Risplenderemo insieme nell'eternità di un mondo perfetto

di Persej Combe
(/viewuser.php?uid=527381)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Come il sole all'alba ***
Capitolo 2: *** Un caffè ***
Capitolo 3: *** Albore di un Milotic ***
Capitolo 4: *** Egoismo ***
Capitolo 5: *** Ascesa alla Torre Maestra - I ***
Capitolo 6: *** Ascesa alla Torre Maestra - II ***
Capitolo 7: *** Ascesa alla Torre Maestra - III ***
Capitolo 8: *** Che cos'è l'eternità? ***
Capitolo 9: *** Il Pokémon dalla vita eterna ***
Capitolo 10: *** Un mondo perfetto? ***
Capitolo 11: *** Dopo un tramonto non può nascere che un'alba ***
Capitolo 12: *** Glielo avrebbe confessato, prima o poi ***
Capitolo 13: *** Una promessa per l'eternità ***
Capitolo 14: *** Presagi ***
Capitolo 15: *** Un antico re ***
Capitolo 16: *** Il destino che è scritto nelle stelle ***
Capitolo 17: *** Petali nella tempesta ***
Capitolo 18: *** Di bianco, rosso e nero ***
Capitolo 19: *** Nella foresta buia (Prima parte) ***
Capitolo 20: *** Nella foresta buia (Seconda parte) ***
Capitolo 21: *** Sorge il destino sulla Torre Maestra ***
Capitolo 22: *** Schiusa ***
Capitolo 23: *** Turbinio interiore ***
Capitolo 24: *** Legami ***
Capitolo 25: *** La farfalla nel deserto ***
Capitolo 26: *** Una richiesta sussurrata tra i sedili di una macchina ***
Capitolo 27: *** Ciò per cui io voglio lottare ***



Capitolo 1
*** Come il sole all'alba ***



..


1 .  Come il sole all'alba


 

   In un tiepido pomeriggio di primavera, un uomo e una donna erano seduti a un tavolo di uno dei tanti Caffè di Luminopoli a godersi la fresca brezza che soffiava delicatamente tra le strade della città.
   «Quindi, vediamo un po’...» disse la donna aprendo una cartina e stendendola bene sul tavolo «Dove vogliamo andare dopo?».
   «Non so te, ma io non vedo l’ora di visitare la Torre Prisma!» esclamò il suo compagno.
   «La Torre Prisma? Ma...! Adesso? Insomma, è ancora giorno... Non sarebbe più bello vederla di notte?».
   «L’ho vista tante volte alla televisione e adesso che sono qui, a poca distanza da essa, sono eccitato come un bambino a Natale! Ah, la ringrazio!» sorrise al cameriere che stava posando sul tavolino le due bibite che avevano ordinato.
   «Sì, però questo non mi pare il momento più adatto... Scusi, posso chiederle un parere? Dato che lei abita qui ne saprà sicuramente più di noi... Secondo lei quando è il momento migliore della giornata per salire sulla Torre Prisma? La mattina o la sera?».
   Il cameriere rimase a riflettere per qualche istante sulla risposta da dare passandosi il pollice sinistro sul mento barbuto.
   «Penso che al tramonto sia più romantico», disse semplicemente. Sì, il paesaggio di Kalos illuminato dalla luce rossa del sole che tramonta era una delle viste più belle in assoluto, per lui.
   I due si guardarono e sorrisero.
   «Beh, cara, che ne dici?».
   «Mi pare un’idea meravigliosa!».
   Il cameriere gli rivolse un cenno cordiale e tornò dentro al bar. Quasi non inciampò in un bambino che stava giocando a rincorrersi fra i tavoli con il suo Pachirisu. Il ragazzino, spaventato dalla stazza di lui, prese in braccio il Pokémon e gli chiese scusa, le guanciotte tutte rosse.
   «Stai solo attento a non farti male», disse. Gli fece una mezza carezza sulla testa e se ne andò. I bambini non erano proprio il suo forte, doveva ammettere. I giorni in cui anche lui aveva vissuto nell’euforia dell’infanzia a correre e a rotolarsi nei prati parevano appartenere a un tempo remoto e distante, di cui non aveva più larga memoria. Persino nel suo aspetto si faceva fatica a riconoscere qualche traccia di quel periodo felice. Infatti, nonostante fosse di giovane età, i tratti del suo viso apparivano già duri e robusti; gli zigomi leggermente pronunciati e la folta barba rossa che gli cresceva sotto le guance lo facevano sembrare di qualche anno più grande. Lo sguardo responsabile e intelligente, inoltre, non faceva che aumentare la certezza di trovarsi di fronte ad un uomo maturo e giudizioso.
   Si guardò in giro con i pugni poggiati sui fianchi. Sul suo volto si dipinse un’espressione soddisfatta: nonostante il locale fosse aperto solo da poco più di un mese, i clienti già erano abbastanza. C’era un clima sereno e si lavorava bene. Un gruppo di persone lo chiamò al proprio tavolo e, quando lui andò da loro per portargli le ordinazioni, rimase a osservare un ragazzo seduto qualche metro più in là, che ad occhio e croce pareva avere più o meno la sua stessa età.
   Era un tipo curioso. Frequentava il Caffè in modo assiduo e già altre volte aveva attirato la sua attenzione. Arrivava a metà mattinata con una faccia assonnata e si sedeva sempre a quel tavolo. Non aveva mai cambiato posto dal primo giorno in cui era venuto. Poi ordinava un caffè, qualche pasticcino e dei Pokébignè per i suoi Pokémon che ogni tanto portava con sé e dalla borsa prendeva due, tre quaderni e si metteva a leggere e a scrivere, concentratissimo. In effetti, dava l’aria d’esserlo anche in quel momento. I suoi occhi grigi erano fissi sul foglio, la mano, impugnando la penna, correva veloce tra i quadretti. Ad un tratto, il giovane si accarezzò un ciuffo di capelli bluastri con le dita e se lo portò dietro all’orecchio. Il movimento di quella mano lasciò il cameriere come affascinato.
   “Quanta grazia in un simile gesto...” pensò, lo sguardo ancora fermo su di lui.
   Il ragazzo alzò la testa e sorrise. Il suo Bulbasaur era salito sul tavolo e stava osservando con occhi affamati il piatto di bignè. Lui ne prese uno e glielo porse.
   «Ecco, tieni!» disse, sempre sorridendo.
   Il Pokémon ruggì entusiasta e diede un morso al dolce. Mentre le labbra di quell’altro si incurvavano mosse da una risata, il cameriere, non sapeva come né perché, sentì una sorta di calore sulle guance. Più guardava quella persona, più la vedeva risplendere di una fioca e tenue luce, morbida come il sole all’alba. C’era qualcosa in lui che fin dal primo giorno in cui lo aveva visto nella caffetteria gli aveva trasmesso una sensazione familiare, eppure era abbastanza sicuro di non averlo mai incontrato prima. Forse si sbagliava?
    Non aveva mai avuto l’occasione di prestargli servizio, ma si giurò che prima o poi lo avrebbe fatto, per conoscere chi fosse questo giovane a cui apparteneva quell’aura meravigliosa.
   Era tanto preso dai suoi pensieri che quando si rese conto che stava per andarsene sussultò. Il ragazzo dai capelli blu si era alzato, aveva raccolto le sue cose e il suo Bulbasaur si era aggrappato alla sua spalla. Per poco non si scontrarono sulla soglia dell’uscita della caffetteria. Si scambiarono uno sguardo imbarazzato.
   «Ti chiedo scusa, sono di fretta e non ho guardato bene...» disse quello.
   «No, sono io che ero sovrappensiero...» disse il cameriere.
   Improvvisamente egli vide un bagliore nei suoi occhi chiari, una scintilla che in qualche modo gli era conosciuta. Si rese conto di aver già vissuto una situazione simile a quella, ma non riusciva a ricordare né quando, né dove. Il giovane gli rivolse un sorriso fugace, per qualche istante gli sembrò persino che fosse arrossito, poi scomparve oltre la porta insieme al suo Bulbasaur, come il sole che si nasconde dietro alle nuvole. Di nuovo si ritrovò perduto nei suoi pensieri. Avrebbe voluto fermarlo, parlargli, chiarire i propri dubbi assieme a quella persona misteriosa, ma non aveva trovato la forza di agire, trastullato com’era nella sua confusione. Si risvegliò solamente nel momento in cui si sentì chiamare per nome: «Elisio, vuoi venirmi a dare una mano con questi clienti?!».





 


Questa storia è stata revisionata tra fine 2018 e fine 2019. Sebbene all'inizio fossi partita con l'idea di riscrivere tutto, alla fine ho deciso di non toccare troppo il testo e di lasciarlo il più possibile così come era per poter tenere una traccia dei miei cambiamenti nel corso degli anni qui su Efp (ne parlo più approfonditamente nelle note del capitolo 26). Inevitabilmente i primi capitoli suoneranno un po' più infantili, ma spero lo stesso che possano coinvolgervi in qualche modo ♥
Persej

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Un caffè ***



..

2 .  Un caffè


 

   Le porte dell’ascensore si chiusero ed Elisio rimase da solo a pensare. Nelle ultime settimane c’era stato un intoppo nella lavorazione al progetto dell’Holovox. Nel sistema centrale era stato rilevato un errore, piccolo, probabilmente per distrazione di qualche programmatore, di cui né lui né i suoi colleghi si erano accorti prima, ma che era costato l’interruzione a lungo termine della produzione totale. Sospirò: curioso come in pochi secondi un piccolo dettaglio possa mandare in frantumi grandi aspirazioni a cui ci si è dedicati con zelo per tanto tempo! Uscì dall’ascensore e all’ingresso del Laboratorio incontrò una delle sue colleghe, Akebia.
   «Elisio, se sei stanco va’ a casa a riposarti», gli disse la ragazza, notando le profonde occhiaie scure che aveva sotto gli occhi: erano due giorni interi che stava con lo sguardo incollato al monitor del suo computer per cercare di risolvere quel dannato problema, ma, nonostante sentisse la stanchezza pesargli su tutto il corpo, si era detto che si sarebbe riposato solamente quando sarebbe riuscito a risolvere la faccenda. «Baderò io a tutto quanto».
   Elisio scosse la testa: «No, stai pure tranquilla. Ho tutto sotto controllo. Mi preparo un caffè giù al bar, dieci minuti di pausa e mi rimetto all’opera».
   La ragazza scrollò remissiva le spalle: «D’accordo...» disse, con quell’uomo non c’era verso di ragionare. Con uno sbuffo entrò nell’ascensore, guardandosi nello specchio al lato e accarezzandosi i capelli color carota.
   «Ah, già!» esclamò poi, voltandosi di nuovo verso il capo, «Non ho idea di chi sia, ma nel locale c’è ancora qualcuno».
   «Ancora?» chiese. Scostò la manica dal polso e guardò l’orologio, «L’ora di chiusura è passata da un pezzo. Non gli hai detto di andarsene?».
   «Sono una scienziata di laboratorio, mica una cameriera! Il proprietario della caffetteria sei tu, quindi spetta a te mandarlo via. E adesso vado, non voglio creare altri ritardi sulla tabella di marcia».
   Il ragazzo entrò nel bar dalla porta di servizio vicino alla libreria. Si guardò intorno ed effettivamente notò la sagoma di una persona in un angolo della stanza.
   Quell’angolo della stanza.
   Senza pronunciare parola si avvicinò all’acquario vicino al bancone dove teneva il suo Magikarp. Prese una bustina e sparse del mangime nella vasca. Il Pokémon si mise a nuotare disegnando tanti cerchi nell’acqua, manifestando la sua contentezza. Elisio si sfilò un guanto, immerse la mano e gli diede una carezza.
   «Un giorno anche tu risplenderai della tua vera bellezza», disse.
   «La maggior parte dei ragazzini che vengono al Laboratorio lo ritiene un Pokémon inutile. Mi fa piacere che ci sia qualcuno che sappia apprezzarlo».
   La sagoma seduta nell’angolo si alzò dal tavolo e si accostò ad Elisio. Salutò Magikarp con un sorriso agitando la mano davanti al vetro dell’acquario.
   «Quando l’ho incontrato ho deciso di catturarlo e prendermene cura per questo motivo. Mi ero promesso che un giorno sarei riuscito a far fiorire la sua bellezza. Sono convinto che la grazia sia sopita in ognuno di noi, anche negli esseri più mediocri, e essa può sbocciare in tutti quanti se si ha il desiderio di farlo, se ci si impegna per renderlo possibile».
   «Che nobile pensiero...».
   I due rimasero in silenzio a guardare Magikarp mentre mangiava.
   «Anche questo mondo potrebbe diventare migliore, se soltanto le persone si dessero da fare per preservarne la sua natura originaria, piuttosto che continuare a degenerarla con certi gesti volti soltanto a prevaricarsi gli uni sugli altri», commentò Elisio dopo un po’, ripensando al suo discorso.
   L’altro girò il viso e si mise ad osservare il vicino. Gli occhi azzurri e limpidi, lo sguardo fiero e il suo portamento lo facevano apparire alla stregua di un re o di un principe.
   «Tu sei quello contro cui stavo per andare a sbattere qualche settimana fa, non è vero?» disse, «Ti chiedo ancora scusa».
   «Figurati. Non ce n’è bisogno».
   Piombò nuovamente il silenzio. Elisio andò al bancone e preparò la macchina del caffè. Chiese all’altro se ne volesse uno anche lui e questo accettò di buon grado.
   «Consideralo un omaggio della casa, a quest’ora il locale sarebbe chiuso e non potrei servire nulla ai clienti. Per stavolta farò uno strappo alla regola, ma non contare che accada di nuovo».
   «...Sarebbe chiuso? Ma... Come mai allora la porta era aperta?».
   «È aperta per altri motivi. Ah, non fare quella faccia!» sbirciò il ragazzo con la coda dell’occhio e nel vederlo contorcere il viso in un’espressione imbarazzata gli scappò una risata, «Non è un problema se sei entrato... In effetti dovrei trovare un altro modo per consentire l’accesso ai Laboratori ai miei colleghi, forse da un’altra entrata...».
   «Certo però che se lo sapesse il tuo capo...» bisbigliò preoccupato, arricciandosi un ciuffo di capelli attorno a un dito. Il giovane dai capelli rossi rise di nuovo: «Sono io il mio capo!».
   «...Ah!» si fermò all’improvviso «Beh! Allora suppongo che non ci siano problemi! ...Giusto?».
   Elisio gli rivolse un sorriso familiare e versò il caffè nelle loro tazze. Si sedettero l’uno di fronte all’altro e bevvero insieme.
   «Perciò saresti tu l’Elisio da cui prende il nome questa caffetteria...».
   «Sì, proprio così».
   «Allora molto piacere, Elisio!» gli tese la mano destra in segno di amicizia «Io sono il Professor Platan! Ehm... Cioè... In realtà non lo sono ancora... Ho l’esame tra qualche settimana, ma sono sicuro di riuscire a passarlo!».
   «Ti dispiace se allora per il momento ti chiamo solo Platan? Diciamo... per scaramanzia».
   «No no, per nulla, mon ami!».
   Lo guardò e rise imbarazzato. Non lo aveva fatto apposta: chiamarlo in quel modo gli era venuto più che spontaneo.
 «Oh!» esclamò, «Forse è troppo presto per chiamarti già così, ti chiedo scusa... Comunque sia,» cambiò subito discorso «l’esame deve assolutamente andare bene. In questi ultimi cinque anni ho fatto un seminario a Sinnoh con il Professor Rowan e ho lavorato molto per raggiungere questo obiettivo. È un po’ il sogno della mia vita conoscere i Pokémon per migliorare e rafforzare il nostro legame con loro... In fondo ritengo che alla fine non siamo così diversi».
   «Capisco quello che intendi, è un ragionamento molto interessante», disse, e gli strinse la mano. «Il piacere è tutto mio, Platan».
   Mentre le loro dita si toccavano si sorrisero pieni di entusiasmo.
   Quanto avevano aspettato entrambi per conoscersi! Finalmente era successo!
   Passarono il resto del tempo a chiacchierare animatamente, come amici di vecchia data rincontratisi di nuovo dopo tanti anni. Elisio raccontò a Platan del suo progetto dell’Holovox, del fatto che avesse aperto il locale per guadagnare qualche soldo e avere dei fondi da cui attingere per il proprio lavoro, di quanto a lungo se ne fosse curato. Tutti e due erano così attratti l’uno dall’altro, così immersi nei propri discorsi, che non si accorsero del fatto che Akebia era da ormai almeno cinque minuti ferma lì vicino a loro ad ascoltare cosa avevano da dirsi e a osservare il modo in cui interagivano, appoggiata con una spalla alla libreria vicino alla porta dei laboratori.
   «E pensare che dovevano essere solo dieci minuti di pausa!» mormorò divertita tra sé.


***
Angolo del francese.
   * Mon ami = Amico mio

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Albore di un Milotic ***



..

3 .  Albore di un Milotic


 

   «Non pensavo davvero che saresti venuto anche tu alla cerimonia della mia nomina! Mi fa molto molto piacere!» a Platan brillavano gli occhi per l’emozione.
   Quasi non ci credeva che si trovasse là davanti a lui. Ci aveva sperato talmente tanto per tutto il tempo nonostante Elisio gli avesse detto che pieno d'impegni com'era probabilmente non ce l'avrebbe fatta ad essere presente; però poi alla fine, mentre si stava preparando per l’evento, si era rassegnato: non aveva ricevuto neanche una telefonata da parte sua, e, comunque, non se l'era sentita di disturbarlo per chiedergli una cosa così sciocca.
   Beh, sciocca. Per lui era importantissima.
   Per questo motivo voleva condividere la gioia di quel momento insieme a lui, il suo migliore amico. Anche se erano passate soltanto poche settimane, il legame tra loro si era già fatto molto forte, come se si fossero conosciuti da sempre – ed egli da una parte sapeva che doveva essere stato così.
   Platan era talmente contento in quel momento che avrebbe voluto abbracciare Elisio e stringerlo forte forte a sé. Non riuscì neanche a contenersi, in un attimo era già con il viso affondato nella pelliccia della sua giacca e le braccia attorno al suo collo.
   «Ah! Mon ami, sono così felice!» esclamò.
   Elisio si sentì diventare rosso: non era del tutto avvezzo a quel genere di cose. Tuttavia mentre ricambiava l’abbraccio si lasciò sfuggire un sorriso amorevole. Vedere il suo amico così pieno di gioia non poteva che avere lo stesso effetto su di lui.
   «Buongiorno, Platan. O meglio, Professor Platan».
   Improvvisamente il ragazzo si staccò da Elisio e si girò dalla parte opposta.
   «Professor Rowan!» gli tremava la voce e ci sarebbe mancato poco che si sarebbe persino messo a piangere per la commozione «Oh, ma c’è anche il Professor Oak!» fece una sorta di piccolo inchino «È un onore conoscerla!».
   Sentì la mano di Elisio posarsi sulla sua spalla sinistra per dargli un po’ di conforto. Eh sì, qualche lacrimuccia già aveva cominciato a scendere. Platan si asciugò gli occhi, gli rivolse uno sguardo di gratitudine e ridendo disse: «Perdonami, mon cher, troppe emozioni tutte insieme!».
   Poi alzò un braccio indicando con il palmo aperto i due uomini per presentarli all’amico e continuò: «Ecco, questo è il mio mentore, il Professor Rowan!».
   «Finalmente ho il piacere di incontrarla. Platan mi ha parlato così tante volte di lei, non nascondo che ero molto curioso di conoscerla», disse Elisio scambiandosi un’occhiata d’intesa con Rowan.
   «E quest’altro signore qui è il Professor Oak, viene dalla regione di Kanto!».
   «Molto lieto».
   Platan rimase ad osservare i due Professori con il cuore che gli batteva a mille. Adesso era uno di loro. La sua mente volò col pensiero a tutte quelle cose che avrebbero potuto fare insieme, scambiarsi ricerche, condividere scoperte scientifiche, collaborare in gruppo per un mondo in cui Pokémon ed esseri umani potessero vivere insieme serenamente.
   «Il tuo amico non ce lo presenti?» disse Oak rivolgendogli uno sguardo interrogativo.
   «Ah, ma certo!» esclamò il neo Professore in tono lievemente imbarazzato, afferrando il rosso per un braccio «Lui è Elisio, è un mio carissimo amico! È un genio informatico. Forse avrete sentito parlare del progetto dell’Holovox... Ebbene, è una sua invenzione! E in più sa fare un caffè che è très très bon!».
   «Una mente brillante, a quanto pare», osservò Rowan lisciandosi i baffi «È bello sapere che tu abbia qualche amico qui a Kalos, mio caro Platan. Quando studiavi a Sinnoh non facevi altro che passare intere giornate con la testa chinata sui libri. Eri gentile e solidale con tutti, ma non hai mai instaurato un rapporto che fosse anche un minimo più profondo con gli altri studenti se non quello di semplici compagni di studio. Elisio,» si girò verso di lui «ti chiedo di stare vicino a Platan, so che ne ha bisogno. Prenditi cura di lui da parte mia, ora che io non posso più farlo».
   Elisio rimase leggermente frastornato da ciò che aveva appena sentito. Guardò Platan. Com’era possibile che una persona così espansiva non avesse mai avuto amici, prima? Comunque stessero le cose, si disse che avrebbe fatto di tutto per mantenere fede alla richiesta del Professor Rowan e si sarebbe impegnato a stargli sempre accanto.
   «Platan, ti ero venuto a cercare per farti i miei complimenti», disse ancora il Professore «Hai superato l’esame con il massimo dei voti e senza nemmeno fare errori».
   «Ah, ma è tutto merito suo e dei suoi insegnamenti!» disse imbarazzato.
   «I miei insegnamenti costituiscono solo una parte della tua conoscenza. Ciò che è più rilevante è il modo in cui ti sei dedicato agli studi, il modo in cui tu hai assimilato ciò che io ti ho insegnato. Sei riuscito ad amalgamare tutto in maniera perfetta, guidato dalla passione, ed è questo che è importante in un Professore di Pokémon. Un Professore deve prima di tutto amare quello che fa e trasmettere questo amore anche agli altri. So quanto sei innamorato della scienza dei Pokémon, per questo sono sicuro che riuscirai a tramandare molto alle persone che incontrerai. Sono davvero fiero di te, ragazzo mio!».
   Platan si strinse a Rowan, talmente era grande la sua gioia. Sentirsi dire quelle cose dal proprio maestro lo riempiva di felicità, ma una felicità che non aveva mai provato prima, grande, grandissima, che gli faceva vibrare tutto il corpo di un’euforia meravigliosa e dolce. Il Professor Rowan accarezzò teneramente la schiena del giovane per incoraggiarlo. Quando si lasciarono gli sorrise orgogliosamente, come fa un padre quando il proprio figlio è finalmente riuscito ad arrivare al traguardo tanto a lungo sospirato.
   «Platan, nell’altra stanza ci sono anche il Professor Birch della regione di Hoenn e il Professor Elm della regione di Johto, ti va di venirli a incontrare?» chiese il Professor Oak.
   «Oh sì, e non ti dimenticare del Professor Aralia e di sua figlia! Lei è veramente in gamba, personalmente penso che se decidesse un giorno di prendere il posto del padre ne varrebbe davvero la pena!».
   E così iniziava il battesimo del Professor Platan nel suo nuovo mondo.
 

   «È vero quello che diceva stamattina il Professor Rowan?» chiese Elisio una volta che erano andati via dalla festa.
   «Riguardo a cosa?» domandò Platan.
   «Del fatto che stavi sempre attaccato ai libri e...».
   «Ah, quella cosa...» lo interruppe.
   Camminavano l’uno vicino all’altro, immersi nel silenzio. Platan posava lo sguardo un po’ qui e un po’ lì, evitando di proposito di fissarlo sul viso dell’amico. Quell’argomento lo imbarazzava terribilmente, ma, per quanto se ne vergognasse, Elisio gli aveva fatto una domanda e lui non poteva lasciar stare le cose senza dargli una risposta. Perciò prese coraggio e: «Beh...» cercò di dire «Più o meno sì... Però avevo i miei Pokémon, quindi non mi sono mai sentito completamente solo».
   «Come mai?».
   «Ah... Vuoi sapere tutta la storia, eh?» arrossì «Non mi piace molto raccontarla, ma in effetti è passato così tanto tempo che ormai è diventata una cosa proprio sciocca, in effetti...».
   «Se parlarne ti dà fastidio, possiamo anche passare a qualche altro argomento. Non voglio metterti a disagio».
   «No, ma che dici, tu non mi metti a disagio! ...Insomma, sei mio amico! Ecco, visto che siamo amici, non dovremmo forse dirci tutto? Quindi te lo racconterò! Allora,» cominciò dopo aver preso un grande respiro «quando ero bambino ero lo zimbello della classe. Non solo ero un gran secchione, ma... Ehm... Diciamo che non ero proprio un ragazzo molto carino... Ancora ricordo quando ero riuscito a dire a una mia compagna di scuola che mi piaceva e lei aveva risposto: “Che cosa? Scherzi? Preferirei mettermi con uno stupido Patrat anziché con te! Lui almeno è un po’ più grazioso!”. Ah, come ci sono rimasto male!».
   «Mi dispiace per lei, ha fatto proprio un grandissimo errore!» rise Elisio.
   «Eh già, pover...! ...No, aspetta! Cosa... vorresti dire con questo?».
   Si fermarono in mezzo alla strada a guardarsi negli occhi. Elisio arrossì un po’. Il viso di Platan accarezzato dai raggi del tramonto era qualcosa di indescrivibilmente bello. Preso da tanta grazia, posò una mano sulla sua guancia, come se avesse bisogno di sentirla tra le dita. Lo carezzò piano, come intimorito dal fatto che se avesse premuto anche un pochino di più gli avrebbe fatto male. I suoi lineamenti erano così delicati da apparire quasi fragili. Per qualche istante infinito si perse nei suoi occhi grigi, come immerso nella nebbia.
   «Sei come un orripilante e insulso Feebas che si trasforma in un incantevole e splendido Milotic», sussurrò.
   «Elisio...» disse piano, abbassando di poco la testa per sfuggire al suo sguardo.
   «Ti prego, lasciati guardare ancora. Sei così bello, Platan...».
   «V-va bene, d’accordo...».
   Probabilmente era il più bel complimento che gli avessero mai fatto in tutta la vita. Si ripeté quelle parole nella mente tante e tante volte e in ogni momento non poteva far altro che rimanere incantato dal tono lieve con cui l’amico gliele aveva dette.
   «Sei proprio come il mio Magikarp».
   Rise per quello strano paragone. Poi capì quello che intendeva e disse: «Dopotutto non sarebbe neanche tanto strano... Come il tuo Magikarp diventerà un maestoso Gyarados grazie alle tue cure, anche io, adesso, sono così grazie a te».
   Elisio gli rivolse un’occhiata confusa.
   «Quel giorno, tanto tempo fa. Te lo sei dimenticato?».
   D’improvviso, sollecitato da quelle parole, Elisio parve ricordare. Restò come frastornato per pochi istanti.
   «...No, non l’ho dimenticato», diceva così, ma in realtà le uniche cose che riusciva a riportare alla mente erano il viso di Platan e l’immagine delle loro mani strette fra di loro. Tutto il resto, però, era stato cancellato.
   «Da quel giorno ho cominciato a fiorire. E lo devo soltanto a te, Elisio».
   «Quel giorno, tanto tempo fa...».
asi non ci credeva che si trovasse là davanti a lui. Ci aveva sperato talmente tanto per tutto il tempo nonostante Elisio gli avesse detto che pieno d'impegni com'era probabilmente non ce l'avrebbe fatta ad essere presente; però poi alla fine, mentre si stava preparando per la cerimonia, si era rassegnato: non aveva ricevuto neanche una telefonata da parte sua, e, comunque, non se l'era sentita di disturbarlo per chiedergli una cosa così sciocca.
 Beh, sciocca. Per lui era importantissima.
 Per questo motivo voleva condividere la gioia di quel momento insieme a lui, il suo migliore amico. Anche se erano passate soltanto poche settimane, il legame tra loro si era già fatto molto forte, come se in realtà si fossero conosciuti da sempre.
 Platan era talmente contento in quel momento che avrebbe voluto abbracciare Elisio e stringerlo forte forte a sé. Non riuscì neanche a contenersi, in un attimo era già con il viso affondato nella pelliccia della sua giacca e le braccia attorno al suo collo.
 «Ah! Mon ami, sono così felice!!!» esclamò.
 Elisio si sentì diventare rosso: non era del tutto avvezzo a quel genere di cose. Tuttavia mentre ricambiava l’abbraccio si lasciò sfuggire un sorriso amorevole. Vedere il suo amico così pieno di gioia non poteva che avere lo stesso effetto su di lui.
 «Buongiorno, Platan. O meglio, Professor Platan».
 Improvvisamente il ragazzo si staccò da Elisio e si girò dalla parte opposta.
 «Professor Rowan!» gli tremava la voce e ci sarebbe mancato poco che si sarebbe persino messo a piangere per la commozione «Oh, ma c’è anche il Professor Oak!» fece una sorta di piccolo inchino «È un onore conoscerla!».
 Sentì la mano di Elisio posarsi sulla sua spalla sinistra per dargli un po’ di conforto. Eh sì, qualche lacrimuccia già aveva cominciato a scendere. Platan si asciugò gli occhi, gli rivolse uno sguardo di gratitudine e ridendo disse: «Perdonami, mon cher, troppe emozioni tutte insieme!».
 Poi alzò un braccio indicando con il palmo aperto i due uomini per presentarli all’amico e continuò: «Ecco, questo è il mio mentore, il Professor Rowan!».
 «Finalmente ho il piacere di incontrarla. Platan mi ha parlato così tante volte di lei, non nascondo che ero molto curioso di conoscerla» disse Elisio scambiandosi un’occhiata di intesa con Rowan.
 «E quest’altro signore qui è il Professor Oak, viene dalla regione di Kanto!».
 «Molto lieto».
 Platan rimase ad osservare i due Professori con il cuore che gli batteva a mille. Adesso era uno di loro. La sua mente volò col pensiero a tutte quelle cose che avrebbero potuto fare insieme, scambiarsi ricerche, scoperte scientifiche, collaborare in gruppo per un mondo in cui Pokémon ed esseri umani potessero vivere insieme serenamente.
 «Il tuo amico non ce lo presenti?» disse Oak rivolgendogli uno sguardo interrogativo.
 «Ah, ma certo!» esclamò il neo Professore in tono lievemente imbarazzato, afferrando il rosso per un braccio «Lui è Elisio, è un mio carissimo amico! È un genio informatico! Forse avrete sentito parlare del progetto dell’Holovox... Ebbene, è una sua invenzione! E in più sa fare un caffè che è très très bon!».
 «Una mente brillante, a quanto pare.» osservò Rowan lisciandosi i baffi «È bello sapere che tu abbia qualche amico qui a Kalos, mio caro Platan, quando studiavi a Sinnoh non facevi altro che passare intere giornate con la testa chinata sui libri. Eri gentile e solidale con tutti, ma non hai mai instaurato un rapporto che fosse anche un minimo più profondo con gli altri studenti se non quello di semplici compagni di studio. Elisio,» si girò verso di lui «ti chiedo di stare vicino a Platan, so che ne ha bisogno. Prenditi cura di lui da parte mia, ora che io non posso più farlo».
 Elisio rimase leggermente frastornato da ciò che aveva appena sentito. Guardò Platan. Com’era possibile che una persona così espansiva non avesse mai avuto amici, prima? Comunque stessero le cose, si disse che avrebbe fatto di tutto per mantenere fede alla richiesta del Professor Rowan e si sarebbe impegnato a stargli sempre accanto.
 «Platan, ti ero venuto a cercare per farti i miei complimenti» disse ancora il Professore «Hai superato l’esame con il massimo dei voti e senza nemmeno fare errori».
 «Ah, ma è tutto merito suo e dei suoi insegnamenti!» disse imbarazzato.
 «I miei insegnamenti costituiscono solo una parte della tua conoscenza. Ciò che è più rilevante è il modo in cui ti sei dedicato agli studi, il modo in cui tu hai assimilato ciò che io ti ho insegnato. Sei riuscito ad amalgamare tutto in una maniera perfetta, guidato dalla passione, ed è questo che è importante in un Professore di Pokémon. Un Professore deve prima di tutto amare quello che fa e trasmettere questo amore anche agli altri. So quanto sei innamorato della scienza dei Pokémon, per questo sono sicuro che riuscirai a tramandare molto alle persone che incontrerai. Sono davvero fiero di te, ragazzo mio!».
 Platan si strinse a Rowan, talmente era grande la sua gioia. Sentirsi dire quelle cose dal proprio maestro lo riempiva di felicità, ma una felicità che non aveva mai provato prima, grande, grandissima, che gli faceva vibrare tutto il corpo di un’euforia meravigliosa e dolce. Il Professor Rowan accarezzò teneramente la schiena del giovane per incoraggiarlo. Quando si lasciarono gli sorrise orgogliosamente, come fa un padre quando il proprio figlio è finalmente riuscito ad arrivare al traguardo tanto a lungo sospirato.
 «Platan, nell’altra stanza ci sono anche il Professor Birch della regione di Hoenn e il Professor Elm della regione di Johto, ti va di venirli a conoscere?» chiese il Professor Oak.
 «Oh sì, e non ti dimenticare del Professor Aralia e di sua figlia! Lei è veramente in gamba, personalmente penso che se decidesse un giorno di prendere il posto del padre ne varrebbe davvero la pena!».
 E così iniziava il battesimo del Professor Platan nel suo nuovo mondo.

 «È vero quello che diceva stamattina il Professor Rowan?» chiese Elisio una volta che erano andati via dalla festa.
 «Riguardo a cosa?» chiese Platan.
 «Del fatto che stavi sempre attaccato ai libri e...».
 «Ah, quella cosa...» lo interruppe.
 Camminavano l’uno vicino all’altro, immersi nel silenzio. Platan posava lo sguardo un po’ qui e un po’ lì, evitando di proposito di fissarlo sul viso dell’amico. Quell’argomento lo imbarazzava alquanto, ma, per quanto se ne vergognasse, Elisio gli aveva fatto una domanda e lui non poteva lasciar stare le cose senza dargli una risposta. Perciò prese coraggio e: «Beh...» cercò di dire «Più o meno sì... Però avevo i miei Pokémon, quindi non mi sono mai sentito completamente solo».
 «Come mai?».
 «Ah... Vuoi sapere tutta la storia, eh?» arrossì «Non mi piace molto raccontarla, ma in effetti è passato così tanto tempo che ormai è diventata una cosa proprio sciocca, in effetti...».
 «Se parlarne ti da fastidio, possiamo anche passare a qualche altro argomento. Non voglio metterti a disagio».
 «No, ma che dici, tu non mi metti a disagio! ...Insomma, sei mio amico! Ecco, visto che siamo amici, non dovremmo forse dirci tutto? Quindi te lo racconterò! Allora,» cominciò dopo aver preso un grande respiro «quando ero bambino ero lo zimbello della classe. Non solo ero un gran secchione, ma... Ehm... Diciamo che non ero proprio un ragazzo molto carino... Ancora ricordo quando ero riuscito a dire a una mia compagna di scuola che mi piaceva e lei aveva risposto: “Che cosa? Scherzi? Preferirei mettermi con uno stupido Patrat anziché con te! Lui almeno è un po’ più grazioso!”. Ah, come ci sono rimasto male!».
 «Mi dispiace per lei, ha fatto proprio un grandissimo errore!» rise Elisio.
 «Eh già, pover...! ...No, aspetta! Cosa... vorresti dire con questo?».
 Si fermarono in mezzo alla strada a guardarsi negli occhi. Elisio arrossì un po’. Il viso di Platan accarezzato dai raggi del tramonto era qualcosa di indescrivibilmente bello. Preso da tanta grazia, posò una mano sulla sua guancia, come se avesse bisogno di sentirla tra le dita. Lo carezzò piano, come intimorito dal fatto che se avesse premuto anche un pochino di più gli avrebbe fatto male. I suoi lineamenti erano così delicati da apparire quasi fragili. Per qualche istante infinito si perse nei suoi occhi grigi, come immerso nella nebbia.
 «Sei come un orripilante e insulso Feebas che si trasforma in un incantevole e splendido Milotic» sussurrò.
 «Elisio...» disse piano, abbassando di poco la testa per sfuggire al suo sguardo.
 «Ti prego, lasciati guardare ancora... Sei così bello, Platan...».
 «V-va bene, d’accordo...».
 Probabilmente era il più bel complimento che gli avessero mai fatto in tutta la vita. Si ripeté quelle parole nella mente tante e tante volte e in ogni momento non poteva far altro che rimanere incantato dal tono lieve con cui l’amico gliele aveva dette.
 «Sei proprio come il mio Magikarp».
 Rise per quello strano paragone. Poi capì quello che intendeva dire e disse: «Dopotutto non sarebbe neanche tanto strano... Come il tuo Magikarp diventerà un maestoso Gyarados grazie alle tue cure, anche io, adesso, sono così grazie a te».
 Elisio gli rivolse un’occhiata confusa.
 «Quel giorno, tanto tempo fa. Te lo sei dimenticato?».
 «...No, non l’ho dimenticato» diceva così, ma in realtà le uniche cose che riusciva a ricordare erano il viso di Platan e l’immagine delle loro mani strette fra di loro. Tutto il resto, però, era stato cancellato.
 «Da quel giorno ho cominciato a fiorire. E lo devo soltanto a te, Elisio».
 «Quel giorno, tanto tempo fa...».


***
Angolo del francese.
   * Mon cher = Caro mio ;
   * Très très bon = Molto molto buono .

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Egoismo ***



..

4 .  Egoismo


 

 Il cielo era rimasto coperto per tutta la mattinata. I palazzi grigi di Luminopoli si confondevano fra le nuvole scure. Ad un tratto si udì un boato. Poi un secondo. Infine cominciò a scendere pioggia.
 «Xante, allora ci pensi tu a quel lavoro?» chiese Elisio afferrando la giacca dall’appendiabiti e mettendosela addosso.
 «Me lo hai già chiesto e ti ho già risposto» disse lo scienziato, alzandosi un attimo gli occhiali e strofinandosi delicatamente un occhio con un fazzoletto.
 «Sì, ma l’indole umana è così volubile. Potresti aver cambiato idea in pochi minuti».
 «Ovviamente è un extra che tu mi retribuirai. Se non avessi avuto un compenso in cambio, non avrei accettato fin dall’inizio. Dato che comunque ci guadagnerò qualcosa, non vedo perché avrei dovuto rifiutare».
 «È solo per soldi che lo fai? Solo per te? Non pensi a quanto potrebbe migliorare la vita degli altri con il tuo lavoro? Non è qualcosa di più gratificante del semplice stringere un mucchio di banconote tra le mani?»
«In questo mondo sopravvive soltanto chi pensa a se stesso».
 Elisio si arrestò davanti alla porta. Abbassò lo sguardo sul pavimento in un attimo di raccoglimento. Poi si ricompose. Girò la maniglia e prima di andarsene salutò il collega, che però non rispose, intento com’era a pigiare le dita sui tasti con la massima concentrazione.
 Uscì dai laboratori ed aprì il suo ombrello rosso. Ciò che aveva detto Xante, nonostante fosse spregevole, era vero, si disse mentre camminava a passi pesanti sull’asfalto. Le gocce di pioggia battevano chiassosamente sulla plastica dell’ombrello, coprendo il suono delle campane di una lontana cattedrale che tentavano di incidere nell’aria quell’effimero attimo nel continuo scorrere del tempo. Elisio guardò l’orologio che aveva al polso. Per la prima volta nella sua vita era in ritardo. Si era attardato troppo a lavorare al computer, probabilmente. Sospirò pensando a Platan che lo stava aspettando sotto la tettoia del Laboratorio di Pokémon con quel tempaccio. Ecco. Ad esempio, rifletté, lui non avrebbe mai potuto considerare l’eventualità di lasciare da parte Platan per curarsi soltanto di se stesso. Che cosa sarebbe stata la sua vita senza Platan? Senza la sua bellezza, senza quel tiepido grigio dei suoi occhi, senza il suo sorriso, senza la sua presenza, senza la sua essenza...? Da quando lo aveva conosciuto nella caffetteria, non riusciva più a immaginarsi un’esistenza senza di lui. La vita era diventata un’unione fra loro due. Era come se l’altro lo completasse. Sul viso di Elisio si formò un timido sorriso. Era bella quella parola. Completo. Quindi perfetto. Ancora non aveva chiaro in mente quali realmente fossero i suoi sentimenti verso Platan, tuttavia, nei momenti che passava insieme a lui, sentiva come di riuscire quasi a toccare quella perfezione.
 Accelerò il passo, ma nel momento in cui percorse la strada di fronte alla stazione, si fermò. Accanto all’entrata, infatti, vi era uno Skiddo rannicchiato a terra su se stesso. Elisio si avvicinò e lo coprì dalla pioggia con il suo ombrello. Si ricordò di averlo visto lì anche durante la mattina, mentre stava andando a lavoro. Si chiese che cosa ci facesse in quel posto. Gli accarezzò il pelo bagnato per fargli un po’ di calore. Si sedette su un gradino. Il Pokémon gli rivolse un’occhiata di gratitudine nel momento in cui lo vide tendergli qualcosa da mangiare. La addentò avidamente, affamato. Da quanto tempo era che non mangiava?
 «Di’ un po’, il tuo Allenatore che fine ha fatto?» gli chiese Elisio, dandogli un’altra carezza.
 «Skiddo... Ski-ski...» rispose Skiddo in tono triste.
 «Non torna da ieri notte...?».
 «Skiiii...».
 L’uomo capì. L’Allenatore aveva abbandonato il suo Pokémon di fronte alla stazione e se ne era andato.
 «Beh, ma allora perché tu sei rimasto qui?» chiese ancora.
 «Skiddo! Skiddo skiddo!» esclamò sorridendo. Voleva dire che lui non aveva perso le speranze e che non si sarebbe mai lasciato sopraffare dallo sconforto, perché fra lui e il suo Allenatore c’era un forte legame e lui versava tutto il suo affetto nei suoi confronti, perciò era fiducioso del fatto che prima o poi sarebbe tornato. Elisio cercò di non far trasparire il suo scetticismo. Continuò a prendersi cura di lui finché non si addormentò. Lasciò lì il suo ombrello in modo che lo riparasse dall’acqua. Sarebbe tornato a prenderlo l’indomani, quando il tempo sarebbe migliorato.
 «Ah, eccoti qui. Mi ero cominciato a preoccupare, così stavo venendo al Caffè per vedere che fine avessi fatto».
 «Platan! Santo cielo, perdonami!» si portò una mano alla fronte, pieno di imbarazzo. Il Professore era intriso d’acqua come uno straccio, i suoi capelli arruffati e appiccicati alla fronte.
 «Ehi, ho solo preso un po’ di pioggia, nulla di che!» disse per rassicurarlo, notando la sua espressione allarmata. Un attimo dopo si ritrovò con la giacca dell’amico sopra la testa.
 «Smettila di dire scemenze e copriti».
 Elisio rimase a guardare lo Skiddo che dormiva. Sarebbe stato bene?
 «Nel pomeriggio ho provato a farlo venire al Laboratorio, perlomeno nella serra insieme agli altri Pokémon non sarebbe stato solo. Però non c’è stato verso di smuoverlo da qui. Diceva che aveva paura di non incontrare più il suo Allenatore, che se fosse tornato qui mentre lui non c’era, non si sarebbero mai più rivisti», disse il Professor Platan rivolgendo uno sguardo impensierito al Pokémon e intanto sistemandosi la giacca nera addosso. Elisio si chinò vicino a Skiddo e gli lasciò una Baccarancia, cosicché quando si sarebbe svegliato avrebbe trovato qualcosa con cui fare colazione. Si rialzò, Platan lo osservava sorridendo.
 «Sei un uomo così premuroso, Elisio...».
 Si scambiarono uno sguardo. Il giovane dai capelli rossi sorrise a sua volta.
 «Andiamo a casa, così puoi asciugarti».

 «Preferisci qualcosa in particolare per cena?» chiese Elisio aprendo il frigorifero. Platan spuntò dalla porta con un asciugamano tra le mani.
 «Ad essere sincero, stasera non ho molta fame...» disse, strofinandosi il panno sui capelli.
 «No?» si voltò verso di lui. La maglietta che gli aveva dato era troppo larga. Era buffo. Rise e chiuse l’elettrodomestico. Si accostò al telefono che era attaccato al muro e alzò la cornetta.
 «Allora ordino una pizza e ce la dividiamo a metà, che ne dici? Io non ho tanta voglia di cucinare».
 «Sì, va bene».
 Quando ebbe finito la telefonata, Platan si avvicinò a lui e gli rivolse un’occhiata crucciata.
 «Sembri molto stanco, Elisio» gli disse.
 «Lo sono, infatti. Tra qualche settimana finalmente lanceremo l’Holovox sul mercato, ma ci sono ancora un paio di cose da migliorare e...» sentì la mano dell’amico sfiorare timidamente la sua e tacque, sentendo un filino d’imbarazzo corrergli sulle guance.
 «Evitiamo di parlare di lavoro. Porta solo tante preoccupazioni» ritrasse esitante le dita.
 «È vero, però...».
 «Stasera fanno quel bel film alla televisione! Ti va di vederlo insieme?» lo interruppe, impedendogli di continuare la frase. Non voleva farlo stancare più di quanto fosse già stremato in quel momento.
 Si sedettero sul divano e mangiarono la pizza lì, guardando il film. Platan lasciò un quarto della sua mezza margherita nel cartone, evidentemente proprio non aveva fame. Elisio sapeva che era un appassionato di dolci, probabilmente doveva aver esagerato troppo con le ciambelle a merenda. O durante il lavoro. Si poteva dire che almeno tre o quattro delle sue colleghe avessero una cotta nei suoi confronti, perciò ogni tanto capitava che qualche assistente gli portasse delle scatole di pastarelle per cercare di far colpo su di lui e che il Professore le mangiasse mentre si dedicava alle sue ricerche nel Laboratorio.
 «Oh, guarda, c’è anche Diantha!» esclamò Platan indicando lo schermo con un dito «Non sapevo che anche lei recitasse in questo film!».
 «Già, nemmeno io!».
 Rimasero con lo sguardo fisso sul televisore ad osservarla in ogni dettaglio. Per gran parte del tempo persero l’attenzione per la trama e così, quando Diantha scomparve dalla scena, non riuscirono più a collegare le vicende.
 «Certo che diventa più bella ogni giorno che passa...» disse Elisio.
 «Sì. E già da bambina era una meraviglia!» sorrise Platan.
 «Aspetta, mi stai dicendo che tu la conosci?» l’uomo dai capelli rossi lo guardò sorpreso.
 «Certo! Ci conosciamo da un sacco di tempo, andavamo a scuola insieme!».
 «Non mi dire che era lei la ragazzina che... Insomma! Quella del Patrat...?».
 «Proprio lei! È cambiata molto da allora... Era una ragazzina scatenata!» rise.
 «Pensavo non avessi mai avuto amici».
 «A Sinnoh. Qui a Kalos ne ho un paio».
 «Però è curioso, perché anch’io conosco Diantha».
 «E chi non conosce Diantha!».
 «No, no. Di persona».
 Si guardarono negli occhi. Com’era strano il fatto di aver avuto amicizie comuni, ma non essersi mai incontrati prima. Ovviamente senza contare quel giorno, tanto tempo fa. Sorrisero. Poi si sistemarono meglio sul divano e continuarono a guardare la televisione. Elisio si immerse nella storia del film e osservò con il cuore a pezzi lo scenario di guerra. Una guerra fatta per ego personale, per ottenere il potere sfruttando e distruggendo i sogni e le speranze dei più deboli. Ripensò a quello Skiddo piccolo e indifeso. La schiena gli tremò, scossa da una sensazione di ribrezzo.
 «Il mondo è così egoista» disse con una punta di disgusto. Platan alzò lentamente la testa verso di lui. I suoi occhi erano semichiusi, segno che fra poco sarebbe caduto nel sonno.
 «È vero. In natura vale la legge del più forte. Non tutti possono sopravvivere. Tuttavia, penso che in una società come la nostra, dove siamo così in tanti, non possiamo fare a meno di stare insieme. Ognuno ha bisogno di un altro, che sia un essere umano o un Pokémon. Non si può vivere nella solitudine del proprio egocentrismo. Altrimenti... da soli si muore...».
 Chiuse gli occhi e si addormentò, appisolandosi contro il braccio di Elisio.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Ascesa alla Torre Maestra - I ***



..

5 .  Ascesa alla Torre Maestra
I


 

   Platan ed Elisio erano seduti sul divanetto nello studio del Professore, immersi in una nutrita chiacchierata che andava avanti ormai da più di un’ora.
   «È vero, Elisio, su questo punto non posso che darti ragione... Però ho ancora qualche dubbio».
   «Se mi dirai di cosa si tratta proverò a dissipare ogni tua incertezza. È bene che riguardo a questo argomento tu sia pienamente convinto delle tue capacità, se così non fosse rischieresti di perdere ogni cosa».
   «Me ne rendo conto,» disse stringendo il manico della teiera poggiata sul tavolo di servizio «ma se anche riuscendo nel mio intento poi non dovesse cambiare nulla? E se ogni mia fatica non fosse servita a niente? Insomma... Mi sentirei un idiota e basta. Uno sciocco, un illuso».
   Chiese ad Elisio se volesse altro tè e glielo versò nella tazza. Nella stanza si diffuse un profumo vanigliato, che in qualche modo quietò il senso di oppressione che aleggiava fra le preoccupazioni del Professore. Il rosso lo vide sospirare e sorrise.
   «Questa cosa deve starti molto a cuore, non è vero?» domandò Elisio dopo aver bevuto un sorso di quella bevanda calda e dolce.
   «Moltissimo. È per questo motivo che ogni volta che ci penso o che ne parlo mi preoccupo così tanto. Ehi!» esclamò imbarazzato «Però è da più di mezz’ora che ne stiamo discutendo, non vorrei annoiarti con i miei problemi!».
   «Assolutamente no!» rise «Siamo amici, non l’hai detto anche tu? E gli amici non dovrebbero aiutarsi a vicenda nel risolvere i propri problemi? Starti vicino e darti conforto è il mio più grande piacere, Platan. Ecco, voglio che tu sappia questo. Se dovessi sentire il bisogno dell’appoggio di qualcuno, ogni volta sarò pronto a tenderti la mano e a fare ogni cosa in mio potere per aiutarti. Mi troverai sempre al tuo fianco, nella buona e nella cattiva sorte. Non potrei mai venire meno al nostro legame».
   Dopo che Elisio ebbe finito di pronunciare le sue parole, fra i due calò un leggero silenzio. Era abbastanza raro che tra i loro discorsi soggiungesse una pausa in modo così brusco, ma allo stesso tempo tranquillo e delicato, si rese conto Platan.
   O forse no.
   Infatti, pensandoci meglio, si accorse che in realtà era una cosa che stava accadendo sempre più spesso, soprattutto negli ultimi tempi. Comunque non gli dava fastidio, anzi: gli piaceva rimanere a guardare Elisio in quei frangenti silenziosi. Adesso, mentre lo osservava, sentiva la sua voce echeggiargli nelle orecchie. Da un lato provava imbarazzo per il fatto di essere così al centro delle sue attenzioni, dall’altro ne era estremamente lusingato. Riponeva una grande stima nei suoi confronti e sapeva che la cosa era reciproca. Lo guardò meglio. Era davvero una gran persona: buona, gentile, educata, sempre disponibile. Si considerava fortunato ad averlo come amico. Ogni volta che era con lui si sentiva come rincuorato dalle proprie ansie e dai propri tormenti, la sua vicinanza gli scaldava l’animo. Non era cosa che molti fossero in grado di provocargli. Adorava passare il tempo con lui: in quei momenti provava un senso di benessere, una strana familiarità che non aveva mai sentito neanche nei confronti dei suoi genitori. Elisio si mostrava sempre premuroso, non gli faceva mai mancare nulla. E tuttavia quando era con lui non aveva bisogno d’altro. Gli bastava ascoltare il suono della sua voce profonda, rivolgere gli occhi al suo sguardo rassicurante, e ogni suo problema, guidato dalle sue parole concise, pareva trovare una via per giungere a una soluzione.
   Fin dalla sera in cui si erano conosciuti bevendo caffè aveva avvertito una forte attrazione per il suo carattere appassionato, per la sua intelligenza, per il suo intelletto, e questa si era piano piano acuita, in particolare nell’ultimo periodo. Se ne era reso conto, ma non aveva mai sentito la necessità di nasconderlo: dopotutto non ci trovava nulla di male.
   Intanto anche il rosso si era concesso qualche istante per guardare il compagno. Scrutava la leggera insicurezza dipinta nelle venature dei suoi occhi chiari e non poteva fare a meno di pensare a quanto rendessero bello il suo viso, quasi innocente, come quello di un bambino. Eppure voleva fare in modo di eliminare dal suo animo qualsiasi dubbio, perché era sicuro che così sarebbe diventato ancora più bello.
   Aveva capito ormai che le cure che sempre più spesso stava rivolgendo nei sui confronti, non erano altro che il frutto di un sentimento ben preciso che a poco a poco stava cominciando a definire nella mente.
   «Ti ringrazio, Elisio. Sei davvero un caro amico», disse Platan dopo un po’ guardandolo negli occhi con la gratitudine più sincera. Poi sussultò come scosso da un pensiero improvviso e si alzò di scatto dal divano esclamando: «A proposito! Elisio, ho una sorpresa per te!».
   «Per me?» chiese frastornato. Di cosa si trattava?
   «Per te, Elisio, per te!» disse, ridendo della sua incredulità mentre rovistava in una borsa che aveva lasciato sulla scrivania. Finalmente trovò la cosa che stava cercando e chiese, tenendola ancora nascosta nella tasca: «Potresti gentilmente chiudere gli occhi?».
   Quello gli riservò un’occhiata sorpresa.
   «Beh. D’accordo», disse, eseguendo quella curiosa richiesta. Platan sorrise tutto emozionato e tirò fuori dalla borsa una Poké Ball. Silenziosamente chiamò il Pokémon che vi era dentro e lo prese tra le braccia. Il cucciolo lo guardò felice e, quando il ragazzo si mise un dito sulle labbra per fargli cenno di non fare rumore, gli leccò la mano contento.
   «Oh, basta, così mi fai il solletico!» ridacchiò sotto i baffi. Gli diede una carezza.
   «Platan, ci vuole ancora molto?» chiese Elisio, che intanto fremeva dalla voglia di sapere che cosa stava succedendo.
   «No, no, ecco! Ho quasi fatto!» esclamò. Si risedette sul divano accanto a lui e prese le sue mani.
   «Non sbirciare!» gli disse ironicamente. Tanto già sapeva che avrebbe riaperto gli occhi solo quando glielo avrebbe detto lui. Elisio era troppo onesto.
   Posò con delicatezza il cucciolo fra le sue braccia e rimase ad osservare la sua reazione.
   Il rosso sentì qualcosa di morbido fra le dita e, dopo qualche attimo di incertezza, cominciò ad accarezzare quella palla di pelo. Il Pokémon scosse la coda e posò le zampine sul suo petto, spingendo la testa in alto.  Prese a leccargli tutta la faccia ed Elisio non poté fare a meno di sorridere.
   «Posso riaprire gli occhi?».
   «Certamente!».
   Sbatté le ciglia un paio di volte e si ritrovò faccia a faccia con un Litleo.
   «Ehi! Ciao, piccolino!» disse con dolcezza mentre lo carezzava sotto il musetto.
   «Leeeo!» lo salutò il Pokémon guardandolo fisso nelle iridi azzurre. Poi gli leccò la punta del naso e si accoccolò a lui.
   «Platan, è davvero per me?» chiese, ancora un po’ incredulo. Il Professore annuì, il sorriso che aveva sulle labbra si era fatto ancora più luminoso.
   «L’altro giorno sono andato a trovare Diantha alla Lega Pokémon e mentre ero di ritorno mi sono imbattuto in lui sulla Via Detour. Sai, volevo tanto ringraziarti in qualche modo per quelle cose che mi avevi detto il giorno in cui mi hanno dato la nomina, così ho pensato che avrei potuto prenderlo e darlo a te».
   Elisio ascoltava le sue parole senza batter ciglio e nel mentre accarezzava il muso del piccolo Litleo accucciato sulle sue gambe. Il Pokémon era così gratificato dalle sue carezze che lo si poteva sentire fare le fusa.
   «Non sono sicuro che i Pokémon carini e graziosi siano il tuo genere, ma per qualche motivo i Pyroar mi ricordano di te...» continuò Platan osservando la forma dei suoi capelli e cercando di trattenersi dal ridere.  Trovava che ci fosse una strana e curiosa somiglianza fra la criniera del leone e la sua capigliatura.
   «Oh no, i Litleo mi piacciono molto, a dire la verità. E anche i Pyroar. Sono così possenti. Dopotutto, il leone è il re della foresta, no?».
   «Un re proprio come te!» sorrise «Qualche sera fa non mi stavi raccontando delle tue nobili discendenze?».
   «Platan, continuo a ripeterti che è una storia risalente a mille e mille anni fa, non so quanto possa esserci di vero...».
   «Beh, ma perché non potrebbe essere?» si alzò di nuovo dal divanetto e si avvicinò alla scrivania, prendendo tra le mani la borsa di prima «Dopotutto, hai quel portamento regale, una bellezza sfolgorante, due occhi azzurri come il più limpido dei cieli, un’intelligenza pari a pochi, una cortesia e una cavalleria da fare invidia al più educato dei gentiluomini... Insomma, perché no?».
   Platan raccolse alcune cose sparse per il tavolo e le infilò nel bagaglio, ricapitolando ogni volta attentamente tutto quello che già ci aveva messo dentro sulle punte delle dita.
   «Per diventare re avrei prima bisogno di una principessa», asserì Elisio, lo sguardo fisso sul muso di Litleo. Il Pokémon gli leccò le dita per incitarlo a coccolarlo ancora. Posò la mano sulla sua testolina e gli diede una grattatina dietro le orecchie.
   «Oppure di un principe», disse dopo un po’.
   Platan, voltato di spalle, sorrise involontariamente di un sorriso impregnato di tenerezza. Si portò un ciuffo di capelli dietro un orecchio e proseguì a raccogliere i suoi oggetti.
   «Elisio, sei bi?».
   «Bi che?».
   «Niente, lascia perdere!» rise. Finì di raccattare tutto quanto e si mise la borsa in spalla. Poi prese una valigia che aveva posato a terra e si voltò verso l’amico.
   «È ora?» chiese Elisio.
   «È ora», rispose Platan.
   Il rosso si alzò con un sospiro, tenendo il cucciolo in braccio. Il Professore si affacciò alla porta e chiamò un’assistente, che venne a prendere il vassoio con la teiera e tutto il resto e lo salutò. Poi si avviò verso il corridoio e fece cenno ad Elisio di seguirlo. Chiuse la porta del suo studiolo a chiave. Tirò su la mano sinistra e si mise ad osservare l’anello che aveva al dito medio con aria soddisfatta.
   «Bello, eh?» disse, alzandola verso l’altro in modo che potesse vedere il gioiello.
   «Ti sta molto bene, sì».
   «Finalmente sono riuscito ad ottenere il Megacerchio! Una volta arrivato alla Torre Maestra, la Megaevoluzione non avrà più segreti per me!».
   Durante gli anni che aveva passato a Sinnoh a studiare sotto la guida del Professor Rowan, una volta gli era capitato di leggere qualche riga dei suoi vecchi quaderni dove si era appuntato ogni cosa riguardo ai suoi studi nel corso degli anni. In particolare c’era un paragrafo che lo aveva sorpreso molto, dato che prima non gli era mai capitato di sentir parlare di una cosa simile.
   A quanto pare, sembra che alcuni Pokémon siano in grado di andare incontro ad un ulteriore stadio evolutivo rispetto alla norma. Tuttavia non è ancora chiaro se esso possa essere raggiunto solo da dei soggetti particolari o se invece si tratti di una capacità nascosta in ogni Pokémon e che quindi, per mostrarsi, ha bisogno di specifiche condizioni. Non si conosce la natura di queste condizioni, né in che modo ottenerle. Inoltre, l’unica regione in cui si hanno testimonianze circa questo fenomeno è quella di Kalos, altrove sembra che sia sconosciuto o che, anzi, non sia mai avvenuto.
   «Professore!» subito era corso a chiedergli spiegazioni «Professore, che cosa significa?».
   Il Professor Rowan, intento a leggere un libro, aveva rivolto l’attenzione su di lui e aveva notato che stava tenendo in mano il suo quaderno.
   «E quello dove lo hai trovato?» aveva chiesto.
   «Ah! ...Era tra i libri che mi aveva chiesto di sistemare, ma non sapendo dove metterlo ho cominciato a sfogliare qualche pagina per vedere di cosa si trattava. Mi scusi, se vuole vado a rimetterlo dov’era».
   «No, no, non ce n’è bisogno! Vieni qui, fa’ un po’ vedere. Era da tanto che lo cercavo...».
   L’aveva preso in mano e aveva dato un’occhiata alla pagina dove Platan aveva tenuto il segno.
   «Era questo che stavi leggendo?».
   «Sì. Professor Rowan, allora è vero che alcuni Pokémon possono evolversi ancora pur avendo raggiunto l’ultimo stadio?».
   «Sì. Si tratta della Megaevoluzione».
   «La Megaevoluzione?».
   «Non ne hai mai sentito parlare? Che strano, eppure credevo che a Kalos fosse una cosa abbastanza nota... Siediti, Platan, avvicina pure quella poltrona lì e mettiti qua. Ecco, sì, va bene così».
   «Professore, pensavo che si trattasse solo di una leggenda...».
   «E con ciò? Mio caro ragazzo, devi sapere che in ogni leggenda c’è un pizzico di verità. Non sottovalutarle mai».
   Fu in quel momento che aveva preso la decisione: se un giorno fosse riuscito a realizzare il suo sogno di diventare un Professore di Pokémon, avrebbe rivolto le sue ricerche allo studio di quel fenomeno.
   «Quanto a lungo starai via?» chiese Elisio, risvegliandolo dai suoi ricordi.
   «Non so,» disse dopo un po’ «dipenderà da quanto mi ci vorrà per imparare a padroneggiare la tecnica. Ma sono sicuro che ce la farò! Sì, mi impegnerò al massimo! Diventerò il nuovo Sapiente della Megaevoluzione e a quel punto...!».
   «Come siamo agguerriti, mio caro Platan!» lo interruppe con una risata. Gli rivolse un sorriso divertito e gli diede una lieve carezza sulla spalla.
   «Vedrai! Sarà il nuovo inizio di una grande serie di scoperte scientifiche!».
   «Non ne dubito».
   Si fermarono di fronte al cancello del Laboratorio e si guardarono. Platan stringeva con eccitazione la valigia tra le mani.
   «Le nostre strade si dividono qui, Elisio», disse.
   «Cosa? Pensavo almeno di accompagnarti fino alla stazione».
   Il Professore scosse la testa e sorrise: «Non preoccuparti, la strada me la ricordo!».
   «Ma no, non è questo! È che...».
   Platan si avvicinò a lui e gli diede un bacio sulla guancia.
   Era la prima volta che si baciavano. Elisio era abbastanza sorpreso, non se l’era aspettato. Il Professore si allontanò da lui, con il solito meraviglioso sorriso stampato in faccia. Il giovane dai capelli rossi lo guardò negli occhi per un paio di secondi. Improvvisamente si sentì invadere dalla nostalgia. Per quanto tempo sarebbero stati lontani l’uno dall’altro? Già ne sentiva la mancanza. Scosse la testa. Cercò di tornare in sé stesso, di riprendere contegno e di scacciare dalla mente quei pensieri da femminuccia.
   «Ricordati di tenere sempre appresso il tuo Holovox, se ho qualche minuto libero una chiamata magari te la faccio», gli disse. Platan tirò fuori l’Holovox dalla tasca della camicia azzurra e glielo mostrò.
   «Lo terrò sempre qui, va bene? Adesso però vado, altrimenti rischio di perdere il treno», si avviò.
   «Aspetta!» avrebbe voluto rimanere con lui anche solo un altro minuto in più. Quello, voltato di spalle, girò il viso verso di lui.
   «Litleo vorrebbe salutarti», disse Elisio come scusa, tendendogli il Pokémon. Il leoncino lo guardò con aria confusa. Platan rise e si riavvicinò. Fece una carezza a Litleo e guardò Elisio. Gli diede un secondo bacio sull’altra guancia e si allontanò.
   «Grazie di nuovo», disse infilandogli fra le dita la Poké Ball del Pokémon. Poi prese la strada che portava verso la stazione e, prima di svoltare, alzò la mano e lo salutò: «Au revoir, mon ami!».


***
Angolo del francese.
   * Au revoir, mon ami Arrivederci, amico mio .

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Ascesa alla Torre Maestra - II ***



..

6 .  Ascesa alla Torre Maestra
II


 

   Appena arrivato a Yantaropoli il Professor Platan si diresse al proprio albergo, ritirò le chiavi della sua stanza e cominciò a mettere in ordine le proprie cose nella camera. Si fece una doccia fredda: lì vicino al mare si bolliva dal caldo. Luminopoli si trovava nella zona centrale della regione, perciò era abbastanza protetta dalle ondate di calore. Non era abituato a quel clima. Bagnarsi un po’ gli aveva dato sollievo, tuttavia, appena uscito dal bagno, sentì di nuovo tutta l’aria calda appiccicarsi sulla sua pelle. Il ventilatore che stava sul tavolino era troppo piccolo e non aiutava molto a rinfrescare la stanza. Bulbasaur era spalmato sul quadratino del centrino fatto con l’uncinetto, di fronte alla ventola, per cercare di trovare un po’ di frescura. Platan sospirò. Faceva davvero troppo caldo per rivestirsi. Decise di rimanere con solamente l’asciugamano annodato sui fianchi, tanto per il momento non doveva andare da nessuna parte. Si sdraiò sul letto e rimase ad osservare l’anello del Megacerchio che aveva al medio sinistro. Accarezzò la pietra che vi era incastonata con un dito. Sorrise. Non vedeva l’ora di presentarsi alla Torre Maestra e cominciare i suoi studi. Si tirò a sedere e si guardò intorno.
   «Fa caldo, eh, Bulbasaur?» disse. Si avvicinò al Pokémon e lo prese in braccio per fargli qualche coccola. Non aveva niente da fare e si annoiava.
   «Secondo te se chiamo Elisio in questo momento lo disturbo?» chiese.
   «Bulbasaur!» rispose il Pokémon.
   «D’accordo, allora provo a fargli uno squillo!».
   Si sedette sul letto con l’Holovox in mano e avviò la chiamata. Aspettò un paio di minuti, ma nessuna risposta.
   «Forse sta lavorando...?» bisbigliò, mordendosi le labbra. E invece ecco apparire l’ologramma dell’amico di fronte ai suoi occhi.
   «Ehi, Elisio! Ciao, sono io!» esclamò sollevato. Finalmente!
   «Ciao, Platan! Scusami, ma avevo lasciato l’Holovox nell’altra stanza e non avevo sentito che stava suonando... Se ne è accorta Akebia che stava lavorando di là e me lo ha portato. Come stai?».
   «Seduto, grazie».
   «Sì, e io in piedi», lo guardò scettico «Non intendevo in quel senso!».
   Risero insieme.
   «A parte gli scherzi, come va? Il viaggio? È andato bene?» disse Elisio.
   «Tuuuutto a posto! Come vedi, sono qua! Però si muore di caldo, accidenti...».
   «Lo vedo, sei mezzo nudo e praticamente grondi di sudore! Perché non provi a farti una doccia?».
   «Già fatto, ma non ha funzionato».
   «Altrimenti, visto che sei a Yantaropoli, potresti andare a fare un bagno al mare».
   «Peggio ancora! Mi rimarrebbe tutta la sabbia appiccicata addosso, che fastidio... E poi non ho il costume».
   «Non hai il costume?».
   «Ti ricordo, mon cher ami, che non sono venuto qui per fare il turista!» scosse un dito in aria facendo segno di “no”. Elisio sembrò distrarsi un attimo. Si chinò con la testa verso il basso, come se fosse intento a scrivere qualcosa su dei fogli.
   «Parla, ti ascolto», disse.
   «Sicuro che non ti dia fastidio? Se stai lavorando, non vorrei...».
   «Tranquillo, vai avanti. Devo finire di scrivere questa relazione, ma intanto cinque minuti per te ce li ho. Perciò non sprecare tempo».
   Platan rimase a pensare a quello che avrebbe potuto dirgli. In fondo non si vedevano solamente da poche ore, che c’era di nuovo da raccontarsi?
   «Platan, ci sei?».
   «Elisio, mi manchi».
   Elisio alzò la testa e guardò dritto negli occhi l’ologramma, con la mano che stringeva la penna tutta tremante. Abbassò la vista e continuò a scribacchiare.
   «Anche tu mi manchi», disse in tono apparentemente impassibile. Platan sorrise imbarazzato. Sotto sotto gli piacevano queste sue timide esternazioni d’affetto. Rimase ad osservare il suo viso e i suoi occhi azzurri contornati da quelle sottili ciglia rosse. Chissà quali pensieri stava celando quello sguardo assorto?
   «Senti,» esordì Elisio dopo un po’ «adesso devo andare. Però dopo cena sono libero, se hai voglia di scambiare quattro chiacchiere con qualcuno...».
   «Mi farebbe molto piacere!».
   «Va bene. Per che ora mi faccio trovare?».
   «Facciamo le dieci. Prima vorrei fare un giro in città per vedere in che modo muovermi domani. La sera credo che sia l’unico momento della giornata in cui la temperatura si fa più gradevole, da queste parti».
   «Perfetto. Allora alle dieci. A dopo, Platan. Un bacio».
   «Grazie, anche a t...».
   Ormai aveva già chiuso la chiamata, però si era bloccato all’improvviso per l’imbarazzo. Si accarezzò le labbra.
   «Un bisou...» disse sottovoce. Probabilmente aveva voluto “ricambiare” i due baci che gli aveva dato lui quella mattina. Nonostante ciò, Platan si perse nell’immaginazione. Pensò a Elisio, alle sue labbra. Non ci aveva mai fatto caso, ma nel pallore del suo viso risaltavano parecchio. Rosa e lineari, sottili. Pensò che erano belle. Poi improvvisamente sentì il desiderio di toccarle. Gliele avrebbe volute sfiorare, anche solo per un attimo...
   Per la prima volta si ritrovò attratto da lui non solo dal punto di vista intellettuale, ma anche da quello fisico.
   Chiuse gli occhi e sospirò, accarezzandosi le braccia. Cominciò a farsi mille domande. Come sarebbe stato dargli un bacio sulle labbra? Come sarebbe stato sentire il loro sapore in bocca? E di che cosa avrebbe saputo questo sapore?
   «Ah!» premette forte le dita sulle labbra fin quasi a farsi male e scosse la testa pieno di vergogna di sé stesso. Ma che stava facendo? Elisio era il suo migliore amico! Provava un grande rispetto nei suoi confronti, non poteva rivolgergli certi pensieri!
   Si alzò, si spruzzò un po’ d’acqua di colonia addosso e si vestì, cercando di scacciare quella sensazione di disagio nello stomaco. Si pettinò e finì di sistemarsi. Bulbasaur si aggrappò alla sua spalla e insieme uscirono dall’albergo. Dopo aver girato un po’, il Professore entrò in un ristorante e si sedette a un tavolo per ordinare qualcosa da mangiare. Ad un certo punto, una ragazza si avvicinò.
   «Mi scusi...» disse, sedendosi sulla sedia di fronte a lui.
   «Sì?» la guardò frastornato, smettendo di tagliare la sua bistecca con forchetta e coltello. La ragazza lo osservava e sorrideva entusiasta.
   «Ma lei è il Professor Platan, non è vero?!» esclamò.
   «Ehm... Sì?».
   «Finalmente, per quanto tempo ho aspettato questo momento! Mi chiamo Alexia, lavoro per il Corriere di Luminopoli!» si presentò «Se non le dispiace, mi piacerebbe farle qualche domanda per il prossimo numero del giornale».
   «Ah, volentieri! Però che ne dice se ne riparliamo più tardi...? Magari davanti a un caffè?».
   «Oh, ma certo, mi scusi!» rise con le guance completamente rosse «Allora la aspetto a uno dei tavolini del bar qui di fronte. Faccia pure con calma, mi scusi ancora!».
   «Arrivederci! Hai sentito, Bulbasaur? Mi farà un’intervista!» esclamò, rivolgendosi entusiasta al suo Pokémon.
   «Bulba?».
   «Diventerò famoso!».
   «Bulba, bulbasaur!».
   «Sì, lo so che sono appena diventato il Professore della regione di Kalos e dovrei già essere soddisfatto così... Ma, ehi, pensa se poi cominciassi ad andare in televisione! Elisio mi potrebbe vedere su quel mega televisore che ha a casa sua! Sarebbe così orgoglioso di me!».
   Arrossì di colpo.
   «...Bulbasaur», mormorò il Pokémon guardandolo di sottecchi.
   «Come dici?» chiese, non avendo sentito bene «Secondo te è già contento di me?».
   «Bulbasaur!».
   Sorrise dolcemente.
   «Sarebbe bello se fosse veramente così...».


   Dopo essersi presi il caffè e una coppa di gelato, il Professore e Alexia si incamminarono per le strade di Yantaropoli. La notte era tranquilla, sulla spiaggia regnava una calma sottile e silenziosa.
   «La ringrazio davvero, Professore! Era da tanto che desideravo intervistarla, ma non ne avevo mai avuto l’occasione. Vedrà, sicuramente il prossimo numero sarà molto interessante!» disse la ragazza sorridendo.
   «Grazie a lei per avermi ascoltato!».
   «Oh, ma si figuri!» arrossì.
   Continuarono a passeggiare sulla riva l’uno vicino all’altra, chiacchierando di varie cose. Giunsero di fronte alle mura della Torre Maestra. Platan si fermò ad osservare le torrette, i tetti e infine il balcone che vi era sulla cima più alta. Il giorno dopo sarebbe entrato per arrivare fin lassù.
   «Professor Platan, posso farle una domanda che assilla molte delle nostre care lettrici?» chiese Alexia, incalzata dall’affascinante sorriso che si era formato sulla bocca del ragazzo mentre guardava la torre.
   «Certo, mi dica» rispose, anche se in realtà la stava ascoltando distrattamente, preso ancora una volta dai suoi viaggi nell’immaginazione.
   «Lei ha una fidanzata?».
   Platan tornò immediatamente con i piedi per terra e arrossì, ringraziando il cielo che fosse notte e che nel buio la ragazza non potesse vedere l’espressione imbarazzata che si era formata sulla sua faccia.
   «È questo che si chiedono le vostre care lettrici?».
   «Oh sì, le assicuro che è molto popolare!».
   «Ma davvero...?!» rise nervosamente «Oh... che cosa... simpatica!» rise ancora, cercando di trovare qualche modo in cui contenere la vergogna.
   «Quindi?».
   Alexia lo osservava con malizia. Voleva estorcergli quella risposta a qualsiasi costo. Platan si vide costretto a rispondere: «No, non ho una fidanzata. Però...».
   Però...? Però che? Che c’entrava quel “però”? E perché improvvisamente si era ritrovato a pensare al modo in cui Elisio lo aveva salutato quel pomeriggio? A quel bisou che non si sapeva che sapore avesse, al modo in cui si era sentito immaginandoselo tutto per sé...? Si accarezzò le labbra con le dita. Sorrise senza saperne la ragione, ricordando il momento in cui con esse aveva sfiorato le guance di Elisio prima di partire. E poi ripensò a quella storia del Milotic, e come lo aveva guardato negli occhi mentre gli aveva detto quelle parole, alla sua voce lieve; e poi ancora pensò alle tante carezze apparentemente innocenti che si erano dati spontaneamente, ora ne capiva il loro significato nascosto e si sorprendeva nel rendersi veramente conto del perché gli avessero fatto provare ogni volta un così grande senso di gratificazione. Forse, l'amore a volte è davvero cieco.
   L'amore...
   Sentì il suo cuore martellare nel petto e qualcosa come un assurdo bisogno di piangere.
   Possibile? Si stava...? Si era...? ...Innamorato di...?
   «Ehi, tu, laggiù! Mostrami il tuo anello!» disse in tono di sfida un uomo avvolto nel buio, i piedi immersi nell’acqua. I suoi occhi brillavano nell’oscurità. Platan li fissò senza tremare ed alzò la mano sinistra, mostrando l’anello con la Pietrachiave al misterioso figuro.
   «Anche tu hai un Megacerchio, allora».
   «Chi sei?».
   «Questo non ha importanza, adesso. Dimmi, hai intenzione di scalare la Torre Maestra e scoprire in questo modo i segreti della Megaevoluzione?».
   «Sono venuto qui solo per questo».
   A Platan sembrò di scorgere un sorriso compiaciuto sul volto dell’uomo. Alexia stava in silenzio religioso ad osservare la scena.
   «Come siamo agguerriti, mio giovane amico!» rise «Bene, molto bene. Ma c’è una cosa che devo dirti. Non tutti sono in grado di padroneggiare la Megaevoluzione. Ciò che è necessario, fondamentalmente, è un fortissimo legame con il proprio Pokémon. Tu credi di essere all’altezza di questo legame?».
   «Certo!».
   «Dimostramelo».
   L’uomo fece uscire dalla sua Poké Ball un Lucario. Voleva battersi? Platan accettò la sfida.
   «Garchomp, vieni fuori!» disse.
   Garchomp mise le zampe a terra cacciando un minaccioso ruggito. Girò la testa e si scambiò uno sguardo d’intesa con il suo Allenatore. Platan toccò la pietra incastonata nell’anello e alzò la mano al cielo.
   «Garchomp! Megaevolvi!».



***
Angolo del francese.
    * Mon cher ami Caro amico mio ;
    * Un bisou Un bacio .

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Ascesa alla Torre Maestra - III ***



..

7 .  Ascesa alla Torre Maestra
III


 

 Un raggio di luce sfolgorante si diramò dall’anello. Alexia dovette coprirsi gli occhi con le mani per non rimanere accecata. Si alzò un forte vento che formò un turbine di sabbia di fronte al Pokémon, celandone le sembianze fin quando non si fu evoluto del tutto. Il mare era in tempesta. Platan non aveva mai immaginato che la Megaevoluzione fosse capace di sprigionare un potere così grande. Sentì il sangue ribollirgli nelle vene e il desiderio di combattere con il suo Pokémon farsi sempre più pressante.


   «Un giorno, tanto tempo fa, ho incontrato un bambino. Non lo dimenticherò mai. È stato il giorno più emozionante di tutta la mia vita. Nessuno potrà mai avere la stessa esperienza che ho avuto con lui. Ciò che abbiamo visto, è precluso soltanto a noi.
   «...In realtà, non ricordo neanche il suo nome. Non ricordo nemmeno se ci siamo presentati, a dire il vero. Però non smetterò mai di cercarlo. Un giorno so che le nostre mani si uniranno di nuovo, come quella volta. Perché noi siamo destinati a risplendere insieme per l’eternità», diceva il ragazzino accarezzando la testa del suo piccolo Gible. Il Pokémon alzò il muso verso di lui. Ogni volta che era demoralizzato o assorto in qualche pensiero, tirava fuori quella storia per farsi un po’ di coraggio.
   «Io non so che cosa sia la morte. Eppure, in qualche modo, sento come di averla già vissuta», continuò. Si avvicinò alla finestra e rimase a scrutare il cielo. La luna brillava, chiara e pallida.


   La luna brillava, chiara e pallida, e illuminava con la sua luce la spiaggia silenziosa.
   «MegaLucario, usa Crescipugno!» esclamò il misterioso Allenatore. Il Pokémon ubbidì subito ai suoi ordini. Le sue zampe s’incendiarono di un rosso che si faceva sempre più acceso mentre correva velocemente contro il suo avversario. MegaGarchomp si spostò prima che potesse essere colpito, alzando un’alta parete di sabbia.
   «Vai con Dragartigli!».
   Si udì un sonoro stridio di lame. Il frastuono dei due Pokémon che lottavano fra di loro rimbombava per tutta la costa, rompendo bruscamente il silenzio che aveva regnato fino a pochi istanti prima.
   «Però, devo dire che non te la cavi male!» disse l’uomo, ancora nascosto nell’ombra.
   «Mi impegnerò al massimo per raggiungere il mio obiettivo! Riuscirò a entrare nella Torre Maestra!».
 

   «Diventerò un grande Professore di Pokémon! Mi impegnerò al massimo per raggiungere il mio obiettivo!» esclamò il ragazzo, sistemandosi gli occhiali rotondi sul naso.
   «Gible!» ruggì il Pokémon, emozionato quanto il suo padroncino.
   Si voltarono e diedero un’occhiata all’entrata della foresta. Non si riusciva a intravedere nulla al suo interno. Sembrava così buio. Si percepiva una strana e inquietante calma provenire da lì dentro. Gible si accostò alle gambe del giovane, un po’ impaurito.
   «Andiamo, Gible, non avere paura!» lo incitò «Pensa quanti Pokémon potrebbero esserci là! Voglio vederli e studiarli tutti! E poi potresti incontrare dei nuovi amici, no?».
   «Gib... Gible...».
   «Uff, ho capito...» sbuffò. Si chinò e lo prese in braccio, stringendolo a sé mentre entravano nella foresta. Il vento faceva frusciare le foglie con un suono sinistro. Gible era tremendamente spaventato. Il ragazzo lo sentiva tremare fra le sue braccia. Ad un tratto il Pokémon si dimenò e saltò a terra.
   «Gible!! Gible!!» esclamò.
   «Certo che sei proprio un pauroso, tu, eh?» disse, mettendosi i pugni sui fianchi e rivolgendogli un’occhiata seccata. Sospirò. A quanto pareva non c’era modo di tranquillizzarlo. Improvvisamente si sentì qualcosa strisciare fra l’erba. Gible sobbalzò per lo spavento, stringendosi nuovamente alle gambe del ragazzo. Lui stava con lo sguardo fisso su quel punto dell’erba da cui proveniva il suono. Si avvicinava sempre di più.
   «Bulbasaur!» ruggì con aria amichevole un Bulbasaur, sbucando da quel prato.
   «Ehi, ma è un Bulbasaur! Visto, Gible? Non c’era nulla di cui aver paura!» fece l’occhiolino al suo Pokémon e si avvicinò al nuovo arrivato «Ciao, piccolino, come stai?».
   «Bulba!» esclamò con un sorriso. Gible si avvicinò timidamente a lui e lo osservò.
   «Gible...?».
   «Bulba, bulbasaur!».
   «Gible, gible-gi!».
   Cominciarono a saltellare intorno al ragazzo. Sembrava che si fossero subito presi in simpatia! Il giovane sorrise e disse: «Gible, io vado avanti. Se non vuoi andare oltre, puoi rimanere qui a giocare con Bulbasaur».
   «Gib!» scosse la testa in segno negativo «Gib, gible!».
   «Coraggio, non perderti d’animo! Tornerò presto, te lo prometto!».


   «Coraggio, Professor Platan, non si perda d’animo! Faccio il tifo per lei!» urlò Alexia.
   MegaGarchomp era allo stremo delle forze. MegaLucario, invece, nonostante ne avesse prese abbastanza anche lui, sembrava molto più fresco. Scoprì i denti minacciosamente, mettendosi in posizione d’attacco. Era il suo turno.
   «Non hai ancora rinunciato?» chiese l’uomo «Guarda, il tuo Garchomp è praticamente esausto. Credi forse di riuscire a farlo combattere ancora? Resisterà?».
   «Garchomp...» sibilò il Pokémon, innervosito. Certo che avrebbe resistito. Avrebbero resistito assieme. Eppure Platan iniziava a ricredersi. Osservava il suo Pokémon e lo vedeva ansimare, affaticato dalla lotta.  Lucario era ancora pieno di energie, competitivo al massimo. No. Sapeva che Garchomp non sarebbe stato in grado di reggere un suo ulteriore attacco. Non poteva chiedergli di fare l’immane sacrificio di sopportare ancora. Andava ben oltre i suoi limiti, di questo ne era consapevole. Non era mai stato in grado di sfruttare le sue potenzialità in modo giusto. Dopotutto era un Professore, non un Allenatore. Si guardò attorno, cercando di trovare qualcosa che potesse far scendere la calma sui suoi pensieri. La luna si rifletteva sull’acqua formando tanti nastri d’argento.


   Il sole si rifletteva sull’acqua formando tanti nastri d’oro. In mezzo alla foresta, il ragazzo aveva trovato un fiumicello. Rimase a guardarne il fondo per almeno mezz’ora. Non c’erano Pokémon in quel torrente. Non c’erano Pokémon in quella foresta. Ma allora da dove era venuto quel Bulbasaur? Si era forse perso ed era entrato nel bosco giungendo da qualche percorso lì vicino? Più il giovane camminava, più il sentiero si riempiva di alberi e piante. Si smarrì più volte, non riuscendo più a ritrovare la strada. Decise che era il momento di tornare indietro, altrimenti avrebbe rischiato di perdersi veramente. Tuttavia, mentre stava per fare dietrofront, venne incuriosito da una strana luce che si era posata sul suo viso. Si girò nella direzione verso cui proveniva. Scansò una manciata di arbusti per vedere di che cosa si trattasse. Sgranò gli occhi. In basso, al centro di un burrone, sopra un’alta montagna di roccia, stava il più incredibile albero che avesse mai visto. Da esso si diramavano tutte le radici degli alberi che popolavano quel bosco e poi prati verdi, fiori rigogliosi e dai colori sgargianti. Al centro dei suoi rami vi era un punto luminoso. Il ragazzo si avvicinò, affascinato sempre di più. E mentre muoveva i suoi passi sentiva come una strana sensazione. Una sensazione provata in un tempo molto lontano. “Sono già stato qui...?” si chiese. Si fermò sul ciglio del precipizio. Era profondo. Profondissimo. Non riusciva a vedere dove finisse.
   Che in realtà non avesse fine? ...Era possibile una cosa del genere?
   Sentì il terreno sotto ai suoi piedi farsi improvvisamente instabile. Gridò. Mentre cadeva nel vuoto riuscì fortuitamente ad aggrapparsi con le mani ad una delle radici che provenivano da quell’albero. Guardò in basso. No, non c’era una fine. Se avesse mollato la presa sarebbe stato condannato a cadere in eterno. E se invece ci fosse stato un ipotetico fondo, sarebbe morto schiacciato dopo lunghi attimi in cui avrebbe rivisto tutta la sua vita scorrere davanti ai suoi occhi. Ripensò a quel giorno, tanto tempo fa. Quella volta era sopravvissuto alla morte grazie a quel bambino. Quel bambino. Si era promesso che prima o poi lo avrebbe ritrovato. Non poteva darsi per vinto, non prima di averlo incontrato di nuovo. Cercò di raggiungere il bordo di terreno scalando le grosse radici. Tuttavia spesso scivolava e ritornava al punto di partenza. Dopo un po’ sentì quella radice cominciare a perdere robustezza. Stava rischiando di cadere di nuovo. Gridò ancora, sperando che qualcuno lo sentisse e lo venisse a salvare. Ma chi, chi poteva sentirlo? Quel bosco era vuoto.
   Ad un tratto udì dei passi accorrere nella sua direzione.
   «Gible!!!» strepitò il Pokémon vedendolo in pericolo.
   «Bulbasaur!!!» esclamò l’altro.
   I due si scambiarono un’occhiata d’intesa. Bulbasaur allungò i suoi lacci d’erba e Gible ci si legò il corpo. Poi saltò nel burrone fino ad arrivare all’altezza del ragazzo.
   «Gib!» disse, tendendogli le sue zampe.
   «Oh, Gible!» allungò una mano e gliene afferrò una. Poi l’altra. Bulbasaur intanto faceva il possibile per sorreggere il peso di entrambi, nonostante fossero molto più pesanti di lui. Nel momento in cui temeva di non farcela più, un bagliore di luce si diffuse nella foresta. E finalmente erano tutti e tre sani e salvi.


   «Gabite, per favore, aspetta!» il giovane correva dietro al proprio Pokémon, cercando di raggiungerlo. Luminopoli era così grande, non si ricordava nemmeno che ci fossero tutte quelle strade. Si fermò e si appoggiò a un muro con una mano per riprendere fiato. Alzò la testa. Si lasciò scappare uno sbuffo esaurito. Ormai non lo sarebbe più riuscito a raggiungere, era arrivato troppo lontano.
   «Pazienza, dai... Prima o poi si deciderà a tornare indietro... Spero... E pensare che una volta era un Pokémon così pauroso, invece adesso non si fa fermare da niente...» disse. Fece per andarsene, ma un’occhiata al locale lì vicino lo fece fermare. Si avvicinò al vetro della finestra e guardò dentro. Ciò che vide gli fece sussultare il cuore e provare un immenso calore nel petto. Come quel giorno, tanto tempo fa.  Un ragazzo con i capelli rossi stava seduto a un tavolo in fondo alla caffetteria e stava compilando dei fogli. Sentì le lacrime scivolargli dagli occhi.
   «Ti ho... Ti ho ritrovato...».


   «Usa Forzasfera!».
   MegaLucario raccolse le ultime energie che gli erano rimaste. Fra le sue zampe si formò una sfera azzurra. Sul campo di battaglia si alzò un vento ancora più forte di quello che si era creato all’inizio della lotta. Lanciò il suo attacco, ma qualcosa gli fece perdere l’equilibrio e la sfera di energia cambiò traiettoria. Alexia si lasciò scappare un grido spaventato: «Professore, stia attento!!! Si sposti!!!».
   Il Professor Platan si era perso nei ritagli del passato. Sentendo la sua voce tornò immediatamente al presente, ma fu troppo tardi. Venne colpito con forza. Sentì un forte dolore su tutto il corpo e perse conoscenza. Il suo ultimo pensiero prima di chiudere gli occhi fu: “Eppure, l’unica cosa che non riesco a ricordare è... Che cosa ho visto veramente quel giorno, tanto tempo fa...?”.


   Due occhi azzurri e limpidi.
   Era forse un cervo? Una creatura celestiale?
   Un arcobaleno di luce gli sfiorò il viso, e subito tornò il buio.


   «Elisio, ti chiedo ancora scusa, non avevo intenzione di far tardi. Durante la lotta mi sono distratto un attimo e...».
   Elisio gli fece cenno di star tranquillo.
   «Platan, non devi scusarti. L’importante è che tu stia bene. Come ti senti adesso?».
   «Meglio. Però mi fa ancora un po’ male schiena... Oh, Elisio, non avrei mai immaginato che la Megaevoluzione fosse in grado di sprigionare una potenza così forte! L’ho provato sulla mia pelle, è incredibile!».
   «Tu riesci sempre a trovare il lato positivo di ogni cosa, non è vero?» rise.
   «Comunque», disse ancora, sdraiandosi a letto «vedi di non sforzarti troppo. Riposati, altrimenti domani mattina non riuscirai ad affrontare le prove che ti sottoporranno nella Torre Maestra».
   «Non preoccuparti, Elisio... Tanto non ce ne saranno...».
   Il rosso lo guardò sorpreso: «Come?».
   «Domani mattina alle nove salgo sul treno per Luminopoli. Torno a casa. Dovrebbe arrivare lì alla stazione verso le undici. Mi verrai a prendere?».
   «Certo che ti verrò a prendere, ci mancherebbe altro, ma...» mentre parlava gli rivolgeva un’occhiata turbata. Platan abbassò la testa. Il suo sguardo era così intenso, distogliere gli occhi non gli era bastato per sfuggire a quel senso di dispiacere. Che poi in realtà non era neanche là con lui, eppure se lo sentiva addosso in una maniera impressionante.
   «...Hai deciso di rinunciare?» chiese Elisio.
   «Sì», rispose «Non credo di essere all’altezza di un potere così enorme».
   «Eppure stamattina eri così entusiasta... E’ un vero peccato».
   «Penso che sia meglio per ognuno rimanere al posto che ha. E io dietro a una scrivania sormontato da montagne di libri sto bene».
   Platan vide formarsi un’espressione crucciata sul suo viso. Si abbracciò al cuscino e sorrise all’ologramma dell’amico.
   «Non temere, i miei studi li continuerò, sans nul doute!» esclamò cercando di rincuorarlo «Ma lo farò nella veste del Professore, che è quella che mi si addice di più».
   «Certo».
   Elisio sorrise a sua volta e si tirò un pezzo di coperta addosso. Per qualche minuto rimasero in silenzio a guardarsi l’un l’altro.
   Eccolo, un altro di quei silenzi.
   Per la prima volta Platan si rese veramente conto di quanto fosse bello rimanere semplicemente così. Sia lui che l’altro si sentivano invasi da una grande tenerezza.
   «Elisio...?» disse Platan dopo un po’, portandosi il pollice sinistro alle labbra in un attimo di riflessione.
   «Mh?».
   «Secondo te noi due eravamo destinati a incontrarci?».
   Il ragazzo lo guardò perplesso.
   «Beh, ma chi può sapere quale sia il volere del destino?» rispose. Platan restò a pensare per qualche istante.
   «È vero, ma se pensi a quella volta di quel giorno, tanto tempo fa... Insomma, come è possibile che sia una coinciden... Elisio? Elisio, mi senti?».
   No, non lo sentiva più. Si era addormentato. Il Professore sorrise intenerito. Avvicinò l’Holovox a sé e diede un piccolo bacio all’ologramma.
   «Buonanotte», sussurrò.
 
   Quella notte dormirono insieme, lontani, ma allo stesso tempo vicini.



***
Angolo del francese.
    * Sans nul doute = Senza alcun dubbio

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Che cos'è l'eternità? ***



..

8 .  Che cos'è l'eternità?


 

   Passò del tempo. L’entusiasmo della giovinezza cominciò lentamente ad appassire. Entrambi avevano preso le loro strade e avevano continuato a percorrere il cammino che si erano preposti. Per il momento i sentieri erano ancora relativamente vicini. Ma fino a quando sarebbero rimasti tali?
   Inevitabilmente prima o poi qualcuno sarebbe stato destinato a cadere nel precipizio alla fine del percorso.
 
 

~

 

   Si svegliò con il cuore che gli martellava talmente tanto forte che era convinto che se non fosse riuscito a calmarsi in qualche modo prima o poi esso sarebbe uscito dal suo corpo lacerandogli il petto. Aveva le membra sudatissime, la coperta gli si appiccicava dappertutto fin quasi a soffocarlo. Sentì il bisogno di prendere aria, subito, immediatamente. Si alzò dal letto e si affacciò al balcone, rimanendo lì per qualche minuto ancora con il fiatone e la testa che gli girava. Ciò che lo aveva fatto sentire in quel modo doveva essere qualcosa che aveva visto in sogno, ma più si sforzava, più non riusciva a ricordare. Vuoto. Niente. Solo un orribile gracchio straziante.
   Sospirò osservando le strade di Luminopoli illuminate dal chiarore dell’alba e, in lontananza, il bianco bagliore della Torre Prisma sfiorato dai primi raggi di luce. Decise che se ne sarebbe andato a fare due passi per acquietare il malessere. Tornò in camera e si vestì. Mentre si infilava le scarpe osservò Platan che dormiva con il viso sereno dall’altra parte del letto. Addosso aveva la solita buffa e larga magliettona che gli lasciava scoperta una spalla. Elisio prese un lembo della coperta e gliela coprì con essa. Poi gli diede un leggero bacio sulla fronte cercando di non svegliarlo e uscì di casa.
   In giro c’era una piacevole calma. Qui e là si potevano sentire i Fletchling cinguettare e nell’aria un buonissimo odore di pane e di baguette appena sfornate. Si disse che più tardi, sulla via del ritorno, sarebbe passato in pasticceria a comprare un po’ di croissant per colazione. A Platan avrebbe certamente fatto piacere. Sorrise pensando a quando l’amico gli avrebbe rivolto uno sguardo entusiasta nel momento in cui sarebbe entrato in cucina e avrebbe visto la bella sorpresa.
   Elisio si mise a riflettere.
   Amico. Poteva ancora chiamarlo così? Potevano ancora definirsi semplicemente “amici”?
   Ormai il tempo che passavano insieme si interrompeva soltanto nelle ore di lavoro e di notte, quei giorni in cui dormivano ognuno a casa propria. E in questi momenti non facevano altro che aspettare, trepidanti, che finalmente finisse quell’attesa insopportabile e potessero di nuovo rincontrarsi. Tutt’e due ormai avevano capito perfettamente di provare dei forti sentimenti nei confronti dell’altro. Lo avevano percepito dai gesti, anche semplici, che si scambiavano, dall’intensità dei loro sguardi, dai loro silenzi.
 Sì, anche dai silenzi. Perché molte cose riuscivano a comunicarsele persino attraverso un solo sorriso, con una carezza o stringendosi le mani, oppure ancora semplicemente stando vicini, senza il bisogno di dire alcuna parola. Era un qualcosa di meraviglioso.
   Tuttavia non si erano mai dichiarati il loro amore. Forse perché, pensava Elisio, quando entra in gioco Amore, ogni cosa è inevitabilmente destinata a deperire?
   Lui stava bene così. Nonostante desiderasse ardentemente fare quell’ulteriore passo, la paura di inciampare e cadere nel precipizio era troppo grande. Forse nascondere il loro amore dietro alla parola “amicizia” era l’unico modo per mantenerlo e preservarlo. Elisio avrebbe preferito quel nobile sentimento durare in eterno, anziché sciuparsi sempre di più fino a cessare di esistere.
   Ma che cos’era in realtà l’eterno? Continuò a camminare e rimase a pensare a quella strana domanda che gli aveva fatto Platan la sera precedente, prima di addormentarsi fra le sue braccia: «Che cos’è l’eternità?».
   Il perché di quella domanda saltata fuori dal nulla non riusciva a spiegarselo. Erano stati come al solito seduti sul divano a guardare la televisione. Platan si era portato dal Laboratorio alcuni DVD su cui aveva registrato qualche documentario sui Floette. Per qualche ragione, subito dopo cena aveva fortemente insistito per metterli nel lettore e studiarli. E poi, mentre erano concentrati a guardare il video, se ne era uscito con quella frase.
   Ad un tratto urtò distrattamente un uomo. Alzò lo sguardo e lo squadrò, impressionato dalla sua incredibile altezza. Abbassò la testa. Chiese scusa e continuò il suo cammino. Giunse vicino a un’aiuola. Si fermò, incantato dalla purezza di un fiore che stava sbocciando in quell'esatto momento.
   «Che cos'è l'eternità?» pensò, stavolta ad alta voce.
   «Senza ciò che si desidera, è solo un logorante ed inutile supplizio» rispose l'uomo in tono greve, dandogli le spalle.
   Elisio si girò, lo osservò incuriosito. Quello strano figuro aveva un’aria singolare e, in un certo senso, chissà perché, inspiegabilmente familiare. Fece un passo in avanti, mosso da un’istintiva voglia di fargli qualche domanda, ma ormai l’uomo era già sparito fra i tanti viottoli della città di Luminopoli lasciandolo solo.


