alone together in this mad world

di perseus_jackson_x
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


                                                                      1.

                                                  what's your name?
                                                 In the name of God! 


Quando Rachel si era svegliata quella mattina sapeva che qualcosa le sarebbe andato storto, insomma, capita a tutti di avere una strana sensazione, no? Ma di certo non si aspettava quella catastrofica punizione, o almeno pensava fosse una punizione. Aveva fatto qualcosa di cattivo che aveva offeso una forza maggiore? Non riusciva proprio a spiegarselo. 
Bando alle ciance, iniziò tutto così...

Camminava per i corridori della scuola quando si imbatté in qualcosa, o meglio in qualcuno. I fogli, i pennelli e la borsa caddero a terra, suscitando l'ira della ragazza.
«Guarda dove cammini la prossima volta!» disse con tono infastidito, mentre raccoglieva le cose cadute al suolo. 
«Rachel, sei tu, ehm scusa» una voce melodiosa, –perché anche se odiava ammetterlo, aveva una bella voce– appartenente ad un ragazzo, le fece alzare lo sguardo. Il possessore della voce era un ragazzo della sua età, con una zazzera di capelli castani, gli occhi vispi che l'osservavano. 
«Apollo» disse in modo stizzoso, assottigliando gli occhi «noto che ancora fatichi a guardare oltre il tuo orribile naso».
I'interessato le sorrise, tastandosi il naso appena gonfio, aveva sicuramente fatto a botte, lo si poteva capire chiaramente. 
La campanella suonò. 
«Ci si vede a letteratura, Dare» le sorrise per poi scappare nella classe di fisica, o almeno così le sembrò. 
Intanto, Rachel, corse fino al secondo piano dove le aspettava matematica con la Dodds, come odiava quella donna! 
La lezione fu alquanto noiosa, come sempre d'altronde, ma almeno questa volta non dovette subirsi Percy che non la smetteva di parlare di Annabeth. 
Percy Jackson era una sorte di migliore amico, o almeno un qualcosa che somigliava ad un migliore amico. Aveva avuto una cotta per lui per due anni, ma poi le aveva detto che era completamente innamorato della sua vicina di casa  Annabeth Chase, nonché loro compagna di scuola. 
Il malessere di quella mattina si approfondì con l'arrivare della seconda ora, una strana sensazione alla bocca dello stomaco che quasi le fece venire da vomitare. 
Si recò nell'aula di letteratura, prese posto al primo banco e aspettò che tutti gli altri seguissero il suo esempio. 
Rachel, nonostante amasse le materie artistiche e umanistiche, aveva una certa difficoltà ad affrontare  la letteratura. 
Il professore P. entrò in classe con tutta la sua bellissima barba incolta, il suo completo grigio gessato e la valigetta di pelle marrone. Estrasse un libro dalla, oramai più che rotta, ventiquattrore e lo pose sulla cattedra di legno consunto. 
La lezione fu noiosa e tortuosa, come da manuale. 
P. le aveva posto numerose domande, ma le risposte erano arrivate solo per alcune di queste. . 
A differenza sua, Apollo era un genio e aveva saputo tutte le risposte che, invece, a lei mancavano. 
Dio, se lo odiava! 
A fine lezione il professore chiese ad entrambi di rimanere, l'insegnante avrebbe sicuramente lodato lui e rimproverato lei. Forse era quella la sensazione che le dava tormenti... forse. 
«Dare, cosa devo fare con te?» incominciò il professore, sospirò e scosse leggermente la testa, in cenni di disapprovazione «Ho saputo che vorresti partecipare al concorso degli artisti, ma con questi voti non puoi- non devi, assolutamente, permetterti di distarti. Hai bisogno di studiare con più sostanza, devi impegnarti Rachel» la rossa abbassò lo sguardo, puntandolo sulle scarpe bianche ormai macchiate di mille colori. 
«Ed è per questo che Lester ti darà una mano. È così un bravo ragazzo!» Rachel alzò immediatamente lo sguardo, corrucciò la fronte e assunse un'espressione che indicava la confusione totale. 
«Lester? Non conosco nessun Lester, professore» rispose, pensando ai suoi compagni di classe. No, non conosceva sul serio nessuno con quel nome. 
