhi e storse la bocca, come se Marvel fosse stato un povero idiota. Era terribilmente intrepido per essere un tributo del Distretto Dodici, questo era certo.

 

“Sì, e allora?” chiese. “Voglio dire, dannazione, questa sì che è una sorpresa. Tra tutti non dovreste essere voi a sapere un paio di cosette su come si guadagnano sponsor?”

 

Clove dovette ripetersi più e più volte quelle parole in testa. Tutta quella storia… era per gli sponsor? Avrebbe dovuto saperlo! Nessuno, nemmeno un tributo del Dodici, poteva essere così patetico da proclamare il proprio amore in diretta televisiva davanti a tutti, specialmente se in preparazione a qualcosa della natura degli Hunger Games. Era un piano perfetto. Nessuna coppia di Tributi aveva scelto quell’approccio prima. Era disperato, sleale, ma nemmeno lei poteva negare che fosse geniale. Era quasi fin troppo geniale.

 

L’ascensore trillò, segnalando il loro arrivo al primo piano, ma Lux mantenne il dito sul pulsante.

 

“Vuoi dire che era tutta una cazzata?” disse Cato.

 

Il ragazzo del Dodici fece spallucce. “Sì. Spero solo che qualcuno la uccida presto nei giochi così posso levarmela di torno. Non potrò farlo io stesso per quanto mi piacerebbe. A meno che io non voglia perdere il supporto degli sponsor.”

 

Poi, quasi soprappensiero chiese a Lux, “Perché stai tenendo aperte le porte?”

 

Uccidere Katniss? Un sorriso si fece strada sul viso di Clove mentre razionalizzava l’idea. Beh, non era forse uno splendido piano? Bastava attirarla usando l’amore della sua vita come esca e poi sarebbe stata nelle loro mani. Non avrebbe nemmeno avuto modo di scappare. Avrebbero potuto tenderle un’imboscata. E poi fare di lei ciò che avessero voluto; farla a pezzi, mutilarla. E una volta fatto, avrebbero ucciso il ragazzo.

 

Dopo essersi guardata attorno, seppe che la pensavano tutti allo stesso modo. Specialmente Cato, il cui sorriso si estendeva da orecchio a orecchio. Lux stava annuendo, Marina e Testa di Pesce non sembravano intenzionati ad opporsi.

 

Finalmente Cato disse, brusco, “Allora, ho una proposta per te, ragazzo innamorato.”

 

Dodici corrugò la fronte.

 

“Di che si tratta?” chiese sospettoso.

 

“Tu ce la porti e noi non ti uccideremo,” disse Cato. “Beh, non subito, almeno.”

 

“Mi state chiedendo di unirmi a voi?”

 

“Sfortunatamente,” sospirò Marvel.

 

Dodici ebbe il coraggio di starsene lì un attimo a prendere in considerazione la cosa. Stava seriamente pensando alla loro offerta. Magari non era esile, ma decisamente non aveva dimensioni mostruose come Thresh. Clove strinse gli occhi; il fegato che stava dimostrando di avere nei loro confronti era decisamente fuori luogo per un tributo proveniente da un distretto così debole.

 

“D’accordo,” annuì.

 

“Splendido,” ribatté Marvel con sarcasmo. “Adesso fatemi uscire da qui.

 

La porta si chiuse alle loro spalle e Clove riuscì a sentire Lux che chiedeva a Marvel cosa fosse appena successo. Lei stessa non ne era certa. Meno di due minuti prima, quel ragazzo era prossimo ad essere il loro nemico numero uno. Ma per qualche motivo, in qualche modo, era dalla loro parte ora, era parte dell’alleanza. E benché fosse la prima volta che un tributo del Distretto Dodici entrava a far parte dei Favoriti, era innegabile che il loro desiderio di uccidere Katniss avesse sormontato l’importanza delle tradizioni.

 

Tuttavia, non poteva fare a meno di chiedersi cosa ci fosse nella ragazza del Dodici che aveva spinto quel tizio ad odiarla abbastanza da voler vedere la sua compagna di distretto morta. Spazzò via la sua insensata curiosità con fastidio prima di poter considerare quel pensiero. Clove non credeva nel motto “conosci il tuo nemico”, questa semplice frase la faceva pensare ad un lupo che tenta di comprendere la natura di una gallina. Era semplicemente ridicolo.