 



Lo so, lo so. È cortissimo, me lo ripeto sempre. >.<
Ma non potevo nè unirlo con il capitolo precedente nè con quello successivo, quella domanda andava messa qui, da sola. Più avanti avrà un suo senso, vedrete!
Può darsi che lo migliorerò nelle revisioni successive, ma per ora lo lascerò così. Spero vi piaccia lo stesso!
~
EDIT del 13.01.2017: Alla fine ho deciso che rimarrà così, dopo due anni che è rimasto uguale non me la sento proprio di cambiare qualcosa c':
Pers

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Il Pokémon dalla vita eterna ***



..

9 .  Il Pokémon dalla vita eterna


 

   Qualcosa stava suonando in modo fastidioso da qualche parte. Il Professor Platan si svegliò emettendo qualche brontolio, rigirandosi nel letto per qualche minuto. Si coprì la testa con la coperta.
   «Elisio, potresti pensarci tu, per favore?» mugugnò. Allungò una mano fuori dal suo nascondiglio e cercò l'uomo per scuoterlo un po', ma non lo trovò. Alzò un pezzo di tessuto e sbirciò fuori: si accorse che nel letto c'era solo lui. "Sarà in bagno a farsi una doccia," pensò "sicuramente tra poco uscirà". Chiuse gli occhi e cercò di riaddormentarsi, ma dato che il rumore non aveva intenzione di cessare, si vide costretto a staccarsi dal cuscino. Si alzò dal letto con malavoglia, si stiracchiò e strofinandosi gli occhi andò a cercare da dove provenisse quel suono. Girando per le stanze si accorse che Elisio non c’era. Vide all’ingresso l’uncino dell’attaccapanni riservato alla sua giacca vuoto, così capì che era uscito. Trovò la propria borsa appoggiata sul cassettone a specchio. Sbadigliò, frugò fra le varie tasche e finalmente riuscì ad afferrare l’Holovox che intanto continuava a squillare. Andò in salone, si sedette sul divano e rispose alla chiamata. Davanti a lui apparvero due faccine giovani e visibilmente preoccupate.
   «Buongiorno, Professore...» dissero con voce funerea.
   «Dexio, Sina, buongiorno!» cercò di modulare la sua voce nel modo più sveglio possibile «Come mai quelle facce?».
   «Ecco...» disse la ragazza, passandosi nervosamente una mano tra i capelli violacei.
   «Professore, sappiamo che oggi si era preso il giorno libero e ci dispiace disturbarla... Però...» cercò di intervenire il ragazzo. Platan iniziava a sentire un filino di ansia scorrergli nelle vene. Che avevano combinato?
   «Ragazzi, che sta succedendo?».
   «Ohhh!! Senta, io non c’entro niente!» esclamò nervosa Sina «Sì, okay, è vero che mi sono distratta un attimo perché avevo fatt... erano cadute le provette che stavano sul tavolo, quindi...».
   «Hai fatto cadere le provette?!» esclamò il Professore leggermente alterato.
   «Mi scusi, Professore, mi dispiace tantissimo! Non l’ho fatto apposta!».
   Platan respirò profondamente e poi buttò fuori tutta l’aria piano piano.
   «Va bene, Sina, non preoccuparti. Dovrei aver raccolto un po’ del contenuto di quelle provette anche in uno dei barattoli che tengo dentro l’armadio. Può succedere. Sì, è capitato anche a me con il Professor Rowan, una volta. Sì. Sì, proprio così».
   La ragazza però non sembrava ancora a suo agio. Dexio le strinse una mano per farle un po’ di coraggio. Sina lo guardava come per dire: "Devo proprio dirglielo?". Il ragazzo annuì.
   «Professore, in realtà non sarebbe questo il vero problema...» disse Sina, sempre arricciandosi i capelli fra le dita. Platan sussultò. C’era un altro problema? Sospirò e mentalmente si preparò ad affrontare il peggio. Che sforzo tremendo: si era svegliato da neanche cinque minuti e già era incappato in qualche sfortunato imprevisto, chissà cosa lo attendeva ancora.
   «Dimmi, chérie», disse con voce docile.
   «Ehm. Vede... Insomma, un attimo prima c’era, poi mi giro e non c’è più!» si morse il labbro inferiore, chinando la testa verso il basso.
   «Professor Platan, Floette è scappato», disse Dexio vedendo che la ragazza non riusciva più a dire una parola. Platan rimase un attimo a guardare i due in silenzio. Ok, calma. Calma, calma. Che cosa aveva detto?  Nel momento in cui le parole pronunciate dal ragazzo si riordinarono bene nella mente del Professore, quest’ultimo balzò in piedi per poi ricadere sul divano con in faccia un’espressione indecifrabile. Dopotutto si era preparato al peggio, non al peggio del peggio.
   «Che cosa significa che è scappato Floette...?» mormorò con voce affranta.
   «Avevo lasciato la finestra aperta, probabilmente è uscito da lì. Mi dispiace, la prossima volta starò più attento».
   «Dexio!».
   «Zitta, Sina, lascia parlare me. Professore? Professore, che ha...?».
   Platan stava con la testa tra le mani a riflettere e a cercare di calmarsi. Fece cenno ai due ragazzi di aspettare qualche secondo che si ricomponesse. Poi sentì un rumore di scatto di serratura e dei passi che si avvicinavano, diffondendo in giro un profumo dolce.
   «Ah, sei qui! Pensavo fossi ancora a letto».
   Gli rivolse un gesto facendogli intendere che era occupato, Elisio annuì e se ne andò nell’altra stanza. Con un sospiro Platan si tirò in piedi e si diede una carezza sulla nuca. Poi si girò verso i suoi giovani assistenti.
   «Dexio, non c’è bisogno che tu faccia il cavaliere con Sina e ti prenda tutte le responsabilità quando in realtà non c’entri niente. Vi conosco bene, ormai... Coraggio, non buttatevi giù in quel modo. Una soluzione si trova sempre. Almeno avete qualche idea su dove possa essere andato?».
   «No, ma continuando a volare alla sua velocità, ci sono buone probabilità che si trovi ancora a Luminopoli», rispose il ragazzo con le guance un po’ rosse.
   «Bene. Allora io intanto mi preparo un caffè, poi faccio una doccia veloce e mi vesto. Aspettatemi al Laboratorio, vi raggiungerò al più presto».
   «D’accordo! A dopo, Professore!» dissero in coro i due ragazzi. Il loro ologramma si dissolse nell’aria e la chiamata terminò.
   Platan entrò in cucina e salutò Elisio, intento a riempire la macchinetta del caffè.
   «Stamattina ti sei alzato dalla parte sbagliata del letto, mi pare di capire...» asserì questo notando la faccia scura dell’altro. Platan, senza dire nulla, gli si avvicinò e si strinse forte a lui posando la testa sul suo petto ampio e familiare. Elisio gli accarezzò i capelli con delicatezza, cosa che fece spuntare un sorriso amaro sulle labbra del Professore. Rimasero abbracciati così per qualche minuto. Le carezze di Elisio riuscirono a tranquillizzare Platan, che lo ringraziò dandogli un morbido bacio sulla guancia. Si sedette al tavolo e il compagno gli versò un po’ di caffè nella tazza. Fecero velocemente colazione insieme, poi Elisio andò nelle sue stanze a sistemare alcune cose mentre l'altro finiva di raschiare con il cucchiaino il fondo della tazza dove era rimasto ancora dello zucchero.
   «Platan, vedi di darti una mossa, però!» gli gridò dallo studiolo dopo qualche minuto, vedendo dall’orologio che ci stava mettendo troppo tempo.
   «Sì, sì, ho fatto!» si alzò e mise a posto la sedia «Ma cosa c’è qua dentro?».
   «Dentro dove?».
   «Nella busta che sta sul tavolo!».
   «Niente!» arrossì: dato che Platan stava andando di corsa, alla fine aveva messo i dolci da parte «Dai, che ancora ti devi lavare e fare la barba! E sei in pigiama!».
   «La smetti di fare il paparino rompiscatole?!» si passò una mano sulle guance. Eh già, in effetti la barba che stava ricrescendo pizzicava un po’. Guardò la bustina. Era troppo curioso di sapere cosa ci fosse dentro, emanava un così buon profumo! La prese furtivamente tra le mani e l’aprì, lasciando che sul suo viso si dipingesse un sorriso affettuoso.
   «Era andato a comprare i croissant per colazione... Qu'il est mignon…» sussurrò. Infilò la mano nella busta per prenderne uno, ma la ritirò improvvisamente, spaventato da qualcosa che aveva iniziato a muoversi là dentro.
   «Flo!» un Floette spuntò da quella montagna di croissant, sporco di briciole e zucchero. Si posò su un palmo del Professore e gli sorrise. Platan sussultò incredulo per poi concedersi un grido di felicità.
   «Elisio! Elisio dove sei?!» urlava correndo scalzo in giro per la casa. Il rumore dei suoi passi rimbombava in tutte le stanze. Passò per l’ingresso, poi in salone, ma Elisio non si trovava. Lo chiamò di nuovo. Si fermò di fronte ad una porta in fondo al corridoio dell’appartamento. Era una bella porta, decorata con venature rosse fiammanti. L’aveva vista tante volte, ma non l’aveva mai oltrepassata. Chissà cosa c’era in quella stanza? Era sempre chiusa. Platan allungò una mano verso la maniglia, magari Elisio si era chiuso lì e non lo aveva sentito. Tuttavia, esattamente un secondo dopo sentì la sua presenza dietro di sé.
   «Ah, eccoti qua!» esclamò girandosi nella sua direzione. Gli corse incontro e lo abbracciò.
   «Elisio, sei il mio angelo!» gli disse all’orecchio, stampandogli poi un lungo bacio sulla tempia.
   «Platan, ma che...?» disse interdetto, «E tu che ci fai qui?» chiese a Floette, vedendolo fluttuare intorno a loro.
 


   «Mi stava gironzolando attorno stamattina presto mentre ero in pasticceria», cominciò a raccontare Elisio dopo che Platan ebbe avvertito Dexio e Sina del ritrovamento. Il Professore si sedette sul tappeto accanto a lui con le gambe incrociate e la seconda tazza di caffè fumante tra le mani. Floette si posò sulla sua testa.
   «Ah, probabilmente era attratto dal profumo dei dolci!» alzò lo sguardo e sorrise al Pokémon.
   «Già. Deve essersi nascosto nella busta mentre stavo alla cassa per pagare. Si è mangiato due croissant interi!».
   «Due?!».
   Floette si accarezzò la testa, imbarazzato.
   «Sì. Ma non preoccuparti, alla crema ne è rimasto uno. Puoi prenderlo tu, so che ti piace... Ne avevo presi due apposta per te», prese un croissant dal piattino e glielo tese sorridendo «Tieni, non fare complimenti».
   Platan arrossì, lo prese e lo ringraziò.
   «Io l’ho sempre detto che sei un uomo premuroso...» gli disse. Si scambiarono uno sguardo pieno di dolcezza. Floette li osservava con curiosità.
   «Floette, flo flo!» esclamò rivolto a Platan.
   «No, no, non preoccuparti, questo lo mangio io!» rispose ridendo, «Stavo un attimo osservando i suoi occhi... I suoi bellissimi occhi azzurri... A-ehm! Se ne vuoi un altro, stanno tutti nel piatto, scegli pure quello che ti piace di più!» bevve un sorso di caffè. Elisio si lasciò scappare una risata. Dopo un po’ Floette si allontanò e andò a fare amicizia con Pyroar e Bulbasaur, accucciato sopra la sua criniera, che stavano facendo un giro per la casa. Si misero tutti e tre in un angolo del salone a giocare insieme.
   «Sbaglio o quello non è un normale Floette?» disse Elisio.
   «No, non sbagli affatto, mon ami!» rispose Platan scuotendo la testa «È un Floette molto molto particolare. È per questo che me la ero presa tanto quando i ragazzi mi avevano detto che era scappato. Vedi, per prima cosa è blu anziché verde. Ma non è cromatico, me ne sono accertato ieri in Laboratorio. E poi... porta con sé quello strano fiore rosso e nero... Non avevo mai visto un fiore del genere, prima».
   «Quel fiore... Mi ricorda qualcosa», Elisio guardava il Pokémon con un’espressione pensierosa.
   «Davvero? Io avevo persino pensato che non esistesse! Forse mi sbagliavo. Comunque, sta’ a sentire! La cosa più incredibile in assoluto di quel Floette è che...».
   Il Professore si guardò intorno, come se fosse intimorito dal fatto che qualcuno oltre a loro avrebbe potuto sentire ciò che stava per confessargli. Avvicinò le labbra all’orecchio dell’altro e sussurrò: «È immortale».
   «Immortale?».
   Platan annuì. Si portò un dito alle labbra per fargli cenno di mantenere il segreto. Elisio venne scosso da un fremito.
   «È immortale... Certo, immortale! Quel fiore è...!» bisbigliò, gesticolando con foga. Si alzò da terra e disse al compagno di aspettarlo lì. Quando ritornò teneva un grosso e voluminoso libro tra le mani. Sulla copertina c’era scritto qualcosa a caratteri antichi che Platan non riusciva a comprendere.
   «Miti e leggende della regione di Kalos», gli tradusse Elisio posando il tomo sul tavolino e risedendosi vicino a lui «L’ho trovato qualche giorno fa nella Reggia Aurea. Sono sicuro che qui c’era qualcosa...».
   Platan lo guardava mentre sfogliava con la massima cura le pagine di pergamena.
   «Come mai ce l’hai tu?».
   «Sto facendo delle ricerche».
   «Ricerche? Su cosa?».
   «Ricerche sui miei avi, sulla mia discendenza... Ah, ecco! Guarda qui», girò piano il libro verso l’altro. Sulla pagina vi erano dipinti due Pokémon. Platan li guardò rabbrividendo.
   «Xerneas e Yveltal...».
   «Il piumaggio di Yveltal...» glielo indicò con un dito «Non ti sembra che assomigli ai petali di quel fiore?».
   Platan guardò prima la figura e poi Floette. E di nuovo la figura e poi Floette. Rimase con gli occhi sgranati.
   «Ma Elisio, Yveltal non dava la vita, la assorbiva!».
   «Sì. In qualche modo deve aver incontrato Xerneas e aver ricevuto la vita eterna da lui. Oppure potrebbe essere successo altro... Aspetta, adesso lo ritrovo...» girò ancora qualche pagina.
   «L’Arma Suprem...?!» Elisio gli posò due dita sulle labbra prima che potesse finire l'esclamazione.
   «L’Arma Suprema inizialmente non doveva essere quel marchingegno infernale per cui è conosciuta. Tremila anni fa scoppiò una guerra qui a Kalos. L’antico re aveva costruito l’arma per dare la vita eterna a sé e al suo amato Pokémon che era morto in battaglia, sfruttando il potere di Xerneas e Yveltal. Poi però, assetato da un insulso desiderio egoistico la volle utilizzare per conquistare il mondo, e sappiamo tutti quello che è successo dopo...».
   Platan osservò Floette con uno sguardo assorto.
   «Quindi pensi che sia lui il Pokémon a cui è stata data la vita eterna attraverso l’Arma Suprema?».
   «Non posso esserne sicuro al cento per cento, ma penso che possano esserci buone probabilità che sia così».
   «E tu, principe Elisio, in tutta questa storia cosa c’entreresti?».
   «Il fratello minore di quell’antico re è un mio antenato».



***
Angolo del francese.
    * Chérie Carina - inteso però non con il significato di "bella", ma come un diminutivo affettuoso di "cara" ;
    * Qu'il est mignon = Che carino/Che dolce ;
    * Mon ami = Amico mio .


 


Buongiorno!
Eccoci arrivati al capitolo 9! Piano piano ci avviciniamo agli eventi del gioco (era ora, eh? xD) e ai grandi dilemmi...
Devo essere sincera, la storia dell'Arma Suprema nel videogioco mi ha lasciato un po' perplessa, c'erano alcuni punti che non mi tornavano. Qui ho giustificato i colori di Floette per il fatto che l'arma era legata a Xerneas e a Yveltal, ma non sono sicura che fosse veramente così... Anche perché riguardando il video in cui AZ racconta tutta la storia, Floette è colorato in quel modo anche prima di essere resuscitato. Però dai, non poteva essere un caso! DAIII, MA è TROPPO PARTICOLARE!!! Forse era un prescelto o qualcosa di simile...?
Ma in effetti tutti questi particolari non erano necessari ai fini del gioco... Perciò lavorerò un po' di fantasia, sperando di non combinare disastri! xD
Ah, un altro dubbio che ho è sul quel "qu'il est mignon" (= "che carino"), non sono del tutto sicura che sia giusto, ho cercato su internet su vari siti, purtroppo del francese studiato alle medie mi è rimasto poco o niente... Qualcuno che me lo conferma?
Tanti saluti! :3
Persej Combe

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Un mondo perfetto? ***



..

10 .  Un mondo perfetto?


 

   Un ragazzino stava camminando con passo deciso verso la scalinata del Laboratorio di Pokémon. Salì i gradini e si fermò davanti al grande portone. Fece un respiro e bussò. Venne ad aprirgli una ragazzina dai capelli violacei e un fazzoletto rosso annodato al collo.
   «Ciao, come posso aiutarti?» gli chiese con un sorriso gentile.
   «Ehm... Ciao!» le tese la mano con un po’ di imbarazzo «Mi chiamo Trovato! Ehm... Per caso c’è il Professor Platan?».
   «Piacere, Trovato, io sono Sina!» gli strinse la mano in segno di amicizia «Sono una delle assistenti del Professore! Ecco, al momento non si trova qui in Laboratorio, ma dovrebbe tornare fra non molto. Se vuoi puoi aspettarlo dentro!».
   «Davvero? Grazie mille!».
   I due ragazzini entrarono e Sina indicò a Trovato una serie di divanetti bianchi su cui sedersi.
   «Avevo preparato un po’ di tè per il Professore, solo che è uscito prima che fosse pronto... Io e Dexio stavamo per prenderne una tazza, ne vuoi una anche tu?».
   Sina dopo un po’ tornò insieme a Dexio con in mano un vassoio su cui c’erano una teiera e tre tazze di tè, la zuccheriera e un piattino con dei biscotti. Poggiò tutto sul tavolo e i due assistenti si sedettero di fronte a Trovato.
   «Allora, Trovato, come mai stavi cercando il Professor Platan?» chiese Dexio mentre girava il cucchiaino nella propria tazza.
   «Ho sentito dire in giro che il Professor Platan è alla ricerca di un gruppo di ragazzini che lo aiutino a completare il Pokédex. Dato che i miei genitori sono partiti per viaggiare in altre regioni e hanno lasciato me e mia sorella da soli, ho deciso che anch’io girerò per Kalos con i miei Pokémon!».
   «Bene, questa è un’ottima notizia!» esclamò Sina «Perciò adesso il numero di viaggiatori per il Pokédex ammonta a due!».
   «A proposito, ma l’altro ragazzo? Non doveva venire oggi pomeriggio per prendere il suo primo Pokémon?» Dexio guardò pensieroso l’orologio appeso alla parete «È un po’ in ritardo...».
   In quell’esatto momento si sentì un prepotente bussare al portone. Sina si alzò di nuovo per andare ad aprire. Si ritrovò davanti un ragazzotto grassottello con il fiatone.
   «Sono Tierno, mi dispiace di aver fatto tardi!» esclamò parlando velocissimo «Stavo facendo pratica con i miei passi di danza e ho perso la cognizione del tempo! Dov’è il Professor Platan?! Devo prendere il mio Pokémon!» e corse dentro tutto spedito. Trovato osservava la scena con un’espressione instupidita.
   «È lui?» chiese sottovoce a Dexio.
   «Eh già! Da cosa lo hai capito?» rise «Tierno, il Professor Platan non c’è, puoi sederti qui con noi ad aspettarlo, se vuoi!».
   Ed ecco qui che adesso a prendere il tè erano in quattro persone.
   «Ah, almeno stavolta il tè per il Professore non è andato sprecato!» sospirò Sina con sollievo.
   «Ma proprio non si sa dove sia andato?» chiese Tierno. Sul viso di Sina comparve un sorriso malizioso.
   «No, non ce lo ha detto», rispose Dexio. La compagna gli lanciò un’occhiata scettica.
   «Oh, andiamo! Dove vuoi che se ne sia andato?» gli disse.
   «Sina, il fatto che sia l’ora del tè non implica che sia andato per forza lì».
   «Non lo implica perché se potesse sono sicura che ci andrebbe anche in tutte le altre ore, che sia quella del tè o meno!».
   «È vero che al Professor Platan piace passare il tempo nelle caffetterie, ma qui a Luminopoli ce ne sono talmente tante, perché dovrebbe andare proprio in quella?».
   Sina rise altezzosamente.
   «Perché? Ma come perché? Non lo sai chi è il proprietario?».
   «Sina... Non vorrai mica ricominciare con queste stupide congetture...».
   «È per Elisio, no?! Elisio è la ragione di tutto! Non hai visto in questi giorni come era distratto il Professore? E che sta sempre a controllare i messaggi sull’Holovox? E il suo sguardo sognante mentre a metà mattinata beve il caffè stando imbambolato a guardare Luminopoli fuori dalla finestra in quella direzione? Oh, e non vorrai dirmi che non ti sei accorto del fatto che...» e continuava il suo sproloquio.
   In quel momento preciso arrivò Floette che si appoggiò sul tavolo ad osservare i biscotti. Tierno e Trovato avvicinarono il viso al Pokémon con uno sguardo sorpreso per guardarlo meglio. Sina alzò la testa improvvisamente, come se le fosse venuto in mente qualcosa.
   «E poi, l’altro giorno, quando abbiamo chiamato il Professore, sono più che certa che quella voce che abbiamo sentito fosse quella di Elisio...».
   «E quindi?».
   «Dexio, l’hai vista anche tu, quella non era la casa del Professore».
   «Era andato a dormire a casa di Elisio. Sì, che c’è di strano? Sono amici, è una cosa che si fa, tra amici».
   «Si era preso il giorno libero. Ha dormito con lui. Si è svegliato nel letto con lui. Probabilmente ha passato la giornata intera solo con lui. Praticamente si è preso il giorno libero per stare con lui. Capisci?».
   «Sina...».
   «No, Dexio, stammi a sentire!».
   «Sina, ti prego...».
   Anche Trovato e Tierno le stavano facendo cenno di stare zitta e persino con molta molta insistenza.
   «Oh, ma che avete tutti quanti?!» esclamò, non capendo perché si comportassero in quel modo. Non sentiva nemmeno le risate e le voci che provenivano dal portone, né i passi di qualcuno che stava entrando. I ragazzi cominciarono a sudare freddo.
   «Insomma, secondo me sono fidanzati segretamente, punto e basta!!!» esclamò con tutto il fiato che aveva in petto.
   Piombò un silenzio imbarazzante.
   I tre ragazzini e Floette si girarono titubanti verso il portone.
   Elisio e Platan, mano nella mano, si erano fermati là davanti, volti nella loro direzione, ammutolitisi tutt’a un tratto. Sina quasi sbiancò. Con una mano si aggrappò al braccio di Dexio come se si sentisse svenire e avesse bisogno di un sostegno per non crollare.
   «Ma quanta bella gente!» esclamò il Professor Platan con un largo sorriso.
   «...Salve!» lo salutarono Tierno e Trovato, ancora un po’ scossi.
   «Professore, i ragazzi sono qui per conoscere il loro primo Pokémon!» disse Dexio dopo qualche secondo in cui aveva smaltito l’imbarazzo.
   «Davvero? Merveilleux! Bene bene, allora procediamo subito! Seguitemi di qua, ragazzi! Elisio, vieni anche tu!».
   Entrarono tutti e sette nell’ascensore e il Professore spinse il bottone del terzo piano. Dopo aver fatto le presentazioni, Platan si rivolse a Sina, pieno di irrefrenabile curiosità: «Allora, Sina, chi è che si è fidanzato?».
   Gli altri ragazzi si girarono tutti verso di lei trattenendo il fiato. Quella, dal canto suo, non si fece scoraggiare e rispose con la prima cosa che le venne in mente, nascondendo quale fosse la verità: «Come chi? Romeo e Giulietta! Si sono fidanzati segretamente, di nascosto dai Montecchi e dai Capuleti!».
   «Sì, Sina in questo periodo si sta appassionando alla letteratura inglese!» le diede corda Dexio. Platan li guardò sospettoso.
   «Ogni volta che leggo quel testo teatrale non faccio altro che sorprendermi di quanto la gente sia sciocca... Non è possibile che, ancor oggi a distanza di secoli, vi siano persone che non possono amarsi a causa di altre che, animate dall’odio e dalla prepotenza, glielo impediscono. È uno scempio!» rifletté Elisio ad alta voce. Le sue mani, chiuse in due pugni, tremavano. Evidentemente quel pensiero lo faceva innervosire. Floette gli accarezzò le dita sperando di tranquillizzarlo e gli rivolse un sorriso.
   «Perdonatemi, ogni tanto non posso fare a meno di esternare le mie considerazioni», si scusò l’uomo dopo aver dato un’occhiata al Pokémon. Platan posò una mano sulla sua spalla come a dirgli di non preoccuparsi.
   «Ciò che dici è vero, Elisio. Sarebbe bello se si potesse far cambiare idea a queste persone... Il mondo ne è pieno zeppo... Sono cieche, oltre la punta del proprio naso non vedono nulla e si sentono in dovere di criticare chiunque e qualunque cosa sia diversa da come la reputano loro giusta. Però è difficile. Non è facile instaurare un dialogo con questa gente, a volte è quasi impossibile. Sono invaghite di sé stesse. Di tutto il resto non gli importa nulla. Non possiamo farci niente».
   «Non possiamo farci niente... Platan, ciò che dici è assurdo».
   «Purtroppo è così, mon cher ami. Bisogna arrendersi all’evidenza e mettersi l’anima in pace».
   Un suono di campanella indicò che erano appena arrivati al terzo piano. L’ascensore si aprì e uscirono tutti, dirigendosi verso lo studio del Professor Platan. Egli prese una valigetta e l’aprì di fronte ai due ragazzi, mostrandogli le Poké Ball in cui erano rinchiusi i Pokémon starter. Mentre Tierno e Trovato erano in fibrillazione per la scelta del loro primo compagno di avventure, Elisio era rimasto a rimuginare sulle parole dette poco prima da Platan. “Non possiamo farci niente”, si ripeteva in testa. Sentì un senso di ansia crescergli nel petto.
   Una sera, mentre era nei suoi Laboratori, aveva erroneamente premuto un pulsante dei tanti computer, avendoci posato sopra quel solito libro su cui si stava documentando in quei giorni riguardo le sue origini, e aveva attivato le casse dell’apparecchio. Quindi era partito l’audio di una conversazione che in quel momento stavano avendo due ricchi signori attraverso i loro Holovox. Elisio inizialmente, poiché era un uomo onesto, si era subito impegnato a spegnere gli altoparlanti, tuttavia, quando il suo dito indice si era trovato a pochi millimetri dal pulsante, si era fermato. Aveva iniziato ad ascoltare i loro discorsi e, tentato dalla situazione, aveva continuato finché i due non avevano chiuso la chiamata. Ciò che aveva sentito gli aveva messo i brividi. In ogni parola aveva avvertito chiaramente quanto fossero impregnate di forte egoismo e avidità. Eppure queste persone le aveva conosciute, era convinto che fossero brava gente. Pensò di essersi sbagliato, forse di aver interpretato male il tono in cui avevano parlato. Nei giorni seguenti, volendo sfatare ciò che i suoi pensieri lo inducevano a credere circa questi discorsi, continuò ad ascoltare non solo le loro conversazioni, ma anche quelle di altri. Ne restò scosso. Era venuto a conoscenza di tanti sentimenti di odio, di intolleranza. E il mondo era in mano a queste persone. Il futuro delle nuove generazioni, il futuro del pianeta, sarebbe stato determinato da quest’accozzaglia di cretini. E lui sentiva forte il desiderio dentro di sé di dover fare qualcosa, di dover salvare lui stesso, anche da solo, se avesse dovuto, con le proprie forze, tutto ciò che era possibile proteggere dalla corruzione finché non sarebbe stato troppo tardi.  Ma...
   Non possiamo farci niente.
   «Signor Elisio, sta bene? È... un po’ pallido...» Sina si era avvicinata all’uomo e si era accorta che in lui c’era qualcosa che non andava. Lo fece sedere su un divanetto e gli portò un bicchiere d’acqua. Si assicurò che stesse bene e poi tornò con Dexio a dare una mano ai due ragazzi. Tierno e Trovato avevano scelto il loro Pokémon iniziale, rispettivamente Froakie e Chespin. Per testare la loro potenza, adesso, si stavano preparando per lottare insieme. Il Professore approfittò di questo momento di distrazione per sedersi accanto al suo amico. Di nascosto dagli altri, gli prese una mano e intrecciò le proprie dita con le sue.
   «Tutto a posto?» gli chiese con apprensione. Elisio girò il viso verso di lui. Lo guardò negli occhi e dopo un po’ si sentì invaso da una sensazione di serenità e commozione insieme. Strinse le sue dita e con voce fioca disse: «E poi ci sei tu, che sopra ogni altra cosa metti il bene dei Pokémon e delle altre persone... Se solo potessi, costruirei un mondo perfetto unicamente per te...».
   «Elisio... Il mio mondo è già perfetto, se ci sei tu...».
   Platan sorrise pieno d’affetto. Dopo un po’ si rese conto di ciò che aveva veramente detto e sentì che stava cominciando ad arrossire in modo pesante, così si abbracciò ad Elisio per non farglielo vedere.  Quest’ultimo rimase abbastanza interdetto. Anche lui arrossì, riflettendo e comprendendo infine il senso di quella frase. Era davvero ciò che pensava che fosse? Una sorta di dichiarazione d’amore...?
   E via, ecco che tutte le preoccupazioni che lo avevano assillato fino ad appena un attimo prima erano volate lontano, sparite, distrutte, come per magia.
   «Platan...» cercò di dire, con il cuore che gli batteva a centomila, ma si bloccò nel momento in cui si accorse che i due assistenti si stavano avvicinando. Diede un paio di colpetti sulla schiena a Platan per fargli intendere che doveva staccarsi.
   «Professor Platan, Tierno e Trovato sono pronti per sfidarsi!» esclamarono i due in coro.
   Incominciò la battaglia. Elisio cercò di seguirla, nonostante fosse preso da altri pensieri. Non si era mai sentito così leggero in vita sua come in quel momento. Che Platan fosse innamorato di lui, già lo aveva intuito da un po', ma sentirglielo dire dalla sua bocca e con quel tono dolce, faceva tutt’altro effetto.
   Tuttavia, vedendo Froakie venire colpito da Chespin e rimanere a terra con aria affaticata, sentì un fremito lungo la schiena e subito il suo corpo appesantirsi di nuovo. Forse la lettura di quel libro l’aveva condizionato troppo. Guardando Floette con la punta dell’occhio, anche lui lì intento a fare il tifo per entrambi i Pokémon, non poteva fare a meno di pensare a quella guerra di tremila anni prima.
   Se il mondo si trovava in mano a quella gente, allora presto, molto presto, il mondo sarebbe di nuovo stato scenario di guerre e violenze.
   No, non poteva permettere che accadesse tutto questo. Non poteva rimanere impassibile a guardare tutto come un semplice spettatore.
   Doveva fare qualcosa.
   Eppure si sentiva così impotente...
   Di nuovo osservò Floette mentre con la felicità che gli brillava negli occhi spronava Froakie e Chespin a dare il meglio di loro con il massimo dell’entusiasmo.

   E a quel punto un’idea folle cominciò a insediarsi nella sua mente.



***
Angolo del francese.
    * Merveilleux = Meraviglioso


 


Più vado avanti nello scrivere i capitoli, più mi emoziono per quello che dovrà accadere dopo! Succede anche a voi?
Bene, direi che ormai la strada per la storia dei videogiochi è stata spianata abbastanza. Ancora un paio di capitoli e poi faremo la conoscenza di Calem e Serena.
Elisio è un sacco difficile da caratterizzare... ma sono abbastanza soddisfatta con quello che ho scritto in questo capitolo! Spero che lo apprezziate!
Grazie mille a tutti voi che state continuando a seguire la storia! <3
Al prossimo capitolo! :)
Persej Combe

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Dopo un tramonto non può nascere che un'alba ***



..

11 . Dopo un tramonto non può nascere che un'alba


 

   Tu-tun tu-tuntu-tun tu-tun. Il treno sferragliava sulle rotaie.
   Elisio prese in mano l’Holovox. Sul display lesse il nome della persona che lo stava chiamando. Rispose attivando solamente l’audio.
   «Sì?» disse con l’apparecchio appoggiato all’orecchio.
   Platan intanto si strinse a lui con amorevolezza.
   «Bene. Molto bene» disse con voce seria e profonda.
   Rivolse un’occhiata al Professore, i suoi occhi grigi puntati sulla mano libera brillanti d’amore mentre gliel’accarezzava. Si morse le labbra.
   «Sì», rispose, una piccola virgola d’incertezza era scivolata in quella “s”, «Tornerò in tarda notte, perciò nulla potrà essere iniziato prima di domattina. Sì. A domani».
 


   La mattina di quel medesimo giorno Platan ed Elisio erano seduti sui sedili dello stesso treno, che però in quel momento stava viaggiando nella direzione opposta. Erano all’incirca le nove e un quarto. Nonostante Platan si fosse svegliato appena un’ora e mezza prima e di solito avesse bisogno di più tempo per rendersi veramente attivo o di bere almeno due o tre tazze di caffè, stavolta era fresco come una rosa.
   «È stata proprio una bella sorpresa!» disse «Vederti piombare il giorno del mio compleanno senza preavviso a casa mia dopo una settimana che non ci vediamo con due biglietti per il treno in mano... Non me lo aspettavo davvero, è stato molto carino! Ma dove mi stai portando?».
   «È una sorpresa...».
   «Ah, certo, certo!» rise.
   Elisio teneva sulle gambe una borsa. Platan la stava guardando incuriosito dal momento in cui era entrato nel suo appartamento e lui lo aveva accolto in pigiama.
   «Cosa c’è lì dentro?» chiese.
   «È una sorpresa anche quella», rispose Elisio. Poi vide la faccia delusa di Platan e gli sfuggì una risata.
   «No,» disse «in realtà non lo è! Ci sono i panini per il pranzo».
   «Oh, panini! Quindi stiamo andando a fare un pic-nic?».
   Elisio annuì, Platan sorrise.
   «Era da tanto che non facevamo un pic-nic insieme. Mi fa piacere».
   Tu-tun tu-tuntu-tun tu-tun. Il treno sferragliava sulle rotaie.
   «Allora, come è andato il viaggio a Cromleburgo? Stamattina a quanto pare eravamo così di fretta che non ho avuto il tempo di chiederti nulla».
   «Tutto bene».
   «E il convegno? Era pesante?».
   In realtà non c’era stato alcun convegno. Elisio aveva inventato questa scusa per coprire le sue vere intenzioni.
   «Beh, sai com’è, come al solito era pieno di professoroni che parlavano in modo pomposo senza in realtà dire niente. Ma tutto sommato è stato interessante...».
   «Mh».
   «Oggi ne approfitterò per riposarmi un po’ insieme a te».
   Si scambiarono un sorriso. Trascorsero il resto del viaggio in silenzio. Verso l’ora di pranzo il treno arrivò a destinazione ed Elisio coprì gli occhi di Platan con le mani per non fargli ancora vedere dove si trovassero. Scesero dal treno. Il Professore stringeva forte le sue braccia per paura di cadere.
   «Tienimi, per favore!».
   «Ti tengo, stai tranquillo».
   Si fermarono in un certo punto. Elisio gli tenne gli occhi ancora chiusi finché la stazione non si fu svuotata e il treno ripartito. Adesso c’erano solo loro due. Allontanò piano le mani.
   «Aprili», gli disse.
   Platan sbatté le ciglia un paio di volte e poi mise a fuoco la vista. Davanti a lui, oltre al parapetto su cui si stava appoggiando, vi erano distese di prati verdi, casine di campagna semplici e accoglienti, fiumi e poi delle meravigliose cascate le cui acque si riversavano nella zona sottostante. Sentì la felicità sprizzargli da tutti i pori.
   «Oh, Elisio, questo non me lo dovevi fare!» esclamò «Mi sarei immaginato qualunque posto, ma questo...!» non riuscì a finire la frase da quanto era emozionato.
   «Sei contento?» gli chiese sorridendo.
   «Troppo, troppo contento! Grazie, Elisio, davvero!».
   Lo abbracciò, tenendo la testa girata per guardare il paesaggio.
   «Possiamo... Possiamo rimanere qui un altro po’?».
   «È il tuo compleanno, non devi neanche chiedermelo».
   Si sedettero sulle poltroncine e restarono lì qualche altro minuto. Platan aveva un sorriso bellissimo in quel momento, mentre si guardava intorno con aria sognante.
   «Ponte Mosaico... Era da tanto tempo che non tornavo qui. Sai, ho molti ricordi legati a questo posto. E sono felice di poter mettere anche te in questi ricordi. Finalmente siamo qui insieme... Devo essere sincero, avevo pensato più volte di portatrici, un giorno, ma a quanto pare mi hai preceduto!».
   Ad un tratto iniziò a suonare il suo Holovox. Platan si scusò con Elisio, prese l’apparecchio e rispose.
   «Ciao, Platan! Buon compleanno!» esclamò l’ologramma di Diantha «Sto per passare a casa tua, preparati, andiamo a mangiare la nostra torta preferita!».
   «Diantha, sei sempre molto gentile, ti ringrazio! Però stavolta credo che per la torta dovremo lasciar perdere», sorrise.
   «Cosa? Ma come, facciamo così tutti gli anni!» disse dispiaciuta.
   «Beh, è che non saprei neanche come raggiungerti... Ecco, guarda dove siamo!» e dicendo così girò l’Holovox riprendendo con la telecamera le cascate.
   «Ponte Mosaico?! Ehi, quest’anno hai fatto le cose in grande! E poi... Siamo...? Chi c’è lì con te?» lo punzecchiò rivolgendogli un’occhiata maliziosa. Platan girò di nuovo il dispositivo e inquadrò sé stesso ed Elisio che la stava salutando con una mano.
   «Si è presentato a sorpresa stamattina alla porta di casa mia e mi ha portato qui!» spiegò il Professore.
   «Elisio, sei il solito galantuomo!» rise Diantha «Allora immagino che starete lì tutto il giorno, non è così? Platan, non penso che ti dispiaccia se rimandiamo i festeggiamenti a un’altra volta... Ah, accidenti, qualcun altro mi sta chiamando... Scusatemi, devo attaccare. Mi raccomando, voi due, divertitevi! Ci vediamo presto!».
   «Diantha, che ragazza d’oro...» disse dopo aver messo via lo strumento «Comincio ad avere un po’ di appetito, che ne dici se andiamo a trovare un posto dove mangiare?».
   Andarono via dalla stazione e si sistemarono su un prato vicino alle cascate, lontano dalle abitazioni. Mangiarono i panini che aveva preparato Elisio e chiacchierarono di varie cose. Platan ogni tanto volgeva lo sguardo intorno a sé e si ricordava di quando da piccolo aveva vissuto in quei posti. Così capitava che si mettesse a raccontare qualche aneddoto ed Elisio lo ascoltava con interesse. Spesso si ripetevano momenti del tipo:
   «Sì, e alla fine gli ho detto proprio così, davvero!» rideva il Professore, con le lacrime agli occhi.
   «Non ci posso credere!» l‘altro scoppiava scoppiava a ridere «Oh, Platan! Eri incorreggibile!».
   «Lo so!».
   E ridevano insieme di gusto.
   Si misero a sparecchiare, lasciando solo la tovaglia a terra. Il Professore ci si sdraiò sopra a pancia in su, le mani posate dietro alla testa.
   «Che bello il cielo, oggi, eh?» disse.
   Elisio si distese accanto a lui. Allungò una mano verso il suo viso e gli accarezzò una guancia con il dorso di un dito.
   «Credo di non averti mai visto così raggiante».
   «È che mi sento tanto bene con te qui vicino a me...» prese la sua mano e la tenne lì, che gli sfiorava la pelle con dolcezza. Elisio poteva sentire il respiro di Platan soffiare piano sul suo polso. Gli si avvicinò un altro po’ finché le sue labbra arrivarono a toccargli l’orecchio destro.
   «Anche io sto bene con te...» sussurrò dandogli poi un bacio sullo spigolo della bocca. Il Professore si girò verso di lui. Osservò le sue labbra. Per qualche secondo sentì come se il fiato gli fosse mancato. Quanto avrebbe voluto... Eppure l’altro non pareva propenso. C’era una strana e velenosa ruga sulla sua fronte. Riuscì a trattenersi a stento. Spinse la testa contro il petto di Elisio cercando di cancellare quel pensiero.
   «Platan...».
   «Mh mh?» mugugnò.
   «Ecco... Riguardo quello che mi hai detto qualche giorno fa... Ci ho pensato tutta la settimana...».
   «Tutta la settimana?».
   «Tutta la settimana. Non pensi che sarebbe meraviglioso se riuscissimo a costruire un mondo perfetto dove vivere in pace, facendo a meno di tutti quegli sciocchi stolti? Un mondo in cui ognuno possa riuscire veramente a far fiorire la propria bellezza senza essere ostacolato da quelle persone spregevoli?».
   Platan sospirò e si strinse a lui.
   «A volte faccio proprio fatica a capirti. Che intendi dire?».
   «Intendo dire che... Noi due potremmo...».
   Si arrestò. Non era sicuro che quello fosse il momento giusto per dirglielo. Non era neanche certo che sarebbe riuscito a comprendere davvero ciò che pensava di fare. Molti si erano rifiutati di capire. E se anche lui avesse avuto la stessa reazione, dando luogo a uno sfogo esagerato? Rischiava di rompere il loro rapporto in maniera irreparabile. Era anche il suo compleanno, non valeva la pena rovinarlo per un’incomprensione.  Decise che avrebbe affrontato l’argomento più avanti, quando avrebbe avuto la certezza di non essere respinto.
   «Noi due cosa?» chiese Platan dopo un po’ che Elisio aveva fatto cadere in modo incerto il discorso.
   «Noi due potremmo...» cercò di trovare un modo per continuare «Noi due...».
   «Noi due potremmo andare a fare una passeggiata, più tardi. Ti va?».
   «Oh!» quanto era grato, stavolta, del fatto che lo avesse interrotto! «Sì, mi pare un’ottima idea!».
   Platan gli sorrise.
   «Quando ti sarà tornato in mente quello che volevi dirmi, avvertimi, d’accordo?».
   Passarono il resto del pomeriggio sdraiati su quella tovaglia rossa a quadri. Si appisolarono uno accanto all’altro, cullati dal rumore delle cascate vicine. Nell’aria si mescolavano il profumo dei fiori e dell’erba. Il sole, lentamente, si abbassava verso l’orizzonte fino a quando il cielo si colorò d’arancio, qui e lì, sparse a macchie, nuvole rosee e soffici. I due, seduti sul telo, osservavano quello spettacolo silenziosamente, le loro mani intrecciate fra di loro.
   «Non trovi anche tu che sia romantico?» chiese Elisio.
   «È uno dei tramonti più romantici che io abbia mai visto...» sospirò Platan. Strofinò la testa contro la sua spalla. Elisio si sentì invaso da un’immensa tenerezza. Lo sguardo gli cadde sulle loro dita, così saldamente unite. Sorrise.
   «Platan, anche tu rendi il mio mondo perfetto», disse.
   L’altro alzò il viso verso di lui.
   «È per questo che noi due dobbiamo farlo insieme...» continuava Elisio, carezzandogli i capelli setosi «Altrimenti non avrebbe alcun senso...».
   Vide Platan sobbalzare e girarsi di scatto. In pochi minuti il crepuscolo stava cedendo il posto alla notte. Il Professore si alzò, facendo cenno ad Elisio di fare lo stesso. Prese la tovaglia da terra e la ripiegò.
   «Non possiamo stare qui. Dopo il tramonto questo posto è chiuso», disse.
   «Chiuso?».
   «È vietato andarci. Non è che ci siano dei cancelli o che, però è la regola... Senti, da ragazzino ho passato un brutto guaio, quindi non ho intenzione di rimanere qui un minuto di più».
   «...Era qui?».
   Volse lo sguardo al cielo stellato.
 

   Un forte vento, forte a tal punto da rendergli difficoltoso restare con i piedi ben piantati sul terreno.
   Un bagliore rosso rubino sulla cima di una collina e un assordante urlo di dolore che squarciava l’aria.


   «Elisio, per piacere!» gli gridò Platan, qualche metro più in là. Elisio scosse distrattamente la testa e tornò alla realtà. Raggiunse il compagno e insieme si diressero sulla via che portava al centro del paese di Ponte Mosaico. Tuttavia, qualcosa fece rabbrividire il Professore. Afferrò il foulard rosso di Elisio e tirò l’uomo verso di sé, nascondendosi dietro a un masso.
   «Ma che diavolo...?!».
   «Shhh!» spinse le dita sulle sue labbra «C’è un agente di polizia che sta controllando la zona. Se ci becca qui, finisce male».
   Restò in allerta, tendendo le orecchie. Intorno, le cascatelle riflettevano la chiara luce delle stelle e della luna. Ecco, la guardia si stava allontanando. Platan si concedette un sospiro di sollievo.
   Girò la testa verso Elisio. Mentre osservava i suoi occhi azzurri sentiva il cuore battergli forte. E poi le sue labbra...
   Le sue labbra erano così vicine... Ne sentiva il profumo. Un profumo dolce, invitante. Avrebbe tanto voluto assaporare quel sapore sconosciuto. Ormai non ne poteva più di aspettare che facesse lui la prima mossa.  E poi gli aveva anche già fatto intendere quanto fosse grande la sua attrazione per lui. Che motivo c’era di aspettare ancora? Scostò la mano dalla sua bocca, la posò sul suo viso. Lo avvicinò di pochi millimetri al proprio. Rivolse ad Elisio un’occhiata languida. Poi chiuse gli occhi.
   Le sue labbra leggermente increspate lo facevano tremare. Si sentiva provocato e ammaliato insieme. Elisio bruciava. Dentro, bruciava come un fuoco. Gli accarezzò i capelli osservando le sue sottili e graziose ciglia scure. Era incerto. Dopotutto, si era ripromesso che per non rovinare quell’amore, lo avrebbe celato dietro a un’amicizia... Ma in quel momento, come del resto aveva già compreso nel corso della giornata, capì di essere impotente anche in quel campo. Guardava Platan e vibrava come mai aveva fatto prima. Non poteva più opporsi. Non poteva più nascondere il suo sentimento. Quella passione non avrebbe mai potuto essere al pari di un’amicizia, neanche per finta...
   Abbassò il viso, allungò di poco il collo. Spinse piano le labbra contro quelle di Platan.
   Che meraviglia... Eppure era solo un semplice bacio...
   Dopo qualche attimo in cui si erano crogiolati in quella delicata tenerezza, si allontanarono. Si guardarono negli occhi in silenzio per un lungo istante.
   «Dammene ancora...» lo pregò Elisio con un sussurro, avvicinandosi di nuovo. Platan sentiva il suo dolce respiro accarezzargli le guance. Passò una mano fra i suoi capelli e lo baciò.
   «Ancora, ancora...» andava ripetendo però l’altro. E quindi da due baci ne diventavano tre, quattro e poi cinque, sei, sempre di più, sempre di più, finché non si potevano più contare.
 «Ti darò tutti i baci che vuoi, dovessi anche baciarti per tutta l’eternità...» sussurrava Platan in quel morbido schioccare di labbra.
   «E io ricambierò... Ricambierò in ogni momento, in ogni istante...» sospirò Elisio.
   Si baciarono a lungo, come se sentissero il bisogno di dover recuperare tutti quei baci che non si erano mai dati ma che per tanto tempo avevano sognato e desiderato più di ogni altra cosa. Platan avvolse le braccia attorno al collo di Elisio e si tirò su sulle punte dei piedi. Si abbracciarono, si accarezzarono. Per la prima volta condivisero il loro sentimento d’amore.
   «Sei il mio principe», gli sussurrò all’orecchio Elisio.
   «Et tu es mon roi», disse l'altro di rimando.
   Si baciarono di nuovo finché non sentirono in lontananza il debole fischio del treno.
 Fu come l’amaro risveglio da un sogno bellissimo. Risveglio che però sanciva anche l'alba di una storia insieme, l'intensificazione del loro amore perpetuo.
   Tenendosi la mano, ripresero il cammino, scambiandosi di tanto in tanto qualche tenue sorriso. Arrivarono alla stazione e salirono sul primo vagone, alla ricerca di un posto libero dove mettersi. Una voce robotica con un accento incomprensibile proveniente da un altoparlante appeso al soffitto delle cabine avvertiva i passeggeri dell’imminente partenza. Il messaggio registrato veniva ritrasmesso ogni manciata di minuti. Mentre la voce scandiva l’ultimo avviso, Platan ed Elisio trovarono due sedili vuoti e ci si sedettero. Il treno cominciò a muoversi e dal finestrino videro le cascate di Ponte Mosaico allontanarsi sempre di più fino a diventare un puntino luminoso nell’oscurità della notte.
   «Ecco! Quasi me ne stavo per dimenticare! E pensare che invece è la cosa più importante!» esclamò Elisio nel momento in cui diede un’occhiata alla sua borsa.
   «Che cosa?» chiese l’altro osservandolo con curiosità.
   «Chiudi gli occhi».
   «Eh? Di nuovo?».
   «Ho detto chiudili!».
   «Va bene, va bene, va bene!» serrò le palpebre «Ecco, sono chiusi! E adesso?».
   Elisio prese una scatolina dalla borsa. L’aprì. Poi prese la mano sinistra di Platan e la posò sulla propria gamba. Osservò le sue dita snelle e bianche per qualche secondo, poi gli sfilò l’orologio dal polso.
   «Oh! È freddo!» rise Platan sentendo a contatto con la pelle ciò che Elisio gli stava annodando lì «Che cos’è? Un bracciale?».
   «Guarda tu stesso».
   Platan riaprì gli occhi e sorrise: «Ah! Un orologio nuovo!» disse contento.
 «No, non è solo un orologio: prova a premere quel pulsante lì».
   Il Professore pigiò un bottoncino al lato del quadrante e sussultò, sorpreso. Davanti ai suoi occhi era apparsa una schermata con un omino blu.
   «È un Holovox a forma di orologio?» con un dito scorreva fra le pagine a ologramma.
   «Sì. È un nuovo modello che ho progettato qualche mese fa, ma non è ancora in commercio. Questo ho voluto personalizzarlo un po’ per te. Guarda,» avvicinò l’indice «se tu tocchi qui, puoi accedere a una serie di applicazioni. Ho pensato di installarne alcune speciali che ti sarebbero potute piacere».
   «Quante applicazioni scientifiche! E c’è anche un prototipo del Pokédex! Elisio, ma è fantastico! Sei stato stupendo! È un regalo bellissimo!».
   Elisio gli stampò un leggero bacio sulle labbra e gli sorrise, guardandolo negli occhi.
   «Per te farei questo e altro», disse.
    Tu-tun tu-tuntu-tun tu-tun. Il treno sferragliava sulle rotaie.
   Improvvisamente iniziò a squillare un Holovox. Platan avvicinò l’orologio all’orecchio.
   «No, non è il mio, e l’altro l’ho spento. Elisio, credo che stiano chiamando te».
   «Sì, è il mio, lo sento vibrare nella tasca. Aspetta un attimo, adesso rispondo».
   Elisio prese in mano l’Holovox. Sul display lesse il nome della persona che lo stava chiamando. Rispose attivando solamente l’audio.
   «Sì?» disse con l’apparecchio appoggiato all’orecchio.
   Platan intanto si strinse a lui con amorevolezza.
   «Elisio, i preparativi sono quasi terminati», disse la voce di Akebia dall’altro capo.
   «Bene. Molto bene» disse lui con voce seria e profonda.
   «Ci manca solo la tua autorizzazione. Una sola parola e il progetto potrà avere l’avvio. Preferisci che aspettiamo il tuo ritorno?».
   Rivolse un’occhiata al Professore, i suoi occhi grigi puntati sulla mano libera brillanti d’amore mentre gliel’accarezzava. Si morse le labbra.
   «Sì», rispose, una piccola virgola d’incertezza era scivolata in quella “s”, «Tornerò in tarda notte, perciò nulla potrà essere iniziato prima di domattina».
   «D’accordo. A domani, allora. Avviserò anche gli altri».
   «Sì. A domani».
   «Il Team Flare è pronto a costruire l'alba di un nuovo e meraviglioso mondo».



***
Angolo del francese.
     * Et tu es mon roi = E tu sei il mio re .


 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Glielo avrebbe confessato, prima o poi ***



..

12 . Glielo avrebbe confessato, prima o poi


 

   Elisio riaccompagnò Platan a casa. Arrivati di fronte alla porta del suo appartamento, si arrestarono lì, come in attesa di qualcosa. Il Professore prese le chiavi dalla borsa facendole tintinnare.
   «Vuoi entrare un attimo?» gli chiese con voce soave.
   Sul viso di Elisio si formò un sorriso allettato.
   «Mi spiace, stavolta non posso», disse «Ho del lavoro in sospeso che devo terminare, purtroppo. Altrimenti mi sarei fermato con piacere...».
   «Non lo dubito affatto».
   Si scambiarono un’occhiata maliziosa. Platan si appoggiò con la schiena alla porta, sorridendo a Elisio nel modo più dolce che gli avesse mai visto fare.
   «Grazie di tutto, mon cher. È stata una giornata meravigliosa», sussurrò passando le dita in mezzo alla sua barba.
   «Grazie a te, Platan. Buonanotte».
   «Bonne nuit...».
   Si strinsero fra loro e si baciarono in modo languido per qualche minuto, desiderosi di rimanere ancora un poco insieme per quella notte. Elisio si sentì costretto ad allontanarsi lui per primo, altrimenti non sarebbe più riuscito a staccarsi da quelle labbra così deliziose. Gli prese il viso con una mano e gli accarezzò il mento con il pollice, osservando con gli occhi socchiusi i suoi, grigi come l’argento.
   «Sogni d’oro, amore mio», disse piano. Gli diede un ultimo bacio e si sciolse dalle sue braccia.
   «Anche a te», bisbigliò Platan mentre lo sentiva scivolare via dal suo petto.
   Si sorrisero. Il Professore rimase e guardare Elisio finché non scomparve dietro le porte dell’ascensore. Sospirò. Mentre impugnava la chiave, ripensava a tutti quei baci che si erano dati quella sera. Ancora sentiva in bocca il sapore della lingua di Elisio. Pensò che per quella volta, prima di andare a dormire, avrebbe fatto a meno di lavarsi i denti, così avrebbe potuto assaporarlo tutta la notte.
   Erano passati almeno cinque minuti e ancora non era entrato in casa: era talmente preso da quei pensieri che, distratto, non riusciva a centrare il buco della serratura con la chiave.
 


   «Quindi, che sapore hanno le sue labbra?» chiese a un tratto Diantha, osservando di sottecchi e con un sorrisetto intenerito Platan, intento a girare il cucchiaino nella tazza di caffellatte.
   Il Caffè Soleil si era riempito in pochi minuti di decine e decine di ammiratori accorsi per vedere la famosissima attrice assieme al bellissimo Professore di Pokémon.
   «Eh?!» sbottò questo, colto di sorpresa.
   «È che ti vedo con la testa così tra le nuvole, anche più del solito... Dev’essere accaduto qualcosa di molto speciale... Non è così?» gli fece l’occhiolino.
   «Diantha, per favore!» arrossì. Si guardò attorno. Fortunatamente gli inservienti stavano facendo un buon lavoro cercando di tenere lontano i fan più incontenibili.
   «Ma è così evidente?» chiese il Professore dopo un po’, ritornando alla loro chiacchierata.
   «Abbastanza...» la donna sorrise con i suoi denti bianchi e perfetti «Dai, raccontami, sono curiosa!».
   Il Professore abbassò la testa un attimo e si accarezzò i capelli. Ah, adesso capiva cos’era quello sguardo che aveva avuto in faccia Sina per tutta la mattinata! Doveva essersene accorta anche lei, probabilmente. E chissà perché, aveva persino la strana sensazione che quella ragazzina si fosse resa conto del suo innamoramento già da molto molto tempo...
   «Beh,» cominciò dopo un po’, spezzando un pezzo di torta con la forchetta «ti stavo dicendo, no, che eravamo andati a fare il pic-nic...».
   Diantha osservava i suoi gesti mentre parlava. Attraverso di essi, Platan trasmetteva una certa serenità mista ad una gioia indescrivibile. Dopo tanti e tanti anni che si conoscevano, non l’aveva mai visto stare così bene. Pareva quasi splendere come il sole, non più all’alba, ma al mezzogiorno, rilucendo di tutta la sua bellezza e magnificenza. Ne era felice. Da quando aveva scoperto che il suo amico si era innamorato di Elisio, aveva cercato di stargli il più vicino possibile, di fargli da spalla. Ancora aveva il ricordo di quando da bambina lo aveva respinto in quel modo scortese. Dopo quell’episodio aveva iniziato a conoscere meglio quel ragazzino con gli occhiali, tanto che in poco tempo erano diventati amici. Aveva avuto il rimorso di averlo trattato in quel modo perché aveva scoperto che dietro a quelle lenti spesse e rotonde si nascondeva un bambino meraviglioso. Gli voleva molto bene, e ancora adesso riversava in lui un grande amore fraterno.
   «...E ad essere sinceri, forse ti sembrerà strano, ma secondo me le sue labbra hanno il sapore di Elisio... Non saprei descrivertelo, perché in esso sono legati insieme il suo profumo, il suo carattere, la sua essenza... Quando lo bacio riesco a sentirlo dentro di me, riesco a sentire le nostre anime unite tra loro in un amalgama perfetto...» alzò lo sguardo dalla tazza e osservò l’amica «Non so se ho reso l’idea...».
   Diantha sorrise in silenzio. L’idea l’aveva resa, eccome.
   «...E dopo quest’ultima notizia, concludiamo l’edizione del telegiornale di oggi con un curioso servizio!» sul televisore accanto al bancone principale era apparso il viso di Alexia, poi una ripresa da Viale Inverno della Torre Prisma «Sì, perché cari telespettatori, questa mattina a Luminopoli è stata ritrovata questa misteriosa scritta ai piedi della Quinta Palestra della Lega di Kalos, nonché simbolo della capitale», e sullo schermo si impresse l’immagine di un’iscrizione dipinta con della tempera rossa:

  Il mondo che conosciamo oggi giungerà presto alla fine. Se non faremo qualcosa per fermare il marciume di questa nostra esistenza, allora esso ci consumerà, portandoci alla morte.
   Destiamoci allora da questa morte e ribelliamoci, uniamoci insieme per portare alla vita un mondo migliore.

   Accanto al messaggio vi era un simbolo. Platan e Diantha aguzzarono lo sguardo per interpretarlo e infine giunsero alla conclusione che si trattasse di una sorta di fiamma. Si scambiarono un’occhiata perplessa e allo stesso tempo preoccupata. Di tutto il seguente ciarlare della giornalista, solo due parole rimasero impresse nella loro mente e in quella di tutti gli altri presenti: “Team Flare”.
 


   Passò qualche settimana, e in televisione, sui giornali e alla radio, nei bar e nelle piazze, la gente non faceva altro che parlare di questo fantomatico Team Flare. Girava voce che stesse cercando nuove reclute che aiutassero nella formazione di questo “mondo meraviglioso”.
   Entra nel Team Flare e il tuo futuro è assicurato, dicevano.
   Nessuno, tuttavia, pareva veramente essere a conoscenza delle vere intenzioni del Team Flare, né chi si celasse dietro questa misteriosa organizzazione.
   Nessuno, tranne un gruppo striminzito di ragazzi e ragazze, che, inneggiando a questo glorioso futuro, andava in giro per la regione, indossando delle eccentriche divise rosse.
   Nessuno, tranne la persona più insospettabile del mondo che si potesse ritenere essere a capo di una simile associazione.
   La suddetta persona più insospettabile del mondo stava seduta su una poltroncina, quieta quieta, in una vecchia stanza mai utilizzata di casa sua, ma adibita adesso a studiolo, intento a stilare con un’elegante calligrafia le proprie riflessioni su un foglio a righe.
   “Da giovane, ho viaggiato in lungo e in largo per la regione di Kalos assieme al mio Pokémon”, scriveva, “Ho conosciuto tante persone in difficoltà e ho sempre cercato di tendere loro la mia mano. All’inizio tutti si mostravano riconoscenti, ma presto il mio aiuto è diventato per loro scontato e hanno iniziato ad approfittarsi di me chiedendo di più”.
   Si fermò un attimo, posando la sua attenzione sul suono che produceva l’orologio, scandendo i secondi. Pensò alle parole da imprimere sulla carta, poi continuò: “Questi sciocchi non stanno forse consumando Kalos un po’ alla volta? In un mondo di pace e stabilità, la crescita della popolazione di Pokémon e umani è costante. Tuttavia, le risorse e il denaro che questo mondo è in grado di mettere a disposizione sono limitati. Cosa fare allora? Rassegnarsi alla scomparsa dell’umanità? Salvare solo una manciata di eletti?
   Chi può deciderlo? Non certo un essere umano...
   Allora, lasciamo che a farlo sia uno strumento dalla potenza sovrumana”.
   Udì in lontananza lo sfregare delle zampe di Pyroar contro la porta d’ingresso, accompagnato da uno squillante suono di campanello. Lasciò lì le carte sparpagliate sul tavolo, fregandosene di mettere in ordine come faceva sempre, immediatamente uscì dalla stanza con la porta dalle venature rosse fiammanti e la richiuse con cura, infilandosi la chiave in tasca. Pyroar lo chiamava con insistenza. Elisio corse all’ingresso, si pettinò velocemente barba e capelli con le dita e aprì. Platan era lì di fronte a lui con il suo bel giaccone azzurro invernale. Aveva le guance tutte rosse a causa del freddo. Si gettò fra le sue braccia e lo baciò con passione sulle labbra.
   «Elisio, mon amour!» esclamò in quella bruciante foga di baci. Richiuse la porta dietro di loro e ci si appoggiò, tirando a sé il volto di Elisio. Pyroar li guardò un attimo e se ne sgattaiolò via, per non essere d’intralcio.
   «A-aspetta, aspetta, fami respirare un attimo!» disse Elisio ridendo. Si allontanò dalla sua bocca e poggiò la fronte contro quella dell’altro.
   «Ti faccio perdere il fiato, eh...?» sussurrò Platan accarezzandogli il petto che si contraeva per il fiatone. Si guardarono negli occhi e si sorrisero dolcemente. Dopo che entrambi ebbero ripreso il respiro, ricominciarono a baciarsi con più delicatezza, stringendosi fra loro.
   «Ho aspettato tutto il giorno che arrivasse quest’ora soltanto per riabbracciarti di nuovo, mio adorato Platan...».
   «Anch’io, Elisio... Anch’io...».
   Il Professore si scostò un attimo, si sfilò la giacca di dosso e la appese all’appendiabiti. Ritornò tra le braccia di Elisio e osservò il suo viso con un sorriso innamorato. L’uomo dai capelli rossi gli accarezzò una guancia e sospirò.
   «Che c’è?» gli chiese Platan.
   «No, niente...» sbatté le ciglia come se si fosse distratto un attimo «Ah, ecco, lo senti?» rise «Questo è Pyroar che inizia a reclamare la cena. Platan, io comincio a preparare qualcosa, tu se vuoi sistemati in salotto».
   Il Professore andò nel salone e si sedette sul tappeto accanto al maestoso leone. Sorrise e lo accarezzò sotto il muso.
   «Sei proprio diventato un bel Pyroar, tu, eh? Eri piccolino così quando ti ho incontrato la prima volta!» gli disse.
   «Pyyyrrr...» mugghiò soddisfatto il Pokémon. Nonostante fosse cresciuto, ricevere carezze gli piaceva ancora da matti come quando era un cucciolo. Infatti adorava quelle volte in cui Platan veniva a trovarli, perché lui lo riempiva sempre di coccole. Elisio, negli ultimi giorni, sembrava molto indaffarato con il lavoro e non aveva tempo di dedicarsi pienamente a lui. Ad un tratto il leone alzò la testa, annusando l’aria. Subito si tirò in piedi, fece intendere con uno sguardo a Platan che aveva fame e andò a mangiare il suo pasto.
   «Buon appetito!» gli disse il Professore mentre osservava il Pokémon allontanarsi. Pyroar ruggì, ringraziandolo. Mentre il leone si faceva strada per il corridoio, Elisio si chinò su di lui e gli diede una leggera carezza dietro le orecchie. Si guardarono e l’uomo dai capelli rossi sorrise lasciandolo andare. Entrò in salotto e trovò Platan intento a guardare alcune fotografie che erano sulle mensole appese al muro. Elisio gli andò vicino e lo abbracciò da dietro, posando le mani sui suoi fianchi sottili. Gli diede un bacio sulla nuca e chiese: «Cos’hai trovato?».
   «Mi piace questa foto di Cromleburgo. È un bel paesaggio. L’hai fatta tu?».
   «Sì».
   Sentì il suo cuore farsi pesante. Strinse Platan più forte a sé, come se avesse avuto paura che sarebbe potuto scappare via dalle sue braccia da un momento all’altro. Ancora non gli aveva detto nulla. Si ostinava ad aspettare quel momento propizio, ma chissà se questo momento propizio sarebbe arrivato veramente? Conosceva Platan e già sapeva che per lui sarebbe stato difficile prendere una simile decisione. Forse non avrebbe neanche accettato.
   «Un giorno ci andremo insieme», disse il Professore.
   «Certamente», disse Elisio quando in realtà non c’era nulla di certo. Chissà se sarebbe veramente stato disposto a seguirlo fino al Quartier Generale del Team Flare sotto Crombleburgo? Avrebbe voluto domandarglielo, ma la sua voce, appena appena accennata, si interruppe nell’istante in cui l’altro lo baciò. Mentre riceveva le sue dolcezze, Elisio si rese conto che, ancora una volta, non era quello il momento adatto per parlarne. Si lasciò trasportare dai suoi baci e dalle sue carezze, permettendo che quell’amore cancellasse di nuovo le sue preoccupazioni. Il televisore, acceso, blaterava parole che i due non riuscivano a sentire, che anzi arrivavano alle loro orecchie come un suono lontano e confuso. L’unica cosa che riuscirono a udire chiaramente fu lo squillare del telefono in una delle stanze lì intorno.
   «È da stamattina che va avanti così, questo telefono...» sbuffò Elisio, allontanandosi piano dalla schiena del compagno. «Aspettami, torno subito», sussurrò poi, facendo schioccare le labbra contro quelle di Platan un’ultima volta.
   Mentre lui se ne andava, la televisione trasmetteva l’ennesimo servizio a tema Team Flare. Il Professore non poté fare a meno di manifestare il suo dissenso. Non riusciva a sopportarlo. Perché la gente si ostinava ad aumentare la fama di questo gruppo, senza fare qualcosa per contrastare le sue azioni? Dopotutto, si era capito, il Team Flare era una banda di delinquenti, di terroristi, non avrebbero mai portato nulla di buono. E questo loro soffermarsi sul parallelismo tra la vita e la morte non faceva altro che accrescere le sue paure.
   Entra nel Team Flare e il tuo futuro è assicurato, dicevano.
   Assicurato? Perché, c’era qualche dubbio che il suo futuro non si sarebbe potuto concretizzare? Che volevano fare? Portarglielo via? Portarglielo via in che senso? Distruggendoglielo? Distruggendoglielo in che modo? Che cosa significava quella frase ambigua?
   Platan sentì il timer suonare in cucina. Andò a cercare Elisio per avvertirlo. Attraversò tutto il corridoio, guardò in ogni stanza: Elisio, quando passava in quella parte dell’appartamento, non si sa perché, né come, spariva sempre. L’unica porta, perennemente chiusa, che Platan non aveva mai aperto, era adesso di fronte a lui, rivelandosi con le sue venature rosse brillanti come un’apparizione miracolosa. Pareva quasi lo chiamasse, lo incitasse a girare quella maniglia una volta per tutte e scoprire i segreti che si celavano dietro di essa.
   I segreti di Elisio.
   In teoria ora erano una coppia e, sempre in teoria, non avrebbero dovuto nascondersi alcun segreto. E tuttavia ognuno di noi, chi per un motivo, chi per un altro, è costretto almeno una volta nella vita a nascondere qualche scheletro nell’armadio.
   Platan posò la mano sulla maniglia. Gli tremavano le dita. Sentiva come di star facendo un torto al suo innamorato, di starlo per spogliare persino della sua più profonda intimità. Lo sentiva parlare al telefono dall’altra parte della porta. Si fermò. No, non doveva farlo. Non sarebbe stato giusto. Se Elisio avesse davvero avuto qualcosa di così segreto e importante da dirgli, allora glielo avrebbe confessato, prima o poi.

   Glielo avrebbe confessato, prima o poi.

   No, questo non glielo avrebbe confessato, né prima né poi, si ritrovò a pensare Platan, fuori di sé. Osservò la porta con gli occhi sbarrati e pieni di terrore.
   Elisio era uno di loro.
   Elisio era uno di loro.
   Sentiva il rumore dei suoi passi mentre si muoveva per la stanza e li ascoltava con il cuore in gola.
   Doveva andarsene.
   Doveva andarsene, o lo avrebbe scoperto.
   E se lo avesse scoperto cosa gli avrebbe fatto?
   Non lo sapeva e non gli importava, quello che voleva era capire il perché di quel suo gesto.
   Unirsi al Team Flare per quale scopo? Fondare il Team Flare per quale motivo?
   Perché ascoltando, questo aveva scoperto.
   Elisio non era semplicemente uno di loro, Elisio era il più importante di loro.
   Il capo.
   Improvvisamente la schiena di Platan venne scossa da un brivido. Dietro di sé percepiva una presenza minacciosa. Si girò di scatto e vide Pyroar piegato sulle zampe in posizione d’attacco che ringhiava in modo sommesso. Il Professore lo guardava negli occhi, spaesato.
   «Pyyyrrrr...» brontolava in modo intimidatorio. Stava cercando di fargli capire che doveva allontanarsi da quella porta. Sapeva bene che in quel momento non sarebbe stato ancora pronto a conoscere la verità, ma ormai era successo. Elisio gliel’aveva detto tante volte di cercare di tenere Platan alla larga da quel posto, alla fine non c’era riuscito. Adesso desiderava soltanto proteggerlo da quella che sarebbe potuta essere la reazione del suo padrone, proteggerlo dalle bugie che avrebbe potuto inventare per giustificarsi, proteggerlo da un’eventuale rottura di quel meraviglioso rapporto che avevano loro due. In fondo con il passare del tempo aveva iniziato a considerare Elisio e Platan come veri e propri membri di una inverosimile famiglia, insieme a Bulbasaur, Gyarados e agli altri Pokémon. Vederli separati gli avrebbe provocato soltanto un grande dolore incolmabile.
   Il Professore parve capire, almeno in parte, il comportamento di Pyroar. Tornò in salotto e si sedette sul divano con aria spenta. Nel momento in cui vide Elisio passargli davanti per andare in cucina a spegnere i fornelli, Platan sentì un tonfo al cuore. Si accucciò su sé stesso in posizione fetale, rivolto verso la televisione. La luce dello schermo si riflesse su una piccola lacrima che gli era scivolata sulla guancia. Pyroar si appoggiò tra i cuscini e gliela leccò via.
   «Pyroar...» bisbigliò il Pokémon, cercando di tirarlo un po’ su di morale.
   Platan si sforzò di sorridere e gli accarezzò la folta criniera rossa.
   «Sono solo un po’ scosso, Pyroar... Da parte di Elisio non me lo sarei mai immaginato...» gli disse, cercando anche lui di rincuorarlo «Magari sono io che mi sbaglio, forse il Team Flare non ha veramente intenzioni così malvagie come credo io... Giusto? Giusto?».
   Pyroar preferì non rispondere. Continuò a coccolarlo, premuroso, pieno d’affetto.
   «Ti voglio bene» sussurrò abbracciandolo.
 


   La cena trascorse lentamente e in silenzio. Elisio ogni tanto provava a tirare fuori qualche argomento sfizioso di cui parlare, ma da Platan non riceveva alcun tipo di reazione. Provò a fare un’osservazione sul suo abbigliamento: «Mi piace la camicia che ti sei messo oggi, trovo che ti stia molto bene. È nuova?» e in effetti era vero, gli piaceva il modo in cui gli si avvitava attorno al petto.
   Platan annuì e affondò il cucchiaio nella minestra che Elisio gli aveva preparato con tanto amore.
   «Me l’ha regalata Diantha per il mio compleanno, quando siamo usciti a mangiare la torta insieme», disse con voce fioca. “Lo stesso giorno in cui il Team Flare è venuto allo scoperto”, rifletté subito dopo aver chiuso la bocca.
   Non si dissero più nulla per il resto del tempo che passarono a tavola.
   Dopo cena si sedettero come di consuetudine sul divano a guardare un film alla tivvù.
   Elisio, vedendo il suo compagno così giù di tono, lo riempiva di carezze, tuttavia Platan sembrava in un certo qual modo riluttante ad esse. Proprio non riusciva a capire che avesse. Anche Pyroar si comportava in una maniera strana, accucciato sul tappeto dall’altra parte del salone mentre li osservava. Elisio tirò su il viso dell’uomo per dargli un bacio, ma si fermò. I suoi occhi erano spenti. Il suo sguardo tradiva una certa preoccupazione.
   «Platan, è tutto a posto?» gli chiese.
   Platan si allontanò dalle sue braccia senza rispondere. Si alzò dal divano e lo guardò. Intimorito dal fatto che avrebbe potuto sospettare qualcosa gli disse: «Ho del lavoro urgente da finire in Laboratorio...».
   «Tutto qui? Potevi dirmelo! Aspetta, prendo la giacca e ti accompagno», si tirò su di scatto.
   «No!» forse il tono in cui lo aveva detto suonava troppo severo, tanto che quel “no” stava rimbombando in tutta la stanza. Pyroar aveva teso le orecchie e alzato il busto. Elisio guardò il Professore con un’espressione confusa, fermo immobile davanti a lui. Allungò una mano per accarezzare la sua. Platan indietreggiò e abbassò la testa.
   «No... Non vorrei... disturbarti...» disse con voce più tranquilla. Elisio avrebbe voluto insistere: “Andiamo, lo sai che non mi disturbi affatto” avrebbe voluto dire. Dopotutto quante altre volte lo aveva riaccompagnato lì? Tante, tantissime. Non se ne sarebbe dovuto vergognare o chissà che, soprattutto ora che erano diventati una coppia, un’unione. Eppure il modo in cui gli tremavano le spalle lo metteva in soggezione. Quel suo essere remissivo non era da lui. C’era qualche problema di cui non era a conoscenza. Per stavolta sarebbe stato meglio tacere.
   «Va bene. D’accordo.» disse, chiudendo lì il discorso.
   Platan si affrettò all’ingresso. Si infilò la giacca sempre con lo sguardo a terra. Nel momento in cui sentì la presenza di Elisio dietro di sé il respiro gli si fermò per un istante. Sospirò. Si sistemò il colletto della giacca e si arrotolò la sciarpa attorno al collo. Si girò verso Elisio un’ultima volta prima di mettere la mano sul pomello della porta e andarsene. Lo guardò negli occhi, quegli occhi così belli e puri.
   Ma com’era possibile che...?
   Pyroar era seduto accanto alle gambe del suo padrone.
   «Ti amo, Platan», disse Elisio, con la preoccupazione che gli vibrava nella voce.
   Il Professore sorrise, anche se mestamente. Quelle parole dette da lui lo facevano sempre stare meglio, ma in quel momento aveva i pensieri abbastanza confusi.
   «Ti amo anch’io, Elisio. Buonanotte».
   «Buonanotte».
   La porta si richiuse con un forte tonfo. Elisio ebbe l’impressione che Platan avesse avuto una certa fretta di andarsene. Non si erano dati neanche un bacio quando invece, di solito, stavano lì sulla porta a salutarsi in quel modo per ore. Cos’era successo?
   Strinse la mano destra in un pugno.
   «Pyroar, tu ne sai qualcosa?» chiese senza staccare gli occhi dalla porta.
   «Pyrr...» si alzò e se ne andò. Elisio lo prese per la coda e lo tirò di nuovo vicino a sé.
   «Tu sai qualcosa?!» gli gridò in faccia. Il Pokémon ruggì in modo aggressivo e si dimenò. Si accucciò a terra e cominciò a ringhiare.
   «È tutta la sera che vi comportate in modo strano! Tutti e due! Che diavolo è accaduto?!» alzò la voce ancora di più.
   «Pyroar!!! Pyrooo!!!!» che, tradotto nella nostra lingua, pressappoco diceva così: “Da me non saprai niente”. Ma questo gli era bastato per capire tutto.
   Elisio sussultò. Sentì un senso di nausea fargli girare la testa. Si passò una mano tra i capelli rossi. Sudava freddo. Improvvisamente aveva cominciato a tremare tutto. Tremava di paura.
   “Contieniti. Dannazione, Elisio, contieniti!” si ripeteva in mente.
   Si appoggiò al muro e scivolò finché non si ritrovò seduto a terra con le gambe piegate. Con la testa posata sulle ginocchia, osservava la porta da cui Platan se ne era appena andato, mordendosi le labbra. Se solo gli fosse stato concesso un altro po’ di tempo, solo un altro po’...

   Glielo avrebbe confessato, prima o poi.




***
Angolo del francese.
     *  Mon cher = Mio caro ;
     * Bonne nuit = Buona notte ;
     * Mon amour = Amore mio .


 


Il discorso che scrive Elisio l'ho copiato da uno degli appunti che si trovano nella sua stanza (...credo sia la sua stanza, dato che gli appunti presumibilmente sono i suoi) nei Laboratori Elisio.
Mi dispiace troppo, ma prima o poi doveva venirlo a sapere...
Immagino che adesso sarete tutti arrabbiati e tristi (come me)... Spero di riuscire a mettere il prossimo capitolo al più presto!
Perciò a presto (molto presto)!
Persej Combe

P.S. Come al solito grazie a tutti voi che state continuando a leggere e a recensire, non smetterò mai di ringraziarvi abbastanza! Grazie grazie grazie! <3

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Una promessa per l'eternità ***



..

13 . Una promessa per l'eternità


 

   La testa molle, completamente afflosciata sullo schienale della poltrona della sua stanza del Laboratorio di Pokémon: così il Professor Platan, con gli occhi rossi e gonfi di pianto, stava ad osservare il soffitto con sguardo perso, allo stesso modo in cui Elisio in quel momento era disteso sul letto a testa in su e le braccia conserte sul petto. Entrambi soffrivano e si tormentavano per ciò che era successo appena un’ora prima.
   Bulbasaur era accucciato sulle gambe del Professore e si lasciava accarezzare dalle sue mani deboli, sentendo ogni tanto una lacrima posarsi sul suo bulbo e scivolargli lungo tutto il corpo. Aveva già provato a confortarlo, ma non ci era riuscito. Sospirò e allungò uno dei suoi lacci d’erba per prendere un fazzoletto e passarlo sul suo viso.
   «Grazie, Bulbasaur...» disse con voce bassa e strozzata il Professore, offrendogli qualche carezza in più «Forse non sarei dovuto scappare via in quel modo... Se solo avessi avuto il coraggio di rimanere e chiedergli delle spiegazioni...».
   Per qualche minuto rimase in silenzio a riflettere. Poi improvvisamente dalla sua gola risuonò un pigolio acuto, che subito si affrettò a celare, premendosi forte le mani sulla bocca.
   E a Elisio, immerso fra le coperte, pareva quasi di sentirlo concretamente nelle orecchie quel grido, di riuscire a vedere l’uomo piegato ignobilmente su sé stesso con il suo bellissimo viso che si contorceva in un’orribile espressione di dolore. E rabbrividiva.
   «Oh, Platan, perdonami... Ti prego, perdonami! Io senza il tuo amore non riuscirei più a vivere... Che senso avrebbe il mio mondo perfetto senza di te? Sei tu che per me rendi il mondo perfetto... Senza te... Senza te non sarebbe tale, e se non fosse tale...».
   Il suo fiume di pensieri fu interrotto dallo squillo dell’Holovox. Elisio si precipitò subito a prenderlo, sperando scioccamente che si trattasse del suo adorato Platan che lo cercava per chiedergli scusa, per insultarlo, o qualsiasi altra cosa, pur di poter sentire la sua voce. Nel leggere il nome sul display e nel vedere che non si trattava di lui, si lasciò sfuggire una smorfia stanca e anche l’ultimo briciolo di speranza che aveva avuto fino a quel momento. Spense l’apparecchio: se Platan non lo aveva chiamato in tutto quel tempo, allora non lo avrebbe fatto neanche in seguito.
   Si lasciò cadere sul materasso, in mezzo alle lenzuola, si spogliò. O almeno ci provò. Lo sconforto che provava era talmente grande e potente al punto da riuscire a risucchiargli quasi tutte le forze. Passava piano le dita tra i bottoni della giacca e li sbottonava, e mentre li sbottonava sorrideva amaramente, pensando a quanto per tutto il giorno avesse fantasticato e atteso il momento in cui glieli avrebbe sbottonati lui quei bottoni. E il letto era vuoto senza di lui, e freddo. Gli mancavano i suoi abbracci, l’accarezzargli i morbidi capelli mentre nel sonno si stringeva a lui, il suo respiro tranquillo che mentre dormiva soffiava leggero sul suo petto, lo svegliarsi nel mezzo della notte per uno spavento improvviso e rassicurarsi sentendo di averlo vicino, sentendo il suo profumo...
   Il suo profumo ce lo aveva ancora addosso.
   Gli si era intriso nelle vesti e lo sentiva forte e distinto, gli bruciava nelle narici e gli faceva ricordare ogni volta che lui non era più al suo fianco.
   Ma davvero non lo era più?
   Accarezzò con una mano il punto del letto in cui lui era solito stendersi. No, non c’era, era vuoto esattamente come lo era stato negli ultimi tre quarti d’ora. Riprovò un paio di volte e poi si arrese.
   Sarebbe più tornato?
   Per la prima volta da quando Platan se ne era andato via sbattendo la porta, pianse una lacrima. Una sola, ma densa di tutto quel rancore che stava provando. Cominciava a sentirsi stanco e mentre a poco a poco il dormiveglia lo stringeva fra le sue braccia, in un turbine di pensieri confusi vedeva Platan, il Team Flare e l’Arma Suprema, e morte e sangue, luce e vita, scenari inquietanti, altri meravigliosi e stupendi. Si chiese se fosse il caso di mettere da parte alcune sue conoscenze, per non avere il dolore della loro uccisione pesante sul cuore. Con la mente vagò fra tutte quelle persone che aveva conosciuto nel corso della vita e si diceva che, una per una, le avrebbe dimenticate per sempre. Poi però vide di squarcio quegli occhi d’argento e rabbrividì. Lui non l’avrebbe mai potuto dimenticare, neanche se ci si fosse sforzato. Era parte del suo essere, ormai, e insieme formavano qualcosa di completo e perfetto... Come accettare in un mondo perfetto qualcosa di imperfetto?
   E si giurò che avrebbe fatto qualunque cosa pur di portarlo con sé in quel suo tanto desiderato sogno.
   Vagò ancora per un po’ fra illusioni e visioni, finché ad un tratto si ritrovò perduto in un ricordo lontano.

   «Elisio, hai paura?» gli chiese il bambino, accoccolato fra le sue braccia. Il suo sguardo quasi spento, morto, lo faceva tremare.
   «Ti prego, non chiudere gli occhi!» disse lui piangendo, stringendolo più forte a sé «Ti prego!».
   «Elisio... Promettimi una cosa...» la sua voce si faceva mano a mano più debole, come anche il suo respiro che sempre di più faticava a raggiungere le sue guance. Avvicinò il viso al suo cosicché non dovesse sforzarsi troppo per parlare.
   «Elisio... Promettimi che... Un giorno risplenderemo insieme per l’eternità...».
   «Per l’eternità?».
   «Promettimelo...».
   Gli accarezzò i capelli e guardandolo intensamente negli occhi, con voce solenne disse: «Platan, io ti prometto che un giorno risplenderemo insieme per l’eternità. È una promessa. Ed essendo una promessa, è destinata a mantenersi».

   E come anche Platan in quel momento si stava soffermando su quel ricordo e chiudeva gli occhi sopraffatto dal sonno, Elisio, rincuorato da quel pensiero, sussurrò: «Un giorno, noi due, risplenderemo insieme nell’eternità di un mondo perfetto».
 


   «Professor Platan! Professor Platan!» lo chiamava una voce femminile e squillante che subito riconobbe.
   «Sina, lascialo riposare. Stanotte deve aver lavorato come al solito fino a tardi, sarà stanco», le diceva Dexio prendendo in braccio Bulbasaur «Vero, Bulbasaur?».
   «Bulbasaur...» rispose il Pokémon in un tono non del tutto sicuro. Il giovane assistente gli diede una carezza sulla testa e fece per portarlo fuori dallo studio.
   «E dai, Sina, forza! Almeno accompagnami a far fare colazione a Bulbasaur!» disse ancora, vedendo che la ragazza non si era spostata di un centimetro da vicino il bracciolo della poltrona su cui si era addormentato il Professore.
   «Ieri sera aveva un appuntamento con Elisio, non lo avremmo dovuto trovare qui».
   «Ancora con questa storia?» la guardò seccato «Il Professore ed Elisio sono solo amici!».
   «Dexio, tu ancora non hai capito niente, vero?».
   Il ragazzo sospirò, evitando di proposito lo sguardo della sua amica.
   «Beh, ma se fossero davvero fidanzati, perché dovrebbero tenerlo nascosto? Comunque, io vado a occuparmi di Bulbasaur. Se vuoi venire...».
   «Certo, vi raggiungo subito».
   Dexio la guardò un’ultima volta e se ne andò, chiudendo piano la porta. Sina intanto osservava il volto del Professore e ci scopriva una piccola ruga vicino alla bocca.
   «Lo tengono nascosto per evitare che la gente cominci a intralciarsi nelle loro vite per poi rovinargliele... Una storia del genere farebbe così tanto scalpore, si creerebbe un gran trambusto...» sussurrò.
   «Proprio così, ma mignonne... Elisio è un uomo riservato, non gli piace che in giro si parli troppo dei suoi affari... Quelli privati, soprattutto...» il Professore prese parola con voce lieve, appena svegliatosi. Si stiracchiò e si passò le dita tra i capelli, pettinandoseli un po’.
   «E d’altronde, adesso, anch’io sono d’accordo con lui su questo punto... Quando questa storia verrà allo scoperto, allora sì che si creerà un gran trambusto», il suo viso si era improvvisamente fatto scuro.
   «Professore, se posso dire la mia, però,» fece Sina sedendosi sulla sedia di fronte a lui e non accorgendosi della sua espressione «voi cercate tanto di nasconderlo, ma in realtà è così evidente! E non lo dico perché me lo ha detto lei quando gliel’ho chiesto, io veramente me ne ero accorta fin da quando ho messo piede in questo posto la prima volta!»
   «Lo so che te ne eri accorta, Sina, lo so...» non poté fare a meno di farsi spuntare un sorriso sulle labbra.
   «E non dia retta a Dexio, si sa che lui per queste cose ha occhi e orecchie foderati di prosciutto!».
   Platan scoppiò a ridere e si tirò in piedi.
   «Occhi e orecchie foderati di prosciutto...» sorrise «Non fargliene troppo una colpa, Sina, è che noi maschietti siamo fatti un po’ così... Comunque sia, ieri mi pareva di aver lasciato una relazione qui sul tavolo, ma non riesco più a trovarla. Non è che mi potresti dare una mano a cercarla?».
   «Si riferisce a quella sui monoliti intorno a Cromleburgo?».
   «Sì, proprio quella».
   «Ah, credo di averla vista qui in giro da qualche parte! Ecco, mi pareva che fosse là» e si mise a cercare. Dopo un po’ che rovistava tra fogli e libri, su tavoli e scaffali, Sina si arrestò e, prima di mettere la relazione ritrovata tra le mani del Professore, alzò lo sguardo verso di lui e lo guardò.
   «Professor Platan, non è successo nulla di grave ieri con Elisio, vero?» gli chiese con un po’ d’apprensione. L’uomo la osservò a sua volta e nascose la sua tristezza dietro un falso sorriso.
   «Abbiamo solo avuto un piccolo battibecco, non preoccuparti...» rispose accarezzandole una guancia «Oh, ma petite Sina, come sei bella appena sbocciata nel fiore della tua giovinezza, così dolce e innocente! Purtroppo il tempo scorre e un giorno sei destinata ad appassire, ma ti prego, prima di allora vivi ogni giorno nella tua purezza più piena!».
   La ragazza sorrise, pur non capendo il perché di quelle parole. Poi però, guardando l’uomo più attentamente le sembrò come di aver visto una lacrima scivolargli da un occhio.
   «Professore, vuole vedere le maschere nuove che io e Dexio abbiamo cucito insieme?» disse, sperando che quello potesse riportare un po’ di luce su quel viso. Corse a chiamare il compagno e quando insieme ritornarono nello studio, apparvero davanti al Professore con due belle maschere, una blu e una rossa, e due sciarpe al collo dei medesimi colori. Si misero in posa e a pieni polmoni esclamarono: «Noi siamo Sina e Dexio, gli eroi mascherati!».
   «Fantastici! Sembrate proprio dei supereroi!» il Professore batté le mani con entusiasmo e sorrise a entrambi «E bravi ragazzi!».
   «Beh, per essere dei veri supereroi ci mancherebbe solo una tuta!» rise Sina.
   «No, state benissimo anche così, sul serio! Sono sicuro che alla parata in maschera per il carnevale farete un figurone!».
   Platan andò vicino ai suoi giovani assistenti e gli posò le mani sulle spalle, guardandoli orgoglioso.
   «Eh, ci vorrebbero proprio dei supereroi in questo periodo, non pensa, Professore?» disse Dexio togliendosi di dosso la maschera azzurra, «Con quelli del Team Flare in giro, chissà cosa potrebbe accadere...».
   «Oh, Dexio, se soltanto esistessero davvero i supereroi!» esclamò la ragazza mentre si sfilava la sciarpa dal collo «Saremmo sicuramente tutti più sereni... Quel Team Flare proprio non me la conta giusta...».
   Platan si scostò da loro e li osservò mentre continuavano a parlare di quella losca organizzazione. Ripensò a Elisio e a ciò che era accaduto la sera prima, alla scoperta che lo aveva sconvolto. Improvvisamente prese una decisione: ormai né l’uno né l’altro aveva più nulla da nascondere, perciò sarebbe stato meglio parlarne una volta per tutte di persona, faccia a faccia, senza mezzi termini e in modo conciso e lineare. Doveva assolutamente scoprire a che cosa stava lavorando il Team Flare e capire se vi fosse un modo per fermarlo. Un modo per fermare Elisio e salvarlo dalla sua follia. Prese la giacca dalla sua poltrona, se la infilò addosso prima ad un braccio, poi all’altro e si avviò.
   «Ragazzi, vado a prendere un caffè per svegliarmi, voi rimanete qui e aspettatemi. Garchomp, vieni con me! Anche tu, Bulbasaur!» richiamò i Pokémon nelle loro Poké Ball e se le mise in tasca, salutò i due ragazzini e se ne andò via.
 
 

   Beveva con piacere la sua tazza di caffè e intanto si guardava intorno, osservando ogni angolo del Caffè Elisio dal suo solito tavolino. Ci passò una mano sopra con dolcezza, ricordandosi di quel giorno in cui, seduto a quello stesso tavolo, aveva visto di nuovo per la prima volta dopo tanto tempo il suo Elisio, cercato e sospirato così a lungo.
   «Risplenderemo insieme...» sussurrò teneramente «Ti salverò, mon adoré».
   Vide la porta accanto alla libreria finalmente libera dalla guardia dei camerieri. Si alzò e furtivamente camminò verso di essa. Allungò la mano verso la maniglia e...
   «Signore, che cosa sta facendo?» Come non detto! Una delle cameriere lo afferrò per una spalla e lo fermò.
   «Sono un amico di Elisio e ho urgenza di parlargli», disse con sincerità, riconoscendo di essere stato colto nel sacco.
   «Il signor Elisio al momento è occupato e non può ricevere visite».
   «Per me un po’ di tempo lo troverà, ne sono certo!» si strattonò e piegò la maniglia.
   «Stia fermo! Non le è permesso entrare lì dentro!» gli gridò, acchiappandolo di nuovo per un braccio.
   «Devo parlare con Elisio! Devo parlarci adesso o sarà troppo tardi!» le ringhiò.
   «Non m’interessa, lei non può oltrepassare questa porta! Se ha così tanto bisogno di vederlo, allora lo avvertirò e appena potrà verrà a riceverla! E adesso torni al suo tavolo, per favore, o sarò costretta a prendere provvedimenti!».
   Platan sbuffò e alzò le braccia in segno di resa. Ritornò al suo posto e rimase a scrutare di nuovo quella porta, riservando occhiatacce ostili alla donna che prima lo aveva intralciato. Si calmò e si disse che avrebbe aspettato finché avrebbe potuto avere la possibilità di riprovarci. Ad un tratto una bambina capricciosa fece cadere un piatto a terra, che si fracassò in mille pezzi con un rumore assordante. L’attenzione di tutti quanti si spostò per pochi attimi in quel punto e il Professore, approfittando di quel momento di distrazione, s’alzò di scatto e corse verso la porta. E già la cameriera lo richiamava un’altra volta, ma ormai era entrato e aveva chiuso la serratura.
   Platan venne avvolto dal silenzio e dal buio. La luce lì era fioca e ci mise un po’ ad abituarsi alla poca luminosità. Si guardò attorno con un po’ di timore e infine si decise a muovere i primi passi verso la piccola scalinata che aveva di fronte.
   Passi che furono rilevati dal sistema di sicurezza dei Laboratori. In una delle miriadi di stanze là intorno, un uomo grasso e dalla pelle bianca cadaverica, seduto di fronte ai computer per studiare alcuni dati, alzò lo sguardo verso i televisori sulla parete dove un lampeggiante simbolo rosso lo avvertiva dell’infiltrazione di un intruso in quei luoghi. Gli sfuggì un’esclamazione di stupore dalle labbra flaccide e immediatamente, pigiando le dita coperte da un paio di guanti su un monitor, ebbe accesso alle telecamere del corridoio principale. Aumentò lo zoom finché il viso dell’estraneo venne inquadrato completamente sullo schermo.
   «Oh, ma guarda un po’ chi ci è venuto a trovare...» disse, osservando l’immagine con uno sguardo interessato. La sua bocca si incurvò in un sorriso maligno, scoprendo i suoi denti bianchi e fini.
   Intanto Platan procedeva e continuava ad osservare quel posto con occhi attenti. Tese le orecchie, ma intorno a sé non riusciva a sentire altro che il rumore delle sue scarpe che battevano contro il pavimento di metallo. Giunse a metà della scalinata e riuscì a scorgere la porta di un ascensore. Improvvisamente però, qualcosa lo prese alla sprovvista, lasciandolo senza parole. Da una lastra di teletrasporto sul pavimento era spuntato così dal nulla un uomo, immerso in una accecante luce gialla. Questo gli riservò un sorriso ospitale, che però in realtà nascondeva un grande sentimento d’avversione. Sempre immerso in quella luce gialla, l’uomo parlò: «Ma che bella sorpresa! Professor Platan, è un onore averla qui! Bene bene, ha forse intenzione anche lei di unirsi al Team Flare?».
   «Non ci penso nemmeno!» gridò carico di ripugnanza.
   Il ciccione sorrise.
   «Come immaginavo», disse con voce melliflua. Uscì da quel cerchio di luce e si mise di fronte al Professore, scrutandolo dall’alto della scalinata. Le lenti dei suoi occhiali si allungarono finché non giunsero vicino al suo viso, studiandolo in ogni minimo dettaglio. Platan indietreggiò di un passo, diffidente.
   «Meraviglioso», disse l’uomo, continuando a osservarlo «Un viso meraviglioso e pieno di bellezza, proprio come dice Elisio. Sarebbe un vero peccato non potersi beare di così tanta grazia nel nostro mondo perfetto...».
   «Mondo perfetto?».
   «Oh, sì. È questo lo scopo del Team Flare: creare un mondo perfetto».
   “Il mondo perfetto a cui Elisio ambisce così tanto...” pensò il Professore.
   «Chi è lei?» gli chiese.
   «Il mio nome è Xante e sono uno degli Scienziati a capo del Team Flare. Professor Platan, non mi piace avere intrusi che gironzolano per i Laboratori, perciò, se non vuole unirsi a noi, se ne vada».
   «Prima voglio delle risposte!».
   Xante inclinò la testa in un cenno interrogativo.
   «Risposte? Che risposte sta cercando, qui?».
   Platan abbassò la testa puntando lo sguardo sulla punta delle scarpe. Si morse le labbra e poi tornò a fissare Xante.
   «Questo mondo perfetto... In che modo il Team Flare vuole ottenerlo?».
   Lo scienziato contorse le labbra in un ghigno malevolo e sibilò: «Professor Platan, così però si mette nei guai...».
   «La smetta di ridere e mi risponda!» tuonò, afferrandolo per la cravattina rossa «In che modo il Team Flare ha intenzione di ottenere il mondo perfetto?!».
   Il viso di Xante si fece improvvisamente serio. Prese la mano del Professore aggrappata alle sue vesti e la allontanò bruscamente.
   «Se pensa di riuscire a fermarci, allora è solo un povero illuso», gli disse. Lo osservò da dietro le lenti rosse per un lungo attimo e poi rispose.
   «Elisio vuole riattivare l’Arma Suprema».

    E Platan dentro di sé sentì come un frangersi di vetri.