«Ma come? È qui! In questa stanza. Lester, vieni su» Apollo, allora, fece qualche passo verso la cattedra, dove i due stavano parlando. 
«Preferirei essere chiamato Apollo, è il mio nome d'arte, odio il mio vero nome» come mai aveva udito prima, il tono del moretto era neutro, spento. Per la prima volta non era stato sarcastico, né derisorio, non era stato arrabbiato e neanche infastidito. La sua voce aveva perso quella consona melodia, aveva perso il fascino. 
Pensandoci, Rachel non aveva mai conosciuto il vero nome di Apollo. Insomma, sapeva che quello non fosse il suo vero nome, ma non si era mai posta la domanda.  Non gli aveva mai chiesto: "Qual è il tuo nome?"
«Lester Papadopoulos, è il nome di tuo nonno quello! Porta rispetto» per poco Rachel non scoppiò a ridere. Pa-pa-do-pou-los. Era un cognome senza dubbio greco, ma questo non lo rendeva meno ridicolo. 
«Zio P!» un momento, zio? 
I due dovettero capire la faccia stranita della rossa, quindi si ricomposero. 
«Sai, Rachel, io sono lo zio di Les-Apollo, sì. Suo padre è  mio fratello» 
«Quindi P non sta per il suo nome, ma per il suo cognome» disse Rachel, che da quando conosceva il professore, aveva sempre pensato che l'acronimo si riferisse al suo nome. 
«In realtà si riferisce ad entrambi» iniziò Les-Apollo, si chiama Apollo. 
«Vero zio P.P.?» a quel punto Rachel non si trattenne, davvero il suo professore si chiamava così? 
«Rachel!» il professore sembrò arrossire e nei suoi occhi verdi si lesse vergogna. 
«Mi scusi» Rachel trovò quel poco contegno che le rimaneva e assunse, di nuovo, un'espressione seria. 
«Prof P., io davvero non posso stare con Lester in una stanza per più di cinque minuti, potrebbe farsi male sul serio» la rossa, si strinse nella propria camicetta bianca. Incominciava a pentirsi della scuola per signorine, quella che le aveva proposto il padre. 
«Rachel, forse non sono stato chiaro» il signor P. si incupì e divenne totalmente serio «non è una proposta, o vai a ripetizioni o verrai bocciata» detto questo, il professore uscì dalla propria aula. Ma non doveva rimanere lì? Cioè, non aveva altre ore?
«Io non ci credo!» allora la rossa cominciò ad urlare, stanca di quella giornata, che non era neanche iniziata del tutto. 
«Rachel, suvvia, calmati!» ed eccolo lì, quel tono tanto odiato dalla ragazza, quello derisorio e ironico. 
«Calmarmi? Calmarmi? Io non mi calmo mica, bello! Sono furiosa! Con tutte le persone della classe, perché proprio con te? Perché?!» forse il ragazzo si sentì offeso, quindi si rabbuiò e decise di non rispondere. O almeno così pensava Rachel. 
Difatti, si calmò di colpo, quando vide che il moretto non controbatteva. 
«Apollo, mi dispiace, sono stata cattiva» si avvicinò al ragazzo, con qualche piccolo passo. 
«Sì, lo sei stata, ma io ti ho detto di peggio» scrollò le spalle il bel moretto. 
«Ma tu non hai detto nulla...» Rachel aggrottò le sopracciglia, assumendo un'espressione confusa. 
«L'ho pensato, allora» la rossa rise, poi si unì anche Apollo. 
«Ma quindi ti chiami davvero Lester?» chiese, sedendosi sul banco, dove era posto con la sedia Apollo. 
«Sì,  ma non chiamarmi così o ti do in pasto ai miei cani» entrambi risero di  gusto, prima di ricomporsi e di assumere di muovo quelle maschere di odio, che indossavano davvero bene. 
«Questo – la ragazza, con due dita perimetrò lo spazio tra di loro – non vuol dire nulla. Ti permetterò semplicemente di darmi ripezioni, va bene?» Apollo sorrise, massaggiandosi il naso che gli doleva. 
«Va benissimo, Dare. Ci vediamo questo pomeriggio? Mio fratello Will deve uscire con il suo migliore amico – fece le virgolette con le dita, mentre diceva le ultime tre parole – e quindi avrò casa libera» Rachel non domandò del strano gesto del ragazzo, alzò solo le spalle e disse che le andava bene. 
Era quasi la fine della terza lezione, la ragazza aveva saltato l’ora di educazione, ma non ne fece un dramma, anzi. 
«Be’, ci vediamo dopo Lester» Rachel si alzò in tempo, prima che il ragazzo le si scagliasse contro e
 poco dopo si rincorrevano per il corridoio. 
«Fanculo, Rachel!» urlò Apollo, senza fiato, quando ormai aveva perso traccia della rossa. 