 

Cato poté voltarsi a guardare Dodici ora che avevano più spazio nell’ascensore. “Non pensare di poterci giocare qualche brutto scherzo per questo,” lo minacciò, sovrastandolo. “Sei con noi perché così possiamo uccidere la ragazza. Se mi accorgo che hai cambiato idea sei morto prima ancora di poter dire Katniss,”

 

“E’ uno scambio di favori allora,” disse Dodici, incatenando lo sguardo a quello di Cato. Non sembrava nemmeno spaventato, intimidito. Questo infastidì Clove. C’era qualcosa di definitivamente sbagliato in quel ragazzo e di conseguenza nell’alleanza che avevano appena formato con lui.

 

Ma l’ascensore trillò, segnalando l’arrivo al loro piano.

 

“Ci vediamo domani, Ragazzo Innamorato,” disse Cato uscendo. Clove si assicurò di restare dentro abbastanza a lungo da trasmettere a Dodici il suo avvertimento silenzioso: che l’avrebbe tenuto d’occhio, che non si era bevuta affatto la sua storiella come invece avevano fatto gli altri. Ma i suoi occhi, di un blu a metà fra il tono profondo di Marvel e quello glaciale di Cato, non tradivano emozioni. La fissò con la stessa indifferenza che aveva dimostrato per Cato.

 

Senza dire una parola, gli diede le spalle e marciò fuori dall’ascensore, appena in tempo per incontrare Lyme dietro l’angolo.

 

Era molto carina quella sera. Il suo mentore non era tipo da truccarsi, e non ne aveva bisogno considerata la bellezza naturale dei suoi lineamenti particolari. Ma indossava pantaloni lisci e lucidi, e persino delle scarpe con il tacco. clove notò che trasportava delle valigie.

 

“Clove,” la salutò Lyme con un piccolo sorriso.

 

“E’ stato accettabile?” chiese Clove, avvicinandosi alla donna già alta, ma resa ancora più imponente dai tacchi.

 

“E’ stato grandioso. Mi hai resa orgogliosa. E sei anche bellissima.”

 

Clove si sforzò di controllare la bocca mentre un sorriso minacciava di aprirsi sul suo viso. Lyme appoggiò una delle due borse a terra e appoggiò la grande mano tiepida sulla sua spalla.

 

I suoi occhi saettarono verso Cato per un solo istante, ma fu sufficiente a fargli capire che non era desiderato.

 

Mentre Cato se ne andava via, Clove rimase in silenzio, incerta su cosa dire. L’ultimo incontro con il suo mentore quel giorno si era concluso con Lyme che lasciava la stanza improvvisamente, nello stato più alterato in cui Clove l’avesse mai vista. Probabilmente Lyme si sentiva allo stesso modo, perché quando sollevò la mano, essa ricadde lungo il suo fianco e l’espressione del suo volto parve insicura. Ma la sua incertezza scomparve tanto in fretta quanto era apparsa.

 

“Questa è l’ultima volta che ci vediamo prima degli Hunger Games,” disse, andando dritta al punto come suo solito.

 

Quelle parole corsero attraverso il corpo di Clove, sedandolo. Si sentiva inerte e forse persino un po’ triste. Era chiaro che ci tenesse al suo mentore: ora poteva ammetterlo a sé stessa. Ma perché? Perché? Non aveva un reale motivo per farlo. Non aveva motivo di avere a cuore nessuno. Ed inoltre conosceva Lyme da poco più di una settimana. Certo, era stata tollerabile come mentore, ma a parte questo la conosceva a malapena. L’emozione che stava provando era così insensata, così stupida…

 

E nonostante ciò quando aprì bocca per chiederle il perché, la domanda risultò pesante abbastanza da cadere e frantumarsi a terra.

 

“Beh, dovrò andare al centro di controllo degli Hunger Games stanotte e raccogliere tutti i tuoi sponsor,” disse. “Sia io che Brutus. Faun vi saluterà domani.” 

 

Clove doveva aver fatto una smorfia, perché Lyme fece una live risatina. Non ricordava di aver mai sentito il suo mentore ridere. Il suono era piacevole, riempiva la stanza.

 

“Ascoltami, Clove,” disse, improvvisamente seria. “Questi sono i miei ultimi consigli per te. Per prima cosa: mai, in nessuna circostanza, fidarsi di nessuno. Nemmeno della tua squadra. Stai sempre all’erta. E poi, domani, corri verso quella Cornucopia e prenditi un kit di coltelli. Assicurati di essere veloce così nessuno ti coglierà disarmata. Poi, uccidi chiunque tu debba uccidere.”