   «L’Arma... L’Arma Suprema...» sussurrò quasi senza voce, sbigottito.
   «Immagino che non glielo avesse ancora detto... E vorrei anche azzardare l’ipotesi che non le avesse detto neanche di essere il capo del Team Flare. Lo ha scoperto lei da solo, non è vero?» lo sguardo ancora terrorizzato sul suo volto gli faceva intendere che era così «Mi aspettavo già da tempo che le cose a un certo punto sarebbero andate a finire in questo modo. Elisio non faceva altro che rimandare. Me lo diceva sempre. Glielo avrebbe voluto confessare in un momento in cui sarebbe stato sicuro che lo avrebbe seguito senza batter ciglio nel modo più sereno possibile, per non farla soffrire troppo. E guardatevi, adesso, che soffrite entrambi come cani!».
   «Preferisco averlo saputo adesso! Ho ancora del tempo per poter ostacolare i vostri piani! E se anche me lo avesse detto più tardi, avrei agito allo stesso modo! Ciò che state facendo è una follia!! Un’enorme follia!!!».
   «Ma pensi a quanto il mondo potrebbe essere più bello, depurato da tutti coloro che avidi e prepotenti ne sfruttano le risorse fino a soffocare le nostre terre! Stermineremo tutti, e solo il Team Flare sopravvivrà, fino alla fine dei giorni!».
   «Non ha importanza, sono sempre persone e la loro uccisione non si può perdonare in alcun modo! Per costruire un mondo perfetto ci sarebbero tantissime altre vie da percorrere insieme, in comunità!».
   «Professore, la smetta di parlare a vanvera! Esca da qui, è meglio per lei. Se non comprende i nostri ideali, se non vuole diventare un nostro membro, è inutile che continui a rimanere in questo posto».
   «No, io non me ne vado! Non muoverò un passo finché non avrò parlato con Elisio! Devo farlo ragionare! Devo... Devo salvarlo da sé stesso!».
   «E allora non mi lascia altra scelta che passare alle maniere forti! Crobat, vieni fuori!».
   Lanciò in alto una Poké Ball e da essa uscì un Crobat che emise un verso tremendo.
   «Garchomp, scelgo te!» esclamò balzando indietro per fargli posto.
   Garchomp mise pesantemente i piedi a terra e osservò con uno sguardo di sfida l’altro Pokémon.
   «Vai con Velenocroce!».
   «Garchomp, contrattacca con Dragartigli!».
   In pochi minuti riuscirono a mandare facilmente Crobat K.O., così Xante tirò fuori il suo ultimo Pokémon, Malamar. Il frastuono che creavano, concentrati nella loro battaglia, richiamò ben presto l’attenzione delle altre Reclute e delle Scienziate. Una di loro, Bromelia, si affacciò dalla porta della sua stanza e quando vide ciò che stava succedendo, si affrettò a consultare le altre per decidere di fare qualcosa.
   «Se continueranno così, distruggeranno tutta la nostra attrezzatura!» sbottò Martynia, agitando la testa e facendo ondeggiare i suoi ciuffi azzurro elettrico in aria.
   «Non è quello il problema, Martynia», disse la ragazza con i capelli verdi in tono serio. Spinse un bottone sui suoi occhiali e immediatamente si mise in contatto con Akebia.
   «Akebia, abbiamo un problema».
   «Che cosa sta succedendo là sopra? Si sente un fracasso fino a qui!» Akebia infilò una chiave elettronica in un foro del muro e subito delle sbarre si innalzarono dal pavimento, delimitando una rientranza nella parete.
   Si girò verso il suo capo e, alzando il pollice in su, disse: «Bene, Elisio, la cella funziona. Bisogna solo finire di sistemare alcuni contatti all’interno dell’interruttore e poi sarà tutto a posto».
   «Perfetto. A quello ci penseremo più tardi, dopotutto non c’è fretta. Al momento possiamo ancora permetterci di prendercela con calma», disse l’uomo osservando il buon lavoro svolto.
   «Akebia! Akebia, ascolta!» le intimò Bromelia.
   Il Dragofuria del Grachomp del Professore fece tremare l'intero palazzo. Elisio alzò la testa in alto, chiedendosi che cosa avesse generato una potenza così grande.
   «Bromelia, ma che diavolo...?! Avete intenzione di spaccare tutto quanto?!» gridò la ragazza.
   «Xante, Akebia, Xante sta sfidando il Professor Platan! Non so come abbia fatto ad entrare, ma è qui!».
   La Scienziata si girò istintivamente verso Elisio e lo guardò con preoccupazione. Per tutta la mattinata lo aveva visto comportarsi in modo assente e in qualche maniera intuiva che la causa del suo malumore fosse proprio quel Professore. Cos’era accaduto tra loro? Sapeva quanto fosse grande l’amore di Elisio nei confronti di quell’uomo, quanto lo adorasse e ammirasse, benché non gliene avesse parlato spesso – Elisio era un uomo riservato. Tuttavia quella sera in cui li aveva visti la prima volta seduti insieme al bancone a bere un caffè, le era come sembrato di vedere scoccare una meravigliosa scintilla fra i due. E adesso temeva che quella scintilla sarebbe potuta sparire in pochi istanti per sempre.
   «Bromelia, ma ne sei proprio certa?» le chiese. Risposta affermativa. Alzò lo sguardo verso il viso del capo, come al solito altero e maestoso. Lo vide allontanarsi e dirigersi verso l’ascensore.
   «Vado di sopra a vedere che cosa sta succedendo. Akebia, tu resta qui, potrebbe essere pericoloso. Rimani al sicuro» le disse.
   «Ma Elisio!» tentò di fermarlo prendendolo per un braccio. Lui la guardò e accennò un sorriso: «Stai tranquilla, non mi farò nulla!» cercò di confortarla.
   Scomparve dietro le porte dell’ascensore lasciando la ragazza in un’angosciosa ansietà.
   «Malamar, usa Psicotaglio!».
   Le porte dell’ascensore si aprirono sul piano dove stava avendo luogo la lotta. Elisio fece un passo in avanti e subito si fermò, notando con quale foga Malamar e Garchomp stavano combattendo.
   «Xante», lo chiamò.
   L’uomo si girò verso di lui e, guardandolo nei suoi occhi azzurri socchiusi in due fessure severe, capì che doveva fermarsi. Fece tornare Malamar nella sua sfera e abbassò la testa con fare colpevole.
   «Ti ho già ripetuto più volte che quando nei Laboratori entra un estraneo sei rigorosamente tenuto ad avvertirmi prima di agire in qualunque modo. Devi smetterla di tenere questo comportamento egoistico, noi qui siamo un gruppo e dobbiamo lavorare insieme, ti piaccia o meno. E adesso, vediamo un po’ di chi
si tratta, qui...».
   Avanzò di qualche metro fino a giungere al limite della scalinata, ormai quasi completamente distrutta a causa dei colpi che aveva ricevuto, e non poté fare a meno di farsi sfuggire un sorriso.
   «Platan!» esclamò, pieno di gioia, perché era tornato da lui. Ma subito questa gioia si spense, lasciando il posto a una prepotente sensazione di disagio. Il suo sorriso scomparve immediatamente.
   «Elisio», disse il Professore mentre lo guardava con uno sguardo infido e accarezzava la testa di Garchomp per ringraziarlo dell’aiuto che gli aveva dato. Richiamò il Pokémon nella Sfera Poké e si avvicinò a Elisio, osservandolo dal basso. Nel silenzio che si era creato si poteva avvertire un’altissima tensione, tanto da riuscire quasi a toccarla con mano.
   «Platan, ascoltami...» disse, guardandolo negli occhi.
   «Ascoltami? Cosa vorresti provare a spiegarmi, adesso?» sbottò.
   «Platan, ti prego...».
   «No, Elisio, tu non puoi fare...!».
   «Dannazione, Platan!».
   Lo fissò con uno sguardo supplichevole e altero insieme. Platan si zittì e ricambiò la sua occhiata tenendo il mento rivolto in alto. Con quell’unico gesto si comunicarono tutto ciò che sentivano di doversi dire, leggendo ognuno nella parte più intima dell’anima dell’altro. Fu un intenso scambio di silenzi e di sguardi, che li faceva tremare e sudare freddo, perché era difficile lottare fra i sentimenti che provavano e gli ideali in cui credevano.
   Ad un tratto Elisio alzò lentamente il braccio sinistro e gli tese la mano.
   «Vieni con me, Platan... E risplenderemo insieme».
   Osservò la sua mano aperta, che offriva amore e salvezza. Nonostante le dita gli tremassero un po’, sul viso aveva un'espressione decisa e coraggiosa. Il suo petto si muoveva in modo impercettibile, tanto che sembrava non muoversi affatto, come se non stesse più respirando. Platan volse un’ultima volta i suoi occhi grigi verso i suoi, azzurri e accoglienti come l’oceano, e infine parlò: «No».
   Quelle due lettere pronunciate con una simile veemenza, gli arrivarono taglienti e affilate fin dentro le orecchie. Elisio sentì un brivido lungo la schiena e un leggero sussulto scuotergli le membra. Tuttavia non si scompose. Abbassò il braccio portandolo all’altezza dei fianchi.
   «Elisio, sono venuto qui per ricambiare ciò che tu hai fatto per me», disse Platan con voce serena, riuscendo a trovare chissà da dove e con quale forza una dolce sensazione di tranquillità interiore. L’altro lo guardò sorpreso, inarcando leggermente un sopracciglio.
   «Ricambiare ciò che io ho fatto per te?».
   «Sì. Ricordi quel giorno, tanto tempo fa?».
   «Sì. Lentamente sto cominciando a ricordarlo di nuovo...».
   «Ricordi il modo in cui tu mi hai protetto? Ricordi ancora di avermi salvato?».
   «Da quel giorno hai cominciato a fiorire...».
   Platan annuì silenziosamente. Prese le sue mani e le strinse con amorevolezza.
   «Elisio, stavolta sarò io a salvare te».
   L’uomo gli accarezzò le dita sottili racchiuse nelle sue mani robuste.
   «Ma non capisci che sono io quello che deve salvare te da questo mondo corrotto, Platan?».
   Il Professore sorrise. Si allontanò da lui e si diresse verso la porta.
   «Aspetti, dove pensa di andare così in questo modo?!» esclamò Xante, scuotendo il braccio con la Poké Ball di Malamar ancora in mano.
   «Lascia che vada, Xante», disse Elisio in tono fermo. Guardò Platan mentre apriva la porta per uscire e sorrise.
   «E se dovesse andare a spiattellare in giro che i Laboratori sono in realtà il covo del Team Flare?».
   «Hai la mia parola che non lo farà».
   «E per i danni?».
   «Ripagherò tutto io. Anche se, a dire il vero, i danni non li ha causati solo lui, o sbaglio?» gli riservò un’occhiata che spettava a lui decifrare «E adesso forza, tornate tutti al lavoro! Un mondo perfetto non si costruisce battendo la fiacca!».
   Mentre le reclute tornavano nelle loro stanze ad occuparsi dei propri compiti, Elisio rimase ancora per un po’ a fissare la porta d’ingresso.
   «Un mondo perfetto che io e te condivideremo insieme, mio caro Platan... Vedrai, sarà così», sussurrò accarezzandosi piano le labbra con le dita. Xante incurvò la bocca in una smorfia contrariata. Gli si avvicinò e mormorò: «Elisio, ricorda ciò che ti ho detto: in questo mondo sopravvive soltanto chi pensa a sé stesso. Dimenticati di quell’uomo, lascialo stare... Altrimenti ne pagherai le conseguenze. Non perdere di vista il nostro obiettivo».
   Si scostò da lui e senza dire altro se ne andò.



***
Angolo del francese.
     * Ma mignonne = Ragazza mia ;
      * Mon adoré = Mio adorato (...ormai sono sicura che avrete imparato che "mon" vuol dire "mio", eh? xD) .




 


Chiedo scusa a tutti quanti per avervi fatto aspettare così tanto per il nuovo capitolo! D: Mi dispiace, ma proprio mentre qualche giorno fa stavo per finirlo, l'ho riletto un attimo e mi sono resa conto che non mi convinceva per niente, perciò ho cancellato tutto e ho cominciato a riscriverlo daccapo affrontandolo da un punto di vista diverso... E questo è quello che è venuto fuori, spero sia decente!
Dovevo fare in modo che cominciassero a mettersi l'uno contro l'altro (come avete visto oltre ai membri del Team Flare ci sono anche quelli che saranno i futuri "Paladini di Kalos"!) e mi era piaciuta l'idea di uno scontro nel covo dei cattivi. Pensare a Platan che si rende conto dell'errore che Elisio sta per commettere e che decide di andare lì di sua spontanea volontà per salvarlo mi fa sorridere, perché questo è il gesto che dimostra che davvero lo ama, e quando la cameriera e Xante cercano di fermarlo, lui non si perde d'animo e reagisce, combatte con tutte le sue forze per vedere Elisio e farlo ragionare. E Elisio, da parte sua, non lo costringe a unirsi al Team Flare, ma anzi lo lascia libero di scegliere, e quando vede che Platan non vuole, pur rimanendone deluso, lo rispetta. I sorrisi finali sono da intendere come la speranza di entrambi di riuscire a convincere l'altro, un giorno, in qualche modo. Spero di essere riuscita a trasmettere questi stessi pensieri.
Non sono sicura che gli occhialini di Xante funzionino come una specie di binocolo, però come immagine mi piaceva :D
Spero di aver detto tutto quello che avevo bisogno di dirvi e di non essermi dimenticata nulla! E comunque devo terminare qua, altrimenti l'angolo dell'autrice diventa lungo come il capitolo e non è giusto! xD

Grazie di cuore a tutti quelli che stanno ancora seguendo questa storia! Al prossimo capitolo! :)

Persej Combe

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Presagi ***



..

14 . Presagi


 

   Una ragazza camminava lungo Corso Basso tenendo stretta tra le mani una Poké Ball, rigirandosela con cura tra le dita e osservando il riflesso della propria immagine sulla sua superficie rossa. Aveva un bel sorriso: non capitava molto spesso che sorridesse in quel modo radioso. L’ultima volta era successo mesi prima, quel giorno in cui nella cassetta delle lettere della sua nuova casa di Borgo Bozzetto aveva trovato una missiva indirizzata esclusivamente a lei. Neanche questo fatto accadeva molto frequentemente: di solito, quando la ragazza andava a ritirare la posta, si ritrovava sommersa da fogli, buste e cartoline unicamente per sua madre, Primula, una delle più grandi e famose campionesse di Formula Rhyhorn: nonostante non gareggiasse più, molti fan affezionati ancora le scrivevano sperando di ricevere una risposta. Invece, quella volta, fra le tante scartoffie, le era scivolata a terra una busta da lettere piccola e minuta: “Alla gentile signorina Serena” aveva letto mentre si era chinata a raccoglierla. Era rientrata in casa, aveva posato come di consuetudine la posta della madre sul tavolo del salotto e immediatamente era corsa al piano di sopra, in camera sua, chiudendo la porta con due giri di chiave. In tutta la sua vita non le era mai capitato di ricevere una lettera tutta per sé, a parte una volta, quando prima di trasferirsi a Kalos i suoi compagni di classe le avevano scritto tutti insieme una filastrocca su un foglio colorato e firmato da tutti quanti per salutarla e l’avevano infilata sotto il cancello del giardino della sua vecchia casa insieme ad un fiore. Il fiore ormai si era appassito e seccato, ma la lettera la custodiva ancora con affettuosa gelosia in un angolo segreto della sua stanza. Si era seduta sul letto con le gambe incrociate e, prima di aprire la busta, l’aveva fissata per un’interminabile sequenza di minuti. “Alla gentile signorina Serena” leggeva e rileggeva, osservando quella bella grafia. Chi gliel’aveva mandata? Dopo un po’, quando la curiosità aveva preso il sopravvento sull’emozione, l’aveva aperta cercando di non romperne la carta. Aveva tirato fuori un foglio e aveva dovuto ripassare l’attenzione sulle prime due righe per ben undici volte prima di concentrarsi e riuscire a leggere il resto.
   Questa era la frase che alla fine le era rimasta più impressa: “È stata scelta per aiutarmi nei miei studi sulla Megaevoluzione”.
   Scelta.
   Qualcuno finalmente si era accorto di lei, lei, che non veniva mai scelta da nessuno! Da quel momento aveva cominciato ad avere a cuore quella persona, un certo Professor Platan che non aveva mai visto, ma di cui ogni tanto aveva sentito parlare in giro, semplicemente perché in quel modo le stava dando l’occasione di liberarsi dalle catene materne che la classificavano continuamente come “la figlia della campionessa Primula e basta” e di crearsi un’identità sua propria.
   Quindi, quella mattina, appena uscita dal Laboratorio di Pokémon dopo aver incontrato per la prima volta il Professor Platan e aver dato finalmente un corpo e un’immagine a quel nome che da tanto ormai occupava gran parte dei suoi pensieri, non poteva che essere radiosa allo stesso modo in cui lo era stata quel giorno.
   Si fermò vicino a un albero e sorrise mentre guardava la Sfera Poké. Non solo il Professore le aveva dato un Pokédex come anche agli altri ragazzini suoi compagni di viaggio, ma l’aveva persino voluta sfidare in una lotta per metterla alla prova e infine le aveva fatto scegliere uno dei Pokémon con cui si era battuto, perché aveva riconosciuto la sua potenza e aveva detto che in lei stava riponendo una grande aspettativa, avendo visto in lei brillare qualcosa di speciale. Chiamò fuori il Bulbasaur che aveva appena ricevuto e lo prese in braccio per dargli un bacio in mezzo alle orecchie.
   «Non preoccuparti, avrò grandissima cura di te!» gli disse «Il Professor Platan ti ha messo in buone mani! Vedrai, insieme diventeremo fortissimi!».
   «Bulba!» esclamò il Pokémon alzando in alto le zampine in un gesto di euforia.
   Neanche a farlo a posta, pensò Serena, anche il Professore aveva un Bulbasaur. Sorrise ancora: quella coincidenza le faceva sentire il Professor Platan ancora più vicino a lei e ne era contenta e lusingata insieme.
   «Serena!» si sentì chiamare ad un tratto. Si voltò e vide Calem, il suo vicino di casa di Borgo Bozzetto, con cui già aveva instaurato un forte rapporto di rivalità.
   «Calem! Che ci fai qui? Non dovevamo vederci al Caffè Soleil?» chiese lei.
   «Sono passato un attimo al Centro Pokémon. Comunque, Serena, stai sbagliando strada, la caffetteria è dall’altra parte! Ti ho vista qui e sono venuto a raccattarti: sai, è molto facile perdersi a Luminopoli…».
   «Mi chiedo come faccia il Professor Platan a vivere in una città così grande… È enorme, vero?».
   «Beh, lui sarà abituato, chissà quanti anni sono che lavora qui… A questo punto direi che ci conviene andare al Caffè Soleil insieme. Seguimi, è da questa parte!».
   E mentre i due giovani cominciavano a incamminarsi per arrivare lì, un uomo vi aveva appena messo piede.
   «Oh, Elisio, alla fine hai deciso di venire! Bene, mi fa piacere!» Diantha lo accolse all’entrata con un sorriso gentile.
   «Non potevo certo rifiutare un tuo invito, mia cara Diantha!».
   Si sedettero a un tavolo in fondo al bar e subito venne un cameriere per prendere le loro ordinazioni, portandogliele dopo pochi minuti. Posò due tazze di caffè di fronte ai due e li lasciò da soli.
   «Di cosa volevi parlarmi?» chiese Elisio posando le labbra sul bordo della tazza.
   Diantha rimase in silenzio per qualche secondo, riflettendo mentre girava il cucchiaino nel liquido nero per far sciogliere lo zucchero.
   «Come vanno le cose con Platan?» domandò.
   «Bene», rispose un po’ titubante «Come mai questa domanda?» le riservò un’occhiata incuriosita.
   La donna serrò le labbra con un’espressione preoccupata. Sospirò e abbassò lo sguardo, intrecciando le dita belle e curate intorno al bordo della tazza.
   «Negli ultimi tempi ha iniziato a comportarsi in modo strano... Sono in pensiero per lui, sicuro che non gli sia accaduto nulla?».
   I chiari occhi di Diantha si posarono su quelli di Elisio e lo scrutarono con uno sguardo supplichevole, pregandolo di dirle la verità. L’uomo sospirò e girò il viso, guardando un punto indefinito del locale, per non dover fronteggiare più a lungo quell’occhiata così intensa. Tuttavia si sentiva comunque osservato e sapeva che la donna non gli avrebbe dato pace finché non avrebbe parlato.
   «Abbiamo... litigato, diciamo. Qualche giorno fa», rispose, continuando a tenere lontano lo sguardo.
   «Litigato? Per quale motivo?».
   Elisio voltò la testa verso di lei e la guardò. Sorrise vedendo la luce che le brillava negli occhi.
   «Diantha, trovo meraviglioso il modo in cui tu ti preoccupi per gli altri! Ma stai tranquilla, Platan sta bene, non metterti in ansia. È solo che in questi giorni è un po’ carico di lavoro, neanch’io riesco a vederlo molto spesso. In più penso che non abbia ancora smaltito la nostra... litigata, anche se fa di tutto per non darlo a vedere. Lo sai come è fatto, non vuole che le persone si preoccupino per lui. È sempre stato così, fin da quando era bambino...».
   «È vero, è proprio così... A volte si comporta in maniera così sciocca! E quando faceva così, non lo sopportavo nemmeno allora! ...Ma dimmi un po’, come fai a saperlo? Vi conoscevate già prima di incrociarvi qui a Luminopoli?».
   Elisio sorrise e bevve un altro po’ del suo caffè.
   «Ci siamo incontrati un giorno, tanto tempo fa. Ma ci siamo promessi che il resto sarebbe stato un segreto solo tra noi due, perciò ti chiedo di perdonarmi se non ti racconterò altro...».
   «D’accordo, come preferisci. Dopotutto, un segreto è un segreto... Ma almeno posso sapere come mai avete litigato? È successo qualcosa di grave?»
   La tazza di Diantha era ancora ricolma di liquido, mentre in quella di Elisio vi era rimasta appena una goccia.
   «Sai, Diantha, ricordo ancora il tuo debutto...» disse l’uomo accarezzandosi il mento barbuto «Recitavi la parte di una giovane fanciulla... Mi eri piaciuta molto, eri semplicemente divina!».
   «Me lo avevi già detto altre volte, Eliso, ma ti ringrazio ancora. Mi ero impegnata a fondo per recitare quel ruolo, e ancora oggi rimane uno dei miei preferiti. Mi fa piacere sapere che ci sia ancora qualcuno che se ne ricordi! Il tempo passa e gli anni si susseguono uno dopo l’altro, esattamente come i miei film. Dalla ragazzina che ero, adesso sono una donna e tra qualche anno sarò una simpatica vecchietta. Fra tutte le mie interpretazioni, qualcuna finirà inevitabilmente nel dimenticatoio, e prima o poi nessuno si ricorderà più di quella giovane fanciulla».
   «Non vorresti recitare per sempre ruoli di giovani fanciulle e rimanere bella per l’eternità? In un mondo perfetto, tutto questo sarebbe possibile...».
   La donna lo osservò con uno sguardo interdetto, poi rise: «Che domanda singolare! Rimanere giovane e bella per l’eternità... In un mondo perfetto, sì, sarebbe possibile, immagino... Ma questo nostro mondo, Elisio, non è affatto perfetto, perché noi stessi esseri umani e Pokémon che lo viviamo siamo imperfetti. E poi, vedi, secondo me la bellezza non è legata solo alla giovinezza. Col tempo tutto cambia: è una legge universale. Quindi, come poter accettare il fatto di riuscire a conquistare la bellezza solamente in una parte della nostra esistenza? Un giorno inevitabilmente sono destinata a invecchiare e, da parte mia, quando non sarò più giovane, continuerò a recitare cercando di rendere nel modo più veritiero ogni età della vita, anche se non sarò più quella fanciulla spensierata che ero un tempo».
   «Ma non credi che sia tuo dovere di attrice preservare la tua bellezza nel tempo?» batté un pugno sul tavolo, bruciante di quell’ardore che gli risplendeva negli occhi «Se solo potessi, vorrei trovare il modo di far durare per sempre tutto ciò che c’è di bello in questo mondo, dovessi anche spazzar via ogni cosa in un istante pur di preservarne la bellezza in eterno!».
   A Diantha ormai era passata la voglia di caffè, tanto che la sua tazza era rimasta quasi completamente intatta. Si portò una mano sul viso posandola sulla guancia.
   «Che cosa intendi dire?» chiese, scrutandolo da dietro quelle folte e sottili ciglia nere con gli occhi socchiusi. Elisio allungò le dita verso di lei con il palmo aperto.
   «Diantha, io intendo dire che...».
   Una rapida occhiata dentro il locale gli mise i brividi addosso. La caffetteria era troppo piena e, inoltre, la maggior parte degli sguardi era rivolta verso di loro. Sarebbe stato troppo pericoloso proporle ciò che aveva in mente in quel posto e in quel momento, ma soprattutto avrebbe anche inutilmente corso il rischio di essere scoperto come capo del Team Flare. Lasciò perdere. Se di Platan sapeva di potersi fidare ciecamente, di lei non ne era del tutto sicuro. Tuttavia, pensò, Malva era una dei membri dei Superquattro e avrebbe potuto facilmente fare leva su di lei. Guardandosi intorno, dopo un po’, scorse un paio di occhi che aveva già visto in precedenza.
   «Ma guarda!» esclamò «Ci si rivede, ragazzi».
   Calem e Serena si erano fermati sulla soglia dell’entrata ad osservarli. Diantha li guardò incuriosita mentre Elisio faceva loro segno di avvicinarsi.
   «Vi presento Diantha, attrice formidabile, nonché orgoglio dell’intera regione di Kalos! Diantha, questi sono due dei ragazzi che Platan ha scelto affinché lo aiutino nei suoi studi sulla Megaevoluzione».
   «Oh, allora molto piacere! Se Platan ha riposto la propria fiducia in voi, sono sicura che farete un ottimo lavoro!» disse la donna tendendo la mano a entrambi. I due la guardarono trepidanti di emozione. La prima a prendere l’iniziativa fu la ragazza, che le strinse la mano con decisione: «È un onore conoscerla, Diantha! Sono una sua grande ammiratrice e un giorno aspiro ad essere come lei, sia per la sua eleganza che per la grinta in battaglia! E le assicuro che il Professor Platan non rimarrà affatto deluso! Mi chiamo Serena!».
   «Ah, Serena, ho sentito parlare di te! Sei la figlia di Primula, la Campionessa di Formula Rhyhorn, non è vero?».
   Per un istante le venne istintivo fare una smorfia spazientita, ma riuscì a trattenersi e ad arcuare le labbra in un allegro sorriso. Dopotutto non c’era più da preoccuparsi per quel fardello: dentro di sé presagiva che ormai la sua strada e il suo destino erano già stati spianati.
   «Sì, sono io! E questo invece è Calem, il mio vicino di casa!» rispose, indicando il ragazzo accanto a lei. Calem si limitò a sorridere e a stringerle la mano, tanto era grande l’imbarazzo che provava di fronte a quella donna straordinaria.
   «Le sue interpretazioni hanno conquistato il cuore di molti», disse Elisio «In pratica, si può dire che la nostra Diantha dedichi la vita a rendere felici gli altri. Ah, se tutti fossero come lei, se tutti fossero come Platan... Persone che mettono in primo piano il bene degli altri anziché di sé stessi... Il mondo sarebbe certamente bellissimo! E ora, se volete scusarmi, ho un impegno urgente».
   Si alzò dal tavolo, mise a posto la sedia e prima di andarsene salutò i due giovani: «Sono sicuro che un giorno ci incontreremo di nuovo».
   Diantha restò a guardare l’uomo mentre usciva dal locale con uno sguardo inquieto: i suoi discorsi in qualche modo le avevano lasciato una sottile e insopportabile sensazione di ansia pesarle sul cuore. Quale era stato il vero senso delle sue parole? Tuttavia, poiché si trovava in compagnia di quei due ragazzi, non voleva far trasparire la sua preoccupazione, perciò la mascherò abilmente dietro a un dolce sorriso.
   «Allora, raccontatemi un po’ di voi! Avete già battuto la prima Palestra?».
 
 
   Sina si affacciò alla porta dello studio e vide il Professore intento a scrivere qualche relazione su uno dei suoi due laptop. Platan alzò la testa e si accorse di lei. Le sorrise e ritornò a battere le dita sulla tastiera.
   «Tutto bene, Sina?» le chiese dopo un po’ che non si era ancora mossa da là.
   «Professore, poco fa è passato Elisio per lasciarle un saluto», disse.
   «Uh, vraiment? Accidenti, se lo avessi saputo lo avrei fatto salire un attimo...» sospirò «In questi giorni sono così indaffarato, non riesco neanche a vederlo di striscio... Più tardi cercherò di ritagliarmi un triangolino di tempo e proverò a chiamarlo».
   «Non si preoccupi, ha detto che non c’era problema e che sarebbe ripassato nel pomeriggio. È rimasto di sotto ad aspettare per una mezz’ora buona, ma non appena i ragazzi se ne sono andati è dovuto correre via anche lui. Aveva un impegno, credo».
   «Mh mh».
   La ragazza abbassò la testa e fissò il pavimento per un paio di minuti, in silenzio.
   «Professore?».
   «Sina, sei ancora lì?» rise «Mi pari un po’ distratta, chérie. Hai avuto qualche battibecco con Dexio? ...O forse c’è qualche ragazza che gli gironzola attorno?».
   Sina contorse la faccia nell’espressione più imbarazzata che avesse mai fatto in tutta la sua breve vita mentre sentiva la schiena venire pervasa dai brividi.
   «Ma no, ma che dice!» sbottò, coprendosi le guance rosse per la vergogna «E poi, e poi se qualche ochetta si mette a ronzargli attorno, beh, sono solo fatti suoi! A me non importa!» e detto questo si voltò dall’altra parte per sbollire l’imbarazzo senza che la potesse vedere. In realtà le cose stavano proprio così: da qualche giorno una delle alunne della nuova classe del Professor Platan aveva cominciato a entrare in confidenza con Dexio. Inizialmente non le aveva dato fastidio, ma dopo poco aveva incominciato a provare una certa gelosia, perché alla fine stava passando più tempo con quella anziché con lei, sua compagna e, in un certo senso, collega, e questo la faceva innervosire e non poco.
   «Ah, l’amour et ses caprices...» sussurrò il Professore tra sé e sé osservando la ragazzina di sottecchi da dietro lo schermo del computer. Sorrise intenerito e riportò l’attenzione sul suo lavoro.
   Sina rimase a rimuginare per un po’ finché non si volse nuovamente verso la scrivania. Fece qualche passo in avanti silenziosamente. Il suo viso si era fatto improvvisamente serio e a tratti scuro e preoccupato. Nel suo cuore si stava insinuando un presagio che la rendeva irrequieta. Si fermò a pochi centimetri dal bordo del tavolo, intrecciando le dita fra loro, le braccia che penzolavano debolmente sulla sua divisa bianca. Platan alzò la testa, incontrò lo sguardo della sua giovane assistente.
   «Professore, che cosa intende Elisio con il suo voler creare un mondo più bello?».



***
Angolo del francese.
     * Vraiment? = Veramente? ;
     * Chérie = Carina (diminutivo affettuoso di cara) ;
     * L'amour et ses caprices = L'amore e i suoi capricci (Ehh, Sina, Sina...) .




 


Buongiorno a tutti!
Eccoci a un nuovo capitolo. Come avete letto, finalmente siamo giunti agli eventi del gioco! Serena e Calem entrano in scena e Elisio comincia a seminare scompiglio con i suoi discorsi del suo "mondo bellissimo". Non so voi, ma io già dalla prima volta che lo avevo visto nel Laboratorio del Professor Platan mi sono detta "Ok, questo qui è il cattivone di turno! Quei capelli non me la contano giusta!" e la mia tesi si è avvalorata ancora di più tre minuti dopo nel momento in cui lo ritrovo al Caffè Soleil a parlare con Diantha. Sapevate che a seconda della versione una frase del dialogo cambia? Perciò, mentre in Pokémon Y per riflettere i poteri devastanti di Yveltal Elisio dice: "Io sarei disposto a spazzar via questo mondo in un istante pur di preservarne la bellezza in eterno", invece in Pokémon X la battuta è: "Il mio sogno più grande è trovare il modo di far durare per sempre tutto ciò che c’è di bello in questo mondo" e rispecchia i poteri di Xerneas (non sapevo questa cosa e quando l'ho scoperta l'ho adorata moltissimo!). Ho cercato di fare un po' un'unione perché era più adatto alle vicende di questa fanfiction.
Penso di aver detto tutto ciò che avevo bisogno di dirvi...
Al prossimo capitolo e grazie a tutti quelli che sono arrivati quaggiù!
Un abbraccio grande! <3
Persej Combe

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Un antico re ***



..

15 . Un antico re


 

   Era una mattina come le altre nella ricca città di Luminopoli: i ragazzini giravano in bicicletta in compagnia dei loro Pokémon, i bar erano ricolmi di gente seduta ai tavoli a prendere un caffè, i turisti facevano la fila davanti agli ascensori della Torre Prisma per potervi salire e al bancone dei Pan di Lumi per assaggiare quel dolce tipico della regione di Kalos.
   Era proprio un giorno come un altro, uguale identico.
   Ma ad un tratto quella monotonia venne spezzata violentemente da un verso incontenibile.
   «Goluuurk!» gridò un mastodontico Golurk battendo una delle sue braccia di pietra contro un muro e sfondandolo. Le persone all’interno del palazzo si girarono verso l’apertura e si misero a urlare di terrore.   Subito si fiondarono verso l’uscita, cercando di scappare e raggiungere un posto sicuro.
   Ma dove si poteva trovare un posto sicuro?
   In pochi minuti un’intera metà di Corso Basso era stata gettata nel panico dalla furia del Pokémon: i marciapiedi erano stati distrutti, gli alberi delle aiuole sradicati e ad ogni passo che Golurk compieva la terra tremava. Coloro che stavano andando a lavoro in macchina dovettero fermarsi e cercare di tornare indietro, ma non c’era ordine e la strada venne bloccata dal traffico, così la polizia trovò difficoltoso intervenire per sistemare le cose. Mentre venivano organizzate altre pattuglie, il Pokémon andava avanti senza fermarsi, desiderando solo di poter trovare un po’ di pace.
   «Golurk, calmati!» gli gridò il suo Allenatore provando a sbarrargli la strada. Ma quello non lo ascoltò e lo scaraventò via con una mano. L’uomo rovinò a terra in mezzo alle macerie, ma, nonostante si fosse ferito a un braccio, trovò la forza di rialzarsi e continuare a seguirlo. A nulla valse lo sforzo dei poliziotti che erano riusciti a raggiungerlo di fermarlo e impedirgli di continuare a correre dietro al suo Pokémon.
   «Signore, è pericoloso!» gli avevano detto «Dove crede di andare?!».
   Ma Golurk non era affatto pericoloso, non lo era mai stato: era soltanto spaventato per qualche motivo che il suo Allenatore non comprendeva. Il gigante di pietra giunse di fronte al Centro Pokémon dove le Infermiere Joy erano all’erta con i loro Pokémon a difenderne l’entrata. Ma Golurk le oltrepassò, non degnandole nemmeno di uno sguardo. Si voltò dal lato opposto procedendo imperterrito.
   «Goluuuuurk!» ringhiò il Pokémon fuori di sé, colpendo con una delle sue enormi braccia una delle colonne che contornavano il cancello del Laboratorio, facendo rotolare via la sfera a forma di Poké Ball che la sovrastava verso il portone principale. Le porte di legno si aprirono e dopo pochi attimi anche Golurk fece il suo ingresso là dentro, seminando il caos per l’intero piano terra. Il Professor Platan, avendo visto il disordine che il Pokémon aveva generato di fuori, accorse subito, il suo camice veniva bruscamente scosso in aria a destra e manca mentre correva lungo i corridoi.
   «Professore!» esclamarono Sina e Dexio, già con le loro Sfere Poké in mano pronti a contrastare la furia del gigante di pietra, «Golurk sembra impazzito!».
   All’improvviso il Pokémon inciampò nei suoi stessi passi e si schiantò contro il pavimento, formandovi una grossa buca e scagliando intorno con violenza una moltitudine di cocci. Dexio strinse Sina a sé per proteggerla e il Professore corse ad afferrarli entrambi per portarli lontano da lì.
   «Professore, perché Golurk si comporta così?!» chiese il ragazzo alzando la voce sopra il frastuono che il Pokémon continuava a creare.
   «Golurk ha perduto il suo sigillo!» rispose Platan facendosi strada tra gli scienziati e gli altri assistenti che si stavano affollando nei corridoi e allo stesso tempo gridandogli di andarsi a riparare nella serra, «Quando a Golurk viene rimosso il sigillo che ha sul petto, immediatamente sprigiona un’enorme quantità di energia che non riesce a controllare e di conseguenza qualsiasi movimento che compie, anche minimo, può provocare danni! Non si sta comportando così apposta!».
   «Quindi l’unico modo per calmarlo è rimettere il sigillo al suo posto?» domandò Sina.
   «Juste! Prima dovrò cercarlo, ma chissà dove sarà…».
   «Professore, non avrà intenzione di affrontarlo da solo?!» esclamarono insieme i due ragazzi.
   «Come Professore di Pokémon è mio compito operare in modo che il benessere di Pokémon e persone sia salvaguardato! Se non farò qualcosa, quel Golurk finirà per far del male a sé stesso e a tutti gli altri che avrà intorno!».
   «Ma Professore, è pericoloso!» dissero di nuovo in coro mentre li posava a terra sul prato della serra.
   «Non preoccupatevi per me, vi assicuro che andrà tutto bene,» gli disse guardandoli fisso negli occhi «E poi è meglio che qualche acciacco lo prenda io, anziché voi! Cosa farei se perdessi i miei fedeli assistenti?».
   Diede a entrambi una pacca sulle spalle e sorrise: «Coraggio, adesso andate e trovate un posto sicuro dove rimanere!».
   Poi corse via e mentre usciva disse a una delle sue colleghe di chiudere il portone della serra quando tutti quanti, compresi i Pokémon, sarebbero entrati là dentro, in modo da non rischiare di metterli ulteriormente in pericolo. Ritornò all’ingresso principale e vide che un uomo stava cercando di tenere a bada Golurk.
   «Golurk, ascoltami! Golurk!» lo chiamava invano.
   Il Pokémon non lo ascoltò nemmeno stavolta e si diresse verso il Professore.
   «Golurk! Goluuurk!» gli disse con voce supplichevole.
   «Non avere paura, Golurk, adesso ti aiuterò io! Signore,» si rivolse all’uomo «è suo questo Pokémon?».
   «Sì, è mio. Lei è il Professor Platan?».
   «Sì, sono io. Sa dove ha perso il sigillo?».
   «Sigillo?» prese lo zaino e tirò fuori una lastra di pietra «Intende questo?».
   «Proprio quello! Me lo dia, per favore!».
 
 
   «Bene, dovremmo esserci tutti...» disse la scienziata spostando lo sguardo all’interno della serra.
   «No, ti sbagli! Manca ancora qualcuno!» esclamò Dexio dopo aver gettato una rapida occhiata intorno a sé. Sina sussultò: era vero, mancava ancora qualcuno.
   «Floette è rimasto fuori, bisogna andarlo a recuperare!» disse il ragazzo avviandosi verso la porta che conduceva al corridoio. Sina tentò di bloccarlo o almeno di convincerlo a farla andare con lui, ma la respinse.
   «Sina, sei più al sicuro qui dentro.» le disse.
   Fece il giro del piano e guardò in ogni stanza, chiamando Floette ad alta voce. Lo ritrovò nascosto dietro l’ultima colonna del corridoio, quella che, insieme alla sua gemella, accoglieva ogni giorno gli assistenti, gli scienziati e gli studenti nei locali più importanti del Laboratorio. Il Pokémon si girò verso di lui e nascose il piccolo viso fra le mani.
   «Che succede, Floette?» domandò il giovane accomodandolo con delicatezza su un palmo. Il folletto si voltò e guardò all’interno della sala d’ingresso, puntando gli occhi in un angolo.
   «Flo...» sussurrò mentre una lacrima gli rigava le guance bianche.
   Fra tutto quanto, la vista lo costringeva a guardare solo quell’unico angolo e lo fissava sentendo il cuore che gli batteva forte, perdendosi negli occhi neri e schivi che vi erano incastonati. Quanto avrebbe voluto prendere il volo dalle dita di Dexio e avvicinarvisi! Ma la testa gli diceva di no, lo tratteneva pesantemente fra le pieghe della mano del ragazzo.
   Perché ancora non aveva dimenticato.
   Ancora non aveva perdonato.
   Il dolore provato in quel tempo lontano l'assalì all’improvviso. Floette si lasciò accarezzare da Dexio e gli permise di portarlo via da lì, pensando scioccamente che quello sarebbe bastato a dissipare quella sensazione amara.
   Platan intanto lottava contro l’impeto di Golurk e, aggrappato al suo corpo, cercava di riappendere quella lastra di pietra al suo posto. All’improvviso però, il Pokémon ritirò le gambe al proprio interno.
   «Golurk, trattieniti!» lo pregò il Professore, traballando e rischiando di perdere l’equilibrio «Ti supplico!».
   Ma le preghiere non servivano a nulla: ormai Golurk era andato fuori controllo e non riusciva a dominare neanche il più piccolo gesto. Balzò in aria cominciando a volare vorticosamente per la stanza come un razzo guidato da un pilota impazzito.
   «Professor Platan! Professor Platan, lasci la presa! La prenderò io, non si metta ancora di più in pericolo!» disse l’Allenatore allontanandosi dall’angolo in cui si era appostato e alzando le braccia in alto, allarmato dal comportamento estremamente anomalo del Pokémon.
   «No! Ce l’ho quasi fatta!» esclamò quello a denti stretti, incastrando la lastra nella fessura. Raccolse tutte le forze e le impegnò in un ultimo sforzo.
   Clack.
   All’improvviso si fece tutto silenzioso e il Pokémon si fermò.
   La mano del Professore perse la presa. Scivolò. Platan si sentì precipitare. Gli girava la testa e gli pareva di vedere le cose al rallentatore, sottosopra. Quando ormai era convinto che si sarebbe schiantato contro il pavimento, chiuse gli occhi e pensò a Sina e Dexio, agli altri ragazzini e soprattutto al suo Elisio, il suo adorato Elisio che tra poco tempo avrebbe dovuto stringere fra le braccia un corpo vuoto di vita. Rabbrividì. Aveva già provato quella sensazione e lo terrificava, gli dava la nausea.
 
 «Ti prego, non chiudere gli occhi!».
 
   Sbarrò le palpebre. Poi si sentì accarezzare da delle mani familiari e si accorse che Golurk lo stava tenendo tra le braccia mentre atterrava delicatamente sul pavimento ormai distrutto. Lo mise piano con i piedi per terra e gli diede una carezza sulla testa ricolmo di gratitudine.
   «Golurk...» disse il suo Allenatore muovendo con sguardo incredulo qualche passo verso di lui. Il Pokémon gli si avvicinò e gli prese il braccio sinistro, scostandovi la manica del cappotto nero provato dal tempo. Scoprì la ferita che si era fatto a causa sua ed emise un brontolio dispiaciuto: «Goluurk...». Aveva solamente cercato di tenerlo lontano per non fargli correre troppi rischi.
   «Ah, non preoccuparti. L’importante è che tu ora stia bene», disse sorridendo.
   Il Pokémon rimase un attimo in silenzio. Poi si girò verso il Professore e con lo sguardo gli chiese di fare qualcosa anche per lui.
   «Bien sûr! Venite, seguitemi di qua».
 
 
    Si sistemarono in una delle stanze vicine e Platan prese l’occorrente per medicarlo.
   «Perciò è per questo che Golurk ha perso il controllo di se stesso», disse l’uomo dopo che il Professore gli ebbe spiegato la faccenda. Platan annuì.
   «Sì», e mentre parlava gli puliva accuratamente la ferita sul braccio con del disinfettante «I Golurk furono costruiti per difendere gli uomini e questo è lo scopo che hanno ancora adesso dopo secoli e secoli. Non farebbero mai nulla che possa farci del male. Non è nella loro indole».
   L’uomo annuì e fece una carezza al Pokémon, in piedi accanto a lui che controllava che Platan facesse bene il suo lavoro.
   «Lo sa, credo di non aver mai visto in vita mia un uomo così alto come lei», commentò il Professore procedendo con la medicazione.
   «Me lo dicono in parecchi», rise l’altro.
   «Arriva quasi all’altezza di Golurk... È incredibile!».
   Il vecchio rise di nuovo e si guardò attorno.
   «Questo posto è cambiato molto dall’ultima volta che ci sono entrato», disse poi «Sono passati tanti anni da quel giorno... Ero venuto a prendere la mia prima Poké Ball. Era una completa novità. Ho potuto trovare dei compagni e tenerceli dentro, la solitudine che mi assillava e che in parte continua a tormentarmi ancora adesso si era affievolita un po’. Ho potuto conoscere meglio Golurk, Sigilyph, Torkoal, e tantissimi altri Pokémon...».
   «È in viaggio da molto?».
   «Ormai ho perso il conto dei giorni. E chissà quanto tempo ancora sarò costretto a vagare. Se solo... Se solo sapessi dov’è... Se solo potessi farlo tornare da me...».
   Chiuse gli occhi e sospirò. Platan credette di aver visto una lacrima scivolargli sul viso rugoso, ma non poté averne la certezza perché la folta frangia bianca che gli pendeva dalla cuffietta marrone in gran parte gli nascondeva la faccia, insieme a quella sciarpa verde che portava al collo. Senza fare domande prese della garza e gliela avvolse con cura attorno al braccio.
   «Mi dica, Professore, lei ha qualcuno a cui tiene molto?».
   Platan lo osservò con uno sguardo sorpreso.
   «In realtà, "molto" sarebbe troppo poco in confronto a quello che provo per lui», sorrise, arrossendo anche un po’, e abbassò la testa.
   «Certo. La capisco».
   Il Professore prese un paio di forbici, tagliò la garza e chiuse la fasciatura con un nodo.
   «Tra un paio di giorni dovrebbe essere tutto a posto».
   «La ringrazio ancora».
   «Ah, il n’y a pas de quoi!».
 
 
   Il resto della giornata trascorse più serenamente, nonostante per la città vi fosse un enorme viavai di gente. Gran parte degli abitanti di Luminopoli si erano riuniti per riparare i danni che Golurk aveva causato. Anche il Pokémon volle aiutare, provava dispiacere per ciò che aveva fatto, nonostante in quei momenti non avesse avuto piena coscienza di sé stesso, e sperava che in quel modo avrebbe potuto rimediare almeno un po’ ai guai che aveva combinato. I cittadini, dopo aver compreso ciò che il Pokémon aveva dovuto passare, lo avevano accolto benevolmente. Fortunatamente non vi erano stati feriti, perciò la situazione pareva abbastanza tranquilla. Nel tardo pomeriggio, tuttavia, il cielo cominciò ad annuvolarsi e verso sera l’arrivo della pioggia costrinse l’arresto dei lavori almeno fino al mattino seguente.
   Platan ed Elisio, riparati sotto un ombrello, stavano passeggiando uno accanto all’altro per prendere un po’ di respiro dalle fatiche. Anche loro avevano dato una mano e adesso, stanchi e affannati, necessitavano di un po’ di riposo.
   «Sono sollevato che alla fine la situazione non sia degenerata in qualcosa di più grave. Stamattina ero al bancone a prendere un caffè e non appena ho saputo dal telegiornale ciò che stava accadendo mi sono preoccupato molto. Per te, soprattutto. Quando hanno mostrato il Laboratorio di Pokémon ho sentito un tonfo al cuore».
   Gli posò un braccio attorno alle spalle e si strinse a lui.
   «Se fosse andata in altro modo, non ho idea di come avrei reagito».
   «Credimi, per un attimo ho avuto paura di pensarlo».
   Platan si sporse un po’ e gli diede un bacio sulla guancia. Poggiò la testa sulla sua spalla e sentì Elisio fare altrettanto, con le labbra che gli sfioravano i capelli. Rimasero in silenzio per una manciata di minuti finché non giunsero di fronte a un negozio d’abbigliamento. Nella vetrina, indossata da un manichino, era esposta una mantellina rossa. Elisio la osservò, poi una scintilla gli brillò negli occhi.
   «Sai, caro, mi sono ricordato una cosa», disse con tono pensieroso.
   «Cosa, mon cher?» alzò lo sguardo verso di lui. Si accorse che aveva un’espressione assorta.
   «Ecco, tu quel giorno... Quando siamo andati a Ponte Mosaico... Tu avevi detto che finalmente potevi mettere anche me nei ricordi che ti legavano a quel posto».
   «Oh, sì. E con te, quel giorno, mi è rimasto proprio un bel ricordo...».
   «Ma noi due ci eravamo già stati insieme, lì».
   Platan sbatté le ciglia tre o quattro volte, frastornato.
   «Che cosa?».
   «Pensaci un attimo. Non riesci a ricordare?».
   Quello si portò una mano alla fronte e provò a concentrarsi.
   «Ricordo... Ricordo qualcosa... Frammenti, però. Non so perché, ma quando cerco di riportare alla memoria cosa è successo quel giorno, tanto tempo fa, vedo sempre tutto annebbiato, disconnesso, e i ricordi mi ritornano a caso, come vogliono loro».
   «È la stessa cosa per me. Neanch’io ho idea del perché sia così».
   Platan spostò lo sguardo verso la mantellina.
   Improvvisamente avvertì un brivido lungo la schiena e freddo; e gelo anche in bocca, sulla punta della lingua, la scocciatura di una macchia sui pantaloni. Gli venne la pelle d’oca sentendo l’acqua fredda di un fiume scorrergli tra le gambe.
   «Il fiume...» sussurrò, facendosi scappare poi una risata «Ah, adesso sì che mi ricordo! Hai ragione, era proprio Ponte Mosaico!».
   Ripresero a camminare, scambiandosi ogni tanto qualche sorriso, anche se Elisio pareva essere preso da qualche pensiero.
   «Platan, ho una cosa da chiederti», disse, allontanando prudentemente lo sguardo e fissandolo in un punto indefinito dell’orizzonte col viso rivolto in avanti.
   «Ti ascolto».
   «La prossima settimana ci apposteremo nella Grotta dei Bagliori. Vuoi unirti a noi?».
   Platan strinse il manico dell’ombrello con più forza, con le dita che mano a mano si sbiancavano sempre di più. Ah, era quello che voleva chiedergli!, pensò.
   «Elisio, ne abbiamo già parlato altre volte. La mia risposta è no».
   Elisio sospirò silenziosamente. Dopotutto se lo era aspettato.
   «E comunque», riprese a parlare l’altro, «dopodomani parto per Fluxopoli. Se anche volessi, non potrei venire», e qui si morse le labbra perché se quel fatidico giorno fosse stato libero da impegni avrebbe potuto cercare finalmente di fermarlo. Ma, a quanto pareva, il destino non era dalla sua parte.
   «Fluxopoli? E che ci vai a fare a Fluxopoli?» chiese Elisio sorpreso.
   «Vado a studiare la Meridiana. Sembra che in qualche modo sia legata alla Megaevoluzione».
   «Capisco. Starai via per molto?».
   «Qualche giorno. Sicuramente meno di una settimana. Tornerò presto. Stasera volevo invitarti a cena e chiederti di venire con me, avremmo potuto farci qualche giorno fuori insieme. Ma a quanto pare sei impegnato in altre faccende».
   «Platan, adesso non metterla sul personale. In fondo è per il bene di tutti».
   «Sì, il bene di tutti quelli che sono nel tuo gruppo!» bofonchiò scettico, non tollerando la schiettezza delle sue parole nel parlare di un simile argomento, e si fermò bruscamente in mezzo al marciapiede «Ma insomma, non hai visto oggi in quanti sono venuti ad aiutare?! Persino quella coppia di anziani che aveva quel negozio in fondo alla strada e che se l’è visto cadere giù in cinque minuti! Hanno perso tutto, hanno perso tutto eppure hanno voluto dare supporto anche alle altre persone, nonostante fossero loro ad averne bisogno più di chiunque altro!».
   Con una mano gli accarezzò il mento e gli alzò il viso, costringendolo a guardarlo dritto negli occhi.
   «Questo mondo non è senza speranza, Elisio! Ci sono tante, tantissime persone che possono e vogliono dare agli altri! E anche se un giorno l’umanità intera dovesse essere sopraffatta dal destino che tu temi, finché ci sarà anche una sola persona a combattere contro le ingiustizie, allora puoi stare certo che nulla andrà sprecato, nulla sarà stato vano! Quella scintilla di speranza lentamente ricomincerà a crescere e, dovessero anche volerci secoli e millenni, alla fine una soluzione si troverà e quel mondo debellato da guerre e avidità che tu tanto desideri potrebbe non essere più un’utopia!».
   Elisio lo osservò, riflettendo in silenzio sulle sue parole. Scostò il volto dalle sue dita e riprese a camminare, lasciando che l’altro proseguisse accanto a lui.
   «Sei così innocente...».
   Dopo quell’ultima frase vi fu una lunga pausa in cui a parlare fu soltanto lo scroscio della pioggia sull’asfalto, che raccontava di luoghi lontani e remoti. Platan inspirò profondamente, di solito lo aiutava a sbollire il malumore, e sentì scorrergli nei polmoni aria fredda, profumata di bagnato. Ad un tratto vide sulla strada opposta a quella che stavano percorrendo, mentre usciva dal Centro Pokémon, quell’uomo altissimo con cui aveva avuto a che fare nella mattinata, l’Allenatore di Golurk. Anche quello, aprendo il suo ombrello nero, lo scorse, e gli rivolse un cenno di saluto. Elisio guardò distrattamente nella sua direzione, ma dopo neanche una decina di secondi i suoi occhi venero rapiti da qualcosa che gli penzolava all’altezza del petto.
   «Chi è quell’uomo?» chiese. Poi lo guardò meglio e lo riconobbe.
   Che cos’è l’eternità?
   «Me lo presenteresti?» domandò di nuovo, guardandolo e provando ancora una volta quel senso di familiarità che aveva avvertito quella mattina.
   «A dire il vero, non so come si chiami. Però possiamo sempre farcelo dire ora».
   Attraversarono la strada e si accostarono all’uomo.
   «Professor Platan, buonasera», disse questo accorgendosi che gli si stavano avvicinando «La ringrazio ancora per ciò che ha fatto oggi».
   «Si figuri! Davvero, mi ha fatto piacere poterla aiutare. Si sta rimettendo in viaggio?».
   «Già. Mi dispiace lasciare le cose così da queste parti, ma non posso fermarmi neanche un istante. Devo ritrovare il mio amico».
   «Questo amico le deve essere molto caro...».
   Elisio cercò di prestare attenzione a ciò che si stavano dicendo, ma non ci riusciva.
   Ora che era più vicino la vedeva meglio. Non c’erano dubbi. Ciò che quell’uomo portava al collo, legata ad una catena d’oro, era ciò che di più prezioso poteva esserci: la chiave d’accensione dell’Arma Suprema.
   Per questo non era mai riuscito a trovarla: l’antico re aveva deciso di portarsela appresso.
   «Più di ogni altra cosa», il vecchio continuava a parlare con il Professore «Come aveva detto lei stamattina riguardo a quella persona a cui tiene? ““Molto” sarebbe troppo poco in confronto a quello che provo per lui”. Penso di poter dire qualcosa di simile anche per il mio amico».
   Platan arrossì guardando per un attimo Elisio. Lui, che aveva sentito le loro ultime parole, gli sorrise e gli accarezzò la mano stretta al manico dell’ombrello facendo finta di sorreggerlo meglio.
   «Ecco,» domandò Platan «posso chiederle qual è il suo nome?».
   «Platan, lascia che ti presenti AZ... L’inizio e la fine», fu Elisio a rispondere, rivolgendo all’uomo uno sguardo di sfida. A quell’occhiata, AZ sorrise compiaciuto.
   «Bene, vedo che finalmente hai scoperto chi sono! Mi fa piacere. Ma non credere di avere l’esclusiva, perché anch’io so chi sei tu, caro Elisio».
   Platan li osservò leggermente confuso: Elisio non gli aveva forse chiesto chi fosse quell’uomo? E adesso scoprivano di conoscersi? Ma che storia era?
   Il rosso si accorse dello smarrimento riflesso negli occhi del suo innamorato e gli carezzò una spalla, avvicinando le labbra al suo orecchio: «Poi ti spiegherò» sussurrò. Platan annuì e sorrise.
   «Platan,» disse dopo «io vado a casa. Semmai ti faccio uno squillo più tardi».
   «Non vuoi che ti accompagni?».
   «Se ti va...».
   «Certo che mi va!».
   Fecero per salutare AZ e avviarsi.
   «Posso unirmi a voi?» li bloccò l’uomo. Sui loro visi si formò un’espressione interdetta.
   «Devo andare anch’io da quella parte», spiegò.
   «D’accordo, non c’è problema», disse Elisio tenendosi stretto Platan.
   S’incamminarono. AZ osservava i due e ogni tanto non poteva fare a meno di sorridere. Elisio sentiva il suo sguardo addosso e la cosa lo imbarazzava alquanto, ma cercava di far finta di niente.
   «Sono indeciso», disse a un tratto il Professore.
   «Su cosa?» chiese il compagno.
   «Non so cosa preparare stasera a cena».
   «Che cos’hai in cucina?».
   E mentre lui gli faceva l’elenco, l’altro pensava e alla fine gli consigliava una ricetta adatta ai suoi standard. Per il resto chiacchierarono del più e del meno, cercando di coinvolgere anche AZ. Si fermarono di fronte al cancello del condominio in cui abitava Elisio. Platan lo accompagnò dentro lungo il cortile fino al portone principale affinché non si bagnasse senza ombrello, l’altro rimase fuori ad aspettare. Elisio salì i tre gradini e prese le chiavi dalla tasca. Prima di aprire la porta, però, si girò verso Platan e lo guardò.
   «Nei prossimi giorni sarò impegnato, perciò non credo che riuscirò a chiamarti tanto spesso».
   «Certo, lo immagino».
  Una donna uscì dal portone e salutò i due, poi aprì l’ombrello e si diresse verso il cancello. Qualcuno la stava aspettando là davanti, dentro una macchina, al riparo dall’acqua.
   «Sarà meglio che vada anch’io, Elisio, non vorrei lasciare AZ da solo. Però...».
   «Però?».
   Temporeggiò prima di continuare.
   «Se sei proprio sicuro della tua decisione... Mi raccomando, sta’ attento».
   Elisio gli si avvicinò. Gli accarezzò una guancia, scostandogli un ciuffo di capelli bluastri dal viso. Sorrise.
   «Lo farò», disse con un sussurro. Avvicinò le labbra alle sue e gli diede un bacio pieno di tenerezza.
   «E tu fa’ buon viaggio».
   «Puoi starne certo».
   Si abbracciarono, si scambiarono un secondo bacio. Poi si salutarono e ognuno andò per la propria strada.
   «Mi ricorda mio fratello», disse AZ mentre camminava vicino al Professore.
   «Elisio?».
   «Sì. Gli assomiglia proprio».
   Ad un tratto sentirono il rombo di un tuono provenire da dietro la fila di palazzi che stavano sorpassando e sobbalzarono per lo spavento.
   «Signore, ma è proprio sicuro di volersi rimettere in viaggio con questo tempaccio?» chiese Platan.
   «In effetti, ora che mi ci fa pensare...».
   «Ho un’idea! Perché non viene a stare da me, questa notte?».
 
 
   «La ringrazio per l’ospitalità, Professore», disse l’uomo mentre erano a tavola a mangiare la cena.
   «Ringrazio lei per aver accettato il mio invito. Ah, ma per favore, mi dia pure del tu».
   «Come vuoi. Puoi fare lo stesso con me, se ti va».
   Platan sorrise e spezzò un pezzo di pane.
   «È che stare con lei mi ricorda un po’ quando ero a Sinnoh con il Professor Rowan. Beh, probabilmente avrete poco o nulla in comune, ma oggi al Laboratorio con lei ho avuto questa sensazione».
   Platan guardò la lampada appesa al soffitto e sospirò: «Non avrei mai pensato che un giorno mi sarebbe mancato così tanto! Per fortuna ho ritrovato Elisio... Però ogni tanto mi viene da ripensare a quei giorni in cui ero a Sabbiafine, a quando la mattina mi alzavo presto per correre in Laboratorio ad aiutare il Professore e lungo il tragitto mi travolgeva il profumo salato del mare, l’odore della sabbia... E le chiacchierate che ci facevamo la sera mentre dopo le ore di lezione facevamo una passeggiata in spiaggia, le scarpe e i calzini che puntualmente mi si inzuppavano a causa dei flutti d’acqua che si spingevano sulla riva e di cui non mi accorgevo perché ero troppo preso dai suoi discorsi... Ah, quelle non le dimenticherò! Gli confidavo parecchie cose, il Professor Rowan era diventato un po’ come un secondo padre per me... Mi stava sempre vicino e mi incoraggiava. Purtroppo adesso posso vederlo solo durante i congressi e nelle riunioni con gli altri Professori; qualche volta ho provato a fargli una telefonata, ma ad ogni squillo la segretaria che mi risponde mi dice che è fuori, che ha lasciato Sinnoh e non ha idea di dove potrei chiamarlo. Viaggia molto, si sposta sempre da una regione all’altra alle prese con i suoi studi. Chissà, magari un giorno potrebbe venire anche qui a Kalos... Mi farebbe molto piacere».
   Lo sguardo del Professore si rabbuiò un attimo, sfiorato da qualche pensiero malinconico. Poi si posò su AZ e nella stanza risuonò una risata argentina.
   «Mi scusi, ho questo brutto difetto di perdermi nelle mie fantasticherie! A Elisio piace ascoltarmi quando ne parlo, ma capisco che per qualcun altro dopo un po’ possa essere molesto!».
   «Non preoccuparti», lo rassicurò mentre beveva un goccio dal bicchiere «Elisio ha ragione: è bello ascoltare questo fiume di emozioni».
   «Anche lui lo chiama così», disse, servendosi l’insalata nel piatto dal recipiente «“Un meraviglioso fiume di emozioni”. Dice che è una delle parti del mio carattere che apprezza di più. Ah, lei ne vuole altra? Ci vuole dell’aceto?».
   «Sto bene così, grazie».
   Bulbasaur si era addormentato sul bracciolo del divano accanto al tavolo, lasciandosi cullare dalle voci dei due come fossero una ninnananna. Platan si alzò e lo posò con delicatezza su uno dei cuscini, coprendolo con una copertina.
   «Altre volte si è addormentato lì e mentre si rigirava nel sonno è caduto a terra. Perlomeno così sono più sicuro che non scivoli»,disse mentre si risedeva.
   AZ sorrise, ai lati della bocca gli si accentuarono le rughe profonde che aveva.
   «E rivolgi questa stessa premura anche nei confronti di Elisio?» chiese.
   «Beh, è quello che cerco di fare. Poi non so se ci riesco, ma almeno ci provo. Finora non si è mai lamentato».
   «Siete molto intimi, non è vero?».
   Quella domanda gli mise il sorriso sulle labbra.
   «Sina, la mia assistente, dice sempre che si vede. Abbiamo provato a tenerlo nascosto... Ma come si può nascondere un sentimento così grande?».
   «La parola giusta è “proteggere”, non “nascondere”. Legami come questi sono difficili da instaurare e rari, ma estremamente forti. Eppure, per quanto possano essere resistenti, è facile che si sgretolino in un nonnulla».
   «Si riferisce a ciò che è successo con il suo amico?».
   Sparecchiarono e mentre lavavano i piatti in cucina, AZ cominciò a raccontare.
   «Molto tempo fa, mia madre mi donò un Pokémon. Era un Floette. Era piccolo così,» fece un gesto con le mani «ma diventò il più grande amico che avessi mai avuto. Passavamo intere giornate insieme, giocavamo nel cortile oppure semplicemente passeggiavamo in giro per la reggia. Fu il periodo più felice della mia vita. Di lì a poco mio padre morì ed io dovetti succedergli al trono. Le cose sotto il mio comando parevano andare bene. Ricordo tuttavia che ero talmente entusiasta dell’amicizia che avevo con quel Pokémon da essere diventato cieco di fronte a tutto il resto.
   «A Kalos c’era aria di guerra».
   «Una guerra?».
   Piano piano Platan iniziò a rendersi conto.
   «Il conflitto non ci mise molto a scoppiare. Io e la mia famiglia fummo costretti ad abbandonare il palazzo. Solo mia madre restò: diceva che io ero ancora troppo giovane e che avrebbe pensato lei a regnare in tempo di guerra. Ci separammo. L’unico con cui riuscii a mantenere un contatto fu mio fratello minore, degli altri non seppi più nulla. Forse vennero fatti prigionieri e seviziati fino a che non riuscirono più a esalare neanche un respiro, o morirono di fame nelle strade deserte delle città prese di mira dai nemici per le loro razzie o chissà in quale altro modo abominevole...».
   Dal rubinetto calò una goccia d’acqua che risuonò nel silenzio della casa.
   «Io e Floette scappammo verso la campagna. Riuscimmo a trovare riparo in una casa di contadini che si presero cura di noi. Quei luoghi ancora non erano stati sfiorati dai fumi della battaglia, ma inevitabilmente prima o poi le lance, le armature e il sangue avrebbero toccato anche la nostra porta.
   «E quel giorno arrivò. Ricordo ancora tutto chiaramente... Era notte. Stavo dormendo nel mio letto, Floette era rannicchiato sul cuscino accanto alla mia testa. Non si sentiva alcun rumore, sembrava tutto tranquillo. Credevamo di essere ancora in salvo, ma presto dovemmo renderci conto di esserci sbagliati. All’improvviso sentimmo la padrona di casa gridare in preda al terrore, piena di disperazione. Io e Floette ci svegliammo di soprassalto, ci chiedemmo che cosa fosse accaduto. Dal piano di sotto proveniva un crepitio metallico fragoroso e caotico. La donna non voleva smettere di piangere: più tardi scoprii che i soldati si erano presi suo figlio per farlo andare in battaglia, erano a corto di reclute e dovevano rimpiazzare gli innumerevoli guerrieri che erano già morti nello scontro. Ad un tratto suo marito entrò nella nostra stanza con il volto pallido e lo sguardo stralunato.
   «“Dovete andarvene.” ci disse.
   «Preparammo le nostre cose in fretta e furia, presi un paio di vestiti e infagottai in un fazzoletto i resti della cena che erano avanzati nel piatto. Cercammo di fare tutto il più velocemente possibile, ma non bastò: i soldati buttarono giù la porta che avevo chiuso a chiave ed irruppero nella stanza.
   «Mi riconobbero. Dissero che mia madre era morta, che il popolo aveva bisogno di me, che dovevo ritornare al trono e prendere le redini della guerra. Dopo un istante di smarrimento che provai alla notizia di ciò che era accaduto a mia madre e nel rendermi conto di ciò a cui stavo andando in contro, ritornai in me stesso. Fui costretto ad accettare la loro richiesta di aiuto. Ma il tormento non era finito. Tenevo Floette stretto tra le mie dita. Ero ancora spaventato. Improvvisamente uno di quegli uomini nascosti dentro quelle mastodontiche armature spaventose allungò le dita verso il mio palmo. Si prese Floette con la forza, me lo strappò dalle mani.
   «“Lui verrà con noi”, disse.
   «Lo supplicai e lo supplicai ancora, in ginocchio e con le lacrime agli occhi, di non portarmelo via, cercavo il suo sguardo celato dietro all’elmo e lo pregavo in ogni modo possibile.
   «Ma non servì a nulla.
   «Qualche anno più tardi, ritornato ormai a palazzo, mi venne consegnata una cassetta nera con un fiore sopra. Non mi ci volle neanche un attimo per riconoscere a chi fosse appartenuto quel fiore. Mi si spezzò il cuore.
   «Floette era morto.»
   La voce ormai gli si era fatta stridula e dagli occhi umidi avevano presto cominciato a scendere lacrime.
   «Io volevo solo riaverlo con me... Costruii una macchina in grado di donargli la vita eterna, ma non potevo perdonare gli altri per ciò che ci avevano fatto... E così a quel punto... Dio, come ho potuto...?».
   AZ si nascose il viso tra le mani e pianse, col dolore che lo soffocava. Gli bruciava la gola e aveva gli occhi rossi, le labbra gonfie.
   «Ho pensato solo a me e alla mia vendetta, lasciando che gli altri morissero esattamente come avevano fatto mia madre, le mie sorelle e il resto della mia famiglia... Come ho potuto...?».
   «Che ne è stato di Floette?» chiese Platan, anche lui con gli occhi lucidi e un’enorme angoscia che gli premeva nel petto.
   «È scappato. Aveva timore di me. Ho passato tremila anni a cercarlo... L’unico mio desiderio, adesso, è chiedergli perdono... Ho sfruttato le vite degli altri Pokémon per ridarla a lui, non so se abbia mai avuto la forza di accettarlo... Mi sento... Mi sento un mostro...».
   Platan lo guardò mordendosi le labbra. Voleva dirgli qualcosa, rincuorarlo in qualche modo. Poi gli caddero gli occhi sulla chiave che portava legata alla catena d’oro.
   «AZ, che cos’è quella chiave?» gli chiese.
   «Basta! Basta, ti prego, basta... Non ce la faccio più...».
   E allora capì cos’era e come mai Elisio l’avesse osservata così a lungo e con certo interesse qualche ora prima, quando si erano incontrati per strada. Non voleva pensarci. Scosse la testa e abbracciò AZ.
   «AZ, io non sono d’accordo con te. Il legame che hai con Floette non si è affatto rotto. Altrimenti perché ti saresti messo in viaggio per cercarlo? Forse ti starà aspettando da qualche parte nascosto in giro per Kalos in attesa che tu finalmente lo ritrovi. Ma credimi, io ne sono sicuro: un giorno Floette ritornerà».



***
Angolo del francese.
     * Juste! = Esatto! ;
     * Bien sûr! = Certamente! ;
     * Il n'y a pas de quoi! = Non c'è di che! ;
     * Mon cher = Mio caro .

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Il destino che è scritto nelle stelle ***


Salve a tutti e buon pomeriggio, la vostra Persej è tornata! ❀ In quest'ultimo periodo sono stata un po' impegnata con la scuola, perciò chiedo scusa a tutti quanti se questo capitolo si è fatto aspettare molto...
Come state voi? Tutto bene?
Nelle ultime settimane, come probabilmente avrete visto, ho fatto un po' una revisione generale dei capitoli e ho anche dato una sistemata all'aspetto estetico. Per quanto riguarda i primi non ho fatto tanti cambiamenti, ma ho aggiunto qualche cosa in più ai capitoli 5, 6 e 7 (quelli della Torre Maestra, per capirci!): avevo bisogno di dare un vero senso al perché Platan si interessi così tanto alla Megaevoluzione (rafforzando anche il significato della figura del Professor Rowan) e di definire di più quella parte del suo carattere un po' insicura. Mi raccomando, andate a darci un'occhiata! :D E poi che altro dire? A un certo punto mi sono trovata talmente presa da questo lavoro di rifinitura che avevo anche pensato di mettere qualche illustrazione fatta da me, ma poi ho cambiato idea: è più bello crearsi le immagini nella mente, anziché avere la "pappa pronta", non pensate? Dopotutto è questa la magia della lettura... E ognuno poi s'immagina ogni cosa in modo diverso da come potrebbe fare un'altra persona, anche se parte dalle stesse identiche parole... Questo pensiero mi emoziona sempre molto, perciò ho voluto lasciare da parte quell'idea per dare a tutti la libertà di vedere le cose nel modo che vi piace di più! [Appunto del 03-11-2017: A distanza di tanto tempo ho decisamente cambiato idea su questo punto, non penso proprio che tutto il lavoro che si spenda dietro ad un'illustrazione possa semplicemente essere liquidato con un'espressione simile a "pappa pronta". Trovo che scrittura e illustrazione siano due mezzi diversi che assieme possono concorrere nel tradurre un significato o un simbolo in comune che intendono comunicare. Scusatemi per il commento un po' stupido e random, ma essendo un argomento che ormai mi tocca personalmente ci tenevo a precisare questa cosa! Spero che i più puristi della scrittura non me ne vogliano...]
Anche per questo capitolo avevo pensato di mettere qualche disegno (ne ho fatti moltissimi per definirmelo bene in testa, vi dico che finora è stato il capitolo più impegnativo di tutti, addirittura ne ho scritte più di cinque versioni... Questa è la definitiva, spero vi piaccia!), ma ho lasciato perdere.
Non ho altro da aggiungere, se non un grazie speciale a tutti quanti! Grazie davvero!
Direi che ho parlato abbastanza: vi lascio al capitolo sperando che vi piaccia e vi auguro un buon ponte dell'Immacolata!

Buona lettura! ❀


..

16 . Il destino che è scritto nelle stelle


 

   Mi spiace lasciare le cose così, ma devo assolutamente rimettermi in viaggio.
  Spero che riusciate a porre rimedio ai danni di Golurk il più presto possibile.

  Comunque grazie per l’ospitalità.
  Spero che un giorno potremo incontrarci di nuovo.
  Nel frattempo, abbi cura di Elisio.

  A presto,

AZ


 Mise il foglio sul tavolino accanto al divano su cui Platan stava dormendo, rannicchiato accanto a Bulbasaur. Lo vide accarezzare il Pokémon nel sonno e sorrise: di certo ad Elisio l’affetto non sarebbe mancato. Si mise il sacco a tracolla ed uscì dall’appartamento cercando di fare il meno rumore possibile. Il portone del condominio si chiuse alle sue spalle con un cigolio e AZ cominciò ad incamminarsi per strada. Alzò lo sguardo. Era abbastanza presto: il cielo era ancora scuro e qui e lì si poteva scorgere qualche manciata di stelle. Si chiese stavolta quale Percorso avrebbe potuto prendere. Percorso 4? 5? 16? O il 13? Già li aveva attraversati tutti innumerevoli volte. Ne conosceva i punti più nascosti e inarrivabili, in tremila anni aveva memorizzato laghi, fiumi, monti, caverne, li aveva visti mutare secolo dopo secolo, e ogni cambiamento se lo era fissato nella memoria in modo indelebile.
   «Chissà adesso dove avrai trovato rifugio? Fa freddo, ci sarà qualcuno lì con te che ti offra protezione e calore?» sussurrò con un debole sospiro. Chiamò Torkoal fuori dalla Poké Ball, lo salutò e gli accarezzò la testa. Il Pokémon, mezzo assonnato, si stiracchiò e ruggì contento, poi prese a camminare accanto al suo Allenatore, riscaldandolo con i vapori che fuoriuscivano dal suo guscio roccioso.
   «Fratello mio! Fratello mio, calmati, te ne prego!» nella sua mente prese forma il ricordo del viso angosciato di suo fratello minore «Stai perdendo la testa! Vale davvero la pena distruggere tutto ciò che hai costruito di buono nel nostro regno per un Pokémon? Non pensi a noi altri che stiamo morendo di fame a causa di questa sciocca guerra? Si devono forse lasciar morire altri vivi invece di tirarli su?! Non c’è già abbastanza caos a questo mondo?! Ascoltami, fratello!».
   «Ti chiedo perdono, caro fratello, anche se le mie parole non basteranno mai a sanare la morte e il sangue che il mio orgoglio e la mia presunzione mi portarono a spargere», sibilò con mortificazione. Chiuse le mani riparate dentro le tasche del cappotto in due pugni, le dita nodose e sottili che tremavano lievemente. Spostò lo sguardo oltre la frangia di capelli e di fronte a sé vide due occhi azzurri e vispi. Sentì il sangue gelarglisi nelle vene per un istante e osservò con sbigottimento le due iridi chiare, tali e quali a quelle fraterne.
   «AZ,» quella voce profonda gli arrivò forte fin dentro alle orecchie.
   Dopo qualche istante la riconobbe, così rilassò le spalle rincuorato.
   «Elisio!» gli sorrise «Non sarà un po’ presto per andare a trovare il tuo fidanzato? Sta ancora dormendo, sai».
   Elisio lo osservò frastornato. Sapeva di loro due? Rise a denti stretti: certo, il fatto che il giorno prima si fosse tenuto l’uomo abbracciato a sé per tutto il tempo doveva avergli senza dubbio messo in testa qualche pensiero, e dopotutto era anche lecito. Tuttavia la cosa non lo infastidiva, non se ad esserne a conoscenza era AZ. Anche se di pochissimo, erano legati dal sangue che gli scorreva nelle vene, e, dal momento che il loro incontro era avvenuto, questo sarebbe stato l’occasione atta a favorirne di nuovi. Doveva cercare di stabilirci un rapporto il più stretto possibile e di ottenere la sua fiducia se voleva tentare di raggiungere lo scopo che si era prefisso.
   «Lo so, lo so. Platan non è proprio un tipo mattiniero», incurvò le labbra in un mezzo sorriso «Mi pare quindi di capire che tu abbia passato la notte a casa sua. Ti ha trattato bene?».
   «Sì, devo dire che mi sono sentito proprio bene in sua compagnia. Il Professor Platan è davvero una bella persona».
   “L’aggettivo “bello” non basta neanche in minima parte a descrivere ogni sua meravigliosa sfaccettatura”, rifletté il rosso nascondendo un leggero sorriso dietro la pelliccia bianca della giacca. Annuì manifestando il suo assenso.
   «Avete parlato di qualche cosa?» domandò ancora, con un tono che aveva un che di provocatorio e cauto nello stesso momento. AZ notò una scintilla brillargli negli occhi e riconobbe la stessa fiamma accesa che aveva scosso l’animo del suo giovane fratello.
   «Mi ha raccontato qualcosa a proposito del vostro rapporto, e io a lui del mio con il Pokémon eterno. Immagino che tu sappia già questa storia, per cui stavolta farò a meno di dilungarmi sulla faccenda. Comunque, Platan ti ammira molto più di quello che avevo intuito ieri: l’ho capito dal suo sguardo e dai suoi sorrisi mentre parlava di te. E a giudicare dall’espressione che hai adesso in viso, direi che la cosa è reciproca. Mi fa piacere che sia così, sono contento di sapere che tu abbia qualcuno che ti sostenga. Mi raccomando, Elisio: tienitelo caro. Persone così non si trovano tutti i giorni, e io, con tutti gli anni che mi porto alle spalle, credo di saperne qualcosa».
   «Senza dubbio», asserì con voce ferma. Lo squadrò con uno sguardo penetrante per secondi che ad AZ parvero interminabili, poi, vedendo che quello non reagiva, chiese: «Nient’altro?».
   «Nient’altro», fu la risposta un po’ incerta dell’anziano signore, intimidito dalla sua occhiata gelida. Elisio annuì e fece qualche passo in avanti, oltrepassando il vecchio. AZ si girò e osservò l’uomo che accennava ad andarsene.
   «Mi spiace doverti salutare adesso, ma ho un impegno urgente. Se dovessi tornare a Luminopoli, mi farebbe piacere ospitarti da me per bere un tè assieme e nel mentre scambiare due parole...» disse l’uomo incastonando gli occhi leggermente socchiusi come in un attimo di raccoglimento sulla chiave che il gigante portava appesa al collo. Mosse lo sguardo su Torkoal e sul viso gli si formò un sorriso tagliente.
   «E perché no, magari anche ingaggiare uno scontro fra i nostri Pokémon. Il mio Gyarados ultimamente è fuori esercizio e avrebbe bisogno di una bella lotta. La tua squadra dev’essere senza dubbio molto forte. Spero che accetterai il mio invito».
   Proseguì a camminare senza proferire altra parola e nemmeno rivolgere un cenno di saluto. Istintivamente AZ portò una mano sulla lama della chiave e la strinse fra le dita, avvertendo una fitta al cuore come se fosse stato ferito da una freccia finitagli in mezzo al petto. Torkoal premette la testa contro un suo braccio. Il vecchio lo accarezzò, continuando a fissare lo sguardo sul limite della via.
   «Abbine cura, e distoglilo dall’errore che il suo animo sta per spingerlo a commettere».
 
 
   L’aria era fredda e il cielo bianco. Sembrava di essere in una fiaba, pensava Platan osservando la città da dietro il vetro della finestra della camera d’albergo. La neve gli era sempre piaciuta molto. I rami degli alberi, neri e spogli, ne erano ricolmi. In giro i bambini giocavano con gli slittini o costruivano pupazzi in compagnia dei loro Pokémon. Era tutto così tranquillo! Si soffiò un po’ di aria calda sulle mani per riscaldarsele. Quanto avrebbe voluto avere Elisio lì con lui a guardare la strada, magari abbracciati l’uno all’altro e avvolti in una coperta di lana.
   Quel pensiero svanì in un istante. Non era molto propenso a quel tipo di fantasticherie, quella mattina. Scostò un ciuffo di capelli che gli penzolava davanti agli occhi e guardò l’orologio a pendolo sulla parete vicina.
 
   Quanto mancava ancora? Erano già entrati in azione? Avevano rubato qualche fossile? Erano stati bloccati in qualche modo?
   No.
 
   «Solo io posso fermarlo», disse, fissando il pendolo che si muoveva a destra e sinistra.
   Ad un tratto sentì qualcuno bussare alla porta.
   «Avanti», disse «La porta è aperta».
   Si affacciò una ragazza con gli occhiali, una degli assistenti che in quei giorni si era portato dal Laboratorio per fare quel sopralluogo a Fluxopoli. Si salutarono e la giovane informò il Professore dell’arrivo dei due mineralogisti con cui dovevano incontrarsi quella mattina.
   «D’accordo, finisco di sistemare alcune cose e scendo. Avverti anche il tuo compagno, vi raggiungo tra poco».
   «Va bene. Ah, e non si dimentichi l’anello!».
   «Certo, lo prendo subito! Merci, ma chère!».
   «Si figuri! A dopo!».
   Rimase da solo e sospirò. In quel momento aveva altro a cui pensare, lo volesse o meno.
   Prese la borsa che aveva lasciato cadere stancamente sul pavimento la notte prima dopo ore passate in biblioteca a studiare tutti i libri che trattavano della Meridiana e controllò che dentro ci fosse tutto quello che gli serviva. Infilò la mano in una delle tasche e tirò fuori una scatolina cubica di colore bianco. L’aprì.
   «Quanto tempo è passato da quel giorno?» si chiese prendendo in mano l’anello.
   Giorni, mesi, anni. Quella notte in cui aveva preso coscienza dei suoi sentimenti pareva far parte di un’altra epoca. Lanciò un’occhiata all’Holovox sul comodino, ancora attaccato all’alimentatore dal momento in cui era andato a dormire. Lo prese, staccò l’alimentazione, lo legò al polso e lo accese.
   «Almeno per sapere come sta...» sussurrò, mordendosi le labbra.
   Avviò la chiamata e aspettò qualche secondo.
   «L'utente da lei chiamato non è al momento raggiungibile. Il dispositivo potrebbe essere spento o...»
   Riattaccò. Glielo aveva detto, comunque, che probabilmente non sarebbero riusciti a sentirsi, pensò. Sospirò un’altra volta. Non aveva per niente voglia di incontrare quei due mineralogisti. Perché non si era portato un Pokémon di tipo Volante? Ad esempio c’era quel bel Charizard in Laboratorio che ogni mattina quando entrava nella serra a portare la colazione ai vari Pokémon si metteva a svolazzargli sopra la testa.
Ma cosa andava a pensare? Aveva preso questo impegno da parecchi mesi, ormai, e non poteva sprecare tutta la fatica e il denaro che aveva dovuto versare per ottenere una simile occasione. Inoltre, con il Laboratorio mezzo distrutto, non poteva permettersi di spendere male neanche un centesimo: ogni sera, a cena al ristorante, ordinava i piatti meno costosi per mettere da parte un po’ di risparmi che avrebbe poi utilizzato al suo ritorno per ricomprare le attrezzature danneggiate. Mise l’anello al solito dito e, prima di uscire, fece un’ultima chiamata.
   «Bonjour, mes garçones!» esclamò non appena nell’aria presero forma gli ologrammi di Sina e Dexio.
   «Professor Platan! Buongiorno!» risposero quelli in coro con due bei sorrisi «Come sta? E Fluxopoli com’è? Fa freddo? E la neve? C’è la neve?».
   Platan rise: sentirgli dire le stesse parole insieme gli faceva sempre venire il sorriso!
   «Avidi di informazioni, eh? C’est bien! Chiunque voglia diventare un Professore deve sempre essere guidato dalla curiosità e dalla passione!» disse «Comunque non c’è male, anche se fa freddo... Ma c’è così tanta neve, ragazzi, guardate!» e si accostò alla finestra con l’Holovox.
   «Che meraviglia! Professore, è davvero fortunato!».
   «Sì, Sina ha ragione!».
   «Voi invece cosa mi raccontate? Tutto bene? Come procedono i lavori in Laboratorio? Siete riusciti a riparare qualche cosa?».
   «Sì, in questi giorni abbiamo sistemato il cancello e il portone, ma nella stanza d’ingresso c’è ancora molto da fare... Alcuni tubi e cavi elettrici che passavano sotto il pavimento si sono danneggiati, ma Lem, il Capopalestra, è venuto qui a darci una mano! Speriamo che riesca ad aggiustare qualche collegamento... Lo sapeva? È molto bravo con questo genere di cose!» lo informò Dexio.
   «Il Capopalestra Lem?» si sorprese il Professore «Dite sul serio?».
   Sina annuì: «Ha detto che è un suo grande ammiratore, perciò sperava di poter dare una mano! E per ora sta facendo un ottimo lavoro, non credi anche tu, Dexio?».
   «Assolutamente!».
   «Beh, ne sono molto contento! E ringraziatelo da parte mia, è un onore ricevere anche il suo aiuto!».
   Rimase un attimo a pensare.
   «Ragazzi, potrei chiedervi un favore?» disse a un tratto, un po’ insicuro.
   «Sì, Professore. Che cosa succede?» chiesero ad una sola voce.
   «Ecco... Che cosa mi dite del PC? Il teletrasportatore funziona ancora?».
   «Ha bisogno che le inviamo qualche Pokémon?».
   Platan rabbrividì. Lo aveva chiesto davvero? Perché non riusciva a tenere a freno le emozioni, quando serviva?
   «No, no... Era solo per sapere...».
   «Ne è sicuro?» domandò il ragazzo, non fidandosi della sua risposta «Guardi che non c’è problema. Possiamo inviarle qualsiasi Pokémon. Il teletrasportatore fortunatamente funziona alla perfezione».
   «Esatto», continuò l’altra «Che Pokémon le serve? Avanti, non faccia il timido! Siamo i suoi assistenti, siamo qui per aiutarla!».
   Platan sospirò, però poi non poté fare a meno di incurvare le labbra in un sorriso: erano davvero efficienti e determinati pur essendo così giovani!
   «Charizard», rispose «Mi serve Charizard. Qui vicino c’è un Centro Pokémon, credo di riuscire a collegarmi da lì».
   «Bene!» esclamarono «Allora noi andiamo a preparare il Pokémon, non appena saremo pronti le manderemo un messaggio!».
   «Fate pure con calma, ragazzi, adesso ho un colloquio con alcuni colleghi. Appena mi libererò ve lo farò sapere, d’accordo?».
   «D’accordo! A dopo, allora!».
   «A dopo».
   Subito dopo che i due furono scomparsi, si posò la testa fra le mani.
   «Ma io non dovrei... Non dovrei...!» non riusciva a finire la frase.
   «Però devo», disse mentre usciva e chiudeva la porta della stanza a chiave.
 
 
   «Pancham, adesso scendi!».
   «Pan!» esclamò il Pokémon saltando giù dalla schiena della ragazza. Lo richiamò nella Poké Ball e si girò verso Rhyhorn.
   «Il Percorso 9 è così tortuoso che è possibile attraversarlo solamente in groppa ad un Rhyhorn... Sono proprio curioso di vedere come se la cava la figlia di Primula!» le aveva detto in tono di sfida qualche minuto prima Calem. Poi era salito sulla schiena di uno dei Rhyhorn messi a disposizione all’inizio del Sentiero Punzoni e si era incamminato verso la Grotta dei Bagliori. La ragazza sospirò e si vide costretta a fare lo stesso.
   «Adesso ti faccio vedere io, Calem!» esclamò aggrappandosi al Pokémon «Vai, Rhyhorn!».
   Rhyhorn si mise in piedi sulle quattro zampe, prese la rincorsa e cominciò a correre spedito contro l’altro Pokémon. Serena teneva strette le dita fra le sporgenze rocciose che aveva sulla schiena, tenendo basso il busto affinché il rinoceronte potesse andare più veloce. Aveva un buon equilibrio e, nonostante la corsa affannata del Pokémon la spingesse di qua e di là, riusciva a mantenere salda la sua postura. Le ore passate a giocare in giardino con il Rhyhorn di sua madre alla fine si erano rivelate utili! Alzò lo sguardo e pochi metri più avanti vide Calem. Sorrise con decisione e disse a Rhyhorn di raggiungerli.
   «Arrivo prima io!» gli gridò quando si trovarono uno vicino all’altra.
   «Ah, sì? Ne sei proprio sicura?».
   Senza preavviso, il Rhyhorn di Calem fece uno scatto in avanti, alzando una nuvola di terra e polvere che andò a finire negli occhi di quello di Serena. Il Pokémon s’impennò sulle zampe per il colpo improvviso e la ragazza strinse forte la presa per non rischiare di essere scaraventata giù. Il rinoceronte si dimenò per qualche istante, finché il bruciore agli occhi non si fu alleviato.
   «Ehi, ma così bari!» gridò da dietro al rivale, agitando con rabbia le braccia in aria.
   «Ci vediamo alla Grotta dei Bagliori!» fu la risposta, accompagnata da una risata beffarda.
   «Che stolto...» sibilò fra i denti, accarezzando la schiena del Pokémon «Tutto a posto? Hai ancora male agli occhi?».
   «Rhyhorn», grugnì. Alzò un poco la testa per far intendere alla ragazza che il dolore era passato e che era pronto per ripartire.
   «Bene, allora andiamo. Non preoccuparti, ci penserò io a quell’imbroglione di Calem...».
   Ricominciarono a correre su quella strada brulla, delimitata dalle montagne, spoglia e malconcia. Lungo il percorso dovettero fermarsi varie volte perché il sentiero ogni tanto era bloccato da dei grossi massi che impedivano di procedere oltre. Perciò Rhyhorn prendeva tutte le sue forze e con il corno colpiva le rocce più e più volte, finché riusciva a creare un passaggio da attraversare. Ed ecco che, dopo l’ennesimo masso, Serena riuscì a scorgere in lontananza l’entrata della grotta, contornata dai suoi minerali luminosi.
 
 
   «Le reclute sono state disposte secondo l’ordine prestabilito».
   «Bene», Elisio si alzò dalla poltrona della sua stanza all’interno dei Laboratori e scrutò dall’alto della piattaforma la donna che era venuta a comunicargli la cosa, senza che ella potesse percepire alcuna emozione dal suo sguardo. Si era improvvisamente fatto freddo, come accadeva ogni volta che aveva bisogno di concentrarsi quando c’era una missione in corso. E, in particolare, questa richiedeva la massima attenzione: da essa dipendeva il resto del cammino che il Team Flare avrebbe percorso.
   «C’è altro?» chiese, continuando a osservarla.
   «Al momento no, signore».
   «Se dovesse accadere qualcosa non in regola con i nostri piani, voglio esserne immediatamente messo al corrente».
   «Certo, signore».
   L’Ufficiale fece un leggero inchino e si dileguò, desiderando togliersi subito di dosso quello sguardo così soffocante. Il timore che le metteva su quell’uomo quando doveva fargli rapporto circa gli affari in cui era coinvolta l’organizzazione era senza pari. Eppure, spogliato della sua veste di Capo, appariva un uomo così calmo e mite...
   Prima di risedersi sulla poltrona nera aspettò qualche istante, per essere certo che la donna fosse abbastanza lontana. Poi mise mano al PC e analizzò attentamente ogni punto del piano che aveva progettato.
   Negli ultimi mesi, nella Grotta dei Bagliori, era stata trovata una grande quantità di fossili dai ricercatori del Laboratorio di Petroglifari. Il Team Flare disponeva di un gruppo di scienziati altamente qualificato, i cui membri erano stati scelti dai più prestigiosi ambiti delle scienze. Elisio ne aveva personalmente testato le capacità e, una volta entrati a far parte dell’associazione, si era assicurato di non fargli mancare nulla. Con i guadagni ricavati dalla vendita degli Holovox e dalla gestione della caffetteria, aveva potuto mettergli a disposizione le apparecchiature più sofisticate in circolazione nei laboratori più importanti di Kalos e delle altre regioni. Così, in una delle stanze dei suoi locali aveva potuto installare una macchina capace di far tornare alla vita i Pokémon racchiusi nei fossili, esattamente come quelle presenti nei laboratori dell’Isola Cannella nella regione di Kanto o di Petroglifari, appunto.
   Il Team Flare avrebbe sottratto i fossili che gli archeologi avevano trovato nella Grotta dei Bagliori e li avrebbe rivitalizzati con le proprie strumentazioni. Una volta che i Pokémon avrebbero riacquistato la vita, ne avrebbero sfruttato l’energia per alimentare l’Arma Suprema.
   L’unico punto ancora da chiarire era come.
   Un pomeriggio, tempo addietro, fra gli appunti di Platan sparsi sulla scrivania del suo studio, quando era andato a trovarlo, aveva letto distrattamente qualcosa riguardo ai monoliti che circondavano Cromleburgo. L’uomo però si era subito messo a riordinare i fogli e non aveva potuto leggere oltre. La tappa seguente, quindi, sarebbe stata la Strada dei Menhir, per accertarsi riguardo alle informazioni che aveva carpito da quella lettura sbadata.
   Sospirò e chiuse gli occhi, rilassando la schiena sulla spalliera della poltrona. Sentiva la tensione in tutto il corpo e la calma che di solito regnava padrona fra i suoi pensieri farsi leggermente più debole.
   Vide il suo Holovox confinato a un angolo del tavolo. Era lì dalla mattina prima, dopo essere entrato nei Laboratori non lo aveva più toccato. Lo prese in mano, lo accese. Trovò la chiamata di Platan. Osservò quella striscia blu per un paio di secondi, in silenzio.
   «Un giorno riuscirò a convincerti», disse «Ti convincerò e finalmente ti unirai a noi. Devi farlo! Perché se non lo farai... Se non lo farai...» terminare la frase con quella parola gli metteva un senso d’inquietudine addosso che non riusciva a tollerare, perciò non lo fece, lasciando che le parole incomplete si dissolvessero nell’aria di quella piccola stanza fattasi improvvisamente asfissiante a causa dei suoi pensieri. Si prese qualche secondo per calmarsi e riprendere contegno. Quello non era il momento adatto per certe riflessioni. Uscì nell’atrio principale e oltre le porte delle altre stanze vide i suoi sottoposti intenti a lavorare, alcuni che a distanza si occupavano della missione a Grotta dei Bagliori, altri che studiavano in che modo compiere le prossime mosse, e così via.
   «Elisio, eccoti qui!» era Xante che soggiungeva, chiamandolo con voce melensa e fastidiosa. Elisio roteò gli occhi lievemente irritato, perché sapeva cosa stava a significare quel tono. Si voltò verso di lui e lo guardò, in attesa di scoprire che cosa avesse da dirgli.
   «Posso offrirti un caffè?» chiese quello una volta ottenuta la sua attenzione, stando fermo con le braccia piegate dietro la schiena come a voler nascondere qualcosa.
   «Dimmi che cosa vuoi senza fare tutti questi giri come al solito. Oggi non ho tempo da perdere, lo sai».
   L’uomo scrollò le spalle con indifferenza e da dietro la schiena trasse un voluminoso rotolo di fogli.
   «Se la metti così sarà meglio andare nel tuo ufficio. Ho un favore da chiederti».
 