***

Quando Will gli aveva chiesto di fare merenda insieme, molti anni prima, Nico aveva rifiutato. Il giorno successivo, aveva ripetuto che non poteva. Ancora, il giorno dopo, Nico gli aveva spiegato che lui poteva fare merenda solo con Bianca, quindi il bambino gli aveva chiesto dove fosse, Nico aveva solo guardato il cielo e poi aveva risposto: «È volata via, con mamma. Papà me l'ha detto» allora il biondino, che aveva già otto anni, aveva capito cosa intendesse Nico e da quel giorno aveva deciso di sedersi sempre con lui a merenda. 
Nico non sapeva esattamente quando la loro amicizia era diventata qualcosa di più serio, o almeno per lui. Era normale che due migliori amici dormissero nello stesso letto, abbracciati? Era normale che gli dava sempre la buonanotte con un bacio? Sulla guancia, ma era comunque un bacio della buonanotte! Era normale che passassero tutti i giorni, tutto il giorno, insieme? Era normale che provasse amore per il proprio migliore amico? No, per Nico non lo era. 

«In nome di Dio» a terra, la sua preziosa collezione dei cofanetti del Glee era a terra. A terra, come lo sarebbe stato il colpevole; Nico, subito pensò a Hazel, oh se l’avrebbe pagata quella signorina! Quando però portò gli occhi sulla persona, che aveva causato la propria ira,  notò che non era affatto Hazel. Eh no, certamente Hazel non era bionda e né un maschio. 
«William Solace, le ultime parole?» con due veloci passi, Nico era su Will –letteralmente, cioè, stava per picchiarlo, ma  se non si fosse saputo  il contesto, tutto avrebbe potuto essere frainteso– e gli aveva stretto i polsi, mentre il biondino aveva stretto le mani in due pugni. 
«È una stupida serie TV, Nico!» quindi Will aveva capovolto la situzione ed era finito su Nico, con le ginocchia stressa ai suoi fianchi e seduto sul bassoventre del povero e sventurato moretto. 
«Una stupida serie TV? Tu sei stupido, non Glee» subito Nico aveva cercato di liberarsi, scalciando e muovendo le braccia freneticamente. 
«Ma tu mi vuoi bene anche se sono stupido, vero Ni’?» il biondo, con l’inteto di innervosire Nico, si era stretto al suo corpo. L'odore di lavanda, fragole e miele – il suo stupido shampoo – invase il senso olfattivo di Nico, che non poté non respirare l’essenza di Will. 
«Ti voglio bene..» iniziò, alzando il mento del biondo con due dita «...come adoro prendere il sole!» allora  pizzicò la parte bassa del mento,, la congiuntura al collo in prantica, per poi liberarsi dalla presa di Will. 
«Nico Di Angelo! Mi hai fatto male!» Will si alzò, per poi rincorrere il moretto per la casa. Erano soli, il padre di Nico e sua sorella Hazel erano da Demetra, la madre della loro matrigna, una sottospecie di nonna. Non sarebbero tornati per altri tre giorni, quindi Will aveva obbligato Nico a ospitarlo per tutti e tre i giorni. 
Quando Will riuscì a prendere Nico, lo bloccò sullo stipite della porta di camera sua, quella completamente nera, quella che avevano dipinto insieme. 
«Tu ed io. Domani sera. Al ristorante cinese» a parlare fu Will, che tuttora non capisce da dove trovò il coraggio di chiedergli, meglio dire imporgliergli, un appuntamento. 
«Lo sai che non mi piace il cinese» rispose, allora, il moretto, lamentandosi. 
«Mio l’appuntamento, mie le regole» se non ci fossero state le braccia di Will a sorreggerlo, probabilmente sarebbe crollato con il sedere a terra. 
«Appuntamento? Cioè, come quelli romantici?» farfugliò più che altro, non trovando le parole adatte. 
«Esattamente»
«Perché?» chiese, il moretto, ma in quel momento il cellulare del biondo squillò, quindi rispose. 
«Mio fratello Lester si è rotto il naso, devo aiutarlo, torno dopo. Ordina la pizza!» quindi gli lasciò un bacio sulla guancia, come era solito fare. 
«A dopo» disse solamente, Nico, confuso da quello che era appena successo. 