 

“Sai che lo farò,” disse Clove, mettendo a fuoco gli occhi scuri di Lyme, occhi scuri come i suoi. Per quella che sembrò un’eternità, restarono così, in piedi una di fronte all’altra senza interrompere il contatto visivo. Non stavano cercando di intimidirsi a vicenda, e neppure di prevalere in una discussione. Perlomeno per quanto riguardava  Clove, la sensazione che provava era quella di conforto. Anche se non sapeva bene da che cosa avesse bisogno di essere confortata.

 

“Ricorda una cosa,” disse Lyme con voce dolce. “Ci sono persone che vogliono che tu esca da quell’arena viva.”

 

“Le persone che si sono fatte il culo per farmi arrivare fino a qui?” sbottò Clove, ricordando le parole di Lyme quello stesso giorno.

 

Qualcosa di impercettibile aveva reso all’improvviso tutta la stanza più pesante, Clove riusciva a sentirlo. Era come se l’aria sopra le loro teste pesasse all’improvviso dieci chili in più.

 

“Sì,” disse Lyme. “Vinci per quelle persone. Vinci per il distretto o per la gloria o per qualsiasi cosa tu voglia. Ma assicurati di vincere.”

 

Clove si rigirò la frase nella mente. Poteva prometterlo? Non poteva mentirle, aveva troppo rispetto per il suo mentore per fare una cosa simile. Non poteva dire di aver mai pensato alla vittoria, però doveva qualcosa a Lyme: il suo mentore aveva fatto tanto per lei nei giorni precedenti, dopotutto. E venire classificati come il mentore di un vincitore avrebbe di sicuro estinto il debito, o no?

 

“Okay,” disse Clove.

 

Poi non ci fu più nulla da dire. Ma ciò nonostante Lyme afferrò la spalla di Clove e la scosse appena, e le fece un ultimo piccolo sorriso prima di portare le valigie fino all’ascensore e scivolare via, dietro alle sue porte argentate, sparita.

 

Eppure, Clove non poteva dirsi completamente triste per questo. Perché nell’ultimo, muto scambio di sguardi, aveva visto qualcosa in fondo agli occhi di Lyme che era riuscito a risucchiarla e a disputarla fuori un milione di volte, in un milione di modi diversi.

 

**

 

Ore dopo, sotto le luci fioche del bagno, Clove stava fissando un’altra creatura intrappolata nello specchio.

 

Questa non era bella come l’ultima. Questa cosa era un animale. Aveva minacciose striature nere lungo le guance grigie. Il suo volto pareva scarno. Il suo corpo era nudo. Guardava storto Clove con occhi che bruciavano come fuoco. Il suo labbro superiore era sollevato. Le stava ringhiando contro. Una delle sue mani afferrò un’altro groviglio dei suoi capelli, scuri ed annodati, e l’altra lo tagliò con un paio di forbici argentate. Come un gigantesco ragno ancora attaccato alla sua tela, la matassa fluttuò dolcemente per aria fino ad atterrare nel lavandino.

 

Quella creatura non aveva bisogno di una chioma fluente. Non aveva bisogno della bellezza.

 

Continuò ad afferrare ciocche finché i capelli scuri non raggiunsero l’altezza delle spalle; le punte arrabbiate e contorte spuntavano qua e là. Sorrise al suo operato.

 

Clove spense la luce: non poteva sopportare di continuare a guardare la cosa nello specchio. L’oscurità la inghiottì. Calmò il suo cuore che batteva forte. Le entrò nella bocca mentre apriva le labbra per inalare. Invase la sua gola, i suoi polmoni. Corse lungo le sue gambe. Ma non riuscì a colmarla. Urlò. Batti i pugni contro al muro. Il dolore giunse immediato ma comunque, non provò nulla.

 

Il senso di mancanza che provava tanto spesso era peggiorato notevolmente nelle ultime ore. Riusciva a sentire il vuoto crescere fisicamente mentre la consumava. Rabbia, furia, era tutto assente. Nemmeno un po’ di nervoso, nemmeno un po’ di stanchezza.

 

Le luci si riaccesero. Le venne voglia di ingoiare i cespugli di capelli ora ammassati nel lavandino, soffocarcisi. Lasciare che la strangolassero dall’interno così magari il respiro della morte l’avrebbe scossa e l’avrebbe riportata in vita. Ne prese uno in mano, lo studiò attentamente. Da vicino, le punte parevano piccole lame minacciose. Lo gettò a terra e si precipitò fuori dal bagno. 

 

Per un’ora sedette sul letto a fissare il vuoto.