 
   «Perciò le mie intuizioni erano giuste...» disse il Professore mentre esaminava i dati che i mineralogisti avevano raccolto.
   «Sì», disse uno dei due, un uomo dai folti baffi bruni «In questi ultimi tre giorni abbiamo raccolto diversi campioni di tutte le undici pietre evolutive e abbiamo confrontato le loro caratteristiche con quelle delle Megapietre che ci aveva portato. Non ci sono dubbi: la loro struttura di base coincide al novanta percento».
   «Di ognuna di esse», precisò l’altro, un tipetto mingherlino e dai tratti del viso molto scavati.
   «Di ognuna di esse, esatto. I dati sono uguali per tutte le ventotto Megapietre».
   «Per cui si può estendere con certezza questa caratteristica anche a tutte le altre Megapietre che ancora non sono state identificate...» rifletté ad alta voce Platan. Quella sì che era una scoperta importante. Ritornò ad osservare le cifre scritte sulle schede e cercò di imprimersele nella memoria.
   «E per quanto riguarda la Meridiana?» domandò.
   «Purtroppo non siamo stati in grado di capire granché. Sarà pure un congegno antico di tremila anni, ma neanche con le tecnologie più avanzate a nostra disposizione siamo riusciti a estrarre qualcosa. I computer ci sono serviti a poco».
   «Non hanno riconosciuto nulla», precisò il magrolino.
   «Non hanno riconosciuto nulla, esatto. Un mistero».
   «Perciò non si hanno nemmeno prove circa un suo eventuale legame con la Megaevoluzione...».
   «Per il momento no, ma chissà? Un collegamento potrebbe esserci come no. Solo il tempo ce lo dirà... Sicuramente, non appena avremo nuove attrezzature con cui studiare più efficacemente la Meridiana, torneremo ad occuparcene, ma per ora siamo costretti ad accontentarci di ciò che abbiamo».
   «Ho capito. È un vero peccato! Ma d’altronde non si può scoprire tutto e subito, giusto? Si perderebbe tutto il divertimento... Vi ringrazio molto per il vostro aiuto, non mancherò di fare il vostro nome agli altri miei colleghi!» disse Platan mentre stringeva le mani ad entrambi «Il contributo che avete dato è di un’importanza inestimabile! Vi ringrazio davvero!».
   «Grazie a lei, Professore! Se dovesse avere ancora bisogno di noi, saremo a sua disposizione. E complimenti per la sua intuizione, alla fine si è rivelata più che veritiera!».
   «Formidabile!».
   «Formidabile, esatto!».
   Non appena i due furono usciti dal salone dell’albergo, Platan si fece scappare un’esclamazione di gioia. Abbracciò i suoi due assistenti, i quali si complimentarono con lui più e più volte, poi ordinò da bere per festeggiare.
   «Non vedo l’ora di dirlo ad Elisio!» disse dopo che ebbero fatto un piccolo brindisi. “Elisio...” pensò, guardando di sfuggita l’Holovox legato al polso.
   «Di’ un po’, ma secondo te in che rapporti sono?» bisbigliò la ragazza all’orecchio dell’altro.
   «Intendi Elisio e il Professore?».
   «Sì».
   «In effetti mi paiono molto intimi, ma non sono sicuro fino a che punto possano esserlo».
   «Vero? È quello che mi chiedo anche io».
   «Ti dirò, l’altro giorno li ho visti che si tenevano per mano sotto lo stesso ombrello mentre tornavano a casa. Sarà anche solo un modo per dimostrarsi reciprocamente la loro amicizia, ma ho notato che è un gesto che si scambiano spesso...».
   «Ora che mi ci fai pensare, hai proprio ragione! Si stringono sempre le mani, avrà un significato particolare?».
   «Non saprei, è come se volessero sostenersi a vicenda, eppure...».
   Il Professore si alzò e girò la testa verso di loro: «Ragazzi,» disse tendendogli le schede «potreste trascrivere questi dati sul mio laptop?».
   «Certo, Professore, ma l’ispezione alla Meridiana?» chiese la ragazza.
   «Ci andrò io adesso».
   «Da solo? Non vuole che la accompagniamo?» disse il giovane.
   «Non preoccupatevi, per il momento mi serve che voi due rimaniate qui. Se dovessi aver bisogno di qualcosa, vi chiamerò. Vado a prendere la giacca in camera ed esco».
   Oltrepassò il portone dell’albergo sentendo un brivido di gelo lungo la schiena. Si avvolse meglio la sciarpa attorno al collo e si avviò.
   Se doveva essere sincero, pensava mentre camminava sotto un leggero nevischio, in realtà non era ancora riuscito a capacitarsi del tutto riguardo a ciò che stava accadendo. Sembrava tutto talmente folle e assurdo, certe volte ci rifletteva su e stentava a credere che quella fosse la realtà.
   Riattivare l’Arma Suprema per creare un mondo di pace.
   Ma come? Come poteva Elisio pretendere di farsi portatore di un mondo prospero e sereno con un atto che andava rigorosamente contro ogni suo principio? Come poteva sperare di costruire il suo mondo perfetto debellato da guerre esercitando di fatto una così ignobile violenza? L’azione che andava a compiere era certamente un atto al limite della disperazione, ma per quanto lui lo ritenesse necessario ai fini di un futuro migliore, nulla, nulla poteva giustificare una cosa simile.
   Ripensò a quando poche sere prima AZ gli aveva raccontato in lacrime la sua storia. Non poteva perdonarlo per quello che aveva fatto, ma lo apprezzava poiché aveva capito l’errore che il suo orgoglio lo aveva spinto a commettere. Quanto soffriva... Quella era una cicatrice che si sarebbe dovuto portare dietro per l’eternità, che ogni mattina, svegliatosi dal suo giaciglio, mentre osservava la propria immagine nel riflesso dello specchio, non avrebbe mai potuto nascondere alla vista. Sempre lì, innegabile, incancellabile. Negli occhi, nei tratti duri e secchi del volto, non poteva far altro che riconoscere lo spettro di un mostro. E di questo spettro se ne sarebbe liberato solamente quando avrebbe ottenuto il perdono del suo amato Pokémon. Chissà se Floette glielo avrebbe mai concesso, si domandò. Non aveva avuto la forza di dire al vecchio gigante che il suo amico si trovava nel suo Laboratorio, e tuttavia non se l’era sentita di intromettersi in una faccenda così personale. Ma era sicuro che un giorno finalmente si sarebbero ritrovati: e quel giorno sarebbe stato il più lieto e felice che insieme avrebbero mai vissuto. Dopotutto, rifletteva, non avrebbero potuto continuare a evitarsi per sempre. Da quello che gli aveva detto Dexio sul comportamento che il Pokémon aveva avuto durante l’episodio con Golurk, aveva inteso che anche lui provava un grande affetto nei confronti di AZ. C’era solo bisogno di tempo.
   Se però Elisio fosse riuscito nel suo intento, anche lui allora sarebbe andato in contro a quella sofferenza. Perché non se ne rendeva conto? Platan non si sarebbe mai unito al suo gruppo. Sarebbe rimasto solo e da solo avrebbe dovuto compiangersi.
   Rabbrividì. Non poteva lasciare che precipitasse in quel futuro.
   «Che cosa diavolo ci faccio qui?» si pose quella domanda che lo aveva torturato per tutta la permanenza in quella città. Si fermò con passo incerto. In lontananza, il cristallo rosa della Meridiana, emergendo dalle profondità marine, si ergeva nella sua maestosità fino a sfiorare il cielo bianco. Dalle labbra gli uscì un sospiro, che condensandosi a contatto con l’aria fredda formò una nuvoletta di vapore.
   Si mise a correre. Le sue scarpe che battevano sulla strada ciottolata dove avevano appena spazzato via la neve creavano un gran rumore in quella città così tranquilla e silenziosa. In pochi minuti fu di fronte al Centro Pokémon, ma prima che potesse mettere la mano sulla porta per entrare, una donna, che stava uscendo in quell’esatto momento, gli si parò davanti come a volergli bloccare la strada.
   «Mi scusi», le disse, aspettando che si spostasse.
   Quella però non si mosse, ma sorrise con compassione, fissando gli occhi color pervinca sull’esile figura dell’uomo.
   «E così lei sarebbe il famoso Professor Platan... Alla fine è venuto veramente... Come avevo immaginato, certamente...».
   In mezzo alle sue folte sopracciglia violacee si formò una piccola ruga.
   «Era venuto qui per studiare la Megaevoluzione? Era questa la sua intenzione?».
   «Sì», rispose sorpreso: aveva cercato di parlarne il meno possibile in giro «Era questa...».
   La donna sbatté le ciglia come normalmente fanno tutti, ma a Platan, non sapeva perché, in quel gesto parve di scorgere una punta di contrarietà.
   «Mi chiamo Astra», si presentò «e di questa città sono la Capopalestra».
   Mosse qualche passo oltre di lui facendo svolazzare il mantello d’argento e poi si girò, tendendogli la mano, come a indicargli di seguirla.
   «Le mostrerò la strada per la Meridiana, così la sua venuta non sarà stata vana».
   «Ma io, veramente...».
   Un’occhiata alla sua espressione enigmatica lo fece zittire, e la seguì senza opporsi.
 
 
   Serena e Calem camminavano uno vicino all’altra all’interno della grotta. Il cammino gli veniva via via mostrato dai cristalli che riflettevano la propria luce sul sentiero roccioso.
   «Dillo che non vuoi sfidarmi perché hai paura di perdere!» sbottò Serena dopo un po’.
   «In realtà vorrei risparmiarti il dolore che dovrai provare quando verrai sconfitta. Sappiamo tutti e due che il più forte qui sono io... E poi è così che vuoi vendicarti di me per quello che ho fatto prima a Rhyhorn? Andiamo, era solo un po’ di polvere negli occhi!».
   «Diciamo che il tuo comportamento non è stato proprio carino, ecco. Insomma, non era neanche un tuo Pokémon!».
   «Va bene, va bene, ho capito!».
   «Allora mi sfiderai?».
   «Cosa? Qui? Sei matta! In un sito archeologico! Rischiamo di fare qualche danno! Magari dopo, quando torneremo a Petroglifari...».
   La ragazza lo guardò e sorrise: «Guarda che ci conto, eh!».
   Proseguirono per un breve tratto, fra la moltitudine di gallerie che si diramavano nella caverna.
   «Dovremmo essere quasi arrivati», disse Calem guardandosi intorno.
   Serena si fermò e sul suo viso si dipinse un’espressione interdetta e confusa.
   «Scusa, Calem, da quando i ricercatori portano una divisa rossa?».
   «Serena, ma che stai dicendo? I ricercatori portano il camice, proprio come il Professor Platan!».
   «Beh, quelli non mi pare che abbiano molto a che fare con il Professore...» e dicendo questo puntò un dito verso un gruppo di persone, tutte vestite di un rosso sgargiante e delle stravaganti capigliature ciuffate dello stesso colore che ricordavano la forma di una fiamma.
   «E quelli chi diavolo sono?» esclamò inquieto il ragazzo «Non so te, ma non mi convincono per niente...».
   «Neanche a me... Ehi voi! Che cosa state facendo con quei fossili?!» gridò nel momento in cui si accorse che stavano trascinando via una carriola piena di fossili.
   Uno di quelli sussultò. Si girò verso i due ragazzini e sogghignò.
   «Ah? Cosa abbiamo qui?» disse sistemandosi gli occhiali da sole, «Due Allenatori curiosi venuti a ficcare il naso!» sibilò avvicinandosi a loro e osservandoli meglio da dietro le lenti, rosse anch’esse.
   Calem si mise sulle difensive, accostandosi più vicino a Serena.
   «Si può sapere chi siete?!» grugnì il ragazzo.
   Quello ridacchiò di nuovo: «Ah, non lo sapete? Beh, noi siamo l’elegante Team Flare, e basta il nome per far tremare i mocciosi! Il nostro obiettivo è ottenere un futuro radioso solo per noi! Per farlo siamo disposti a tutto. Chi se ne importa di che cosa succederà agli altri Allenatori e ai loro Pokémon!».
   «Un futuro radioso solo per voi?» ripeté Serena.
   «Siete solo due sciocchi ragazzini, cosa pensate di capirne?» sbuffò «Fareste meglio a sparire, e alla svelta... È un saggio consiglio, non trovate?» e dalla tasca tirò fuori una Poké Ball. I suoi compagni lo imitarono, lanciando dei sorrisi malevoli ai due ragazzi.
   «Sparite. Ora», sibilò puntando la sfera contro i due.
   Serena lo osservò con astio. Calem la scuoteva per un braccio, intimandole all’orecchio che sarebbe stato meglio andarsene e chiamare qualcun altro che se ne sarebbe occupato sicuramente meglio di loro, che erano soltanto due ragazzini. La ragazza si strattonò e afferrò una delle sue Sfere Poké.
   «No, Calem, dobbiamo combattere! Saremmo anche due sciocchi ragazzini come dice lui, ma il futuro è anche nostro! Non ho idea di che cosa abbiano intenzione di fare, ma... Non mi dicono nulla di buono! Non lascerò che mi strappino via il mio destino così facilmente! Frogadier, vieni fuori!».
 
 
   «Siamo giunti al nostro traguardo», disse la Capopalestra fermandosi accanto all’aiuola della piattaforma circolare che conduceva alla Meridiana. Si fermò e indicò al Professore l’imponente cristallo.
   «Prego», disse, invitandolo a proseguire.
   Platan avanzò, osservando dal basso la Meridiana pieno di stupore. Nonostante fosse lì da più di tre giorni non aveva ancora avuto il tempo di vederla così da vicino. Salì sul ponticello che vi era di fronte e guardò oltre il foro che aveva al centro. Avvertì un brivido lungo la mano sinistra. L’alzò e vide che la pietra incastonata nell’anello aveva cominciato a brillare di una luce intensa.
   «Eppure un legame deve esserci...» si disse, nonostante sapesse che ancora non era stata appurata alcuna prova che accertasse un collegamento fra il Megacerchio e la Meridiana.
   «Professore, che cosa sa al riguardo?» chiese Astra avvicinandosi a lui.
   «Non molto in realtà,» confessò «tante cose sono ancora avvolte nel mistero. Però sembra che la luce della Meridiana sia in grado di indicare la posizione delle Megapietre. Da alcuni esperimenti che abbiamo fatto sulla base di una mia supposizione, abbiamo scoperto che le Megapietre e le pietre normali, come la Pietrafocaia o la Pietraidrica, hanno una struttura di base molto simile, addirittura quasi identica. La mia ipotesi è che le prime in realtà non siano altro che il prodotto di una mutazione subita dalle seconde. E la causa di questa mutazione sarebbe... La causa di questa mutazione sarebbe...».
   “La luce irradiata dall’Arma Suprema”, pensò, senza riuscire a dirlo ad alta voce.
   «Mi scusi», disse in tono fermo, abbassando lo sguardo «Ma io devo andarmene da qui. Non posso rimanere un minuto di più. Non c’è altro tempo».
   Scese la scalinata del ponte senza degnare Astra di uno sguardo, preso dai suoi pensieri, e oltrepassò l’aiuola circolare al cui centro vi erano incastrati in modo concentrico tanti anelli d’oro.
   Perché si era fatto trascinare fin lì? Aveva ragione, il tempo era poco, e ad ogni secondo che passava diminuiva sempre di più. Forse se fosse riuscito a fermarlo già dal principio avrebbe avuto più possibilità di riportarlo sulla retta via. Affrettò il passo, con accanto il rumore del mare che mano a mano cresceva e si faceva più forte esattamente come le sue preoccupazioni.
   «Fermati!» gli gridò a un tratto la donna voltandosi verso di lui «Il tuo destino, insieme al mio e a quello di tutti noi altri, è questo, rassegnati!».
   Platan si arrestò all’improvviso. Si girò di scatto e la fissò incupito. La donna sospirò e abbassò la testa: non aveva il coraggio di dirglielo guardandolo negli occhi.
   «Mi rincresce confessarlo, ma...».
   E rimaneva zitta.
   Quel suo silenzio lo faceva innervosire, perché il suo sguardo non gli piaceva affatto. Era dunque vero che Astra fosse capace di vedere nel futuro? Cosa aveva visto di così cupo da farla impietrire in quel modo? Qualche presentimento ce l’aveva e, seppur cercava di eliminarlo dalla mente, non poteva fare a meno di figurarselo.
   «Cosa c’è?! Avanti, parla!» urlò fremendo, mosso dalle sue stesse paure.
   Astra alzò lo sguardo. Quindi voleva davvero saperlo? Gli avrebbe spezzato il cuore, senza dubbio. Ma sarebbe stato meglio per lui venirne a conoscenza in quel momento, anziché quando ormai sarebbe stato troppo tardi, si disse. Almeno avrebbe avuto il tempo di farci i conti ed accettarlo.
 
   «Non riuscirai a salvarlo».
 
   Sottili e taglienti come lame d’acciaio. Secche. Dure, e fredde più del ghiaccio.
   Un’onda più grande delle altre si abbatté contro la pedana, ricadendo nel mare con un fragoroso frastuono.
   Platan indietreggiò.
   «No... Non è possibile...» mormorò dopo minuti, con ancora la testa piena di vuoto.
   Il suo terrore più grande. L’essere inutile nonostante gli sforzi. Una virgola intonata male e tralasciata fra le parole. Sarebbe andata a finire così?
   «Molto presto, avverrà il ritorno del fiore maledetto. Questo è ciò che ho predetto».
   Lo vide girarsi e nascondere il viso tra le mani. Sollevò la testa ed osservò il cielo bianco.
   «Presto comincerà a nevicare forte. Andiamo. Sarà meglio ripararsi oltre le porte».
 
 
   «...E cosa dovrebbe avere di speciale questa tuta?» chiese Elisio mentre esaminava con sguardo inquisivo le carte che Xante aveva messo sul suo tavolo.
   «Capo! Capo!» l’Ufficiale si azzardò ad entrare nell’ufficio senza chiedere il permesso. Elisio si alzò subito dalla sedia, notando l’aspetto agitato della ragazza. Xante fece altrettanto, lasciando da parte i suoi progetti.
   «Cosa succede?» chiese il rosso con fermezza, senza farsi prendere da alcuna emozione.
   «C’è un problema! Degli esterni si sono intromessi nello svolgimento della missione!».
   «Degli esterni, hai detto?».
   Le si avvicinò e fece cenno a Xante di seguirli. Si spostarono con passo svelto nella camera di controllo principale ed Elisio si mise ad osservare con interesse le immagini proiettate sugli schermi della stanza nera.
   «Questo proprio non lo avevo messo in conto. Che sorpresa...» proferì accarezzandosi il mento con le dita. Sulle sue labbra si formò un sorriso divertito.
   «È una tua conoscenza, per caso?» chiese una donna poggiata con la schiena al muro e le braccia incrociate sotto il seno, intenta a studiare la scena con un’espressione apparentemente disinteressata.
   «Di persona l’ho vista solo una volta, ma Platan non manca mai di darmene notizie».
   «Ah, perciò è una dei marmocchi che lavorano per il Professor Platan... Pensi che l’abbia mandata lui, insieme a quell’altro ragazzino?».
   «Che intendi dire?».
   «Non hai detto che sta continuando ad opporsi?».
   L’uomo capì dove voleva andare a parare e disse: «È indubbio che voglia fermarmi, ma se avesse voluto agire, lo avrebbe fatto lui personalmente. Di questo sono più che certo, Malva».
   «Non capisco come mai continuiate a desiderare così tanto di farlo entrare nella squadra. Non ha nulla di speciale», s’intromise Xante.
   «Elisio ne è innamorato fino al midollo, ormai è chiaro. Oh, andiamo, e mi guardi pure così? Dopo quella scenata è praticamente ovvio per tutti quanti, qui dentro... Ti salverò, ti salverò! Risplenderemo insieme! Ma sul serio? Ma sentivate cosa vi dicevate, almeno? Peggio dei romanzetti rosa che leggevo da adolescente...» disse sarcastica.
   «Non una parola di più», sibilò guardandola dritta negli occhi e facendola rabbrividire.
   «Va bene, capisco la posizione di Elisio, ma tu? Perché lo vuoi?» chiese lo scienziato.
   «Ci sarebbe davvero bisogno di qualche bel viso qua dentro, sennò sai che noia...» e cautamente lanciò uno sguardo a Elisio, per assicurarsi che non s’infiammasse di gelosia «E dopotutto è il Professore della regione di Kalos, non uno qualunque. È bello, ma mica è scemo. Potrebbe esserci molto utile».
   «In un mondo in cui i Pokémon non esisteranno più, non vedo tutta questa utilità...».
   «Pazzesco, ne ha sconfitta un’altra!» esclamò il ragazzo seduto di fronte al monitor. Si girò verso i tre e disse: «È la settima... La quarta che batte da sola... Siamo a corto di reclute, Elisio, che cosa facciamo? Devo dire agli altri di annullare la missione?».
   «Annullarla? E perché mai?» disse «Non mi pare di avere dato quest’ordine. Non fare nulla. Sono curioso di vedere fino a quando riuscirà a contrattaccare. Finora non se la sta cavando affatto male, quindi perché fermarla?».
 
 
   Varcarono la porta della Palestra e si ritrovarono in una stanza accogliente. Sulla parete opposta, al centro, in mezzo a due cassettiere di legno, vi era un camino acceso che diffondeva un bel tepore nella sala. Platan si crogiolò un po’ in quel calore e riprese colorito.
   «Dammi pure la tua giacca. Oh, e anche quella sacca», disse la donna tendendogli la mano. L’uomo le porse sciarpa, cappotto e borsa, ella li appese all’attaccapanni accanto alla porta e poi mosse qualche passo in avanti, fermandosi al centro del tappeto.
   «Ora seguimi, ti condurrò nel resto della Palestra. Mi raccomando: nessun'azione maldestra».
   «Il resto della Palestra?» si guardò attorno con un’espressione confusa. Ma se non c’erano porte! La donna scosse la mano, facendogli intendere che non aveva nulla da temere. Non avendo possibilità di controbattere, Platan le si avvicinò e si fermò al suo fianco.
   «Pronto?».
   Le pareti ed il pavimento scomparvero all’improvviso per dare spazio ad una vista meravigliosa. L’uomo rimase a guardare quello spettacolo incredibile con gli occhi sgranati. Si allontanò da Astra e mosse qualche passo in giro. Si sentiva leggero, e ogni volta che poggiava i piedi a terra, un bagliore colorato sotto alle scarpe gli mostrava un pavimento trasparente.
   «Siamo nel cielo?» chiese ingenuamente.
   Intorno a lui vi era un’immensa distesa di stelle e di galassie.
   «Questa è la mia casa», disse «Qui è dove mi fermo ad osservare le sorti delle genti e a trascrivere ogni mio resoconto. Posso offrirti qualche cosa?».
   Accanto alla donna apparve una cucinetta, e quella si mise a riempire un bollitore con dell’acqua per preparare del tè. Platan la osservò stupito. Si trovava forse dentro un sogno? Un mezzo incubo? Come era possibile una cosa del genere? Era vero quello che vedeva?
   «Caro Professore, non sono solo i Pokémon ad avere qualche potere speciale...» disse Astra, intuendo i suoi pensieri «Piuttosto, come stai? Ti senti ancora male?».
   «Quindi è da qui che vedi tutto? Intendo i nostri destini», domandò, ancora con gli occhi che gli brillavano. Pareva essersi distratto almeno un po’ dalle sue ansie.
   «Il destino è scritto nelle stelle», rispose la donna versando il tè in due tazze di porcellana riccamente decorate «Sono loro a dirmi ciò che accadrà nel futuro, splendenti e belle. Dal modo in cui si dispongono posso vedere come la vita di ognuno si intreccia con quella degli altri e gli avvenimenti che nasceranno da queste unioni, anche i più scaltri».
   Si avvicinò all’uomo e gli porse la tazza. Poi fece apparire due poltrone e ci si sedettero.
   «Ero molto giovane quando scoprii di avere questo talento», raccontò «All’inizio ne ero spaventata. Essere capaci di vedere nel futuro non è cosa da poco, ma un incredibile portento... Tuttavia con il tempo ho capito che non dovevo averne paura. Ho trovato il mio scopo nella vita: quello di aiutare la gente attraverso le mie previsioni, donare ad esse una qualche sorta di cura».
   «Sarebbe per questo che mi hai bloccato prima che entrassi nel Centro Pokémon?».
   «Esatto. Dovevo avvertirti prima che il tuo gesto impulsivo venisse fatto».
   «E cosa ne è di Elisio?» eruppe all’improvviso «Non dovresti aiutare anche lui?».
   «È impossibile. Ti ho detto prima che non puoi salvarlo. E se non puoi salvarlo tu, allora nessun altro potrà farlo».
   La tazza gli scivolò dalle mani, ma invece di rompersi continuò a fluttuare fra le stelle, con il liquido che si disperdeva nell’aria in tante gocce.
   «Prima stavi parlando di un fiore maledetto. Immagino che ti stessi riferendo all’Arma Suprema, non è così?».
   «Precisamente.»
   Le stelle erano spettatrici silenziose di quella conversazione.
   «Il destino non può essere cambiato», lo precedette Astra, abbassando la testa «Sarà così e basta. Non c’è speranza che cambi, nonostante, in effetti, ci abbia pensato...».
   «Siamo tutti condannati a morire, quindi? Ed Elisio? Che ne sarà di lui?».
   Astra poggiò la tazza sulle gambe e scrutò il viso bianco dell’uomo. Il suo sguardo innocente assomigliava a quello di un bambino. E tutte quelle domande non facevano che rafforzare ancora di più quel paragone di fronte ai suoi occhi.
   «D’accordo. Ho inteso il tuo desiderio. Ti mostrerò ciò che ho visto», disse la donna alzandosi in piedi.
 “Nonostante potrebbe essere deleterio... Ma se è questo ciò che vuole, allora, ad ogni costo...” pensò, mordendosi le labbra carnose.
   Con un gesto fece sparire poltrone, tazze e tutto il resto, lasciando che nell’infinità dell’universo ci fossero solo loro, minuscoli e insignificanti davanti alla grandezza di quel cielo eterno. Poi diede un’ultima occhiata a Platan. Quello la guardava con decisione. Ogni parte del suo corpo era estremamente tesa di fronte alla possibilità di poter vedere ciò che il destino gli avrebbe riservato. Era più che sicuro di volerlo fare, non c’erano dubbi. La donna sospirò e si preparò a dire per sempre addio a quel bimbo innocente che si affacciava continuamente dalle finestre dei suoi occhi.
   Alzò le braccia sopra la testa. Congiunse le dita tenendo gli indici sollevati. Improvvisamente il cielo cominciò a girare vorticosamente su sé stesso, diffondendo bagliori di luce ovunque.
   Sempre più veloce, sempre più veloce.
   Il mantello di Astra si scuoteva con violenza mentre Platan guardava quello spettacolo terrificante con gli occhi sbarrati. Per quanto l’ansia nel suo corpo stringesse sempre più forte tra le dita il suo cuore che batteva all’impazzata, non riusciva a distogliere lo sguardo.
   Era spaventoso e affascinante allo stesso tempo.
   I poteri psichici di Astra erano strabilianti.
   Dopo vari secondi in cui si erano ritrovati immersi in quel vortice di luce, il cielo si fermò. Poi un bagliore bianco. E ad un tratto ogni stella e cometa cominciò a spostarsi verso il centro dell’universo, posandosi sulle dita della donna.
   Intorno buio e silenzio. Quell’unico punto bianco e sfavillante luccicava nelle tenebre. Platan non riusciva neanche più a distinguere le fattezze della donna.
   Il bagliore scoppiò improvvisamente, diffondendosi ovunque, lasciando il posto a un’immagine raccapricciante.
   L’Arma Suprema sovrastava le loro teste, bella, lucente, orrenda. Il cristallo rosso e blu riluceva chiaramente nel buio.
   «Questo è il nostro futuro. Il cielo ne è anticipatore», disse Astra.
   Platan avvertì un fischio assordante nelle orecchie. Alzò la testa in alto e vide piovere centinaia, migliaia di croci che si fracassavano al suolo rompendosi in innumerevoli cocci che nessuno sarebbe più stato in grado di ricomporre. E lui stava lì a guardare, senza poter fare nulla per impedire a quella pioggia maledetta di scendere ancora. Gridò in preda all’angoscia, portando le mani alla testa. E quando le allontanò, vide i palmi e le dita grondanti di sangue.
   «Elisio... Oh, Elisio, che cosa hai fatto?!» urlò con le lacrime agli occhi.
   «Il sangue versato non sarà mai abbastanza per sanare il dolore», disse la donna con voce ferma.
   L’uomo serrò le palpebre per impedirsi di guardare più a lungo quella scena terribile. Era davvero quello il futuro? E lui non avrebbe potuto fare nulla per impedire una cosa del genere? Non avrebbe potuto salvare Elisio dalla sua follia? Perché era questo il destino che aveva inteso per lui: sarebbe impazzito all’inverosimile, ma non avrebbe mai potuto trovare pace. Quindi ogni suo sforzo per stargli accanto e incoraggiarlo a credere negli altri e nel mondo sarebbe stato inutile?
   Ritornò il silenzio e la calma. Quando Platan riaprì gli occhi, stavano di nuovo prendendo il tè. Sentiva le ciglia e le guance umide. Non si era neanche accorto di aver cominciato a piangere.
   «Ma allora quella promessa... Che senso ha quella promessa in un futuro così atroce...?» chiese con voce stridula. Di nuovo la tazza che aveva tra le mani tremava.
   «Di che promessa parli?» domandò Astra, continuando ad osservare affranta il modo in cui quello aveva reagito alla visione.
   «Quel giorno... Tanto tempo fa...» provò ad articolare, inutilmente.
   La donna prese le sue mani e gliele accarezzò con apprensione. Rimasero a lungo così, senza dirsi nulla.
   «Tu sai leggere le mani e i suoi segni, non è vero?» chiese.
   «Sì», rispose «Ma adesso non dovresti guardarl...».
   «Devo sapere! Devo sapere che senso ha!» la interruppe «Non riuscirei ad andare avanti tenendomi questo dubbio addosso! Te ne prego, fallo! Fallo, e non avere pietà di me!».
   Allungò le mani verso di lei. Astra lo guardò spaesata. Possibile che fosse ancora così tenace, nonostante tutto? Girò le sue mani e si mise ad osservare le linee che gli correvano lungo i palmi. E percorse tutto ciò che era accaduto quel giorno, tanto tempo fa, scoprì ogni emozione che lui e l’altro avevano avvertito insieme e non poté fare a meno di provare gioia nel veder crescere un sentimento così grande. Poi però si fermò e il suo sguardo si rabbuiò. Scosse la testa.
   «No, non posso farlo», proferì.
   «Non avere pietà di me», disse l’uomo «Di qualunque cosa si tratti, l’accetterò».
   E che doveva fare davanti a quello sguardo che bruciava, che la implorava di dirgli la verità? Prese un grande respiro, chiuse gli occhi. Sulla sua guancia scivolò una lacrima.
   «È solo un sogno».
 
 
   Le pareti della caverna tremarono come mai, la roccia sul soffitto s’increpava fino a rompersi e a cadere a terra. Calem, rannicchiato ad un angolo per cercare di ripararsi, osservava sbigottito la potenza dell’ultimo attacco del Pancham dell’amica.
   «Finiscilo!» gridò la ragazza puntando l’indice contro il Crobat indifeso e ormai stremato dell’avversario, steso a terra senza alcuna capacità di muoversi. E di nuovo la terra tremò e Calem strinse le Poké Ball tra le dita temendo che sarebbe accaduto il peggio.
 
 
   «Mandane un’altra», ordinò Elisio, ormai estremamente preso da quella situazione. Serena era stata capace di mandare a segno ogni colpo progettato con incredibile astuzia e non aveva mai fatto un passo falso. Mai, nemmeno una volta.
   «Avanti, che stai aspettando? Ho detto mandane un’altra!».
   «Signore, non ne abbiamo più... Quella era l’ultima...» disse il giovane, con la coda tra le gambe.
   Elisio tremò. L’ultima? Ciò voleva dire che aveva battuto tutte e ventitré le reclute che aveva mandato in missione?
   «Sconfitti da una poppante. Meraviglioso», sibilò la donna «Bene, Elisio. A questo punto direi che il piano è fallito. Cosa intendi fare, adesso?».
   «Nulla. I fossili che siamo riusciti a recuperare, anche se pochi, basteranno lo stesso. Avremo altre occasioni per prenderci una rivincita. Solo, mi chiedo... Che lei sia davvero... una prescelta?».
 
 
   «Prescelti?».
   «I prescelti sono coloro che possono cambiare il futuro», rispose pazientemente Astra mentre camminavano per strada «Se un prescelto dovesse venire alla luce, allora forse sareste in grado di vivere il vostro destino imperituro. Ma questo va oltre i miei poteri: non posso sapere se avverrà la venuta di un eletto o fare in modo che si avveri».
   Aveva smesso di nevicare e con il calare della sera era sceso anche un vento leggero. Platan si strinse nella giacca. Sentiva molto più freddo del solito.
   «E siamo tornati qui», disse la donna nel momento in cui si affacciarono nuovamente alla pedana della Meridiana. Platan alzò lo sguardo e rimase stupito. La luce del sole che tramontava passava esattamente al centro del foro fino a toccare la sfera dell’aiuola di fronte, e intorno ad essa gli anelli che quella mattina erano stati immobili ruotavano fra loro in modo armonioso e incantevole.
   «Puoi andare, se vuoi».
   «Dove?».
   «Al Centro Pokémon, come ti eri prefisso in questo dì».
   «Tanto non servirebbe più a nulla...» rise amaramente.
 
 
   Quella stessa sera decise di tornare a Luminopoli. I suoi assistenti non fecero obiezione, anche se non riuscivano a capire il perché di quella scelta così improvvisa.
   «Ho raccolto tutti i dati di cui avevo bisogno», aveva detto «Non serve a nulla rimanere ancora qui».
   E così, dopo essere passato a casa a lasciare le valigie, era salito in macchina per andare al Caffè.
   Due ragazze stavano discutendo, sedute al bancone a bere un drink.
   «Ma sì, ti dico, non dargli retta!».
   «Che cosa?».
   «Insomma, se ti fa stare così, tanto vale fare finta di nulla...».
   «Ma come si può fare finta di nulla di fronte a una cosa del genere?».
   Platan le riconobbe: le aveva viste qualche tempo prima nei Laboratori Elisio, quando si era intrufolato lì per cercare di far ragionare il suo innamorato.
   «Ma c’è ancora qualche possibilità?» bisbigliò, incerto. Si avvicinò alle due e le salutò. Quelle lo guardarono sorprese.
   «Professor Platan, buonasera», la prima a parlare fu Akebia.
   «Possiamo fare qualcosa per lei?» chiese Bromelia.
   «Guarda, guarda...» sorrise lievemente «Come mai tutte queste attenzioni?».
   «Non dovrebbe neanche chiederselo, sapendo chi è il nostro capo...».
   «Stava cercando lui? Mi pare che sia andato alla Torre Prisma per fare quattro passi».
   «Ah, ho capito. Vi ringrazio, buona serata», e subito uscì.
   «Sai, Bromelia, a volte cerco d’immaginarmi come potrebbe comportarsi Elisio quando è da solo con lui...» disse mentre lo vedeva andarsene «Dev’essere molto diverso da come si comporta con noi, non credi anche tu?».
 
 
   Quando le porte dell’ascensore della Torre si aprirono, Platan uscì e si guardò attorno in cerca di Elisio. In realtà provava un po’ di timore a doverlo fronteggiare. Erano passate pochissime ore da quando aveva visto quella visione che in ogni istante gli si imprimeva in testa, ogni volta più brutale della precedente. Confusione, ancora tanta confusione. Ad un tratto vide l’uomo poggiato al parapetto, intento a guardare il cielo. Gli si avvicinò e disse: «Mi hanno detto che avrei potuto trovarti qui».
   Elisio si girò e gli sorrise.
   «Non è la prima volta che torni all’improvviso...» disse poi, preoccupato «È successo qualcosa?».
   «No».
   «Sicuro?» lo guardò dritto negli occhi.
   «Sì... È che volevo stare un po’ con te...».
   Perché nonostante tutto, solamente con lui sentiva che sarebbe potuto stare bene.
   Dopo aver dato una rapida occhiata in giro per accertarsi che nessuno li stesse guardando, Elisio si avvicinò ancora di più a Platan, gli posò un braccio sulle spalle e gli diede una carezza.
   «Però mi sembri un po’ stanco... Vuoi che andiamo a casa?».
   «Sono uscito proprio per venire qui, non mi va di tornare subito. Stiamo così. In silenzio, così. E basta».
   Il rosso sospirò. Gli accarezzò per un po’ il braccio con la mano e si rimise a guardare il cielo. Anche se la luce di Luminopoli era molto forte, nel cielo si poteva vedere qualche stella. Dovevano essere molto luminose se riuscivano a fronteggiare il bagliore della città della luce.
   «Come risplendono, eh?» disse mentre le osservava con sguardo assorto.
 
   «Come risplendono, eh?».
 
   Platan tremò all’improvviso. “È solo un sogno!” si ripeteva “È solo un sogno!”.
 
   «Come risplendono, eh?».
 
   Ma l’eco di quelle parole argentine gli si faceva sempre più forte nelle orecchie e non riusciva a farlo tacere. Si strattonò da Elisio e lo guardò con terrore, riconoscendo quel mostro che si insinuava nella sua anima.
   «Non c’è più speranza» disse con voce flebile «A che cosa serve vivere ancora, se il destino a cui andrò in contro non potrà portarmi che a questo?».
   Voltò lo sguardo oltre il parapetto e vide il vuoto, lo stesso vuoto che gli gonfiava la testa. E decise di farla finita lì. Mentre cadeva di sotto però, sentì qualcosa di caldo tra le dita e una voce lontana.
 Scosse la testa e si ritrovò di nuovo accanto a Elisio, che lo chiamava per avere la sua attenzione. Le sue mani stringevano con dolcezza le sue.
   “Questo calore... Questo calore è uguale a quello che provai quel giorno, ed è così vero...” pensò.
   Strinse forte le sue dita, forse anche facendogli male. Posò la testa sul suo petto e sentì il suo cuore che batteva; batteva e lo faceva all’unisono con il suo.
   «Non lasciare le mie mani...» disse «Non farmi cadere in questa pazzia... Rimani con me...».
   Elisio restò ad osservarlo frastornato per qualche secondo. Poi spinse la testa contro la sua con le loro guance che si toccavano e ricambiò la stretta.
   «Non le lascerò mai», sussurrò, lasciando che potesse sentire la presa sicura delle sue dita. E Platan la avvertì, intensa e forte.
   «Platan, l’Holovox...» disse ad un tratto Elisio «Dovresti spengerlo ogni tanto».
   Neanche si era accorto che stava squillando.
   «Lo penso spesso anche io, quando siamo insieme... Ecco, aspetta un attimo».
   Rispose alla chiamata per dire che in quel momento era occupato, ma lasciò perdere nel momento in cui vide che erano Sina e Dexio. Li aveva lasciati aspettare per tutto il giorno insieme a Charizard e alla fine aveva deciso di non fare nulla senza dirglielo. Si scusò con loro più volte.
   «Professore, semmai dovremmo essere noi a chiederle scusa...» disse Sina notando che con lui c’era anche Elisio «Possiamo richiamarla più tardi».
   «Non preoccupatevi, non c’è problema. Cosa dovevate dirmi?».
   «Prima ha chiamato Serena! Professore, è successa una cosa incredibile!» esclamò Dexio.
   Elisio si fece scappare un sorriso.
   «Si ricorda del Team Flare? Serena e Calem lo hanno sconfitto!».
   «Che... Che cosa?».
   «Ancora non lo avevi saputo?» domandò Elisio dopo che Platan ebbe finito di parlare con i suoi assistenti e spento lo strumento.
   «Sei stato battuto da una coppia di ragazzini?».
   «Diciamo da una soltanto... L’altro è andato fuori gioco quasi subito».
   «E avete addirittura dovuto sospendere la missione?».
   «Ha mandato allo sbaraglio tutte e ventitré le reclute che avevo inviato. E venti completamente da sola. Le ultime due con solamente un Pancham in squadra».
   «Incredibile...» sussurrò sbigottito. Alzò lo sguardo al cielo e fissò quelle stelle che aveva osservato per tutto il giorno e che gli avevano rivelato il destino.
   Serena era stata capace di cambiare ciò che lui non aveva potuto contrastare. Sentì un brivido lungo la schiena e una strana sensazione. Forse riusciva veramente a capire la natura di quel certo Je ne sais quoi che aveva visto in lei la prima volta che l’aveva incontrata... E stringendo più forte le dita di Elisio, si chiese: “Che sia lei la prescelta?”.

 

***
Angolo del francese.
     * Bonjour, mes garçones! = Buongiorno, ragazzi miei! ;
     * C'est bien! = Bene! ;
     * Je ne sais quoi
= Non so che .




 


P.S. dell'ultimo minuto: se mentre avete letto vi siete chiesti come mai Astra parli in rime, è perché nel gioco parla proprio così, quindi mi sono adattata. Non sono una poetessa, ma ho cerato di fare il meglio che potevo!

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Petali nella tempesta ***



..

17 . Petali nella tempesta


 

   Il cielo era chiaro, colorato di quel celeste acquerellato come delle illustrazioni in un libro per bambini. Le nuvole erano soffici, piccole, bianche come latte. Disteso su un prato, sentiva le amorevoli mani del vento accarezzargli il viso. Sorrideva e poi chiudeva gli occhi, si lasciava inebriare dal profumo di miele e di fiori che aleggiava nell’aria.
   «Che pace...» sussurrò.
   Avvertì qualcosa posarsi sulle sue labbra e, dischiudendo la bocca, assaporò un che di dolce fra i denti. Un petalo. Lo ingoiò e rise. Poi sentì tante piccole piume cadere sul suo corpo, gentili e leggere. Si mise a sedere e mentre apriva gli occhi si accorse di essere ricoperto da miriadi di petali colorati. La sua attenzione venne catturata da una risata argentina, simile al cinguettio di un Fletchling. Si voltò e al proprio fianco vide un bambino. Sorrideva, e tra le dita stringeva un giglio bianchissimo e rigoglioso.
   «Adesso sei un fiore!» esclamò.
   L’uomo si osservò e si fece sfuggire un piccolo riso. Non ne capì il perché, ma a venir chiamato in quel modo sentì come una sensazione di nostalgia appesantirsi sul petto.
   «Come ti chiami?» chiese al bambino. Tuttavia non ottenne risposta.
   «Non lo ricordo», scosse la testa e i ciuffi di capelli si mossero assieme a lui «So di saperlo, ma non lo ricordo».
   L’altro lo guardò incuriosito. Non si ricordava il proprio nome? Era piuttosto strano.
   «E tu come ti chiami?» stavolta fu il bambino a domandarlo a lui.
   «Platan», rispose.
   «Lo dici con così tanta sicurezza, come se fossi più che certo di ciò che sei. T’invidio, sai?».
   «Oh, ma c’è voluto tanto tempo per diventare ciò che sono adesso...» precisò «È normale che tu ora abbia dei dubbi. È successo anche a me, molti anni fa. Ma crescerai e alla fine ti lascerai tutto alle spalle».
   Si sdraiarono di nuovo sull’erba, osservando il cielo e riconoscendo oggetti e figure nei contorni delle nuvole candide. Il profumo del giglio era particolarmente intenso e Platan si sentiva al sicuro immerso in quell’odore.
   «E sei felice?» domandò a un tratto il bambino «Sei felice di quello che sei adesso?».
   Avrebbe voluto dire di sì: chi non sarebbe stato felice in quella pace, in quella serenità? Ma non poté farlo. Cominciò a sentire una strana pressione nella testa e un timore remoto e sopito nel cuore risvegliarsi lentamente. Era stato lui a causare quella frattura? O qualche altro?
 
 
   Aprì gli occhi e si ritrovò nel suo studio. Il cielo azzurro era svanito, coperto dai muri, mentre i morbidi ciuffi del prato erano stati rimpiazzati da una vecchia poltrona consumata, abbastanza scomoda. Forse era ora di comprarne una nuova, si disse. Si stropicciò la faccia e sbadigliò, allungò la mano sulla scrivania e a tentoni cercò l’orologio spostando qualche pila di fogli e un mucchio di penne. L’una e mezza di notte. La vista dell’orario bastò a farlo sbadigliare una seconda volta. Si mise in piedi e si stiracchiò mentre cercava di ricordare su cosa stava lavorando. Non era la prima volta che si addormentava nel mezzo della stesura di una relazione. In particolare però la pressione subita negli ultimi giorni lo aveva svigorito molto più rispetto al solito. Era stanco. Decise di tornare a casa a riposarsi e che avrebbe finito il lavoro l’indomani, perciò si affrettò a raccogliere i propri oggetti e ad infilarli nella borsa alla rinfusa. Il Laboratorio era vuoto, Sina e Dexio se n’erano andati da un pezzo, così come anche gli altri suoi collaboratori. Prima di uscire fece un giro nella serra per assicurarsi che i Pokémon stessero dormendo tranquillamente, poi se ne andò.
   Per strada non c’era un’anima. Soffiava un venticello fresco: stava arrivando la bella stagione, ma di notte faceva ancora freddo. Ogni tanto accanto al marciapiede passava qualche macchina con i finestrini aperti e la musica a palla che lo svegliava un po’ dalla sua sonnolenza e gli ricordava di fare attenzione: Luminopoli, come tutte le grandi città, era sì bella, ma aveva anche la brutta fama di diventare pericolosa dopo una certa ora.
   Mentre rincasava incontrò un signore che abitava qualche piano sopra di lui, un poliziotto che faceva la guardia notturna al Museo, che si offrì di tenergli aperto il portone.
   «Giornata faticosa, Professore?» gli chiese notando il suo viso stanco.
   «Abbastanza. Spero che lei ne abbia passata una migliore».
   «È un periodo difficile un po’ per tutti. Con il Team Flare in giro non si può abbassare la guardia neanche un attimo».
   «Già», disse distrattamente. Quelle due parole messe insieme non gli facevano più tanto effetto.
   «Mi scusi, ma adesso devo proprio salutarla. Buona serata».
   «Anche a lei».
   Salì al terzo piano e rovistò nelle varie tasche in cerca delle chiavi. Che le avesse lasciate nel camice per la stanchezza? Sospirò. Aprì la borsa, la lasciò a terra e dispiegò il camice in aria, affondando le mani nelle tasche grandi. Non c’erano, neanche in quelle piccole. Allora tirò fuori tutto il contenuto della borsa, ma niente, delle chiavi non c’era traccia.
   «Dio, ma dove le ho messe?» bisbigliò poggiando la schiena sulla porta e stropicciandosi un occhio, innervosito ma troppo stanco per poter dare sfogo a una vera reazione di irritazione. Desiderava soltanto buttarsi a letto e dormire come gli Snorlax che di tanto in tanto si addormentano in mezzo ai Percorsi. E pure lui in quel momento non disdegnò l’idea di sdraiarsi di fronte alla porta di casa e farsi un bel sonno sul pianerottolo. Ma no, non poteva, lui era il Professor Platan, aveva una reputazione da salvaguardare, soprattutto in quel momento in cui l’attenzione di tutti era posta sulla Megaevoluzione e sulle sue ultime scoperte.
   Chiuse gli occhi e cercò di ricordare. Le aveva lasciate sulla scrivania del Laboratorio? No, aveva controllato ed era sicuro che non ci fossero. In qualche altra stanza? Poco probabile. Forse gli erano cadute nella serra? O per strada? Sennò cosa aveva fatto prima? La sera precedente aveva dormito da Elisio, avevano passato la notte insieme. La mattina si era svegliato di soprassalto, stava facendo tardi a lavoro. Aveva raccattato i vestiti sparsi sul pavimento e li aveva indossati in fretta. Poi era andato in cucina, aveva preso al volo una fetta di pane tostato mentre si stava allacciando la cinta dei pantaloni, aveva bevuto un sorso di caffè e poi si era messo a controllare che non si fosse dimenticato nulla, poggiando sul tavolo tutto il contenuto delle tasche e divorando un’altra fetta di pane.
   «Platan, rallenta. Ti sentirai male, così», lo aveva rimproverato Elisio, smettendo di leggere il giornale.
   «Scusa, ma sono in mega ritardo!».
   Poi aveva ripreso tutto quanto e si era chinato su di lui per dargli un bacio sulla bocca al sapore di caffè. Era corso via tutto di fretta e...
   «Non è possibile. Non ci credo», si diede una manata in fronte. Aveva lasciato le chiavi sul tavolo. Ecco perché Elisio per un po’ gli era andato dietro prima che se ne fosse andato.
   Si sentì in imbarazzo mentre prendeva l’Holovox e componeva il suo numero. Certe volte aveva la testa davvero per aria.
   Elisio stava dormendo. Sentì squillare l’Holovox e poco a poco si svegliò. Accese il lume sul comodino e sul display guardò chi fosse. Gli venne un po’ da ridere. Rispose e immediatamente di fronte a lui apparve il viso mortificato di Platan.
   «Ciao, cher...» disse quello, dispiacendosi di averlo svegliato a un’ora così tarda. Vederlo in pigiama e con i capelli arruffati lo faceva vergognare ancora di più. Non era la prima volta che lo chiamava in mezzo alla notte, ma stavolta si trattava di una cosa talmente sciocca che sentiva l’imbarazzo fin sulle punte dei capelli.
   «Alla fine te ne sei accorto, allora», disse Elisio con voce profonda e assonnata «Vengo a riportartele?».
   «No, non preoccuparti, ci pens...».
   «Vengo a riportartele», lo interruppe «Aspettami, faccio più in fretta che posso. A dopo».
   Elisio chiuse la chiamata, si vestì. Se doveva essere sincero, da una parte aveva sperato che sarebbe venuto a casa sua a riprendersele. Però erano le due di notte e sapeva quanto Platan di solito fosse stanco a quell’ora. Già era diventato un peso per lui, non voleva infierire ulteriormente. In realtà non glielo aveva mai detto, ma Elisio a poco a poco stava iniziando a temere che i sentimenti di Platan per lui stessero cambiando. E sapeva benissimo perché, nonostante facesse finta del contrario. La verità gli faceva male. Attraversando il salotto passò di fronte al balcone. Gli venne un’idea.
 
 
   Platan aspettava. Ormai era sveglio. Passava il tempo leggendo qualche articolo scientifico sul tablet. Poi gli era arrivata una mail del Professor Birch che lo invitava a trascorrere qualche giorno ad Hoenn, diceva di avere delle notizie interessanti da condividere con lui.
   “Mi dispiace, caro Birch,” gli stava rispondendo “ma come ben saprai in questo momento non ho proprio un attimo libero. In più sono rimasto fuori casa e sto aspettando che il mio fidanzat”.
   Ah, vero. Lui non lo sapeva.
   Cancellò tutto, l’asticella del testo tornò indietro fino a lasciare la pagina bianca. La noia faceva brutti scherzi. Lasciò perdere e accantonò la bozza nel cestino. Chiuse gli occhi. Pensò ad Hoenn, alle sue spiagge calde. C’era stato ad Hoenn, qualche anno addietro. Per un po’ aveva lavorato con il Professor Cosmi alle Cascate Meteora. Chissà come stava il Professor Cosmi, era parecchio tempo che non lo sentiva. Avrebbe dovuto scrivergli, un giorno di quelli, si disse.
   Ad un tratto sentì un profumo di fiori. Si era messo di nuovo a sognare? Aprì gli occhi e vide Elisio di fronte a lui che teneva un mazzo tra le dita. In mezzo ai petali aveva nascosto le chiavi. Platan prese il mazzo e annusò i fiori.
   «Sei il solito romanticone», gli disse con un sorriso.
   «Domani mattina saranno ancora più belli, quando si apriranno».
   «Non vedo l’ora di vederli. Vieni dentro, troviamogli un vaso».
   Li sistemarono in un vecchio vasetto di vetro che Platan aveva lasciato come soprammobile sulla cassettiera del salotto. Si misero a guardare i fiori, abbracciati l’uno all’altro. Elisio poggiava la testa dietro la sua, un po’ assonnato.
   «Li hai presi dal tuo balcone?» chiese Platan.
   «Mh mh».
   «Sono davvero belli anche così».
   «Ma il fiore più bello di tutti sei tu, Platan», sussurrò.
   Il Professore arrossì di poco. Gli piaceva quando Elisio gli faceva complimenti con quel tono della voce. Era molto intimo e passionale. Si girò verso di lui, gli accarezzò una guancia guardandolo negli occhi. Si spinse sulla punta dei piedi e lo baciò sulle labbra passando le mani fra i suoi capelli spettinati che nella fretta di venire non aveva più sistemato. Era durante quelle ore in bilico fra il giorno e la notte che, avvolti in mezzo a manifestazioni di affetto, riscoprivano di amarsi. Erano soli nel mondo ed eternamente felici, lontani dagli amari pensieri che li imprigionavano per il resto del tempo. Si allontanarono, volevano guardarsi. Elisio lambiva con un dito le labbra dell’altro, sussurrava tenere parole mentre i loro occhi si illanguidivano. Si piegò su di lui, gli prese il mento con le dita e lo condusse piano verso la sua bocca. E Platan pensò che non c’era nulla di meglio che finire fra le sue braccia dopo una giornata intensa di lavoro. Si sentiva quasi gratificato, ripagato di tutte le fatiche. Spinse la testa sotto il suo mento e lo baciò sul collo.
   «Questo toglilo, però», disse sfilandogli di dosso il cappotto e gettandolo sul divano. Riprese a baciarlo mentre sentiva Elisio passare le mani sul suo corpo e inclinare la testa di lato, appagato dal tocco intangibile delle sue labbra. Le loro bocche si unirono un’altra volta, i loro fiati si mischiarono.
   «Portami a letto», sospirò Platan stringendosi a lui. Elisio eseguì.
   Andarono in camera attraversando abbracciati il minuscolo corridoio. L’appartamento di Platan non era molto grande, dato che di solito non ci trascorreva molte ore: era abbastanza per avere un posto dove mangiare, dormire e lavarsi. Per il resto andava bene il Laboratorio.
   Si sdraiarono sul letto e continuarono ad accarezzarsi. Tuttavia presto si fermarono, sopraffatti dalla stanchezza. Platan aprì un cassetto del comodino e prese il pigiama, si cambiò. Prima di ridistendersi si ricordò che doveva mettere a posto il camice. Fece il giro della stanza e tirò fuori una busta dalla cassettiera della scrivania, vi mise dentro l’indumento. Il giorno dopo lo avrebbe portato in lavanderia, aveva bisogno di una pulita. Mentre tornava a letto lo sguardo gli cadde per un attimo sulla finestra. Nel cielo vide qualche stella. Il suo viso si rabbuiò. “Pensa, ma stai zitto,” rifletté raggomitolandosi sul materasso dando le spalle a Elisio “stai zitto. Che quel che la bocca dice, prima o poi il cuore si abitua a credere. Zitto”. Il compagno passò una mano sul suo braccio e si strinse a lui.
   «Tu es silencieux, mon cher», disse: non era la prima volta in quel periodo che si faceva taciturno all’improvviso «Tout va bien?».
   «Je suis fatigué. C’est tout», ribadì.
   «Tu n’as pas l’air convaincu...».
   Spinse la testa contro la sua e sospirò. Platan non pareva aver voglia di rispondere. Elisio lo baciò sulla nuca, accarezzandogli lentamente l’addome con una mano.
   «Oh, principe senza terra, dove vaga il tuo cuore errante?» sussurrò attorcigliando le dita tra i suoi capelli per poi allontanarle «Io intendo ritrovarlo... E placare finalmente il tuo animo affranto...».
   «Che cos’era? Mi ricorda qualcosa», si stava sforzando di riportare alla memoria dove e quando avesse già sentito quelle parole.
   «È solo un antico canto che mi insegnarono da bambino. Sapevo anche la melodia una volta, ma ora non la ricordo più. Però, forse, se riuscissi a ritrovare il carillon...».
   «Sì, ma era diversa, mi pare».
   «Come per tutti i canti di tempi passati, esistono diverse versioni. Io ne conosco un paio».
   Platan si rigirò nel letto, gli poggiò un dito sulle labbra facendogli intendere che poteva bastare. Di canti su un principe senza terra in quel momento non gli importava poi molto. Chiuse gli occhi e sbadigliò.
   «Rimani qui?» gli chiese a voce bassa accucciandosi con la testa sul suo petto mentre si allungava su di lui in un abbraccio assonnato.
   «Sono troppo stanco per tornare a casa, non ho neanche la forza di alzarmi. Perciò, se posso approfittarne...».
   «Per quanto mi riguarda, puoi approfittarne sempre. È un periodo un po’ strano, questo, quindi se avessi voglia di farmi compagnia, non mi dispiacerebbe. A volte mi sento solo».
   «Platan, hai così tante persone al tuo fianco... Sina e Dexio, Diantha, Bulbasaur, Garchomp... E poi ci sono io».
   «E poi ci sei tu», ripeté.
   E per quanto tempo? Per quanto tempo ci sarai, ancora, Elisio?, gli avrebbe voluto chiedere. Scosse la testa e si impose di non pensarci. Il viso di Elisio si era lievemente incupito, si era accorto che stava avendo qualche dubbio in merito.
   «Platan, se hai qualcosa che senti il bisogno di dirmi, voglio che tu lo faccia», gli disse, improvvisamente si era fatto serio «Qualunque cosa, dalla più stupida alla più grave. Chiaro? Sono qui per te e voglio renderti felice».
   «Ma io sono felice, con te! Sono la persona più felice del mondo quando sto con te! Io... Io ti amo, Elisio. E non smetterò mai di farlo. Quello che provo per te non riuscirei mai a dirlo, perché non sono un poeta e con le parole non ci so fare. Quando si tratta di sentimenti, non ho mai trovato modo di esprimerli bene a voce. E se poi parliamo di te, allora è ancora più difficile, perché non ci riesco ad alta voce e nemmeno nella testa. Sei come...» si prese qualche secondo per pensarci, perché era difficile trovare un paragone adatto «Sei come una tempesta che sconvolge tutto. Ed è una sensazione bellissima sentire questo sconvolgimento dentro di me. È solo che...».
   Lo accarezzò sul viso. Elisio era rapito dalle sue parole e Platan vedeva quanto si stesse emozionando nel sentirle, nonostante il suo viso fosse tutt’altro che trasparente quando c’erano in ballo i sentimenti. Ormai aveva conosciuto come interpretare quell’espressione apparentemente indecifrabile che aveva sempre addosso. Riusciva a percepire qualche lieve piegamento accanto alla bocca, o sotto gli occhi, anche, oppure qualche volta le sue guance cambiavano tonalità in maniera impercettibile o il naso si arricciava. Erano tante piccole spie che Platan aveva imparato a riconoscere e che gli dicevano ciò che Elisio stava provando in quel momento. In realtà non era sempre stato così, ma le ultime circostanze lo avevano costretto ad accentuare ancora di più quella parte poco avvezza ad esternare le proprie emozioni, persino con l’uomo che amava. Platan si era adattato di conseguenza.
   «Questa settimana ho quattro congressi, un’intervista al Corriere di Luminopoli e mi avrebbero anche chiesto di partecipare ad un programma televisivo, ma ancora non ho risposto all’invito. Sono in una fase del mio percorso di Professore che non avrei mai immaginato di poter raggiungere. Almeno, non in questo modo. È stancante. Tutti mi guardano con ancora più insistenza di prima e si aspettano da me chissà quali cose... Io non voglio deluderli, ma so di non essere all’altezza delle loro aspettative...».
   Elisio prese un lembo della coperta e coprì entrambi con essa. Baciò Platan sulle labbra e poi sulle guance, lo strinse fra le braccia sussurrandogli qualcosa all’orecchio. Si addormentarono.
 
 
   «Questi fiori sono per te, Platan.» gli mise in grembo il bouquet e lo baciò sulla fronte. Mentre allontanava le mani gli rimase impigliato un giglio tra le dita. Platan provò a prenderlo, ma non voleva venire via. Il gambo si era attorcigliato al suo braccio. Lasciò andare il mazzo di fiori e allungò le mani verso quei petali bianchi. Desiderava solo quelli, tutti gli altri erano presto scomparsi dalla sua mente. Sentiva il profumo forte del giglio e impazziva. Tirava il fiore con tutta la forza, infossava le unghie nella corolla e tirava ancora. Il gambo era troppo robusto e non si sfilava. Avvicinò la bocca e con i denti cercò di spezzarlo, lo mordeva con i canini affilati, come una bestia affamata e impaziente di consumare il proprio pasto.
   «Elisio, dammelo», ringhiò. Elisio non rispondeva.
   Platan alzò la testa e rimase con la bocca aperta, necessitante d’aria. Ansimava e a tratti la vista gli si offuscava. Aveva i palmi delle mani sporchi di rosso. Il sangue scorreva lungo la lama della chiave che fuoriusciva dal suo petto e gocciolava sulle sue dita. L’oggetto l’aveva trapassato da una parte all’altra. Si aggrappò a Elisio, gli chiese aiuto. Ma anche lui sembrava soffrire. Pativa il dolore in silenzio. Il suo sguardo si era fatto vacuo e la pelle del viso era tirata. Spalancò gli occhi tremando e contorcendosi su sé stesso. Si stringeva la testa tra le mani mentre dagli occhi piangeva lacrime.
   Si fermò. Tutto era tornato calmo.
   Il cielo cominciò a oscurarsi e la sua pelle diventò bianca come quella di un cadavere.
 
   «Il sangue versato non sarà mai abbastanza per sanare il dolore».
 
   Gridò un urlo disumano. Da dietro di lui partì una tempesta di frecce che cercava di colpirlo, come se un intero esercito lo avesse preso di mira. Elisio urlava, urlava e si dimenava, come un’enorme fiera ormai in trappola dopo una lunga fuga. Platan guardava, aveva la nausea e voleva vomitare. Sussultò nel momento in cui una lama lo sfiorò, trapassando il corpo di Elisio. Aveva la schiena coperta di frecce e si piegava, sopraffatto dal loro peso. Il giglio nelle sue mani si era seccato ed era tutto imbrattato di schizzi.
   I loro sguardi si vennero in contro per l’ultima volta.
   Elisio si accanì su di lui gettandosi sul suo viso, mordendogli le labbra con un morso che sapeva di bacio. E Platan soffocò.
 
 
   Si svegliò tutto accaldato, il corpo ancora intorpidito, ma che desiderava muoversi in maniera irrefrenabile e disperata per correre via. Elisio dormiva con la testa poggiata sul suo petto, il viso rilassato in un’espressione addolcita rispetto al suo solito. Platan adorava fermarsi a guardarlo nel sonno, talmente era delicato e dolce il suo sorriso, ma in quel momento non fece altro che provare repulsione e inorridimento nel trovarsi al suo fianco, nel fatto che i loro corpi fossero così vicini fino a urtarsi, nel fatto che qualche minuto o ora prima avesse desiderato toccarlo e che lui stesso lo toccasse, con quelle mani, con quella bocca sottile con cui lo aveva morso, uccidendolo. Non appena riprese il controllo degli arti, si alzò di corsa dal letto, doveva bere, doveva andare in bagno, doveva girare per casa così a caso, stare per un po’ lontano da Elisio e metabolizzare quello che aveva appena sognato. Percorse la stanza, ma si fermò di scatto davanti alla finestra quando i suoi piedi vennero toccati dalla luce notturna proveniente da fuori e che si stendeva sul pavimento. Si avvicinò al vetro, guardò il cielo. Quante stelle...
   Era tornato bambino, lui che bambino non lo era più. Si mise a contare ogni punto luminoso come aveva fatto da piccolo nelle notti di incubi.
   «Mon petit fleur...» per un attimo gli sembrò di sentire la voce della madre nelle orecchie, e si trovava fra le sue braccia, seduto sulle sue gambe e la testa rintanata in mezzo al suo seno mentre cercava conforto.
   «Maledette», sibilò, ritornando al presente «Maledette tutte quante».
   Guardò Elisio e adesso esplodeva di rabbia e frustrazione. Perché il destino doveva essere quello? Perché? Spesso di notte sognava ancora quella visione assurda vista mesi addietro e immagini raccapriccianti come quella di poco prima. Una volta era lui stesso a morire, altre volte i suoi cari. E poi Elisio. Chiuse la tenda e rimase al buio, nascondendo le stelle maledette che lo avevano ingannato. Andò in cucina e riempì un bicchiere d’acqua, si sedette sul divano del salotto attaccato ad essa.
   Gli era passata la sete.
   Osservò i mobili che aveva di fronte: un tavolo, un mobiletto su cui c’era il vecchio televisore che a volte si rifiutava di accendersi. Passò gli occhi sulla libreria, osservò ogni libro e per ognuno cercò di ricordarsi di cosa parlavano e di quando li aveva letti. Poi si girò e incontrò il vaso in cui aveva messo i fiori che Elisio gli aveva portato.
   Lui, pensò con rammarico, non gli aveva mai regalato dei fiori.
   Se voleva donargli qualcosa, cercava sempre la cosa più sofisticata e lussuosa che poteva permettersi con ciò che guadagnava – negli ultimi mesi tuttavia, a causa dell’incidente con Golurk, almeno metà del suo stipendio se ne era andato via, e non poteva più fargli quei bei regali. Di solito si trattava di un orologio antico, o di una boccetta d’acqua di colonia comprata in una città particolare dove andava per lavoro, una cravatta, dei gemelli...
 
   Un mazzo di fiori era così semplice.
 
   Semplice come avrebbe dovuto essere il loro amore.
 
   Ma il legame che avevano era tutt’altro che semplice.
 
   Sentì dall’altra stanza Elisio che lo chiamava. Lasciò il bicchiere in salotto, tornò in camera e si sedette sul bordo del letto. L’uomo parlava nel sonno, ripeteva il suo nome. Platan gli accarezzò il viso con la mano, lo svegliò con delicatezza.
   «Platan!» si tirò a sedere e strinse le mani sulle sue braccia, lo guardò ansimante «Sei qui... Sei ancora qui...».
   Tremava, Elisio. Involontariamente per qualche secondo ruppe lo scudo che proteggeva le sue espressioni. Posò la testa nell’incavo fra il collo e la spalla dell’amante e chiuse gli occhi, respirò profondamente.
   «Sei ancora qui», disse un’ultima volta, e si calmò.
 
   Entrambi avevano e vivevano nello stesso identico incubo.
 
 
   Il giorno successivo si svegliarono più o meno nello stesso momento, abbastanza presto. Platan doveva prepararsi per andare ad uno di quei congressi, quindi si mise camicia bianca, pantaloni neri e una delle giacche più eleganti che aveva nell’armadio. Si pettinò con più cura del solito: a quel convegno avrebbero partecipato scienziati provenienti da tutto il mondo e doveva presentarsi bene. Si chiese se anche il Professor Rowan sarebbe venuto. Controllò di aver messo tutti i fascicoli e i documenti che gli sarebbero serviti quel giorno e raggiunse Elisio in salotto.
   «Possiamo andare», disse.
   Vide il compagno intento a cambiare l’acqua del vaso. Com’erano belli, quei fiori. Profumavano molto più della notte precedente. Era felice che glieli avesse portati.
   Accompagnò Elisio a casa con la macchina, aspettò che si sistemasse pure lui per la giornata. Andarono a fare colazione insieme al Caffè, ancora chiuso in realtà, ma ormai Platan era diventato cliente abituale in quegli orari irregolari.
   Si sedettero insieme ad un tavolo, accompagnati da due tazze di cappuccino e due cornetti appena sfornati.
   «È da un po’ che non vengo qui a mangiare qualcosa con calma», disse Platan intingendo un pezzo di croissant nel caffelatte. Girò la testa verso il mobile che ora, conseguentemente a quella sua irruzione, nascondeva l’accesso ai Laboratori, poi la alzò sul soffitto.
   «Xante non c’è», lo rassicurò Elisio «Puoi stare tranquillo».
   Fra i due non correva buon sangue e il capo del Team Flare lo sapeva bene.
   Platan però scosse la testa: non si trattava di quello.
   Era nel covo di quei terroristi, eppure questo pensiero non gli metteva più la minima inquietudine. Forse si era abituato all’idea? Si era abituato all’idea che anche Elisio stesse diventando un criminale? Poteva essere. Più che essersi abituato probabilmente si era costretto ad accettare la realtà dei fatti. Quella visione continuava a tormentarlo, ma del futuro non poteva dare certo colpa a Elisio. Aveva lungamente riflettuto in quelle settimane frenetiche su quel punto. Ogni membro del gruppo, alla fine, aveva un valido motivo per aderire alla causa. Lo stesso Elisio, nonostante inizialmente non lo avesse capito, combatteva per un principio ben chiaro. Voleva un mondo perfetto, un mondo senza disparità, bello, in cui la ricchezza sarebbe stata alla portata di tutti, un mondo senza odio, un mondo senza violenza perché tutti avrebbero avuto ciò che volevano e non avrebbero avuto bisogno di guerre per ottenere ciò che gli mancava. Invece nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile in un mondo come quello in cui vivevano ora: erano in troppi e quando si è in troppi c’è sempre qualcosa che, rimasta unica, non si può spartire e quindi ce la si deve accaparrare con la forza e con il sangue. Elisio tutto questo lo vedeva. Lo sentiva sulla sua stessa pelle. E dentro fremeva dalla rabbia. Quindi lui, che era di nobile stirpe, voleva battersi in questa impresa senza eguali e portare alla gente una soluzione, una speranza per il futuro.
   In un mondo come il loro, chi mai sarebbe riuscito a sperare, dopotutto?
   Platan adesso lo capiva, vedeva i tasselli tutti riuniti e infilati nei punti giusti a formare uno schema preciso.
   Dell’avidità dell’uomo ne aveva avuto esperienza nel proprio campo diverse volte, ma soltanto in quell’ultimo periodo ci aveva fatto mente locale. Non era mai stato molto di spicco nel corso della sua vita: soltanto nel momento in cui era diventato Professore aveva avuto modo di dire un po’ la sua. E ora che aveva fatto quelle scoperte, ora che stava riuscendo a farsi valere per le proprie capacità, i suoi colleghi lo invidiavano, avevano acceso con lui delle dispute feroci nonostante in precedenza fossero stati in buoni rapporti. In passato si erano sostenuti a vicenda, li aveva aiutati nelle loro ricerche e si era tirato da parte quando era venuto il momento di prendersi il merito. Adesso li ritrovava nel proprio Laboratorio, che per ringraziarlo gli aprivano i cassetti e gli rubavano schede e documenti di importanza inestimabile. La biologia dei Pokémon era tutto un circolo vizioso in cui la concorrenza fra scienziati era all’ordine del giorno, spietatissima, e i vecchi valori che gli erano stati tramandati dal Professor Rowan e da altri non valevano più neanche un soldo. Oh, e i soldi, appunto, quanti ne giravano di continuo, sia in chiaro che in nero, un enorme oceano di banconote e di corruzione! Gli faceva male vedere il suo mondo ridotto in quel modo. Erano in troppi e per farsi vedere dovevano rubare agli altri e mostrare di essere i migliori, anziché condividere e collaborare. Ogni volta che sul giornale leggeva di queste storie, si esentava dall’esprimere la propria opinione.
   Quindi capiva Elisio, lo capiva perfettamente. Ma capiva anche che quello era soltanto un modo di vedere le cose e che la situazione poteva essere studiata e migliorata anche in altre maniere. E questo invece l’altro faticava a comprenderlo. Era rimasto talmente colpito dall’egoismo degli uomini che altre soluzioni non poteva vederle. Era accecato dal proprio orgoglio. Platan avrebbe voluto aiutarlo ad aprire gli occhi, a mettere da parte il suo ego. Ma non avrebbe mai avuto occasione di dirglielo. Il destino ormai era segnato.
   Da dietro una fessura del mobile, Akebia li osservava silenziosamente. Martynia uscì dall’ascensore e la guardò incuriosita dalla cima della scalinata. Scese e venendole dietro chiese: «Che cosa stai facendo, Akebia?».
   La ragazza si girò sobbalzando, come colta nel sacco, e vide riflessa la propria figura negli occhi azzurro elettrico di quella.
   «Nulla!» rispose, mettendosi davanti alla fessura per coprirla.
   «Nulla? A me non sembra proprio! Avanti, fammi vedere chi c’è!» la stuzzicò e spostandola di lato guardò anche lei, ignorando le proteste della compagna «Ah, ma quello è il capo! Ed è con il Professor Platan?».
   «Sì. Contenta, adesso?».
   «Akebia, non è che ti piace uno di loro due? Quando vengono, stai sempre a guardarli...».
   Akebia scosse la testa con forza e cercò di ribattere spiegando le proprie ragioni, anche se non era sicura che avrebbe capito: «Assolutamente no! È solo che, quando sono insieme, Elisio sembra così felice... Io sono stata la prima del gruppo ad essere presa e lavoro con lui da molto tempo prima che venisse fondato il Team Flare. Gli sono grata per l’aiuto che mi ha dato e mi sono affezionata a lui, tutto qui. Vederlo felice mi rende contenta...».
   Mentre l’aveva detto, aveva riflettuto con talmente tanta passione sui ricordi delle circostanze che li avevano portati a conoscersi che gli occhi arancioni avevano preso a brillarle, sfiorati da un velo di lacrime. Martynia scoppiò a ridere.
   Platan si pulì la bocca con un tovagliolo e si alzò, si mise la borsa a tracolla: «È ora di andare, tra un’ora ho già il primo intervento da fare», disse.
   Elisio lo accompagnò alla porta e prima che se ne andasse gli sistemò meglio la cravatta.
   «Buona giornata», gli disse con ancora le dita sul nodo.
   «Anche a te», sorrise e si spinse sulle punte dei piedi per dargli un bacio, a cui Elisio rispose con estrema delicatezza, diversamente da come aveva fatto nel sogno. Non era ancora diventato una bestia, si disse Platan, e di questo era sollevato. C’era ancora tempo, forse, per vivere tranquilli. Si lasciarono e il Professore uscì dalla caffetteria. Intanto che andava a prendere la macchina s’incrociò con Xante e i due si scambiarono uno sguardo eccessivamente ostile. Poi ripresero le proprie strade.
   «Almeno dimmi che ha deciso di unirsi a noi», disse acidamente lo scienziato corpulento sbattendo le porte della caffetteria e facendo il suo ingresso.
   «No. Non gliel’ho neanche chiesto», ribatté Elisio sparecchiando il tavolo dove avevano appena mangiato «Ti pregherei di essere più gentile nei modi. Le porte non crescono sugli alberi, credo tu lo sappia».
   «Ovviamente», lo fulminò con lo sguardo per l’offesa subita, tuttavia Elisio lo ignorò «Ma se tu non continuassi a sperperare denaro in giro per ripagare i danni del Laboratorio Pokémon, magari non dovremmo nemmeno preoccuparci di qualche eventuale guasto ai materiali».
   «Tu comincia con il non romperli, allora. Per il resto si vedrà. Ma cos’è questo baccano?».
   Si girarono verso l’entrata dei Laboratori. Elisio scostò il mobile e vide Martynia e Akebia nel mezzo di una discussione.
   «Cosa sta succedendo?» chiese severamente.
   «Capo!» esclamarono le due, spaventate: non si erano accorte di essere state scoperte.
   «Andate a radunare tutti nella sala principale. Ho qualcosa da dirvi», ordinò.
   «Subito!» dissero di nuovo insieme. Akebia gli rivolse un’occhiata imbarazzata e se ne andò, trascinata per un braccio da Martynia.
   «Se cominciano a formarsi delle fratture nel gruppo, stiamo a cavallo».
   «Invece di contestare ogni cosa, vedi di essere d’aiuto. Va’ a chiamare gli altri e diffondi la voce. Loro due avranno avuto un piccolo battibecco, nulla di grave. Si chiariranno».
   Xante lo guardò di sbieco. Elisio lì dentro pareva avere il controllo persino sui rapporti fra i suoi dipendenti, quasi.
   «Vai», ripeté il capo nervosamente: perdere tempo non gli piaceva.
 
 
   Tutte le reclute si erano riunite nella sala principale dei Laboratori. Bromelia, Cytisia, Martynia e Akebia sedevano in prima fila assieme a Xante, dietro c’erano gli Ufficiali e a seguire le varie Reclute. Elisio salì sul palco e controllò che tutti fossero presenti.
   «Malva?» chiese, vedendo il posto accanto a Xante e a lei riservato vuoto.
   «Aveva da fare alla Lega Pokémon, stamattina. Non è potuta venire», spiegò l’uomo.
   «D’accordo. Più tardi riferiscile».
   Si mise al centro del palco e cominciò a parlare seriamente:
   «Sono infine riuscito a localizzare il punto preciso in cui si trova l’Arma Suprema. Come avevamo calcolato in precedenza, è nelle vicinanze di Cromleburgo, e più esattamente sotto di essa, al centro. C’è bisogno che alcune truppe vengano con me ad esplorare i cunicoli che si diramano dal Quartier Generale in costruzione. Chi si offre?».
   Alcune Reclute alzarono la mano, determinate a seguire il loro Capo. Altri ci pensarono qualche minuto, ma infine anche loro si decisero ad accettare.
   «Io ho una domanda», disse una ragazza.
   «Ti ascolto».
   «Il fatto che l’Arma Suprema si trovi a Cromleburgo potrebbe essere un indizio riguardo ai monoliti che sono attorno alla città? Potrebbero davvero essere loro la chiave di alimentazione dell’Arma?».
   «È possibile, ma ancora non ne siamo certi. Ho bisogno di un secondo gruppo che presieda lungo la Strada dei Menhir e che recuperi informazioni sulla natura di quelle pietre. Qualche volontario?».
   Altre Reclute diedero la propria disponibilità.
   «Molto bene», annuì notando il corposo numero di persone che si erano offerte di partecipare alla missione, quindi si rivolse a coloro che erano rimasti con la mano abbassata «Voialtri allora rimarrete qui a controllare la situazione dai computer. Xante, tu gestirai questo gruppo. Voi quattro, invece,» guardò le scienziate «verrete con noi. Una volta arrivati lì, vedremo se separarci o meno».
   «Mi scusi, un’ultima domanda», la ragazza di prima aveva di nuovo chiesto di avere la parola «È più riuscito ad ottenere quella relazione del Professor Platan? Se potessimo carpirne qualche informazione, partiremmo già avvantaggiati, non crede anche lei?».
   Elisio rimase a pensare in silenzio alla risposta da dare. Ovviamente non aveva neanche provato a farsela dare, né a cercarla di nascosto. Non poteva fare una cosa del genere nei suoi confronti nonostante in realtà inizialmente ci avesse pensato – e se ne fosse subito pentito. No, era fuori discussione. Xante lo scrutava, attendendo le sue parole.
   «Vedrò ciò che posso fare», rispose Elisio facendo così credere che si sarebbe attivato in qualche modo «Altre domande?».
   Nessuno aveva obiezioni o commenti da fare. Si sentì un leggero brusio e qualche testa rossa si guardava intorno per vedere se vi fosse qualcuno che volesse parlare. Poi tornò il silenzio.
   «D’accordo. La riunione è finita, potete tornare alle vostre occupazioni. Grazie a tutti».
   Mentre la sala si svuotava, Elisio andò incontro ad Akebia.
   «Raggiungimi nella mia stanza. Devo parlarti», le disse.
 
 
   Si fermò davanti alla porta chiusa della stanza del capo. Senza pensarci troppo bussò ed aspettò che quello da dentro le desse il permesso di entrare. Fece i suoi primi passi all’interno con un po’ d’indecisione: probabilmente voleva parlarle della discussione che aveva avuto con Martynia e il solo pensiero di dovergli spiegare che cosa era successo la metteva in imbarazzo. Elisio alzò la testa dal solito libro, «Il canto fraterno aprirà l'accesso,» stava leggendo ad alta voce, vide la ragazza e la invitò ad avvicinarsi.
   «Chiudi la porta, per favore», le chiese gentilmente.
   «Capo, io...»
   L’uomo però la bloccò. Prese un pacchetto e glielo mise fra le mani.
   «So che qualche giorno fa era il tuo compleanno. Mi dispiace non averti potuto fare gli auguri in tempo, perciò vorrei rimediare. Ci conosciamo da molti anni, quindi sai quanto per me sia importante», le disse.
 Akebia lo osservò interdetta. Non pensava che l’avesse chiamata per quello. Strinse il pacchetto con le dita e ridacchiò.
   «Sul serio, Capo? Tutto questo trambusto per un compleanno mancato?».
   «Vorrei che tu lo aprissi».
 Lei lo guardò di nuovo con uno sguardo un po’ incredulo. Senza farselo ripetere, aprì il pacco e dentro vi trovò un paio di calze gialle. Alzò la testa e rivolse a Elisio un’occhiata commossa. A quell’uomo non sfuggiva mai nulla, pensò, ricordava sempre tutto. Nonostante potesse apparire severo, in realtà aveva un gran cuore.
   «Ricordo che la tua casa era piena di ranuncoli gialli, perciò ho pensato che questo colore ti piacesse. Sono per la tua divisa», spiegò Elisio.
   «Tu non sai che significato abbiano per me», disse lei con le lacrime agli occhi «Grazie».
   Si girò dal lato opposto per non farsi vedere. L’uomo le poggiò una mano sulla spalla.
   Ora bisognava ritornare nei propri ruoli.
   «Xante prima mi ha fatto notare l’incrinatura fra te e Martynia», le disse.
   «Ah, posso spiegare!» esclamò lei voltandosi un’altra volta, pur non avendo la voglia di farlo.
   «No, non c’è bisogno che tu mi dica cosa è successo. Vorrei soltanto chiederti di mantenere un buon clima fra di voi. Abbiamo bisogno di essere uniti e ogni screzio potrebbe essere dannoso per la riuscita dei nostri piani. Martynia ha un carattere un po’ arrogante, ma è una ragazza intelligente: è per questo che l’ho scelta. Cerca di sopportarla. Tu sei una persona solare, e so che non ti lascerai infastidire da qualche frase pungente detta da lei, vero?».
   «Va bene, Elisio, ho capito».
   L’uomo le rivolse un’occhiata grata. La conosceva da parecchio tempo e in lei riponeva una grande fiducia. Stava anche pensando di metterla a capo di una delle missioni successive e avrebbe voluto dirglielo. Ma non lo fece: avrebbe rischiato di far aumentare i divari fra le ragazze e si sarebbe potuta montare la testa. Bisognava essere cauti.
   «Stai facendo un buon lavoro, ultimamente», le disse invece «Mantieniti su questo livello».
   «Cercherò di fare del mio meglio!».
 
 
   «Arrivederci!» Platan si avviava a tornare a casa dopo l’ennesimo congresso, salutando i colleghi e uscendo dall’albergo in cui aveva avuto luogo. Quattro convegni in una settimana: alla fine ce l’aveva fatta. Comprensibilmente, quindi, era stanco morto. Prima di uscire aveva preso un caffè, ma la stanchezza era davvero tanta. Gli faceva un po’ male la testa. Quel giorno neanche era andato con la macchina dato che il posto si trovava nelle vicinanze. Adesso stava avendo qualche ripensamento al riguardo e si malediceva per non averci riflettuto meglio in mattinata. Sentì qualcuno che lo chiamava e alzò la testa: davanti a lui, Elisio lo stava aspettando al volante della sua automobile.
   «Tesoro!» esclamò Platan coprendosi subito la bocca e guardandosi attorno imbarazzato. Fortunatamente non c’era nessuno.
   «Serve un passaggio?».
   «Beh, in effetti!».
   «Sali su, ti riporto io».
 
 
   Platan aveva bisogno di tornare in Laboratorio, perciò passarono lì. Si sedettero sul divano della stanza solitamente adibita alle pause, quella con la cucinetta dove si poteva preparare il caffè e di cui il Professore abusava per questo motivo.
   «Che giornata!» sospirò l’uomo posando a terra la borsa. Si strinse fra le braccia di Elisio e chiuse gli occhi.
   «Grazie per essere venuto a prendermi».
   «Non c’è problema».
   Si accarezzarono le mani e rimasero a guardarsi negli occhi per lunghi secondi. No, Elisio era ancora Elisio, si disse Platan. I suoi occhi erano chiari e ancora non vi vedeva il rancore disperato che vi dimorava invece nei suoi incubi. Quanto gli doleva, però, sapere che quell’odio e quella rabbia lo avrebbero consumato un poco alla volta e reso spietato, un mostro. Di notte piangeva, di tanto in tanto. Lo assaliva una temporanea paura nei suoi confronti. Eppure riusciva a calmarsi soltanto sapendo che era al suo fianco. La loro promessa non contava più nulla, perciò non avrebbero mai raggiunto quella pace che desideravano. Ciò per cui aveva vissuto ogni istante, ciò per cui aveva viaggiato, ciò per cui lo aveva cercato tutti quegli anni non esisteva più. Gli bastava la magra consolazione di sapere che ancora non era giunto il tramonto, che ancora si poteva vivere serenamente qualche esperienza insieme senza aver paura del futuro.
   Forse.
   Allungò una mano sul suo viso e lo accarezzò su una guancia, a lungo e dolcemente. Bisognava accontentarsi del presente e viverlo pienamente.
   «Platan, senti,» Elisio si ricordò della richiesta che gli aveva fatto quella Recluta qualche giorno prima. Forse un tentativo poteva farlo, magari prendendo l’argomento alla larga e con qualche domanda indiretta.
   «Sei bellissimo, Elisio...» sussurrò il Professore, perso nelle sue riflessioni e nella piacevolezza di quel momento. Aveva sentito il bisogno di dirglielo, perché era quello che stava pensando in quell’istante esatto. Non bisognava sprecare il presente. Ogni secondo era prezioso e valeva la pena di essere vissuto.
   Elisio aprì gli occhi più del normale, le iridi azzurre fattesi improvvisamente più languide. No, no, non poteva. L’amore di Platan non si doveva tradirlo, né sfruttarlo. Era troppo prezioso. Se lo avesse perso non sarebbe più stato in grado di riaverlo. E se non per il marciume di quel mondo, allora sarebbe morto per mancanza di lui. Era la sua aria, era la sua vita, era il suo fiore. Insieme erano qualcosa di unico e perfetto. Inquinare quella perfezione sarebbe stato inaccettabile.
   «Ti va di andare a cena fuori, stasera?» gli chiese, scacciando via l’idea che aveva avuto pochi istanti prima «Magari in qualche posto tranquillo,».
   Platan lo baciò sulle labbra, facendogli intendere che era d’accordo. Elisio posò le braccia sulle sue spalle e chiudendo gli occhi mise tutta la passione che rivolgeva nei suoi confronti in quegli innumerevoli baci. E l’altro nuovamente pensò che finire nella sua bocca dopo mille fatiche era un piacere impareggiabile. Si baciarono piano, lentamente, in modo da non tralasciare nessuna sensazione che gli dava il toccarsi delle loro labbra. Si scostarono e ognuno sorrise a modo suo, con gli occhi o con la bocca. Si voltarono verso la porta e Platan ridacchiò: «Sì, Dexio, che cosa devi dirmi?».
 
 
   «Sei felice di quello che sei adesso?».
   Il vento spirò, e qualche petalo volteggiò nel cielo.
   «Non lo so. Però sarebbe meraviglioso se potessi dire con orgoglio di aver vissuto pienamente ogni singolo giorno».




***
Angolo del francese.
     * Tu es silencieuxmon cher. Tout va bien? = Sei silenzioso, mio caro. Va tutto bene? ;
     * Je suis fatigué. C’est tout = Sono stanco. Tutto qui ;
     * Tu n’as pas l’air convaincu... = "Non mi sembri molto convinto... ;
     * Mon petit fleur... = Mio piccolo fiore... .




 


PS. Per la questione delle calze, è perché ho notato che non sono simmetriche con le altre divise: se guardate le ragazze sono tutte vestite in modo incrociato, alcune con le spalline, altre con la gonna, altre con degli stivaletti particolari... Perché lei ha le calze diverse? Perché non le ha uguali a quelle di Cytisia? Dopotutto nero e rosso sono i colori dominanti, mentre il giallo è usato per particolari minori... Come mai?
 
Probabilmente si tratta molto più semplicemente di una scelta grafica, ma a me come al solito piace fantasticare, ahah! 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Di bianco, rosso e nero ***


Okay dai, stavolta non ci ho messo molto ad aggiornare!  Sto migliorando!  Ciao a tutti! Vi state godendo le vacanze?
Dunque. Sto cercando di esercitarmi nel descrivere le scene movimentate con tanti personaggi tutti insieme già da un po' di tempo, e questo capitolo non fa eccezione. Più avanti vedrete che cosa intendo. Devo dire che sono soddisfatta con quello che è venuto fuori, pensavo peggio, comunque - dato che non si sa mai - spero sia qualcosa di leggibile anche per voi!
Ad un certo punto si parla di un foglio elettronico, dato che io certe volte mentre scrivo devo inventarmi oggetti usciti dal nulla (vi ricordate gli occhiali di Xante? Ecco, esatto). Che cos'è un foglio elettronico? Praticamente sarebbe una lastra trasparente in cui, premendo un bottone ed inserendo una password particolare, si può accedere ad un contenuto che viene mostrato elettronicamente sulla superficie. A seconda della password messa si può accedere a pagine diverse, tutte memorizzate nel dispositivo. È un modo per mettere in sicurezza dei file importanti: se spingi il bottone e non sai la password, non c'è alcun modo che ti possa permettere di vedere cosa c'è dentro.
Sì, forse un giorno dovrei scrivere una storia di fantascienza con tutti questi macchinari strani. Ma non è ora il momento.
Oh, una precisazione: prima c'era un foglio di carta, ma ora è andato distrutto. Il foglio elettronico è più sicuro.
Bene, siccome credo che non vedrete l'ora che finisca di parlare per scoprire che cosa c'entra, vi lascio alla lettura!
Spero che vi piaccia.
Un abbraccio a tutti!
la vostra Persღ



..

18 . Di bianco, rosso e nero


 

   Bianco. Il colore ricopriva l'intera città; sui tetti, nei parchi, sulla strada, ogni cosa era toccata da quella chiarezza. Camminava sulla neve con passi sordi. Il ghiaccio di tanto in tanto scricchiolava sotto le sue scarpe. Faceva freddo, c'era vento. Fra poco sarebbe iniziata una tempesta di neve, riconobbe quei segnali che aveva imparato a comprendere anni e anni addietro. Qualche fiocco cominciava già a posarsi sul suo viso, sulle guance rosse per il gelo. La freddezza di quel posto non gli era mai piaciuta: era troppa per una persona dallo spirito così bruciante come il suo. Si era adattato, infine, ma non appena ne ebbe avuta l'occasione aveva abbandonato la città per recarsi altrove, in quei luoghi della regione che non aveva mai visto e in cui aveva pensato, forse illudendosi, di poter trovare la libertà che bramava.
   Aveva giurato che non sarebbe più ritornato, ma in quel momento si trattava di forza maggiore.
   Alzò la testa, e in lontananza, sulla cima di una delle colline più alte, vide, avvolti in un alone candido e quasi spettrale, i muri della villa. Si diresse in quel luogo senza esitare, mentre la neve iniziava a cadere sempre più copiosa. Il vento era forte. Fischiava.
   L'uomo giunse nei pressi di quello che una volta era stato solito chiamare il giardino dei ghiacci: quando l'inverno, infatti, portava con sé le gelate più vigorose, ogni pianta usava ghiacciarsi, i rami degli alberi divenivano bianchi e simili a punte di ghiaccio, mentre sul lago, ricco di Pokémon acquatici durante la bella stagione, era persino in grado di pattinare. Si voltò verso Sud per osservare la valle imbiancata. Centinaia di volte l'aveva scrutata dalla finestra che si trovava al centro della facciata, quella della sua stanza, col balconcino da cui spesso si era sporto. Da quell'altezza gli era sempre sembrato di sentirsi l'infelice re di un mondo che detestava.
   Le tende ora erano chiuse e l'aspetto delle finestre suggeriva che non venissero aperte da moltissimo tempo.
   Si apprestò sotto la tettoia, davanti al portone d'ingresso. Aveva le chiavi ancora con sé, nonostante fosse incerto riguardo al perché avesse deciso di tenerle. Entrò. Il silenzio lo accolse, così come l'odore della casa: era rimasto lo stesso. Sentiva il crepitio della legna che bruciava nel camino, di là, nel salotto. Poi ci fu lo struscio delle gambe di una poltrona e il suono di ferri poggiati su un tavolo. Passi.
   Una donna, vecchia, ma con il viso brillante di una bellezza presuntuosa non ancora svanita completamente, apparve sulla soglia della porta. Aveva un aspetto composto, di maniera, tipico delle donne della sua specie. Teneva la postura di una persona che era stata a lungo in attesa, come di chi sa che prima o poi, inevitabilmente, quelli che l'hanno lasciata ritornano da lei. Fissò lo sguardo sugli occhi freddi di lui, che in realtà erano anche i suoi. Bruciava ancora come lingue di fuoco, lui, mentre in lei aleggiava il gelo che imperversava di fuori. Forse era per questo che non erano mai riusciti a comprendersi. Le loro nature erano completamente differenti.
   Alzò il mento e continuò a scrutarlo. Era diventato alto, molto alto. E bello, bello di una bellezza nobile, proprio come un tempo lo era stata lei. Si guardarono in silenzio e basta.
   «Sono venuto a riprendere ciò che mi appartiene».
 
 
   «Esatto. Nel momento in cui un Pokémon megaevolve rilascia una quantità considerevole di energia. Tuttavia stiamo ancora studiando di che tipo di energia si tratti, al momento non abbiamo informazioni sufficienti per classificarla», Platan rispose all’intervistatore. Qualcuno nel pubblico alzò la mano e un tecnico gli procurò un microfono cosicché la sua domanda potesse essere sentita da tutti quanti.
   «Buongiorno, Professore. Intanto ci tenevo a congratularmi con lei per le sue ultime scoperte, sono un suo ammiratore e la seguo già da qualche anno. Penso che il suo contributo alla scienza dei Pokémon sia di grande importanza, nonostante inizialmente quasi nessuno le avesse dato credito».
   Platan sorrise, lusingato, e lo ringraziò.
   «Quello che volevo chiederle è questo. In altre interviste lei ha detto che per studiare questo tipo di energia occorre immagazzinarla con dei particolari macchinari presenti nel suo Laboratorio. Lei crede che sia possibile che, dopo esser stata raccolta, possa essere utilizzata in qualche modo? Potrebbe forse rappresentare qualche tipo di energia alternativa in grado di sostituire quelle che stanno venendo a mancare in questi ultimi anni?».
   «La tua è una proposta interessante. Sì, credo che potrebbe essere possibile, forse tra qualche decennio. Per ora siamo ancora agli inizi e non sappiamo quali opportunità ci riserverà la Megaevoluzione. Potrebbero aprirsi strade diverse che potrebbero dar vita ad un nuovo stile di vita in grado di migliorare ancora di più il rapporto tra uomini e Pokémon. Non escluderei questa possibilità».
   «Professor Platan,» una ragazza alzò la mano e intimò il tecnico di portarle il microfono «se la pone in questo modo, allora pensa che potrebbe presentarsi anche il rischio che quell’energia venga utilizzata con scopi di tutt’altro genere? Per esempio a fini bellici?».
   Platan tremò. Rifletté sulla risposta da dare.
   «Ovviamente non è possibile escludere anche l’altra faccia della medaglia», disse in tono cupo «Ma io faccio appello al senso comune degli uomini e mi affido ad esso. Io stesso mi opporrò, se dovesse presentarsene l’eventualità. Non permetterò mai che la Megaevoluzione, che l’energia connessa al legame indistruttibile fra noi esseri umani e Pokémon, simbolo della nostra unione e uguaglianza, venga utilizzata per distruggere tutto ciò che essa rappresenta».
   Erano passati pochi giorni dal viaggio di Elisio verso Fractalopoli. Due reclute del Team Flare, sedute sui sedili del jet in movimento, stavano guardando la televisione sul loro tablet.
   «Sai una cosa?» il ragazzo si rivolse alla compagna seduta accanto a lui «Io credo che il Professor Platan non si unirà mai a noi, nonostante so che il capo ci tenga molto».
   «È normale che il capo ci tenga», commentò quella «Insomma, dopotutto sono...».
   «Allora è vero?».
   «Sì. Non li hai visti?».
   «Io quel giorno non c’ero, me l’hanno raccontato gli altri».
   La ragazza annuì.
   «È così. Però penso anch’io che il Professore non accetterà mai di entrare nel Team. Un uomo così innamorato dei Pokémon...» accarezzò la Poké Ball in cui stava riposando la sua Mightyena e la osservò con malinconia «Per il bene di tutti, nessuno verrà risparmiato. È un sacrificio che siamo costretti a fare».
 
 
   Posò le dita sulla manovella posta lateralmente alla base rotonda del carillon e la girò. Lo strumento cominciò a produrre la sua musica e un poco alla volta Elisio ritornò a ricordare la melodia, come se quelle note in realtà avessero sempre vissuto dentro di lui e fino a quel momento si fossero nascoste da qualche parte fra le sue memorie in attesa di essere rivelate un’altra volta.
   «Oh, principe...» sussurrò osservando la statua di Floette posta sulla sommità. Pareva che fosse lo stesso Pokémon ad intonare la musica con la sua voce armoniosa e minuta. La melodia si arrestò bruscamente. Elisio allungò la mano per ricaricare lo strumento e sentire ancora quelle note che gli appartenevano, ma nel sollevare l’oggetto notò una scritta incisa sotto la base. Kalosiano antico, riconobbe; la stessa lingua in cui era stato scritto quel libro che teneva con gelosia fra i suoi averi. Mise l’indice sulle lettere e tradusse.
   «A te, mio giovane erede, che stai leggendo queste parole», lesse nella propria mente «Custodisci questo oggetto con cura. Esso nacque da un grande dolore. Non permettere che questo dolore risorga. Difendi l’entrata che queste note possono aprire e tieni lontano chiunque voglia riportare alla luce quell’arma che così tanta sofferenza causò. Mi dispiace, mio giovane erede, che tu debba farti carico di un fardello di tale peso... Il destino, purtroppo, non guarda in faccia nessuno. Ma non demordere. Sappi che io sarò sempre con te».
   Un messaggio da un antico avo. Elisio ci mise la mano sopra e sospirò. Gli rincresceva.
   Il suo Holovox trillò e il faccione bianco di Xante si materializzò nell’aria.
   «Dimmi, Xante».
   «Siete arrivati?».
   «Non ancora. Ci sono state delle turbolenze, perciò faremo qualche minuto di ritardo rispetto al previsto. Voi siete tutti pronti?».
   «Prontissimi. Aspettiamo un tuo comando».
   Elisio annuì e chiuse la chiamata. Si lasciò cadere sullo schienale del sedile e si massaggiò le tempie con le dita. Lanciò uno sguardo al carillon.
   «Dispiace anche a me. Ma purtroppo è l’unico modo in cui questo mondo potrà essere salvato».
   Qualcuno bussò alla porta del suo scompartimento, un ufficiale si affacciò dentro e si mise sull’attenti.
   «Stiamo per procedere con l’atterraggio», comunicò.
 
 
   Serena uscì dalla Palestra di Altoripoli osservando con soddisfazione la Medaglia appena ottenuta. Con questa facevano due. La ripose nell’astuccio con un grande sorriso sulle labbra al pensiero di aver appena dato del filo da torcere a Lino: giorno dopo giorno lei e la sua squadra si stavano rafforzando sempre di più e la vittoria dell’ultimo scontro ne era la prova. Mise i pattini ai piedi e tirandosi su guardò il mare all’orizzonte. C’era un bel sole, quel giorno, e l’acqua aveva un colorito cristallino e invitante. La Poké Ball di Frogadier attaccata alla cintura cominciò a scuotersi: anche lui pareva non disdegnare l’idea di andarsi a fare un bagno dopo la fatica appena compiuta. Serena ridacchiò: «Allora andiamo!», e dandosi una spinta con le gambe scese giù dalla rupe percorrendo la pista ciclabile. Stava passando lungo uno dei tratti in salita quando ad un certo punto sentì uno scampanellare sonoro di fronte a sé, accompagnato dal miagolio spaventato di uno Skitty.
   «Attenzione! Toglietevi tutti!» gridava una ragazza.
   Serena alzò la testa e nei pochi secondi che seguirono si ritrovò catapultata a terra, senza capire che cosa fosse accaduto. Ci fu un rumore di freni e poi un tonfo, come se qualcuno avesse buttato a terra una bicicletta.
   «Oh, cavolo! Scusami, scusami! Mi dispiace tantissimo! Stai bene?» disse la persona che era appena giunta.
   Serena alzò lo sguardo e accanto a sé vide due occhi verdi che la osservavano mortificati. A quella vista la ragazza sorrise enormemente.
   «Shana! Ah, che bello rivederti!».
   Nel momento in cui anche l'altra riconobbe l’amica, arrossì, e si scusò con maggiore enfasi, imbarazzatissima. La prese per le mani e l’aiutò a rimettersi in piedi.
   Si fermarono in un bar lungo la spiaggia a prendere un tè freddo mentre i loro Pokémon giocavano sulla sabbia. Il Torchic di Serena, per paura di bagnarsi, aveva preferito rimanere accanto alla sua padroncina. Appollaiato sul tavolo, ogni tanto si spingeva con il collo verso la cannuccia e cercava di bere qualche sorso della bevanda. Shana osservava il Pokémon con stupore, non avendo mai visto un Torchic in carne ed ossa prima di allora.
   «Il Professor Platan mi ha detto che Torchic è un Pokémon originario della regione di Hoenn e che non si può trovare altrove. Sai, è molto amico del Professor Birch», le raccontò portandosi la cannuccia alle labbra.
   «A dire il vero», spiegò Serena, «non l’ho catturato. L’ho ricevuto per posta da mio padre. È sempre in viaggio per lavoro, ogni tanto mi manda qualche pensierino».
   «Che fortuna!» esclamò la ragazza. Provò ad avvicinare le dita verso il pulcino e lo accarezzò piano sul petto ricoperto di piume. Era morbido ed emanava un lieve calore. Serena sorrise divertita nel vedergli avvampare le guance paffute: la ragazza dai lunghi capelli bruni doveva piacergli. Gli diede una grattatina in mezzo al ciuffo in cima alla testa e distolse lo sguardo per controllare gli altri Pokémon. Notò che il Fennekin di Shana si era evoluto in un bellissimo Braixen. In quel momento aveva ingaggiato uno scontro con il suo Frogadier. Estraeva il ramo che portava con sé dalla sua coda e lo utilizzava per parare gli attacchi Bollaraggio del ranocchio.
   «Come sta andando il tuo viaggio?» chiese la bionda.
   «Non male. Qualche giorno fa ho ottenuto la Medaglia Rupe qui ad Altoripoli. Però, Serena, se devo essere sincera, non sono molto sicura di voler continuare su questa strada», le confessò stringendo le dita attorno al bicchiere. Alzò lo sguardo e incastrò gli occhi verdi nei grigi di lei, come per cercare qualche cosa a cui aggrapparsi. Serena le strinse una mano per esserle di conforto.
   «Shana, non devi avere paura se ad un certo punto del tuo percorso ti si presentano dei dubbi. Tutti quanti ne abbiamo», le disse. La incitò a sorridere, ma le sue labbra carnose rimanevano serrate.
   «Sento come di star facendo un torto ai miei Pokémon. Di star tradendo la loro fiducia», sussurrò sollevando gli occhi verso Skitty, Braixen e Goomy che, immerso nell’acqua marina, cercava di non disidratarsi.
   Serena le rivolse un’occhiata accorata. Passò un mano sul folto piumaggio di Torchic e si chiese che cosa avrebbe fatto se si fosse trovata nella sua stessa situazione. Vide Pancham correre nella loro direzione e accucciarsi contro le sue gambe. Che cosa avrebbe fatto se un giorno si fosse trovata indecisa sul proprio volere, nella circostanza in cui per il suo bene avrebbe potuto tenere in considerazione anche una scelta contraria alla volontà dei suoi Pokémon? Guardò oltre la spiaggia e a Nord della città vide le pietre che componevano la Strada dei Menhir. Forse una passeggiata in un luogo meno afoso avrebbe fatto bene ad entrambe. Avrebbero parlato ancora un po’ prima di separarsi e riprendere le proprie strade. Serena avrebbe cercato di infondere fiducia a Shana. Essendo sua amica, voleva aiutarla a tutti i costi nel momento del bisogno.
 