L’ANGOLO DI QUELLA CHE PARLA TROPPO. 
Ho questo capitolo (diciamo metà, sì) sul word da fine agosto, ma solo ora sono riuscita a terminarlo. Sono quattro pagine di schifezze, ma di quelle brutte brutte. 
Be’ se dite arrivati fino a qui, vorrei ringraziarvi, siate lodati!! 
Ora vado, che ho un altro capitolo da finire!
Se la storia vi interessa, commentate pure e lasciatemi un parere, che è sempre gradito ;) 
Ci si sente, belli 
Alessia. 

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Capitolo 2
*** 2. ***


                                     2.
                         Ehy! I’m there 
 
 
Percy si alzò dal letto, sbuffando, quando la sveglia a forma di Nemo (perché ehi! Lui può) suonò. Si trascinò fino al bagno, dove passò almeno mezz'ora per prepararsi. 
Era giovedì, questo significava che avrebbe passato almeno quattro ore a osservare la chioma bionda di Annabeth. 
Questa storia sta diventando ridicola” pensò, mentre si lavava i denti. Non chiedeva molto, solo che la ragazza lo notasse, che poi si sposassero e che  avessero tre figli: Mike, Will e Eveleen. 
Sì, non chiedeva così tanto. 
Scese le scale a  due a due e trovò suo fratello –fratellastro– Tyson che faceva colazione; velocemente rubò un pancake dal suo piatto e lo inghiottì più in fretta che poteva. Quindi uscì di casa e aspettò che la sua vicina arrivasse. 
Annabeth Chase non era stupida, il contrario. La prima ad ogni corso, la più sveglia e la più furba; quindi, è lecito dedurre, che si era accorta della cotta del vicino. Inizialmente, a dodici anni, non aveva compreso il motivo dell’interesse di quel ragazzino nei propri confronti, anzi, le dava anche fastidio. Ma lentamente si accorse di provare dei forti sentimenti per lui, talmente tanto forti da non capire perché si trattenesse ancora dal dirgli la verità... o forse lo sapeva: l’orgoglio. 
Nonostante Annabeth fosse sicura dei sentimenti di Percy, non avrebbe potuto accettare un rifiuto da parte sua, le avrebbe distrutto l’animo nonché l’ego. 
Quel mattino aveva legato i capelli biondi in una coda alta, che lasciava cadere solo alcune ciocche a contornare il viso; gli occhi grigi resi felini dalla linea nera di eye-liner; la bocca color fragola grazie al suo rossetto. Era vestita semplicemente: una camicia nera, con le braccia coperte totalmente da merletti del medesimo colore, dei jeans chiari e scarpe da ginnastica. 
«Percy» disse, sorridendo, mentre si avvicinava passo dopo passo al ragazzo. 
Ogni giorno, a seconda di Annabeth, diventava più bello. Gli occhi verdi, quella mattina però, gli sembravano tristi e meno vivi del solito. 
«Annabeth, ciao» il moretto alzò una mano salutandola, sospirando. 
«Ehi, è successo qualcosa?» la ragazza aggrottò la fronte, mordendosi le labbra preoccupata. 
«Sì, domani c’è il test di algebra e non riesco neanche a capire cosa c’è scritto nel libro» abbassò lo sguardo imbarazzato, tamburellando con le dita sui jeans.
«Posso aiutarti io» iniziò la bionda, alzandogli il mento con le dita «sì, insomma, ho fatto quest’esame l’anno scorso e sono decisamente in grado di spiegarti queste cose» Annabeth lesse gratitudine nei suoi occhi, poi però questi si posarono sulle labbra della bionda e poi di nuovo nei suoi occhi. 
Annabeth lasciò che la propria mano arrivasse dietro al collo del ragazzo e, mentre si alzava sulle punte, chiuse gli occhi. 
«Percy? Annabeth?» 
Tac. Magia rovinata. 
I due protagonisti si separarono imbarazzati, non riuscendosi a guardare negli occhi. 
Percy si girò verso la voce che prima aveva parlato; un elfo ispanico si piazzò davanti i loro occhi, sorridendo maliziosamente. Era uno di quei sorrisi che prevedeva un'esplosione e questa cosa non piaceva affatto ai due. 
«Leo, ma che piacere» disse ironicamente Percy, alzando gli occhi al cielo. 
«State aspettando l’autobus oppure cercavate un posto dove limonare senza essere disturbati?» il sorrisetto maligno non era ancora stato cancellato dal volto di Leo, segno che non era l’ultima battuta su quel... come chiamarlo... quasi bacio. 
Leo Valdez era un ragazzo vispo, che captava ogni singola debolezza per piazzare una delle sue battute pessime, come quella di prima. 
«NOI NON- Noi non stavamo limonando» Percy era divento completamente rosso per l’imbarazzo, avrebbe voluto ucciderlo, ma anche se avesse potuto non l’avrebbe fatto, era troppo leale anche solo per picchiarlo. Insomma, Percy teneva tanto all’amicizia... forse era per quest’ultima che non aveva mai parlato dei propri sentimenti alla bionda. 
Leo li fissava divertiti, finché il proprio sguardo non fu portato su altro: la causa che gli toglieva il sonno da  giorni, oramai. 
«Devo andare perdenti, ci si vede!» corse subito via, lasciando i due ragazzi interdetti e imbarazzati. 
 