 

Poi, un rumore. Proveniva da fuori dalla porta. Attraversò la stanza e si infilò negli unici due capi d’abbigliamento che identificò a terra, una maglietta sottile e della biancheria. Poi seguì il suono.

 

Erano passi.

 

La condussero alla grande vetrata che dava su Capitol City. La fonte del rumore si stagliava di schiena davanti a lei, le sue spalle larghe si alzavano e si abbassavano seguendo i suoi respiri, o meglio, i suoi ansiti. Ovviamente Cato era sveglio.

 

Non voleva fare alcun rumore per farsi notare. Voleva solo guardare le ombre danzare sulla sua pelle nuda fino al sorgere del sole. Ma lui si accorse della sua presenza.

 

La sua testa scattò di lato per voltarsi a guardarla. I suoi occhi chiari, più spalancati del solito, le fecero capire che era di umore irrequieto quanto lei. Piegò il capo. Le sue labbra si aprirono in un sorriso. Con i movimenti studiati di un felino della giungla, si avvicinò a lei.

 

“Che c’è che non va, tesoro?” mormorò. “Non riesci a dormire?”

 

Se non si fosse trovata in quello stato, si sarebbe allontanata. Invece si dondolò da un lato. Una bolla di tensione iniziò a formarsi tra di loro. Riusciva a sentirla. Stava di nuovo sentendo qualcosa. Il vuoto dentro di lei cominciò a riempirsi. Si sentì all’improvviso esaltata, desiderosa.

 

“Non stanotte,” disse lei.

 

Lo sguardo di lui saettò via dal suo e le sue labbra si arricciarono in un ghigno. “Ti sei fatta un bel taglio di capelli allora?” disse.

 

“Devo essere carina per domani, o no?” rispose. Involontariamente, la voce le uscì in un ringhio.

 

Continuarono a girarsi attorno in un largo cerchio. l’energia pulsava nelle sue vene adesso. Era una sensazione meravigliosa, specialmente dato che fino a pochi momenti prima quasi soffocava nel disperato tentativo di chiudere l’enorme cavità che le si era formata dentro. Con animosità sospirò e guardò sognante fuori dalla finestra.

 

“Non riesco a smettere di pensare,” disse, smettendo di camminare e voltandosi verso Capitol City. All’istante Cato fu dietro di lei. Prima ancora che avesse fatto il minimo rumore lei percepì la sua vicinanza. I capelli le si drizzarono sulla nuca. Le venne la pelle d’oca. “Penso a domani. Al loro sangue…” sorrise. “Al tuo sangue.”

 

La sua risata le giunse più vicina di quanto si aspettasse. I suoi palmi, induriti da anni di addestramento con le armi, si mossero lentamente verso la sua schiena. Non aspettandoselo, si spostò di scatto. Ma quando si avvicinarono per la seconda volta, permise loro di toccare la sua pelle. Iniziarono all’altezza delle reni e poi viaggiarono attorno ai fianchi fino ad incrociarsi sullo stomaco. Il suo sangue prese fuoco.

 

Un paio di braccia muscolose seguirono, avvolgendo il suo corpo nel tepore. Poi sentì il suo mento appoggiarsi alla curva del collo, le labbra sull’orecchio, le ciglia battere due volte accanto al suo viso. Tutto il suo corpo era premuto contro quello di lui adesso. Sorrise.

 

“Sai, Brutus aveva ragione,” mormorò lui. “Uccidi gli altri, e tieni il meglio per ultimo.”

 

Chiuse gli occhi, si lasciò sprofondare in lui del tutto. I sui sensi erano all’erta, attenti a tutto: al calore che il suo petto nudo trasmetteva alla sua schiena, alle sue mani le cui dita avevano iniziato a tracciare piccoli cerchi nella carne morbida della sua pancia piatta, all’odore di cannella del suo respiro.

 

“Non vedo l’ora,” disse.

 

“Di morire?” sussurrò lui. “Perché quando saremo rimasti solo noi, è questo che succederà.”

 

Le sue dita scorrevano terribilmente lente sulle sue anche adesso. Tracciavano un minuscolo motivo sulla pelle sottile. Il suo petto si alzava e sia abbassava. Il suo corpo pareva pulsare. Dovette sforzarsi di rispondere.

 

“No, non sarà così. Io ti ucciderò,” disse, tentando di controllare il suo respiro. In un’occasione normale avrebbe detto di più, avrebbe forse anche sbraitato, ma fu tutto quello a cui riuscì a pensare. Le sue dita passarono sulla stoffa della biancheria che si era scordata di avere addosso fino a quel momento.