 
   Il jet atterrò nei pressi del Percorso 10. Tutte le reclute scesero dal velivolo e si posizionarono in fila in attesa di ricevere gli ordini dal capo. Una volta che Elisio uscì allo scoperto, indicò il gruppo di persone che si era offerto di scendere fino al Quartier Generale e gli intimò di aggregarsi a lui.
   «Anche voi,» disse alle Scienziate «voglio che veniate con me tutt’e quattro».
   Prese l’Holovox e comunicò a Xante di dare il via all’operazione. Poi lo ripose in tasca e fece cenno di andare. Aveva studiato a lungo le carte, ricordava la strada da percorrere fin nei minimi dettagli. Akebia riconobbe quella parte calcolatrice del suo carattere: non conosceva altre persone dotate di una precisione più fine della sua. Si addentrarono lungo un sentiero costeggiato da degli alti macigni. Elisio passò una mano su uno dei pilastri e lo osservò intensamente. Quel giorno avrebbero finalmente fatto luce sul significato di quelle pietre misteriose. Si girò un attimo indietro per controllare che le Reclute stessero tenendo il suo passo e procedette nel momento in cui si accertò che tutte erano presenti. Nel giro di mezz’ora giunsero alle porte della città di Cromleburgo. Passando per una via secondaria in modo da non essere scovati proseguirono in direzione Nord Ovest fino ad arrivare in vista delle porte del covo in costruzione al di sotto del villaggio, celate da due grossi macigni invalicabili. Entrarono e tutti insieme discesero nei sotterranei.
   Il Quartier Generale ancora non aveva preso una vera e propria forma: infatti, non vi erano altro che lunghi tunnel scavati nella roccia e massi che erano stati accatastati per far posto agli operai in modo da rendere più accessibile il passaggio in quei luoghi. Quando il terreno sarebbe stato spianato per bene, avrebbero dato il via al posizionamento dei cavi elettrici e dei tubi dell’acqua, del gas e dei rifornimenti che sarebbero stati necessari durante la permanenza dell’intera squadra quando l’Arma Suprema sarebbe stata in funzione. Poi avrebbero costruito i pavimenti e i soffitti secondo il progetto che gli era stato commissionato da Elisio, infine sarebbero stati installati i computer e tutti i macchinari di cui avrebbero avuto bisogno nel corso delle successive missioni.
   Quando uscirono dall’ascensore, le reclute che erano lì con le macchine scavatrici fermarono i propri lavori e sporgendosi dai finestrini salutarono l’uomo.
   «Come procedono gli scavi?» s’informò Elisio avvicinandosi al responsabile dell’opera.
   «Stiamo in regola con i tempi che ci ha dato, signore», disse quello mostrandogli alcune carte ricolme di dati e cifre «Ci siamo fermati nel punto che ci aveva indicato. Se lei vorrà, sarà mio piacere trasportarla più avanti dove intende arrivare».
   «La ringrazio», poi si voltò in cerca delle Scienziate e gridò: «Voi quattro, andiamo!».
 
 
   Nel frattempo le due ragazze raggiunsero le porte della Strada dei Menhir ed essa si mostrò in tutta la sua vastità alle giovani Allenatrici. Torchic era da poche settimane entrato a far parte del gruppo e ancora sentiva il bisogno di stare accanto a Serena, per cui era rimasto fuori dalla Poké Ball e la seguiva assiduamente come un anatroccolo che cammina sulle impronte della madre. Shana ogni tanto si voltava per guardarlo e non poteva fare a meno di trovarlo adorabile. Cominciarono ad attraversare il percorso in silenzio, un po’ per la stanchezza che il caldo gli aveva infuso, un po’ perché erano rimaste sbalordite dalla grandezza dei massi che vedevano lungo la strada. Quindi non appena ne vedevano uno che destava la loro curiosità, vi si avvicinavano e lo osservavano da tutte le angolazioni, chiedendosi come avessero fatto uomini di un’epoca così antica a costruire architetture di misure così sorprendenti. Ad un certo punto incontrarono una turista di mezza età, un po’ grassottella, i capelli neri ricci e folti. Serena si era già messa in posizione di attacco, Sfera Poké in mano e braccio spinto in avanti per chiamare Pancham in suo aiuto. Shana si sorprese di vedere quanto ardente fosse il suo spirito combattivo e rimase un po’ in disparte quando pensò che lei questa voglia di lottare sempre e comunque comune a tutti gli Allenatori non l’aveva, non l’aveva mai avuta e mai le sarebbe venuta. Diede uno sguardo alle sfere in cui erano rinchiusi i suoi tre fedeli Pokémon, gli occhi verdastri intrisi di una sottile incertezza.
   Serena sembrava così decisa nel perseguire il suo obiettivo di diventare Campionessa. Voleva diventare abile come Diantha, le aveva confessato quella sera in cui si erano ritrovate a Reggia Aurea ad osservare quei fuochi d’artificio che erano stati fatti solo per loro. Avevano parlato dei loro sogni, delle loro speranze. Del loro futuro. Shana quella volta si era mostrata un po’ restia a parlarne.
   «Io non lo so», aveva detto semplicemente, coprendosi il viso con le mani: all’improvviso l’aveva colta un senso di imbarazzo e straniamento che non era riuscita a spiegare.
   Che senso aveva continuare a vivere senza uno scopo preciso? Lei l’aveva cercato questo obiettivo, questa sua ragione di vita. Aveva provato qualsiasi cosa, ma ancora si sentiva perduta, nulla pareva calzarle.
   Trovato era geniale per quanto riguardava la scienza dei Pokémon.
   Tierno era un eccellente ballerino.
   Serena e Calem erano Allenatori imbattibili.
   Lei non era niente. Un’incognita irrisolvibile.
   «No, no, non voglio lottare!» esclamò la donna accostandosi alle due ragazze «Quella puoi anche metterla a posto».
   Serena sussultò. Non voleva lottare? Riallacciò la Poké Ball alla cinta e si apprestò ad ascoltare di cosa avesse bisogno. La donna spiegò di essersi messa in viaggio per Cromleburgo, ma che tuttavia non era riuscita a passare poiché aveva trovato il passaggio bloccato. Diceva che degli uomini vestiti in rosso avevano circondato la zona centrale, che c’erano dei grossi e strani macchinari che avanzavano fra i monoliti gracchiando e lasciando dei solchi lungo la terra.
   «Degli uomini vestiti in rosso?» Serena intuì subito dalla descrizione di chi si doveva trattare. Si voltò verso Shana: un’incursione del Team Flare proprio non ci voleva in un momento come quello. Intimò alla donna di correre ad Altoripoli e di avvertire la polizia mentre lei si sarebbe occupata di trattenerli per qualche minuto. Poi aveva preso la ragazza per un braccio e l’aveva trascinata via con sé, correndo velocemente. Torchic con un battito d’ali si era sollevato verso la spalla della sua padroncina, aggrappandovisi poi con le zampe robuste.
   «Serena, cosa sta succedendo?» chiese la bruna indispettita e intimorita dall’atteggiamento improvvisamente aggressivo della compagna.
   «Quando io e Calem andammo alla Grotta dei Bagliori, ci scontrammo per la prima volta con il Team Flare. E ora sono di nuovo qui».
   «Il Team Flare?» sussurrò sbigottita nel momento in cui comprese verso quale pericolo stavano per gettarsi deliberatamente contro. Fece scivolare il braccio e le strinse la mano.
   «Dicono di voler creare un futuro radioso soltanto per loro...» continuò l’altra senza smettere di correre «Ma io non posso sopportarlo, non posso permetterglielo! Non ora che finalmente mi sono appropriata del mio destino! Non glielo permetterò!» gridò con la gola che bruciava, e le sue parole echeggiarono nell’aria.
 
 
   Le porte dell’ascensore si aprirono. Le chiare mura del Laboratorio lo accolsero con gentilezza mentre muoveva i passi verso la sua stanza. Sina e Dexio stavano riordinando alcune schede nella libreria e quando videro il Professore lo salutarono raggianti come loro solito.
   «Ben tornato, Professore!» esclamarono insieme.
   «Bonjour», disse con voce un po’ affaticata. Aveva ancora addosso gli abiti con cui era andato agli studi televisivi. Si affrettò a sfilarsi la cravatta e la giacca che lo rendevano impacciato nei movimenti e tirò fuori da una busta il camice pulito appena ritirato in lavanderia. Con quello si sentiva più a suo agio. Si fece scappare un sospiro mentre si lasciava cadere sulla poltrona. Dexio si voltò verso di lui e lo osservò, ancora aveva incastonata nella mente l’immagine del suo insegnante col collo leggermente inclinato in una curva delicata oltre lo schienale del divano, il viso rivolto con desiderio verso quello dell’altro, in cerca delle sue labbra. Gli erano sembrati i personaggi di una scultura antica, protagonisti di qualche tragica storia d’amore. Ancora stava rimuginando sul perché prima di allora non si fosse mai accorto del sentimento che legava i due, eppure Sina aveva cercato di farglielo notare in tutti i modi possibili. Aveva ragione, lei. Aveva sempre avuto ragione. Tuttavia non poteva ignorare quel vago senso di perplessità al pensiero di ciò che aveva scoperto. Non se ne sapeva spiegare il motivo. Il Professore alzò lo sguardo verso di lui. Sorrise al giovane apprendista. Poi entrambi tornarono ad occuparsi delle proprie faccende.
   Dopo un po’ fece capolino dalla porta Floette. Il folletto svolazzò fino a posarsi fra le mani del Professore e gli rivolse il suo saluto dandogli un piccolo bacio sulla punta del naso. L’uomo gli accarezzò piano la testa con un dito e gli rivolse un sorriso ricolmo di tenerezza.
   «Dove vai oggi, Floette?» gli chiese. Mai che quel Pokémon si fermasse! Sentiva sempre il bisogno di scorrazzare in giro mettendo in ansia la povera Sina che ancora non aveva dimenticato quando era scomparso per la prima volta. Ormai era passato del tempo, ma ancora non si era abituata del tutto a questi suoi vagabondaggi. Così, puntualmente, quando il Pokémon mancava all’appello, le veniva subito il magone. Il folletto emise un verso e si poggiò sopra la testa di Platan, spettinandogli un po’ la capigliatura con il suo peso.
   «Oh, vuoi rimanere con noi, allora? Che onore!» esclamò lui alzando lo sguardo e incontrando il suo. Il Pokémon ridacchiò e in silenzio si mise ad osservare i tre intenti nelle loro mansioni.
 
 
   «Ah, ma guarda un po’ chi si rivede! Sei ancora tu, la mocciosetta della Grotta dei Bagliori! Hai una nuova amica? Il fidanzatino l’hai lasciato indietro?».
   Serena si pose di fronte a Shana con fare protettivo.
   «Stai indietro», le disse «Cerca un posto sicuro e riparati lì. Qui ci penso io».
   Shana annuì e andò a sistemarsi dietro ad uno dei massi, mentre la compagna chiamava a gran voce il primo Pokémon della squadra affinché scendesse in campo.
   «Pancham! Tocca a te!».
   «Capiti male, ragazzina!» ridacchiò il suo avversario «Kadabra!».
   «Un Pokémon di tipo Psico...» sussurrò Shana preoccupata per la scelta dell’oppositore. Si chiese se Pancham avrebbe resistito ai suoi colpi psichici, ma da ciò che aveva imparato dal Professor Platan sulla contrapposizione dei tipi, sapeva che le speranze erano ben poche. Doveva intervenire, doveva aiutarla. La chiamò, ma la ragazza le fece cenno di non preoccuparsi, che la situazione non la spaventava. Era capace, era agguerrita. Se la sarebbe cavata.
   Tuttavia Shana non riusciva a trattenersi: doveva fare qualcosa, non sopportava l’idea di rimanere lì a girarsi i pollici mentre l’altra rischiava di fare una brutta fine tra le grinfie di quelli. Si guardò attorno: erano tantissimi, troppi. Si voltò verso Serena e la osservò mentre con foga gridava a Pancham attacchi su attacchi in una sequenza rapida per rispondere alle mosse del nemico il più velocemente possibile. Ma non era abbastanza. Dopo aver resistito per lunghi minuti, il panda venne scaraventato a terra da un attacco Psichico di Kadabra e non rinvenne più. La bionda fu costretta a chiamare il suo secondo Pokémon.
   Doveva muoversi. Doveva fare qualcosa.
   In un impeto di confusione prese l’Holovox e chiamò il Professore. Non era sicura del perché lo stesse facendo, ma se avesse avvertito il loro mentore di certo non sarebbe stato d’intralcio. Avere un alleato in più faceva sempre comodo.
   Platan rispose prontamente alla chiamata.
   «Ciao, Shana, che cosa succede?» le chiese sorridendo. Ma il suo sorriso scomparve subito nel momento in cui riconobbe il paesaggio nelle vicinanze di Cromleburgo e le divise degli uomini del Team Flare. Floette aveva improvvisamente cominciato a tremare, e Platan non aveva dubbi del perché lo stesse facendo. Portò ansiosamente una mano al cassetto della scrivania e vi rovistò dentro, intanto Sina e Dexio cercavano di collegare l’Holovox allo schermo appeso alla parete di fronte alla finestra in modo da rendere l’ologramma in formato video e avere così un’immagine più grande e chiara di ciò che stava accadendo.
   Mentre la tensione tra Luminopoli e il Percorso 10 cresceva, Elisio e le sue sottoposte, guidati dal responsabile degli scavi, si facevano strada tra i cunicoli neri del sottosuolo. Si stavano dirigendo verso il centro di Cromleburgo. Ad un tratto urtarono con la scavatrice una parete sottile, non naturale.
 «Rallenta», disse Elisio. Osservò il radar che lampeggiava sul quadrante della macchina e capì che erano giunti all’entrata del luogo in cui era custodita l’Arma Suprema. Rotta la parete e calpestati i suoi resti, si ritrovarono all’ingresso di un lungo corridoio alla fine del quale vi erano, incise nella pietra, due colonne riccamente decorate nei capitelli. Il capo scese dal macchinario e rimase ad osservare l’apertura con il fiato sospeso.
   Vi era arrivato, dunque. Aveva trovato l’entrata.
   Afferrò l’Holovox e con un gesto rapido si mise in contatto con Xante.
   «Ci siamo».
   «D’accordo, colleghiamo subito i computer con le vostre apparecchiature».
   Non fu detto altro.
   Si mosse in avanti, in trepidante attesa di scoprire che cosa si celasse oltre quell’entrata che tanto a lungo aveva cercato. Si arrestò esattamente in mezzo alle due colonne.
   Mausoleo, lesse inciso sul pavimento. A seguire vi erano altre parole, poi cancellate e riscritte nuovamente, ma in quei punti il terreno appariva così malmesso da rendere le lettere praticamente indecifrabili. Si girò e alzò un braccio, intimando ad Akebia, Bromelia, Cytisia e Martynia di raggiungerlo. Insieme oltrepassarono le due colonne e si ritrovarono in una grande stanza dalla forma circolare. Subito dirimpetto all’entrata vi erano due statue raffiguranti due giovani donne. Avevano un aspetto sorprendentemente simile. Cytisia e Bromelia vi si avvicinarono, osservandole con sguardo affascinato. Vi erano delle scritte alle basi delle sculture.
   «Senza l'una non può vivere l'altra», tradusse Elisio dalla prima, «Senza l'altra non può vivere l'una», vi era inciso sulla seconda. Le due frasi erano complementari. Mentre le due donne continuavano a scrutare il luogo nei minimi dettagli raggiungendo le altre compagne, Elisio si perse negli occhi delle due gemelle. Si avvicinò alla più vicina e le accarezzò il viso di pietra rossiccia. Fece lo stesso anche con l'altra. Le guardò intensamente su quelle facce mute che lasciavano intuire quale graziosa bellezza le avesse colpite in vita. Per qualche motivo che non comprendeva, sentì uno strano dolore al petto. Era come se quei volti li avesse già conosciuti. Essi erano presenti nella sua anima da un tempo incalcolabile. Vi fissò lo sguardo quasi con compassione, amorevole.
   Passò avanti.
   Al centro della sala vi era un piedistallo formato dalle mani congiunte di un uomo ed una donna, probabilmente moglie e marito. Nel volto di lei Elisio riconobbe un fascino regale, in quello di lui avvertì una nota di crudeltà che contrastava con l'espressione saggia che vi era impressa.
   Luce e Buio, lesse sulle loro basi.
   Alzò lo sguardo e di fronte a sé vide qualcosa che lo fece tremare.
   Si avvicinò all’ultima statua guardandola con sguardo rapito. Sentiva freddo in tutto il corpo e un velo di paura sconosciuta lo agguantò fra le sue dita stridule.
   C’era un ragazzo, di fronte a lui. Un ragazzo bello, dall’aspetto coraggioso. Teneva una mano sul fodero della spada mentre con l’altra stringeva l’elsa, in procinto di sguainare l’arma. Aveva in viso un sorriso soave, il più angelico che avesse mai visto. Era a guardia dell’ultima sala, quella in cui lui intendeva mettere piede. Abbassò lo sguardo in cerca della sua scritta, ma sulla base non vi era inciso nulla.
   La risposta è dentro di te. Scorre nel tuo stesso sangue.
   Era stato un suo pensiero? Eppure, aveva sentito come se fosse stato qualcuno a sussurrarglielo. Volse lo sguardo verso le quattro ragazze e le vide sparse per la sala. Sembrava non avessero udito nulla. Pose lo sguardo sulla statua del giovane guerriero.
   «Capo, è tutto a posto?» Cytisia aveva notato qualcosa di strano nel suo atteggiamento. Aspettò che le dicesse qualcosa, ma in cambio non ricevette altro che un lieve cenno della testa.
   «Xante, abbiamo scansionato tutta l’area», Bromelia aveva chiamato l'uomo per riferirgli le loro informazioni «Riuscite ad analizzare le nostre immagini? Rilevate qualcosa di sospetto?».
   «È tutto a posto, Bromelia. Ma altrove abbiamo visite».
   Sui suoi occhiali vide proiettata l’immagine di Serena intenta a combattere con le Reclute. Strinse i denti. Si girò verso Elisio e lo chiamò.
   «Capo, abbiamo un problema», comunicò.
   «Che cosa c’è?» chiese.
   Improvvisamente il pavimento cominciò a tremare. Le pietre che decoravano la parte sovrastante della sala cominciarono a brillare di una strana luce.
   Platan stringeva il foglio elettronico tra le dita mentre osservava in silenzio la lotta che Serena continuava a mandare avanti nonostante lo svantaggio. Era riuscita a sconfiggere cinque Reclute, ma ve ne erano ancora di più che aspettavano di potersi beffare della ragazzina sfoggiando gli attacchi dei loro Pokémon brutali. Doveva stare attenta.
  Inoltre vi era il rischio che le pietre si attivassero. Strinse il foglio con più forza, la sua mano tremava per lo sforzo. La relazione era lì, era sotto alle sue dita. E non c’era verso che Elisio avesse potuto avere accesso ai suoi file, si era assicurato di mettervi la protezione più alta che vi fosse. Erano invalicabili, inaccessibili. Nessuno oltre a lui avrebbe potuto mettervi mano. Tuttavia era anche vero che per Elisio la tecnologia non aveva segreti, dopotutto era uno dei massimi esperti nel campo. Avrebbe potuto facilmente decodificare la barriera e...
   Che cosa stava pensando? Elisio non avrebbe mai fatto una cosa del genere, non a lui. Eppure aveva paura, in quel momento era disperatamente dubbioso delle proprie sicurezze.
   Elisio non è un mostro, si disse. Elisio non è una belva.
   Udì nelle orecchie il ringhio agghiacciante che gli aveva sentito gridare in quel sogno, rivide le sue mani e i suoi occhi ricoperti di sangue. Le croci che inesorabilmente si sfracellavano al suolo fischiavano assordanti nelle sue orecchie. Scosse la testa. No, lui non era ancora così, non lo era!
   Allora come aveva potuto sapere che erano proprio quelle pietre ad alimentare e quindi a mettere parzialmente in accensione l’Arma Suprema? Chi gliel’aveva detto? Come aveva scoperto che esse erano in grado di assorbire l’energia prodotta dai Pokémon per canalizzarla all’interno di quella macchina infernale? Come? Come?
   Vide le pietre che componevano il Percorso cominciare a brillare di una luce soffusa.
   «Merde!» gridò alzandosi in piedi e guardando la scena col fiato spezzato.
   «Professore, cosa sta succedendo?» chiese Sina: nella sua voce era forte la paura.
   La paura, nera, che rende tutti ciechi e pietrifica ogni pensiero, ogni azione che il corpo vorrebbe compiere per salvarsene.
   Serena era alle strette, ormai. Presto avrebbe ceduto.
   «Non ti sei ancora arresa?» le chiese sogghignando la ragazza che era appena giunta come sua prossima sfidante.
   «Non mi arrendo! Non mi arrendo!».
   «Allora vediamo come reagisci a questo. Mightyena, vai con Morso!».
   La iena si gettò contro il piccolo pulcino, rimasto ormai solo a fronteggiare il pericolo. Lo avrebbe divorato, non aveva via di scampo.
   «Goomy vai e proteggi Torchic!» Shana non riuscì più a contenersi e decise di prendere parte alla lotta, nonostante non fosse del tutto corretto. Ma poteva avere voce in capitolo la correttezza di fronte ad una banda di criminali? La ragazza si pose accanto a Serena e le rivolse uno sguardo fiducioso, chiedendole di confidare in lei e nel suo aiuto.
   Dopo aver visto la scena, Elisio si mosse rapidamente verso il piedistallo. Non c’era altro tempo, bisognava agire immediatamente. Quella ragazza rischiava di rovinargli i piani un’altra volta e non poteva permettersi di fallire di nuovo. La perlustrazione lungo la Strada dei Menhir poteva definirsi compiuta: ora il senso di quelle pietre era chiaro. Le guardò brillare ancora sul soffitto. Erano tutte collegate, non c’erano dubbi. L’alta concentrazione di energia che si registrava in entrambe le zone non lasciava incertezze sulla funzione di quelle costruzioni. Esse erano la chiave di alimentazione dell’Arma.
   Prese il carillon e lo pose sul piedistallo.
   Sei ancora in tempo per rimediare alle tue azioni, se lo vuoi.
   Alzò lo sguardo e incontrò quello del giovane guerriero. Gli stava sorridendo con compassione. Si sentiva dannatamente osservato e messo sotto esame, scrutato come la misera cavia di un esperimento. Ma non avrebbe ricacciato la sua decisione. Per quel mondo, ormai, non vi era altra speranza se non quella di vedere la luce dell’Arma Suprema.
   Caricò il carillon e lo lasciò suonare.
   Come per incanto non vi fu più alcun tremore. La luce delle pietre cominciò a diradarsi. La musica si diffuse nei sotterranei e poi all’esterno, dentro Cromleburgo e nelle sue vicinanze.
   Serena si guardò attorno, interdetta. Così fecero anche Shana e le Reclute, persino i Pokémon osservarono in giro con diffidenza.
   Era una musica lieve, melodiosa, dolce. Eppure, in tutta quella bellezza, non si poteva fare a meno di percepire una nota malinconica e triste. Una dannazione fatale.
   Platan rimase in ascolto. Riconosceva quelle note. Lentamente gli ritornavano alla memoria. Dentro di sé tremava e si dimenava. A nulla gli servì ripetersi che quello era stato solo un sogno. Floette si poggiò fra le sue dita deboli, cercando riparo dal malore che lo stava assalendo. Il Professore lo guardò. Si stava contorcendo su sé  stesso e sul viso aveva un’espressione vuota, carica di terrore.
   La musica terminò.
   Si chinò su Floette per accertarsi che stesse bene, preoccupato dalla sua reazione. A quel punto gli sembrò come se gli avesse parlato: «La porta è stata aperta», aveva detto. Lo osservò sbigottito. Non si prese neanche un attimo per assimilare le ultime immagini, i suoni, le sensazioni.
   Uscì dal suo studio evitando le domande degli apprendisti e corse fuori con andatura irrequieta. Per andare dove, lo sapeva solo lui.
   Le Reclute vennero richiamate tutte quante al Quartier Generale: la missione era terminata e non c’era bisogno di incrinare maggiormente le cose. La ragazza che si era appena battuta con Serena rimandò la sua Mightyena nella Sfera, essendo appena stata mandata allo stremo delle forze dall’ultimo attacco di uno sfinito Torchic. Non appena vide gli uomini allontanarsi, la giovane Allenatrice corse verso di loro, li inseguì con rabbia. Shana le andò dietro, cercando di richiamarla a sé. Oltrepassarono l’entrata del villaggio di Cromleburgo e in una ricerca affannosa che sapeva di caccia si ritrovarono di fronte ai massi che nascondevano l’entrata al covo, credendo di essere in un vicolo cieco, non sospettando di nulla. Shana riuscì finalmente a raggiungere la compagna e la strattonò per le braccia, sforzandosi di farla ragionare. La strinse piano a sé e all’orecchio le sussurrò parole tranquille. Serena si rintanò fra le sue braccia, poggiando la testa sulla sua spalla e respirando profondamente per ritrovare la calma.
   Codardi. Erano dei codardi. Era tutto quello che riusciva a pensare.
   Quella volta ne era uscita da perdente, ma giurò che presto avrebbe avuto la sua rivincita.
 
 
   Quando Elisio fece ritorno a Luminopoli e aprì le porte della buia caffetteria, venne sommerso dal silenzio come quando un’onda nel pieno della tempesta si abbatte contro gli scogli e ne frantuma le pietre. La sala era vuota. Alzò lo sguardo al tavolo che gli era tanto caro e accanto vi vide Platan che lo aspettava, in piedi, taciturno. Fra le sue mani riconobbe i contorni di Floette, raggomitolato su sé stesso e dall’aspetto fiacco, distrutto.
   Incontrò lo sguardo di Platan e rabbrividì. Nel grigio burrascoso dei suoi occhi scorse rabbia, dolore, confusione, paura, indecisione, dispiacere. Il suo viso era contorto in un’espressione indecifrabile, mista di tante sensazioni differenti e contrarie.
   Quello che avvenne dopo rimase fra loro due soltanto, tra quelle quattro mura sorde e rosse come il sangue.
 
 
   Bianco. Dalla finestra non si vedeva altro che quel colore. La tempesta di neve copriva la visuale ed era sollevato in quel momento di trovarsi di fronte al caldo del camino, con una tazza di tè fra le mani. Seduto su una poltrona, osservava gli oggetti che erano all’interno del salone scuro e freddo: erano rimasti gli stessi. Vide la donna che si apprestava a tornare, recando con sé l’oggetto che le aveva chiesto. Posò il carillon sul tavolino ed esso cominciò a intonare una calma melodia.
   Rimasero in silenzio, intenti ad ascoltare quelle note.
   «Nessuno può cambiare le proprie origini. Nessuno può esserne responsabile. Questo tuo padre non l’ha mai capito», disse ad un tratto la donna.
   I loro sguardi si vennero in contro senza che lo avessero voluto. Ad Elisio parve di vedere quegli occhi di ghiaccio sciogliersi lentamente.
   «Tu sai la storia della nostra famiglia. Tu sai che cosa accadde tremila anni fa», continuò lei, riprendendo a sferruzzare con la lana rossa «Tuo padre non l’ha mai accettato. Non ha mai accettato che anche lui, per essersi legato a me, in parte dovesse avere il sangue...».
   «Sporco», tagliò corto con voce affilata «Come il mio».
   «Sangue sporco. Non trovi anche tu che abbia un suono sgradevole? Eppure, per quanto le nostre origini possano essere deplorevoli, non mi sento di rinnegarle. Esse sono pur sempre parte di me, di ciò che sono. Di ciò che ero e di ciò che sarai tu».
   Tagliò il filo del gomitolo con un paio di forbici appuntite. Alzò in alto il suo lavoro tenendolo stretto tra le dita nodose e sottili. Lo osservò con un’occhiata soddisfatta e lo porse al figlio.
   «Vorrei che la tenessi», disse la donna incitando l’uomo a prendere la mantella che aveva appena finito di cucire. Elisio la afferrò e la strinse tra le dita, poggiandola sul suo ventre con delicatezza. La guardò e poi all’improvviso si ricordò. Sollevò lo sguardo verso la finestra imbiancata.
   «Una notte ricordo che ti sei svegliato all’improvviso gridando. Dicevi qualcosa riguardo ad una mantella rossa. Non la trovavi e ti eri messo a cercarla. Dovevi trovarla assolutamente, altrimenti quella persona speciale... No, non volevi terminare la frase. Ancora mi chiedo che cosa stessi sognando. Ho cominciato a cucirla dal momento in cui te ne sei andato. Forse mi aveva presa il rimorso per...».
   Il ghiaccio aveva cominciato a sciogliersi e scendeva in piccole gocce di vetro lungo le sue guance. La donna guardò Elisio e serrò le labbra amaramente.
   «Non sono mai stata una brava madre. Ma vorrei che tu tenessi quella mantella. Dalla a quella persona, fanne ciò che vuoi. Prendila. E adesso, ti prego. Vattene».

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Nella foresta buia (Prima parte) ***


Stavolta ci ho messo un po' di più... ma sempre meglio di sei mesi, no?
Ciao a tutti, come stanno andando le vacanze? Avete passato un bel Ferragosto? Spero proprio di sì! ^^
Ultimamente mi capita di scrivere capitoli 
mostruosamente lunghi. Anche questo è mostruosamente lungo (poco più di 20 paginone di Word *aiuto*), così, visto che accadono un sacco di cose e che potrebbe essere un po' difficile da seguire tutto insieme, ho pensato di dividerlo in due parti.
Il perché del titolo lo capirete tra qualche giorno, quando metterò la seconda parte ^^  Fra qualche giorno per davvero, giuro, è già tutto pronto, non dovete preoccuparvi 
Per ora non ho altro da aggiungere, se non augurarvi una buona lettura! 
Un abbraccio a tutti!
la vostra Persღ



..

19 . Nella foresta buia
(Prima parte)


 

   Nel salone ampio e spoglio la notte faceva silenziosamente il suo ingresso. La luce della luna che s’insinuava dalla finestra accennava i contorni degli oggetti che vi erano dentro. Un basso tavolo, un divano, un pianoforte. Tutto il resto rimaneva nascosto nell’ombra, restio ad essere esposto all’attenzione. Si sentì un tintinnio di vetri, di bicchieri che si scontravano.
   «Io lo ricordo ancora», diceva l’uno con voce bassa «Era una mattina di fine estate. Portavi quegli occhiali così grandi da celare a tutti i tuoi occhi... Ti vergognavi forse che te li guardassero? Avevi paura che te li strappassero e portassero via?».
   «Il mondo pareva meno brutto con quegli occhiali addosso», ribatté flebile l’altro, sistemandosi la mantella rossa sulle spalle. Nonostante fosse un po’ piccola, era sufficiente affinché lo tenesse al caldo. Poggiò la testa sulla spalla dell’altro e dopo aver mandato giù un sorso di vino sospirò. Alzò la testa e vide lo sguardo di lui infisso sulla finestra. La tenda agganciata al balcone del palazzo di fronte si era staccata e il tessuto si rigonfiava in numerose pieghe.
   «Si è alzato il vento», commentò l’uomo.
   «Non è strano un vento così forte in questo periodo?».
   «Anche quel giorno c’era un forte vento. Per una mattina d’estate era piuttosto inconsueto».
   «Sei proprio sicuro che fosse d’estate? E se fosse stato autunno?».
   «Era estate. Le foglie cominciavano a imbrunire, ma era ancora estate».
   Mentre parlava, sentì la mano di lui passare piano sul proprio petto, il dito che scorreva con lentezza lungo la linea dei bottoni della camicia. Aveva il viso stanco, lui, i ciuffi scuri gli incorniciavano il volto ricadendovi sopra con pesantezza.
   Fine estate, inizio autunno. Che differenza c’era? Era così importante riportare alla memoria la natura di qualcosa che non era mai esistito? Gli sembrava solo una grande, inutile perdita di tempo. Uno sciocco capriccio. Allontanò la mano dal suo petto e la allungò distrattamente verso il tavolo, volendo riafferrare il bicchiere per mandare giù qualche altro sorso.
   «Io ho visto le vite delle genti passate», disse l’altro ad un tratto osservando le dita della sua mano destra intrecciate alla lana della mantella, come perduto in qualche riflessione «Ti dico che non è un caso, Platan. Noi fummo scelti per vivere questo destino».
   «Elisio,» disse piano e pazientemente, il bicchiere gli scivolò dalle dita e cadendo a terra si ruppe, il vino rosso stagnava in una pozza sul pavimento marmoreo, ma fu come se lui non se ne fosse accorto «non l’hai ancora capito che è stato tutto solo e soltanto un sogno?».
 
 
   Si erano evitati in qualunque modo nelle settimane precedenti. Platan aveva di punto in bianco smesso di frequentare la caffetteria, mentre Elisio, nonostante continuasse a versare i propri contributi per la riparazione ormai in fase di conclusione del Laboratorio, di rado si mostrava alla sua porta. Siccome tuttavia i due luoghi non si trovassero così distanti l’uno dall’altro, accadeva che di tanto in tanto si incrociassero lungo Viale Estate durante le compere o semplicemente nello spostarsi da un posto a un altro della città. Platan era sempre attorniato da qualche donna con molta probabilità invaghita di lui, mentre Elisio solitamente usciva con uno a caso fra i suoi dipendenti che lo accompagnasse qui o lì per le proprie incombenze di Capo Flare.
   Quando si incontravano o anche solo se s’intravedevano in mezzo alla folla non potevano fare a meno di osservarsi. Si arrestavano in mezzo alla strada e si scrutavano. Gli occhi a quel punto cominciavano a gridare il proprio supplizio, a rivendicare il possesso l’uno dell’altro, e loro si voltavano per zittirli.
   Quando Elisio lo vedeva fuori in compagnia, Platan aveva sempre il sorriso sulle labbra. Platan era per natura un uomo solare e felice per la maggior parte del tempo, perciò non si sarebbe dovuto sorprendere di una cosa simile. Eppure sapere che quelle risa non erano più riservate a lui, né nascevano per lui, per essere contemplate così spontanee e belle dal suo sguardo rapito, colmo di attenzione, di ammirazione, di amore, lo mandava in contro ad una irrefrenabile, infantile gelosia, come se qualcuno gli avesse strappato dalle mani il suo tesoro più prezioso. E non serviva a niente ripetersi che era da stupidi, che Platan non era una sua proprietà e che poteva fare tutto quello che gli pareva, che a più di trent'anni era sciocco provare un simile sentimento, che era da bambini nonostante da bambino non lo avesse esattamente provato allo stesso modo. La verità era che sentiva un vuoto dentro, che scavava nelle sue viscere di giorno in giorno sempre di più. Sapeva fin troppo bene che solamente lui avrebbe potuto riempirglielo di nuovo, ma era troppo orgoglioso per ammetterlo ad alta voce. E soffriva come un miserabile idiota, prigioniero dei suoi stessi sentimenti.
   Platan dal canto suo non riusciva a contenere una sensazione di malinconia e di rimpianto dentro di sé. Non era nei baci, né nelle notti passate a fare l’amore che sentiva una certa mancanza, ma in tutto il resto che avevano vissuto insieme, nelle parole, negli sguardi, nei silenzi, perché sapeva che nessun altro sarebbe stato in grado di dargli quello che Elisio era stato capace di donargli attraverso i gesti più semplici. Rivoleva indietro la sua aria imponente, le sue maniere composte ed eleganti. Quando la mattina si alzava dal letto ed entrava in cucina provava una sensazione di avvilimento nel non sentire più l’odore di caffè aleggiare nell’aria, nel vedere nel lavandino le scodelle e le pentole ancora incrostate di cibo dalla sera prima che emanavano un odore acre e maleodorante. I fiori che Elisio gli aveva regalato quella notte in cui aveva dimenticato le chiavi da lui si erano lentamente appassiti, nonostante le sue continue cure e attenzioni. Il suo appartamento era diventato l’emblema della desolazione che albergava nel suo animo.
   Dopo aver passato attimi interminabili a riflettere sulle vicende passate specchiandosi negli occhi dell’altro, come se nulla fosse accaduto riprendevano le proprie strade, le quali, mano a mano che passavano i giorni, sembravano allontanarsi sempre di più l’una dall’altra.
 
   Così separati, il mondo sembrava non aver poi così tante speranze di diventare perfetto, Arma Suprema o meno.
 
 
   Aveva alzato l’asta del giradischi, quello che Elisio gli aveva regalato durante l’ultimo Natale, e aveva messo un disco di musica swing che aveva ricevuto in eredità dai suoi genitori. Avrebbe voluto passare in qualche negozio di musica per comprarne altri, ma per il momento, diceva, andava bene così, non era una necessità impellente. Si ricordava quando suo padre tornava la sera dal lavoro e prima di andare a letto si attardava con sua madre a ballare qualche passo in salotto. Mentre fuori dalla finestra la calma regnava sovrana fra le strade di Ponte Mosaico, la loro casa si riempiva di risate e note allegre, scandite di volta in volta dallo scattante battito dei tacchi che calpestavano il pavimento. Platan solitamente si sedeva sulla poltrona stringendo il suo fidato peluche di Teddiursa tra le braccia e osservava i genitori, cercando di mimare le loro mosse scuotendo in aria l’orsetto. Poi, stanco, si accoccolava fra i cuscini e masticando un pezzetto di cioccolata sgraffignato di nascosto dalla credenza si addormentava. A quel punto lo travolgeva l’odore di sapone intriso nei capelli della madre che tenendolo in braccio lo metteva a letto e nel sonno sentiva le sue mani accarezzarlo piano e rimboccargli le coperte. Di quel periodo aveva un ricordo felice dei momenti passati in famiglia. Crescendo anche lui aveva piano piano incominciato a destreggiarsi con qualche passo di danza, così, quando suo padre se n’era andato, aveva preso il suo posto e ricordava con dolcezza quei minuti in cui, durante il pomeriggio, tornando da scuola, una sensazione d’affetto infinito gli riempiva il petto e lo spronava a correre più veloce per rincasare il prima possibile, nell’attesa di poter ballare con sua madre per farla contenta, per rendere ancora viva in lei la memoria del marito scomparso così all’improvviso. Gli era dispiaciuto, poi, abbandonare quell’usanza che gli era così cara nel momento in cui si era messo in viaggio per studiare presso il Professor Rowan e – ma questo era un segreto – per poter finalmente ritrovare quel bambino che aveva incontrato quel giorno, tanto tempo fa. Ma, come aveva detto anche a Diantha: «È arrivato il momento per me di fiorire!», e non voleva ritardare più a lungo l’evento che lo avrebbe reso un adulto, o almeno così pensava.
   Ed eccola, Diantha, vestita di bianco e ornata a festa, che miserabilmente si chinava a terra per raccogliere le bottiglie di alcolici che aveva lasciato sparse sul pavimento in mezzo al disordine in cui si conservava il suo appartamento. In quel quadretto, pensava Platan, appariva davvero come una perla gettata in un porcile, e il porcile era la sua casa, e allora lui doveva essere il porco, e quest’idea lo ripugnava. Era passato più di un mese da quando si era allontanato da Elisio e in quel lasso di tempo non aveva fatto altro che pensare a Floette, all’Arma Suprema, ad AZ, alla profezia di Astra, agli incubi che lo tormentavano continuamente, al destino che lo avrebbe travolto e che inevitabilmente avrebbe condannato Elisio per l’eternità. Anche lui, ormai, si sentiva coinvolto e macchiato da quei pensieri e ne soffriva, si sentiva colpevole, si sentiva lui stesso un criminale, un misero porco che approfitta della gentilezza di chi gli è intorno per nascondere un indicibile delitto che ha commesso. E Diantha era la perla che stringeva avidamente nelle zampe nella sciocca presunzione di sentirsi uguale ad essa, di assomigliarle, così pura e innocente, inconscia di ogni cosa.
   «Diantha, ti prego, lascia perdere», le disse, non riuscendo più a contenere il fastidio «Il vestito ti si rovinerà, e sarebbe un peccato».
   La donna scosse la testa e, ammucchiando una manciata di lattine sul tavolo, ribatté con un sorriso dolce impresso sulle labbra colorate di rosso: «Tu, piuttosto, vai a prepararti. Sei ancora conciato così, faremo tardi. Qui ci penso io».
   Platan provò ad opporsi, ma lo sguardo di Diantha, così amorevole eppure severo nella freddezza dei suoi occhi chiari, messi in risalto dalle folte sopracciglia scure che si arcuavano al di sopra di essi, lo distolse da ogni tentativo. Malvolentieri si ritirò nella propria stanza e si apprestò a prepararsi per la serata.
   Diantha aspettò di sentire il secco sbattere del richiudersi della porta e si abbandonò a un debole sospiro. Si girò verso il tavolo e vide la grande quantità di bottiglie e lattine che aveva raccolto. Le osservò con un’aria tra il disgustato e l’irritato, tra il rabbioso e il dispiaciuto. Prima era stata in bagno per lavarsi le mani e aveva notato quanto, stranamente, quella fosse l’unica stanza in tutta la casa ad aver ricevuto una pulita decente. Però nell’aria, nascosta in mezzo ad un eccessivo e invadente odore di limone probabilmente dovuto ad un uso spropositato di saponi e detersivi volto a coprire il tanfo, non aveva potuto fare a meno di avvertire un fetore di cui non aveva tardato a comprendere l’origine. Sottile, quasi impercettibile, ma pungente e nauseabondo una volta scovato. Prese i vetri e le latte e con una smorfia le gettò nel secchio. E quando lo andava a trovare la mattina al Laboratorio, lo trovava sempre in uno stato un po’ malmesso, nonostante si sforzasse di non darlo a vedere, e spesso accusava dolori alla testa e aveva un aspetto stanco e affaticato.
   «Sei sicuro di stare bene?» gli chiedeva allora.
   «Benissimo!» rispondeva lui con uno dei suoi sorrisi.
   Strinse le labbra rosse e incrociò le braccia al petto. Ma che aveva? Possibile che la rottura con Elisio lo avesse ridotto così male? Più volte aveva cercato di chiedergli e venire a sapere che cosa fosse successo quella sera al Caffè, quel giorno in cui il Team Flare era stato intravisto sulla Strada dei Menhir. Lui aveva sempre sviato il discorso e aveva commentato il fatto con una risata velenosa senza mai scendere nei dettagli. Le faceva una rabbia! Detestava quando Platan, in preda al rancore e al dolore, si lasciava andare malamente in maniera così semplice. Dal fiore bellissimo che era, si appassiva d’improvviso e si trasformava in erbaccia. Lei tentava di offrirgli il suo aiuto, ma lui lo rifiutava e finiva con il cadere in un impietoso circolo vizioso che lo consumava rapidamente e ferocemente. Provava compassione per lui e si sentiva impotente quando le impediva di prendersi cura di lui. Aveva provato a parlarne con Elisio pensando che forse avrebbe saputo aiutarlo meglio di quanto lei avrebbe potuto fare, ma anche da lui non aveva ricevuto altro che silenzio, e la sua richiesta era stata più volte ignorata.
   «È proprio uno sciocco ragazzino», aveva appena commentato una volta, e a Diantha era sembrato di udire una nota di biasimo nelle sue parole, ma non poté trovarne conferma nel suo atteggiamento, perché quel viso era diventato più invalicabile che mai.
   Sentì Platan chiamarla e lei si voltò: era pronto. Velocemente chiusero casa e spensero le luci, poi scesero i tre piani per andare a prendere la macchina.
   Erano entrambi eleganti e belli. Mentre Platan teneva aperto lo sportello per Diantha e l’aiutava ad entrare tenendole una mano, sentì qualche sguardo addosso e la spregevole sensazione di essere additato con insistenza da qualcuno, di essere forse deriso e giudicato. Era sera, ma ancora c’era gente che si attardava per le vie a parlare e a salutarsi. Qualcuno si era fermato per osservarli, si accorse Platan, si chiese se non li avessero erroneamente scambiati per una coppia nel mezzo di un appuntamento. Non se ne curò granché, anzi, ultimamente non teneva più molto in conto il giudizio che gli altri si sarebbero potuti fare di lui. Silenziosamente salì in macchina e si affrettò a mettere in moto l’auto, infine partirono alla volta del Percorso 5.
   Diantha stava taciturna con lo sguardo rivolto in avanti, scrutava la strada vuota su cui di tanto in tanto vedeva sfrecciare una macchina solitaria e nel mentre si figurava chi avrebbe incontrato a Reggia Aurea e il modo in cui avrebbe salutato ognuno, i complimenti, i ringraziamenti.
   «Con chi ballerai, questa sera?» chiese a un tratto.
   «Non so. Mi sono stati fatti un sacco di inviti questa settimana, ma ancora non ho preso una decisione».
   «Non sono affatto sorpresa. Solitamente non vieni mai a questi ricevimenti, perciò è normale che abbia destato molto scalpore. Nessuno si farebbe sfuggire un giro di balli con il Professor Platan».
   L’uomo abbozzò un sorriso. In effetti, il discorso di Diantha non faceva una piega. Di rado si presentava a questo tipo di festeggiamenti, ed anche stavolta non ne aveva trovato una grande attrattiva: soltanto un motivo lo aveva spinto a partecipare.
   «A Elisio non piacciono», spiegò e s’accorse che in questo modo stava anche confutando l’unico motivo della sua venuta. Socchiuse gli occhi per un secondo, fu come se per un attimo si fosse allontanato dal volante per rifugiarsi in un posto misterioso e lontano, poi tornò a concentrarsi sulla guida.
   «Ballerai con me?».
   «Se tu vuoi, mi farebbe piacere», disse con sincerità, ma si accorse tristemente di quanto la sua voce fosse suonata vuota e poco persuasa, così si chiese se non l’avesse involontariamente offesa. In realtà sarebbe davvero stato felice di ballare con lei.
   Oltrepassarono una serie di cartelloni pubblicitari che avvertivano dello sconto che una panetteria nelle vicinanze offriva in quei giorni, un altro invece cercava di attirare clienti in un’agenzia turistica mostrando un meraviglioso paesaggio marittimo con dei bambini che giocavano sulla spiaggia, un altro ancora pubblicizzava una marca di caffè: c’era una donna avvenente che poggiando le labbra su una tazzina ammiccava con un sorriso all’osservatore. Ad un tratto imboccarono una via ai cui margini, sui muri, erano incollati alla rinfusa e addossati gli uni sugli altri diversi manifesti di propaganda del Team Flare. Molti erano stati strappati o coperti con scritte e scarabocchi. Inevitabilmente Diantha ritornò con la mente al giorno in cui Platan ed Elisio avevano deciso di allontanarsi. Tuttavia, non aveva mai pensato di collegare i due fatti avvenuti quel giorno: non avrebbe neanche potuto immaginare quanto potessero essere in relazione.
   «Che cosa sta succedendo, Platan?» domandò con voce seria.
   L’uomo la vide così accigliata e pensierosa, ma non intuì quale fosse il bersaglio a cui ambiva con quella domanda.
   «Di cosa stai parlando?».
   «Fra te e Elisio, Platan! Che cosa sta succedendo?» alzò la voce scuotendo convulsamente le mani e inarcò ancora di più le sopracciglia, le guance si erano leggermente colorate nell’esternare quel poco di rabbia.
   Il semaforo divenne rosso e Platan frenò bruscamente l’auto lasciando un lungo solco nero sull’asfalto.
   Si voltò verso Diantha e vide il suo viso grazioso offuscarsi, le labbra serrate in una curva dura e greve, gli occhi azzurri turbati e lucenti di apprensione.
   «Diantha,» disse nel tono in cui si comincia un preambolo per un discorso le cui parole non vogliono concludere nulla.
   «Io non capisco», lo interruppe la donna stringendo le braccia al petto, la testa bassa, la voce affievolita in un sussurro tremante «Io ci sono sempre stata, per te. Ti ho sostenuto, ti ho incoraggiato, ti ho consolato nei momenti in cui non serbavi più alcuna speranza. Ho sempre cercato di aiutarti, tu per me eri come un fratello, e speravo in qualche modo di essere a mia volta una sorella, per te. Ma adesso perché? Perché non mi permetti più di aiutarti? Sei cambiato, Platan... Tu e anche Elisio... Ha cominciato a fare quegli strani discorsi e ogni volta che lo sento non posso fare a meno di provare una sorta di paura per le sue parole. Sì, di paura! Come se nelle sue belle frasi piene di valori fossero in realtà nascosti dei messaggi turpi... E con il Team Flare in giro, io temo che in qualche modo possa finire nelle loro grinfie e...».
   Mentre Diantha continuava a confessargli le sue angosce, Platan la osservava silenziosamente e non poteva cacciare via un senso di compassione nei suoi confronti. Era davvero così preoccupata per lui, per loro? Oh, Diantha, cara e dolce Diantha! Avrebbe volentieri accettato il suo aiuto, ma purtroppo le cose non sarebbero più potute tornare come prima. Ormai il destino era segnato. Sarebbe stato meglio per lei dimenticarsi di entrambi e lasciar perdere due uomini come loro, che, in segreto e di nascosto, sapevano fatti che di certo non avrebbe approvato. Si chinò su di lei e la strinse nelle braccia con amorevolezza. Diantha era una perla. Bisognava tenerla pura e limpida, senza sporcarla di fango o altre sporcizie. La baciò sulla fronte e le accarezzò i capelli bruni sentendo il loro profumo di pulito e la loro morbidezza.
   «Diantha,» le disse all’orecchio, stavolta tenero e con delicatezza «ti ringrazio per il tuo affetto. Sapessi quanto per me è prezioso... Purtroppo però non c’è nulla che tu possa fare, stavolta. Ma non ti accorare: stai pur certa che ogni cosa si sistemerà. Andrà tutto bene, alla fine. Andrà tutto bene».
   Bugiardo.
   Si sentì talmente meschino nel pronunciare quelle parole, nel prenderla in giro. Ma non voleva perderla. La sentì calmarsi e lasciarsi andare tra le sue braccia: com’era leggera e minuta! Le diede un’ultima carezza e infine si allontanò. Sul semaforo si era accesa la spia verde. Ripartì.
 
 
   La Reggia Aurea era in festa, quella sera. Era uno di quei soliti festeggiamenti che venivano fatti per riunire di volta in volta le più importanti figure della regione. C’erano attori, celebrità, musicisti famosi e non, cantanti che tentavano la fortuna mostrando le proprie doti al fine di ottenere un riconoscimento, scrittori, giornalisti, scienziati conosciuti in gran parte del mondo. Le menti più geniali di Kalos erano tutte riunite in quell’antico palazzo, addobbato per l’occasione con i migliori decori. Al piano superiore, nella zona attorno alla balconata, era stata adibita una zona per il rinfresco: lì era il punto in cui la maggior parte della gente si concentrava per chiacchierare e conoscersi. Fra una coppa di vino e stuzzichini ci si scambiavano parole, ci si stringevano le mani e poi si scendeva in pista per ballare sulle note intonate dall’orchestra.
   Platan e Diantha ballarono insieme per un po’. La donna pareva essersi tranquillizzata e teneva alta la testa per guardarlo negli occhi e sorridergli, come se anche lei, a sua volta, volesse acquietare i pensieri di lui. Poi furono costretti ad allontanarsi, sentendosi venir chiamati sempre più insistentemente ognuno dai propri ammiratori. A quel punto si persero di vista e vennero risucchiati dalla folla senza più riuscire a ritrovarsi.
   Platan ballò a lungo con molte ragazze, ma senza troppa convinzione. I suoi piedi si muovevano meccanicamente, si sentiva girare come una trottola, e spesso s’accorgeva di non essere lui a guidare la danza, ma la sua partner, il cui viso sembrava cambiare continuamente, senza che lo potesse distinguere con chiarezza: prima aveva due occhi bruni e attraenti da cerbiatta, poi improvvisamente essi diventavano verdi, il naso pareva mutare forma in continuazione, ma la bocca era sempre la stessa, incurvata in un sorriso pieno d’imbarazzo ed emozione. E così la sua compagna si trasformava in un collage di visi ed espressioni, in cui di tanto in tanto aveva l’impressione di riconoscere qualche volto conosciuto. Ballava con Sina, Serena, ancora con Diantha, e una volta gli era persino sembrato di vedere Dexio, con i suoi occhi vispi da giovane ragazzo. Non scorse mai le sembianze di Elisio, nonostante dopo qualche tempo avesse involontariamente provato a cercarle. In quel viso mutante si concentravano tutte le persone a cui teneva, a cui voleva bene, ma si sentiva così estraneo da loro, così lontano. Forse ultimamente si era lasciato andare talmente tanto al punto da trascurarle? Si chiese se il suo animo non gli stesse in realtà dando altro che questo avvertimento. Fra un ballo e un altro, esausto, riuscì finalmente a ritagliarsi un po’ di tempo da dedicare a sé stesso. Per quanto tempo aveva ballato? E con quante persone? Si sentiva stanco e aveva bisogno di allontanarsi per un po’, di prendere aria via da quella sala così gremita di gente. Provava una sensazione di oppressione in mezzo a quella fiumana di spalle, di occhi, di labbra ipocritamente sorridenti. Si avvicinò al tavolo del rinfresco e chiese al cameriere un bicchiere d’acqua. Mai gli era capitato di sentire una sensazione così forte di liberazione nel sospirare dopo aver mandato giù per la gola un bel sorso d’acqua fresca. Alzò lo sguardo sul salone alla ricerca di Diantha, ma di lei non riuscì a trovare alcuna traccia. Pensò a malincuore che probabilmente anche lei doveva essersi trovata nella stessa situazione in cui era precipitato lui, tirato da decine di mani che cercavano di trattenerlo per il tempo di una canzone di due miseri minuti. Girò il viso e adocchiò un gruppo di ragazze che si stava avvicinando: già presagiva quali fossero le loro intenzioni e lo colpì una leggera nausea. Si allontanò di qualche passo cercando di mischiarsi fra la gente e di confondersi fra giacche costose e cravatte firmate, ma i suoi sforzi non valsero a nulla.
   «Professor Platan! Professore, la prego, aspetti!» sentiva le loro voci. Subito dopo le vide, tutte vestite di colori sgargianti e con i colli impreziositi da vistose collane.
   Platan indietreggiò di un passo.
   «Scusatemi, ma...» tentò di dire.
   Indietreggiò ancora per evitare i loro sguardi invadenti e le loro mani che si allungavano su di lui nello sforzo di afferrargli un braccio o una mano e di vincerlo. Improvvisamente si sentì in trappola e la vista gli si offuscò per qualche secondo. Con gli occhi socchiusi, gli sembrava di intravedere le figure di Sina, Dexio, Diantha, Serena, Tierno, Trovato, Calem, Shana, e ancora quei visi cambiavano e mutavano mentre lo insultavano e lo schernivano, lo chiamavano criminale e traditore e lui era perduto, era confuso.
   Nel suo fuggire da quel tormento angoscioso urtò qualcuno con la schiena e, quando si voltò, non avrebbe mai potuto dire quale sensazione di conforto lo riscosse dai propri incubi. Il cuore cominciò a battergli più lentamente mentre incastonava con ossessione gli occhi grigi su quel viso così familiare.
   «Buonasera, Professore».
   Quella voce, quella voce! Così intensa e profonda, dolcemente severa e rincuorante! Com’era felice, in quel momento, com’era felice! Rapidamente portò una mano verso la sua e la strinse nervosamente.
   «Mi dispiace mademoiselles, ma ho un affare urgente di cui devo parlare con Monsieur Elisio! Tornerò subito!» esclamò, e senza neanche dare il tempo alle altre di rispondere, tirò via l’uomo e con lui corse fuori dalla sala. Scesa la prima rampa di scale, Elisio gli chiese di rallentare e Platan si fermò bruscamente d’improvviso.
   Ma che gli era preso? Pareva averlo scosso un impeto di follia.
   Lasciò andare la mano di lui, lo scrutò per qualche attimo come se si fosse improvvisamente ridestato da un sogno. Lo assalì un brivido rabbioso. Eppure si era sentito così felice di rivederlo...
   Soli nel corridoio, si guardarono l’un l’altro in silenzio. Da sopra proveniva una musica di fisarmonica.
   Gli occhi di Elisio erano languidi e sinceramente affranti. Era una vista particolarmente insolita su un viso così altero. Platan lo vide avanzare di pochi passi e incerto se allungare una mano verso di lui o meno. Istintivamente, anche se Elisio infine non si mosse, si allontanò come per paura d’essere ferito.
   «Ti chiedo scusa, Platan», disse piano. Quanta umiltà si avvertiva in quella sua voce nobile, quasi da provarne pena!
   Il Professore tuttavia accolse quelle parole modeste con una smorfia. Senza degnarlo più di uno sguardo, si voltò e se ne andò, continuando a scendere le scale. Elisio gli andò dietro di corsa e lo seguì lungo il corridoio e di fuori nell’immenso cortile. Nel buio temette di perderlo di vista, in quel labirinto di alberi e cespugli, e a quel punto lo chiamava per capire dove fosse. Nonostante egli non rispondesse, riusciva a sentire un fremito nell’aria e dentro di sé sapeva quale direzione avesse preso e dove stesse andando. Oltrepassò una parete di rampicanti e subito dopo vide Platan fermo in mezzo al ciottolato che osservava intensamente la statua di Reshiram.
   Si arrestò a riprendere fiato guardando l’uomo con sguardo d’indugio. Platan mosse lievemente la testa e Elisio capì che gli era dato il permesso d’avvicinarsi. Si accostò a lui in silenzio e aspettò che parlasse.
   Il Professore venne preso da una sottile confusione: se da una parte ancora provava odio per quello che Elisio gli aveva fatto, dall’altra era immensamente felice di riaverlo così vicino a sé. Cercò qualche cosa da dire sforzandosi di tenere a freno quella metà di sé che non avrebbe fatto a meno di aggredirlo.
   «È una sorpresa vederti qui stasera, dato che questo tipo di feste non sembrano piacerti. Come mai sei venuto?» gli chiese provando a mantenere un tono docile.
   «L’unico motivo per cui sono venuto è perché in qualche modo speravo di poterti rivedere», rispose l’altro.
   Le spalle gli tremarono e trattenendo il respiro distolse lo sguardo da lui, che gli aveva fatto una così gradevole confessione. Allora anche Elisio doveva provare il suo stesso dolore, la sua stessa mancanza!
   «Platan, noi dobbiamo parlare», insistette l’altro cercando di attrarre su di sé la sua attenzione.
   «Perché ne senti tanto il bisogno, adesso? Altre volte sei rimasto in disparte e non hai fatto nulla per dissuadermi da ciò che avevo visto! Che c’è di diverso, stavolta?» suonava più come una minaccia che come un innocuo tentativo di chiarimento, e questo era accentuato ancora di più dalla curva maligna che, forse involontariamente, aveva preso la sua bocca. Platan era come una scatola ricolma di oggetti diversi che la gonfiavano e ne spaccavano le pareti, una diga che presto avrebbe ceduto e da cui si sarebbe potuta riversare acqua nello stesso modo in cui sarebbe potuto uscire del fango o del veleno.
   «C’è di diverso che stavolta non è colpa mia», ribatté alzando di poco la voce, ma sempre umile e sottomesso «Non ho rubato i tuoi documenti, ti giuro che non me lo sarei mai permesso!».
   «Sei un bugiardo».
   Elisio incassò il colpo in silenzio, sentendo che faceva male, malissimo. Strinse le palpebre nell’immane sforzo di sopportare il dolore. Riaprì gli occhi facendo riposare lo sguardo sulla chiara figura del Pokémon Leggendario, in mezzo al suo piumaggio morbido scolpito nella pietra. E si sentì inondato di nuovo coraggio, perché sapeva di dire il vero e che mai avrebbe potuto contestarglielo, che in qualche modo sarebbe riuscito a convincerlo riguardo quella verità.
   «Lo siamo entrambi», disse pazientemente, levigando la sua voce profonda.
 Platan lo squadrò osservando con quale sfrontatezza gli avesse indirizzato quella ripicca.
   «Ma cosa dici?» ribatté ansioso, subito preoccupato di quale verità sapesse che avrebbe potuto nascondergli, irrimediabilmente pensando al peggio.
   «Diantha mi ha detto del modo in cui ti stai comportando ultimamente. Sei di nuovo caduto nella tua depressione, Platan, non te ne sei accorto? Perché continui a dire di star bene?».
   «Cosa te ne importa di quello che faccio?!» esclamò nervosamente, ma rincuorato dentro di sé che non avesse scoperto il segreto che da innumerevoli mesi nascondeva nell’animo come aveva temuto.
   «Dannazione, come fai a chiederlo? Mi preoccupo per te perché io ti amo!».
   Fra di loro cadde un silenzio invalicabile. Si arrestarono a guardare la statua di Reshiram come immobili e senza vita. Erano così vicini l’uno all’altro, ma interiormente si sentivano talmente distanti, talmente irraggiungibili. Non sapevano spiegarsi il perché di quella sensazione che si era appena intromessa, non avrebbero saputo descriverla, né darle un nome. Erano separati, colmi di un grande dolore. A quel punto si erano accorti di quanto lontano apparisse il loro passato; il futuro si era sgretolato in un istante e il presente non esisteva. Respiravano in un lasso di tempo improbabile in cui i battiti dei loro cuori perduravano all’infinito e intorno a loro vi era l’ignoto.
   Elisio parve uscire per primo da quello stato di indeterminazione, girandosi verso la villa come se nulla fosse accaduto. Alzò la testa al cielo e a quel punto fu chiaro che non ricordasse assolutamente nulla di quella sensazione.
   «Platan, so che ne hai già abbastanza di questa storia. Ma vorrei mostrarti una cosa, se non ti dispiace», disse.
   Platan annuì, nel suo sguardo era ancora presente qualche traccia di quel coma. Lo seguì silenziosamente riprendendo un poco alla volta coscienza della propria esistenza e allora anche lui sembrò dimenticarsi di quell’emozione.
   Rientrarono nella villa addobbata a festa, ma si tennero alla larga dal luogo in cui le gente si concentrava. Anzi, a dire il vero, a Platan sembrò che Elisio stesse evitando di proposito il contatto con altre persone e che stesse cercando con tutte le forze di non farsi vedere, di non farsi scoprire. Si chiese dove lo stesse portando e in quello stesso istante avvertì il suo braccio poggiarsi sulle proprie spalle nel tentativo di averlo più vicino, di sentirsi più minuti e invisibili insieme. Si erano fermati di fronte a una libreria ed Elisio stava fingendo di mostrarsi interessato a qualche volume e lasciava scorrere qualche parola, facendo credere di essere immersi in chissà che discorso. Infatti, vide Platan con la coda dell’occhio, accanto a loro c’era una giovane guardia che li stava osservando. Si erano forse addentrati in una zona proibita di Reggia Aurea? Alzò gli occhi sul viso di Elisio e si domandò che intenzioni avesse. Distrattamente girò lo sguardo sulla libreria, lesse titoli in lingue antiche che non sapeva tradurre. Poi un cartellino ingiallito dal tempo attirò la sua attenzione. A quanto pareva, un libro della raccolta era stato smarrito e si intimava chiunque lo avesse ritrovato di restituirlo alla dirigenza della villa. Platan lo indicò alzando un dito verso di esso e chiese ad Elisio se sapesse di che libro si trattasse.
   «Oh, si tratta di una delle tante leggende sulla Reggia Aurea!» si inserì a quel punto la guardia «Si diceva che ci fosse questo libro in cui era racchiuso il segreto per far rivivere i Pokémon... Ma sono anni che non se ne trovano più tracce. Pensate, non appena la dirigenza si mise alla ricerca di quel libro, si scoprì che nel registro della biblioteca della villa non era stata raccolta alcuna informazione riguardo ad esso! Come se non fosse mai esistito...».
   «Che storia curiosa...» commentò Platan accompagnato da un cenno d’assenso da parte di Elisio.
   «Quindi non deve sorprendere sapere che se ne abbandonarono le ricerche quasi subito. Un libro fantasma... È quasi impossibile da ritrovare! Ora non ricordo neanche il titolo preciso, in effetti. Miti di Kalos... Leggende della regione di Kalos... Una cosa del genere».
   Platan sentì un brivido viscido corrergli lungo la schiena.
   «Miti e leggende della regione di Kalos, forse?» chiese, senza batter ciglio.
   «Ah, giusto! Miti e leggende della regione di Kalos, proprio così! Avevo fatto un po’ di confusione!» esclamò con una risata imbarazzata.
   «Comunque sia,» subentrò Elisio poggiando ancora una volta e con cautela il braccio sulle spalle di Platan in un gesto di conforto e protezione «sarebbe stato davvero un peccato se un libro del genere fosse esistito e poi andato perduto. Il segreto per riportare in vita i Pokémon... Scommetto che al nostro Professore non sarebbe dispiaciuto dargli una letta, vero?».
   «Oh, lei è il Professor Platan?» si informò incredulo «Mia sorella minore va matta per lei, sa?».
   All’improvviso si udì un frastuono provenire dalla terrazza. Il giovane si mise in allerta ed esclamò che c’era bisogno di lui e deliberatamente lasciò i due di fronte alla libreria, senza porre un secondo controllo alla zona.
   «Un po’ distratto il ragazzo, non ti pare?» commentò Elisio.
   Si allontanò da Platan e gli chiese di seguirlo, approfittando della situazione. Lui gli andò dietro senza fiatare, ignorando il vociare che proveniva dall’altra parte del corridoio e rimuginando su ciò che aveva appena intuito: dopo anni si ritrovava in mano l’evidenza assoluta che Elisio non aveva mai preso in prestito quel libro, ma che anzi l’aveva rubato, e l’aveva fatto distruggendo qualsiasi prova della sua colpevolezza. Non sapeva come digerire la cosa, se prenderla bene o male, ma ben presto si dovette rassegnare e mettersi il cuore in pace, poiché le sorprese per lui ancora non erano finite.
   Elisio si era arrestato davanti ad una porta. Prima di aprirla attese in silenzio che Platan si ricomponesse: aveva un aspetto leggermente confuso e ne capiva il motivo. Tuttavia non voleva forzarlo a comprendere, ma lasciargli il tempo e lo spazio di cui aveva bisogno, perché ciò che gli avrebbe dichiarato entro pochi minuti, avrebbe creato ancora più caos nella sua testa. Non ne era particolarmente entusiasta, ma c’era bisogno che vedesse, che sapesse.
   «Tu sei completamente matto», disse ad un tratto il Professore subito dopo aver finito di processare il tutto nella sua mente.
   «Certe volte è necessario», disse lui accennando a un sorriso «Entra, presto».
   Quando entrambi furono dentro la stanza e la porta si richiuse dietro di loro, nessun suono fu più in grado di raggiungerli dall’esterno. Elisio si mosse lentamente in avanti e si accostò alla parete opposta. Su di essa vi era appeso un quadro dalle misure eccezionali e in esso era raffigurato un uomo dai tratti duri e aspri, gli occhi sottili e nerissimi, il viso incorniciato da lunghi capelli bruni. Aveva già visto quell’immagine in qualche libro di storia, ma vagamente ricordava chi fosse. Lanciò uno sguardo al compagno, incerto su ciò che dovesse fare.
   «Guarda meglio, Platan. Quel volto non ti è familiare?» lo incoraggiò lui.
   Allora Platan guardò e si sforzò di riconoscere qualcuno in quelle sembianze, ma non gli veniva in mente nulla. Riprovò un paio di volte, strizzando gli occhi e posando sempre maggiore attenzione su ogni particolare. Ma chi era, chi era? Non gli ricordava nessuno. Si preparò ad ammettere la propria sconfitta, a dire a Elisio che davvero non sapeva vedere nessuno di familiare in quella faccia austera e vecchia.
   Poi non seppe come, forse s’era spostato e la luce aveva colpito l’immagine con un’intensità particolare, ma quando la figura gli ritornò alla vista per l’ennesima volta, si sorprese di non aver riconosciuto prima quelle sembianze.
   «AZ?».
   Elisio annuì.
   «AZ. Sembra sia stato lui a far costruire questo palazzo trecento anni fa».
   Ma Platan non sembrava soddisfatto. Intravedeva qualcosa nei movimenti di Elisio che gli suggeriva che non l’aveva condotto in quella stanza soltanto per fargli vedere quel dipinto.
   «L’inizio e la fine», ripeté quel modo particolare in cui l’uomo gliel’aveva presentato quel pomeriggio di pioggia e che non aveva del tutto compreso, forse nella speranza che finalmente gliene desse una spiegazione.
   Nel momento in cui Platan pronunciò quelle parole gli ritornò alla vista come un lampo l’immagine che lo aveva accolto durante il suo ingresso nella sala sotterranea in cui era custodita l’Arma Suprema. All’apertura delle porte, una figura martoriata, senza braccia e in equilibrio su una gamba sola gli aveva dato il benvenuto nel luogo in cui doveva aver avuto origine l’inferno che aveva tormentato Kalos tremila anni prima. Entrando aveva calpestato alcuni cocci, i quali, ad una vista più attenta, aveva riconosciuto come parti di un viso: a quella scultura era stata staccata la testa e poi gettata sul pavimento in un impeto di rabbia e di odio. Sul suo piedistallo vi era una semplice, tragica frase, che gli era bastata per comprendere a chi alludesse quel corpo straziato: Colui che fu inizio e fine.
   «L’inizio e la fine», ripeté Elisio cercando di trovare le parole giuste con cui spiegare a Platan «Tremila anni fa, la nostra regione viveva in un periodo di bellezza e fortuna. Era l’Età dell’Oro, sancita ancor più fortemente dalle prime unioni tra uomini e Pokémon. Chi più di tutti si fece portatore di questa alleanza fu AZ. Egli si legò a Floette, e nel momento in cui salì al trono, portò grandi innovazioni per il regno, seppe diffondere cultura e fortuna. Portò l’inizio di un tempo prospero. Ma un giorno, improvvisamente scoppiò una guerra. Entrambi sappiamo come si svilupparono le vicende. Con la potenza sprigionata dall’Arma Suprema che aveva costruito, AZ mise fine alle battaglie, ma inevitabilmente anche a tutto ciò che aveva creato e che i suoi sudditi avevano amato. Fu la fine di un’epoca. Fu la fine della speranza che le genti avevano riversato nel proprio futuro».
   Fece una breve pausa. Platan in cuor suo non poté fare a meno di chiedersi se Elisio comprendesse che se avesse continuato a dedicarsi al suo progetto sarebbe stata la fine anche per le loro genti. Non capiva che la storia si sarebbe ripetuta un’altra volta? Con le sue morti, con le sue disgrazie...
   «L’antico re aveva un fratello», riprese il discorso «Egli, dopo aver visto la sofferenza e la distruzione che l’Arma Suprema aveva causato, decise di nascondere la macchina sotto le profondità della terra, in modo che nessuno potesse scovarla un’altra volta e rischiare di riportare la devastazione di cui lui e tutto il resto del popolo erano stati testimoni. Prima di morire scrisse un libro in cui fosse contenuto ogni dettaglio di quella guerra, dell’Arma, del modo in cui AZ era riuscito a riportare in vita Floette. Decise che esso dovesse essere tramandato di generazione in generazione ad ogni suo postero, fino alla fine dei tempi. Quel libro, Platan, io non l’ho rubato».
   Si portò una mano al petto e abbassò la testa: «Io sono l’ultimo discendente. Esso era mio di diritto».
   Platan lo stava osservando fissamente con le braccia conserte, gli occhi tradivano un senso d’attesa e impazienza. Sì, già sapeva, già glielo aveva detto di essere il discendente del fratello minore di quel re che aveva costruito l’Arma Suprema. Stava ancora spianando la strada per confessargli qualcosa, ma non riusciva a intuire di cosa si trattasse. Lo guardava, la sua attenzione era tutta riversata su di lui, sul suo viso, sul suo sguardo, sulle sue labbra, moriva dalla voglia di sapere che cosa ancora stava esitando di dirgli. Elisio tacque per minuti osservando i suoi occhi grigi finché non fu certo che fosse pronto ad ascoltarlo, a recepire le sue ultime parole. Platan intanto con un cenno della testa lo esortava a sbrigarsi, perché era passato diverso tempo da quando erano entrati e temeva che presto, calmatesi le acque dall’altra parte, li avrebbero potuti scovare.
 
   «È per questo motivo che io credo di aver capito perché noi ci incontrammo, quel giorno, tanto tempo fa. Non fu per caso, Platan. Doveva essere destino. Noi fummo scelti».
 
   Tutto, tutto si sarebbe potuto aspettare, ma non quello! Scelti? Che assurdità! Il destino? Che ne poteva sapere, lui, del destino? Abbassò lo sguardo e rimase in silenzio, accarezzandosi le braccia. Pareva essersi rabbuiato all’improvviso, mentre fino a pochi secondi prima non aveva fatto altro che fremere nel desiderio di sentire ciò che Elisio gli stava celando.
   «Noi fummo scelti... Per cosa?» chiese a voce bassa.
   «Per vivere questa vita».
   Alzò la testa con uno sguardo interrogativo: ciò che diceva non aveva senso.
   «Vorresti dire che io fui scelto per vivere questa vita d’inferno? Per provare tutti questi dolori? A che scopo? Che vuoi dire, Elisio?».
   «Lo so, lo so che è difficile da credere! Ma non so spiegartelo, è quello che ho provato quando sono entrato in quella sala e ho visto l’Arma Suprema davanti ai miei occhi. Ho avuto come una folgorazione, come la certezza che la mia vita non sarebbe potuta essere altrimenti, che nessun’altro sarebbe potuto essere mio compagno all’infuori di te, che quel posto era riservato solo ed esclusivamente a te e che io non avrei avuto altra scelta che legarmi con te, perché il mio destino non voleva che questo. È il ruolo che ci fu preposto alla nostra concezione».
   Platan non capiva. Elisio cercava di spiegarsi più chiaramente, ma non c’era verso: Platan aveva i pensieri troppo confusi, adesso, la mente carica di informazioni che fumava e sragionava. Però voleva saperne di più, voleva arrivare alla visione che aveva colto Elisio. Come poteva dire che gli avvenimenti di quel giorno, tanto tempo fa, erano stati voluti dal destino, se in realtà non si trattavano altro che di sogni, di aria, di nulla? Gli girava la testa.
   «Elisio, portami via», gli chiese mantenendo basso il proprio tono «Sono... Sono stanco. Non voglio più stare qui. Portami da qualche altra parte. Andiamocene».
   Non protestò quando Elisio gli offrì il proprio braccio, anzi, vi si aggrappò come lo zoppo si stringe al bastone. Platan era visibilmente stravolto, camminava piano e sospirando poggiava la testa contro la sua spalla, come bisognoso di un sostegno. Di tanto in tanto Elisio passava le proprie dita sulla sua mano, sentiva che era inopportuno, ma era l’unico modo in cui gli pareva che l’uomo riuscisse a trovare un po’ di conforto.
   «Vado a ritirare la giacca dal guardaroba,» gli disse lasciandolo un attimo di fronte l’atrio, «torno subito».
   Platan annuì, lo guardò mentre si allontanava. Prese il cellulare e decise di lasciare un messaggio a Diantha: “Sto andando via con Elisio. Ho bisogno di stare un po’ con lui. Dobbiamo parlare. Per favore, ritira le mie cose a nome mio. Domani mattina passo da te a riprendere tutto. Grazie”. Spense lo strumento per risparmiare la batteria, o forse per non essere infastidito nel caso in cui qualcuno lo avesse chiamato mentre era in compagnia di Elisio. Mosse qualche passo nell’atrio osservando i muri e i soffitti riccamente decorati. Poi lo sguardo gli cadde sulla statua d’oro di Milotic che campeggiava in tutto il suo splendore al centro della sala. Di fronte a quella vista gli tornarono alla mente ricordi felici, ma dal sapore amaro, adesso. Sprazzi di una vita normale vissuti con semplicità e tenerezza.
   Elisio tornò tenendo la giacca appesa a un braccio, si apprestò ad appoggiarla sulle spalle sottili di Platan, a richiuderne con cura i bottoni sul suo petto.
   «Fuori è scesa la temperatura, è meglio che ti copra», gli disse.
   «Mi trovi ancora come un orripilante e insulso Feebas trasformatosi in un incantevole e splendido Milotic?».
   Era passato tanto tempo. Elisio si sorprese di sapere che ancora ricordava quella frase. Erano stati così giovani, così innocenti. Due perle nascoste nel profondo del mare, due boccioli in attesa di aprirsi e fiorire. Chiudendo l’ultimo bottone si spinse in avanti in una sorta di abbraccio, ma senza toccarlo, e sussurrò all’orecchio la risposta.
   Un alito fresco li accolse di fuori, gelandogli le guance e insinuandogli un brivido lungo la schiena. Il cielo era terso, ma nero, non c’erano stelle quella sera che brillassero per loro. Diantha si affacciò alla finestra, vide i due allontanarsi dalla Reggia mentre camminavano lungo l’ampio cortile di ghiaia. Uno accanto all’altro, in silenzio, si addentrarono verso il viale alberato del Percorso 6. I rumori e la musica si affievolirono lentamente, vennero circondati dal suono prodotto dai rami accarezzati dal vento, dallo sfruscio dell’erba alta al passaggio di qualche Pokémon selvatico.
   «Tuttavia, vorrei che mi chiarissi solamente un dubbio», disse il rosso ad un tratto.
   L’altro alzò il viso e lo guardò: «Di cosa si tratta?».
   «Questo tipo di feste non piacciono neanche a te. Quindi, perché?» chiese.
   Platan sorrise lievemente, si strinse meglio nella giacca del compagno e venne pervaso dalla sua raffinata essenza di gigli.
   «Perché anche io, Elisio, speravo di poterti rivedere».



***
Angolo del francese.
     * Mademoiselles = Signorine ;
     * Monsieur = Signore .




 


Nella Reggia Aurea c'è un signore che dice che nelle librerie della villa si pensava ci fosse stato un libro che contenesse il segreto per far rivivere i Pokémon, tuttavia poi smentisce tutto dicendo che "È solo una leggenda... Non vedo come un libro del genere potrebbe trovarsi nella biblioteca del palazzo". Dato che come al solito mi piace tantissimo dare una motivazione a quello che dicono i personaggi non giocabili, ho provato a inventarci una storia sopra. È passato molto tempo da quando è entrato in scena, ma spero che la verità riguardo quel libro sia stata una bella sorpresa... Eh eh...

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Nella foresta buia (Seconda parte) ***



..

19 . Nella foresta buia
(Seconda parte)


 

   «Non l'hai ancora capito che è stato tutto solo e soltanto un sogno?»
   Era quello che avrebbe voluto dirgli dopo esser stato per troppo tempo ad ascoltare quelle parole inutili. Tuttavia non aveva trovato il coraggio di farlo, perché infrangere i suoi sogni, almeno quelli più puri, era l’unica cosa che si sarebbe sempre rifiutato di fare, in qualsiasi circostanza. E così, sovrappensiero, allungando la mano verso il tavolo per afferrare il bicchiere e bere un ultimo sorso di vino, l’oggetto gli era scivolato dalla presa, si era infranto sul pavimento lasciando una chiazza rossa sul marmo.
   «Scusami!» esclamò mortificato una volta che si fu ripreso dai propri pensieri «Scusami, Elisio, non volevo!».
   Eppure Elisio non aveva l’aria di essersi arrabbiato. Platan si mordeva le labbra e osservava con dispiacere la macchia continuando a scusarsi. Fissò lo sguardo sulla scopa mentre l’uomo spazzava via i vetri rotti e gli diceva di fare attenzione a dove avrebbe messo i piedi quando si sarebbe alzato. Soltanto dopo numerosi incoraggiamenti e rassicurazioni da parte di lui, Platan finalmente si calmò. Elisio si offrì di andargli a prendere un altro bicchiere, ma lui lo bloccò: «Non voglio esserti ancora di peso», gli aveva detto.
   «Semmai è il contrario», aveva ribattuto amaramente. Si era fermato in silenzio accanto al divano, pensieroso, poi era tornato a sedersi vicino al compagno.
   «Puoi bere dal mio, se vuoi», aveva proposto allora, tendendogli il bicchiere.
   «Se sono in compagnia, non mi piace bere da solo. Berremo insieme», aveva risposto l’altro trattenendo le dita del rosso contro la superfice vitrea, stringendovele con le proprie mani.
   Avevano ripreso a parlare, si guardavano l’un l’altro nei visi studiandosi come per riportare alla memoria un ricordo scomparso dalla mente.
   Che cosa hai fatto ultimamente? Come vanno i tuoi studi? E i tuoi Pokémon come stanno? Hai cominciato a lavorare a un nuovo progetto?
   Sei stato con altre donne? Con altri uomini?
   Guardami. Parlami. Accarezzami. Stringimi tra le tue braccia come facevi una volta.
   Mi daresti un bacio? Uno, uno solo.
   Fra parole dette ed altre solamente pensate, si addormentarono sul sofà, l’alito impregnato d’alcol e il fisico stanco, appesantito. Platan ad un tratto si svegliò. Si fece aiutare dal suo Garchomp a portare Elisio a letto. Lo distese sul materasso, si sedette accanto a lui. Forse avrebbe fatto meglio ad andarsene, pensò osservandolo. Una dispiacevole fitta l’aveva colpito alla bocca dello stomaco. Stava forse avendo qualche ripensamento sull’averlo seguito?
   Non era stato lui stesso a chiedergli di portarlo via da quel posto ricolmo di gente?
   Gli sfilò via il farfallino dal collo, aprì i bottoni di quella camicia bianca e stretta. Mano a mano che sbottonava l’indumento, lo sentiva sospirare e riprendere il respiro con maggior rilassatezza. Si fermò a metà del suo petto, quanto bastava per non lasciarlo soffocare nel sonno: certe volte, per mantenere l’eleganza, Elisio non si asteneva dal patire un leggero dolore, quando necessario. Fermò lo sguardo sul suo torace leggermente scoperto, dal colorito chiaro e le forme virili, forti.
   «Bellissimo, bellissimo Elisio...» non si trattenne dal dire. Lo accarezzò con la mano lungo la scollatura, sentendo la sua pelle nuda sotto i polpastrelli. Come lo desiderava, come lo rivoleva indietro! Solo e soltanto per sé, come un ladro col capriccio di rubare un’opera d’arte e nasconderla in un angolo sconosciuto della casa per riservarla esclusivamente alla propria vista.
   Ritrasse le dita.
   Gli rimboccò le coperte, gli mise un bicchiere d’acqua sul comodino, si prese cura di lui come aveva sempre fatto quelle volte in cui lo aveva trovato addormentato al tavolo di lavoro o nel vedere insieme un film di cui poco gli interessava alla televisione. Fra un ripensamento e l’altro, decise di rimanere. Si spostò silenziosamente verso l’armadio e si spogliò, prese la solita magliettona e la indossò. Si rintanò sotto alle coperte e raggomitolandosi contro il cuscino si lasciò sfuggire uno sbadiglio sonoro. Chiuse gli occhi cercando di addormentarsi.
   Da poche settimane avevano aperto un locale in una delle vie vicine, in lontananza si sentiva la musica che proveniva da lì. Qualche ragazzo rideva per strada, altri cantavano a squarciagola sotto l’effetto dell’alcol. I vetri della finestra della stanza, tuttavia, erano abbastanza spessi da non far trapelare eccessivamente i rumori esterni.
   Sentiva Elisio rigirarsi tra le lenzuola: il movimento delle coperte che si stringevano e si allentavano attorno al suo corpo gli trasmetteva una sensazione piacevole. Lo rassicurava del fatto che nel letto c’era anche lui e non era solo. In fondo, la sua compagnia gli dava conforto, era sempre stato così e per quanto ci si fosse sforzato non avrebbe mai potuto cambiare le cose. Capo del Team Flare o meno, criminale o brillante uomo d’affari, Elisio aveva quella stazza imponente, quell’aura grandiosa e fiera, che in un certo senso trovarsi fra le sue braccia, nelle sue grazie, sotto la sua protezione, inevitabilmente trasmetteva una sensazione di sicurezza, di rifugio dalle brutture del mondo esterno.
   Se soltanto avesse smesso di lasciarsi influenzare da quelle brutture, pensò Platan con rammarico.
   Si voltò un attimo dal lato opposto per prendergli la mano e stringerla in una carezza, poi però si fermò, dicendosi che era una sciocchezza, e tornò a dormire.
   Era una notte calma, quella, in fin dei conti. Più la luna si spostava nel cielo disegnando il proprio arco, più il buio e il silenzio si diffondevano pacatamente sopra i tetti di Luminopoli, cullando il sonno dei suoi abitanti.
   Nelle notti come quelle, Elisio preferiva rimanere a scrutare i palazzi fuori dalla finestra, perdersi nelle proprie riflessioni in quel quadro apparentemente immobile eppure così ricco di vita. Chi poteva sapere cosa stava accadendo dietro ad una finestra chiusa? Oltre a una tenda che oscilla, dentro una macchina parcheggiata in fondo alla strada? Era in quel preciso momento che la natura umana si mostrava per ciò che era, che l’uomo si spogliava delle vesti indossate al mattino per rivelare il suo vero aspetto, per dare sfogo ai propri tormenti, confessare un odio o un amore lontano dalla luce del sole che rende tutto evidente e chiaro, senza possibilità di celare un segreto, ciò che è più intimo. Quello che non si può dire viene gridato, sbattuto contro i muri con eccezionale audacia, senza il timore che lo si possa giudicare.
   Gli piaceva osservare quell’aspetto così naturale dell’uomo, scoprirne ogni particolare e dettaglio. Innescava in lui un certo fascino a cui non riusciva a sottrarsi. Mai, però, quell’attrazione sarebbe stata pari a quella che il Professor Platan era in grado di suscitargli in maniera così forte e vivida.
   E così quella volta, dopo essersi svegliato per la luce bianca della luna che campeggiava sul letto, anziché aprire la finestra e sporgersi a guardare fuori, aveva chiuso le tende oltre la testiera e tornando a sdraiarsi si era fermato a studiare la sagoma nera e sottile della schiena del compagno.
   Compagno, perché si fosse trattato d’amore o di viaggi in luoghi sconosciuti, lui era sempre stato il miglior compagno su cui fare affidamento.
   Avrebbe voluto avvicinarsi a lui solamente di qualche altro centimetro, senza toccarlo, ma ancora provava timore. Si limitò ad osservarlo.
   Platan ogni tanto bisbigliava frasi scombinate e lui lo ascoltava, chiedendosi che cosa stesse sognando in quel momento. Lentamente cominciava a riaddormentarsi e gli pareva di vedere l’albero rigoglioso che l’uomo gli stava indicando al centro del burrone, con i suoi fiori dai mille colori, i profumi del bosco, le foglie verdi come smeraldi che si scuotevano mosse da un vento gentile. Si presero per mano e si arrestarono lungo il brodo del precipizio a guardare con occhi meravigliati quell’albero misterioso. Una luce sfavillante brillava all’interno del tronco. Elisio volle avvicinarsi per osservare meglio quello strano fenomeno, ma non appena mosse la gamba, un allarme cominciò a squillare nelle sue orecchie, come per ammonirlo.
   Gli ci volle qualche istante per riprendere i contatti con la realtà e rendersi conto che ciò che aveva sentito non era un allarme, ma la suoneria del suo Holovox che trillava sul comodino con fare impaziente. Vide Platan rigirarsi nel letto in cerca di una posizione in cui il suono non lo raggiungesse, così si affrettò a rispondere alla chiamata per non disturbarlo ulteriormente.
   «Che c’è?» rispose in tono secco, ruvido e infastidito portandosi lo strumento all’orecchio. La sua voce suonava profonda e minacciosa. Platan socchiuse gli occhi e guardò l’uomo chinato dal lato opposto che cercava di capire che cosa fosse successo con mille domande e provocazioni.
   «Xante, è la terza volta questa settimana. Possibile che non riusciate a sistemare questo problema?».
   Il Professore sospirò, allungò una mano verso di lui e la posò sulla sua spalla. Va tutto bene. Tranquillo, sembrava gli volesse dire con quel gesto. Elisio si calmò. Prese un respiro e parlò più lentamente.
   «Ho capito. Sì, vengo subito. Aspettatemi».
   Attaccò la chiamata e ripose l’Holovox sul comodino, restò in silenzio con le braccia incrociate sul petto a rimuginare.
   «Mi dispiace d’averti svegliato», disse a Platan dopo un po’.
   «Non fa niente», disse lui in tono pacato «Devi andare?».
   «Sì».
   Il Professore fece scorrere la mano lungo il suo braccio, poi lo lasciò. Elisio si alzò dal letto, cominciò a prepararsi per uscire. Platan lo osservava mentre si cambiava e intanto pensava. Si sedette con la schiena poggiata sulla testiera e si mise a giocherellare con un lembo della coperta. I cassetti si aprivano e si chiudevano, le stampelle si scontravano tra di loro nell’armadio e tintinnavano mentre Elisio vi riponeva gli abiti da festa. L’uomo si aggiustò le maniche della camicia, avvolse l’ascot attorno al collo e se lo annodò con cura guardandosi allo specchio. Dietro di sé scorgeva la figura magra del caro Professore. Incontrò i suoi occhi nel riflesso e istintivamente distolse lo sguardo.
   «Elisio,» lo chiamò quello ad un tratto «quale sarà la prossima mossa del Team Flare?».
   L’uomo si bloccò. Il nodo era venuto male, aveva una forma scomposta e disordinata. Sospirò, sciolse tutto e si apprestò a ricominciare daccapo.
   «È che l’ultima volta non mi hai detto nulla...».
   «Non ti ho detto nulla perché avevo paura di ferirti. So quanto per te tutta questa storia non sia altro che un peso inutile».
   «E tacere ti sembrava la soluzione migliore?».
   «La prossima mossa», ignorò il suo ultimo commento perché non avrebbe saputo in che modo ribattere «sarà quella di prendere possesso della Centrale Elettrica».
   Platan lo osservò sorpreso. La Centrale di Kalos? Di certo non era un obiettivo di poco conto.
   «E perché rischiare una mossa così azzardata?».
   «Certo che sei una persona proprio curiosa, Platan. Se non sai tutto, non ti accontenti mai, come al solito...».
   «Se non lo fossi, non sarei Professore di Pokémon, dopotutto».
   Elisio sorrise lievemente. Prese il pettine dal cassetto e si riordinò i capelli arruffati.
   «Nelle ultime settimane mi sono accorto che l’energia dei Pokémon che abbiamo revitalizzato dai fossili presi nella Grotta dei Bagliori non è sufficiente per alimentare del tutto l’Arma Suprema. Hanno un buon potenziale per crescere e rafforzarsi, ma noi non abbiamo le apparecchiature adatte ad aumentarne la potenza. C’è bisogno di altra energia e la Centrale Elettrica è il luogo adatto in cui raccoglierne a sufficienza. Una delle mie Reclute è riuscita ad entrare nella struttura e già abbiamo tentato diverse volte di accumularne un po’ nei Laboratori per vedere se il piano funziona».
   «Non mi dirai che i blackout che ci sono stati diverse volte a Corso Alto in questi giorni sono per causa vostra...».
   «Temo di sì».
   Non c’era molto da dire. Quella parte di Elisio lo lasciava davvero senza parole, tuttavia non poteva fare a meno di provare una strana attrazione per quel carattere calcolatore: mai lo aveva visto fare un così grande sfoggio della sua intelligenza quanto in quella circostanza.
   «E poi?» chiese ancora, il tono lievemente incupito «Immagino che a quel punto il progetto sarà giunto al termine».
   «Non ancora», e la sua voce era morbida, era rassicurazione e conforto, «Prima», ed ecco che cominciava a infiammarsi di nuovo, a diventare fuoco «Prima c’è un’ultima cosa che voglio fare. Prima che tutto finisca, intendo far capire alla gente la vera bellezza dei Pokémon. E lo farò privando ognuno di ogni contatto con essi. Sottrarrò tutte le Poké Ball prodotte nella Fabbrica di Romantopoli e distruggerò i macchinari in modo che non sia più possibile fabbricarne».
   Platan tacque. Le sue labbra si incurvarono in un arco ricolmo di dispiacere.
   Le Poké Ball. Il simbolo più importante dell’amicizia fra i Pokémon e gli esseri umani.
   «In mancanza dei Pokémon,» Elisio riprese il discorso «quegli insulsi bastardi che ne abusano per il proprio beneficio si renderanno conto di quanto meravigliose siano quelle creature. Rimpiangeranno di averle sfruttate per i propri scopi egoistici. Sai quanti in tutto il mondo strumentalizzano i Pokémon con finalità losche. Sai il modo in cui ogni giorno quelle creature vengono maltrattate e torturate. Ricordo ancora quando sui giornali leggevamo dei colpi sferrati dal Team Rocket a Kanto e Johto. Io non permetterò che simili atrocità si ripetano ancora! Tu più di tutti dovresti capirmi, Platan...».
   E lo capiva. Comprendeva la sua rabbia, perché era la stessa che si infiammava in lui stesso quando veniva a sapere di queste violenze o ne era testimone o se anche ci si soffermava a pensare soltanto. Però, però...
   «Elisio, sei davvero convinto di ciò che vuoi fare? Per te è davvero questa l’unica soluzione possibile?» gli chiese.
   «Se ne avessi avuto altre a disposizione, non avrei versato le mie forze su una così drastica», rispose.
   Si allontanò per pochi minuti ritirandosi in qualche stanza per raccogliere alcuni fascicoli di cui aveva bisogno. Quando tornò vide Platan ancora fermo immobile nella stessa posizione in cui lo aveva lasciato. Aveva un aspetto severo. Stava riflettendo. Elisio si sedette sul letto e si infilò una scarpa ad un piede, si appoggiò contro la gamba per legarne i lacci.
   «Perché non hai chiesto aiuto a me?» domandò ad un tratto il compagno, voltando la testa verso di lui «I Pokémon, la loro energia... Sai bene che io sono in grado di portarli al massimo delle loro potenzialità. Come Professore potrei essere una risorsa molto proficua, per voi».
   «Chiederti di aiutarci contro il tuo volere? No. Finirei solo per sentirmi in colpa. Tralasciando tutto il resto, tengo molto a te».
   Si allacciò la seconda scarpa.
   «Se c’è un motivo per cui voglio mantenere la nostra relazione un fatto privato, è perché, nel caso in cui qualcosa dovesse trapelare e diffondersi, non intendo assolutamente che tu venga coinvolto in qualche questione. Di questa storia non ne hai voluto sapere fin dall’inizio. Ricordo perfettamente quando sei scappato da qui, quella sera, non volevi nemmeno guardarmi in faccia. Mi sono sentito talmente male perché sapevo che stavi provando un dolore immenso per causa mia. E quando ti ho sentito gridare quelle cose il mese scorso al Caffè, quando eri venuto con Floette... Temevo...».
   Tirò bene il nodo e con lentezza tolse le dita dai lacci. Alzò lo sguardo verso il muro. Strinse le palpebre in un attimo di raccoglimento.
   «Quello che intendo dire è che non voglio farti soffrire per tutto questo. Se non vuoi entrarci, allora non c’entrerai. Mi sporcherò io le mani, ma tu, tu devi rimanere puro. È per questo motivo che non mi sarei mai permesso di sottrarre i tuoi documenti. Non mi sarei mai perdonato un simile tradimento nei tuoi confronti», si voltò, incontrò gli occhi grigi di lui «Ma forse sono solo uno sciocco per continuare a sprecare parole in questo modo. Tu non mi credi, non è vero? Non mi crederai mai».
   Platan sussultò. Si morse le labbra, le ciglia abbassate per nascondere il proprio sguardo. Non aveva mai pensato di averlo fatto soffrire così tanto. Avrebbe voluto consolarlo, ma non poteva contrastare quel rancore che ancora gli si gonfiava nel petto, e nonostante gli avesse spiegato tutto quanto, non aveva il coraggio di credergli, di perdonarlo, ancora. Si scostò un ciuffo di capelli da davanti la fronte e si girò.
   Elisio si arrese. Si tirò in piedi, prese le ultime cose e si apprestò ad andarsene.
   «Ti lascio le chiavi sul tavolo in cucina», disse fermandosi accanto allo stipite della porta «Quando te ne andrai, chiudi bene casa. E mi raccomando, cerca di non dimenticartele, stavolta. Passerò a riprenderle da te in giornata».
   Rivolse un ultimo sguardo a Platan rannicchiato tra le lenzuola. Provava una leggera amarezza nell’andarsene senza aver ricevuto nemmeno un bacio. Quando il Professore si girò per salutarlo, le parole gli morirono in bocca, sentì un tonfo al cuore: gli occhi di Elisio erano talmente languidi da apparire come una carezza soave sul viso.
   La porta si chiuse e si ritrovò solo nel buio della casa.
   Affondò la testa sul cuscino e cercò di riaddormentarsi.
   Stupido, stupido Elisio! Non sapeva proprio nulla su quei monoliti? Gli sembrava poco plausibile. Aveva organizzato quella spedizione per scoprire i segreti di quelle pietre? E c’era riuscito in così poco tempo? No, non era possibile. A lui c’erano voluti mesi e mesi per studiarli, per mettere per iscritto quella relazione. Forse qualcuno gli aveva dato una pista? Aveva distrutto i suoi documenti cartacei per evitarlo.
   In effetti non si erano trovate tracce di intromissione nel registro del foglio elettronico.
   E se avesse avuto occasione di sbirciare prima che fosse riuscito a trasferire i dati sul dispositivo? No, si era sempre impegnato a nasconderli dalla sua vista, a maneggiarli con cura in sua presenza in modo da non attirare la sua attenzione. Allora come aveva fatto? Qualcun altro lo aveva messo al corrente? Sina? Dexio? Improbabile, i suoi assistenti non mancavano mai di informarlo riguardo ogni avvenimento che aveva luogo fra le mura del Laboratorio. Forse... quel Professore di Unima? Avevano collaborato insieme nello studiare quelle rovine pensando che potessero avere il potere di manifestare la vera forza dei Pokémon... Poi però, in seguito a circostanze misteriose, era completamente scomparso dalla circolazione. Chissà cosa gli era accaduto? Magari Elisio, con i suoi numerosi agganci, era riuscito a riprendere contatti con lui. Sennò cos’altro? Gli erano davvero bastate poche ore per scoprire il funzionamento di quelle costruzioni?
   Con la testa ricolma di troppi pensieri, non riusciva a prendere sonno. Si alzò nervosamente dal letto e si diresse in cucina per bere un bicchiere d’acqua fresca e sbollire l’animo. Mentre tornava in camera notò qualcosa di strano nel salotto. Si guardò attorno e poi la vide.
   Si arrestò di fronte allo specchio. C’era qualcosa che non gli tornava nell’immagine riflessa. Aguzzò lo sguardo e scorse un paio di occhiali poggiati sul tavolo. A quella vista un brivido gli corse lungo la schiena. Non era possibile che fossero lì. Mentre avanzava verso il vetro, un sottile brusio proveniente dalla finestra si fece strada nella stanza. Il vento di fuori si faceva sempre più forte, le imposte sbattevano e si udiva il brulicare delle foglie trascinate dalla corrente.
   Non era possibile una cosa del genere, pensava. Il tavolo era vuoto. E quell’oggetto non avrebbe mai potuto trovarsi in quel posto. Mai. Erano passati anni, troppi anni. Dovevano essere andati persi.
   Allungò una mano verso lo specchio, non riusciva a trattenere la curiosità che gli consumava i pensieri.
   Immerse le dita nel vetro e fu come se stesse facendo scorrere le membra sotto il getto freddo e quieto di una cascata. Guardò la propria immagine riflessa, il braccio spezzato a metà. L’altra metà dell’arto pareva pulsare a contatto con l’aria fresca che spirava dall’altra parte.
   Fissò gli occhiali con insistenza, muovendo la mano incastrata al di là dello specchio. Il tavolo era troppo lontano e non riusciva a raggiungerlo.
   Trapassò il vetro trattenendo il respiro e una volta fuori si ritrovò in una stanza perfettamente speculare a quella da cui era giunto. Rimase a scrutare attorno in attesa di abituarsi al nuovo spazio, a ritrovare l’orientamento contaminato dalle informazioni ricevute dall’altra parte. Ogni cosa era al suo posto. Si affacciò verso le camere circostanti e vide che altrettanto in ordine erano gli oggetti sparsi in giro per la casa. Persino la macchia di vino era ancora lì, vicino al tappeto, in attesa di essere lavata via dal pavimento di marmo.
   Ad una prima occhiata quel luogo pareva essere l’esatta proiezione del proprio riflesso. Tranne che per un particolare. Platan si mise a correre verso il tavolo, non riuscendo a comprendere.
   Afferrò gli occhiali e li studiò con sguardo inquisitore mentre se li rigirava tra le dita. La montatura era consumata. Lungo la superfice, a macchie dorate ne seguivano altre scolorite, brune e corrose dal tempo. Le lenti rotonde e perfettamente circolari riflettevano con tonalità opache la sua immagine. Prese un lembo della lunga maglia e con essa spolverò i vetri, li rivolse alla luce della luna per controllare di averli puliti bene. Rimase a scrutarli ancora, silenzioso.
   Erano passati anni, troppi anni. Dovevano essere andati persi.
   Udì un mormorio acuto nelle orecchie. Istintivamente se le tappò con le mani, guardandosi attorno per capire da dove provenissero quelle voci così stridule e sgraziate. Ma non c’era nessuno nella stanza, nessuno! Era solo. Sentiva le voci nella testa. Strinse gli occhiali nel palmo della mano e si volse indietro, verso lo specchio, cercando di sfuggire a quel caos di suoni. Sgranò gli occhi quando si accorse di non essere più nell’appartamento. Dalle sue labbra serrate risuonò un mugolio inquieto.
   Aveva i piedi nudi, sporchi di terra, dei ciuffi scomposti di erba si infilavano in mezzo alle sue piccole dita tondeggianti. Provava sollievo a contatto con la frescura del prato. Sentiva le palme pulsare e i talloni dolergli. Doveva aver corso molto. Vide il nastro azzurro di un fiume che serpeggiava fra le rocce qualche metro più avanti. Vi si diresse e sedendosi sulla sponda vi immerse i piedi doloranti. Con il visetto rintanato tra le mani, osservò il proprio corpo riflesso nell’acqua. Era un corpicino sottile, dalle forme affusolate e tenere. Un corpo da bambino. Si stropicciò la punta del naso con le dita trattenendo un singhiozzo e tastò gli occhiali che aveva poggiato sulla roccia posta al suo fianco.
   Improvvisamente udì dietro di sé lo spezzarsi di un ramo nel folto della vegetazione. Scattò in piedi e indietreggiò. Voci, ancora voci. E poi centinaia, migliaia di occhi che lo scrutavano con ossessione, beffardi e insidiosi. Infilò gli occhiali che lo avrebbero protetto da quegli sguardi malevoli, che non avrebbero permesso agli altri di scavare nel profondo del suo animo, che avrebbero sbiadito ogni visione, ogni pericolo. Ma quelli si avvicinavano, si avvicinavano a passi eccessivamente rapidi, ed erano in troppi per lui che era uno solo. Indietreggiò ancora, strusciando un piede contro una roccia appuntita e ferendosi. Trattenne un grido di spasmo mordendosi le labbra, e raccogliendo tutte le forze cominciò a correre a perdifiato dall’altro lato del fiume, sforzandosi di seminare i suoi inseguitori. Scalò pareti di roccia e scivolò lungo pendii scoscesi, strisciò in mezzo ai campi ricchi di arbusti e si tuffò in ruscelli lasciandosi trascinare dalla corrente; ma quelli erano troppi, quelli erano belve. Sentiva male alle gambe per il troppo correre e si sarebbe voluto fermare a riposarsi anche solo un secondo, ma loro erano sempre a pochi passi da lui e non c’era possibilità di arrestarsi senza essere travolti dalle loro bocche, dai loro artigli. In un gesto di disperazione si fiondò verso l’entrata della foresta, ma nel farlo gli occhiali scivolarono via dal suo viso e vennero inghiottiti dalla violenza dello sciame.
   In un primo momento sentì di essersi salvato, di aver trovato un rifugio sicuro. Le belve non potevano entrare in quel luogo. Ma ben presto si accorse di aver commesso un errore, perché l’aspetto della foresta era ancora più raccapricciante e spaventoso di quanto non fossero state le loro grida. Aveva perso i suoi occhiali ed ora era costretto a fronteggiare quella visione così reale e vera del mondo che lo circondava senza potersi proteggere. Vagò a lungo a passi lenti, lo sguardo che si aggirava inquieto tra i tronchi spogli e neri in cerca di qualche pericolo. Non sapeva se fosse giorno o notte, se da quando era entrato fossero passate poche ore o innumerevoli giorni. Camminava, camminava. Dov’era l’uscita? Mentre la cercava si perdeva infinite volte. Mano a mano che il tempo passava, cominciò a perdere le speranze. Si sdraiò a terra coprendosi con una lunga foglia e si raggomitolò su sé stesso. Dormì profondamente per qualche ora, e nel momento in cui, svegliatosi, vide che era ancora nella foresta buia e che nulla era cambiato, non si contenne più e pianse.
   Il sapore delle lacrime si mischiava a quello della terra incrostata sulle sue guance. Sputò, gli disgustava. Stropicciò le mani tra i capelli mentre la gola gli bruciava e aveva sete e sapeva già che non si sarebbe potuto dissetare in quella selva magra e secca. Si tirò su spingendosi sulle braccia, la foglia che lo aveva coperto durante il sonno scivolò via dalla sua schiena. Si alzò in piedi, si calmò. Riprese a camminare in silenzio, senza crearsi aspettative su ciò che avrebbe trovato sul suo cammino. Stava scalando una grossa radice quando, inaspettatamente, vide una figura muoversi di fronte a sé, nascosta oltre una grande massa di fusti grigi e sottili. Balzò in avanti e con il cuore ricolmo di sollievo si mise a correre verso quell’ombra, le braccia protese in avanti per poterla afferrare al più presto. Non era solo, non era solo, non era solo!
   «Ehi!» gridò, cercando di attirare la sua attenzione «Ehi, tu!».
   Sussultò nel momento in cui riconobbe quella figura. Era il bambino con il fiore in mano: gli stava sorridendo. Quando fece per gettarsi tra le sue braccia, egli svanì, e si ritrovò con il volto schiacciato contro terra, gli occhi che bruciavano per il fango che vi era entrato dentro. Era stata un’illusione, allora? Un miraggio? Tremando per il dolore, aspettò che il bruciore agli occhi si alleviasse. Quando smise di lacrimare non esitò neanche un istante a rimettersi in moto. Doveva assolutamente uscire da quel luogo.
   Dopo giorni, o forse settimane, di cammino, sentì che le forze lo stavano abbandonando.
   Inciampò in un sasso e si aggrappò al tronco di un albero per non cadere. Respirava a fatica. Osservò i propri piedi sporchi e graffiati, coperti di croste e vesciche. Si chiese quanto avesse camminato in tutto quel tempo. Era stanco. Si lasciò andare lungo la corteccia e chiudendo gli occhi si accasciò fra le sue radici. Faceva freddo. Se si fosse addormentato, temeva che sarebbe morto di gelo mentre dormiva. Avvicinò le gambe al busto e le circondò con le braccia, la testa rintanata in mezzo alle ginocchia. Sospirò. Nonostante stesse combattendo con tutto sé stesso, il sonno lentamente lo stava prendendo. Si lasciò vincere senza opporre più resistenza.
   Poi, ad un tratto, uno strano calore si diffuse lungo la sua mano.
   La sentiva sghiacciarsi e un poco alla volta riprendere il controllo dei propri movimenti. Era avvolta in innumerevoli carezze offerte da delle dita sottili, morbide. Poi avvertì un telo, forse un mantello, poggiarsi sulla sua schiena, caldo e accogliente. Ricominciava a prendere colorito, a sentirsi vivo un’altra volta. Alzò la testa verso il suo salvatore e di fronte a sé vide gli occhi più azzurri, più belli e limpidi che avesse mai visto. Aumentò la stretta sulla sua mano, come per ringraziarlo. L’altro bambino si chinò su di lui, gli diede un bacio sulle labbra. Poi lo aiutò ad alzarsi e lo incoraggiò a seguirlo. Tenendosi strette le mani, cominciarono a correre in mezzo agli alberi e ai rovi, veloci e leggeri come piume. Avevano le braccia graffiate e coperte di lividi, gli abiti strappati e sporchi. Provavano dolore, ma non lo dimostravano, sfrecciavano rapidi tra le rocce alla ricerca dell’uscita.
   Ed eccola, finalmente.
   Tirato dalla mano dell’altro, Platan riuscì a vedere dopo tanto tempo i contorni del mondo esterno, a sentirne i profumi e ad ammirarne la luce. Gli parve che loro stessi fossero impregnati di quella luce.
   Con le dita incessantemente intrecciate, caddero distesi su un campo fiorito, guardandosi e sorridendosi. Un giglio sbocciava tra le loro mani.
 