***
Calipso –nonsailsuocognome— si era trasferita da poco in città, proveniva da un’isola orientale poco nota; i capelli color miele, gli occhi di cerbiatto e il profumo di cocco avevano stregato il Latino. 
«Calipso! Mio fiorellino, dolce scoiattolino, ti posso portare la borsa?» eccolo lì, Leo, con tutta la spavalderia del mondo. 
Calipso roteò gli occhi e sorrise  fintamente. 
«Leo, mia rottura personale, fastidiosa palla di fuoco, credi che io non possa portarla da sola? Non sono forte abbastanza, per caso?» chiese, sapendo di mandare il ragazzo in difficoltà. 
Difatti il sorriso sul suo viso vacillò per un attimo, ma poi trovò la risposta da dare. 
«Io trovo che tu sia fortissima, ma anche bellissima! Vuoi rovinare la tua bellezza portando una borsa pesante?» pensava di averla vinta, ma cavoli se si sbagliava. 
«Ah, quindi tu pensi che io sia bella? Io non sono solo bella, ho anche un cervello» iniziò, camminando lontano dal ragazzo «ora lasciami in pace, mi hai offesa!». 
Calipso sospirò di sollievo quando notò che il ragazzo non l’aveva seguita, mancavano pochi metri alla propria scuola quando si accasciò a terra, non curandosi del vestito indossato. 
Lei non era cinica come era sembrata, voleva solamente allontanare Leo; non che le dispiacessero le sue attenzioni, ma non poteva farsi piacere quel ragazzo o qualsiasi ragazzo, non se avessero potuto trasferirla di nuovo.
 
 
***
«...E quindi –la campanella suonò, distraendo il professore per pochi attimi— ehi! Non scappate. Studiate dal paragrafo 5. al 6.5» 
Leo uscì sbadigliando da quella noiosissima lezione di Filosofia. Cavolo, lui sognava di diventare un inventore, non un filosofo! 
Non riusciva a non pensare a quello che era successo in precedenza, doveva assolutamente rimediare al disastro con Calipso. 
Mentre camminava pensieroso non si accorse di una lattina di gassata lasciata sui pavimenti del corridoio e la fece cadere, sbattendola  con il piede. 
«Ciao, Hazel» salutò meccanicamente, mentre una sua carissima amica gli passava accanto correndo. 
Hazel Levesque non si era neanche accorta del ragazzo, stava correndo al piano superiore: nell’aula di disegno. 
Disastrosamente scivolò a causa del laghetto di gassata creatosi, ma stranamente non cadde a terra, due braccia la stava reggendo saldamente; era in completo stato di confusione, con gli occhi sgranati e le piccole braccia che stringeva quelle del ragazzo difronte. 
Frank non doveva neanche esserci in quel corridoio, doveva essere da tutt'altra parte, ma fortunatamente era capitato nel posto giusto al momento giusto. 
Gli occhi dorati  della ragazza lo stupirono a tal punto da ammutolirlo, mentre ancora la stringeva forte a sé. 
«Hazel, tutto bene?» fu una terza persona a interrompere quello scambio di sguardi; la mora si girò e notò suo fratello, be’ fratellastro, Nico che la guardava preoccupato –accanto a lui c'era, irrimediabilmente il suo migliore amico Will. 
Hazel si staccò dal ragazzo asiatico e si ricompose «Sto benissimo, grazie a.. uhm» non sapeva il nome del suo eroe, quindi si girò verso di lui e gli sorrise «Frank Zhang» disse il proprio nome, sorridendo di rimando a Hazel. 
«Be’, grazie Frank Zheng di aver salvato mia sorella» per la seconda volta Nico si intromise, ottenendo un’occhiata minacciosa, o quasi, da Will. 
«Nico oggi viene da me, Haz» irruppe Will «magari puoi invitare il tuo nuovo amico a casa, se non è un maniaco ovviamente» Frank lo guardò stranito, mentre Nico gli aveva dato un pizzico sul braccio. 
«Be’, è stato un piacere, hasta la vista» Wll  trascinò Nico via, lasciando Hazel e Frank soli. 
«Posso accompagnarti in classe, se vuoi» propose Frank, arrossendo un pochino. Dannata timidezza. 
«O-oh, sì certo» Hazel gli sorrise, facendogli strada. 
 