 

Una risatina le rimbombò nell’orecchio. “Non penso proprio,” disse lui.

 

Le sue mani si strinsero sui suoi fianchi, avvicinandola a lui. Le si mozzò il respiro. Si era resa completamente vulnerabile, avrebbe potuto attaccarla in qualsiasi momento, ma non riusciva a sforzarsi di formulare un singolo pensiero. La sua mente riusciva a concentrarsi solo sulla sensazione del suo pollice che lentamente si infilava sotto il bordo della stoffa, accarezzando la pelle nuda. Non sentiva altro.

 

“Perché?” chiese fievolmente.

 

La stoffa venne spostata da uno dei suoi fianchi con deliberata lentezza. Non riusciva più a respirare.

 

Contro il suo orecchio, Cato disse a voce bassa, “Io ti ho in pugno.”

 

Quando percepì il sorriso strafottente e la cupa risata che lo seguì Clove si risvegliò dalla sua trance. La sua bocca si contorse in un ghigno. A quel gioco si giocava in due. Portò la mano al viso di Cato e gli fece passare le dita sulla mascella, lasciando che si soffermassero sulle labbra. 

 

“Ne sei sicuro?” chiese, cercando di imitare il tono languido che la sua voce aveva poco prima. Ma Cato non ci cascò. Rimosse rapido le mani dal suo corpo, ma era troppo tardi.

 

Fulminea, conficcò due dita nel punto sensibile sotto al suo mento e si voltò di scatto a fronteggiarlo. Allungò una mano per premere sulla sua clavicola- arteria succlavia, poi conficcò l’altra mano nella zona subito sotto l’orecchio con tanta forza da rendere il suo corpo momentaneamente paralizzato per il fortissimo dolore al seno carotideo. Prima che egli avesse avuto tempo di contrattaccare, lo spinse contro al muro. 

 

Ora toccava a lei.

 

Con innocenza quasi infantile pose i suoi piedi minuti su quelli grandi di lui e si alzò in punta di piedi così che furono quasi alla stessa altezza. Con una mano fece scorrere le dita sul suo viso, mentre con l’altra si aggrappava alla sua spalla per mantenere l’equilibrio. Sfiorò con le labbra i muscoli del suo petto, fino alla gola, sul mento, fermandosi su una guancia come fosse stata sul punto di baciarla. 

 

Ma anziché farlo disse, “Mi sa che sono io ad averti in pugno.”

 

C’era una profonda intensità nei suoi occhi freddi, ma anziché spaventarla, risvegliò in lei una passione tale che poteva solo essere stata dormiente per quindici anni. Cato socchiuse le labbra. La luminescenza di Capitol City si rifletteva sulla sua pelle nuda. Il petto perfettamente scolpito sotto le sue dita, la sporgenza del suo collo, la linea della sua mascella, tutto di lui scatenava in Clove un istinto primordiale che lottava per prendere il controllo del suo corpo. Ribolliva dentro di lei. Lo voleva. Lo voleva in un modo in cui lei non ricordava di aver mai voluto qualcosa.

 

La spinse ad avvicinare dolcemente la sua bocca a quella di Cato, ma anziché baciarlo, morse il suo morbido labbro inferiore.

 

Come una bomba, Cato esplose.

 

La testa di Clove fu sbattuta contro al muro prima ancora che lei potesse comprendere cosa stesse succedendo. Le mani di lui la trattennero contro alla superficie, sospesa a mezz’aria. Tutto il suo corpo era premuto contro quello di lei, che ora agiva senza pensare. Allacciò le gambe alla sua vita. Le loro bocche si scontrarono.

 

Si stavano baciando.

 

Era la prima volta che Clove baciava qualcuno. Solo che non c’era nulla di sensuale o romantico in quel gesto. Era prepotenza, aggressività. I loro denti cozzavano, si morsero reciprocamente con violenza le labbra. Le loro mani artigliavano, afferravano, si facevano male a vicenda in ogni modo possibile ed in una potente combinazione di desiderio ed odio. Ma era meraviglioso. Non le bastava mai. Voleva solo di più, di più, di più. Intrecciò le dita nei suoi capelli, si spinse più vicina a lui. Cato ruggì sommessamente. Lei si staccò, baciandogli il collo. Poi accadde qualcosa.

 

Forse fu la vicinanza, forse l’intensità di tutta quella situazione. Forse fu l’adrenalina che le scorreva nelle vene, forse i suoi sensi amplificati. Forse la consapevolezza che l’indomani sarebbero stati scaraventati nell’arena a combattere fino alla morte.