 
   La pioggia pareva non voler smettere di scendere. Dentro la grotta spirava un vento freddo e fra le pareti rimbombava il mormorio lontano delle onde che si scagliavano nell’acqua di fuori. La strada per giungere a Yantaropoli era ancora lunga, così, per ripararsi dalle intemperie, avevano deciso che quella notte si sarebbero fermate nella Grotta dei Riflessi. Shana dormiva nel suo sacco a pelo, aveva un sorriso tranquillo. Serena la osservava con la schiena poggiata contro la parete di roccia. A quanto pareva, lei proprio non riusciva a prendere sonno. Alzò lo sguardò e si specchiò fra le pietre che ricoprivano il lato opposto della grotta. La sua immagine si divideva e moltiplicava all’infinito in mezzo alle sfaccettature delle rocce. Udì un tuono in lontananza. Si alzò in silenzio, e in punta di piedi, per non svegliare l’amica, si diresse verso l’uscita della caverna. Quale spettacolo la accolse non appena si affacciò! Non riuscì a trattenersi, tornò di corsa da Shana e scuotendola le chiese di alzarsi.
   «Vieni a vedere!» le disse.
   Con andatura assonnata, la ragazza la seguì, ritirò le braccia all’interno delle maniche del pigiama per non infreddolirsi. Si fermò accanto a Serena e lentamente mise a fuoco la vista.
   «Oh cielo, è meraviglioso!» esclamò una volta che vide ciò che avevano di fronte.
   Oltre la costa, la Torre Maestra si innalzava fra le onde burrascose, emergendo dalle profondità marine come una creatura fantastica. Era maestosa e invalicabile, pareva porre la propria supremazia sull’intera superficie d’acqua. Le onde erano alte, rumorose, si schiantavano contro la pietra della torre schizzandola con la loro schiuma bianca. Il mare era in tempesta, ma nemmeno unito alla forza e alla violenza della burrasca, dei tuoni e dei fulmini, poteva sovrastare l’imponenza dell’edificio.
   Le due ragazze rimasero ad osservare quello spettacolo epico sedute sul limitare della caverna.
   «Presto, Shana, entrerò lì dentro», ad un tratto Serena spezzò il silenzio «Sono sicura che ce la farò! Sì, mi impegnerò al massimo! Diventerò la nuova Sapiente della Megaevoluzione e a quel punto...».
 
 
   Richiuse lentamente la porta mentre Pyroar già tornava a stendersi sul sofà per rimettersi a sonnecchiare. Prima, tuttavia, si chinò su di lui, gli sciolse il collare dal collo e lo lasciò andare dandogli una carezza in mezzo alla criniera calda e morbida. Il Pokémon aveva imparato a diminuire la sua temperatura in modo che non si scottasse la mano. Ad un tratto Elisio lo vide tendere le orecchie e girare il muso in direzione della cucina.
   C’era odore di caffè. Platan era ancora in casa?
   Si affacciò alla porta e lo vide con la caffettiera in una mano mentre con l’altra coccolava il leone che era venuto in cerca di attenzioni. Notò che ancora non si era rivestito.
   «Pensavo che te ne saresti andato via prima. Sei ancora qui?» disse Elisio, leggermente sorpreso.
   «Me lo stai chiedendo perché ti dà fastidio?» chiese l’altro continuando a carezzare il Pokémon sotto il muso. Pyroar faceva le fusa.
   «No. Non intendevo questo», abbassò lo sguardo.
   Platan lo osservò, gli rivolse un timido sorriso. Si allontanò dal Pokémon e scostò una sedia dal tavolo, invitando l’uomo a sedersi.
   «Ho preparato un po’ di caffè. Ti va una tazza?».
   Uno di fronte all’altro, si misero a fare colazione insieme silenziosamente, come di solito facevano in quelle pigre mattine d’autunno in cui, ancora insonnoliti, inebriati dal profumo del caffè, non si rivolgevano parola. Elisio bevve un sorso della sua tazza, assaporò il liquido nero con la lingua, lentamente, poi lo mandò giù e tutto il corpo parve riscaldarsi del suo piacevole calore. Per quanto potesse essere improbabile, trovava che avesse un sapore migliore del solito. Una piccola ruga si formò sullo spigolo della sua bocca: quella mattina il caffè aveva il sapore di affetto. O forse era il suo animo ad essersi addolcito? Innegabilmente, comunque stessero le cose, si sentiva davvero di buon umore. Alzò lo sguardo su Platan e lo vide stropicciarsi un occhio.
   «Mi mancava», gli disse.
   «Che cosa?».
   «Vedere la tua faccia assonnata a questo tavolo la mattina. Mi piaceva cominciare la giornata con questa immagine di te. Lo trovavo rassicurante. Mi faceva tenerezza».
   Sfumature rosee si fecero più accese sulle guance del Professore. Annuì, si portò la tazza alle labbra e bevve.
   «Onestamente, anche a me mancava fare colazione insieme», confessò ad un tratto «Allora? Sei riuscito a risolvere il problema?».
   «Non ancora. Abbiamo cercato di azionare le pietre che abbiamo preso lungo il Percorso 10, ma ogni volta che ci proviamo emettono una qualche forza che blocca i nostri strumenti e ci impedisce di monitorarle. La situazione è molto più complessa di quanto mi ero aspettato. Ho tentato di tutto, ma è un vero grattacapo, non riesco a venirne a monte. Non guardarmi in quel modo, so che ne sai molto più di noi, ma non ho alcuna intenzione di chiederti informazioni, Platan. Te lo assicuro».
   Il Professore fece un cenno con la testa, si alzò dal tavolo per sciacquare la tazza nel lavandino.
   «Ho dato una sistemata a quella macchia, prima».
   «Quella in salotto, dici? Ti ringrazio, ma non dovevi. Ci avrei pensato io più tardi».
   «Ci ho messo un po’ di acqua ossigenata, non toccare nulla e lascia agire, dovrebbero togliersi quasi tutti i resti. Di solito funziona. Fai attenzione che Pyroar e gli altri non ci si avvicinino».
   Prese un panno e asciugò la ceramica.
   «Platan, non hai freddo così?» gli chiese Elisio ad un tratto, osservando il modo in cui si stringeva in se stesso per riscaldarsi «Il tempo è diventato davvero matto, non hai ancora sentito che vento c’è fuori, peggio di ieri sera. Aspettami, ti prendo la mantella. Sarà meglio coprirti quella spalla, non vorrei che ti raffreddassi».
   «Smettila di preoccuparti, sto bene...» ma non ebbe il tempo di finire che si ritrovò avvolto nella lana rossa che profumava di bosco e di fiori. Incontrò gli occhi di Elisio, ed erano i più azzurri, i più belli e limpidi che avesse mai visto. Si commosse, così, all’improvviso, ricordando quel sogno che forse non era un sogno, che forse era realtà o solamente una meravigliosa illusione. Le mani di Elisio trasmettevano un calore dolcissimo, e il suo viso, illuminato dalla luce del primo mattino che si riversava dalla finestra, da quello di bambino si trasformava in quello di un uomo maturo e forte. Era lui, il suo salvatore, cercato per così lungo tempo. Il destino li aveva uniti un’altra volta. C’era tanto amore nel suo sguardo, tanta speranza, tanta fiducia. Poggiò la testa sul suo petto ampio, sentì le sue dita accarezzarlo piano, affettuose e delicate.
   Come poteva essere realtà? Come poteva essere un sogno?
   Ancora una volta non sapeva più cosa pensare. Si lasciò andare fra le braccia del suo uomo, sprofondò nel suo odore, nel suo calore. Poggiò le mani sui suoi fianchi, le fece scorrere fin sul petto, come se avesse bisogno di tastarlo, di sentirlo sotto le dita e avere la prova che esistesse. Il suo cuore batteva, era vivo. Ma che significato aveva la vita? Che significato aveva il loro destino, il loro incontro? Era davvero stato voluto dal fato? Perché?
   Elisio passava piano le dita tra i suoi capelli, e Platan aveva dimenticato quanto dolce fosse la sensazione di sentire le sue mani scivolare in mezzo a quei boccoli. Pareva tutto così normale e immobile, in quell'istante. C'erano solo loro nell'universo, solo loro uniti in un abbraccio, e l'eternità impregnata in esso si diramava dai loro cuori. L'eternità. Ma che cos'era l'eternità?
   «È arrivato il momento per me di fiorire», sussurrò immerso nei pensieri, crogiolato in quell'emozione vaga e infinita che provava nel sentire il respiro dell'uomo sulla propria guancia, nel sentire il suo corpo così vicino al proprio, le loro anime unite indissolubilmente.
   Si riscosse violentemente nel momento in cui avvertì le sue mani stringere le proprie.
   Che sciocchezza!, pensò, che assurdità lasciarsi contagiare da simili illusioni...
   «Sarà meglio che vada», disse allontanando bruscamente le dita «Devo ancora passare da Diantha a riprendere la macchina e tutto il resto. Se non vado subito farò tardi al lavoro».
   «E pensare che sei così geloso della tua macchina...» ridacchiò mentre lo vedeva correre via.
   «Beh, ma non potevo mica lasciarla lì in quel modo, povera Diantha! Come tornava a casa sennò? È tutta colpa tua, Elisio!» gli gridò dalla stanza da letto.
   Platan si cambiò, rimise addosso i vestiti della festa. Si diede una sciacquata al viso, si lavò i denti, si pettinò con cura. Si fermò in salotto di fronte al pianoforte. La luce del sole rischiarava quella stanza e le dava vita, ogni oggetto acquistava una tonalità particolare. Osservò i tasti dello strumento e provò a suonare qualche nota. Di pianoforte non ne sapeva molto, mentre Elisio ne era un vero appassionato. Non mancava mai di suonargli qualcosa quando trascorrevano del tempo insieme a casa sua. L’unico strumento che Platan aveva imparato a maneggiare in maniera decente era la chitarra: sembrava che le ragazze di Sinnoh avessero un debole per i giovani chitarristi in erba. Ancora ricordava gli accordi della Canzone del Solrock che gli aveva insegnato il Professor Rowan. Se non riusciva a tenersi in piedi su un paio di pattini, doveva pur trovare qualcosa d’interessante che lo aiutasse a far colpo su quelle giovani carinissime che giravano per Sabbiafine!, si era detto. Vide Elisio affacciarsi e poggiarsi al muro per ascoltarlo. Lo stava osservando con le braccia conserte. Sorrideva.
   «Non è proprio il massimo», ammise Platan smettendo di suonare.
   «Credo proprio di no», lo prese in giro «In effetti è terribile», una leggera risata gli illuminò il viso.
   «Sei più passato a comprare quegli spartiti che ti interessavano?» chiese avvicinandosi a lui.
   «No. Non ne ho avuto il tempo. E tu? I tuoi dischi?».
   Il Professore scosse la testa in segno negativo. A quel punto a Elisio parve venire in mente un’idea, ma Platan sembrava aver già capito tutto: sorrideva aspettando che glielo chiedesse.
   «Che ne dici se oggi pomeriggio andiamo insieme in quel negozio di musica vicino Piazza Rossa? Io potrei comprare i miei spartiti, mentre tu potresti cercare qualche disco».
   «Oggi pomeriggio sono abbastanza impegnato, perciò non sono sicuro di poter accettare. Vedrò che cosa posso fare», rispose, nella sua voce c'era tenerezza. Si diresse all’ingresso e si sistemò meglio la giacca nera elegante osservandosi nello specchio del cassettone.
   «Stasera mi hai dato molto da pensare, Elisio», gli disse prima di uscire «Immagino che adesso dovrò fare un po’ di ordine fra le mie idee. Sono abbastanza confuso. Ci sono tante cose che ancora non capisco».
   «Mi dispiace di averti rivelato tutte quelle cose. Forse ho osato troppo».
   «No, non ti preoccupare. Sono contento che tu me le abbia dette. Dopotutto, l’hai fatto per il mio bene, no? Per il nostro bene».
   Si guardarono per qualche attimo. Platan mise mano alla maniglia e se ne andò.
   «Au revoir».



***
Angolo del francese.
     * Au revoir = Arrivederci .




 


Eccoci qua con la seconda parte. Il diciannovesimio capitolo è finito, spero tanto vi sia piaciuto!
Ciò che Platan vede nel sogno è l'insieme di tutto ciò che lui ha provato quel giorno, tanto tempo fa, un po' macchiato dalle ultime esperienze che ha vissuto. Era un punto molto molto importante, quindi, e non vedevo l'ora di farvelo leggere! La foresta in cui si smarrisce e quella in cui si trova l'albero in mezzo al burrone sono due posti diversi, diciamo che il primo è un luogo più spirituale che reale, non esiste in forma corporea, mentre l'altro sì. Vi ricordate? Già lo avevamo intravisto nel capitolo 7 quando abbiamo scoperto il legame tra Gible e il nostro caro Professore alle prese con i suoi primi giri alla ricerca di nuovi Pokémon.
Io ho un headcanon secondo cui Acromio e Platan in passato potrebbero essersi incontrati e aver lavorato insieme. Chissà, forse ciò che Acromio intendeva con lo scoprire "la vera forza dei Pokémon" era proprio la Megaevoluzione? C'è un montanaro sulla Strada dei Menhir che dice che un tipo di nome Acromio una volta gli ha detto che le pietre lungo il percorso emettono una strana energia... Quanto mi piace lavorare di fantasia! c:

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Sorge il destino sulla Torre Maestra ***



..

20 . Sorge il destino sulla Torre Maestra


 

   Le poderose zampe di Garchomp si piantarono saldamente sul terreno sabbioso, dopo che il Pokémon con un agile salto ebbe schivato il vigoroso attacco dell’avversario. Alzò il lungo collo fissando i piccoli occhi nell’oscurità della notte, cercando quelli rossi e abbaglianti del nemico.
   Le onde si increspavano attorno a loro, ricadevano nell’acqua in tonfi leggeri. Il vento soffiava.
   Il Pokémon squalo sbuffò, si mise in posizione pronto a ricevere l’ordine dal suo Allenatore. Era il loro turno.
   Platan fece un passo in avanti, rivolse al Pokémon uno sguardo orgoglioso e decisamente soddisfatto per il modo in cui era riuscito ad eludere l’ultima mossa dell’avversario. Poi alzò il viso e vide l’uomo avvolto nell’ombra che attendeva pazientemente le sue prossime manovre. Alexia, poco lontana dal campo di battaglia, osservava la scena con il fiato sospeso.
   «Dragartigli!».
   Le lame di Garchomp, ancora più affilate e scintillanti in seguito alla Megaevoluzione, cominciarono a vibrare e ad emanare calore, mentre il Pokémon era già scattato in avanti verso il bersaglio alzando in aria grandi quantità di sabbia.
   «Intendi di nuovo usare la stessa mossa, giovanotto? A lungo andare cominci ad essere prevedibile. Lucario!».
   Le mura della Torre Maestra vennero rischiarate da un bagliore improvviso mentre i due Pokémon si scontravano per l’ennesima volta. Riscoppiava la tempesta, la spiaggia risuonava ancora di colpi e versi acuti.
   Dopo un certo periodo in cui la situazione era risultata abbastanza stabile, MegaLucario riuscì a bloccare a terra MegaGarchomp senza dargli via di scampo. Lo picchiò violentemente con i pugni e lo morse aprendogli ampi tagli su tutto il corpo. Il Pokémon si lamentava per il dolore causato dalle percosse e ansava, riusciva a malapena a coprirsi con le braccia per impedire all’avversario di centrarlo nei punti più danneggiati e vulnerabili. Gridava e urlava cercando di attirare l’attenzione del suo Allenatore affinché venisse in suo soccorso, che gli ordinasse di fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di mettere fine a quel tormento. E fino ad allora resisteva, resisteva.
   Platan guardava in silenzio, paralizzato. Avrebbe dovuto salvarlo, tentare di smuovere la situazione, ma in che modo? Lucario sembrava forte e invincibile, che possibilità avevano di batterlo?
   «Andiamo, ragazzo! Dove hai messo la tua grinta? Mi eri sembrato un buon contendente all’inizio, ma se questo è il massimo che riesci a fare, temo di essermi fatto delle erronee aspettative», disse ad un tratto l’uomo, vedendo che quello ancora non reagiva «Peccato. Il vostro legame non è abbastanza saldo».
   Il giovane fremette di rabbia, lo stesso fece Garchomp nel medesimo istante.
   «Iper Raggio!» gridò Platan a pieni polmoni.
   Come si era permesso di insinuare una cosa del genere? Come aveva potuto?
   Strinse i denti e provò profondo piacere nel vedere Lucario venire scagliato via dall’energico colpo e affondare nelle scure acque del mare. Tuttavia sentiva un peso sul cuore.
   Garchomp si tirò in piedi, le sue zampe tremavano. Il respiro gli si era fatto ancora più affannoso. Si guardava attorno tentando di prevedere quando e dove l’altro Pokémon sarebbe riemerso in modo da trovare un sistema per riprendere le energie spese con quell’attacco senza subire altri danni. Platan stava in allerta: sapeva di aver rischiato grosso con quella mossa e si dava dell’incosciente, ma l’emozione aveva preso il sopravvento sulla logica e non era stato capace di controllarsi. Nonostante ciò, sperava che la distanza che avrebbe dovuto percorrere ora Lucario per tornare sul campo di battaglia avrebbe fatto guadagnare loro qualche minuto in più per ristabilirsi.
   Ad un tratto l’uomo nell’ombra fece un gesto repentino con la mano. Alexia se ne accorse, tentò di capire quali fossero le sue intenzioni. Improvvisamente sentì qualcosa di umido sul viso, che premeva sulle sue labbra: avrebbe voluto gridare e avvertire il Professore, ma non poté farlo. Lucario, riemerso dal mare, le impediva di compiere qualsiasi azione che avrebbe potuto rivelare e mandare all’aria la sua tattica.  Alzò la zampa libera verso l’alto cominciando a caricare di energia la Forzasfera posata sul suo palmo.
   Platan si accorse del bagliore azzurro che proveniva dietro di loro, con il cuore in gola avvisò Garchomp, ma non fu abbastanza veloce: il Pokémon venne colpito direttamente sulla schiena e rovinò a terra.
   «Garchomp!» lo chiamò allarmato.
   Garchomp si rialzò, sbuffando e ringhiando. Indietreggiò di qualche metro per riavvicinarsi al proprio Allenatore. Lucario lasciò andare la ragazza e fece lo stesso.
   Platan osservò per qualche istante le condizioni del suo compagno: aveva subito dei danni considerevoli, le sue spalle, il petto e le braccia erano ricoperti di lividi e graffi. Una delle corna ai lati della testa era leggermente scalfita.
   Come aveva potuto permettere che si riducesse in quello stato? Si morse le labbra, preso dal senso di colpa.
   Il suo avversario taceva e continuava a scrutarlo, in piedi accanto al suo Pokémon. Lucario, nonostante apparisse anche lui affaticato dalla lotta, aveva un aspetto molto migliore rispetto a Garchomp e certamente sarebbe stato in grado di tenere testa ancora per molto.
   Platan guardò i due fermi sulla sponda opposta della spiaggia. Silenziosi e decisi, sembravano essere in perfetta sincronia. Il Pokémon dalle forme canine avrebbe potuto contare sul saldo appoggio di quell’uomo per giungere a una vittoria certa.
   Poi posò lo sguardo su Garchomp.
   «Non hai ancora rinunciato?» disse l’uomo «Guarda, il tuo Garchomp è praticamente esausto. Credi forse di riuscire a farlo combattere ancora? Resisterà?».
   Il Pokémon sibilò innervosito, scoprendo i denti affilati, non sopportando un altro commento del genere. Mostrò le lame con fare minaccioso, più che deciso ad andare avanti, sicuro che insieme ce l’avrebbero fatta, se soltanto avessero avuto il coraggio di tenere duro ancora per un po’.
   Platan lo osservò senza dire una parola, dubbioso.
   Continuare non era possibile. Garchomp era ormai allo stremo delle forze, faceva persino fatica a tenersi in piedi, le sue zampe robuste tremavano e vacillavano. Se avesse ricevuto anche solo un altro colpo, sarebbe andato dritto al tappeto. No, lo sforzo che avrebbero dovuto compiere per cavarsela andava ben oltre i loro limiti.
   Dunque era così? Avrebbero fallito perché il loro legame non era abbastanza forte?
   No, no. Impossibile.
   Forse... Forse era soltanto colpa sua, il non essere mai riuscito a sfruttarne appieno le potenzialità nel modo migliore. Era sempre stato una frana nelle lotte Pokémon. E comunque, si disse, forse era giusto così: dopotutto era un Professore, non un Allenatore.
   Eppure non poteva fare a meno di sentirsi irrequieto, teso. Ripensò ai vecchi tempi passati con Gible, a quando la sua compagnia gli era stata di così grande conforto nei momenti di solitudine, a quando si erano addentrati nella foresta e avevano incontrato Bulbasaur, a quando erano tornati a Luminopoli dopo anni e avevano ritrovato Elisio, cercato in giro per il mondo tanto a lungo. Avevano vissuto insieme le avventure più meravigliose e incredibili, di cui avrebbe sempre conservato il ricordo con gelosia. Come poteva essere il loro legame una cosa di poco valore?
   Diede un ordine a caso, senza ormai più badare alle sorti della battaglia. Non riusciva a concentrarsi, i pensieri si erano tutti ammassati tra loro nella sua mente senza dargli tregua e vagava senza sosta in mezzo ad essi.
   Gli ultimi istanti della lotta cominciarono a scorrere veloci, lo scroscio delle onde ne scandiva i secondi e i minuti.
   Lucario era stanco, ma pronto a ricevere l’ultimo comando. Si mise in posizione ad attendere, puntando precisamente l’altro Pokémon. Non gli sarebbe sfuggito.
   «Usa Forzasfera!».
   Lucario obbedì immediatamente, scattando in avanti e ululando, pregustandosi la vittoria ormai vicina. Il mare era in tempesta e il vento si era alzato, fischiando sonoramente. La sfera tra le zampe del Pokémon cresceva sempre di più, brillando di luce intensa.
   Era fatta.
   Con un ultimo sforzo si diede un forte slancio contro Garchomp, abbandonò la presa sul suo attacco per spedirglielo addosso.
   Improvvisamente, però, si sentì cadere. Per la stanchezza e l’impeto non aveva fatto attenzione al terreno ed era inciampato in un punto instabile, scivolando. La sfera gli sfuggì dalle zampe, partì seguendo una traiettoria del tutto diversa da quella programmata.
   Alexia si lasciò scappare un grido spaventato: «Professore, stia attento! Si sposti!».
   Ma il ragazzo non fece in tempo a rendersi conto del pericolo, perso com’era nei ricordi, e venne colpito con forza. Fu scagliato lontano di qualche metro e nella mente rivide di nuovo il fiore e l’albero, Gible e Bulbasaur, Elisio e le sue labbra che desiderava tanto, le stelle e il cervo. E intanto si chiedeva quale fosse quel ricordo che aveva ormai dimenticato.
   Il suo corpo rotolò sulla sabbia, poi si fermò. Aveva gli occhi chiusi e aveva perso conoscenza.
   «Professore!» Alexia corse subito verso di lui, inginocchiandosi al suo fianco per porgergli il proprio aiuto. L’uomo nell’ombra si sporse alla luce, allarmato, il suo viso era coperto di rughe ed esse erano tese, nel timore che al ragazzo fosse accaduto qualcosa. Platan non si muoveva e la giornalista non riusciva a risvegliarlo. A quel punto l’uomo fece cenno a Lucario di rimanere fermo, si accostò al giovane per controllare le sue condizioni. Garchomp osservava tutto immobile, aspettando di rivedere da un momento all’altro il suo sorriso, di risentire la sua voce. Ecco, pensava, adesso si ridesta e si rialza. Adesso tornerà tutto dolorante sul campo di battaglia, ma ridacchiando come al solito per la sua goffaggine e chiedendo scusa. Adesso porgerà la sua carezza e dirà che è tutto a posto. Adesso. Adesso.
   Però i suoi occhi non si aprivano, la bocca rimaneva socchiusa, senza forza, i capelli intrisi di sabba, mossi dal vento, si agitavano sul suo viso coprendone le sembianze e le dita non li ricacciavano indietro.
   Cominciavano a bruciargli la gola e le narici, mentre il muso si faceva umido sulle guance. Ringhiò. Si asciugò gli occhi bagnati mentre il petto si gonfiava di rabbia. Che cosa gli avevano fatto? Perché non si risvegliava?
   «Pensa che dovremmo chiamare un medico?» chiese Alexia.
   «No, non si preoccupi, sta bene», la rassicurò il vecchio «Ha preso un brutto colpo, ma non si è fatto nulla. Tuttavia, non credo che rinverrà tanto presto. Per il momento sarà meglio lasciarlo riposare. Venga, mi aiuti a portarlo dentro la Torre, perlomeno non...».
   Un grido tremendo echeggiò lungo la spiaggia. Garchomp aveva tentato di colpire Lucario, ma quello era riuscito a parare l’attacco grazie ai suoi riflessi. Lo aveva respinto e scagliato lontano, allora Garchomp aveva urlato di nuovo ed era tornato alla carica gettandosi su di lui con un Dragofuria. Prese a picchiarlo ripetutamente, accecato dalla rabbia, con la vista appannata. Lucario tentò di sottrarsi allo scontro, in quel momento era ormai assurdo continuare la lotta, ma i suoi sforzi furono inutili, e così fu costretto a riprendere la battaglia. Il Pokémon squalo non mostrava pietà, colpiva qualunque punto riusciva a raggiungere. L’altro gli tenne testa attaccandolo a sua volta e cercando di indebolirlo. Ma la collera di Garchomp era troppo grande. Il Pokémon sembrava ora animato da nuova forza e contrastarlo era diventato più difficile. Lucario sentiva la fatica pesargli addosso, ma non poteva permettere che l’altro lo battesse: caricava un Crescipugno dopo l’altro, tentando di innalzare la sua potenza d’attacco, ma ricevendo danni per quanto riguardava la difesa, ormai quasi distrutta dall’offensiva di Garchomp.
   La luna brillava pallida nel cielo.
   Lucario era al suolo, stremato, mentre Garchomp, chino su di lui, si rialzava lentamente, allontanando le lame affilate con cui gli aveva inferto il colpo fatale. Se ne andò, con passi pesanti si mosse verso il punto in cui giaceva il corpo del compagno. Aveva il muso duro e severo, colmo di stanchezza. Nel momento in cui il Pokémon si avvicinò, Alexia lo osservò con stupore e altrettanto fece l’uomo che aveva sfidato la coppia e ora risultava perdente: contro ogni aspettativa Garchomp aveva sacrificato anima e corpo pur di vendicare l’affronto subito dal suo Allenatore, aveva spinto le proprie forze oltre ogni limite possibile. Il Pokémon scansò quasi con riluttanza i due umani, si fece avanti in silenzio. Allungò le proprie braccia verso Platan e lo strinse a sé delicatamente, lo portò via da quel luogo.
   Il loro legame era vero.
 
 
   «Hai quindi deciso di ritirarti?».
   La brezza mattutina soffiava piano sulla Torre Maestra. Alcuni Wingull volavano nel cielo azzurro terso. Il sole brillava intensamente.
   Il misterioso uomo della sera prima si era infine rivelato essere Cetrillo, il Sapiente della Megaevoluzione. Prima di far accedere il ragazzo alla Torre aveva voluto sfidarlo in una lotta per capire se sarebbe stato idoneo o meno ad affrontare l’allenamento. I risultati erano stati più che positivi, eppure ora il giovane gli si era presentato davanti dicendo che sarebbe tornato a Luminopoli quella stessa mattina.
   «Le chiedo scusa per tutto il disturbo che le sto arrecando, signore. Mi rendo conto che la mia partenza improvvisa possa essere un problema. Ma ci ho pensato molto questa notte e alla fine sono giunto alla conclusione che si tratta della decisione migliore per me e per Garchomp».
   Bulbasaur, accucciato sulla sua spalla, gli diede una carezza sui capelli per rincuorarlo.
   «Sa,» continuò Platan «ero venuto con la speranza di poter diventare il nuovo Sapiente della Megaevoluzione, tuttavia mi sono accorto che è un limite fin troppo oltre le mie capacità».
   L’uomo rise affettuosamente: «Mio giovane amico, sfortunatamente temo che tu fossi partito con qualche aspettativa di troppo! Ebbene, divenire Sapienti spetta solo ai discendenti della stirpe di colui che per primo scoprì la Megaevoluzione. Dietro questo vi è una storia complessa: ogni Sapiente deve assolvere a una precisa funzione che viene tramandata da generazioni, per il bene dell’intera regione di Kalos».
   «Mi piacerebbe molto ascoltarla, se lei me la potesse raccontare».
   «Lo farei volentieri, ragazzo, ma io e il mio Lucario sentiamo che il tuo spirito vibra all’idea della partenza e non vogliamo allungare oltre la tua attesa. Se vorrai tornare, un giorno, sarò ben lieto di narrarti la nostra storia».
   Si fermarono per qualche minuto sulla balconata ad osservare il paesaggio di Yantaropoli di fronte a loro. I tetti delle case, rischiarate dalla luce del sole, sembravano riaccendersi di nuova vita. Era uno spettacolo lieve e mite. Garchomp si accostò a Platan e gli posò un braccio sulle spalle come a volerlo incoraggiare: vedeva che il ragazzo puntava lo sguardo in un punto preciso dell’orizzonte e già sapeva a che cosa stava pensando. Sarebbero tornati presto, gli disse con un verso.
   «Tuttavia,» disse ad un tratto Cetrillo «anche se non saresti mai potuto essere un Sapiente, avresti avuto delle buone capacità per padroneggiare la Megaevoluzione al pari di un eccellente Allenatore. Perché hai deciso di andartene?».
   «Perché non ne sono all’altezza, Cetrillo. Potrei anche avere delle buone basi di partenza, ma so che comunque a un certo punto mi bloccherei senza più trovare una via d’uscita. Mi conosco ormai da tanto tempo e so che non cambierò. E tuttavia, sento che ciò di cui ho davvero bisogno, al momento, è laggiù, al di là di quei tetti, al di là di quelle montagne...».
 
 
   Le porte del treno si aprirono. Platan si era già affrettato verso l’uscita da almeno un quarto d’ora e aveva aspettato impazientemente di vedere dai finestrini i palazzi di Luminopoli e il tetto della stazione, trascorrendo gli ultimi minuti del viaggio in piedi. Quando si sporse di fuori, vide che Elisio era lì sulla banchina, esattamente davanti a lui, come se il destino stesso avesse voluto porli l’uno di fronte all’altro. Sorrise. La gente si era intanto accalcata dietro di lui e chiedeva scalpitando che si muovesse e scendesse. Platan saltò giù e andò incontro a Elisio, senza curarsi degli altri passeggeri che mettendo finalmente piede sulla banchina gli riservavano occhiate irritate.
   «Ben tornato a casa, Professore», lo salutò il rosso con un sorriso. Oh, com’erano belle le sue labbra distese così sul suo viso!
   «Il viaggio è stato tanto lungo, mon ami! Finalmente sono da te!» esclamò felice, mentre Litleo, lì con loro, si accoccolava contro la sua gamba con affetto. Platan lo prese in braccio e gli diede una carezza. Poi alzò lo sguardo su Elisio e vedendolo si sentì rincuorato di essere tornato. Insieme si avviarono verso l’esterno.
 
 
   Era passato tanto tempo da allora, pensava il Professore seduto alla sua solita scrivania. Si rigirava l’anello con la Pietrachiave tra le dita e rifletteva. Era stato tanto felice di ritornare a Luminopoli quel giorno, convinto che ogni problema fosse stato ormai risolto. Invece poi con il passare delle settimane aveva cominciato a sentirsi in colpa per quella faccenda, temendo di non essere all’altezza del valore del suo Pokémon. Spesse volte quindi era successo che si fosse ritrovato al telefono con Elisio o alla porta di casa sua nel mezzo della notte con le lacrime agli occhi per ricevere un po’ di conforto e sfogarsi – Elisio gli era sempre stato vicino, in qualsiasi circostanza, ed era un pensiero dolce.
   Alzò lo sguardo sul divanetto in fondo alla stanza e vide Garchomp e Bulbasaur che riposavano accucciati l’uno contro l’altro.
   Fortunatamente le cose si erano infine risolte per il meglio, senza troppe discussioni. Platan si sentiva davvero contento di ricevere l’affetto di un Pokémon così forte e valoroso come Garchomp.
   Posò di nuovo lo sguardo sull’anello. Sospirò: nonostante fosse stato deciso ormai da tempo che non avrebbe più studiato la Megaevoluzione facendo lottare il proprio Pokémon, ancora non aveva chiarito cosa farsene di quell’oggetto.
   Ad un tratto sulla schermata del suo computer apparve l’avviso di una videochiamata in arrivo. Mise a posto l’anello nella sua scatola e ripose quest’ultima nel cassetto.
   «Qui è il Professor Platan, come posso esservi d’aiuto?» esclamò poi con un sorriso mentre si accingeva a rispondere.
   «Ehi, Platan!».
   Era il Professor Birch.
   «Oh! Mon cher ami, come va?» disse entusiasta.
   «Non male, non male! Finalmente sono riuscito a contattarti, era da settimane che speravo di poterti sentire! Non hai risposto alle mail che ti ho mandato e ho visto anche che ultimamente sei sempre mancato alle riunioni con gli altri Professori. Mi chiedevo se ti fosse accaduto qualcosa, ma mi pare di vedere che tu stia abbastanza bene».
   Mail? Quali mail? Ormai era così preso dai propri problemi che neanche badava più a quello che trovava nella sua cassetta di posta, salvo qualche bollettino importante circa le ultime teorie formulate nel campo della Megaevoluzione o notizie e speculazioni sul Team Flare. Le riunioni, invece, le aveva evitate di proposito, non sentendosi in grado di fronteggiare i colleghi trovandosi in una situazione così compromessa. Incurvò le labbra in un sorriso incerto.
   «Mi dispiace molto di averti fatto preoccupare, cher, ma al momento sono davvero carico di lavoro. Non posso distrarmi neanche un attimo, e le riunioni sono costretto a saltarle, per ora», disse.
   «Me ne sono accorto! Ogni volta che provavo a chiamare in Laboratorio qualche tuo assistente mi rispondeva dicendo che non volevi essere disturbato. Non ho voluto infierire, ma stavolta dovevo davvero vederci chiaro, perciò ho chiamato te direttamente».
   «Che si dice alle riunioni? Per caso il Professor Rowan si è presentato?».
   «Non ci crederai mai, ma sì, Rowan è venuto diverse volte! Mi ha chiesto di salutarti».
   Platan rimase in silenzio. Per un attimo provò del rimorso.
   «Grazie» disse «Rendigli il mio saluto, nel caso in cui dovessi incontrarlo di nuovo».
   Birch lo osservava, un po’ turbato dal tono insicuro con il quale parlava. Avvicinò il viso alla telecamera e fissò l’amico dritto negli occhi.
   «Platan, c’è qualcosa che non va?» gli chiese «Perché stai cercando di allontanarti da noi?».
   «Allontanarmi da voi?» sussultò «Oh, Birch, come puoi pensare una cosa del genere!» si portò una mano ai capelli e prese ad arrotolarsi qualche ciuffo tra le dita «No, no... Capisci che nella situazione in cui sono adesso mi è impossibile starvi vicino. Ma non è affatto per mia intenzione, di questo puoi esserne certo».
   «D’accordo», sorrise pieno di sollievo «Però, se dovessi avere bisogno di aiuto, sai come trovarmi. Ascolta, mi è venuta un’idea! Perché non ti fermi qualche settimana qui a Hoenn? Potrei darti una mano io con il lavoro, e intanto cambieresti un po’ aria. Non ti fa bene stare sempre rinchiuso in Laboratorio, lo sai! E poi potresti approfittarne per fare qualche giro qui intorno, so che ci sono dei posti di Hoenn che ancora non hai visitato e che...»
   «Ti ringrazio per il pensiero, Birch,» lo interruppe, cercando di avere il massimo tatto e di non suonare scortese «ma davvero non sono in vena».
   Per quanto gli sarebbe piaciuto tornare ad Hoenn e rimettersi in viaggio per vedere quei luoghi che ancora non aveva avuto occasione di esplorare, allontanarsi da Kalos in quel momento era fuori discussione. Il Team Flare avrebbe presto messo fine al proprio progetto ed era suo compito rimanere per mantenere la pace fino a quando sarebbe stato possibile. Era passata appena una settimana da quella sera in cui lui ed Elisio si erano ricongiunti a Reggia Aurea, tuttavia, la situazione tra loro, nonostante entrambi desiderassero ardentemente ricucire il proprio rapporto, era rimasta per certi versi incerta e Platan non poteva fare a meno di nutrire ancora qualche riserva nei confronti dell’altro.
   Ogni mattina si salutavano con il sorriso sulle labbra, si scambiavano belle parole, trascorrevano il tempo assieme come se in realtà nulla stesse accadendo attorno a loro, ma era impossibile ricacciare quel timore e quel dolore e quella rabbiosa rassegnazione che sempre presenti e assopiti dimoravano nei loro animi.
   E poi cos’era quella promessa, quel ruolo che era stato imposto loro dal destino? Ancora non era riuscito a spiegarselo e spesso, quando si trovava in mezzo allo sconforto, non poteva fare a meno di pensare che Elisio lo stesse continuando a prendere in giro; poi puntualmente si ricredeva: di tanto in tanto, infatti, assorto nell’odorare un profumo o nell’osservare un paesaggio, gli pareva di essere in grado di intravedere quelle trame tessute dal fato, i suoi intrecci e la sua vera essenza. Allora era convinto che Elisio avesse ragione, che quell’incontro non fosse stata una coincidenza. Ma si trattava solamente di congetture, che presto si disperdevano nel vento come petali sfuggiti alla corolla.
   A quelle parole Birch gli rivolse un’occhiata stupefatta da dietro lo schermo, poi con la testa fece cenno d’aver inteso.
   «Sei un uomo davvero instancabile, Platan. Ti ammiro», disse.
   Se soltanto avesse saputo veramente: non c’era davvero nulla che valesse la pena di ammirare in lui.
   Ad un tratto Birch si voltò di lato. Ridacchiò qualche secondo e sorridendo si chinò in basso, allontanandosi dalla visuale della telecamera. Quando si risollevò teneva in braccio, seduto su una gamba, un bambino dai capelli bruni e morbidi, che non appena vide il viso di Platan sullo schermo cominciò ad additarlo al padre con insistenza.
   «Hai visto? C’è lo zio Platan! Fai ciao con la manina!» disse alzando la mano e muovendola per incitare il piccolo a imitarlo.
   Platan sorrise: «Ciao, Brendon! Come stai?» esclamò.
   Il bambino rise per la contentezza e Birch dovette piegarsi di scatto ad afferrare il ciuccio che era caduto dalle sue labbra prima che toccasse il pavimento. Glielo porse e lo aiutò a rimetterlo in bocca dandogli una carezza affettuosa sulla testa. Platan si emozionò nel notare che era tanto piccola al punto che la mano di Birch riusciva a contenerla tutta nel palmo.
   «Ormai è diventato un ometto».
   «Lo vedo bene. Quanti anni ha adesso?».
   «Due».
   Birch rivolse uno sguardo all’amico e gli sorrise.
   «Due anni sembrano così pochi, eppure per me sono così tanto. L’ho visto crescere giorno dopo giorno mentre scopriva il mondo attorno a sé. Non è straordinario come in un corpo così piccolo possa vibrare qualcosa di così grande come la vita? È in ogni suo gesto, in ogni suo sguardo, ed è immensa e innocente. Diverse volte mi sono stupito stando assieme ai Pokémon e osservandoli. Ma con Brendon è completamente diverso. Ed è incredibile pensare che qualcosa del genere derivi da me. Non ho mai provato un’emozione simile».
   Quale scempio pensare che qualcosa di talmente bello e meraviglioso dovesse essere sterminato appena venuto alla luce!, si ritrovò a riflettere Platan, le dita strette tra loro sotto al tavolo come a voler gridare una sorta di muta preghiera al destino, già sapendo che non sarebbe mai stata ascoltata.
   Improvvisamente il telefono squillò. Il Professore fu costretto a lasciare Birch per rispondere.
   «Come stai, mio giovane amico?».
   Nel sentire quella voce, Platan si alzò, sorpreso. Lentamente si avvicinò alla porta e la chiuse con cautela.
   «Cetrillo, vecchio mio. Stavo pensando a te giusto qualche minuto fa. Hai notizie da darmi?» disse accostandosi alla finestra e poggiandosi con la schiena al muro.
   «I ragazzi si sono presentati così come mi avevi annunciato».
   «Davvero? Tuttavia sono arrivati prima del previsto. Hai già deciso a chi affiderai il Megacerchio?».
   «Sono stati loro stessi a stabilirlo. Calem e Serena hanno ingaggiato una lotta per vedere chi fosse il più meritevole. Gli altri tre invece si sono tirati indietro, non sentendosi all’altezza».
   Le tende coprivano la luce del sole proveniente da fuori, la stanza era immersa in una leggera penombra.
   «Ho assistito personalmente allo scontro», continuò l’anziano «Non mi era mai accaduto prima, ma nel suo corso ho avuto come l’impressione di aver già avvertito delle sensazioni simili a quelle che stavo provando in quel momento. Poi me ne sono reso conto: era la forza impressa negli occhi di quella ragazza. L’avevo già vista in passato, molti anni prima, ed era la stessa che avevo scorto nello sguardo di un giovane Professore alle prime armi, nonostante in quello di lui fosse più celata e trattenuta. Lei ti assomiglia, Platan. Ed ho ragione di credere che fra voi sia nascosto un legame, sebbene non sappia spiegare quale sia il motivo».
   Per un attimo a Platan tornarono alla mente le parole che Elisio gli aveva rivolto mentre si erano nascosti nella sala del quadro all’interno della Reggia Aurea. Che anche Serena fosse collegata a quel gioco di trame che lui diceva d’aver intravisto? Era davvero lei la prescelta che avrebbe potuto contrastare l’apocalisse, come gli aveva confidato Astra?
   «Ha vinto?» domandò.
   «Sì».
   «Credi che sia pronta ad affrontarti?».
   «Lei è qui, ora, perciò non può essere altrimenti, se è questo ciò che ha deciso. Ma non sarà con me che dovrà confrontarsi. Mia nipote ha chiesto espressamente che sia lei a ricoprire il ruolo di Sapiente, questa volta, come mia succeditrice».
   Cetrillo parlava ed intanto osservava la giovane Ornella, sola in mezzo alla balconata della Torre Maestra. La ragazza stava ferma con lo sguardo rivolto verso il mare che circondava l’isola e si accarezzava pensierosa il guanto sopra cui era cucita la sua Pietrachiave. Ad un tratto le tremarono le spalle. Fra le tiepide acque, su una piccola barca che procedeva in mezzo alle onde, aveva incontrato lo sguardo agguerrito della sua sfidante - nonostante lei in realtà ancora non lo sapesse.
   Le due si studiarono, silenziose, mentre il vento scompigliava loro i capelli.
   Erano tese. Entrambe sentivano che presto una tempesta sarebbe scoppiata nei loro cuori.
   Serena non era una ragazza come le altre, si era ormai accorta da tempo Ornella: l’aveva avvertito nel suo animo diverse volte quando avevano avuto occasione di incontrarsi nei mesi passati.
   Ebbene, dopo averlo atteso tanto a lungo, finalmente era giunto il momento del loro scontro.
   La giovane sorrise, si sistemò il casco sulla testa, era pronta: «Ti sveglierò dal tuo sonno e ti renderò cosciente della tua vera natura».
 
 
   La Torre Maestra era immersa in un silenzio solenne.
   Improvvisamente, passi irrequieti risuonarono contro le pareti, rimbombando tutt’attorno come tuoni.
   «Sono venuta per diventare la nuova Sapiente della Megaevoluzione! Mostrati, saggio!».
   Serena aveva fatto il suo ingresso e, levati gli occhi sulla lunga scalinata, si fermò ad osservare fissamente i due parenti che discendevano da essa. Attorno a lei, gli altri quattro ragazzi che l’avevano accompagnata aspettavano che l’anziano rispondesse.
   Cetrillo non pronunciò parola, ma si limitò a sorridere. Giunse di fronte alla monumentale statua di MegaLucario e si arrestò. Posò una mano sulla spalla della nipote e con un gesto la invitò a farsi avanti.
   Ornella guardò intensamente Serena ed avanzò, liberandosi con forza dalla rassicurante carezza del nonno.
   «Sarò io la tua contendente», disse.
   Si avviò nuovamente verso la scalinata, facendo cenno all’altra ragazza che proseguisse accanto a lei in quella direzione. Shana, Trovato, Tierno e Calem si mossero, volendo assistere anche loro allo scontro, ma Ornella li fermò, dicendo che solamente coloro che erano stati riconosciuti idonei potevano percorrere quel cammino: tutti gli altri ne erano esclusi. Serena ne rimase per un attimo delusa, tuttavia si ricompose in fretta poiché ne aveva avuto sentore. Rivolse lo sguardo a Shana e vide che sorrideva. La sua fiducia bastò ad infonderle la sicurezza di cui sentiva bisogno. Infatti, nonostante nei suoi occhi brillasse ardentemente quella scintilla combattiva che mai vi mancava, quella mattina Serena si sentiva assai insicura ed incerta. Si era preparata molto nei mesi precedenti per raggiungere quell’obiettivo, ma ogni convinzione, adesso, si era sciupata e dissolta nell’aria e nel suo animo non rimaneva altro che un sottile timore.
   Guardò la compagna un’ultima volta, grata, poi si apprestò ad andare.
   «Credete che ce la farà?» chiese ad un tratto Trovato.
   «Abbiamo cominciato a viaggiare insieme poco più di un mese fa, da allora Serena ha fatto davvero progressi!» esclamò Shana «Però non so dire con certezza se vincerà. Ornella è un’eccellente Capopalestra ed essendo più esperta di lei sulla Megaevoluzione le carte giocano tutte a suo favore».
   «Dovrà impegnarsi molto, allora», commentò Tierno.
 Calem ascoltava gli amici in silenzio, senza in realtà dar loro troppa attenzione. Ancora non era riuscito ad accettare il fatto di essere stato sconfitto, per questo motivo era rimasto in disparte per tutto il tempo. Quella notte non aveva dormito affatto, costretto a ripensare ogni singolo istante al momento in cui Serena lo aveva sconfitto così facilmente sul campo di battaglia. Si sentiva ferito nell’orgoglio e abbattuto. Anche lui si era impegnato tanto, anche lui si era allenato giorno e notte fino allo sfinimento! Allora, perché? Perché aveva perso? Si sentiva tanto sciocco e inutile!
   Ma ecco che, alzando gli occhi e scorgendo lassù, in alto, la chioma bionda della ragazza, improvvisamente vide qualcosa di cui non si era mai accorto. C’era nella sua postura, nell’espressione del suo viso, qualcosa di delicato e profondo, ma ancora innocente e inconsapevole. A quel punto capì: lei era diversa. In nessun modo avrebbe potuto accostarsi al suo livello, poiché questo era impossibile. C’era qualche cosa nel suo animo che vibrava, che in un certo modo sembrava quasi estraneo e irreale, superiore.
   Alle volte era capitato che Elisio gli avesse mandato dei messaggi sull’Holovox. In realtà, i due non avevano instaurato un rapporto profondo, anzi, erano poco più che conoscenti, tuttavia di tanto in tanto egli si preoccupava di avere notizie sul suo viaggio, probabilmente su sollecitazione del Professor Platan. Spesso accadeva che si mettessero a parlare delle sue aspirazioni. Calem, più di tutto quanto, avrebbe desiderato diventare forte, e l’unico modo in cui era convinto che vi sarebbe riuscito era attraverso la padronanza della Megaevoluzione. Così il ragazzo finiva per confidarsi, ed Elisio lo ascoltava, paziente, incoraggiandolo di tanto in tanto, altre volte rimproverandolo. Quando poteva, si curava di metterlo al corrente circa le ultime scoperte del Professore e Calem gliene era sempre grato. Inoltre trovava anche piacevole ascoltare i suoi pensieri. Il più delle volte, a dire il vero, non riusciva a comprenderli del tutto oppure non gli dava tanto peso poiché gli sembravano idee da vecchi – in essi, infatti, era intriso un certo pessimismo che non poteva essere accolto da una mente giovane come la sua, incantata ancora dalle meraviglie del mondo e incapace di vedervi brutture, com’era giusto che fosse per un ragazzo di quell’età.
   Una sera avevano cominciato a scambiarsi opinioni sulle circostanze attraverso cui una Megaevoluzione si sarebbe potuta innescare, su quel potere nascosto che alcuni Pokémon erano in grado di mostrare. Allora Elisio gli aveva domandato: «Credi che tutti i Pokémon possano raggiungere tale potere o che solo pochi prescelti possiedano tale potenziale? Dopotutto, non pensi sia così anche tra noi uomini? Cosa credi che significhi tutto ciò?».
   Sebbene non fosse riuscito a rispondere immediatamente, Calem aveva riflettuto a lungo su quelle parole. Adesso capiva: Serena non era come lui, né come Shana e gli altri. Doveva essere uno di quei pochi prescelti di cui Elisio gli aveva accennato, lo percepiva. Tuttavia, perché mai? Per quale motivo la sua anima brillava tanto intensamente sopra quella degli altri? Una ragione doveva pur esserci.
   Decise che per il momento si sarebbe lasciato andare al dubbio. A quel punto sorrise.
   «Non dovete preoccuparvi!» disse, rompendo finalmente il suo silenzio «Sono sicuro che Serena ce la farà! Se la caverà, vedrete: al mondo non esiste Allenatrice più in gamba di lei».
 
 
   La scalinata pareva lunga e interminabile, i gradini infiniti. Ad ogni passo che faceva, Serena sentiva le gambe appesantirsi e tremare per la fatica. Spesso alzava lo sguardo per osservare l’uscita in cima alla Torre, ma ogni volta sembrava lontana e inarrivabile. Con la mente vagabondava tra vaghi pensieri, cercando di tranquillizzarsi. Sentiva che presto sarebbe accaduto uno di quegli avvenimenti per cui il suo destino avrebbe cominciato a rivelarsi, tuttavia non riusciva a prevedere se fosse di cattiva o buona entità. Il sorriso che le aveva rivolto Shana sbiadiva nei suoi ricordi, un gradino dopo l’altro, e allora lei ricominciava ad essere un poco ansiosa.
   «Dunque è proprio come mi avevi detto in Palestra qualche giorno fa. Oggi dovrò confrontarmi con te», disse ad un tratto ad Ornella.
   «Pensavi ti avessi detto una bugia?».
   «No, no. È che hai quasi la mia stessa età e credevo che Cetrillo avesse più esperienza di te. Perciò ero convinta che mi sarei scontrata con lui».
   «È vero, mio nonno ha molta più esperienza di me. Infatti è la prima volta che rivesto questa carica. Però ci tenevo davvero ad essere io la tua sfidante. Capisci, ho visto qualcosa in te di cui mio nonno non si è accorto. Serena, tu non sei qui per scoprire la Megaevoluzione, ma per molto altro. Presto te lo dimostrerò».
   L’altra ragazza rimase sorpresa da ciò che le aveva appena confidato. C’era qualcosa d’altro?
   «Tu hai detto di essere venuta per diventare la nuova Sapiente», continuò Ornella «Purtroppo ti devo dire che questo non è possibile. Nessuno può prendere il posto mio o di mio nonno. Noi siamo i discendenti di colui che per primo scoprì la Megaevoluzione e dobbiamo assolvere a un compito ben preciso che nessun altro può svolgere. Ma c’è un’eccezione. Ed è di questo che ti devo parlare».
   «Parlamene, allora».
   Ornella si fermò per guardarla ed accertarsi del fatto che fosse pronta ad ascoltarla. Annuì e riprese a camminare.
   «Quando ci siamo incontrate a Cromleburgo, io non ero lì per caso. Avevo sentito un fremito venire da quelle parti, perciò mi ci sono recata immediatamente. Sono rimasta qualche giorno per fare degli accertamenti. Sai, Serena, Cromleburgo non è un villaggio qualunque».
   «Che cosa intendi dire?».
   «Ho saputo che tu hai vissuto per molti anni in altre regioni, perciò immagino che tu non sappia di questa leggenda. Vedi, tremila anni fa qui a Kalos scoppiò una guerra. Un antico re, accecato dalla rabbia, aveva costruito una terribile arma dalla potenza ineguagliabile: l’Arma Suprema. Attraverso di essa era stato in grado di porre fine al conflitto, ma con il sacrificio di milioni e milioni di vite. Kalos era stata decimata. Pochi erano i sopravvissuti. E quel che era peggio, era che il potere sfruttato per sprigionare una simile potenza era stato quello dei Pokémon Leggendari, che dovrebbero essere nostre guide e protettori. Siccome ciò non era ammissibile, Xerneas e Yveltal avevano cercato di fare in modo che una simile tragedia non si ripetesse: parte della loro energia fu riversata in alcune pietre e queste assunsero una conformazione particolare. Divennero Megapietre. Il nostro antenato che per primo ne prese in mano una fu in grado di far scaturire una nuova potenza dal suo Lucario. Questo è lo scopo che spetta a noi Sapienti: proteggere Kalos da una nuova venuta dell’Arma Suprema attraverso la Megaevoluzione».
   Serena tremò. Non aveva mai immaginato che dietro quella storia si celasse un compito tanto gravoso. Si chiese se il Professor Platan sapesse. Doveva per forza sapere, si disse.
   «E coloro che riescono a padroneggiare la Megaevoluzione senza essere Sapienti? Che ne è di loro?» domandò.
   «Loro sono semplici aiutanti. Nonostante nella mia stirpe sia celata una simile forza, noi Sapienti non siamo invincibili», rispose Ornella.
   «E che cosa c’entra Cromleburgo in tutto questo?» chiese ancora.
   «È lì che è nascosta l’Arma Suprema. Tuttavia ti prego di mantenere il segreto. Questi non sono argomenti che gli uomini comuni devono sapere. Dobbiamo mantenere la serenità nella nostra regione».
   Certo, Serena capiva. Ma c’era un’ultima domanda a cui avrebbe tanto desiderato porre una risposta.
   Le due ragazze giunsero sulla soglia della balconata, finalmente uscirono alla luce del giorno.
   «Non credi anche tu che oggi sia una bella giornata? Era tanto tempo che il cielo non si rischiarava di azzurro, da queste parti», disse la giovane Sapiente osservando il paesaggio chiaro di Yantaropoli.
   A quel punto Serena si fece avanti: «Ornella, perché io? Perché mi hai raccontato tutto questo? Qual è il mio ruolo in tutto ciò?».
   Ornella si girò, la guardò intensamente.
   «Un anziano vagabondo, una volta, mi ha raccontato una storia», cominciò a dirle «So che questa è la verità, perché su di lui ne era chiaro il segno. Mi ha detto che un giorno, presto, la luce dell’Arma sarebbe riapparsa un’altra volta e che noi Sapienti non avremmo in alcun modo potuto contrastarla. Tuttavia,».
   Si avvicinò a Serena e le accarezzò una mano, le allacciò al polso il Megabracciale che le spettava.
   «Tuttavia, mi disse, una prescelta si sarebbe mostrata. Una ragazza forte ed impetuosa, con la luce nell’animo. Lei avrebbe potuto cambiare le sorti del destino. Ed io, Serena, ho ragione di credere che quella prescelta sia tu».
   La ragazza si ritrasse di scatto, sconvolta. Guardava la Capopalestra con sguardo perplesso e confuso, le dita delle mani e le gambe tremanti. Lei una prescelta? Lei la protettrice di Kalos? Lei la giovane che si sarebbe dovuta scontrare con l’oblio dell’Arma Suprema per debellarlo?
   Era spaesata, turbata e visibilmente scossa. Si voltò da una parte, nascondendosi il viso nelle mani. Sentiva voglia di piangere, il destino che aveva sempre desiderato ottenere era adesso diventato una condanna, ma non una lacrima scese dai suoi occhi.
   Ornella si accostò alla ragazza, le accarezzò con tenerezza una spalla. Le disse di non avere paura, che nessuno deve avere paura di sé stesso. Trasse una Pokéball dalla tasca e da essa fece uscire un Lucario.
   «Lascia che ti mostri».
   Ed ecco, la lotta incominciò.
   Il vento soffiava, e nell’aria risuonavano i colpi come grida tormentate, angosciate da ciò che si era appena scoperto. Ad ogni comando seguiva un tremito, un frammento di cuore che si staccava e diventava roccia nel petto. Serena guardava davanti a sé e si sentiva smarrita. Le mancava il respiro e spesso faticava a mantenere l’equilibrio sulle gambe. Addosso le premeva il peso di un futuro sconosciuto e inquietante, inconoscibile. E sempre si ripeteva: perché, perché, perché.
   Brividi le percorrevano la schiena, lampi le balenavano negli occhi.
   Il Lucario che le era stato affidato, che aveva deciso di unirsi a lei, le si rivolgeva, rassicurante. Era tanto strano, eppure, ogni volta che lo osservava nel suo sguardo, le sembrava di vedere sé stessa. Non erano altro che sconosciuti, tuttavia non aveva mai provato una simile sintonia con nessun altro. Neppure questo sapeva spiegarsi, e continuava a lottare e a scontrarsi con l’altra.
   Il sole calava ormai all’orizzonte, la battaglia si era protratta per ore ed ore, senza tregua. Nel cielo apparivano le prime stelle in mezzo al manto notturno.
   La gola bruciava e gli occhi pizzicavano. Il corpo era affaticato, ma non dava segno di voler cedere. Era ormai talmente assorta nella lotta che tutto il resto era svanito. Sulle braccia e sulle spalle sentiva il dolore delle percosse inferte al proprio Pokémon, fin dentro alle ossa, si era trasformata in un tutt’uno con lui. Si agitava e fremeva con lui. Ben presto, tuttavia, si accorse che la battaglia che stava combattendo non era più contro Ornella - era contro sé stessa. La sua realtà nascosta batteva contro le pareti dell’incoscienza per spezzarle e venirne fuori, per potersi finalmente mostrare chiaramente al mondo intero. Un sussurro si protrasse nel vento e poi crebbe, si fece voce e poi ringhio. Era agonia e sofferenza, tormento e commozione: che la nascita non è mai vita senza dolore.
   All’improvviso un lampo si accese tra le nubi. Forte e accecante, per un istante la sua luce illuminò tutta Kalos. Quando scomparve, al suo posto rimase un leggero albore violaceo, meraviglioso e allo stesso tempo spaventoso.
   Tutti quanti e in ogni dove in quel momento si ritrovarono col viso rivolto in alto ad osservare quello spettacolo straordinario. In ogni strada e in ogni Percorso era brusio, era meraviglia e stupore. Ognuno gridava e indicava il cielo. Anche Elisio, immerso tra la folla di Viale Autunno, a Luminopoli, non aveva potuto fare a meno di sollevare lo sguardo. Allora si era messo a correre, veloce, facendosi strada in mezzo alla gente, perché ricordava quelle luci, ricordava quei colori.
   Raggiunse la Piazza Centrale e sul lato opposto incontrò gli occhi grigi di Platan: anche lui lo stava cercando. Non si vennero vicino, non si scambiarono alcun cenno. Rimasero a guardarsi da lontano.
 
  Era l’alba del destino.




 


Se devo essere sincera, non riesco a credere di essere arrivata fino a qui dopo più di un anno che sto scrivendo questa storia. Finalmente ho potuto chiudere il cerchio della Torre Maestra! (Mi chiedo se qualcuno nel frattempo si fosse fatto delle aspettative sul misterioso figuro di Yantaropoli, che al tempo aveva destato un po' di interrogativi...)
Sono molto emozionata, questo è un traguardo che davvero non pensavo di raggiungere quando stavo scrivendo per la prima volta di quei due turisti seduti al Caffé Elisio che si domandavano se fosse meglio visitare la Torre Prisma di pomeriggio o al tramonto. Mi aspettavo di lasciarla incompiuta come molte altre storie di quel periodo, invece, riguardando indietro, sono contenta di vedere che non sia stato così.
Sono molto affezionata a questa storia. È la prima che ho pubblicato qua su Efp. In un certo senso potrei dire che mi sono iscritta apposta per pubblicarla, ma questa è un'altra faccenda. So che all'inizio sembra un po' stupidina, ma finalmente, un poco alla volta, sto riuscendo a darle quel taglio e quel senso che volevo quando mi sono messa alla tastiera la prima volta. Quindi mi sento davvero di dovervi ringraziare tutti quanti - lettori, recensori, seguaci, tutti - per essermi stata vicino, per avermi dato i vostri pareri, per avermi aiutata a migliorare andando avanti con i capitoli. Non mi aspettavo di riscontrare un simile interesse e devo dire che mi rende molto felice! Grazie di cuore a tutti quanti!!! ♥
L'unica cosa che mi sento di precisare stavolta è la storia dei Sapienti della Megaevoluzione/guardiani. Riflettendo sulla loro figura ho pensato che la loro funzione potesse essere quella di contrastare il potere dell'Arma Suprema, siccome il potere delle Megapietre deriva (almeno per ciò che si è capito) dal suo raggio. Quasi sicuramente nei giochi non sarà così, però ormai sapete come sono per queste cose c':
Non ho idea di quando riuscirò ad aggiornare, in futuro, perciò purtroppo temo che per qualche tempo dovrete rimanere sulle spine... Spero comunque che questo capitolo vi sia piaciuto e che fino ad allora vi possa bastare!
Un abbraccio a tutti,
la vostra Pers

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Schiusa ***



..

21 . Schiusa


 

   Le tapparelle della finestra dell’angusto salottino erano completamente abbassate, le tende, chiuse, erano ammassate tra loro nella maniera in cui qualcuno le avesse serrate con forza e frettolosamente. Una lampada da terra e la luce accesa in cucina illuminavano la stanza. Platan stava seduto sul divano, infagottato in un maglione color beige slavato che aveva trovato per caso in un angoletto abbandonato dell’armadio. Quello strano clima perdurava ormai da settimane e l’appartamento era freddo. I termosifoni erano stati spenti siccome, a quanto diceva il calendario, ci si trovava in primavera inoltrata e il loro utilizzo sarebbe dovuto risultare superfluo. Il Professore tuttavia era riuscito a cavarsela sistemando una stufetta sul pavimento, che portava con sé ogni volta che cambiava stanza. In questo modo nell’appartamento si era diffuso un tepore non eccessivo, ma abbastanza gradevole.
   Improvvisamente dalla sua gola risuonò un brontolio infastidito, accompagnato da un’evidente smorfia seccata che si era impressa sul suo volto. Ad aver provocato questa reazione era stata la visione, sullo schermo del vecchio televisore, dell’ennesimo servizio sulla misteriosa aurora che continuava ad apparire a intervalli irregolari sopra i cieli di Kalos. Cambiò canale, ma vide che in quel momento l’argomento stava venendo largamente discusso da diverse stazioni. Sembrava fosse apparsa nuovamente in quell’esatto momento e tutti avevano colto l’occasione per aprire un qualche dibattito inconcludente o fare delle riprese. E ogni osservazione che veniva compiuta era sempre piena di stupore e meraviglia. Non la sua, però. Anzi, la visione di quelle luci nel cielo aveva cominciato a farlo tremare, perché ogni volta si ricordava del tremendo supplizio che aveva dovuto sopportare quel giorno, tanto tempo fa, ma soprattutto del sacro giuramento che aveva pronunciato di fronte alle due creature.
   Perché ora, finalmente, le memorie avevano ripreso tutte il loro posto ed ogni cosa sembrava folle e assurda, alla luce di quei ricordi.
   Tuttavia, non avrebbe definito quel sentimento opprimente che provava come una paura. Era più un’ansia, un’angoscia, perché aveva riscoperto il proprio ruolo e trovava difficoltà nell’accettarlo all’interno della situazione in cui si trovava, già di per sé altrettanto complessa. Probabilmente, in circostanze differenti, non si sarebbe nemmeno fatto prendere dalla preoccupazione, e le cose avrebbero continuato a scorrere tranquillamente senza il minimo problema.
   Si stropicciò gli occhi e con il telecomando in mano spense la televisione. Si alzò, si avvicinò alla libreria e cominciò a sfogliare il primo libro che gli capitò tra le mani nel tentativo di distrarsi nuovamente da quei pensieri.
   Era un’enciclopedia. Sulla pagina che aveva aperto lesse:
 
     Crisalide. Stadio ninfale delle farfalle. Essa può presentarsi nuda oppure racchiusa all’interno di un bozzolo che viene costruito dalla larva prima della metamorfosi.
 
   Improvvisamente suonarono il campanello. Platan chiuse il tomo e osservò la porta, incerto se andare ad aprire o meno. Guardò l’orologio. Stava aspettando l’arrivo di Sina e Dexio, tuttavia era ancora presto, non potevano essere loro. Era abbastanza sicuro che si trattasse dell’ennesimo giornalista venuto a porgli domande a cui per il momento non aveva alcuna intenzione di dare risposta, perciò la cosa non lo invogliava più di tanto a muoversi. Decise di far finta di nulla, riprendendo a sfogliare qualche altro istante l’enciclopedia, tuttavia il campanello trillò di nuovo, e di nuovo ancora, prima esitante, poi più deciso.
   «Che scocciatore...» sibilò, riponendo il libro all’interno del mobile. Si avvicinò all’ingresso e, tenendo serrata la catenella che la bloccava, socchiuse leggermente la porta con uno scatto spazientito.
   «Per l’ennesima volta: no, non so che cosa sia questa aurora, né da cosa sia causata, e, no, non rilascio eventuali interviste su differente argomento qui nel mio appartamento. Quindi, se è davvero interessato, la prego di rivolgersi presso il Laboratorio di Pokémon e prendere un appuntamento, cosicché potremo discuterne al meglio e tranquillamente. Grazie per la cortesia e arrivederci».
   Stava per richiudere la porta quando un’occhiata distratta di fronte a sé lo bloccò.
   «Oh. Sei tu, Elisio», disse, con un tono decisamente più pacato rispetto al precedente.
   «Arrivo in un momento poco opportuno?» domandò l’altro «Perdonami se sono stato insistente».
   «No, figurati», rispose, le sue labbra s’incurvarono in un sorriso un po’ imbarazzato mentre con un dito si arricciava un ciuffo di capelli «Hai fatto bene, anzi, o non ti avrei aperto. Ma sai, in questi giorni... Vieni dentro, accomodati, poi ti racconto».
   Lo fece entrare, gli tolse la giacca dalle spalle e la sistemò con cura su un gancio dell’appendiabiti sulla parete accanto alla porta.
   «Si sta bene qui», disse Elisio avvicinandosi alla stufetta e accostandovi davanti le mani intorpidite dal freddo «Fuori c’è vento. E poi, il cielo...».
   Lasciò la frase in sospeso. Aggrottò le sopracciglia sottili, il suo sguardo già di ghiaccio si fece ancora più duro e grave.
   «Lo so», sospirò Platan, poggiato con una spalla contro il muro, lì accanto a lui «L’ho visto adesso alla televisione».
   «Viola, poi all’improvviso si accende di rosso, poi sfuma in blu, e di nuovo in viola, e poi torna blu e di nuovo rosso...» descrisse l’aurora con voce quasi assente, come se in realtà, pensando a quelle luci, con la mente si trovasse in un altro luogo, forse un bosco o una collina...
   Elisio si riscosse lentamente. Si tirò in piedi e fissò Platan in silenzio, sentendo una fitta al cuore mentre posava lo sguardo sui suoi occhi grigi tanto buoni, velati di una leggera malinconia.
   «Sai, fa male ricordarlo così precisamente... È quasi brutale», disse il rosso con voce bassa.
   «Quando vedo quelle luci, sento di nuovo quel dolore straziante nel petto», e involontariamente alzò la testa verso la finestra chiusa «Eppure era necessario che soffrissimo in quel modo. Da quel dolore è nata una grande felicità».
   Elisio annuì. Rimase a riflettere qualche istante, mentre nella gola gli bruciava la domanda che stava esitando a porgli.
   «Sono loro, non è vero, Platan?».
   Per tutta risposta, egli si limitò a guardarlo, interdetto. Per questo era venuto, allora. Abbassò la testa e si strinse nelle braccia. Si chiese perché, tuttavia, Elisio avesse bisogno di quella conferma da parte sua: nel suo sguardo era evidente che già sapesse la risposta e che fosse del tutto cosciente della sua veridicità. Platan gli rivolse nuovamente gli occhi e con quel gesto pareva che gli stesse dicendo: «Non farmi queste domande sciocche. Tu lo sai, lo sai benissimo». Si allontanò dal muro e mosse pochi passi verso il compagno. Si fermò e sollevò il viso, osservò il lampadario che pendeva dal soffitto, spento e impolverato da tempo. Necessitava di essere lucidato per bene, prima o poi.
   «Le leggende narrano», disse finalmente, dopo un lungo silenzio «che nel momento in cui Xerneas e Yveltal saranno vicini al loro risveglio, i cieli di Kalos si coloreranno di bagliori blu, rossi e viola. Sì, Elisio, sono loro, ne sono più che certo. Stanno tornando».
   Ci fu un altro lungo silenzio. Le tapparelle sbatterono per qualche secondo, mosse dal forte vento che imperversava di fuori.
   «Ma è qualcosa di troppo personale e non voglio parlarne con qualche giornalista perfetto sconosciuto, neanche in veste di Professore Pokémon della regione».
   «Certo».
   Elisio gli rivolse un’occhiata comprensiva. Platan sforzò un sorriso, che a poco a poco si fece più sincero e divertito.
   «Mi auguro che tu ora non vada a spifferarlo in giro alle mie spalle! Sarebbe un gran problema, a quel punto nessuno mi lascerebbe più in pace per davvero!» lo prese in giro, per smorzare la tensione, ridacchiando un po’ nel momento in cui vide la faccia lievemente perplessa dell’altro prima che realizzasse lo scherzo, «Ma so che di te posso fidarmi», disse poi, tornando serio «Almeno per queste cose».
   Si scambiarono uno sguardo, rimanendo l’uno di fronte all’altro. Elisio distolse gli occhi dopo poco, poiché aveva capito immediatamente a cosa si fosse riferito con quell’ultima affermazione. Ricucire bene quel rapporto si rivelava di volta in volta sempre più difficoltoso, anzi, in certi momenti pareva anche impossibile. Dopotutto, si ritrovò a riflettere, era passato talmente tanto tempo dal periodo in cui avevano vissuto insieme senza nascondersi nulla.
   «Posso offrirti qualcosa? Stavo preparando del tè», chiese a un tratto Platan.
   «Magari ne prendo una tazza, ti ringrazio», rispose.
 «Bene, così ti riscaldi un po’, vedo che sei ancora infreddolito. Una bella tazza di tè bollente è quel che ci vuole, in questi casi! Siediti pure, intanto, adesso arrivo», disse entrando in cucina.
   Persino il loro primo bacio era avvenuto in una coltre di parole non dette, emozioni e segreti che non gli aveva potuto confessare, si accorse Elisio, procedendo nelle sue riflessioni. Provò un leggero rimorso. Eppure Platan era ancora così pieno di riguardi nei suoi confronti, e tanto gentile. Possibile?
   Si sedette sul divano con un profondo sospiro e trasse stancamente una Poké Ball dalla tasca. Da essa fece uscire uno dei suoi Pokémon e prese ad accarezzarlo qualche istante.
   Dalla stanza accanto si sentiva Platan armeggiare con le posate e le stoviglie. Apparve poco dopo con un vassoio tra le mani. Nel momento in cui alzò lo sguardo, si lasciò sfuggire un’esclamazione di sorpresa e un largo sorriso gli illuminò il volto.
   «Abbiamo un nuovo arrivato, vedo!» disse, posando le vivande sul tavolo e sedendosi sul divano ad osservare il nuovo Pokémon che Elisio aveva con sé: un bellissimo esemplare di Mienfoo dagli occhi rossi accesi e dall’aria grintosa. Il piccolo ermellino lo scrutò a lungo, sulle prime diffidente, poi, notando che il suo Allenatore si trovava a proprio agio con quella persona, divenne più tranquillo. Non protestò quando il Professore gli avvicinò una mano al muso per stabilire un contatto. Annusò le sue dita con attenzione, per imprimere nella propria memoria l’odore di quell’uomo.
   «Lui è Platan», disse Elisio.
   Il Pokémon sussultò nell’udire quel nome: probabilmente il suo padrone doveva avergliene già parlato diverse volte. Si mise ritto su due zampe e si piegò in avanti con un piccolo inchino, onorato di poter fare la sua conoscenza. Platan sorrise enormemente, ricambiando il suo inchino, tutto emozionato.
   «Oh, Elisio, si vede proprio che è un tuo Pokémon! Salut, mon petit! Et bienvenu chez moi!» esclamò.
   Afferrò un biscotto dalla ciotola sul vassoio e glielo porse, non potendo fare a meno di regalargli qualche carezza in mezzo alle orecchie.
   «Da quanto tempo lo hai preso con te?».
   «Tre giorni. Ho bisogno di ampliare e rafforzare la mia squadra, se voglio tener testa a Serena. Quella ragazzina è molto più forte di quel che sembra e la maggior parte delle mie Reclute non è in grado di porre resistenza ad un’Allenatrice di tale livello. Potrebbe arrivare facilmente a me, un giorno».
   «Hai ragione. Serena è molto forte», versò il tè in una tazza e gliela diede. Il suo sguardo si fece pensieroso quando avvicinò la propria ceramica alle labbra.
   «Sai, nonostante abbia ripreso la memoria, non riesco a capire che ruolo possa avere lei in tutto questo. Eppure sono sicuro che c’entri qualcosa».
   «Serena dev’essere una prescelta, ormai ne sono abbastanza convinto. I prescelti sono coloro che possono cambiare il destino. Questo è quel che è scritto sul mio libro. Altro non so».
   Mienfoo si allungò verso il tavolo e con un’agilità sorprendente prese un altro biscotto dalla ciotola, che cominciò a rosicchiare con evidente appetito, rintanandosi in mezzo ai due uomini. Platan lo accarezzò di nuovo, osservandolo teneramente. Bevve un goccio di tè e sorrise: doveva ammettere che quel quadretto dal sapore quasi famigliare in cui si trovavano non gli dispiaceva affatto.
   «Non lasciarti ingannare dai suoi occhietti dolci, ti assicuro che invece è un bel peperino», lo avvertì Elisio.
   «Oh, davvero? Non sembra affatto. Devi averlo ammaestrato bene, allora», mandò giù un altro sorso «Mh, ecco, hanno aperto questo ristorante che cucina piatti tipici di Sinnoh in una traversa di Piazza Centrale, ci sono andato qualche sera fa, e devo dire che non era affatto male. Ho visto che vendevano questi fiori provenienti da Pratofiorito da mettere in infusione per fare il tè, quando studiavo con il Professor Rowan, Rosabella me ne preparava spesso una tazza, così non ho potuto fare a meno di comprarli. Che te ne pare? Non credo fossero proprio questi i fiori che utilizzasse lei, però, ha un sapore più dolce di quel che mi ricordavo».
   «È troppo dolce per i miei gusti, infatti, ma non mi dispiace».
   «Comunque una sera ti voglio portare in quel ristorante, era davvero ottimo».
   Elisio gli rivolse un sorriso e disse che gli avrebbe fatto piacere.
   Eppure, Platan parve rabbuiarsi all’improvviso. Con la mente di nuovo vagava tra le visioni di quel destino che avrebbero dovuto percorrere.
   «Ascoltami, Elisio», c’era tanta fatica nella sua voce «Tu avevi ragione. Noi fummo scelti. Mi sento tanto sciocco per non averti dato retta in precedenza, avrei dovuto fidarmi. Tuttavia, ora che ricordiamo entrambi... Ora che sappiamo i ruoli che ci spettano... Dimmi, che ne sarà del nostro giuramento? Manterrai la parola data?».
   Il rosso lo scrutò in silenzio. Nei suoi occhi vide serietà, attesa, solennità. Elisio sapeva bene quale risposta avrebbe voluto sentirgli dire, ma non avrebbe potuto accontentarlo. Quel loro mondo era ormai senza speranza e mantenerlo tale sarebbe stato un errore e una condanna. Quella convinzione si era radicata nei suoi pensieri con una fermezza tale che neanche quel giuramento lo avrebbe smosso dalla propria decisione.
   Abbassò la testa: «Mi dispiace, Platan», disse.
   Improvvisamente suonarono il campanello. Platan diede una rapida occhiata all’orologio e si alzò, dicendo che dovevano essere Dexio e Sina. Andò ad aprire e Mienfoo con un piccolo scatto scese dal divano per poterlo seguire.
   «Salve, Professore!» esclamarono all’unisono i due ragazzi. Platan si apprestò ad accoglierli, ma il Pokémon, insospettito dalla troppa confidenza che i due si stavano prendendo, balzò loro addosso con un ringhio per poterli attaccare.
   «Ehi, cos’è tutta quest’agitazione?» lo rimproverò, afferrandolo e stringendolo a sé prima che potesse colpire una Sina terribilmente spaventata «Non si salta addosso alle persone in questo modo!».
   «Che sta succedendo?» Elisio accorse prontamente, richiamato dal tono alterato del compagno.
   «Mienfoo stava per attaccare i miei assistenti».
   Sospirò seccato, massaggiandosi le tempie con le dita: «Te l’avevo detto che era un tipetto vivace», mormorò.
   Prese il Pokémon dalle braccia di Platan e lo strinse nelle proprie, tentando di tranquillizzarlo, poi si scusò con i due ragazzi e li esortò ad entrare, rassicurandoli del fatto che se ne sarebbe preso cura lui. Ci tenne tuttavia a precisare che non dovessero aver paura, che in fondo Mienfoo era un buon Pokémon, ma a tratti estremamente diffidente.
   Si sistemarono nuovamente in salotto, Sina e Dexio vennero fatti accomodare sul divano mentre il Professore versava del tè in due tazze anche per loro. I ragazzi, a differenza degli adulti, parvero apprezzare particolarmente quell’aroma dolce e fruttato.
   «Abbiamo finito di stendere la lista delle persone che hanno accettato il suo invito ad aderire al progetto, come ci aveva chiesto!» comunicò la giovane in tono decisamente soddisfatto.
   Tirò fuori dalla propria borsa un foglio accuratamente ripiegato e lo tese al Professore. Platan lo spiegò e passò attentamente lo sguardo su ogni nome. Si accarezzò il mento con una mano mentre chiudeva gli occhi per concentrarsi e riflettere. Elisio lo osservò, le sue labbra si distesero lievemente nel momento in cui lo vide cominciare ad arricciarsi un ciuffo di capelli tra le dita. Mienfoo approfittò di quel momento di distrazione per allungarsi verso il tavolo e rubare l’ennesimo biscotto, ma la salda presa del suo Allenatore lo ricondusse al proprio posto, lasciandolo a bocca asciutta.
   «Sono molte di più di quelle che ci aspettavamo», commentò Dexio.
   «Beh, non c’è da stupirsi, con una Pietra Chiave in palio, chiunque si offrirebbe volontario», spiegò Platan.
   «Di cosa si tratta?» chiese Elisio, richiamato da quell’ultima dichiarazione; al che l’altro sorrise, un po’ divertito.
   «Credo di aver scoperto qualcosa di nuovo sulla Megaevoluzione, ma per esserne davvero sicuro ho bisogno di fare degli accertamenti pratici. Per questo motivo sto cercando una persona disposta ad aiutarmi e di cui, soprattutto, mi possa fidare ciecamente».
 
 
   Probabilmente non le sarebbe più ricapitato per lungo tempo di dormire in un letto vero, con delle lenzuola fresche di lavanderia e su un materasso morbido come quello, così Shana, nonostante fosse sveglia già da un pezzo, era rimasta accucciata in mezzo alle coperte ad ascoltare il silenzio che aleggiava nella loro stanza con gli occhi chiusi, di tanto in tanto ricadendo in un sonno leggero. Qualche volta tuttavia capitava che col pensiero si soffermasse distrattamente sul nome dell’albergo e che cominciasse a gongolare all’idea che si trattasse dell’hotel preferito della grande attrice Diantha: magari anche lei era stata lì - ecco, forse non proprio in quella stanza che lei e Serena erano riuscite a malapena a recuperare con quel che avevano guadagnato il giorno prima nella Palestra di Amur, però...
   Era stato un gran bell’incontro quello di ieri, si ritrovò a pensare. Serena stava diventando sempre più forte. Eppure, da quando il cielo aveva iniziato ad accendersi di quei colori, ella le era sempre sembrata estremamente irrequieta. Una sera, dopo aver tenuto un certo malumore per diversi giorni senza aver mai aperto bocca, le aveva confessato quella storia della prescelta, ma le sue parole erano state così confuse e affrettate che non era riuscita a capire molto. Nonostante questo, le aveva promesso che le sarebbe stata vicino. Serena le aveva sorriso.
   Nient’altro. Solo un sorriso.
   Shana aprì gli occhi e si tirò a sedere, si stiracchiò emettendo un lieve sospiro. Si guardò attorno, evidentemente entusiasta di quella bella stanza in cui erano riuscite a sistemarsi. Sussultò nel momento in cui vide il letto accanto al suo vuoto, con le coperte stropicciate e ammassate tra loro alla rinfusa.
   «Serena?» la chiamò, aspettandosi una sua risposta. Non le tornò indietro nulla.
   Scese dal letto e percorse a piedi nudi la stanza, finché, sul limitare della finestra semiaperta, le giunse il suono di un mugolio sommesso. Uscì sul balcone, sentendo il gelo del pavimento che le pungeva la pelle come spilli appuntiti penetrati in fondo nella carne.
   La vide lì, rannicchiata a terra in un angolo, con la testa rintanata tra le ginocchia, che singhiozzava piano. La osservò tristemente mentre i suoi capelli biondi si scuotevano sulla schiena e sulle spalle agitate dal pianto. Le si avvicinò in silenzio, cercando di opprimere la necessità di coprirsi le braccia e di stringersi per il freddo. Quando Serena si accorse della sua presenza, il respiro smorzato le si arrestò all’improvviso, le rivolse uno sguardo sconvolto e mortificato mentre le lacrime continuavano a scenderle lungo il viso, sollecitate anche dal forte vento che spirava sul promontorio. Si coprì gli occhi con le mani e si voltò di scatto dal lato opposto, per non farsi vedere.
   «Scusami», sussurrò, con la voce che gracchiava.
   Shana restò ancora a guardarla, esitante. Si chinò accanto a lei e allungò una mano sulla sua spalla, gliel’accarezzò piano. Ci volle un po’, ma alla fine Serena si lasciò guardare completamente. Concedette alle dita di Shana di spostarle i capelli dal viso e di pettinarli, di passare sulle sue guance per asciugare le lacrime. Si accovacciò contro di lei e poggiò la testa sulla sua spalla, sentendo il suo abbraccio.
 
 
   «Li ho sognati di nuovo», disse.
   Distese sul prato di una piccola collina, osservavano in lontananza il mare di Temperopoli, dal quale proveniva un profumo acre e salmastro che si confondeva con l’odore della resina prodotta dai rigogliosi alberi della vegetazione locale. Il cielo risplendeva di un gradevole azzurro quella mattina, attraversato ogni tanto da qualche nuvola biancastra. Tuttavia il vento fischiava inesorabilmente, senza mai smettere, a tratti debole, poi di colpo con forza. L’erba attorno a loro di conseguenza si scuoteva, mandando un intenso profumo nelle narici.
   «I due bambini?».
   «Sì».
   Serena si mise a sedere e incrociò le gambe, un sospiro di vento le fece ondeggiare i capelli.
   «Sai, sono tanto carini», sorrise, sistemandosi una ciocca dietro l’orecchio «Si vogliono molto bene. E si ammirano entrambi tantissimo, anche, soprattutto c’è quello più piccolo con il fiore in mano che non finisce mai di elogiare l’altro, trova sempre un pretesto per parlare di quanto sia speciale e fantastico in ogni cosa che fa».
   «E lui cosa dice?».
   «Oh, nulla. Delle volte mi sembra un po’ imbarazzato. È taciturno, non parla mai molto. Eppure lo vedo dai suoi occhi quanto anche lui voglia bene all’altro. È un affetto tenero e spontaneo... Una volta è successa questa cosa: vedi, in questo mondo ognuno ha un fiore...».
   «Tutti quanti?».
   «Sì, tutti quanti ne tengono uno. Ma non lui. Mi sembrava strano, così gli ho chiesto: “E tu? Dov’è il tuo fiore?”» e già un po’ rideva mentre pensava alla risposta che le aveva dato, perché era tanto bella e semplice.
   Shana la osservò impaziente, si tirò a sedere e si mise a fissarla: «Allora?» la incitò.
   Serena le rivolse lo sguardo, le sue labbra erano incurvate in un sorriso meraviglioso e dolce, mosse da quel ricordo: «Allora,» disse «mi ha guardato come se avessi fatto la domanda più assurda dell’universo. Ha stretto la mano di quel bambino e con gli occhi felici ha esclamato: “Lui è il mio fiore!”».
   «Che meraviglia!».
   «È vero! Purtroppo però, questa notte... Ecco, lui era da solo. Il bambino con il fiore, intendo. Era strano. Stava tutto rannicchiato su sé stesso, fluttuando a mezz’aria, e piangeva. I petali del suo fiore erano in parte tinti di rosso, come se stesse sanguinando. E poi, se ne stava un po’ nascosto dentro questa membrana scura, simile a una sorta di bozzolo. Diceva: “È andato via... È andato via...”. Temo che sia stato abbandonato».
   Shana abbassò la testa, poggiando la fronte contro le ginocchia. Poi sospirò, sollevando un poco lo sguardo sull’orizzonte.
   «Sembra quasi amore», mormorò.
   «Amore?» rimase abbastanza sorpresa da quell’affermazione «Io... No, non credo. Non mi è mai sembrato, dopotutto...».
   «Sai, Serena, l’amore non è fatto soltanto di baci e quelle cose lì», la interruppe, quasi a volerla rimproverare.
   Improvvisamente una folata di vento fece volare via il cappello di Serena. Le due ragazze si alzarono, correndo per andare a recuperarlo.
   C’erano due uomini che stavano passeggiando poco lontano. Il più anziano stava raccontando una storia: «Tanto tempo fa, una persona a me molto cara mi rivolse queste parole: “Tutti noi siamo dei bozzoli. Nel momento in cui nasciamo, siamo irraggiungibili dagli altri e colmi di un grande dolore. Il nostro passato si fa lontano, il futuro si sgretola, e il presente non esiste. Respiriamo in un lasso di tempo improbabile in cui i battiti dei nostri cuori perdurano all’infinito. Intorno a noi viene l’ignoto. È in quell’istante che finalmente usciamo dal nostro bozzolo e diventiamo dei fiori. Poi ci sono alcuni che, credendo fermamente nei propri sogni e trovando il coraggio di seguirli, diventano farfalle. Ma, se questi sogni dovessero tramutarsi in ossessioni, le loro ali deperiranno e cadranno, e quelle farfalle si trasformeranno in insetti ripugnanti”».
   Ad un tratto, vide un cappello rosa venir trascinato dal vento. Lo afferrò, stringendolo tra le dita, guardando attorno in modo da scoprire a chi fosse sfuggito.
   «Sembra proprio che il vento si sia alzato!» esclamò colui che lo accompagnava.
   «È segno che presto avverrà un cambiamento».
   Le ragazze corsero loro incontro, agitando le mani in modo da richiamare l’attenzione.
   «Quello è il mio cappello!» disse Serena, chiedendo poi che glielo restituisse «Vede, è volato via col vento», spiegò.
   L’anziano rise teneramente e glielo tese, lasciando che ella lo riprendesse: «Certo, certo che te lo restituisco», la rassicurò.
   Shana riconobbe l’uomo al suo fianco e fece un leggero inchino: «Capopalestra Amur!» lo salutò.
   Egli sorrise, dando il buongiorno sia a lei che alla compagna. Serena s’inchinò a sua volta, calcandosi il cappello sulla testa in modo che non le sfuggisse ancora.
   «Dunque vi conoscete?» domandò l’anziano.
   «Mio caro amico, lascia che ti presenti Serena. Credo di non aver mai incontrato un’Allenatrice più formidabile di lei. A proposito, vorrei ancora farti i miei complimenti per la lotta di ieri: se continuerai su questa strada, sono convinto che non avrai problemi ad affrontare i Superquattro e ad arrivare alla Campionessa. Ma bada bene, Diantha è un osso duro, e se hai intenzione di sconfiggerla e prendere il suo titolo, dovrai impegnarti ancora molto», disse il Capopalestra.
   «Non deve preoccuparsi, sono certa che Serena ce la farà», la difese Shana «È una ragazza forte. E io ho piena fiducia in lei».
   Serena la osservò, grata per quelle parole. Le rivolse un timido sorriso.
   Amur annuì, ammirando l’impeto che la ragazza aveva mostrato nelle sue parole: era evidente che fosse fermamente sicura delle capacità dell’amica. La guardò negli occhi e in essi scorse una scintilla piena d’ardore, capendo che si sarebbe battuta contro tutto e tutti pur di affermare quanto la compagna fosse forte, capace e piena di valore. Si ricordò di quando era stato giovane e lungo il percorso aveva potuto fare affidamento sul sostegno dei suoi amici durante il viaggio per raggiungere e portare a compimento i propri obiettivi e le proprie aspirazioni. Si accarezzò i ciuffi di barba che gli crescevano ai lati del mento mentre un sorriso gioioso che sapeva di vita vissuta gli si imprimeva sulle labbra. Poi però si voltò verso l’amico più anziano, temendo che anche lui sarebbe potuto cadere in quei pensieri, che al contrario tuttavia lo avrebbero afflitto e addolorato.
   Ritenne che sarebbe stato meglio andarsene. Il Capopalestra salutò con premura le due giovani e si avviò, esortando l’altro a seguirlo.
   Qualcosa però, mentre se ne andavano, attirò l’attenzione di Serena, scuotendola d’inquietudine. Guardò meglio la figura dell’anziano, lo studiò accuratamente per pochi istanti e poi si mosse.
   «Aspetti!» gridò - perché, per quanto fosse doloroso lottare e cogliere fino in fondo quel destino, aveva ormai iniziato ad accettarlo, a riconoscersi in quel ruolo, e non si sarebbe fermata, non avrebbe ceduto, non voleva tirarsi indietro, nonostante ogni passo avanti generasse vertigine e capogiro.
   I due si fermarono. Si voltarono. Serena scrutò l’anziano, ancora, esitante, ma più che certa della sensazione che aveva percepito. Shana rimase in silenzio ad osservarla, non capendo il motivo di quel comportamento.
   «È lei, non è vero?» domandò la ragazza con la voce decisa di chi cerca la verità «Deve essere lei l’anziano vagabondo di cui mi parlò Ornella. Sulla sua figura, ne è chiaro il segno».
   Amur sussultò. Con sguardo turbato si rivolse al compagno. Lo vide portarsi le mani al petto, a stringersi la chiave che teneva al collo con l’espressione di chi si è ormai rassegnato alla propria natura di mostro e carnefice. Lo sentì sospirare stancamente mentre nascondeva gli occhi neri dietro la folta frangia di capelli candidi e rovinati.
   «Va’, Amur», disse.
   Il Capopalestra indugiò. Lanciò un’occhiata alle due ragazze, fissando lo sguardo in particolar modo su Serena.
   «Va’. Non preoccuparti», disse di nuovo.
   Amur intese. Con un cenno del capo si accomiatò, si avviò chiamando fuori dalla sfera il proprio Gogoat. Salì in groppa al Pokémon sostenendosi con le mani sulle sue robuste corna nere.
   «Ti rivedrò?» chiese, prima di partire.
   L’anziano lo osservò, scosse la testa.
   «Il mio soggiorno qui è scaduto. Sai bene che non posso sostare a lungo in nessun luogo. Già per troppo tempo mi sono trattenuto da te, e molte volte ho rinviato il congedo, rincuorandomi della tua compagnia. Ma ormai, per me, è giunto il momento di ripartire e di tornare sui miei passi. Ti ringrazio di tutto, Amur».
   «Buon viaggio, allora. E stammi bene. Mi ha fatto tanto piacere ritrovarti, spero di poterti incontrare presto un’altra volta».
   «Certo, mio caro,» sorrise «tornerò sicuramente. A presto, dunque, e stammi bene».
   Il Capopalestra annuì, sorridendo a sua volta. Si tolse il cappello in segno di saluto. Poi con un verso incitò Gogoat a mettersi in moto, e così se ne andò, lontano.
   Dopo qualche istante, AZ si girò. Scrutò severamente la ragazza che aveva di fronte, notò i suoi occhi accesi che emanavano un’aura d’impetuosità e d’inquietudine insieme. A quel punto la riconobbe, dopo averla cercata tanto a lungo.
   «Sei tu», disse, finalmente privo di ogni dubbio «Sei tu, la ragazza prescelta».