***
«Jason, non è possibile!» disse Piper, cercando di trattenere le lacrime. 
«Posso spiegare, non è come credi» rispose il biondo, mettendosi una mano davanti alla bocca, cercando di non far vedere ciò che aveva sulle labbra. 
«Non è come credo? Ah no? È o non è carne di animale quella che stai mangiando?» allora Jason spostò la mano, mostrando la carne di manzo che stava mangiando. 
«È così buona Pips, non ne potevo più della soia» inghiottì il boccone, mandando poi delle occhiatacce a Percy che non la smetteva di ridere. 
«Scordati i miei baci per una settimana» la Cherokee prese il proprio vassoio e fuggì via da quel tavolo, rifugiandosi nel cortile 
«Tu non ridere. Almeno io e lei ci baciamo, non come te e Annabeth» Percy soffocò col proprio cibo, puntando lo sguardo sul posto che prima era occupato dalla bionda. Annabeth aveva rincorso l’amica e ora sedevano insieme. 
«Leo?» chiese, dopo aver bevuto. 
«Anche, ma si capisce lontano un miglio che vi piacete. Mettete da parte tutto e parlate, stupidi» ed ecco qui che arrivò Leo affranto, con poco e nulla sul vassoio. 
«Calipso?» chiese Jason, Leo annuì. 
«Non riesco a capire... io- Io ci provo sul serio a piacerle, sul serio, ma lei mi tratta come se fossi un reietto» sconsolato posò la testa sul tavolo, sospirando. 
«Magari è vegana anche lei e odia il tuo alito da carnivoro» se ne uscì Jason, alzando le spalle. 
«O magari le piaci ma non te lo vuole dire» disse Percy, con la bocca piena. 
«Non siete d’aiuto, ragazzi» brontolò Leo, incantandosi per un attimo quando notò Calipso.
Si alzò dal tavolo e corse verso quello della ragazza, facendo ridacchiare i due. 
«Ci risiamo» dissero entrambi. 
 
«Calipso, ciao» Leo parlò in modo, stranamente, gentile e pacato. 
«Leo, ciao a te» Calipso era di malumore e giocava con il cibo nel piatto. 
«Non sei vegana» improvvisò lui, facendo scuotere la testa alla ragazza. 
«Che c'entra questo?» chiese confusa, posando la forchetta nel piatto. 
«Oh, nulla nulla» Leo le sorrise e, come quando era nervoso, tirò fuori l’accendino di sua madre, l'unica cosa che gli era rimasta di lei. 
Leo giocava ad accenderlo e spegnerlo, fino a quando una fiamma più alta gli arrivò ai capelli mandandoli quasi in fiamme. 
Calipso rise parecchio per la reazione del ragazzo; aveva infatti preso la bottiglia di acqua dal vassoio della ragazza, versandola sui capelli in fiamme. 
«Se devo prendere fuoco per farti ridere, lo farò ogni giorno» disse Leo, facendo ammutolire Calipso. 
«Non sono quel che sembro, Leo, tu non puoi capire» Calipso prese la sua borsa e decise di andare via.
«Mettimi alla prova, allora» ma la ragazza era già andata e i sorrisi erano svaniti dai loro volti. 
 
 
 
 
 
 
L’ANGOLO DI QUELLA CHE PARLA TROPPO 
 
j'ai fini ( ?) credo si dica così, non so... io faccio il classico, non il linguistico e non so questa meravigliosa lingua nota come Francese. 
Okay, ho finito di dire cazzate. . . o forse no. 
VAAABBÈ, passando al capitolo, che ve ne pare? 
Pensate che l'ho terminato con la febbre e sto per morire, k k. 
Lasciate delle recensioni se volete che io aggiorni prima, anche negative (quelle costruttive sono sempre le migliori). 
Un saluto e al prossimo capitolo,
-Alessia. 

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