 

Qualunque fosse la ragione, all’improvviso Clove provò il desiderio di ucciderlo.

 

Morse forte la pelle del suo collo con quanta più violenza possibile. il sapore metallico del sangue le invase la bocca. Il corpo di Cato si contorse. Affondò i denti più forte.

 

Poi le mani di lui si annodarono nei suoi capelli, tirandole indietro la testa. La ferita sul collo era già viola e nera e il sangue emergeva dal taglio profondo. Il suo sapore era ancora nella bocca di Clove, lo sentiva seccarsi sulle labbra. Cominciò a fare tutto il possibile per procurargli dolore. Le sue mani volarono al suo viso, prendendolo a pugni, schiaffeggiandolo. Conficcò le unghie nella sua schiena. Lo stava attaccando come un animale.

 

Finalmente Cato riuscì a fare presa sulla mandibola di Clove e la schiacciò con tanta forza da provocare uno scricchiolio, facendo sì che lei annaspasse. I suoi muscoli erano tesi, il suo respiro divenne spezzato, Clove notò persino che gli si erano dilatate le pupille. Sorrise. E poi la scaraventò a terra.

 

Oh, quanto erano simili, loro due.

 

Il fiato le fu strappato dai polmoni e un istante dopo Cato la stava strattonando per le gambe, le sue grandi mani avvolte sulla sua vita e il suo peso insormontabile le premeva sul corpo tanto più piccolo. La stava schiacciando. Riuscì ad inalare una boccata d’aria, ma faticava a respirare. Lanciò le mani verso il suo viso senza ottenere alcun risultato. Tentò persino di infilargli un dito nell’occhio. Ma ogni sforzo era vano. Come un cavallo, Cato evitava ogni suo attacco con uno scatto della testa. Alla fine non le fu possibile usare le braccia per nulla se non tentare di respingere le sue mani e il suo corpo. Era un dolore come non ne aveva provato mai. Trattenne il respiro tentando di non gridare.

 

“No, urla, voglio sentirti,” le ordinò a denti serrati. Aveva gli occhi infuocati, il viso rosso. Era pazzo. E Clove non poteva negare di essere pazza a sua volta.

 

Strinse i denti. Non aveva intenzione di dargli alcuna soddisfazione. Ma non aveva modo di difendersi, era intrappolata.

 

“Sai, i fiorellini come te non crescono nel posto da cui vengo,” disse con leggerezza come se si fosse trattato di una conversazione seduti a tavola.  E poi premette più forte. Il sangue le andò alla testa. Era certa che i suoi organi interni fossero destinati a schizzare sul pavimento da un momento all’altro. Il grido che stava trattenendo esplose. Scosse la testa avanti e indietro, si contorse, tentando di scappare. Ogni cellula del suo corpo gridò con lei dalla disperazione.

 

Cato stava ridendo ma non le importava. Non le importava di nulla.

 

“Implora,” ruggì lui, cambiando improvvisamente espressione. “Implorami di lasciarti andare.”

 

Non l’avrebbe fatto. Lo ignorò e continuò a gettarsi da tutte le parti in ogni modo possibile per sfuggire alla sua morsa d’acciaio.

 

Implora.

 

Avrebbe anche potuto spezzare ogni osso del suo corpo e lei non gli avrebbe dato la soddisfazione. Con un gesto di sfida lo guardò negli occhi, che erano tornati ad essere assenti. Ma quando le mani sui suoi fianchi premettero più forte poté solo chiudere gli occhi e gridare di nuovo. Né Brutus né Lyme sarebbero venuti a salvarla quella notte. Non ne aveva nemmeno bisogno. In quel momento non voleva nulla di più che lasciare che Cato la uccidesse.

 

Ma non riuscì a farlo.

 

Staccò le mani che aveva tenuto sui suoi fianchi ed immediatamente il dolore che Clove aveva soppresso per lo shock e la pressione rifluì nel suo corpo. Annaspò, tossì, quasi soffocò, realizzando solo in quel momento quanto poco avesse respirato. La debolezza la pervase, lasciandola incapace di muoversi.

 

Cato abbassò la testa. Prese il suo volto tra le mani e fece scorrere un dito attraverso la pelle sotto il suo occhio. “Sei proprio una dolce piccola colomba,” bisbigliò. “E sarai gettata nel massacro, che tragedia.”

 

Nella penombra sembrava di un altro pianeta. Un demone, un angelo, un dio. Qualcosa di bellissimo ed intangibile. Clove si chiese se non fosse davvero stato scolpito da un artista. Si chiese se fosse reale.