***
Angolo del francese.
     * Salut, mon petit! Et bienvenue chez moi! = Ciao, piccolo mio! E benvenuto nella mia casa! .




 


Ciao a tutti!! Come state? ♥
Vi ringrazio moltissimo per essere arrivati fin qui, spero che anche questo capitolo sia stato di vostro gradimento, nonostante (...come al solito) ci abbia messo così tanto a pubblicarlo. Però, devo dire, tornare a lavorare su questa storia mi rende sempre molto felice - e in qualche modo spero veramente che possa trasmettere anche a voi un po' di quella stessa felicità che provo io mentre scrivo. 
La prima cosa che mi viene in mente da dire oggi è che mi sono appena accorta che era da un sacco di tempo che non scrivevo l'Angolo del francese. Sarà una piccolezza, ma mi ha colpito.
Infine, volevo fare solo una piccola precisazione su Amur. Se si ritorna alla Palestra di Temperopoli dopo aver battuto la Lega e gli si rivolge la parola, Amur dice qualcosa del tipo (purtroppo ho ricominciato il gioco, quindi non posso mettervi la citazione precisa, perciò vado un po' a memoria): "Quando sei certo che non potrai mai più incontrare qualcuno, allora col tempo lo accetterai e abbandonerai tutto. Ma, se invece dovesse esserci anche una minima possibilità di ritrovarlo, saresti disposto a vagare anche tremila anni, ossessionato da quella speranza... Io non so se sarei riuscito a sopportarlo". Più probabilmente questa considerazione è dovuta al fatto che anche lui potesse essere stato presente alla cerimonia di premiazione a Luminopoli durante lo scontro con AZ e la successiva riunione con Floette, ma la prima volta che la lessi mi venne da pensare che magari si conoscessero, che AZ gli avesse raccontato qualcosa e che Amur di conseguenza avesse provato a confortarlo. In questo senso ho inteso la loro amicizia in questo capitolo.
Detto questo, e di nuovo, spero davvero che vi sia piaciuto! Un bacione a tutti quanti, non smetterò mai di ringraziarvi abbastanza ♥
Al prossimo capitolo!
Pers

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Turbinio interiore ***



..

22 .  Turbinio interiore


 

   A quelle parole, Shana si riscosse all’improvviso, intuendo ciò che stava accadendo e come mai Serena avesse agito in maniera così avventata. I suoi limpidi occhi verdi, tuttavia, tradivano un certo smarrimento misto a un sottile timore. AZ sollevò lo sguardo su di lei e vedendo la sua espressione confusa sorrise, rassicurante.
   «Come ti chiami?» le chiese, piegandosi sulle ginocchia e rivolgendole il viso.
   «Shana!» esclamò, presa alla sprovvista, perché stando accanto a una ragazza come Serena era quasi raro che si curassero di lei – spesso la sua presenza passava in secondo piano «Mi chiamo Shana» ripeté poi, più tranquillamente, stringendosi con imbarazzo le mani lasciate penzolare di fronte al ventre.
   L’anziano annuì, la guardò pieno di conforto: «Mi fa piacere che accanto alla prescelta ci sia tu a sostenerla, Shana. Ma dimmi, mi sembri leggermente smarrita: ti ha già raccontato tutto? Tu sai cosa comporterà il suo ruolo?».
   «No, non le ho ancora raccontato tutto» si inserì Serena «Questa storia, nonostante abbia ormai accettato di esserci dentro, continua ad angosciarmi a volte, e non volevo riversarle eccessivamente addosso il mio dolore. Ma lei, signore, sarà certamente in grado di spiegarci meglio ogni cosa. Perché anch’io ho ancora molti dubbi».
   «Ti prego, Serena, dammi del tu. Io ormai, anche se un tempo fui principe e re, non sono più degno di alcun titolo. Dunque, allora, vediamo un po’. Quale credi che sia il compito della tua compagna, Shana?».
   Shana rimase a riflettere qualche attimo, tenendo bassa la testa.
   «Io credo che il suo compito sia quello di salvare il mondo».
   «Quella è una delle possibilità, nel caso in cui le cose dovessero andare in un certo verso. Nel verso che temo purtroppo sia il più probabile».
   Le due ragazze rimasero sorprese. Allora il destino avrebbe potuto dispiegarsi anche in maniera diversa? Che cosa intendeva dire?
   Il cielo iniziava ad annuvolarsi. Da Ovest provenivano nubi scure, promettenti pioggia. AZ consigliò di trovare un luogo tranquillo e riparato, dove potesse spiegargli tutto con calma. Conosceva una piccola grotta nelle vicinanze, così si incamminarono verso di essa. Una volta arrivati, si sedettero a terra in circolo. L’uomo accese un piccolo fuoco per far luce: presto il sole sarebbe stato coperto, lasciando posto al buio.
   «In realtà, le persone che dovrai salvare, Serena, sono due. O meglio, una sola» precisò, spegnendo con un soffio il fiammifero che aveva utilizzato per alimentare il fuoco.
   «Una sola in tutta quanta Kalos?» domandò la ragazza.
   «Sì. Il ritorno dell’Arma Suprema dipende soltanto da essa».
   Shana annuì: certo, doveva esserci qualcuno che desiderava di poter riattivare la macchina più di ogni altro, ma chi mai poteva volere qualcosa del genere? S’immaginò una persona estremamente malvagia, senza scrupoli, che avrebbe goduto profondamente nel far soffrire gli uomini un’altra volta dopo tremila anni. Non riusciva a trovare delle motivazioni che avrebbero potuto giustificare un simile gesto, non era possibile. Eppure, in qualche modo, il suo cuore continuò inconsciamente a cercarle, perché altrettanto assurda era l’idea che non vi fosse alcuna origine ad una tale crudeltà.
   «Ascoltatemi, adesso. Devo dirvi qualcosa di molto importante, perciò prestate attenzione. Io, AZ, costruii l’Arma Suprema tremila anni fa, sfruttando il potere dei Pokémon Leggendari della regione di Kalos. Inizialmente ero stato mosso da buoni propositi, ma inevitabilmente le mie azioni finirono per creare distruzione e morte. L’Arma Suprema venne nascosta nelle profondità della terra da mio fratello minore, affinché nessuno potesse nuovamente utilizzarla. Ma, ovviamente, finché essa non cesserà di esistere, il pericolo che essa possa ritornare alla luce sarà sempre presente.
   «Per questa ragione, ogni mille anni Xerneas e Yveltal, poco prima del loro risveglio, scelgono due fanciulli, l’uno ultimo discendente della stirpe di mio fratello, l’altro un essere umano o un Pokémon qualunque che sappia stare al fianco del primo. Le due creature si mostrano a loro nel mezzo della notte, fermando lo scorrere del tempo, legando indissolubilmente le loro esistenze e facendo loro provare lo stesso dolore che generò l’Arma, di modo che l’ultimo erede non sia mai persuaso ad utilizzarla nuovamente: solo lui, o lei, infatti, ha il potere di farlo. In lui o in lei solamente è riposta la chiave per giungere alle porte che custodiscono la macchina. I due fanciulli vengono quindi portati a giuramento, affinché si apprestino a lottare essi stessi per impedire un eventuale ritorno di ciò che fu tremila anni fa.
   «Tuttavia, un giorno, una persona a me molto cara venne e mi disse che aveva avuto una visione del destino. Ebbene, dovete sapere che il destino non è cosa che si possa vedere chiaramente. Esso si manifesta soltanto in frammenti labili e incerti, poiché nel nostro futuro non c'è nulla di durevole e sicuro. Ogni cosa può essere cambiata e mutata, se si ha il coraggio di prendere saldamente in mano le nostre decisioni e i nostri sogni, se anziché limitarci ad essere fiori troviamo la forza di tramutarci in farfalle».
   «Che cosa vide?» chiese Shana.
   «Vide il cristallo rosso e blu dell’Arma tornare a scintillare e a districarsi come un fiore maledetto fino ai confini del cielo, le croci delle tombe delle vittime cadere al suolo e frangersi in innumerevoli pezzi, il sangue che colava su di essi. Nell’oscurità scorse le mani dei due fanciulli stringersi e poi separarsi senza che mai più potessero incontrarsi di nuovo. Dunque comprese che sarebbe accaduto loro qualcosa, che l’indole dell’uno avrebbe prevaricato sull’altro. Poi però, quando ogni cosa sembrava essere perduta, vide anche una terza fanciulla, colei a cui diede il nome di prescelta, la quale sarebbe stata in grado di riportare la serenità nei loro animi. Quella ragazza, Serena, sei tu».
   Serena tremò lievemente. Si portò la mano al petto per acquietare i battiti del proprio cuore, resi inquieti dalle sue parole. Con gli occhi cercò di penetrare oltre la folta frangia dell’uomo e di scoprirne lo sguardo. Lo vide, ed era serio, ma al tempo stesso fermamente fiducioso. La ragazza riprese coraggio, si tranquillizzò. Si accorse che Shana la stava osservando.
   «AZ, dimmi, allora, qual è il mio compito?».
   «Se il secondo fanciullo non riuscirà a prevalere sull’altro, il giuramento fatto alle creature si romperà ed essi si separeranno, lasciando che l’Arma Suprema ritorni sulle terre di Kalos, devastando la regione e il mondo intero. So che questo sta già accadendo, poiché ho visto l’ultimo discendente avvicinarsi alle porte dietro cui essa è celata per aprirle un’altra volta. Il tuo compito, Serena, è quello di trovare i due fanciulli e fare in modo che essi non si separino, che venga mantenuto l’equilibrio tra i loro cuori».
   Da fuori cominciarono a udirsi i primi tuoni squarciare l’aria. Di tanto in tanto un bagliore illuminava le nubi scure. Il vento fischiava e le foglie dei rami intorno frusciavano irrequiete.
   «Un momento», disse Shana, come se le fosse venuto in mente qualcosa, «Serena, e se quei due fanciulli fossero i due bambini di cui sogni ultimamente?».
   AZ rimase sorpreso da quelle parole, così chiese che gli spiegassero meglio di cosa si trattasse. Non appena Serena ebbe finito di raccontare, l’uomo sorrise, poiché aveva inteso che si era formato un legame misterioso tra lei e i due fanciulli e che presto avrebbe saputo riconoscerli lei stessa lungo il proprio cammino.
   «Ma come potrò essere certa che saranno proprio loro?», domandò però poco convinta la ragazza.
   «Quando li vedrai insieme, lo sentirai e ne avrai la certezza. Lascia che i tuoi sogni ti parlino: in essi, più che in ogni altra cosa, è racchiusa la nostra anima e i moti che essa desidera compiere, insieme alle sue paure. È lì che più chiaramente può mostrarsi il destino, anziché, ad esempio, nelle stelle».
   «Tu però già sai chi sono, non è vero?», chiese allora Shana, «Non potresti darci soltanto un indizio? Io, perlomeno, potrei aiutarla almeno un po’ se li riconoscessi prima di lei».
   L’anziano comprese il suo stato d’animo, ma ben sapeva che soltanto la prescelta sarebbe stata in grado di riconoscerli in virtù del legame che la univa a loro. Tuttavia, si lasciò un po’ prendere la mano, intenerito, e rispose: «Voi siete Allenatrici, giusto? Per cui immagino che sicuramente abbiate già fatto conoscenza del secondo fanciullo. È una persona a cui molti di quelli come voi si rivolgono. Mi dispiace, ma più di questo non posso dirvi. E ora perdonatemi, ma devo riprendere il mio viaggio. Mi sono trattenuto qui molto più del dovuto. Non temete, sono certo che ci rivedremo. A presto».
   Così dicendo si alzò, mise la sacca in spalla e uscì dalla grotta. Serena e Shana lo osservarono finché non fu scomparso all’orizzonte. Poi il cielo si colorò di viola, rosso e blu per qualche istante. Infine iniziò a scendere pioggia e le due ragazze rimasero in silenzio davanti al focolare che s’era spento in attesa che tornasse il sereno.
 
 
   Quella sera quando si ripresentarono in albergo ebbero la spiacevole sorpresa di scoprire che non avrebbero potuto continuare ad alloggiare nella stanza che avevano occupato fino a quella mattina. Tuttavia, con i soldi rimasti, riuscirono comunque ad accaparrarsi una camera, più piccola e al primo piano, senza balcone. L’unico problema che poteva risultare più scomodo era la presenza di un unico letto, ma fu qualcosa su cui riuscirono a sorvolare, facendosi strette sotto alle coperte.
   Avevano deciso che l’indomani si sarebbero rimesse in viaggio subito dopo colazione: i bagagli erano già pronti vicino alla porta, mentre i vestiti erano stati riposti a scaldare vicino al termosifone. La prossima destinazione sarebbe stata il Percorso 13 in vista del ritorno a Luminopoli, dove le attendeva lo scontro nella Palestra di Lem e la quinta Medaglia. Serena diceva di essere intenzionata a catturare qualche Pokémon di tipo Terra vicino alla Centrale Elettrica.
   Girate di schiena l’una contro l’altra, stavano cercando di addormentarsi. Da oltre la porta ogni tanto si sentiva un rumore di passi e di gente che rideva mentre usciva per andare a fare un giro e divertirsi. Tuttavia fuori il vento ancora soffiava forte e faceva freddo, i vetri delle finestre tremavano.
   «Sei sveglia, non è vero?».
   Serena aprì gli occhi, sentendo la voce dell’altra.
   «Sì».
   «Stai ripensando a quello che ha detto oggi AZ, non è così?».
   «Sì».
   Si udì dal piano di sopra un oggetto cadere sul pavimento e poi il rumore di un mobile che veniva spostato.
   «Hai già pensato di chi potrebbe trattarsi il fanciullo di cui ci parlava? Potrebbe essere qualche Allenatore che abbiamo sfidato durante il viaggio. Magari un Capopalestra? Per caso Lino di Altoripoli ti sembra familiare?».
   «Non riesco a ricordare precisamente le sembianze di quei due bambini. So solo che, quando li vedo nei miei sogni, ho come la sensazione di conoscerli già da molto tempo, nonostante in effetti non sappia nulla di loro».
   Serena sospirò, come afflitta da un grande peso. Shana la sentì rigirarsi qualche secondo nel letto e poi tirare su col naso. Socchiuse le labbra, animata dal dispiacere, ma non si volse, poiché sapeva quanto per l’altra era difficile mostrarsi ridotta in un tale modo.
   «Serena...», tentò di richiamarla comunque, sperando di poter trovare qualcosa da dire per confortarla.
   «E se non dovessi farcela?», la interruppe però lei all’improvviso, con voce irrequieta, «E se dovessi fallire? Se tutta Kalos dovesse venire distrutta per causa mia? Che ne sarebbe allora di me? Per tutta la vita, ho sempre desiderato andare incontro al mio destino e diventare qualcuno, lontano dall’ombra di mia madre, ma adesso, adesso...».
   La sua voce si fermò per qualche lungo istante, mentre tentava di ricacciare il pianto che sempre più prepotentemente minacciava di sgorgare dai suoi occhi per bagnarle le guance e riversarsi sul cuscino. Vi riuscì a malapena, perché poi dovette premere con una mano sulla bocca con tutta la propria forza per bloccare un lamento.
   «Io ho sempre pensato che per diventare quella che sono davvero avrei dovuto lottare contro gli altri, contro tutti quanti gli altri, e non mi sarei mai tirata indietro, ma adesso ho capito che non è contro gli altri che devo lottare, ma contro me stessa, soltanto me stessa... E fa male, fa così male che mi viene da piangere!».
   Shana esitò. Ascoltò il suo pianto e i suoi singhiozzi in silenzio, fissando il muro che aveva di fronte con sguardo mesto e impotente. Si morse le labbra, sentendo la schiena dell’altra scuotersi e dimenarsi. Poi, con un po’ d’imbarazzo decise di farsi avanti. Allungò le dita cercando le sue, lasciate penzolare lungo il fianco, e quando le trovò strinse timidamente la sua mano.
   Serena parve acquietarsi per un istante, mentre avvertiva il calore delle loro pelli venute a toccarsi così semplicemente. Inspirò profondamente e sentì la stretta di Shana farsi gradualmente più forte, ed ella dopo un po’ ricambiò, con tutta sé stessa, scoprendo delle sensazioni che mai aveva provato prima.
   «Tu mi piaci, Serena. Mi piaci molto», sussurrò, «E non m’importa se sei la prescelta o chissà cos’altro, tu mi piaci per la persona che sei dentro. Tutto il resto per me non ha valore, per cui, se anche dovessi fallire, io rimarrei lo stesso al tuo fianco. Sempre, persino se a Kalos dovessimo sopravvivere soltanto tu ed io. Non succederà mai che io dubiti di te o che mi trovi sorda nel momento del bisogno. Io ci sarò e non ti lascerò sola».
   Si strinsero più forte le mani. Serena sorrise, commossa, nonostante un lieve imbarazzo stesse cominciando a fiorire nel suo cuore. Improvvisamente, la pietra incastonata nel Megacerchio che portava al polso brillò. Guardò il suo bagliore colorato come stordita. Perché tutt’a un tratto si sentiva così?
   Si mise a sedere, poi si alzò dal letto, uscendo dall’abbraccio delle coperte. A quel punto Shana si girò, la vide spogliarsi del pigiama e indossare i vestiti.
   «Dove stai andando?», chiese.
   «Esco. Vado a fare due passi. Ho bisogno di prendere una boccata d’aria».
   «Con questo freddo? Serena, posso aprire un po’ la finestra, se vuoi, ma andare fuori con questo gelo è una pazzia! Resta. Possiamo parlarne insieme, non devi tenerti tutto dentro. Per favore. Fidati di me».
   «Sei l’unica persona di cui possa fidarmi al momento, Shana. Ma...».
   La scrutò, stringendo con le mani i lembi della gonna rossa che aveva appena infilato addosso. Incontrò i suoi occhi verdi e abbassò la testa.
   «Perlomeno, mettiti qualcosa di più pesante. Quelle calze non riscaldano abbastanza».
   «No, sto bene così. Sto bene».
   Afferrò la giacca e se la sistemò indosso alla bell’e meglio. Si avviò verso la porta e rivolse un ultimo sguardo in silenzio alla compagna prima di uscire.
  «Perdonami».
   Shana restò a osservare il punto da cui se ne era andata. Sospirò. Tornò a sdraiarsi e serrò gli occhi, coprendoli con le mani. Temette di aver detto le parole sbagliate o di averla offesa in qualche modo, pur avendo voluto soltanto confortarla e agire per il suo bene. Ad un tratto vi fu un bagliore. Shana allontanò le mani e vide il Lucario di Serena uscire dalla sua Poké Ball. Guardò il Pokémon con stupore mentre posava le zampe sul pavimento.
   «Vuoi andare da lei, non è vero?» domandò dopo un po’, comprensiva, «Certo. Nonostante vi conosciate da così poco, tu le sei già molto affezionato. Vai, allora. E per favore, controllala da parte mia».
   Lucario la scrutò. Avvertì che era preoccupata e lievemente amareggiata per ciò che era appena accaduto. Capì ciò che gli stava chiedendo. Annuì. Aprì la porta della stanza e con passo furtivo si avviò lungo il corridoio.
 


 


Ciao a tutti!
Come forse avrete visto, ultimamente sto cercando di scrivere capitoli un po' più corti, sperando in questo modo di riuscire ad aggiornare più spesso. Penso che comunque questo fosse già abbastanza pieno di cose importanti, per cui a maggior ragione non volevo caricarlo troppo. Spero che vi sia piaciuto! Poi vi dirò, sono molto felice di essere arrivata finalmente a questo punto!
Ho anche pensato di risistemare l'impaginazione, credo che questo l'abbiate notato subito. Mi sembra più ordinata così. La sto applicando anche ai capitoli vecchi, per il momento sono ferma al decimo, piano piano arriverò anche agli altri.
Un bacione a tutti e un caro augurio per il 2017, sperando che possa portarvi un po' di serenità ♥
A presto,
Pers

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Legami ***



..

23 . Legami


 

   Ci sono alcuni legami che nascono così, senza un apparente motivo. Due individui si incontrano e immediatamente si comprendono, si sentono indissolubilmente stretti l’uno all’altro, senza che sia accaduto qualcosa di troppo speciale. A pelle, direbbe qualcuno, o meglio ancora a prima vista. Questo pensò Serena nel momento in cui udì un ululare dietro di sé e voltandosi vide il suo Lucario.
   Perché non c’era stato nessun contatto tra di loro prima che si fossero uniti sulla Torre Maestra, se non quello dei loro sguardi venutisi incontro. Ed era stato tanto strano lottare contro Ornella, sentirsi talmente affini al punto da provare gli stessi dolori e le stesse gioie durante il combattimento. A volte Serena ancora percepiva i tagli e i lividi addosso provocati dagli attacchi avversari sul corpo di Lucario. Quella sintonia che aveva provato con lui quando si era megaevoluto le pareva ancora per certi versi assurda. Per molto tempo ci aveva riflettuto sopra, ma non aveva mai trovato una spiegazione sensata.
   Eppure, c’è davvero bisogno di dare un senso ai legami che si hanno? È forse possibile trovare la ragione di un affetto incondizionato?
   Serena allungò un braccio verso il proprio Pokémon. Lasciò che si avvicinasse accanto a lei, seduta su una solitaria pietra in mezzo agli alberi, e che le leccasse via le lacrime dalle guance.
   «Non volevo fuggire via in quel modo», sussurrò, con la voce ancora un po’ rotta «Ma mi sentivo così frustrata e confusa, io...».
   Il Pokémon ritrasse il muso e la osservò silenziosamente in viso. Poi con un lento cenno della testa le fece intendere che comprendeva i suoi sentimenti e che non c’era bisogno di aggiungere altre parole. Serena lo ringraziò con un bisbiglio mentre si stropicciava un occhio. Voltò lo sguardo verso il mare all’orizzonte e rimase a guardarlo. Ogni tanto ancora singhiozzava, tuttavia ormai sembrava essersi tranquillizzata abbastanza.
   «Sai, è difficile. Pensare di dover salvare tutto e tutti senza alcuna alternativa...» disse «Io mi sento così debole».
   Lucario scosse la testa. Le prese le mani con le zampe e le strinse. Già da tempo lui aveva percepito il suo spirito irrequieto e già da tempo aveva capito che esso l’avrebbe inevitabilmente portata a scontrarsi con grandi tormenti. Tuttavia, aveva anche avvertito la presenza di una forza sopita e aveva avuto la prova della sua tenacia nel momento in cui l’aveva sfidata a Cromleburgo. Sulla Torre Maestra Serena era stata in grado di mettersi a nudo e di far trapelare quella potenza nascosta nel suo animo come ben pochi sarebbero mai riusciti a fare.
   Anche Lucario sentiva di possedere quel tipo di forza dentro di sé. Sapeva di avere delle capacità che lui soltanto sarebbe stato in grado di padroneggiare, poiché erano costitutive della sua natura, erano la sua essenza e la sua identità. Eppure non era mai riuscito a sprigionarle completamente, se non durante la lotta che aveva combattuto al fianco di lei. Non capiva bene il motivo – forse non ce ne era alcuno – tuttavia gli sembrava che i loro animi si assomigliassero.
   Le sarebbe sempre stato vicino e avrebbe fatto di tutto affinché potessero scoprire insieme la realtà di quelle loro nature. Non si sarebbe mai tirato indietro nel momento in cui lei avrebbe avuto bisogno del suo aiuto, per nessuna ragione. Avrebbe versato ogni energia per costruire e tenere salda la loro amicizia.
   Non sapeva come dire tutto questo a Serena. Restò a scrutare le sue mani, incerto, poiché non era sicuro che avrebbe potuto comprendere quei pensieri soltanto da quel gesto così semplice. Ella allontanò le dita dalle sue zampe e le portò sul suo viso, avvicinandolo piano al proprio petto per poterlo abbracciare: aveva capito. Lo accarezzò con delicatezza tra le orecchie, col mento poggiato in mezzo al suo pelo morbido.
   L’incedere della monorotaia diffondeva intorno un fischio pigro e ovattato. Serena alzò lo sguardo e vide la fila di vagoni camminare piano sulla ferrovia sopraelevata mentre si apprestava a raggiungere l’arrivo nella stazione lì vicino. All’orizzonte invece c’era sempre il mare con le sue onde che si erano calmate assieme al vento, nonostante la temperatura fosse comunque bassa.
   «Però hai lasciato Shana da sola, poverina», disse poi rivolta al Pokémon.
   Il pensiero le era volato all’improvviso verso la figura della compagna raggomitolata nel letto, verso le sue dita sottili e dal tocco timido che le avevano stretto con tanto vigore la mano. Serena abbassò la testa, scrutò assorta il proprio bracciale. Accarezzò insicura la pietra, riportando alla mente quella sensazione che l’aveva colta e provando nuovamente il batticuore, ma in maniera più lieve e consapevole.
   Mai prima di allora si era sentita così amata e sostenuta, e nell’animo percepiva questo tumulto tanto dolce come una tempesta, un uragano che abbatteva ogni cosa, che spazzava via i muri e i tetti delle dimore dei suoi tormenti e che poi li sollevava, li spezzava, li distruggeva, spargendone i rimasugli nel vento di quello splendore finché perdevano consistenza.
   Provò una tiepida gioia nel momento in cui pensò con quale disarmante affetto ella l’avesse accolta fin dal primo istante nella cerchia, nel proprio spazio. Inspirò profondamente, guardando il lungo e lineare riflesso della luna sopra lo specchio d’acqua. Si passò una mano sugli occhi a cacciare via le ultime lacrime.
   «Ne sono così grata...» sospirò, accarezzando ancora la testa di Lucario.
   Ecco che aveva scorto una luce, un piccolo bagliore in lontananza, che prometteva tante belle cose che non vedeva l’ora di poter afferrare con le proprie mani, saldamente, per non farsele sfuggire. E le avrebbe vissute una ad una, pienamente, sia quelle piacevoli che quelle tristi, godendo di ognuna senza il minimo rimpianto. Adesso sapeva che non sarebbe stata sola, e questo pensiero la spingeva più di ogni cosa a farsi avanti per lottare e difendere con tutte le proprie forze coloro a cui teneva: Shana, Lucario, i suoi Pokémon e molti altri. Certo, il combattimento, la lotta vera avrebbe messo alla prova lei soltanto, ma quell’appoggio era molto più di qualsiasi altro aiuto avrebbe mai sperato di poter ottenere.
   Sorrise, finalmente sicura e confortata. Tuttavia non poté fare a meno di tornare a scrutare pensierosa la Pietra Chiave.
   «Eppure, non capisco,» sussurrò «per quale motivo ha brillato in quel modo?».
   Si tirò in piedi e si sistemò meglio i lembi della gonna per cercare di coprire le gambe un po' infreddolite, facendo poi segno a Lucario di avviarsi insieme, che si era fatto tardi e non voleva lasciare Shana da sola per troppo tempo. Così, mentre si rimettevano in marcia verso l’albergo, già pensava alle parole da rivolgere alla compagna e alle scuse: si sentiva mortificata per il comportamento che aveva avuto per l’ennesima volta nei suoi confronti, per cui sperava di potervi porre rimedio in qualche modo.
   Ad un tratto però si fermò.
 Lucario era già andato avanti di qualche passo quando si accorse che la ragazza era rimasta indietro. Si girò e la vide intenta a guardarsi attorno, come allertata da un suono improvviso. Dalla strada provenivano delle voci. Dal tono sembrava stessero discutendo di qualche affare importante. Serena continuò a girare per un po' lo sguardo finché non individuò la provenienza di quel parlare dall’interno della stazione. I suoi occhi si fecero grandi, come quando si osserva un qualcosa di caro smarrito da tanto tempo e di cui non ci si ricordava nemmeno.
   «Questa voce…», sussurrò sovrappensiero. Si mosse verso di essa, e più le si avvicinava, più le sembrava intimamente familiare. Lucario seguì Serena senza batter ciglio, vigilando cautamente attorno.
   «Certo, posso provare a chiedere ai Superquattro, se vuoi. Tuttavia, nel caso in cui qualcuno accettasse, dovremmo assolutamente discuterne insieme. Capisci, a quel punto si creerebbe uno squilibrio tra i quattro membri e le prove non risulterebbero eque come esige il regolamento».
   «Sì, capisco. Ti ringrazio davvero molto. Dagli pure i miei contatti in caso dovessero aver bisogno di chiarimenti».
   «Figurati, per così poco. Non preoccuparti. Comunque ne sei proprio sicuro? Mi pareva che avessi già una lista piuttosto lunga di candidati».
   «Non sbagli, mia cara, ma se possibile vorrei trovare un buon collaboratore di cui mi possa fidare. Vedi, è una ricerca estremamente importante. Ho già fatto qualche colloquio e molti mi hanno dato una cattiva impressione, intendo circa gli scopi secondari che intenderebbero raggiungere al di là del progetto».
   «Beh, mio caro, non c'è n’è proprio nemmeno uno che ti abbia ispirato un minimo di fiducia?».
   «Ecco. A dire il vero, una persona ci sarebbe. E in realtà ci starei pensando già da un po', ma…».
   «Ossia? Di chi si tratta?».
   «Professore!», non appena li ebbe riconosciuti, Serena corse loro incontro agitando con entusiasmo la mano «Buonasera, Diantha».
   I due si voltarono verso di lei con espressione sorpresa e il Professor Platan la salutò con un sorriso grande e accogliente: «Oh, Serena!», esclamò. Poi vide il bracciale che aveva al polso e il Pokémon che la accompagnava ed annuì soddisfatto. Era molto felice di quel progresso, in parte perché in questo modo avrebbe potuto aiutarlo ancora di più nei suoi studi, ma soprattutto per il significato che forse poteva avere la sua vittoria nella Torre Maestra, di cui Cetrillo lo aveva informato. Quel certo Je ne sais quoi che aveva visto in lei la prima volta che si era presentata al Laboratorio incominciava ad assumere un carattere sempre più esplicito e definito, ed egli aveva iniziato a nutrire qualche speranza circa il suo ruolo all'interno del grande cerchio confuso in cui sembravano essere stati messi assieme, pur non essendo mai del tutto scevro da dubbi, poiché ovviamente non poteva avere alcuna certezza tangibile. In maniera particolare, da quando aveva riacquisito la memoria del proprio passato, la figura della ragazza aveva assunto una natura ancor più enigmatica e ambigua. Eppure, era stato proprio questo il motivo che lo aveva spinto a partire alla volta di Temperopoli per incontrare la giovane; ma, forse, soltanto il tempo sarebbe stato in grado di rivelargli quell’incognita che al momento non gli era data di conoscere.
   «Congratulazioni!», le disse fiero, «Vedo che ora hai tutto il necessario per la Megaevoluzione. Una Megapietra per il tuo Pokémon e un Megacerchio per te».
   Platan si avvicinò a Lucario, osservando compiaciuto il modo in cui premurosamente sorvegliava la ragazza. Allungò una mano e lo accarezzò con delicatezza sotto al muso, lasciandogli sfuggire qualche mormorio appagato mentre piano piano prendeva a trattenersi contro le sue dita per ricevere i suoi grattini.
   «E naturalmente anche un forte legame che vi unisce» aggiunse poi, senza smettere di coccolare il Pokémon. Ridacchiò intenerito di fronte all'affettuosità di Lucario, e quando dovette allontanarsi lo fece un po' a malincuore. Diantha se ne accorse e non poté fare a meno di sorridere: aveva sempre ammirato la tenerezza che riusciva a riservare in maniera così spontanea ai Pokémon. Serena da parte sua si affrettò a richiamare a sé Lucario. Quella confidenza che si era preso nei confronti del Professore la faceva sentire leggermente in imbarazzo, ma egli non ne sembrava affatto risentito. In effetti, ora che ci ripensava, per quel che si ricordava era sempre stato un tipo gioviale e bendisposto in ogni caso, non l’aveva mai visto pensieroso o sgarbato, tuttavia per lei si trattava pur sempre di una figura di riferimento a cui rivolgersi con il dovuto rispetto. Era da molto tempo, comunque, che non lo vedeva. L’ultima volta risaliva al momento in cui le aveva affidato Bulbasaur, che ormai era diventato un Ivysaur ed era in procinto di evolversi in Venusaur. C’era sì stata qualche conversazione attraverso l’Holovox, ma sempre breve e sommaria, spesso volta esclusivamente al riepilogo di obiettivi e traguardi vari. Dava un certo conforto rivedere l’uomo davanti a sé in carne ed ossa, con quel sorriso gentile e rassicurante che mai un ologramma sarebbe stato in grado di rendere ugualmente vivido.
   «Un legame, hai detto?», chiese Diantha, richiamata da quell’affermazione.
   «Sì», rispose il Professore annuendo e fissando intensamente il ciondolo che la donna portava al collo, «Un legame proprio come quello che c'è fra te e la tua Gardevoir. Secondo le mie teorie, il legame tra Allenatore e Pokémon è la chiave per scoprire il mistero della Megaevoluzione. Ma cos’è esattamente questo legame? Per il momento non mi è ancora chiaro. Ed è per questo che sto cercando un collaboratore che mi permetta di approfondire le mie ricerche e di trovare delle risposte».
   «Ora capisco. Mi dispiace davvero di non poterti aiutare, Platan. Purtroppo al momento ho molti impegni e con i numerosi spostamenti che mi tocca fare immagino sarebbe problematico riuscire a seguirmi con dei ritmi del genere».
   «È vero, ma non preoccuparti, dopotutto mi hai già aiutato tantissime volte al di là della sfera lavorativa. Ti ringrazio per essermi sempre accanto, Diantha…».
   Serena rimase abbastanza sorpresa dallo sguardo che i due si erano scambiati subito dopo quell’ultima frase, ma soprattutto dal tono di voce con cui Platan l’aveva pronunciata. Per la prima volta le parve di scorgere una sorta di tentennamento nel comportamento del Professore, come se avesse appena messo a nudo una sua debolezza. Negli occhi chiari di Diantha vi erano sicurezza e compassione: dall'intensità dell’espressione impressa sul suo viso era chiaro che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di mantenere segreta quella parte più intima che Platan doveva evidentemente averle mostrato in precedenza, e che l’avrebbe custodita con riguardo, lontano da occhi indiscreti.
   L’uomo aveva cominciato ad abbozzare un sorriso estremamente grato da rivolgerle come ulteriore segno di riconoscenza, ma nel momento in cui si ricordò della presenza di Serena lo interruppe bruscamente, impacciato, e lo mutò in uno meno coinvolto, più semplice e simile al suo solito. Questo tuttavia non riuscì affatto ad acquietare la curiosità della ragazza di fronte al comportamento che sia lui che l’altra avevano appena mostrato.
   «Ah...» incespicò, cercando di riprendere il filo del discorso «Ecco. La Megaevoluzione è un fenomeno ancora sconosciuto per molti versi. Come stavo dicendo, restano ancora tante domande senza risposta. Ad esempio, per quale motivo è attestata solo tra i Pokémon della regione di Kalos?».
   «Beh, è un po' come per i Pokémon Leggendari di Kalos, credo» provò a riflettere la donna «Essi hanno delle caratteristiche tipiche, esclusivamente proprie di Kalos e non di altre regioni, no?».
   Platan rimase a pensare qualche istante, poi i suoi occhi brillarono e si girò di scatto, elettrizzato da quell’ipotesi: «Giusto! Ma certo!» esclamò, gesticolando con le mani in maniera concitata.
   Diantha aveva ragione: Xerneas e Yveltal avevano delle qualità che nessun altro Leggendario avrebbe potuto avere all’infuori di Kalos. Non sarebbero mai potuti stare al fianco di un Dialga e di un Palkia a Sinnoh o di un Kyogre e di un Groudon ad Hoenn, poiché essi appartenevano solo e soltanto a Kalos ed integravano nella loro essenza la natura peculiare ed esclusiva di quell’unica regione, erano la sua storia e la sua cultura. Lui più di molti altri, forse, riusciva a comprendere meglio quell’aspetto, ora che Diantha gliel’aveva fatto notare, essendo egli stesso parte fondamentale di quel circolo, di quella rete di collegamenti che dal passato continuavano senza sosta ad intrecciarsi e confondersi. Allora, quando si concentrò più intensamente su quel pensiero, un certo timore lo paralizzò per qualche secondo, ma si affrettò presto a camuffarlo, che non voleva darlo troppo a vedere alle due ragazze.
   «Ottima osservazione!» asserì poi, dopo essersi ricomposto «Più si scopre e più c’è da scoprire. Non si finisce mai d’imparare».
   Diantha annuì, d’accordo con lui, poi si accinse a controllare l’ora sul suo orologio e le sfuggì un’esclamazione di dispiacere. Guardò con rammarico sia Serena che il compagno e si scusò infinitamente mentre afferrava saldamente la valigia che aveva lasciato a terra.
   «Perdonatemi,» disse muovendo qualche passo per cominciare ad avviarsi «mi stanno aspettando in albergo e non vorrei tardare troppo: si è già fatta una certa ora. Platan, continueremo i nostri discorsi non appena tornerò a Luminopoli, intanto cercherò di farti sapere per i Superquattro. E tu,» si rivolse poi alla ragazza rivolgendole uno sguardo particolarmente interessato «Serena, stai dando davvero un gran parlare ai Capipalestra. Ho sentito molte voci sul tuo conto negli ultimi tempi. La prossima volta che ci incontreremo faremo una lotta, okay?».
   Ella fece cenno di sì col capo, onorata da una simile richiesta. Lucario le andò vicino e assieme a lei sostenne lo sguardo di sfida che la donna aveva rivolto loro con evidente entusiasmo. Diantha sorrise, raccomandandosi ancora un’ultima volta e dando poi la buonanotte prima di partire definitivamente.
   «Sicura di voler andare da sola? Non vuoi che ti aiuti con i bagagli?» chiese però il Professore mentre la vedeva valicare la porta d’uscita, provocando subito le risate della donna.
   «Risparmia le tue maniere da gentiluomo, Platan, e rivolgile a qualcun altro che ne ha più bisogno! A presto!».
   La stazione si era fatta improvvisamente più silenziosa e solitaria. Serena rimase un attimo impensierita da quel clima che era sceso, come quando ci si deve salutare malvolentieri con gli amici per andare via e mentre si percorre la strada per tornare a casa non restano altro che gli echi delle risate e delle voci nelle orecchie, che si vorrebbero ancora vicine e presenti. Si stropicciò un occhio e si rese conto che era anche la stanchezza a trasmetterle quella fiacchezza un po’ vaga. Ripensò a Shana e intanto si accostò a Lucario, come a volergli far cenno di andare, poi si girò verso il Professore con l’intenzione di salutarlo, ma egli la bloccò, pur non senza rammarico.
   «Ascolta, Serena,» le disse con voce bassa e gentile «so che è tardi, ma il motivo principale per cui sono venuto a Temperopoli è perché volevo parlarti. Ce la fai a star sveglia ancora un po'? Te la senti? Perdonami il disturbo, so di non averti dato neppure il minimo preavviso… Ti riaccompagno io, dopo».
   Lei gli rivolse uno sguardo interdetto, avendo colto una certa nota di urgenza nel suo tono premuroso. Osservò Lucario ripensando ancora una volta a Shana e indecisa sul da farsi. L’occhio le cadde distrattamente sul bracciale e vide la pietra colorata. Rifletté qualche istante. Infine si decise.
   «Per favore, Lucario, torna all’albergo e rassicura Shana. Io e il Professore abbiamo bisogno di parlare un po' da soli. Tornerò presto, non preoccuparti».
   Il Pokémon allora scrutò a lungo e in silenzio l’uomo per accertarsi di potergli affidare la propria Allenatrice. Platan sorrise, comprensivo.
   «Tranquillo. Serena è in buone mani» disse poggiandone una sulla spalla della ragazza.
   Lucario allora diede segno di approvazione con un cenno della testa. Si mosse verso la porta a vetri e si avviò lungo la strada del ritorno, non senza però aver prima rivolto un ultimo sguardo per controllare i due: la vista del viso tranquillo di Serena bastò a confortarlo del fatto che ormai ogni tormento pareva essersi dissipato.
   Il Professore propose che uscissero anche loro, per fare due passi.
   «Deve portarmi da qualche parte?» chiese Serena mentre attraversavano la strada per raggiungere il marciapiede che correva più vicino alla costa.
   «No» rispose Platan sistemandosi accanto a lei e assicurandosi che non passasse qualche auto «No, vorrei semplicemente parlare un po' con te. È da parecchio che non ci vediamo, e mi farebbe piacere scambiare quattro chiacchiere insieme. Però, sai, era da molto che non venivo a Temperopoli, anche. Diantha ha sempre avuto ragione: è una città splendida».
   Il villaggio era immerso in una gradevole calma. In giro vi era ancora qualche gruppo di turisti che per la maggior parte passeggiava sul lungomare, dove chioschetti colorati e vivaci rallegravano l’aria. Da lontano sembrava provenire l’accenno di una musica e un leggero brusio di voci, ma per il resto la città era tranquilla e nelle zone più interne vi era un silenzio sereno, interrotto soltanto dallo scroscio delle onde che di tanto in tanto si abbattevano sulla costa.
   «La preferisco di gran lunga a Luminopoli: troppo dispersiva e caotica per i miei gusti».
   «La prima volta che venni al suo Laboratorio mi chiesi appunto come facesse a viverci. È decisamente enorme, poi, beh, soprattutto per una come me che si è trasferita in un paesino come Borgo Bozzetto e che non ha mai vissuto in città così grandi».
   «Oh, quando mi ci trasferii per il mio tirocinio presso il Laboratorio dopo l’apprendistato con il Professor Rowan mi perdevo in continuazione» le confidò con una risata «Dopotutto anch'io vengo da un villaggio di campagna. Sono nato a Ponte Mosaico. Ci misi un po' di tempo a memorizzare le strade e le piazze, mi sembravano tutte uguali e probabilmente non sarei riuscito a distinguerle se non fosse stato per i colori degli obelischi. Il mio Garchomp, che all’epoca era ancora un Gabite, sapeva orientarsi meglio di me e dovevo corrergli dietro per non perderlo di vista. Ma, anche se a volte mi capitava di rimanere solo, potevo sempre contare su una tazza di caffè. Non era male. A volte quando ci si perde si possono fare degli incontri che migliorano le giornate più di quanto ci si potrebbe aspettare».
   Serena vide di nuovo quello sguardo assorto e intenso. Lo osservò attentamente, accorgendosi che non era simile a quello che aveva rivolto a Diantha venti minuti prima come le era parso lì per lì. Sembrava anzi molto più vivido e coinvolto. Si domandò a cosa o a chi stesse pensando. Sapeva che probabilmente non sarebbe stato il caso di chiedere, ma era difficile tenere a freno la curiosità. Così, mentre Platan si risvegliava dalle proprie riflessioni e si apprestava a scusarsi per quel suo solito pensare ad alta voce, Serena disse, con una punta di imbarazzo: «Professore, ma... Ecco, che sia stato un incontro tra lei e Diantha?».
   Egli rimase un attimo frastornato da quella domanda. Serena sentì il sangue gelarlesi nelle vene e si maledisse per essersi azzardata a compiere un gesto così avventato nei sui confronti: il comportamento di Lucario passava sicuramente in secondo piano rispetto a quello che aveva appena avuto lei. Distolse gli occhi dallo sguardo dell’uomo e si girò dal lato opposto, a fissare il mare, o forse le stelle, non sapeva dire se ci fosse qualcosa in quel punto indeterminato a cui stava tentando di aggrapparsi disperatamente per sfuggire alla vergogna. Il Professore sorrise, rassicurante, ma ella non lo poté vedere.
   «Non preoccuparti, non sei di certo la prima a chiedermi della mia vita sentimentale. Né sarai l’ultima, suppongo» disse per confortarla «Comunque no, si tratta di un’altra persona. Io e Diantha ci conosciamo da molti anni, sin da bambini. E, beh, in realtà non ti nascondo che per un certo periodo ho effettivamente provato dei forti sentimenti per lei. Ma non è andata a finire proprio a rose e fiori».
   In quel mentre sbucò da un cespuglio un Patrat che sgattaiolò rapidamente di fronte a loro per andarsi a riparare dalla parte opposta della strada. Serena lo osservò incuriosita, non essendo ancora riuscita a catturarne uno, al contrario Platan si inceppò un attimo tra i propri passi.
   «Diciamo che ormai Diantha è diventata per me come una specie di sorella. Una sorella troppo buona», riprese a parlare con una leggera amarezza di cui tuttavia Serena non si accorse.
   «E siete fidanzati?», chiese infatti lei.
   «Cosa?».
   «Dico, lei è fidanzato con questa persona a cui si stava riferendo?».
   Platan tacque per molto, molto tempo prima di trovare la maniera in cui avrebbe potuto rispondere. La ragazza temette d’aver fatto nuovamente un passo falso, ma il Professore le si dimostrò aperto ancora una volta, mentre scuoteva la testa e un sorriso divertito gli si imprimeva sulle labbra: non sapeva neppure per quale motivo si sentisse così incline a confidarsi con una ragazzina, per di più sua allieva, e questo lo faceva sentire un po' in imbarazzo. Che fosse in virtù di quel legame segreto che sembrava unirli l’uno all’altra?
   «Non so neppure se si possa definire un fidanzamento, ormai» disse con tono lievemente ironico «Ma certamente tengo molto a questa persona, come anche questa persona tiene molto a me».
   Ad un tratto cominciò a diffondersi nell’aria un profumo zuccherato. Serena si guardò attorno con un certo interesse mentre con una mano tentava di sistemarsi per l’ennesima volta la gonna sulle gambe scoperte. C’era una pasticceria più in là, in fondo alla strada, e l’idea di poter agguantare un bel dolce caldo e saziante iniziò ad allettarla non poco. Bastò un’unica occhiata col Professore per capire che questa volta si trovavano entrambi inequivocabilmente d’accordo.
   Entrarono nel negozio e comprarono due bignè alla crema, appena appena usciti dal forno. Poi tornarono fuori e si sedettero su una panchina a mangiare in silenzio. Serena stringeva il dolce tra le dita tenendo le braccia posate sulle gambe per tentare di riscaldarsi un poco mentre masticava pensierosamente. Il vento si era alzato leggermente un’altra volta e le accarezzava i capelli della frangia, così come anche si divertiva a stropicciare i ciuffi scomposti di Platan.
   Lungo la strada si sentiva di tanto in tanto lo scampanellare di una bicicletta oppure le risate di qualche gruppetto vivace di adolescenti ancora in giro a divertirsi. Una coppia di anziani stava poggiata contro il parapetto che dava verso la spiaggia ad osservare il mare nero come la notte e le barche e i pescherecci.
   «Perché non si può definire un fidanzamento? È da molto che non vi baciate?».
   Platan inavvertitamente arrossì.
   «In effetti» disse con un po’ di esitazione «In effetti è da parecchio, ora che ci penso. Ma sai, Serena, l’amore non è fatto soltanto di baci e quelle cose lì. Voglio dire, non che siano sgradite, al contrario. Tuttavia c’è molto altro che ti lega a quella data persona».
   Serena lo ascoltò con attenzione, sistemandosi sulla panchina nel modo in cui potesse osservarlo e seguirlo meglio.
   «Io sono sempre stato una persona un po' introversa. Da bambino mi sentivo diverso dagli altri. Forse è per questo motivo che ogni tanto ancora oggi cerco di reprimere alcuni miei atteggiamenti e non sempre riesco a dire e a compiere quello che veramente vorrei. Io ero diverso, e sentivo che il mondo mi avrebbe accettato soltanto se mi fossi attenuto a quel che gli altri si sarebbero aspettati che io facessi. Perciò ho tentato di nascondermi dietro un paio di occhiali: nessuno avrebbe potuto oltrepassare la soglia delle lenti e indagare dentro i miei occhi. Ma poi, un giorno, tanto tempo fa, è arrivata questa persona» e detto questo aveva taciuto un istante, immerso con la mente in qualche ricordo.
   «C’era una tale fiamma nel suo sguardo!» sorrise poi, riprendendo a raccontare «C’è ancora adesso. Credo che sia una delle persone più stimolanti che abbia incontrato. Pochi mi hanno mosso quanto lei. Ecco, in realtà all’inizio era taciturna, non parlava mai molto. Ma i suoi occhi, cielo!, i suoi occhi gridavano e urlavano, nonostante da fuori apparissero così freddi. Non era qualcosa che si notava subito, ma ti ci dovevi soffermare attentamente per sentirlo. Ed io percepivo in quelle sue strane grida celate un che di simile a quel che provavo io. Allora ho iniziato ad aprirmi a questa persona, non senza paura, e lei mia ha accolto e spronato con una grande dolcezza. Le ho mostrato la mia essenza più intima e lei l’ha accettata senza tirarsi indietro. È rimasta, pazientemente, quando altri non avrebbero esitato un solo attimo ad andarsene, ha ascoltato le mie parole senza zittirmi. Mi ha salvato dalla foresta buia: da quel momento io ho cominciato a fiorire».
   La ragazza rimase a guardare l’uomo sentendo un grande calore nel petto. Improvvisamente aveva avvertito una profonda e inspiegabile familiarità, come quando si ritrova un qualcosa di caro smarrito da tanto tempo e di cui non ci si ricordava nemmeno, che viene infine riconosciuto come proprio. Sospirò, con gli occhi un po' lucidi per la commozione. Era così riconoscente per quelle parole, che l’avevano aiutata a demolire quell’immagine troppo idealizzata e fatale che in precedenza aveva avuto di lui: adesso lo sentiva molto più vicino di quanto era mai stato. Era una sensazione rassicurante.
   «È una persona estremamente bella e preziosa, in fondo, anche al di là del nostro rapporto. Se soltanto potessi, farei di tutto pur di proteggerla e salvarla a mia volta».
   Serena annuì. Distrattamente guardò i due bignè che ancora avevano in mano, sbocconcellati e con la crema che minacciava di colare fuori. Sorrise con tenerezza, felice di poter dividere con lui quel piccolo pasto insieme alle parole che si stavano scambiando.
   «La ringrazio per aver condiviso con me i suoi sentimenti. Li custodirò con grande cura», disse piano, guardando l’uomo negli occhi. Platan ricambiò il suo sorriso, confortandosi del fatto che quelle sue confessioni non fossero sembrate fuori luogo o eccessive. Non era male confidarsi con una persona che fosse in grado di ascoltare e percepire le sensazioni che provava, si ritrovò a pensare. Serena sembrava una ragazza gentile e di buon cuore.
   «Lo sa?» fece lei ad un tratto, abbassando il viso in un attimo di riflessione, «Fin dal giorno in cui mi arrivò la sua lettera, mi sono sempre sentita legata a lei in maniera particolare. È un po’ strano da dire, ma è come se mi avesse finalmente mostrato e permesso di percorrere la via del mio destino. Se non fosse stato per lei, probabilmente oggi sarei ancora a casa con mia madre, sotto l’ombra della Campionessa di Formula Rhyhorn. Invece adesso sto cominciando a scontrarmi con me stessa, a capire chi sono veramente. È difficile, ma so che è questa la strada giusta. Perciò, io le sarò sempre infinitamente grata, per la sua lettera, per il mio Froakie e per il mio Bulbasaur».
   Platan rimase onorato dalle sue parole sincere, e anche un po' stupito. Purtroppo non riuscì a trovare la forza di dirlo ad alta voce, ma la ringraziò comunque mentalmente, più e più volte. Mai avrebbe pensato che le sue azioni avrebbero ispirato qualcun altro con una tale passione e decisione, nonostante spesso, di notte prima di addormentarsi, si era domandato se sarebbe mai stato capace di instillare qualche stimolo nella mente dei suoi studenti attraverso le lezioni e i dibattiti e gli interventi. A proposito di studi, il suo sguardo si andò a posare sul bracciale della ragazza. Si disse che forse sarebbe stato meglio passare a quell'argomento che gli premeva di più, ma la gente in giro era ancora relativamente molta, ed egli non era del tutto persuaso di affrontare quel discorso nell'eventualità che qualcun altro oltre a loro due avrebbe potuto sentirlo. Così si alzò dalla panchina e fece per sistemarsi meglio il colletto del cappotto.
   «Per caso hai già visitato Temperopoli Alta?».



***
Angolo del francese.
      * Je ne sais quoi = Non so che .




 


Ciao a tutti!
Come va? Spero tutto a posto.
Avrei voluto pubblicare questo nuovo capitolo ieri, ma poi per forza di cose ho dovuto rimandare ad oggi. Spero di non avervi fatto aspettare troppo!
Il rapporto tra Serena e il Professor Platan era un punto che fin da subito mi sarebbe piaciuto mettere al centro della storia insieme ad altre cose. Sia lei che lui svilupperanno un certo legame importante nei confronti dell'altro/a. Mentre per Serena c'è già un significato particolare, Platan lo troverà più avanti. Spero di riuscirlo a delineare bene proseguendo con i capitoli, è qualcosa a cui tengo molto!
Stavolta non ho altro da aggiungere: mando a tutti quanti un bacione grandissimo, e ringrazio di cuore chiunque stia ancora seguendo questa storia, anche solo leggendo silenziosamente, nella speranza che possa appassionare e piacere ancora! ♥
Buon week-end e alla prossima~!
Pers

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** La farfalla nel deserto ***



..

24 . La farfalla nel deserto


 

   Il gelo notturno le si insinuava sotto i vestiti facendola rabbrividire. Serena si sporse oltre la banchina a scrutare in lontananza se riusciva a scorgere il bagliore dei fari del vagone, tuttavia al di là della rotaia non vi era altro che il buio pesto del bosco e il suo silenzioso fruscio. Si aggiustò addosso la giacca pesante, ma le gambe tremavano ancora e così cercava di allungare i lembi della gonna più in basso che poteva. Scosse la testa, rimproverandosi di non aver dato ascolto a Shana. Alzò di nuovo lo sguardo: insomma, dov’era il treno? Non vedeva l’ora di salirvi a bordo per scaldarsi.
   Il Professor Platan la osservava, seduto su una panchina. Aveva un aspetto stanco, ora, il corpo affaticato dalle mansioni giornaliere si abbandonava contro lo schienale senza fare troppi complimenti. Le sue mani se ne stavano nascoste dentro alle tasche, ma non di rado uscivano per andarsi a poggiare sulle cosce a tamburellare con le dita, oppure sul petto, mentre teneva le braccia conserte. Ogni tanto, poi, venivano come scosse da un fremito e si precipitavano verso i capelli, ad arricciolare qualche ciuffo già dapprima scomposto. Il suo sguardo era attento e vigile, ma fisso in un luogo lontano all’interno della mente.
   Serena restò ancora qualche istante a controllare attorno. Si rassegnò. Con un sospiro spazientito si voltò, vide il Professore e decise che si sarebbe andata a sistemare al suo fianco. Mentre si sedeva urtò distrattamente una sua gamba, rallegrandosi per una manciata di secondi del calore che le veniva da quel contatto improvviso.
   Platan si riscosse. Vide la ragazza esitare un attimo mentre gli chiedeva scusa. Lui annuì distrattamente, pronunciando un paio di parole a bassa voce per tranquillizzarla, e le rivolse un sorriso non proprio convinto, ché ancora se ne stava aggrappato a qualche pensiero – c’erano tanti concetti, tanti discorsi da soppesare con cautela ora che il momento del confronto era ormai vicino. Si scansò un po’ di lato per farle posto.
   Serena allora si accomodò, tirò su la zip del giaccone e si strinse in sé stessa. Aspettò.
   «Ma hai freddo?» si sentì chiedere dopo un paio di minuti. Alzò lo sguardo: Platan si era accorto del modo in cui serrava le ginocchia e di come stringesse forte con le mani i bordi della gonna. Ella scrutò l’uomo a propria volta. Vi fu un lungo silenzio prima che egli prendesse coraggio e si decidesse a sollevare il braccio.
   Serena non capì subito. Rimase incerta a fissargli l’arto che ancora insisteva a stare sospeso in aria, accogliente, poi sussultò e cercò i suoi occhi con stupore, quasi incredula. L’uomo la incitò aprendosi un poco di più, e intanto le annuiva, cercando di trasmetterle la propria sicurezza. Serena si avvicinò lentamente, prima con una mano e poi con tutto il busto. Poggiò la testa sul suo petto e inspirò profondamente.
   «La ringrazio».
   «Figurati».
   Platan le accarezzò una spalla per farle calore, reclinando stancamente la testa contro il muro. Osservò per un po’ la rotaia in silenzio, concentrandosi sul cicaleccio dei Pokémon Coleottero nascosti tra la vegetazione circostante la stazione.
   Era un po’ strano, pensò Serena. Aver potuto condividere quasi spontaneamente considerazioni e sensazioni con una così importante figura di riferimento, un idolo, e ora questo abbraccio. Strofinò la guancia sul tessuto del cappotto finché non trovò una posizione abbastanza comoda in cui restare, attenta a non infastidire in qualche modo il Professore: un insolito profumo di gigli le giunse alle narici.
   Platan la sentì agitarsi contro il proprio petto. La lasciò libera di sistemarsi e una volta che si fu fermata la rassicurò di nuovo con qualche altra carezza. Mentre i Ledyba e gli Yanma continuavano a frinire, spostò la sua attenzione sull’orologio da polso per controllare l’ora. Passò un dito sul quadrante per lucidarlo, ma una volta fatto finì per trattenercelo sopra pensierosamente. Gli scappò una frase sottovoce, che tuttavia Serena non riuscì a sentire né a decifrare, poi sospirò fiaccamente. Eccolo, ancora quello sguardo.
   Piano piano, la ragazza cominciò a percepire nuovamente una certa stanchezza, accompagnata da una leggera sonnolenza. Solo allora si ambientò e riuscì a lasciarsi andare. Dopo un po’ parve persino dimenticarsi dei loro ruoli di Allenatrice e di Professore, e considerò entrambi soltanto persone. Si rilassò. Chiuse gli occhi, ascoltando il suono calmo del respiro di lui. Mentre il torace gli si allargava e gli si restringeva e la giacca frusciava sotto la pelle del suo viso, un insolito profumo di gigli le giunse alle narici. Non sapeva perché, tuttavia aveva come l’impressione che non gli appartenesse. Era lì, impregnato sui suoi abiti, come se qualcun altro ce l’avesse messo.
   L'uomo ancora strofinava il polpastrello sopra l'orologio. Serena riaprì gli occhi e restò a guardare per un po' con le palpebre socchiuse. Le mani di Platan erano lunghe e magre, le dita sottili e ben curate, con le unghie corte e pulite. Precise e dal portamento composto, avvezze al lavoro medico.
   Ad un tratto la ragazza si accorse che l'oggetto che stava accarezzando non si trattava di un semplice orologio, ma di un particolare modello di Holovox. Dunque si chiese se quello sguardo tanto riflessivo fosse dettato dall'attesa di un messaggio o da qualche chiamata che poteva aver ricevuto, magari da parte di quella certa persona di cui le aveva raccontato in precedenza. Le parve di scorgere un che di affettuoso in quel gesto che egli ancora continuava a compiere: avrebbe quasi giurato si trattasse più di una carezza che di una mossa distratta dettata dall'essere immerso nei pensieri. Stavolta, tuttavia, non volle chiedere, né ebbe l'interesse di farlo. Tornò ad accucciarsi in silenzio tra le braccia dell'uomo.
   «Lei profuma di gigli», disse piano dopo qualche secondo in cui quell'essenza era giunta di nuovo a stimolarle l'olfatto.
   Platan ritrasse il dito dall’orologio e portò la mano ad aggiustare un ciuffo di capelli dietro l'orecchio da dove era sfuggito.
   «È un profumo che mi piace molto», ammise con un timido sorriso, «Ci sono particolarmente legato».
   Ripensò a quando qualche ora prima aveva fatto un salto alla caffetteria ed Elisio lo aveva accolto sorpreso. Si erano seduti al loro solito tavolo, l’altro aveva avvisato uno dei suoi camerieri che si sarebbe concesso una piccola pausa e gli aveva chiesto che portasse da bere e qualche manicaretto di cui sapeva Platan andar matto. Avevano parlato per un buon quarto d’ora in maniera rilassata e tranquilla, ed era stato evidente che entrambi stessero cercando di ricostruire un mattoncino per volta il loro rapporto, come una grande casa che doveva essere ristrutturata pezzo per pezzo, con molta pazienza e cautela. Si erano scambiati le ultime battute e alla fine il Professore si era alzato ché doveva partire, e avevano deciso che per quel giorno sarebbe bastato così. Platan aveva raccolto la giacca dalla sedia, se l’era infilata e aveva messo la tracolla sulla spalla avviandosi alla porta. Poi però, accorgendosi del locale fattosi vuoto, tutt’e due erano rimasti a guardarsi a lungo, esitando di fronte all’uscita. Elisio aveva mosso piano le mani verso i bottoni della sua giacca e aveva preso a chiuderli uno ad uno, perché faceva freddo e c’era vento e tante altre scuse inventate lì per lì, in modo da trattenerlo ancora pochi minuti. A sua volta Platan gli aveva sistemato il colletto della camicia, ché c’erano finite sopra un po’ di briciole e qualche granello di zucchero e molti altri pretesti diventati poco plausibili dal momento che aveva ormai spazzolato via tutto lo spazzabile. A quel punto allora si erano guardati, entrambi consci di quanto i loro tentativi si fossero rivelati banali e palesi.
   «Sei davvero sicuro di non voler prendere una stanza in albergo almeno per stanotte così da ripartire domattina? Potresti anche chiedere alloggio presso il Centro Pokémon, non credo che per te facciano storie, dopotutto», aveva detto Elisio.
   «No, non posso proprio permettermelo. C'è un Pokémon ricoverato al Laboratorio da me e devo controllarlo. Sono un po' preoccupato per lui e non intendo lasciarlo solo la notte», aveva risposto, comunque grato dell'apprensione che mostrava nei suoi confronti.
   «Apprezzo molto il tuo spirito di sacrificio», aveva detto allora Elisio con grande e sincera ammirazione, «però, attraversare da solo la Landa di Luminopoli, per di più ad un'ora tanto tarda… Se potessi, ti accompagnerei».
   «Non temere, dico sul serio!» aveva scosso la testa rassicurandolo ancora: dopotutto non avrebbe potuto permettergli di scoprire quale sarebbe stato il vero motivo a spingerlo verso Temperopoli, oltre l'incontro con Diantha «Anche perché non sarò da solo. Porterò con me Bulbasaur e Garchomp, mi aiuteranno loro lungo il tragitto. Puoi stare sereno».
   Elisio alla fine aveva ceduto e si era limitato ad approvare con un lieve cenno della testa e una carezza sulla spalla.
   «D'accordo», aveva aggiunto poi, osservando intensamente negli occhi il compagno.
   Platan allora gli aveva sorriso, e quasi volontariamente aveva finito per trattenersi contro la sua stretta, nonostante cominciasse ad avvertire una certa impellenza addosso per il fatto di doversi mettere in cammino. Malgrado ciò, il tocco di lui era stato tanto premuroso e spontaneo, che sarebbe stato un imperdonabile peccato interromperlo troppo presto. Non si poteva sapere quando per loro sarebbe ricapitato un momento di intimità così semplice come quello. Ma forse, se fosse stato in grado di indagare la natura segreta di Serena, sarebbe riuscito ad ottenerne altri ed innumerevoli: di questo almeno era convinto. Ogni sua speranza era riposta nella prescelta.
   Si erano avvicinati un poco l'uno all'altro, ma non troppo, per potersi stringere in un abbraccio nascosto. Tuttavia l'irruzione improvvisa di una Recluta aveva riscosso Elisio, che di conseguenza si era ritratto, pur senza abbandonare la presa sulla spalla di Platan.
   «Mi perdoni, capo. C'è bisogno di lei ai Laboratori».
   «Arrivo».
   Quindi si era dovuto staccare e allontanare per andare ad occuparsi delle sue incombenze e aveva lasciato il Professore con un frettoloso quanto severamente trattenuto: «A presto e fa’ buon viaggio».
   Platan sorrise: aveva percepito in quelle parole tutto ciò che Elisio non gli aveva potuto dire in maniera più esplicita e che probabilmente sarebbe risultato poco calzante ad un comandante della sua stoffa.
   Serena intanto cominciava ad addormentarsi. Il respiro tranquillo del Professore sembrava conciliare il sonno, ed ella involontariamente prese ad abbandonarsi di peso contro di lui, con gli occhi chiusi. Il profumo dei gigli la raggiunse un’ultima volta ancora.
   «È tanto buono, in effetti», mormorò pigramente. Già davanti ai suoi occhi scivolavano vaghi scenari di sogno e suoni ovattati e lontani le sfioravano le orecchie.
   Quando Platan la sentì appoggiarsi così pesantemente non si riscosse subito, ma lasciò correre fino a che non avvertì la presa delle braccia della ragazza farsi meno salda. A quel punto le rivolse lo sguardo, allarmato, e si accorse di come il suo sonno si stesse facendo più profondo.
   «Santo cielo, perdonami…» sussurrò mordendosi le labbra mortificato. La chiamò, cercando di non svegliarla troppo bruscamente.
   Serena lo guardò con due occhi piccoli e assonnati, scusandosi e stropicciandosi le palpebre. Era evidente che avesse bisogno di dormire, e Platan si sentiva un po’ meschino nell’approfittarsi di lei in quel momento di debolezza. Però la necessità di sapere si era ormai fatta impellente e lo aveva corroso fin nell’intimo, non c’era verso di tirarsi indietro adesso. Testardo, decise che si sarebbe fatto prendere dai sensi di colpa più tardi, quando avrebbe riaccompagnato l’allieva all’albergo e dopo aver chiarito definitivamente la faccenda. Tuttavia, proprio mentre era immerso in questo ragionamento, un certo dispiacere lo vinse di nuovo per pochi istanti quando rivide che la giovane si era acquietata un’altra volta al suo fianco. La scrollò piano, sforzandosi di vincere il rammarico.
   «Sono sveglia, sono sveglia», si affrettò a rassicurarlo lei. Platan tirò un sospiro di sollievo.
   Due fari si accesero nel buio mentre un sibilo acuto iniziava a crescere sulle rotaie.
   «Di che cosa dobbiamo parlare, Professore?».
   Dall’interno della stazione si affacciò il controllore. Venne fuori sulla banchina aggiustandosi il cappotto addosso con un movimento brusco e tirando su col naso. Ci passò un dito sopra per strofinare la punta, poi si fermò a scrutare attorno, in attesa di accogliere il treno in arrivo.
   Platan strinse la presa sulle spalle della ragazza osservando con diffidenza l’uomo ed ella si acquattò contro di lui senza ribattere, ma percependo il suo nervosismo di fronte alla figura che era appena apparsa. Sembrava che la presenza di altre persone lo mettesse in soggezione.
   «Dobbiamo parlare del tuo bracciale», tagliò corto subito dopo aver visto che il controllore si stava dirigendo verso di loro.
   «Biglietti».
   Con fare distaccato, il Professore infilò una mano nella tasca della giacca e trasse fuori il tesserino, allungando il braccio di modo che l’altro non si dovesse avvicinare troppo. Serena invece dovette frugare un po’ più a lungo. Per un attimo temette d’aver perso il biglietto, ma alla fine riuscì a trovarlo in una delle sacche più profonde. Il controllore si assicurò che i titoli di viaggio fossero validi e con un cenno fece intendere che era tutto in regola. Serena lo salutò con un leggero inchino mentre si allontanava.
   «In effetti, ci sarebbe qualcosa che vorrei chiederle sul mio bracciale», confidò la ragazza dopo un po’, quando finalmente vide il primo vagone passarle davanti agli occhi.
   «Ossia? Dimmi pure», rispose Platan alzandosi dalla panchina e aspettando che fossero entrambi pronti per incamminarsi. Aiutò Serena a tirarsi in piedi e cominciarono ad avviarsi verso le porte del treno che intanto si era fermato. Alcune persone scesero dalle cabine, che si svuotarono in pochi minuti.
   «Prima la pietra ha brillato», spiegò meglio, «Non so per quale motivo, ma ha iniziato a splendere di una luce fortissima. Si è spenta dopo qualche secondo».
    «Ha brillato?» ripeté incuriosito, domandandosi se ciò che gli aveva appena raccontato potesse trattarsi di un segnale circa ciò che voleva indagare e rivelare sul conto della giovane, «Che cosa stavi facendo in quel momento?».
   «Nulla. Io e Shana stavamo parlando».
   «Sì? E c’è qualcosa in particolare che vi siete dette?».
   Serena si fermò di fronte ai gradini del treno. Indugiò prima di entrare e il suo atteggiamento si fece tutt’a un tratto pensieroso, vulnerabile.
    «Ecco...» mormorò.
   Le sue guance si tinsero di un rossore lieve e innocente, come di chi si affacci per la prima volta ad un sentimento nuovo e si soffermi a scoprirne a poco a poco le sfaccettature segrete.
   Platan rimase sorpreso da quella reazione, dal suo silenzio improvviso tanto profondo e intenso. Sorrise con tenerezza, appoggiando piano una mano sulla sua spalla quasi affettuosamente: di certo non si trattava del segnale in cui aveva sperato, ma almeno poteva dire di non esser stato l’unico quella sera a confessare il labirinto di emozioni recondite in cui si era perduto.
   «Sali, forza», la incoraggiò.
 
 
   Mentre stavano seduti l’uno di fronte all’altra, il vagone era vuoto, completamente a loro disposizione. L’unico rumore che si sentiva era quello del treno che sferragliava sulla rotaia. Fuori, oltre i finestrini, le chiome degli alberi a valle si scuotevano lievemente per il vento che soffiava nella notte. Tutt’attorno era scuro e buio, lontano e addormentato, tranne qualche piccolo bagliore che disegnava vagamente l'aspetto di città, strade e sentieri. Dentro, invece, la luce biancastra delle lampade a neon rischiarava quasi brutalmente l’abitacolo e Platan riusciva a scorgere distintamente la propria immagine nel riflesso del vetro che aveva di fronte, dietro la figura minuta e graziosa di Serena: c’era un viso stanco e fiacco, con le rughe e gli zigomi ben evidenziati nei punti più sgradevoli; gli occhi sparivano dietro due cerchi scuri che ne impedivano la visione.
   «Di che cosa dobbiamo parlare, Professore?».
   Serena era ormai a proprio agio. Si era ripresa dal freddo patito di fuori e adesso se ne stava sul sedile con una postura più aperta e rilassata. Col busto si spinse in avanti ad osservare l’uomo, attendendo la sua risposta.
   Platan cercava ostinatamente i propri occhi nella finestra. Non appena sentì la voce della ragazza si ridestò e spostò l’attenzione su di lei.
   Era giunto il momento, quindi.
   «Dobbiamo parlare del tuo bracciale».
   «Bene. L’ascolto».
   A quel punto ci fu un sospiro e il Professore lasciò cadere la testa tra le dita della mano per poter riflettere. Serena aspettò, ancora.
   «Cetrillo mi ha detto del tuo scontro con Calem. E anche della lotta che hai dovuto affrontare contro Ornella», disse lui, cercando di prendere tempo prima di arrivare al nocciolo della questione.
   «Sì. Sono state entrambe molto faticose, ma ho dato tutta me stessa».
   «Ho saputo anche questo. E di certo, ciò è il segno di come tu non sia un’Allenatrice qualunque. Cetrillo mi ha raccontato della forza impressa nei tuoi occhi, della tua grinta in battaglia».
   E di come assomigliasse a quella che anche io avevo una volta, precisò nella propria mente. Guardò Serena in silenzio. A quel punto cercò i suoi, di occhi, grigi anch’essi, e tentò di intravedervi qualcosa che gli appartenesse, che gli ricordasse di lui. Ma non ci riuscì.
   «Io non sono un’Allenatrice qualunque. Di questo sono cosciente, giacché ho con me questo bracciale e possiedo il potere della Megaevoluzione. Mi dica, lei sapeva, non è vero? Lei sa il significato di questa pietra e di tutte quante le altre, non è così? Il modo in cui esse si sono formate, il loro potere, ciò che accadde tremila anni fa...».
   Lo sguardo di Serena si era improvvisamente fatto ostile, come di chi sia stato messo a lungo all’oscuro di una verità preziosa e necessaria, e si ritrovi a combattere per rivelarla al mondo in ogni singola sfaccettatura. Platan accolse su di sé i suoi occhi con leggero timore e sconcerto, ma in fondo compiaciuto. Era lecito, dopotutto.
   «L’Arma Suprema...», quelle parole scivolarono taglienti fuori dalle sue labbra, «È a questo che tu alludi. Giusto?».
   Serena gli rivolse un’occhiata turbata: «Dunque lei sa», mormorò.
   «Io so... molte, molte cose, Serena», ammise, e una ruga inquieta andò a distendersi sulla sua fronte, mentre i suoi occhi si facevano ancor più grigi e infelici e tristi «Ma altrettante mi sono ignote ed è per questo motivo che ho bisogno di voi ragazzi. Di te, soprattutto. Da solo farei ben poco. Non sarei in grado di raggiungere i miei scopi senza l’aiuto di qualcun altro. Non posso contare su me stesso. Le mie capacità sono ridotte».
   La ragazza sembrò capire. L’espressione del suo viso cambiò: divenne più sensibile e paziente, maggiormente disposta ad ascoltare ciò che aveva da dire. Eppure, in qualche modo il suo sguardo pareva ancora stare sulle difensive, leggerissimamente distaccato.
   Sentiva che c’era qualcosa che non andava.
   «Quando sei venuta da me in laboratorio per la prima volta, ho sentito fin da subito che tu avevi qualcosa di speciale, rispetto agli altri ragazzini. E non può essere stato un caso. Le mie capacità sono ridotte, ma le tue, ne sono certo, devono essere molto ed infinitamente più sviluppate delle mie. Tu sei riuscita a trionfare laddove io ho fallito, hai superato gli ostacoli che non sono stato in grado di abbattere! Tuttavia non posso basarmi soltanto su queste nebulose congetture...».
   Il treno sembrava a tratti incagliarsi e rallentare, e poi riprendere a correre e poi di nuovo a rallentare.
   «Cos’è che vuole chiedermi veramente? Dove intende arrivare?».
   «Che cosa è successo sulla Torre Maestra?».
   «Come?».
   «Che cosa è successo sulla Torre Maestra?».
   Serena lo guardò spaesata. Perché quella domanda?
   «Ho lottato contro Ornella».
   «E poi? Dannazione, deve essere successo qualcosa d’altro!»
   «Ma che intende dire?».
   «Qualcosa d’altro, qualsiasi cosa! Che so, una magia, una melodia lontana, delle luci nel cielo! Da quel giorno, l’aurora ha cominciato ad apparire su Kalos e deve essere successo qualcosa d’altro, che mi riveli una volta per tutte che tu sei...!».
   Si bloccò all’improvviso. Il suo riflesso nel vetro si era fatto storto e deforme. I suoi occhi erano ancora nascosti nell’ombra. Solo allora Platan si rese conto della collera e del tormento che si erano impossessati così follemente di lui. Abbassò la testa, mortificato per ogni parola, ogni gesto, ogni singolo atto che fosse stato testimone di quell’intimo strazio che aveva così deliberatamente riversato sull’allieva, e nascose il viso tra le mani.
   «Perdonami, Serena», sussurrò, colpevole «Perdonami».
   La ragazza lo osservò con dolore. Intuì i suoi sentimenti e le sue paure, e sebbene non sapesse da che cosa fossero causate, riuscì comunque a tastarle e a sentirle grandi ed opprimenti. Comprese che Platan soffriva, e sembrava che quella ferita che si era appena scucita di fronte al suo sguardo bruciasse da tanto, incalcolabile tempo. Allora si alzò in piedi, restando ferma davanti a lui e cercando i suoi occhi, i suoi veri occhi, che ancora nascondeva dietro le dita come all’interno di un bozzolo squarciato e sanguinante.
   «Io ho scoperto me stessa», disse piano.
   Platan scostò un poco le mani e la fissò, incantato da quella frase tanto semplice.
   «Quel giorno, sulla Torre Maestra, ho scoperto me stessa», ripeté a bassa voce, consolatoria, nella speranza di poterlo rincuorare attraverso quell’unica e valida risposta che egli le aveva chiesto di dargli.
   Una scossa violenta fece traballare il vagone e le luci si spensero di colpo.
   Serena si sentì spinta da una parte mentre il treno si arrestava bruscamente e allungò rapidamente una mano verso la sbarra accanto al sedile per potersi aggrappare. Platan si tirò su, allarmato, assicurandosi che la ragazza stesse bene. Poi si guardò attorno smarrito e preoccupato, nel tentativo di capire che cosa fosse successo. Non appena vide al di là del finestrino, un brivido d’apprensione lo colse: tutti i luoghi nelle vicinanze erano stati lasciati al buio, città, strade e sentieri, da cui si riusciva a udire, in maniera ovattata, un brusio di voci intimidite e confuse che cercavano in qualche modo di far chiarezza; solamente un punto, al di sopra degli altri e in lontananza, risplendeva arrogante lungo il Percorso 13.
   «La Centrale Elettrica...», mormorò, come se improvvisamente sapesse ogni cosa, sovrappensiero «Vieni, stammi vicino», intimò poi all’allieva, allargando le braccia e invitandola a stringersi un’altra volta, «Sarà meglio rimanere insieme».
   Serena si acquattò senza che glielo dovesse ripetere. Si abbracciarono l’uno all’altra e in silenzio aspettarono che accadesse qualcosa, che le lampade si riaccendessero, che il treno ripartisse. Platan sospirò fiaccamente, accarezzandole i capelli con fare protettivo.
   «Andrà tutto bene», la rassicurò con un sussurro: «Andrà tutto bene».
   La ragazza si tranquillizzò. Lasciò cadere la testa contro la sua spalla e chiuse gli occhi. Tuttavia quelle parole continuavano ad uscire da quella bocca senza mai smettere e ad ogni singolo respiro si facevano sempre più sottili e strozzate. Allora la stretta di lui si allentò.
   Lacrime. Erano lacrime.
   «Come può andare tutto bene? Non c’è più speranza. Troppo a lungo ho sopportato questo supplizio, e il mio corpo e il mio animo non lo reggono più. Ho tentato, strenuamente e follemente, di fidarmi delle mie illusioni, che non potevano essere che tali. Ho provato a convincermi che qualcosa sarebbe potuto cambiare. Ma Astra aveva ragione, e non c’è soluzione che possa salvarci, poiché ogni cosa è già stata decisa e non posso far nulla. Non posso far nulla. Nessuna promessa e nessun giuramento potranno mai liberarci, poiché tutto quanto è già deciso, e perso e frantumato irreparabilmente. E io sento, nel profondo, di averla perduta per sempre, e che ogni mio sforzo per riaverla al mio fianco sarà inutile: eppure, come un pazzo non posso fare a meno di amare ed ammirare quella persona che mi è tanto cara, di gioire ad ogni suo singolo sorriso nonostante io sappia che prima o poi mi tradirà. Se soltanto potessi, farei di tutto pur di proteggerla e salvarla a mia volta. Tuttavia sono cosciente che ciò non sarà mai possibile. Vorrei limitarmi a godere semplicemente del presente, del tempo che ci è rimasto per stare ancora insieme. Ma a volte sento che potrei scoppiare e non ce la faccio più».
   Serena si ritrasse così da poterlo guardare in viso, nonostante egli cercasse in tutti i modi di distogliere il proprio sguardo affinché non ci riuscisse: dopotutto, non era quello il comportamento consono a un Professore, a una figura guida davanti agli occhi di un proprio alunno. Si sentiva così vile. E nonostante questo, allo stesso tempo non aveva più forza per opporsi e controllarsi. Tutto quanto gli sembrò precipitargli addosso e schiacciarlo.
   La ragazza abbassò il viso, comprendendo il tipo di vergogna che stava provando. Non lo guardò più, in modo da lasciargli quel poco di riservatezza di cui aveva bisogno per sfogarsi. Eppure, non poté fare a meno di tornare da lui, per stringerlo un’altra volta, quietamente.
   Allora sussurrò: «Un anziano vagabondo mi ha detto che presto, molto presto, l’Arma Suprema tornerà a brillare sopra le terre di Kalos. Lei capisce quello che intendo. Ecco, quel tempo che ci è rimasto, a cui lei si riferiva, sta per scadere. Mentre io le rivolgo queste mie parole, mentre noi due siamo qui, i secondi e i minuti passano ed esso diminuisce sempre di più. Per questo motivo non può permettersi di sprecarlo. Se vuole proteggere la persona che ama, allora bene, vada, lo faccia. Ma deve farlo concretamente e non con il timore di fallire, rimanendo succube delle visioni di ciò che potrebbe essere il futuro. Io non so chi sia costei, né quale sia il legame che vi unisce, nonostante sia evidente quanto per lei sia prezioso. Non deve dare ascolto a quello che dicono gli altri. Non deve basarsi esclusivamente sugli altri per ottenere ciò che desidera. Deve ascoltare sé stesso e i propri sogni soltanto. Deve avere il coraggio di rivelare completamente sé stesso e trovare la forza di dare vita a quello che ha dentro, di essere indipendente da tutto quanto il resto».
   L’uomo rimase senza fiato. Non riusciva a toglierle gli occhi di dosso e la osservava meravigliato, seppur ancora con lo sguardo lucido e annebbiato, affascinato da quel suo essere tanto matura e autorevole. Come una fata, o una tenera farfalla, la sentiva sfiorargli le ferite che erano rimaste aperte nel suo cuore e richiuderle, pulire con tenerezza e cura il suo fiore malato.
   «Quello che voglio dire, Platan» sussurrò ancora, paziente «Quello che voglio dire è che la deve smettere di continuare a nascondersi nel suo bozzolo, di tirarsi indietro di fronte ad ogni occasione, e non deve neppure essere un timido fiore con degli ideali e degli obiettivi incerti e poco saldi. Lei deve trasformare i suoi petali in ali e trovare finalmente il coraggio di diventare una farfalla. A quel punto, glielo posso assicurare, e non deve averne paura: andrà tutto bene».
   Improvvisamente, le luci tornarono a riaccendersi. Ci fu un tremore mentre il motore del treno si rimetteva in funzione. Ripartirono.
   Sul riflesso nel vetro, gli occhi di Platan splendevano, ed erano belli e limpidi.
 
 
   Il litorale era tinteggiato da tanti piccoli punti luminosi in mezzo al buio. Dall’alto della città si potevano ammirare le grandi onde del mare che si abbattevano sulla costa e le case e i palazzi addormentati lungo le strade più basse. Ogni cosa pareva essere ritornata alla solita e amorevole calma.
   «È davvero bellissimo», mormorò il Professore, le braccia incrociate sul petto e lo sguardo assorto nel contemplare il paesaggio. La sua voce risuonava bassa e tranquilla.
   «Già», disse di rimando Serena.
   Il bagliore bianco della luna si riversava tremolante lungo la superficie d’acqua.
   «Sa? Un giorno potrebbe portare qui la sua amata. Penso che si troverebbe bene».
   Platan rimase interdetto per qualche secondo. La ragazza provò di nuovo quell’imbarazzo iniziale, il leggero timore d’aver deliberatamente ficcato il naso in questioni personali che non avrebbero dovuto riguardarla; ma poi lo vide sorridere, tenerissimo, e ne fu felice.
   «Sì», le rispose, accompagnandosi con una leggera risata «Sì, credo proprio che lo apprezzerebbe molto. Ne sono certo».
   Dalla stazione si sentì un tintinnio di campanelli che scalpitava con urgenza, per annunciare l’ultima corsa della giornata che sarebbe partita in pochi minuti.
   «Professore, c’è qualcos’altro che ha bisogno di dirmi?».
   «Oh, no. Non più. Tutto quello che c’era da dire è stato detto. Volevo venire quassù per trovare un posto più tranquillo dove poter discutere lontano da occhi indiscreti, ma hai già risposto a tutte le domande che avevo. Ti ringrazio, Serena. E mi dispiace di essermi lasciato andare, so che non è stato un comportamento adatto da parte mia. Perciò ti chiedo scusa. Spero potrai perdonarmi, in qualche modo».
   La ragazza scosse la testa: «Non si preoccupi, Professore. Io... Anch’io sto passando un momento difficile. Per cui, la capisco. Custodirò con grande cura i suoi sentimenti e non ne parlerò a nessuno», lo rassicurò ancora, sorridendo. Poi si affrettò a nascondere uno sbadiglio dietro alle mani.
   I campanelli suonarono di nuovo, per un’ultima e perentoria chiamata.
   «Andiamo, adesso. Sarà meglio riaccompagnarti in albergo», disse l’uomo con premura.
 
 
   Una volta usciti dalla stazione, Serena e Platan si avviarono pigramente verso l’Hotel Temperopoli. Il Professore non aveva esitato un attimo ad offrirle il proprio braccio affinché potesse aggrapparvisi. Ormai non c’era più bisogno di convenevoli.
   Il vento soffiava e faceva freddo, ma stavolta per Serena era più urgente poter rimettere piede in camera e infilarsi tra le coperte a dormire. Si domandò se Shana fosse ancora in piedi, se l’avesse aspettata sveglia. Chissà?
   «Ci siamo quasi», la consolò Platan ad un tratto, dopo aver gettato lo sguardo su di lei ed aver visto sul suo viso quell’espressione assonnata per l’ennesima volta «Ancora un piccolo sforzo».
   In fondo alla strada cominciarono a definirsi i muri e le finestre dell’edificio. La ragazza si sentì piena di un’ultima e fervente riserva di energia, nonostante le gambe le si fossero fatte pesanti e indolenzite. Accelerò il passo. Platan si dispose a fare lo stesso, riadattando la propria andatura in modo da poterla accompagnare meglio. Si fermarono sotto la tettoia dell’ingresso. Serena si avvicinò verso l’entrata stropicciandosi gli occhi e nascondendo un ultimo sbadiglio contro le dita.
   «Grazie, Professore. Buonanotte».
   «No, Serena, grazie a te. Ti ringrazio davvero di cuore. Riposa bene».
   La ragazza annuì, riconoscente. Per un attimo lo sguardo le andò a posarsi sul cielo notturno e sembrò che qualcosa le fosse venuto in mente.
   «Ascolti. Da quello che ho sentito, mi pare di aver capito che la Capopalestra Astra le abbia fatto una profezia sul suo futuro. Però c’è una cosa che una persona mi ha detto, proprio oggi. E cioè, di lasciare che siano i nostri sogni a parlarci, perché in essi, più che in ogni altra cosa, è racchiusa la nostra anima e i moti che essa desidera compiere, insieme alle sue paure. È lì che più chiaramente può mostrarsi il destino, anziché, ad esempio, nelle stelle. Probabilmente le nostre situazioni sono diverse, ma magari questo consiglio potrebbe tornare utile anche a lei».
   Platan la osservò, riflettendo su quel che gli aveva appena detto. Per un attimo provò di nuovo nel cuore la stessa angoscia che lo aveva soffocato quel giorno, quando davanti alla veggente aveva assistito alla visione di quel destino terribile e brutale che sarebbe dovuto venire a breve. Ma durò solo un attimo, appunto, perché lo sguardo tenace e rassicurante di Serena lo abbracciò subito dopo.
   «Lo terrò a mente», disse, e ne era convinto.
   Si salutarono un’ultima volta, ma mentre ognuno stava per incamminarsi verso la propria strada, il Professore si ricordò di una cosa importante ed esclamò: «Ah, che sbadato! Serena, aspetta! Volevo darti questa».
   Corse indietro per raggiungerla e si affrettò a frugare nella propria borsa.
   «È qui da qualche parte... Un attimo solo, poi ti lascio andare veramente».
   «Che cos’è, Professore?».
   «...Eppure ero sicuro di averla messa in quella tasca, possibile? Ah, ecco! Ecco qui! Questa è per te».
   Le tese l’oggetto e Serena lo prese in mano, curiosa di scoprire che cosa fosse: era una custodia per dischi e all’interno c’era un CD-ROM.
   «Ora che hai ottenuto la Medaglia Pianta, credo che non avrai problemi nell’utilizzarla. Si tratta della MN02: Volo».
   «Caspita, Professore, è per me? La ringrazio tantissimo!».
   «Dopo tutti i progressi che stai facendo, mi pare il minimo. Diantha è molto orgogliosa di te, penso che ormai tu l’abbia capito. Utilizzando questa mossa potrai raggiungere in un istante tutti i Centri Pokémon che hai già visitato. E, beh, sarò felice di accoglierti se per caso un giorno dovessi ripassare a Luminopoli».
   «Tornerò presto, gliel’assicuro!».
   Allungò il braccio e gli mostrò il palmo aperto. Platan fu meravigliato da quel gesto che intendeva rivolgergli. Dopotutto aveva un significato molto intimo e personale. Fu lieto di poterlo condividere anche con la prescelta e che ella glielo permettesse così spontaneamente.
   Avvicinò piano le dita, un po’ incerto. Poi, non appena sentì la sua pelle sotto i polpastrelli, non esitò più, e le strinse con forza la mano: stretta a cui Serena rispose con altrettanto vigore. A quel punto, allora, una grande folata di vento si alzò da terra, scuotendo i loro vestiti e i loro capelli, e il cielo si illuminò di viola, rosso e blu. Un Vivillon svolazzava in lontananza, combattendo contro la corrente.
   «Ti aspetterò, allora. A presto».
 
 
   Si sentiva come un eremita nel deserto. Talvolta la vegetazione della Landa di Luminopoli si faceva talmente secca da trasmettere quello stesso senso di desolazione che poteva avere una steppa disabitata. Ma in realtà lui non era solo, e Garchomp e Bulbasaur vegliavano silenziosamente su di lui, racchiusi nelle Poké Ball che teneva legate alla cintura. Distrattamente le accarezzò con una mano: quasi gli pareva di sentire i mormorii sonnacchiosi dei suoi due fedeli compagni mentre dormicchiavano nelle loro sfere. Poi rimise le dita sul volante e sbirciò di sfuggita l’orologio da polso.
   Se il tragitto si fosse rivelato tranquillo, stimò che sarebbe riuscito ad arrivare a Luminopoli in poco più di tre ore. Allungò un braccio ad afferrare la borsa poggiata sul sedile vicino. L’aprì e rovistò velocemente dentro per controllare che avesse repellenti a sufficienza, in modo da non imbattersi in qualche Pokémon selvatico nottambulo lungo la strada. L’effetto dell’ultimo flacone che aveva utilizzato sarebbe dovuto bastare ancora un quarto d’ora circa. Tuttavia, in realtà, ciò che lo preoccupava di più non era l’eventualità di finire in certe trappole scavate dai piccoli e astuti Trapinch: c’era un ben altro gruppo altrettanto astuto a impensierirlo particolarmente, e non si trattava propriamente di Pokémon.
   Era ancora lontano, ma le pareti del complesso si riuscivano a distinguere comunque con estrema chiarezza. La centrale elettrica sembrava risplendere con arroganza ancora maggiore adesso che si trovava per strada, in macchina, mentre gli si avvicinava un chilometro alla volta.
   Se potessi, ti accompagnerei: gli tornarono alla mente quelle parole che Elisio gli aveva rivolto in caffetteria e si sorprese di starle accogliendo ora con un sorriso tanto cinico, che non riuscì a scacciar via presto.
   «Ma certo, così avresti potuto far man bassa coi tuoi giochi sporchi senza che io me ne accorgessi. Mi avresti tenuto bene a bada, Elisio», sibilò infatti. Poi però sentì del rimorso bruciargli in gola, poiché nello stesso momento gli rivenne da pensare a quella carezza tanto affettuosa che gli aveva dedicato così spontaneamente. Forse si sbagliava. Forse Elisio era stato davvero preoccupato per lui, senza considerare le sue incombenze da Capo Flare. Non seppe che cosa rispondersi.
   Sospirò sconsolato, aggrottando le sopracciglia. Si morse il labbro inferiore cercando di prestare particolare attenzione alla strada in un tratto difficoltoso. Non appena riuscì a venirne fuori, tuttavia, un’improvvisa risata rischiarò la sua espressione turbata.
   «La mia amata!» esclamò un po’ ridendo. Soltanto in quel momento si rese conto di non aver mai specificato a Serena che si trattava di un uomo. Non che ce ne sarebbe stato il bisogno, d’altronde. Allora, per qualche istante si divertì a fantasticare su come sarebbe stato Elisio se fosse stato una donna, probabilmente per distrarsi da quei timori che lo avevano vinto un’altra volta senza dargli via di fuga: s’immaginò una donna bellissima, con due occhi azzurri glaciali e al tempo stesso seducenti, fiera, orgogliosa, meravigliosamente intelligente. Pensò, e non se ne sorprese molto in realtà, che l’avrebbe amato anche così. Quel che aveva dentro, infatti, il suo animo, sarebbe rimasto intatto. Qualsiasi corpo, qualsiasi forma o aspetto avesse avuto, sarebbe sempre stato Elisio, con gli stessi ideali, gli stessi sogni e gli stessi orribili timori, gli stessi pregi e gli stessi difetti, e lo avrebbe amato ugualmente e profondamente.
   Le sue labbra presero una piega incerta. Gli occhi si fecero improvvisamente lucidi un’altra volta e ci passò furiosamente il braccio sopra, perché era buio e la vista era fioca già di sé, nel mezzo della notte.
   Possibile che una persona tanto valida dovesse inesorabilmente andare incontro al nulla, all’oblio e alla distruzione più assoluta? Fece un profondo sospiro. Sì che era possibile. Ormai ogni frammento del loro passato si era andato disintegrando, non c’era più nessuna promessa, nessun giuramento, nulla di nulla, per cui niente avrebbe potuto fermare Elisio dal perseguire i suoi piani, non aveva più vincoli. Tirò su col naso e strofinò di nuovo il braccio sopra gli occhi.
   E gli dispiaceva tremendamente, si sentiva quasi morire dentro al pensiero di non poter fare alcunché per bloccare la caduta precipitosa dell’altro in quella voragine terrificante, di essere limitato fin quasi a soffocare da tutta quella serie di circostanze che non gli permettevano di muovere neppure un dito. Eppure, c’erano ancora tanti progetti, tante cose che gli sarebbe piaciuto fare insieme a lui. Non voleva dire a addio neppure ad una singola di esse, sentiva che era troppo presto per lasciarle andare via. Sorrise pensando a loro un po’ distrattamente e si chiese se avrebbe mai avuto il coraggio di confessarne qualcuna ad Elisio, al cospetto del suo sguardo inquisitore e autoritario.
   Mentre si asciugava nuovamente gli occhi, vide apparire una macchia sfocata giù giù lontana, in fondo alla strada.
   Cos’era esattamente a trattenerlo? Non se l’era mai chiesto prima di allora. La profezia di Astra, il pessimismo irremovibile di Elisio, altro? Ci rifletté a lungo, con la massima attenzione, scomponendo ogni frase, ogni concetto che gli veniva in mente fino a ridurre tutto in forme semplici e lineari, innegabili. Poi all’improvviso il suo cuore mancò un battito.
   Era lui stesso?
   Che cosa gli impediva di sottrarsi alla profezia di Astra? Che cosa gli impediva di ribellarsi al destino? Di abbandonare ogni preoccupazione riguardo al suo ruolo in quella trama disordinata? Di tirarsi indietro per scegliere serenamente di vivere i tanti progetti e le tante cose che desiderava? Di mettersi effettivamente contro Elisio e di opporglisi nella maniera più convincente possibile?
   Solo in quel momento si rese conto di essere stato lui, e soltanto lui stesso, a intrappolarsi da solo con le proprie mani in quella gabbia di paure e a non volerne uscire fuori. C’erano tante possibilità, ancora, tante strade da poter prendere e si era appena solamente all’inizio! Non era ancora arrivato il momento della fine. Non doveva darsi per vinto così presto.
   Rincuorato da questo nuovo pensiero, spinse il piede sull’acceleratore, lasciandosi pervadere completamente dalla sensazione di gioia e di liberazione che gli dava. Se prima non aveva potuto far altro che rimanere piacevolmente colpito dalle parole di Serena, adesso si soffermò su di esse con maggior cura e le comprese. Gli entrarono come un dardo ardente dentro il petto.
   Non avrebbe rinunciato ai suoi sogni, non avrebbe rinunciato ai suoi progetti. Che la profezia seguisse il suo corso, che il giuramento si rompesse, non avrebbe abbandonato la promessa che si era scambiato con Elisio e avrebbe fatto tutto ciò che era nelle sue capacità – non importava quanto ridotte – affinché potessero finalmente risplendere insieme per sempre, uno vicino all’altro. E avrebbe agito da solo, di testa sua, senza farsi bloccare da nulla e da nessuno.
   C’era un fiore, lungo la strada. Un giglio bianchissimo e rigoglioso. Non appena lo vide, Platan rimase come incantato, perché i suoi petali iniziarono a brillare e a ricoprirsi di stelle e bagliori di ogni colore. Ad un certo punto, parvero come staccarsi dal gambo e prendere il volo, come fossero tante piccole ali.
   Era così incantato da quello spettacolo che non appena alzò lo sguardo si spaventò. Era il bambino, il bambino che vedeva sempre nei suoi sogni, che teneva il gambo tra le dita fermo e solenne! Come sempre sorrideva ed era meraviglioso. Ma la macchina correva ed era ormai quasi di fronte a lui. Se non si fosse fermato in tempo l’avrebbe ucciso.
   Non avrebbe rinunciato ai suoi sogni, non avrebbe rinunciato ai suoi progetti. Che la profezia seguisse il suo corso, che il giuramento si rompesse, non avrebbe abbandonato la promessa che si era scambiato con Elisio e avrebbe fatto tutto ciò che era nelle sue capacità – non importava quanto ridotte – affinché potessero finalmente risplendere insieme per sempre, uno vicino all’altro.
   Disperatamente si affrettò a sterzare, frenando bruscamente e lasciando un lungo solco nella sabbia. L’auto traballò con violenza e si sentì scaraventato da una parte all’altra, ma le mani erano salde sul volante e non l’avrebbero lasciato. Quando la macchina si fermò, rimase qualche secondo immobile ritto sul sedile, col fiatone e il batticuore. Poi si slacciò la cintura con un gesto fulmineo e scese a terra a guardare indietro.
   Era sparito. Tuttavia era certo di non averlo preso.
   Scosse la testa un po’ stordito. Era stato un sogno? In effetti si sentiva molto stanco e affaticato. Forse avrebbe fatto meglio a sbrigarsi a tornare a Luminopoli, si disse. Di certo aveva bisogno di riposare. Sospirò e si accinse a ritornare nella vettura, ma qualcosa lo fermò ancora qualche istante.
   La Centrale Elettrica distava ormai pochi metri alla sua sinistra. La fissò come a voler scoprire qualcosa, aspetti circa il suo piano che Elisio gli teneva nascosti e che aveva bisogno di rivelare. Gli parve di scorgere una persona in lontananza, ma il punto in cui essa sembrava stare era incerto e poco visibile.
   Mentre tornava a mettere in moto la macchina, rimuginò ancora sul fiore che forse aveva visto o che forse aveva semplicemente immaginato, e si preparò a tornare al Laboratorio.
   «Cielo, ho un altro fiore a cui devo pensare, adesso!» esclamò infine, scacciando via ogni altro pensiero e ripartendo.
 