 

“Ho già ucciso prima,” le sussurrò all’orecchio. “Lo sai che suono fa una schiena quando si spezza?”

 

Una mano tremante si sollevò a stringersi attorno a quella di lui. Era troppo esausta per ragionare sulle sue azioni, per chiedersi perché non stesse contrattaccando, chiedersi come potesse permettersi di trovarsi in uno stato simile. Accarezzò con il pollice il suo palmo più e più volte. Portò la sua mano alle labbra e parlò contro di essa. “No,” gli rispose.

 

Cato chiuse le dita attorno ai suoi occhi, ma non fece altri gesti per farle male ancora. Sembrava piuttosto che stesse sostenendo il suo capo. “E’ un suono simile allo scricchiolio del metallo,” disse. “Basta fare un po’ di pressione e una schiena si accartoccia come una lattina. E’ affascinante, a dire il vero, il modo in cui le ossa umane possono essere spezzate.”

 

Gli occhi della mente di Clove le mostrarono una scena: Cato che teneva ferme le spalle di un uomo e calciava forte contro la sua schiena, modellando il corpo in un angolo netto. Perché non faceva lo stesso con lei? Quello che le stava facendo era di gran lunga peggiore: nulla. Era stesa davanti a lui vulnerabile, patetica, e per tutta risposta lui le baciava il viso. Era davvero un mostro.

 

“Quanti ne hai uccisi?” gli chiese senza pensare.

 

La mano che teneva vicino alla bocca le prese la guancia e le girò il viso perché lei lo guardasse. Una luce proveniente dalla finestra strisciò lenta lungo la sua figura, lasciando il buio dopo il suo passaggio cosicché lei poteva vedere solo il debole scintillio dei suoi denti bianchi quando rispose, “Tre.”

 

Senza dire altro, le sue mani scivolarono via dal volto di Clove e il suo corpo sfumò nell’oscurità che ora stava inghiottendo la stanza, come fosse stato parte di essa fin dall’inizio.

 

E poi sparì e lei si trovò a non provare nulla di nuovo.

 

A lungo giacque lì inerte ma alla fine recuperò abbastanza forza da strisciare verso la vetrata. Restò lì fino a che il sole non sorse sugli edifici di Capitol City, a riempire la cavità nuovamente aperta nel suo petto con l’odio. Odio per sé stessa, odio per Cato, odio per Lyme, per Brutus, per Pallas, per i tributi, per Capitol City, per Panem, per il mondo intero.

 

**

 

Che cosa è successo ai tuoi capelli?”

 

Quelle furono le prime parole che la stilista di Clove le rivolse quando giunse a prelevarla al mattino.

Non aveva preso sonno quella notte. Ma la semplice presenza di Faun le infuse nuova vitalità: quella stupida donnetta era il promemoria fisico di cosa la aspettava, un ultimo tocco di trucco, un ultimo cambio di guardaroba, tutti gli ultimi preparativi che bisognava fare.

 

Quello era il giorno degli Hunger Games.

 

Immagini senza significato le passarono davanti agli occhi mentre compiva le azioni necessarie ad arrivare, passo dopo passo, più vicina al podio dell’arena. Una colazione appena toccata sul piatto, la scala di un hovercraft, il chip argentato che veniva iniettato nel suo braccio, le ciglia rosse di Faun. Non si concentrò su nulla per più di un momento fino a che non si trovò a guardare i muri blu della sala di lancio.

 

Faun le aveva fatto fare una doccia. Le aveva fatto indossare dei semplici pantaloni fulvi ed una blusa verde che non poteva fare a meno di immaginare, strappate ed insanguinate, addosso ad uno degli altri tributi. Ma non avrebbe dovuto immaginare queste cose ancora a lungo, o no? In meno di un’ora avrebbe potuto viverle di persona. Il cuore le batteva forte nel petto, l’aria sembrava ostruirle la gola. Tentò di trattenere un sorriso ma l’esagitazione non glielo permise.

 

Quel giorno avrebbe ucciso. Quel giorno significava tutto.

 

Chissà cosa stavano facendo gli altri tributi in quel momento? Piangevano? Tremavano? Si muovevano nervosamente dappertutto? Si mangiavano le unghie? Distretto per distretto, li immaginò tutti: Lux che si raccoglieva i capelli, Marvel che si sistemava la cintura, Cato che si scrocchiava le ossa, la ragazza del Tre che si punzecchiava con ansia le guance paffute, il ragazzo che percorreva a grandi passi la stanza, Testa di Pesce che saltellava su e giù, Marina che si mordeva il labbro, la rossa del Cinque che fissava il vuoto, la ragazzina dell’Otto che piangeva disperatamente, il ragazzo dell’Undici stoico ed imperturbabile, la ragazza che si muoveva incessantemente attraverso la stanza, gli occhi blu del Ragazzo Innamorato spalancati e senza speranze, la Ragazza in fiamme… ridacchiava… piroettava…

 

Non si scosse dai suoi pensieri finché Faun non le chiese quale oggetto personale volesse portarsi. Clove non ne aveva. Non c’era nulla di casa sua che si era voluta portare lì. Non aveva ricordi a cui era affezionata, nessun oggetto di valore sentimentale. Nessuna parte della sua vita nel Distretto Due doveva stare in quell’arena. Il suo passato ed ogni senso di umanità che poteva esserle rimasto si sarebbe disintegrato non appena il gong avesse risuonato.

 

Si chiese se sarebbe stato così se la sua vita fosse andata diversamente.

 

Sarebbe stato così se sua madre avesse abbracciato le sue membra protese quando piangeva da bambina? Sarebbe stato così se le loro cene fossero trascorse in piacevoli conversazioni anziché in silenzio? Sarebbe stato così se suo padre l’avesse guardata negli occhi almeno una volta? Sarebbe stato così se l’avessero picchiata, abbracciata, se le avessero urlato contro, se solo avessero fatto qualcosa, qualsiasi cosa, solo per una volta?

 

Sarebbe stato così se la sua infanzia non fosse stata trascorsa a giocare con i fantasmi nel suo cortile? Sarebbe stato così se avesse avuto degli amici al di fuori dei muri sbiaditi come gli altri bambini, invece delle infermiere che le chiedevano di fare disegni per loro? Sarebbe stato così se in quegli anni in cui era stata piccola, i suoi giorni fossero stati punteggiati da meraviglia e fantasia anziché da allucinazioni e sedativi?

 

Sarebbe stato così se avesse passato il tempo a socializzare con i suoi coetanei anziché a lavare via il sangue degli animali dai suoi vestiti? Sarebbe stato così se avesse trascorso le notti a sognare ragazzi anziché giacendo sveglia pensando alla morte? Sarebbe stato così se i suoi pensieri fossero stati belli, intellettuali, illuminanti?

 

Sì, forse le cose sarebbero state diverse. Ma sarebbe anche stata debole. Debole come i suoi genitori, debole come i suoi coetanei, debole come gli altri tributi. La vita, o la mancanza di questa, avevano formato la ragazza che ora stava in piedi nella sala di lancio, in attesa di poter versare al suolo il sangue di altri bambini.

 

Così, quando Clove guardò Faun negli occhi e le disse, “Non avevo nulla da portarmi,” diceva sul serio.

 

Poi una donna disse con voce monotona che era il momento di prepararsi al lancio. Fan sembrava fin troppo contenta.

 

“Buona fortuna, bestiolina,” fu tutto ciò che gracchiò. Quando Lyme aveva menzionato delle persone che avrebbero voluta vederla uscire viva dall’arena, Clove era stata subito sicura che queste non includevano Faun.

 

Improvvisamente un tubo di vetro circondò il suo corpo la trascinò su. Faun, la sala di lancio, Capitol City e il Distretto Due sparirono per sempre dietro un muro di cemento.

 

Tre battiti di ciglia. Inspirò a fondo. Contrasse le dita.

 

Luce, accecante per un momento. Erba mossa dal vento. Pacchi sparsi ovunque. Ventitré individui in piedi sul loro podio. Cielo blu. Una cornucopia dorata.

 

Una voce.

 

“Signore e signori… diamo inizio ai Settantaquattresimi Hunger Games!”

 

Numeri in rosso.

 

Sessanta secondi.

 

Note dell’autrice: Salve! Non mi sono mai palesata durante questa storia, però eccomi qui, perché ci tenevo particolarmente a ringraziare pandafiore e into_you che hanno recensito e di nuovo into_you e Starfire Moonlight che hanno aggiunto la storia alle seguite, vi ringrazio davvero di cuore perché ho trovato la motivazione per finire questo capitolo che ho faticato davvero a scrivere. Spero di aver fatto un lavoro accettabile, e per favore qualche buon’anima mi dica se pensa che io debba cambiare il rating da arancione a rosso data la violenza della scena descritta in questo capitolo e quella dei capitoli a venire.

Al prossimo capitolo e may the odds be ever in your favor,

 

Vincey

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