 
   «È proprio bello, qui».
   Shana stava guardando il paesaggio con sguardo assorto.
   Serena era contenta che le piacesse. Si erano fermate lì dove lei e il Professore avevano sostato una volta arrivati a Temperopoli Alta. La luce mattutina rischiarava le case e i palazzi, mentre sul mare si trasformava in tante scintille rosee che si confondevano con la foschia violetta dell’aurora. Sul punto più lontano del litorale si riusciva anche a intravedere la ricca architettura dell’albergo dove avevano passato gli ultimi giorni. Serena non poté fare a meno di sorridere nel momento in cui ripensò all’espressione euforica di Shana quando nel corridoio si erano incontrate di striscio con Diantha.
   Ad un tratto la compagna si girò, facendo scuotere i lunghi ciuffi bruni.
   «Serena, non riesco a immaginare quante avventure ancora ci aspettino!» disse. Poi si aggiustò lo zaino in spalla e si mosse verso le porte del Percorso che avrebbero dovuto percorrere prima di raggiungere la prossima tappa. Serena la seguì affrettando il passo, incalzata dall’altra che la chiamava.
   Quando varcarono la soglia, davanti a loro si mostrò la distesa sabbiosa e solitaria che era la Landa di Luminopoli. In lontananza, sbiadita, la capitale le salutava un’altra volta.
   Quel Percorso aveva l’aria di essere più difficoltoso rispetto a quelli che avevano affrontato in precedenza. Questo, però, non sembrò affatto scoraggiare Shana: si avvicinò a Serena e le rivolse uno sguardo deciso e fiducioso. Poi si mosse avanti di qualche passo, accostò le mani alla bocca e a pieni polmoni gridò: «Luminopoli, stiamo tornando!».
   Il loro viaggio riprese.


 


Buongiorno a tutti!
Come state? Spero che abbiate passato delle belle vacanze!
Per quanto riguarda questo capitolo, mi rendo conto che sia stato molto riflessivo e non troppo dinamico, ma spero che non vi abbia annoiato troppo. Dovevo fare in modo che Platan si smuovesse dalle proprie insicurezze una volta per tutte, prima confrontandosi con la prescelta e poi soprattutto con se stesso. In realtà avrà ancora bisogno di un piccolo aiuto per qualche tempo, ma vi assicuro che presto riuscirà a prendere l'iniziativa da solo (...e a quel punto anche i capitoli diventeranno più leggeri!). Detto questo, spero comunque che vi sia piaciuto! Mi dispiace molto di averci messo tanto ad aggiornare, mi auguro per il prossimo di non farvi attendere troppo: ne vederete delle belle!
Nel frattempo mando un bacione a tutti e vi ringrazio di cuore per essere passati a leggere!
Alla prossima~
Pers

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Una richiesta sussurrata tra i sedili di una macchina ***



..

25 . Una richiesta sussurrata tra i sedili di una macchina


 

   Nonostante ormai fosse cresciuto, i momenti in cui, nel mezzo della notte, il suono brusco del campanello riecheggiava nel silenzio della casa riuscivano ancora a insinuargli addosso una certa inquietudine.
   Così avvenne anche quella volta. Quindi, facendo finta di non aver sentito nulla e di non essersi neppure svegliato, si accucciò tra le coperte, stringendosi contro il cuscino, ascoltando il ticchettio dell’orologio appeso alla parete, sopra la scrivania colma di manuali impilati alla rinfusa, che aspettavano da qualche settimana di essere presi e letti e sottolineati e studiati di buona lena. Non si era neppure degnato di sfogliarli un minimo, si ricordò. Li aveva semplicemente presi dal Laboratorio e portati a casa. E ci stavano bene a casa, i libri.
   Mentre si riprometteva per l’ennesima volta che l’indomani ci si sarebbe messo sopra con il massimo della serietà, improvvisamente il campanello suonò un’altra volta.
   Rapidamente tornò a rannicchiarsi nel letto, in silenzio.
   Dunque non doveva essere un qualche ubriacone che si divertiva a premere i tasti del citofono così per sfizio, pensò. No, un secondo suono doveva significare che qualcosa era successo. Seguirono subito un terzo e poi rapidamente diversi trilli in successione. Qualcosa era successo, e doveva essere grave.
   Dal suo nascondiglio sentì un agitarsi dalla camera dei genitori, poi le pantofole di sua madre strascicarono lungo il pavimento del corridoio. La sentì mormorare qualcosa sull’orario e dopo qualche secondo una presenza più vigorosa si avvicinò, respingendola con gentilezza.
   «Lascia, lascia, cara, ci penso io».
   Era suo padre. Già lo percepiva mettersi ritto e impettito, con il viso contratto in una teatrale smorfia spazientita; incamerando aria nei polmoni e con voce grossa infatti disse: «Chi è?».
   Poi avvenne qualcosa di strano, perché tutto d’un tratto si fece incerto, come se fosse dispiaciuto di aver risposto con tanta veemenza. Il suo tono si era fatto basso, se ne riuscivano a cogliere solo alcune parole.
   «Mi scusi, a quest’ora? È così urgente?».
   Soltanto in quel momento il ragazzo si allungò a guardare l’orario e vide che erano appena le tre del mattino. Nello stesso momento, intanto che suo padre continuava in silenzio ad ascoltare quel che gli veniva detto alla cornetta, sua madre si affacciò in camera e lo chiamò.
   «Dexio», disse, controllando che fosse sveglio. Poi gli fece cenno di tirarsi in piedi e di avvicinarsi: «È il Professor Platan. Vuole parlarti un attimo», spiegò subito dopo.
   «Il Professore?» domandò sorpreso, poiché non era sicuro di aver compreso bene. Era piuttosto raro che egli si presentasse così tardi per chiedere il suo aiuto. Affrettò il passo finché non incrociò lo sguardo del padre, immerso in una pacata discussione con il suo maestro.
   «Sì, capisco. Ci mancherebbe altro, ormai sono anni che ha in tutela il nostro ragazzo. Ci affidiamo a lei, Professore. Basta che ce lo riporti presto, insomma. Ah, ecco, ecco Dexio. A lei, arrivederci».
   Quindi l’uomo si scansò e facendogli una pacca sulla spalla lasciò la cornetta al figlio. Il ragazzo la prese in mano e se l’avvicinò all’orecchio, rivolgendo ai genitori un gesto con le dita, in modo che lo lasciassero solo.
   «Professore,» iniziò, ma venne subito interrotto.
   «Dexio», lo sentì dire, estremamente serio al punto che per un attimo il sangue gli si gelò nelle vene, «Ascoltami. Mi dispiace disturbarti a quest’ora, ma ho bisogno di parlare con te».
   «È molto importante, vero?».
   «Estremamente. Ma non posso dilungarmi, adesso. Mettiti qualcosa ai piedi e scendi».
   «D’accordo, mi vesto e arrivo».
   «No, no, no, non c’è tempo per vestirsi! Scendi e basta. Je t’attends en bas. Fa’ presto».
   Dexio rimase per qualche secondo come stordito. Poi andò a infilare di fretta le pantofole e sulla porta salutò i genitori.
   «L’Holovox! Portatelo, Dexio», gli dissero però, prima che mettesse piede sul pianerottolo.
   Nel momento in cui aprì il portone ed ebbe sceso i gradini che davano sul marciapiede, vide sulla strada di fronte a sé la macchina del Professore con lo sportello del passeggero posteriore già aperto. Non gli servì nemmeno guardare il cenno che l’uomo gli stava facendo dal finestrino: senza dire una parola, entrò.
   Mentre Platan metteva in moto, Sina, dallo sguardo un po’ assonnato e seduta accanto al ragazzo, lo salutò. Gli prese la cintura di sicurezza e lo aiutò a legarsi. Dexio la ringraziò.
   Anche lei come lui era in pigiama. Sembrava che il Professore avesse una particolare urgenza. Dexio si sporse un po’ verso di lei, avvicinando le labbra al suo orecchio, spostandole una ciocca di capelli violacei.
   «Sina, tu sai cosa sta succedendo?» le chiese a bassa voce, per non farsi sentire dall’altro che guidava.
   «No», rispose, girandosi verso di lui e fissandolo negli occhi con un’espressione leggermente turbata, «Ma ho un brutto presagio. Non sembra anche a te che abbia uno sguardo piuttosto accigliato? Non prevedo nulla di buono».
   Detto questo, sospirò e allungò un braccio sul viso per stropicciarsi le palpebre contro la manica della camicia da notte. Il ragazzo restò ad osservarla in silenzio, intenerito da quel gesto.
   «Non so neppure quanto riuscirò a seguire di quello che dovrà dirci. Stavo dormendo della grossa, sai?».
   Dexio sorrise, immaginandosela a letto infagottata in mezzo alle lenzuola e con la bocca aperta che russava. La vide sbadigliare e ripetere lo stesso movimento di prima. Allora lasciò che poggiasse la testa sulla sua spalla e che potesse chiudere gli occhi per un po’.
   «Quando il Professore inizierà a parlare, ti sveglierò io. Stai pure, nel frattempo».
   Platan li vide dallo specchietto, accoccolati l’uno all’altra e un po’ appisolati. Gli venne da ripensare a Serena e a come anche lei si era acquattata contro di lui alla stazione. Quindi scosse la testa, sconsolato, e si disse di essere un pessimo Professore e di avere ancora parecchia strada da fare per arrivare a potersi definire davvero tale. Dopotutto, però, era perfettamente cosciente del fatto che si trattasse di una circostanza assolutamente singolare. In altri casi non avrebbe chiesto simili sacrifici.
   Il ticchettio della freccia risuonava tra le pareti dell’auto. Dopo un po’ Platan girò a sinistra e calò un silenzio colmo d’attesa. Dexio scrutò le strade che stavano percorrendo e la distesa dei lampioni che correvano al loro fianco. Provò a indovinare dove si stessero dirigendo. Eppure, si accorse dopo qualche minuto, sembrava che non ci fosse alcun criterio nel tragitto che Platan stava seguendo. L’unica cosa che in un certo senso gli pareva di capire, anche se gli era oscuro il motivo, era che voleva allontanarsi il più possibile da Piazza Rosa. Per il resto, ne era sicuro: non c’era una destinazione.
   «Professore, per caso Floette è scappato un’altra volta?» chiese, cercando di ottenere un indizio. Al solo udire quelle parole messe assieme, Sina aprì gli occhi di soprassalto e si sentì sveglia di colpo.
   Platan rise, inserendo di nuovo la freccia, poi con voce rassicurante rispose di no: «Floette è qui con me», disse, lasciando che il Pokémon Folletto facesse capolino dal sedile accanto a lui per salutare i due assistenti.
   Il semaforo in fondo alla strada da giallo divenne rosso, così la macchina rallentò fino a fermarsi. Platan allontanò le mani dal volante.
   «Adesso», disse, nel tono in cui si voglia fare una premessa ad un discorso importante «Datemi i vostri Holovox».
   Allungò un braccio verso i sedili posteriori e aspettò che glieli mettessero in mano. Sina e Dexio lo guardarono perplessi, ma poi, quando egli scuotendo le dita li incalzò, non se lo fecero ripetere di nuovo. Presero i loro dispositivi e glieli diedero.
   «Molto bene», fu quello che uscì dalla sua bocca dopo che li ebbe posati sulle gambe. Li spense e subito dopo cominciò a smontarli.
   «Professore, che sta facendo?» domandò Sina, leggermente alterata.
   «Ssst!» la zittì portandosi l’indice alle labbra. Le rivolse uno sguardo dallo specchietto retrovisore per farle intendere che doveva aspettare. Poi, dopo aver estratto le batterie, rimase ad armeggiare con qualche pulsante, infine disse a Floette che mettesse tutto nel cassetto davanti a sé.
   «Voi sapete dove vengono prodotti quelli?» chiese dopo essere ripartito.
   «Nei Laboratori Elisio, che domande!» risposero in coro i due.
   «Fino a qualche tempo fa non faceva altro che parlarne per quanto era orgoglioso del suo ragazzo, è ovvio che lo sappiamo», aggiunse prontamente Sina incrociando le braccia sul petto.
   «Beh… Sì, in effetti…», dovette ammettere Platan. Adorava parlare delle persone che amava, ma spesso non riusciva a rendersi conto quando era abbastanza. «Comunque», continuò riprendendo il filo del discorso «ora è arrivato il momento che io vi spieghi tutto. Non una parola di quello che sentirete dovrà uscire da questo posto, intesi? Ho dovuto manomettere i vostri Holovox per non rischiare che qualcuno ci spii. Ai Laboratori possono farlo».
   Non immaginavano nemmeno quali ripercussioni avrebbe potuto avere questo fattore, pensò Platan. Tuttavia, era certo che quando avrebbe finito di parlare, ci sarebbero ben arrivati da soli. Quante volte Elisio aveva dovuto rimproverarlo di non inviargli materiale troppo personale e di tenere via l’oggetto nei momenti più riservati: una volta carpiti i dati, ogni cosa diventava di dominio pubblico all’interno del suo gruppo. Lui stesso gli aveva mostrato come evitare simili inconvenienti.
   «Spiarci?» mormorò Dexio, accorgendosi che in quel momento il Professore non stava indossando il suo orologio.
   «Sì, Dexio. Ragazzi, adesso dovete ascoltarmi. Probabilmente, quello che vi dirò cambierà drasticamente la visione che avete di me: ne sono pienamente consapevole, ma è necessario che anche voi sappiate. Non posso tenervi all’oscuro di questa situazione più a lungo. Tuttavia, dovete giurarmi che manterrete il silenzio. Tra poco capirete perché. Ho bisogno del vostro aiuto».
   I due ragazzi erano confusi da tutte quelle parole. Mai prima di allora avevano visto il loro Professore tanto austero e serioso. Che cosa aveva loro nascosto? E da quanto tempo? Sina strinse le palpebre per il nervosismo, ma subito dopo, tenendo la mano di Dexio, giurò assieme a lui che dalle loro labbra non sarebbe uscita nemmeno una sillaba e che se anche la sua immagine che avevano a modello sarebbe cambiata, avrebbero continuato ad essergli fedeli. Platan annuì. Cercò di pensare a come iniziare il proprio discorso. Vide Floette appoggiato sul sedile vicino, che lo osservava con sguardo rassicurante. Allora prese un respiro profondo e iniziò a parlare.
   «Prima, mi avete chiesto di Floette. Ormai avrete capito che non si tratta di un esemplare comune. Soprattutto, c’è una cosa che non vi ho mai detto al riguardo. Avrete certamente notato come i suoi livelli di resistenza siano estremamente al di sopra rispetto alla norma. Non soltanto per quanto concerne la sua specie, ma anche per tutte le altre di cui ci prendiamo cura in Laboratorio. Ebbene, la cosa è molto semplice da spiegare, seppure detta così possa sembrare assurda: il Pokémon che avete davanti ai vostri occhi è immortale».
   «Che cosa?» sbottò Sina.
   «Ma come è possibile?» la seguì Dexio.
   «Sapevo che avreste reagito in questo modo. Ma vi prego di fidarvi di me. Non voglio confondervi le idee, perciò procederemo con calma. Ovviamente avrete bene in mente la storia dell’Arma Suprema. Su questo credo non ci sia molto da aggiungere. Ma che mi dite invece della storia dell’antico re, tanto affezionato al suo caro Pokémon morto in battaglia, al punto da costruire una macchina che fosse in grado di donargli una vita eterna, così che potessero rimanere insieme per sempre?».
   «Professore, vorrebbe forse dire che…?» tentò di ragionare Dexio.
   «Je n’y crois pas! Abbiamo avuto Floette con noi per così tanto tempo e non ci siamo mai resi conto di quanto potesse essere speciale!» esclamò Sina.
   «È per questo motivo che lei tiene molto a quel Pokémon, non è così?».
   «Sì, ragazzi, in parte è per questo motivo. E pensare che avete conosciuto anche l’antico re a cui apparteneva! Non so, però, se ve ne ricordiate».
   «Non si tratterà mica… di quel vecchio vagabondo che irruppe in Laboratorio insieme a Golurk?» chiese il ragazzo: all’improvviso gli era ritornato in mente l’atteggiamento insicuro e spaurito di Floette quando in quell’occasione era andato a recuperarlo per metterlo in salvo.
   Lo sguardo del Pokémon si rabbuiò per qualche istante.
   Platan sorrise soddisfatto, molto colpito nel constatare le ottime capacità d’osservazione del ragazzo e la sua acutezza. Negli ultimi tempi Dexio era maturato tanto e il Professore non poteva fare a meno che sentirsene fiero. Era felice di vedere come si stesse autonomamente delineando come un individuo sempre più chiaro, unico e spontaneo.
   «Proprio così, Dexio», disse dopo un po’ «Ma non è ancora questo il punto a cui voglio arrivare. Floette mi serviva soltanto per introdurvi l’argomento, per cui, ragazzi, rimettetevi composti e continuate a seguirmi. Ora: l’Arma Suprema potrebbe darvi l’idea di essere diventata ormai una leggenda, ma non è affatto così. Ricordate la relazione che scrissi sui monoliti intorno a Cromleburgo? E ricordate il giorno in cui Shana ci ha chiamati mentre Serena si stava battendo contro il Team Flare, esattamente in quel luogo? Ciò che è successo nel momento in cui le pietre hanno iniziato a brillare e una musica si è diffusa ovunque? Quello è stato il segno che l’Arma Suprema è stata riportata in funzione».
   I due assistenti rimasero sconvolti da quell’ultima affermazione. Eppure, avevano letto la relazione del Professore, se non tutta perlomeno a tratti, ed il senso di ciò che era accaduto quel giorno alla fine era stato abbastanza chiaro ad entrambi. Se le pietre avevano davvero assorbito l’energia liberata durante lo scontro tra Serena e gli scagnozzi del Team Flare, dunque doveva esserci per forza qualcosa che ne avesse incamerato la massa. E di cos’altro si sarebbe dovuto trattare se non dell’Arma Suprema? Un poco alla volta cominciarono a immaginare le conseguenze di un simile fatto e si ritrovarono terribilmente turbati. Sina ritrasse le dita nelle maniche della camicia da notte e strinse il tessuto con le mani, sforzandosi di calmare i propri timori. Dexio la fissò in silenzio, perso nelle sue stesse paure e non sapendo in che modo reagire.
   «Questo è assurdo! Chi mai potrebbe volere una cosa simile?» chiese, non riuscendosi a capacitare del fatto che qualcuno stesse realmente macchinando per riportare la stessa apocalisse che era giunta nel passato, «L’Arma Suprema ormai non ha più quella funzione per cui l’antico re di Kalos l’aveva originariamente costruita, perciò quello che scaturirebbe da essa non potrebbe che essere…».
   «Entra nel Team Flare e il tuo futuro è assicurato», disse brevemente Platan «Quale pensate che sia il significato di queste parole?».
   Accanto a loro passò una macchina con i finestrini abbassati e la musica a tutto volume, che penetrò con forza oltre i vetri dell’auto, riempiendo le orecchie dei due ragazzi che tuttavia non percepivano altro che un ronzio confuso e assordante. Mentre il Professore frenava per arrestarsi al semaforo successivo, dovette fermarsi accanto ad essa.
   «Ma lei, come fa a saperlo?», chiese a un tratto Sina, più che altro sconvolta dal modo, quasi a cuor leggero, in cui aveva assestato quel suggerimento.
   L’automobile al loro fianco era già ripartita. Nell’aria non vi era rimasto ormai che un eco lontano e astratto, che si faceva sempre più sordo e silenzioso man mano che la macchina si allontanava, disperdendosi tra i viottoli scuri e anonimi della città. Platan controllò il semaforo e riprese a muoversi, senza pronunciare parola.
   Il motore rombava. Le ruote traballavano mentre calpestavano il selciato di una strada rivolta verso la periferia.
   «Dopotutto, il Team Flare finora non ha mai chiarito quali siano i suoi obiettivi. Non sappiamo neppure chi vi sia a capo delle sue azioni. Le informazioni che abbiamo a nostra disposizione sono estremamente nebulose e frammentarie, quelle che possiamo fare, quelle che anche lei può fare adesso, non possono che essere supposizioni. Non c’è niente che sia stato accertato», continuò a fare pressione Sina, ma dal modo in cui parlava era chiaro che ormai si trovava completamente in balia dei sentimenti. I suoi occhi erano fin troppo limpidi, e Platan riusciva a vederli bene dal riflesso dello specchietto. Scorse anche la lacrima che la ragazza non aveva fatto in tempo a coprire, mentre scivolava rapida e agitata lungo la sua guancia, fino a gocciolare a terra dal mento.
   «Quelle informazioni a cui hai fatto riferimento, Sina, non le sappiamo perché, ora come ora, il Team Flare non può permettersi di rivelarle. Fidati, non può per nessuna ragione», spiegò il Professore addolcendo il proprio tono «Io… Capisco che tu sia spaventata. Io stesso lo sono stato per molto tempo. Ma non voglio più esserlo. Sina, non lasciare che le tue paure ti blocchino. Non nasconderti nel tuo bozzolo. In questo mondo non c’è nulla di cui tu debba avere paura, se puoi contare su te stessa».
   La ragazza lo ascoltò, tentando di imprimere nella propria mente ciò che stava dicendo, ma l’ansia che vibrava dentro il suo petto le impediva di comprenderne il senso e non riuscì nemmeno a tranquillizzarsi dell’affetto e della cura che il maestro stava cercando di rivolgerle per acquietarla. Quindi con uno scatto rabbioso rizzò la schiena e batté i pugni sulle gambe.
   «Non c’è nulla di cui io debba avere paura?!» gridò, con le lacrime agli occhi «Come può dire una cosa del genere! Che forse lei non abbia paura della morte? Che ne sarebbe allora di me, di quello che sono se io morissi? Tutti i miei sforzi, le mie fatiche, le mie speranze, quelle non conterebbero più nulla? A cosa servirebbe tutto ciò che ho fatto? E che ne sarebbe invece di quel che amo? Tutto ciò per cui avrei dedicato la mia vita… Non esisterebbe più niente! Niente!».
   Dexio la fissò, smarrito. Sina era sempre stata senza dubbio quella più emotiva tra loro due. Ma questo impeto nell’esporsi, che improvvisamente gli sembrava così estraneo, estremo, persino per una come lei, gli appariva stavolta uguale a quel terrore oscuro che gridava confusamente dentro di lui.
   In che modo avrebbe dovuto comportarsi? Cosa avrebbe dovuto fare lui, se si sentiva esattamente come lei?
   Platan parve esitare per dei lunghi attimi. Poi, le sue parole risuonarono severe e risolute, senza che ci potessero essere attenuanti o eufemismi: «Oh, Sina. Per quanto possa far paura, tutti quanti dobbiamo morire prima o poi, in qualunque caso. È nella natura delle cose. Non c’è nulla che possiamo fare per contrastarlo. Tanto vale farsene una ragione e vivere pienamente ogni singolo giorno che resta, senza sprecarne nemmeno un istante».
   Parole amare, dure. Eppure, corrispondevano alla verità più limpida. Non era forse così che era la vita? Incessantemente legata alla morte, insensata senza di essa. Nonostante una vita eterna potesse apparire ad un primo e disattento sguardo una vittoria su tale incontrollabile forza, ben presto si scopriva essere essa stessa una morte: ma senza dolore, silente, impalpabile. Questo pensò Floette, che tuttavia non aveva intenzione di inserirsi nel loro discorso, preferendo restare in disparte, un invisibile spettatore.
   «Lei però ancora non ha risposto alla sua domanda».
   Nel sollevare lo sguardo, Platan incontrò gli occhi maturi e seriosi del suo giovane assistente attraverso lo specchietto.
   «Come fa a sapere tutto questo?» parlò ancora il ragazzo.
   Giustamente, entrambi esigevano una risposta. Platan rallentò, si accostò ad un lato della strada: erano ormai in mezzo al nulla, lungo il principio di un sentiero che non era più città, ma neanche ancora Percorso. Quando si girò per rivolgersi al giovane, se lo ritrovò aggrappato con una mano al suo sedile e tutto il viso e il busto rivolti verso di lui, mentre fremeva d’impazienza al conoscere quella verità che per tanto tempo gli aveva tenuto nascosta.
 «Se è così certo di quello che sta dicendo, al punto da non ammettere dubbi o equivoci, allora deve per forza essere in contatto con quelli! Non è vero? O, altrimenti, trovarsi in una posizione di potere rispetto a loro!» continuò Dexio.
   Ci fu uno sguardo rabbioso, che venne pazientemente accolto da uno invece quasi mortificato, umile.
   Sina li osservò entrambi dal proprio posto, vide quei visi maschili venirsi impercettibilmente a sfiorare, come quando due Pokémon nel mezzo della lotta si scrutano nel momento più critico della battaglia e le sorti dello scontro si fanno crudelmente incerte, sospese.
   «È vero, Dexio», rispose Platan, sentendo il respiro del ragazzo soffiare nervosamente sul proprio volto «Non posso negare né l’una né l’altra cosa. Sono in contatto con loro. E, sebbene non occupi un ruolo all’interno del gruppo, la mia posizione di certo può comunque essere considerata rilevante».
   Dexio non riusciva a credere a ciò che aveva appena sentito. Quella era, a tutti gli effetti, un’ammissione di colpa. Confuso, istintivamente gli venne da alzare un braccio per colpirlo, mosso dalla frustrazione, ma si arrestò all’improvviso quando vide che il Professore stava già con una mano sollevata, pronto a bloccarlo, e vide anche la manica della camicia tirarsi, lasciandogli scoperto il polso nudo.
   In quel momento non stava indossando il suo orologio. Eppure, quell’orologio…
   Un fremito. Un brivido viscido lungo la schiena.
   Dexio capì.
   Si allontanò.
   «È lei…» mormorò Sina, in preda ormai alla confusione più totale.
   «Non lui, Sina!» la corresse, rimettendosi a sedere in silenzio, fissando sconvolto davanti a sé, sentendosi sempre più convinto di quel che aveva inteso.
   Ancora aveva incastonata nella mente l’immagine del suo insegnante col collo leggermente inclinato in una curva delicata oltre lo schienale del divano, il viso rivolto con desiderio verso quello dell’altro, in cerca delle sue labbra. Gli erano sembrati i personaggi di una scultura antica, protagonisti di qualche tragica storia d’amore. Ancora stava rimuginando sul perché prima di allora non si fosse mai accorto del sentimento che legava i due, eppure Sina aveva cercato di farglielo notare in tutti i modi possibili. Aveva ragione, lei. Aveva sempre avuto ragione. Tuttavia non poteva ignorare quel vago senso di perplessità al pensiero di ciò che aveva scoperto. Ora, in qualche modo, sapeva come spiegarsene il motivo.
   «Io l’ho sempre pensato che fra di voi ci fosse qualcosa che non andasse».
   La ragazza indugiò, studiando il profilo di Dexio e il suo atteggiamento mutato all’improvviso, non comprendendo immediatamente la verità che era appena stata svelata. Poi ricollegò le parole del giovane a qualche pensiero vago che le era tornato alla mente e allora intese, consapevole di aver trovato anche lei la risposta. Girò il viso verso il Professore e lo fissò smarrita, trattenendo il fiato.
   «Je n’y crois pas», sussurrò senza voce, e non ci fu bisogno che dicesse altro.
   Se la delusione o il sentimento provato conseguentemente al più infimo tradimento avessero una forma, questa corrisponderebbe senza alcun dubbio al volto di Sina. Platan sapeva della leggera riserva che Dexio nutriva nei confronti suoi e del compagno, ragion per cui non era rimasto poi troppo stupito da quell’uscita, seppur udirla in maniera tanto chiara ed esplicita fosse comunque in qualche modo fonte di un dolore non indifferente. Ma quegli occhi sbarrati, lucidi di lacrime nelle quali aveva temuto per un attimo di affogare, quasi vitrei, colmi di un terrore e di un’angoscia che non si potrebbero definire oggettivamente a parole, erano ciò che di più desolante avesse mai visto in vita sua, al punto che la profezia di Astra in confronto non era che un misero spauracchio, una fitta di poco conto, di quelle sciocche che passano presto. Si volse, deliberatamente evitando di posare lo sguardo sullo specchietto per tirarsi indietro da quella visione, perché non riusciva a fronteggiarla.
   «Sentite,» ritrovò il coraggio di parlare, ma solo dopo molti minuti «so che ciò che vi sto chiedendo non sarebbe altro che uno sforzo per voi e che non avrete più alcun motivo di sacrificarvi in questo modo per me dopo quello che è appena successo. Non mi aspetto che accettiate. Ma ho bisogno del vostro aiuto. Dobbiamo fermare Elisio a tutti i costi. Prima di diventare miei assistenti eravate due Fantallenatori* e sono certo che, unendo le vostre capacità di combattimento con le mie, insieme potremo farcela».
   Dexio si riscosse. Forse, dopotutto, non avrebbe dovuto dubitare delle intenzioni del suo Professore come stava facendo in quel momento, pensò. Quella aveva tutta l’aria di essere una vera richiesta d’aiuto. Non sarebbe venuto a cercarli a una così tarda ora, altrimenti. Non si sarebbe allontanato così tanto dalla città per parlargli. Non avrebbe manomesso i loro dispositivi, né si sarebbe tolto a cuor leggero l’orologio. Il Professore doveva essere disperato, e lo percepiva chiaramente nella rassegnazione che permeava le sue ultime parole. Probabilmente Dexio non avrebbe accolto la sua preghiera, almeno non così su due piedi, ma non si sarebbe neppure sentito di rifiutarla. Era una situazione complessa e necessitava di essere approfondita ancora, non poteva considerarsi chiusa dopo una semplice conversazione di quel tipo. Aveva bisogno di considerare con più attenzione tutte le possibilità che il caso presentava.
   «Da quanto tempo sta andando avanti questa storia? Da quanto lei sa?».
 Sina era improvvisamente riemersa con la sua voce dall’angolo buio del proprio sedile. Platan non poté trattenere un sospiro stanco, conscio delle proprie colpe.
   «Quasi fin dal primo momento. Perciò, potrei dire da sempre», rispose.
   Sina rivolse lo sguardo al finestrino, cercando di spingere la vista più lontano che poteva. Forse avrebbe voluto scappare e questa era l’unica cosa in quel momento che le avrebbe dato una parvenza di fuga.
   «E finora non ha mai parlato. Lei è stato accanto ad un terrorista per tutto questo tempo e non ha fatto nulla. Per di più pienamente consapevole della sua condizione».
   «Credimi, mi rendo conto che...».
   «Non riesco a capacitarmi di come due persone che consideravo impeccabili siano crollate in questa maniera! Come posso fidarmi ancora dopo una cosa simile? So di aver fatto un giuramento poco fa... Ma in questo momento non provo altro che dubbi, e la sua situazione è fin troppo compromessa perché io possa rimanerle fedele!».
   «Sina, aspetta, riflettici meglio!» cercò di bloccarla Dexio, afferrandole un braccio affinché lo ascoltasse.
   «No, Dexio, mi dispiace! Mi rifiuto di prendere parte a questa storia! Tu che sei una persona razionale dovresti capirmi».
   «Certo che ti capisco! Ma il Professore è stato sincero con noi, e non puoi negarlo. Avrebbe potuto benissimo continuare a far finta di nulla altrimenti, non credi?».
   La ragazza non rispose. Platan accolse il suo silenzio con rammarico, pur essendo grato a Dexio per aver cercato di mediare in qualche modo. Decise di rinunciare ai propri tentativi di coinvolgimento: dopotutto, non avrebbe permesso che i due assistenti a cui era più affezionato corressero un tale pericolo senza volerlo. Con gesto lento rimise in moto l’auto.
   «D’accordo, allora. Se è questo che avete deciso non mi opporrò in alcun modo. Scusatemi per il tempo che vi ho preso. Vi riporto a casa».
 
 
   Non appena le porte dell’ascensore si aprirono, Platan si trascinò verso lo studio. Prese le chiavi per aprire la porta ed entrando si tolse la giacca di dosso, lasciandola scivolare sul braccio. Restò fermo in mezzo alla stanza a rimuginare sulle discussioni varie che aveva avuto nel corso della giornata e sui cambiamenti che aveva deciso di affrontare così repentinamente, forse senza rifletterci con abbastanza criterio. Mentre pensava, si strofinò le palpebre col pollice e l’indice per dare un po’ di sollievo agli occhi affaticati che reclamavano il sonno e il riposo che però non poteva concedergli.
   Ad un tratto sentì qualcosa accarezzargli il dorso della mano. Abbassò le dita e vide i piccoli occhi neri di Floette che lo osservavano con compassione. Platan gli sorrise un po’ a fatica, poi lo sfiorò delicatamente in mezzo alle orecchie per ringraziarlo del suo supporto e si allontanò, gettando le proprie cose sulla scrivania. Recuperò soltanto l’Holovox che aveva lasciato prima di uscire per poter mandare un messaggio a Elisio e avvisarlo di essere tornato. Poi posò il dispositivo insieme al resto e si stiracchiò con uno sbadiglio.
   «Sei davvero sicuro di aver fatto la scelta giusta rivolgendoti a loro?».
   Platan sussultò all'improvviso. Nonostante fosse diventata una cosa ormai consueta dal momento in cui Elisio aveva riaperto la porta d'accesso all'Arma Suprema, ancora non si era abituato a sentire Floette parlargli. Nel corso di tremila anni il Pokémon aveva imparato il linguaggio degli esseri umani, ma aveva deciso di rivelarlo soltanto in quell'istante di pericolo, ed esclusivamente alle orecchie di Platan.
   La voce di Floette risuonava come un tintinnio di campanelli, fedele al suo verso naturale, talmente graziosa e argentina che era un piacere ascoltarla. Tuttavia nella sua intonazione vi era un che di remoto e lontano, saggio, come di una donna anziana che avesse vissuto per tanto tempo. Forse era questo che ancora sconvolgeva Platan di fronte a quel suono melodioso: quell’inflessione gli dava la sensazione di trovarsi al cospetto di qualcosa di intoccabile e solenne, che non poteva essere trattato come un semplice Pokémon qualsiasi.
   «Loro sono il mio braccio destro e il mio braccio sinistro. Sono un po’ parte di me e non avrei potuto lasciarli ancora indietro. Ma se non volessero aiutarmi, come credo che sia, allora agirò da solo e li proteggerò a tutti i costi. Solo, non so ancora in che modo», rispose.
   «Non arrovellarti troppo, adesso. Hai già fatto molto oggi», lo rassicurò il Pokémon, prendendo il camice dall’appendiabiti e cominciando a sistemarglielo sulle spalle. Platan infilò le braccia all’interno delle maniche arrotolando poi gli orli fin sui gomiti.
   «Tu, piuttosto: hai faticato abbastanza questa sera, è meglio che ti riposi. Anche se mi pare di vedere che ormai ti sia rimesso quasi del tutto», disse l’uomo prendendo gentilmente Floette tra le mani e portandolo verso il lato opposto dello studio: vicino al davanzale interno della finestra, dietro la sua scrivania, aveva fatto costruire una piccola culla per lui, così che potesse prendersene cura in seguito al suo malore e averlo sotto controllo costantemente.
   «È vero, però ci tenevo a venire con te! Quando mi hai raccontato di come ti sei sentito dopo aver parlato con Serena temevo che potessi fare qualcosa di azzardato. Non è stato così, per fortuna».
   Platan ridacchiò. Sapeva che Floette lo stava prendendo un po’ in giro, ma non poté fare a meno di pensare che qualche assurdità sarebbe ben stato capace di farla se non ci fosse stato lui a guidarlo tra le sue idee confuse dopo essere tornato da Temperopoli così infervorato per mettersi subito all’opera. Anche se non era riuscito a scoprire se Serena fosse una prescelta, dal loro incontro aveva comunque tratto un grande incoraggiamento.
   «Ascolta, Floette», disse mentre controllava che i suoi valori di salute fossero nella norma dal monitor incorporato nella culla «Anche tu sai di questa storia, non è vero? Per questo hai deciso di rivolgermi la parola».
   «La storia dei due fanciulli e dell’Arma Suprema? Certo. Mi è stata raccontata dai Pokémon Leggendari, ma essendo il loro un riposo lungo mille anni, non ho mai avuto l’occasione di chiedergli chi fossero questi due fanciulli. Nel giorno in cui ho incontrato te ed Elisio ho visto che il libro scritto dal fratello di AZ era nelle vostre mani. Dal modo in cui sembravate legati, ho capito che essi dovevate essere voi: col passare del tempo ne ho avuto di volta in volta maggiori conferme. Per questo ho deciso di restare. Non posso tollerare che si ripeta la stessa vicenda accaduta tremila anni fa e, se potessi contribuire almeno un minimo, vorrei offrirti il mio aiuto».
   Il Professore annuì. Gli diede un’ultima carezza per incitarlo a prendere sonno mentre si stringeva al suo fiore dalle tinte purpuree, poi con voce bassa sussurrò: «Ti ringrazio di cuore Floette, il tuo aiuto mi sarà certamente utile. Adesso però chiudi gli occhi e riposa. Io ho ancora da lavorare, ma resterò sempre qui al tuo fianco».
 
 
   Nonostante fossero ormai passati diversi anni, Elisio trovava ancora piacevole affacciarsi alla finestra di quel vecchio appartamento: l’aveva comprato nel periodo in cui aveva deciso di mettersi in proprio, ai piani superiori di quella che poi sarebbe diventata la caffetteria, in modo da poter seguire meglio i lavori di ristrutturazione del locale e successivamente gli affari.
   Ormai non ci trascorreva più molto tempo, e alcune stanze erano anche state sacrificate per far posto agli ambienti dei Laboratori, tuttavia aveva deciso di mantenere intatto lo studiolo. Nei momenti di pausa gli piaceva rimanerci qualche minuto dentro, per ricordarsi da dove era partito e notare con maggiore evidenza i progressi che aveva compiuto nel corso degli anni.
   Bussarono alla porta. Elisio si girò e sulla soglia vide Xante con in mano un plico particolarmente voluminoso di fogli. Lo invitò ad entrare, ma continuò a tenere lo sguardo fisso di fuori, verso il viale gremito di turisti impazienti di arrivare agli ingressi della Torre Prisma.
   «Elisio, è piuttosto urgente. Ti pregerei di prestarmi attenzione».
   «Non temere, Xante. Ti ascolto».
   L’uomo sbuffò stancamente, strofinando le lenti degli occhiali contro un lembo della maglia. Poi diede l’ennesima letta alle cifre scritte sui fogli e spiegò: «Abbiamo stilato un bilancio delle entrate e delle uscite. Elisio, non siamo più in grado di favorire l’ingresso gratuito alle nuove reclute che vogliano unirsi alla nostra organizzazione. Siamo a corto di fondi per mandare avanti i lavori, dovremo stabilire una tassa d’iscrizione per i nuovi membri».
   «Come? No, non è possibile. Fammi vedere», disse, allontanandosi dalla finestra e facendosi dare il plico. Controllò i valori e le voci a cui si riferivano. Tra le spese c’era una somma particolarmente ingente, versata a suo nome, tuttavia non era stata devoluta allo svolgimento delle attività dell’organizzazione, né ai Laboratori, ma ad un terzo nome. Certamente, gli sarebbe risultata di grande aiuto se avessero potuto utilizzarla per i propri scopi, eppure Elisio pensò che, anche in quella situazione precaria, sarebbe stato ben disposto a ripetere nuovamente il gesto, se ce ne fosse stato il bisogno.
   «Per il contributo che saremo costretti a stabilire, abbiamo stimato una cifra di circa cinque milioni. Elisio, tutto questo non sarebbe successo se non ti fossi inutilmente prodigato per la restaurazione del Laboratorio Pokémon dopo l’incidente con quel Golurk. Il Professor Platan avrebbe potuto trovare finanziamenti altrove, non c’era bisogno che ti esponessi. Avresti dovuto rifletterci meglio».
   Xante lo guardò con un’espressione dura, quasi a volerlo rimproverare. Eppure quel modo di fare sembrò non avere alcuna conseguenza, perché Elisio lasciò semplicemente i fogli sulla scrivania e tornò ad appoggiarsi al davanzale della finestra.
   «E sia», disse, dopo un lungo silenzio in cui era rimasto a rimuginare su come muovere i passi successivi, tenendo a mente le difficoltà appena sorte «Se ritenete che non ci sia altra maniera di risollevare la situazione, allora agiremo così. Dopotutto, un sacrificio per assicurarsi un futuro migliore mi pare più che lecito».
   «Spero solo che tu ti renda conto del fatto che sia per causa tua se siamo costretti a prendere tali misure. E questo implica che, in futuro, dovrai assumerti tu personalmente la responsabilità dei problemi che dovessero sorgere per questa tua mancanza. Se il Professore…».
   «Basta così, Xante», lo bloccò «Sono consapevole dei miei errori e del danno che ho arrecato. Ma è l’unico modo in cui possa ancora fare qualcosa per Platan, per aiutarlo e mostrargli il mio affetto, averlo vicino ancora un po’ prima di abbandonarlo per sempre. Espormi in questa maniera nei suoi confronti è il minimo che io possa fare, ormai».
   Lo scienziato si era seduto su una delle poltrone di fronte al tavolo da lavoro. Da lì lo osservò, fermo all’altro capo della stanza, che gli dava le spalle. Si chiese quali intenzioni avesse effettivamente, se fosse davvero persuaso a portare avanti il progetto come avevano stabilito all’inizio o se nel frattempo avesse avuto dei ripensamenti. Stando in quella posizione, ritto, con la testa poggiata tra le mani, il mento e le labbra nascoste dietro le dita, lo sguardo assorto, pareva esalare un che di grave e pesante, come se fosse intento a combattere dentro di sé un conflitto tra forze inconciliabili tra loro. Xante ne era sicuro, e da parecchio, ormai: l’unica cosa che lo stava frenando doveva essere quel Platan. Sospirò, lasciandosi andare contro lo schienale di pelle nera e lucida.
   «Certo che lo ami molto. Avrei dovuto farmene una ragione tanto tempo fa», disse sovrappensiero.
   Ricordava ancora quando, diversi anni prima, poco dopo essersi conosciuti durante un corso all’università, Xante e Elisio avevano deciso di fare associazione per lavorare allo sviluppo dell’Holovox di cui il ragazzo aveva già fornito alcuni prototipi ancora elementari: ragazzo, perché a quei tempi era stato molto giovane. Xante era rimasto sorpreso dall’intelligenza che lui aveva mostrato in diverse occasioni e, come suo solito, inizialmente aveva pensato di approfittare di quella sua mente geniale per raggiungere più facilmente i propri scopi. Con il tempo aveva finito anche per apprezzarlo come persona, nonostante spesso non si trovasse d’accordo con le sue opinioni o comunque con quell’animo a volte troppo focoso e impulsivo – ma, giustamente, cosa mai si sarebbe dovuto aspettare da un ragazzo, per di più con una differenza d’età piuttosto considerevole rispetto alla sua.
   Era stato in un giorno simile a quello: la caffetteria era stata inaugurata da poche settimane, ma negli appartamenti dei futuri Laboratori avevano ancora da sistemare alcune stanze. Xante si ricordava il dolore al braccio indolenzito, mentre lo teneva alzato per ridipingere il soffitto col pennello, inginocchiato in cima alla scala. Elisio stava facendo qualche minuto di pausa, appoggiato con la schiena al muro, accanto alla finestra, ma non affacciato ad essa: si passava continuamente un dito su un punto del viso dove era andata una macchia di vernice. Aveva i vestiti sporchi e i capelli spettinati, come anche la barba che da qualche tempo aveva iniziato ad acconciarsi a punte, ed era madido di sudore per la fatica. Tutt’a un tratto gli aveva chiesto, senza alcun preavviso:
   «Xante, secondo te come ci si sente ad essere innamorati?».
   Al che Xante non aveva potuto far altro che rivolgergli un’occhiata sorpresa. Elisio non era mai stato una persona che parlasse tanto liberamente dei propri sentimenti, nemmeno da giovane.
   «Ah, Elisio», aveva detto «L’amore non è altro che un blando impulso fisico. Un inutile fardello. Distrae la mente da ciò che è realmente importante per poi arrecare soltanto dolore. Io non ho tempo da sprecare in queste cose, preferisco impiegarlo in attività più proficue, che mi portino un successo sicuro. Però, non posso fare a meno di chiedermi chi mai ti abbia suscitato certe pulsioni».
   «Ne parli come se fosse qualcosa di orribile», aveva commentato lui. Per qualche secondo era rimasto in silenzio, poi un’espressione di tenerezza gli aveva illuminato il volto.
   Fuori cinguettavano i Pidgey, appollaiati sui tetti dei palazzi. Dalla strada proveniva un brusio di voci distratte, ognuna immersa nei propri discorsi.
   «C’è un ragazzo, nella caffetteria», il suo tono era risuonato sottile e lieve, come se stesse recitando una poesia delicata «Arriva a metà mattinata con una faccia assonnata e si siede sempre allo stesso tavolo. Non ha mai cambiato posto dal primo giorno in cui è venuto. Poi ordina un caffè, qualche pasticcino e dei bignè per i suoi Pokémon e dalla borsa prende due, tre quaderni e si mette a leggere e a scrivere, concentratissimo».
   «Un secchioncello, insomma».
   «Beh, forse. Non saprei. Non gli ho mai rivolto la parola. È molto carino. E gentile, anche. Per quello che ho visto, intendo dire. Non gli ho mai parlato».
   All’improvviso un Fletchinder si era posato sul davanzale, forse in cerca di cibo. Era rimasto pochi secondi a guardarsi attorno, poi, dopo aver incontrato gli occhi di Elisio se ne era svolazzato via.
   «Sai, ha un modo di portarsi i capelli dietro l’orecchio che non posso fare a meno di trovare grazioso. Mette le dita in una certa maniera così che il mignolo stia un po’ distaccato, e poi…».
   Xante aveva smesso di lavorare. Si era seduto sulla scala con le gambe penzoloni e il braccio dolorante lasciato cadere sulle cosce, concedendosi qualche minuto di riposo.
   «Il suo sorriso mi fa pensare al sole che sorge all’alba. Tutto, di lui, mi fa pensare al sole all’alba. Solo, non riesco a capire se si tratti di semplice ammirazione o se io mi stia per caso innamorando. Xante, non ti sei mai sentito così?».
   L’uomo allora l’aveva guardato attentamente. Scuotendo la testa, era sceso.
   «Non ci hai nemmeno parlato», aveva tentato di confortarlo «Probabilmente sarai rimasto affascinato dal suo aspetto. Soltanto questo. E il fatto di aver trovato un altro patito dello studio matto e disperatissimo come te, deve averti indotto a creare un’immagine idealizzata e distorta che si adattasse ai tuoi bisogni. Non ci si può innamorare di una persona senza conoscerla neppure».
   Ma Elisio non gli aveva detto che ogni volta che si fermava ad osservarlo aveva come la sensazione di conoscerlo già da tanto, incalcolabile tempo, nonostante fosse abbastanza sicuro di non averlo mai incontrato prima. Tuttavia era anche consapevole che una cosa del genere fosse del tutto assurda e stupida, perciò si era ben guardato dal rivelargli quel dettaglio, per mantenere intatta la propria dignità.
   Spesso, nei discorsi di Xante, aveva percepito un forte scetticismo. Quel giorno Elisio si era dispiaciuto di scoprire che avesse una così cinica visione dell’amore. Allora aveva sperato che prima o poi potesse cambiare idea.
   Forse, chissà, un giorno avrebbe trovato anche lui l’amore o un affetto parimenti importante.
   «Se non hai altro da dirmi, Xante, puoi andare».
   Con quelle parole Elisio l’aveva sottratto così brutalmente dai ricordi che Xante si ritrovò a sobbalzare sulla poltrona. Si affrettò ad afferrare gli occhiali prima che gli scivolassero giù dal naso.
   «Hai la mia autorizzazione per procedere nel modo che tu e gli altri responsabili avete definito migliore. Se non c’è altra soluzione, non posso oppormi».
   «D’accordo, allora».
   Quindi lo scienziato si alzò, recuperò i propri fogli e prima di andarsene si arrestò davanti alla porta. Rivolse a Elisio un ultimo sguardo, tentando di intercettare ancora una volta quali pensieri mai avesse per la mente. Fu comunque inutile.
   «Beh. Tolgo il disturbo», salutò, ricevendo da parte dell’altro appena un tintinnio della testa in risposta.
   Elisio sentì i suoi passi allontanarsi verso il corridoio. Si girò un istante per controllare più cautamente di essere solo e si concedette un lungo sospiro, massaggiandosi le tempie con le dita di una mano e tornando ad accucciarsi sul davanzale della finestra. Gli scappò un’imprecazione sibilata tra i denti.
   Si ricompose appena in tempo, perché intanto, nel corridoio, i passi sembravano star tornando indietro. Bussarono di nuovo alla porta.
   «Che cosa c’è ancora, Xante?» domandò, voltandosi quasi di scatto. Un’espressione spaesata gli si impresse sul viso per una frazione di secondo, poi le sue labbra si incurvarono in un sorriso cordiale e bendisposto.
   «Ah, Akebia. Prego, entra pure».
   «Disturbo?».
   «No, no, ci mancherebbe altro. Accomodati».
   Scostò la poltroncina dove poco prima era stato Xante invitandola a sedersi, dopodiché si sistemò dall’altro capo del tavolo in modo che potessero stare l’uno di fronte all’altra.
   «Mi sono accertata che il Professore non si avvicinasse alla Centrale di Kalos la scorsa notte, come mi avevi chiesto. Credo che a un certo punto si sia accorto del fatto che lo stessi osservando, ma sono abbastanza sicura che non sia riuscito a vedermi».
   «Sì, Platan mi ha mandato un messaggio quando è tornato al Laboratorio per rassicurarmi di star bene. Anche se, in effetti, mi è sembrato fosse rincasato piuttosto tardi rispetto a quel che mi aspettavo... Comunque, ti ringrazio per il tuo aiuto, Akebia. So che si tratta di un affare esclusivamente personale e che non eri tenuta a mantenere un simile impegno».
   «Non c’è problema, Elisio. Comprendo la tua situazione e quello che provi, e se c’è un modo in cui posso darti una mano non mi tirerò indietro. Dopotutto, è il minimo che posso fare per ricambiare l’aiuto che tu hai dato a me tanti anni fa».
   Elisio si chiese se veramente Akebia comprendesse. Poi gli tornò alla mente l’immagine del giorno in cui si erano incontrati, la prima volta in cui aveva visto il viso di lei. Allora capì che non avrebbe potuto dubitare della sua sincerità. Le rivolse un sorriso tenero, grato, di quelli che di solito mostrava appena a qualche prescelto, quasi compassionevole. Era per le persone come lei che intendeva costruire un mondo migliore.
   «Per quanto riguarda la missione, invece,» cominciò a introdurre la ragazza passando all’argomento che più interessava ad entrambi, «non ho nessun problema da segnalare, tutto si è svolto come previsto. Questo pomeriggio procederemo con l’ultima prova generale, dopodiché potremo dedicarci all’azione vera e propria. Resta soltanto da definire chi sarà il responsabile dell’operazione».
   «Sarai tu, Akebia», disse Elisio, avendolo ormai deciso segretamente già da diverso tempo, provocando la sorpresa della sua sottoposta «Dopotutto, con un lavoro svolto in maniera così puntuale, non posso che affidare a te questo compito. Nutro delle grandi aspettative nei tuoi confronti, perciò spero che non mi deluderai. Tuttavia, sono certo che non accadrà».
   «Grazie Elisio, vedrai che sarò all’altezza!» esclamò, carica al massimo e pronta a compiere qualunque sacrificio pur di portare a termine l’incarico nel migliore dei modi, esattamente la reazione che l’uomo aveva previsto di ottenere «Non ti deluderò! Il Team Flare sarà presto pronto a compiere il suo prossimo passo!».
 
 
   C’era una donna dai lunghi capelli biondi che camminava scalza lungo il corso di un fiume. Dalle sue spalle scendeva un mantello leggero e maestoso che andava a sfiorare la superficie dell’acqua. Lui era rimasto a guardarla in silenzio, come meravigliato, e lentamente l’aveva seguita, bagnandosi i piedi e rabbrividendo.
   Nel cielo notturno le luci delle stelle splendevano come fossero fiori. Allora, desiderando abbellire quel grazioso mantello, ne aveva raccolta una dal riflesso dell’acqua, e con del filo l’aveva cucita sul tessuto scuro. Poi ne aveva presa un’altra e un’altra ancora, e, tenendo ogni scintilla tra le dita, delicatamente le aveva ricamate una accanto all’altra. Da quei bagliori erano nati dei petali e dai petali erano fioriti innumerevoli ranuncoli gialli. Allora la donna si era girata e gli aveva rivolto il proprio sorriso. Era rimasto sconvolto nel riconoscere sul suo viso quello di Serena.
   Ella aveva allungato le proprie braccia su di lui, come per stringerlo in un abbraccio e vincerlo, le sue ciocche ondulate e sinuose l’avevano raggiunto con il loro profumo dolce. L’acqua del fiume era talmente limpida al punto che non si riusciva a percepire quale fosse il suolo e quale il cielo, ed egli aveva avuto la sensazione di fluttuare gentilmente in una coltre di stelle impalpabile e sconfinata. Il volto di lei sovrastava ogni cosa, bellissimo e terrificante, come una visione, un amaro miraggio.
   «Elisio».
   Improvvisamente si riscosse dai suoi pensieri e alzando lo sguardo vide Platan osservarlo dal vano opposto dello scaffale, tatticamente appostato oltre lo spazio lasciato vuoto dai dischi che aveva preso in mano.
   «Oh. Sì?» si affrettò a dire.
   «Ti eri incantato», mormorò lui di rimando con un piccolo sorriso «Hai trovato qualcosa d’interessante da quelle parti?».
   «Non saprei», rispose ricontrollando rapidamente le custodie che teneva tra le dita, «Ma tu che ci fai lì così?».
   Platan ridacchiò, un po’ timido, infilò la testa ancor più in fondo al vano e posò il mento tra le mani.
   «Hai presente quando in certi film una persona sta cercando qualcosa nella libreria e invece all'improvviso trova la sua anima gemella?» disse.
   «Certo. Ma penso sarebbe meglio se lo facessi con più discrezione. Ci stanno osservando», lo riprese rapidamente, facendogli notare che alcuni occhi si erano posati su di loro con una certa insistenza. Tuttavia non poté fare a meno di sorridere un po’ a quel suo modo di fare ingenuo: aveva come l’impressione che quel giorno Platan fosse particolarmente di buonumore e la cosa lo rallegrava.
   Arrossendo, il Professore si allontanò dal vano e si accorse che effettivamente qualcuno li stava guardando. Sforzandosi di far finta di nulla, raggiunse Elisio in silenzio, portando dietro il cestino che già avevano riempito con un paio di spartiti e dischi.
   Finalmente erano riusciti a recuperare quell’uscita per andare insieme al negozio di musica. Alla radio stavano trasmettendo una canzone della Capopalestra Velia e, sebbene non si trattasse del genere preferito di entrambi, Platan si ritrovava comunque a canticchiare qualche parola di tanto in tanto.
   Elisio ripose i dischi che aveva preso, indugiando però su quello con la copertina con la dama bionda vestita di un lungo mantello ed accompagnata da un bambino che gli aveva fatto tornare alla mente lo strano sogno che aveva avuto quella notte, tra un turno di lavoro e l’altro. Platan disse di non conoscere quel gruppo musicale, ma che se Elisio avesse voluto avrebbero potuto prendere ugualmente il CD. Al contrario il rosso scosse la testa e lo rimise a posto insieme agli altri.
   «Ascolta, mi piacerebbe comprare un paio di vinili nuovi. Mi accompagni a vedere dove sono?».
   «D’accordo».
   Si fermarono di fronte ai vari espositori e Platan si sfregò le mani, esaminando con interesse le numerose custodie che sporgevano, impilate l’una dietro l’altra.
   «Sai, mi fa piacere che siamo riusciti a trovare un po’ di tempo per stare insieme. Ultimamente non capita tanto spesso».
   «È vero, per questo ieri sono rimasto sorpreso quando ti sei presentato in caffetteria. Fa piacere anche a me».
   «Dovremmo vederci più di frequente, non credi?».
   «Di' un po', stai forse cercando di spianare il terreno per chiedermi un appuntamento?».
   «Chissà? Non sarebbe una cattiva idea, comunque».
   «No, hai ragione».
   A Elisio pareva piacere particolarmente questa intraprendenza che stava mostrando Platan. Per un istante gli sembrò essere tornata quella serenità nel loro rapporto che da tanto tempo mancava. Sentì, nello sguardo che l'altro gli aveva rivolto, che anche solo per un attimo si poteva scherzare di nuovo insieme e godere del tempo. Sorrise al compagno, che subito ricambiò con altrettanto riguardo.
   Tuttavia, all'improvviso la voce di Velia tacque e calò il buio. L'atmosfera tranquilla che si era creata si dissolse bruscamente nel giro di qualche secondo, e tornarono le solite preoccupazioni e le solite maschere.
   La gente, confusa, cercò di riversarsi in parte fuori dal negozio, ma le porte a vetri erano bloccate a causa della mancanza di corrente. Qualcuno si lasciò andare ad uno sfogo nervoso di fronte all'ennesimo blackout, altri erano spaventati, altri ancora, timorosi, erano rimasti fermi al proprio posto, incerti sul da farsi.
   «Che cosa?» un ragazzo al telefono stava riuscendo ad ottenere delle informazioni, che si affrettò a comunicare ad alta voce, incredulo: «L’intero Corso Alto è rimasto senza elettricità? E le porte della città sono chiuse e non c’è modo di attraversarle!».
   Platan si guardò attorno a scrutare la confusione che si stava creando tra le persone, avendo un'intuizione di quel che stava succedendo. Infatti, non rimase sorpreso quando Elisio lo cinse con fermezza alla vita con un braccio, in modo da tenerselo vicino, e gli sussurrò di non muoversi.
   «È questione di qualche minuto», aveva aggiunto poi.
   Dall’ascensore per il piano superiore si sentivano provenire grida e colpi battuti contro le pareti da parte di coloro che erano rimasti intrappolati dentro e volevano uscire. Elisio e Platan vennero sorpassati da un gruppo che stava correndo in quella direzione nel tentativo di dare una mano.
   «Dovremmo andare anche noi», disse il Professore.
   «Ho detto di no. Non durerà molto, devi stare tranquillo», replicò però l’altro.
   «Non posso rimanere qui a non fare nulla mentre gli altri hanno bisogno del mio aiuto!».
   «Se anche tu andassi sarebbe inutile. L’unica cosa da fare, adesso, è aspettare che torni la corrente. Resta al mio fianco».
   Platan cominciò a sentirsi leggermente intimidito dal suo modo di fare. Tuttavia, quando Elisio allentò la presa per poter poggiare il braccio sulle sue spalle con gesto saldo e protettivo si calmò, poiché capì che, almeno in quel frangente, era lucido e non aveva intenzione di attaccare o di dar sfogo ai propri piani. Nonostante questo, sul suo viso aveva comunque intravisto l’impronta di un’ossessione malsana e cruenta.
   E fu in quel momento. Posando la testa contro il petto di Elisio, contrastando il suo tirarsi indietro per timore di trovarsi troppo vicini e di essere visti, Platan decise per la prima volta che l’avrebbe fronteggiato con ogni mezzo per distruggere quel germe che gli aveva visto fiorire nello sguardo morboso.
   «Questo è soltanto l’ennesimo esempio di quello che farà il Team Flare una volta che avrete preso possesso della Centrale Elettrica, non è vero?».
   A quel punto Elisio fu costretto a concedere l’appoggio, seppur pericoloso, che Platan reclamava. Abbassando il viso a propria volta in modo che potessero parlare per sussurri, rispose: «Sì. Stiamo ultimando i nostri test».
   «Quanto tempo resta, ancora?».
   «Abbiamo quasi terminato».
   «Quanto?».
   Ci fu un sospiro spazientito.
   «T’es vraiment obstiné aujourd’hui, hein?» sibilò Elisio, in verità quasi divertito «Agiremo tra una settimana. Ma adesso non chiedermi altro. Non è il luogo adatto, questo».
   «D’accord. Je ne dirai rien non plus», rispose l’altro allontanandosi, avendo ricevuto la risposta che aveva voluto ottenere.
   Dopo pochi minuti la luce tornò, così come anche la voce di Velia e il suono del suo basso. Nel negozio si ricreò quel clima sereno che aveva regnato in precedenza, nonostante alcuni fossero ancora disorientati. Anche per strada, nei quartieri e nelle piazze, ogni cosa sembrò tornare alla normalità. La confusione scomparve e così anche la paura.
   Con il cestino riempito ormai fino all’orlo, Platan esclamò: «Io credo di aver finito! C’è altro che tu vuoi vedere o mi accompagni alla cassa?».
 
 
   Più tardi, Elisio fermò l’auto davanti casa di Platan. Aspettò che si slacciasse la cintura e tolse il blocco dagli sportelli in modo che potesse scendere. Il Professore controllò di avere tutto nella busta di carta e poi si girò verso di lui, nascondendo uno sbadiglio dietro le dita: quella notte non aveva dormito per niente e non vedeva l’ora di potersi andare a riposare un po’, ne aveva davvero bisogno. Gli sorrise.
   «Grazie per il passaggio. E per il bel pomeriggio», disse «Per favore, tieni in considerazione ciò che ti ho detto. Mi piacerebbe stare insieme più spesso, come abbiamo fatto oggi».
   «Certo, Platan. Farebbe molto piacere anche a me, lo sai questo. Ti chiedo solo di scusarmi per l’inconveniente che abbiamo dovuto affrontare. Per il resto, spero che ti sia trovato bene».
   Avrebbe voluto aggiungere qualcos’altro, ma la mano dell’altro che si era posata all’improvviso ad accarezzargli una guancia glielo fece dimenticare. Le dita di Platan passavano leggere tra la sua barba, con tale amorevolezza che ne rimase sorpreso. Abbassò il viso per non fargli capire troppo chiaramente quale dolcissima sensazione l’avesse colto. Avrebbe volentieri allungato il palmo per stringergli il dorso della mano, ma il proprio orgoglio, o forse una paura nascosta, lo frenò. Allora, si limitò semplicemente a incontrare i suoi occhi, a immergere l’azzurro nel grigio. Nel silenzio sospeso fatto dei loro respiri e dei loro sguardi, per un istante gli sembrò di essere tornato ancora una volta a quei tempi in cui si erano trovati e avevano iniziato da poco ad amarsi. Le sue labbra si distesero lievemente, il sorriso incalzato dal bel ricordo.
   Platan se ne accorse.
   Solcò un’ultima volta la linea che dall’orecchio si allungava sulla mandibola per poi chiudersi sul mento, arricciando tra il pollice e l’indice l’ultimo ciuffo di barba rossa che gli cresceva sulla punta.
   «Buonanotte, Elisio», disse, la voce modulata in un sussurro.
   «Buonanotte», mormorò l'altro di rimando.
   Rimase a guardarlo mentre scendeva dall’auto. Si rivolsero ancora un cenno di saluto, separati dal vetro del finestrino, dopodiché Platan si allontanò, le chiavi già in mano, la borsa in spalla. Elisio stava per ripartire quando, tutt’a un tratto, si ricordò quel qualcosa che avrebbe dovuto aggiungere in precedenza. Si piegò verso i sedili posteriori e afferrò la giacca che aveva dimenticato lì, vicino ai suoi bagagli: «Ah, Platan!» si affrettò a chiamarlo, ma ormai, vide, il portone si era già richiuso alle sue spalle.
   Quindi restò da solo, incerto, il cappotto stretto in una mano. Non sapeva se avvisarlo o se provare a corrergli dietro. Poi pensò che quella parte un po’ distratta del carattere di Platan gli piaceva molto. Così, senza una ragione particolare.
   Sull’indumento c’era il suo profumo. Elisio avvicinò il colletto al naso, in maniera molto discreta, per non farsi scoprire dai passanti, e riuscì a percepirne l’odore: non quello della colonia, ma della sua pelle, dei suoi capelli. Per un attimo ebbe l’impressione di averlo ancora vicino, con le dita che gli sfioravano la guancia soltanto un altro po’.
   La posò con cura sul sedile accanto a lui. Decise che per quella sera l’avrebbe tenuta con sé. Se non altro, avrebbero avuto un valido motivo per rivedersi.




***
Angolo del francese.
      * Je t'attends en bas = Ti aspetto di sotto ;
      * Je n'y crois pas = Non ci posso credere ;
      * Te's vraiment obstiné aujourd'hui, hein? = Sei veramente ostinato oggi, eh? ;
      * D'accord. Je ne dirai rien non plus = D'accordo. Non dirò più nulla .




 


  

  *È un'ipotesi che mi è venuta in mente quando cercando qualche fan art mi sono imbattuta in questo adorabile disegno di quest'artista (ormai è qualche anno che non aggiorna più la pagina, però se volete date comunque un'occhiata perché merita).
In effetti confrontando gli artwork dei Fantallenatori di XY e questa immagine da PokéSpe (che io non ho letto anche se mi è capitato di vedere qualche tavola a caso in giro santo cielo rip Elisio e Malva, ma era l'unica immagine ufficiale che potessi usare dato che si trovano solo fan art) le divise sono molto simili: è come se praticamente avessero mantenuto lo stesso vestiario, ma in bianco per avere una maggiore aderenza ad un camice da laboratorio o
 qualcosa del genere. È anche vero che purtroppo X e Y sono i giochi più sacrificati di tutti, per cui non si può indagare più di tanto, ma sarebbe bello in futuro scoprire qualcosa di più su questi due personaggi allo stesso tempo allenatori, assistenti e paladini mascherati!


Buongiorno a tutti e buona festa della Befana! Spero che questi ultimi giorni di vacanza stiano trascorrendo nel migliore dei modi.
Siccome tra poco inzierà la sessione d'esami ci tenevo a pubblicare questo capitolo durante il periodo di feste, dato che non so nelle prossime settimane quanto tempo avrò (sempre se lo avrò) per mettermi con calma al computer... Spero vi sia piaciuto!
Non penso che ci sia bisogno di dirlo, ma sono stata veramente felice quando ho incontrato Sina e Dexio nel mio Pokémon Luna e ho scoperto di poterli sfidare durante il viaggio. Credo che in proposito si sia già detto abbastanza prima, comunque a questo punto per i prossimi sviluppi e la loro caratterizzazione mi baserò anche sulle informazioni dei giochi di settima generazione.
L'unica cosa che forse mi mette un po' sotto pressione di questo capitolo è Floette. So che non si potrebbe accostarlo ad un Pokémon Leggendario o Misterioso, però essendo comunque un Pokémon speciale, mi sarebbe piaciuto dargli una caratteristica particolare che potesse differenziarlo dagli altri Floette. Qualche tipo di telepatia mi sembrava troppo eccessiva, mentre questa soluzione penso possa essere un po' più verosimile visti i suoi trascorsi. Spero che non vi abbia dato un'impressione troppo banale, comunque mi farebbe piacere sapere un vostro parere al riguardo!
Nel frattempo vi mando un caro augurio per il 2018! In bocca al lupo per tutto quanto e non arrendetevi di fronte agli ostacoli che vi presenterà questo anno! Sono certa che in qualche modo riuscirete a superare ogni cosa.
A presto,
Persej

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Ciò per cui io voglio lottare ***



..

26 . Ciò per cui io voglio lottare


 

   La pioggia aveva cominciato a scendere copiosa già dal tardo pomeriggio, tuttavia con il passare delle ore si era fatta sempre più forte. Non c’era rumore per strada, se non lo scroscio a tratti quasi violento delle gocce che si riversavano sull’asfalto e contro le finestre dei palazzi. Di tanto in tanto una macchina passava, innalzando colonne d’acqua che si andavano a rifrangere sui marciapiedi. Una sirena echeggiò nell’aria, con uno stridio vago e incerto, poi tornarono il silenzio e la quiete.
   All’improvviso si udirono delle grida. Una lite. Strattoni, percosse, imprecazioni.
   Un portone si aprì. Una ragazza venne sbattuta in strada. Il suo corpo ricadde sul terreno bagnato. Si schizzò in una pozza d’acqua.
   Il portone si richiuse.
   Un gemito. Un pianto. Un lungo pianto.
   Poi, una mano. Due occhi chiari, un volto gentile.
   La ragazza strinse quelle dita. Così, senza lasciarle, si allontanò.
 
 
   «Eh, che palle!».
   Un branco di studenti piuttosto sfaticati si era ammassato sul pianerottolo della scala antincendio esterna all’aula. Sina si era fatta spazio sgomitando e battendo furiosamente i tacchi, addentrandosi in quel nuvolone grigio e puzzolente di sigarette.
   «Se per una buona volta vi degnaste d’ascoltarmi, potrei anche fare a meno di venire sempre qui a rompervele, le palle! Non ci potete sostare, sulle scale, e se proprio avete bisogno di fumare potete farlo benissimo giù in cortile! E adesso tornate dentro, il Professore sta per rientrare», esclamò, i pugni stretti sui fianchi.
   Uno alla volta le passarono accanto, confabulando infastiditi tra di loro mentre riprendevano posto in classe. Sina sopportò ogni commento, ma poi qualcuno disse: «Il Professore è un vero amore, su questo non c’è dubbio, però bisogna ammettere che gli assistenti se li sceglie con il culo», e a quel punto si sentì mortificata. Si morse violentemente le labbra e abbassò la testa, nascondendo gli occhi dietro la frangia violacea.
   Dexio era passato in aula per lasciare alcune cose sulla cattedra per conto del Professore. Vide gli studenti che rientravano e la compagna che con il braccio sollevato li stava intimando di affrettarsi; si accorse anche dell’espressione che minacciava di scoppiarle presto in viso. Si avvicinò per darle manforte.
   «È più di un mese che frequentate questo corso sempre in questa stessa classe, possibile che ancora non abbiate capito che da questa parte non si può uscire? In che altro modo dobbiamo dirvelo?» commentò.
   «Ah, eccone un altro...».
   «Vi ricordo che agli esami ci saremo anche io e lei a valutarvi, perciò fossi in voi non mi parrebbe molto saggio mostrare questo atteggiamento».
   «Sarebbe una minaccia?».
   In quel momento Platan fece il suo ingresso, una cartella sottobraccio e la borsa sulla spalla. Lanciò uno sguardo al gruppo. Poi li invitò a rimettersi composti. Quando ebbe finito di sistemare il materiale per riprendere la lezione, prima di sedersi disse: «Vorrei fosse chiaro che qualunque mancanza di rispetto verso i miei assistenti, la considero prima di tutto una mancanza di rispetto nei miei confronti. Se non ci sono domande, adesso, vorrei ricominciare da dove ci eravamo interrotti. Vi ringrazio».
   Dexio e Sina guardarono sorpresi il loro Professore: Platan sorrideva dolcemente. La ragazza si voltò da parte, mentre l’altro si apprestò a raggiungerla sulle scale. Prese congedo con un inchino, dopodiché uscì richiudendosi alle spalle la porta dell’uscita di sicurezza. Allora Sina non si contenne più, si lasciò cadere su uno dei gradini e acquattata lì così proruppe a piangere.
   «Sina...» mormorò il giovane. Si accucciò al suo fianco e le cinse delicatamente le spalle.
   «Lui è un vero amore, e a noi ci ha scelti con il culo, perché pur essendo i suoi assistenti non vogliamo aiutarlo», singhiozzò, spingendosi contro l’abbraccio dell’altro.
   «In realtà, io non ho ancora deciso se tirarmi indietro, Sina, e questo tu lo sai».
   «Ma io invece sì!» tuonò, la voce rotta e sgraziata «Non riesco ad accettare che per tutto questo tempo, lui... Insomma, ci ha tradito, Dexio, non te ne rendi conto?».
   «Credi forse che non ci pensi? Neanch’io riesco a perdonarlo per averci nascosto una cosa simile e per non aver reagito prima, ma sono pur certo che ci debba essere stata una ragione ad averlo spinto ad agire così».
   «Non so, io... Sono ancora tanto confusa. Quella notte non ci ho dormito. Non ci ho dormito nemmeno la notte dopo. E quella dopo ancora».
   Dexio sospirò. Le accarezzò con amorevolezza i capelli e con un fazzoletto incominciò ad asciugarle le lacrime sul viso. Aspettò che Sina si calmasse, poi l’aiutò a rialzarsi. Dalla finestra videro Platan intento a spiegare la lezione, con quella sua gestualità ampia e accogliente che entrambi ammiravano tanto. Incrociarono d’improvviso il suo sguardo e arrossirono – che nonostante tutto, nonostante il loro imperdonabile rifiuto, egli era rimasto così buono e premuroso nei confronti di entrambi.
   «Ascolta, Sina», chiamò ad un tratto Dexio, «Ti va di andare a fare due passi? Anche perché non sarebbe proprio giusto rimanere qui. Ti porto al Café Soleil e prendiamo qualcosa per rilassarci. Che ne dici?».
 
 
   Il ragazzo dal volto gentile l’aveva portata via con sé. Non aveva esitato un istante ad offrirle rifugio. L’aveva accolta nella sua casa senza battere ciglio, le aveva dato di cui cambiarsi, e adesso l’aveva fatta accomodare su questa poltrona, porgendole una tazza di tè caldo fra le dita.
   Lei stava accovacciata tra i cuscini, le gambe incrociate, le braccia nascoste in quelle maniche fin troppo lunghe di quella maglia fin troppo larga per un fisico minuto e asciutto come il suo. I suoi piedi, nudi, sparivano oltre gli orli del pantalone di bella stoffa. Tutti gli abiti che egli le aveva ceduto erano di ottima fattura, e anche quell’appartamento, seppure in disordine, esalava un che di raffinato. Non riusciva a nascondere d’esserne lievemente in soggezione. Osservò le tele appese alle pareti: dipinti di paesaggi, ritratti. Poi abbassò lo sguardo sulle pile di libri ammassate sul pavimento.
   «Mi sono appena trasferito», spiegò il ragazzo dal volto gentile, rivolgendole gli occhi chiari «Sto ancora cercando di trovare il giusto spazio per le mie cose».
   «Capisco», mormorò lei di rimando, arrossendo nel sentirsi guardata da lui. Si ritrasse leggermente contro la spalliera della poltrona e nel farlo le giunse all’olfatto il profumo di quei vestiti che indossava e che appartenevano a quell’altra persona. Un profumo di gigli.
   Il giovane intuì di averla messa in imbarazzo. Distolse la vista, e tuttavia non poté fare a meno di sedersi lì davanti a lei, nel tentativo di mostrarle la propria vicinanza, il proprio supporto.
   «Posso... Posso chiedere il tuo nome?».
   Ella si drizzò di scatto. Nella foga rischiò di rovesciare il liquido fuori dalla tazza. Controllò prudentemente di non aver fatto cadere nulla, poi, portandosi una mano ad accarezzarsi i capelli, rispose: «Akebia. Mi chiamo Akebia».
   Quel volto gentile s’illuminò di un sorriso.
   «E tu?» domandò lei a propria volta.
   Con gesto conciliante delle dita, egli le porse ancora una volta il palmo aperto.
   «Puoi chiamarmi Elisio», disse, carezzandole protettivo il dorso della mano che ella gli concesse.
 
 
   «Ricordi la prima volta in cui ci siamo incontrati?».
   Sina sollevò la testa e lo scrutò.
   «Sì. Sembrava uno scherzo del destino», rispose, spingendo Dexio da parte.
   «Magari lo era davvero. E magari lo è anche questa volta».
   «Di’, ti va di giocare?».
   Si era fermata in mezzo al marciapiede, il viso contratto in una smorfia che sapeva ben poco di riso. Il compagno le si accostò tornando indietro sui propri passi. Sospirò.
   «Hai ragione. Però non saprei in che altra maniera prenderla», confessò «E poi, meglio piangere dal ridere che dal dolore. Non credi?».
   «Preferirei non piangere affatto», tagliò corto lei.
   Ripresero a camminare uno vicino all’altra. Stavano rientrando in Laboratorio dopo aver preso un caffè insieme. Sina aveva chiesto che nella sua tazza versassero un goccio di latte, ancora ne sentiva il sapore dolciastro in bocca, così fu quasi violento percepire quel gusto amaro riversarsi dalle labbra di lui nel momento in cui Dexio si chinò a baciarla, prima di lasciarla andare, di separarsi nelle reciproche mansioni. Tutti e due esitarono un po’ l’uno nelle braccia dell’altra, con le guance arrossate, gli sguardi fuggevoli. Erano ancora le prime volte.
   «Più tardi ho casa libera, vieni?» chiese timidamente Sina. Poi aggiunse: «A studiare, dico! Ci vieni a studiare? Ho casa libera».
 
 
   Un ragazzo studioso, Elisio. Akebia aveva deciso di accettare la sua proposta di rimanere con lui fino a quando non sarebbe riuscita a trovare una nuova sistemazione per sé. Alla fine aveva detto sì per disperazione, e se soltanto avesse potuto sarebbe stata ben felice di rifiutare, anche semplicemente per evitarsi poi quel senso di colpa e il costante timore, il rancore, che l’avevano assalita i giorni seguenti. Perché nonostante tutto ancora aveva a cuore sé stessa, quel poco che le era rimasto e che aveva il bisogno vitale di tenersi stretto, e in un primo momento non era riuscita a capacitarsi di quanto incoscientemente si fosse convinta nell’accogliere quella soluzione da parte di questo, seppure tanto bello e gentile, estraneo. E quasi non aveva nemmeno creduto a come costui a propria volta non si fosse posto il ben che minimo problema ad ospitare lei, totale sconosciuta, di cui sapeva a malapena il nome e qualche vicenda, piuttosto scarna di dettagli.
   «Tutto quello che so è che hai bisogno d’aiuto, e tanto mi basta. Non ti negherò la mia mano», le aveva detto quella stessa sera «Puoi rimanere tutto il tempo che desideri: lo spazio è grande, non ho ancora finito di sistemare, ma posso lasciarti una stanza, in qualche modo recupereremo le tue cose e poi...».
   «Posso recuperarle benissimo da sola, le mie cose!» quella replica le era scoppiata dalla bocca con forza, perché troppo grande era stata a quel punto la vergogna da sopportare, il riconoscere di non essere in grado allo stato attuale di poter provvedere da sola a sé stessa e di doversi necessariamente affidare a qualcun altro – per giunta, un altro uomo.
   Elisio, sentendosi in colpa, era rimasto in silenzio. Tuttavia le sue parole erano state sincere, così dopo, con voce umile e mortificata, aveva ribadito ancora il suo sostegno. Akebia, allora, aveva accettato.
   Un ragazzo studioso, Elisio, si diceva. Se non era occupato a riordinare casa, sapeva sempre come tenersi impegnato: leggeva molta storia e filosofia, oppure suonava il pianoforte, poi alla sera, quando rientrava dal lavoro – si stava iniziando a riassestare i locali dei futuri Laboratori nell’appartamento che aveva lasciato ed egli seguiva con attenzione ogni manovra fra un turno e l’altro alla caffetteria – si piazzava nello studio e restava in piedi fino a tarda ora, dedicandosi alle sue macchine, ai suoi congegni.
   «Io e il mio collega Xante stiamo progettando un nuovo sistema di comunicazione», le aveva spiegato una volta in cui si era fermata lì ad osservare la massa di cavi e cavetti intrecciati sul ripiano della scrivania. Akebia lo ascoltava con attenzione, senza interromperlo, studiando assorta tutti quegli assemblaggi e scheletri di metallo che senza sosta si avvicendavano uno dopo l’altro fra le dita di lui. Ad un tratto Elisio le chiese di passargli quel cacciavite laggiù. Akebia glielo porse. Si riaccovacciò sulla sedia, rimanendogli accanto.
   Mentre si accingeva a infilare l’attrezzo nella fessura della vite, egli esitando domandò: «Era il tuo fidanzato?».
   Akebia a quelle parole restò come stordita. Le dita delle mani cominciarono d’improvviso a tremare, si affrettò a nasconderle nelle maniche, e ritrasse silenziosamente il busto, portando le braccia sottili al petto. Elisio continuava ad avvitare la vite, concentrato, attendendo pazientemente le sue parole – il roteare incessante e penetrante dell’oggetto gettò Akebia in una spirale ossessionata di pensieri.
   «Sì», disse. Poi nient’altro, perché altro non c’era.
   Elisio si arrestò. Riprese a lavorare con lentezza, la mano stringeva più insicura l’impugnatura dell’attrezzo.
   «E tu... Tu sei fidanzato?» chiese lei, nel tentativo di riportare una qualche normalità, seppur illusoria, alla conversazione, passando oltre a ciò che non si poteva dire.
   Egli ne fu sorpreso. Le parve di vederlo arrossire, sebbene il suo sguardo non avesse perduto il solito serioso cipiglio; poi accennò un sorriso.
   «Ho avuto una fidanzatina, ai tempi del mio viaggio con Magikarp», rispose rassicurante, come se avesse intuito lo stato d’animo nascosto dietro quella domanda che gli aveva posto. «Al momento, però, non ho nessuna relazione. Credo di non averne neppure il tempo! Qualche mese fa, mi è capitato di baciare un ragazzo».
   «Un ragazzo…» ripeté lei con un sussurro.
   «Sì,» riprese, sorridendo di nuovo, «ma in realtà non ricambiavo i suoi sentimenti. Nonostante questo, l’ho trovato molto intenso. Vedi, era un bacio d’addio».
   «Un bacio d’addio? E come?» continuò a premere su quel tasto, aggrappandovisi come fosse l’unica via di fuga.
   «Ecco...» cominciò Elisio, che non era tanto uso a parlare di certe cose. Probabilmente ne avrebbe volentieri fatto a meno, tuttavia, se quel racconto fosse bastato a rasserenarla, non si sarebbe certo tirato indietro: «Ecco, eravamo alla stazione, sulla banchina, lui stava per salire sul treno. Sapevamo entrambi che dopo quel giorno non ci saremo rivisti mai più. Questo pensiero deve averlo colto vividamente prima della partenza, così ha lasciato cadere i bagagli, è corso indietro da me, mi ha preso il viso nelle mani e mi ha baciato sulle labbra. Temo di essermi fatto coinvolgere, e allora...».
   «Perché ti sei lasciato andare?».
   Elisio si ridestò dal ricordo malinconico di quel bacio e si voltò verso di lei. Vide i suoi grandi occhi arancioni riempirsi di lacrime; subito la ragazza si affrettò a coprirli, a nasconderli nelle mani che di nuovo avevano ripreso a tremare.
   «Perché hai ceduto a quel bacio se non lo desideravi nemmeno? Perché hai lasciato che ti toccasse in quel modo, perché non hai fatto niente per fermarlo? Perché...» mormorava tra i singhiozzi, la testa china e sconsolata.
   Egli la guardava raggomitolarsi su sé stessa e farsi sempre più piccola. Gli attrezzi scivolarono via dalle sue dita, si ritrovò a chiamare Akebia sorprendendosi di udire la propria voce altrettanto spezzata. Perché quei rimproveri, quelle domande che non potevano avere risposta, Elisio sapeva non essere rivolte a lui, ma a lei stessa.
   «Mio dio, Akebia, che cosa ti ha fatto... Tu non hai colpe, tu...» eppure, per quanto mosse dal più vivo rammarico, dallo sconcerto più dilaniante, Elisio percepiva quelle parole come vaghe e inutili. Per la prima volta percepì la pochezza che, al di là dello sfarzo e della nobiltà che da sempre in un modo o nell’altro erano stati suo scudo ed orgoglio, permeava la sua intera persona dinnanzi all’insormontabile fragilità di un’umanità violata d’inguaribile dolore.
   Con le dita tentò di raggiungerla, di afferrarla, perché non voleva perderla, e tuttavia si sentiva tanto invano in ogni gesto, che non riuscì a far altro che starla a scrutare fissamente, mentre precipitava in quest’inoppugnabile voragine dentro di sé che era assieme repulsione e sofferenza.
   Poi Akebia sollevò lo sguardo, vi accolse dentro gli occhi turbati e smarriti di Elisio. Egli annegò nella turpe consapevolezza che esso tradiva, e ne venne di colpo spaventato e affascinato al tempo stesso: perché l’animo di Akebia, seppur devastato, alla sua vista brillava ancora di un’ardente fierezza. Le sue iridi accese erano soli di fuoco rovente, le cui fiamme divampavano dal dolore come germogli rigogliosi che crescano dalla bruna terra, in attesa di lasciar scoprire il loro fiore. Presto Akebia avrebbe squarciato le pareti del proprio bozzolo.
 
 
   Dexio più tardi c’era andato a casa di Sina, e come stabilito si erano messi a studiare. Lui aveva portato quei manuali che da tempo immemore aveva lasciato abbandonati alla rinfusa sulla scrivania, lei aveva preso i suoi quaderni e gli evidenziatori e le penne dai mille colori, così per una buona mezz’ora, quasi tre quarti, avevano trovato di che tenersi occupati. Ma poi:
   «Facciamo una pausa?».
   «Sì».
   Sina era andata a sedersi sul letto. Aveva afferrato un libro dal ripiano del comodino, l’aveva sfogliato un po’. Ne aveva letto qualche passo a Dexio. Poi aveva tirato fuori un manga, di quelli che aveva finito in quei giorni, e ne aveva fatto vedere un paio di vignette all’altro, erano rimasti a commentare insieme i disegni, avevano riso. Erano stati sul punto di baciarsi un’altra volta, ma d’improvviso dalla finestra era esploso un lampo di luce, e al di là delle tende il cielo aveva preso a mutare di viola, di rosso e di blu.
   «Non trovi anche tu che sia affascinante?» chiese Dexio, aprendo i vetri e sporgendosi oltre la grata.
   «Non so bene di che cosa si tratti, ma ogni volta che appare non posso fare a meno di provare una forte emozione nel cuore. Eppure, ho avuto l’impressione che il Professore, piuttosto che affascinante la trovi inquietante».
   «Perché dici questo?».
   «Non l’hai notato? Di punto in bianco comincia a serrare le persiane o a distogliere gli occhi. Si porta una mano al petto, come a tastare la propria presenza – non so come esprimermi meglio. Insomma, diventa strano. Quasi pauroso».
   Si alzò una folata di vento particolarmente brusca. Sul balcone del palazzo dirimpetto, i vestiti lasciati ad asciugare sullo stendino si scuotevano pericolanti: un uomo e una donna uscirono a portar dentro il bucato, nel timore che qualcosa potesse volar via. Dexio consigliò che rientrassero anche loro. Si abbracciò con delicatezza a Sina e la riaccompagnò verso il letto. Mentre lei si accomodava sulle lenzuola, richiuse con cura le finestre. Le sorrise, intenerito dalla sua posa scomposta che dominava maldestramente tutto lo spazio del materasso, eppure poi si accorse dell’espressione turpe che le stava nascendo sul viso.
   «Pensi che ci stia nascondendo qualcos’altro?» chiese infatti la ragazza poco dopo.
   Egli la fissò interdetto. Sollevò lo sguardo al cielo, che ancora seguitava a cambiare colore.
   «Non ne ho idea. Ma da una parte, se così fosse, in effetti non mi sorprenderebbe affatto», disse. Poi andò a sdraiarsi al suo fianco, passò una mano fra i suoi capelli lucenti e la accolse silenziosamente nell’abbraccio in cui ella stava cercando riparo.
   «Ho paura, Dexio».
   «Anch’io. Ma stai pur certa, Sina, che se il Team Flare dovesse sferrare il suo colpo, io sarò sempre qui per proteggerti».
   «Anch’io voglio proteggerti. Però, mi sento talmente insignificante... In fin dei conti, essere Fantallenatori non vuol dire nulla, se non se ne ha davvero la stoffa».
   Dexio la strinse più teneramente fra le braccia, e nascose un sorriso in mezzo alle ciocche viola che gli solleticavano il mento. Avrebbe voluto premervi un bacio sopra, ma inaspettatamente ebbe come l’impressione che quel loro abbraccio, quelle loro dita che si cercavano per annodarsi insieme, insomma che il contatto spontaneo dei loro corpi fosse in quel momento ben più intenso di qualsiasi altra cosa. Si abbandonò alle sue mani sottili che gli carezzavano la schiena, chiuse gli occhi colto da una dolce sonnolenza.
   «Il giorno in cui ci siamo incontrati, sembrava uno scherzo del destino», sussurrò.
   «Magari lo era davvero... E magari lo è anche questa volta», mormorò lei di rimando.
   Il volto di Dexio si ridestò di sorpresa. Sina, tuttavia, continuava a piegarsi contro di lui senza volersi mostrare.
   «Non avevo ancora mai incontrato qualcuno come te», disse il giovane «So di essermi innamorato di altre ragazze, prima, eppure sento come che, in realtà, senza rendercene conto, noi abbiamo sempre avuto bisogno l’uno dell’altra. Perché nessuno, nell’essere così diverso da me, è stato allo stesso tempo così simile a ciò che io sono. Per questo, Sina, qualunque sarà la tua scelta, io la rispetterò. E stai pur certa che non ti abbandonerò».
 
 
   Una mattina Akebia si era risvegliata in preda all’angoscia, col corpo avvoltolato nelle coperte di un calore asfissiante, pregno di sudore. Il cuore aveva cominciato a martellarle nel petto senza trovare pace, ed ella respirava a fatica, le doleva il petto, ma non riusciva a trovare lo slancio per svincolarsi e alzarsi dal letto a prendere aria accanto alla finestra. Era rimasta immobile a percepire le sensazioni che l’ansia le suscitava, la schiena sottile tutta curvata in una linea scomposta e nervosa, seminuda, perché la maglia del pigiama doveva esserlesi incastrata tra le braccia piegate sul petto, che si allungavano con le dita a tastare le spalle, in una sorta di protettivo, solitario abbraccio. Non aveva più ripreso sonno, e quando Elisio più tardi si era affacciato a darle la buona giornata prima di uscire e andare a lavorare, aveva risposto appena con un lamento flebile, fingendo d’essere ancora addormentata.
   Egli però inaspettatamente si era avvicinato. Akebia aveva avvertito la sua presenza farsi sempre più tangibile dietro di sé; l’incedere dei suoi passi l’aveva d’improvviso gettata in un’irrefrenabile agitazione, e si era ricordata della schiena scoperta, della pelle spoglia, e nel momento in cui le dita di lui si erano abbassate a sfiorarle una caviglia, aveva spalancato gli occhi in un impeto di protesta. Ma di fronte non aveva altro che il muro e non avrebbe potuto in alcun modo sottrarsi all’altro. La vista cominciò a divenire sempre più sfocata per le lacrime silenziose che traboccavano oltre le sue lunghe ciglia, e la gola arse di un bruciore terribilmente amaro.
   Eppure, la mano di Elisio continuava a sfiorarla appena, senza imporsi. Afferrò un lembo della coperta e delicatamente lo tirò fino a coprirle i piedi infreddoliti. Poi si ritrasse. Akebia udì il ragazzo uscire dalla stanza e poco dopo richiudere la porta di casa. Si spinse di scatto a sedere sul materasso e rimase a scrutare i resti di quel gesto gentile. Allora, i suoi singhiozzi spauriti si tramutarono in un pianto di commozione.
   La sera in cui Elisio l’aveva ritrovata abbandonata per strada, Akebia si era lasciata cadere sull’asfalto bagnato fino a che le gocce di pioggia non si erano mescolate alle sue lacrime al punto da non poter più distinguere le une dalle altre. I suoi piedi deboli e scalzi stavano immersi in questa pozza d’acqua in cerca di un improbabile riparo. Poi era arrivato lui, l’aveva coperta sotto il proprio ombrello e l’aveva aiutata a rialzarsi.
   Akebia scese dal letto. Prese dalla sedia le calze che Elisio aveva recuperato per lei da qualche paio che aveva riposto in un cassetto e che ormai non gli andavano più e le indossò. Gironzolò un po’ per la stanza dondolando pigramente le braccia. Si chinò sulla scrivania a sfogliare distrattamente i libri che aveva raccolto da quelli che ancora bisognava mettere in ordine negli scaffali sparsi per casa e che Elisio le aveva ceduto volentieri. Si voltò a guardarsi dentro lo specchio appeso alla parete e si strofinò gli occhi arrossati, provò ad acconciarsi i capelli con le dita, tuttavia al momento non aveva voglia di vestirsi e sistemarsi per bene. Scostò le tende dalla finestra a far passare la luce del giorno, e scorgendosi un’altra volta nel riflesso del vetro, decise che sarebbe andata a sciacquarsi un poco il viso. Prima di uscire, restò qualche minuto appoggiata con la schiena contro uno stipite, carezzando pensosamente la porta dalle venature rosse fiammanti di quella camera che Elisio aveva ammobiliato con tanta cura soltanto per lei. Sentì che se si fosse soffermata oltre su quel pensiero si sarebbe commossa un’altra volta, così si allontanò scuotendo la testa.
    «Lo denunceremo», le aveva detto una notte in cui era scoppiata a piangere davanti ai suoi occhi. Aveva aggiunto anche altro, era stato per lungo tempo al suo fianco a rassicurarla, ma Akebia aveva fatto sempre più fatica a seguirlo, non aveva percepito altro che un mormorio continuo e sconnesso, flebile: le uniche parole che le erano rimaste impresse erano state queste.
   Vide sul tavolo dello studio i suoi arnesi abbandonati alla rinfusa. Allora decise che, per ricambiarlo di quell’affetto, l’avrebbe aiutato a sua volta.
 
 
   Quella sera di tanto tempo prima, Sina era rimasta per lunghi minuti coi piedi scalzi immersi a riva ad osservare la Torre Maestra che si ergeva imponente più in là oltre la spiaggia. Un banco di Luvdisc stava nuotando nelle acque attorno alle mura accarezzate dalle ultime luci del tramonto. Da lontano si poteva ammirare come le onde assumessero certe tonalità rosee al passaggio dei Pokémon: guardandole distrattamente, talvolta si avrebbe avuto l’impressione che tali sfumature radiose fossero state frutto della misteriosa energia che aleggiava all’interno della fortezza. Nell’ultimo periodo il clima si era fatto arido, complice il caldo clima estivo, e la spiaggia era secca, tant’è che se avesse voluto Sina si sarebbe potuta avvicinare alle mura di cinta senza l’ausilio di Pokémon che dovessero attraversare a nuoto il tratto che le separava dalla città. I marmi bianchi della facciata gotica risaltavano di un languore rovente, i portali strombati s’innalzavano solenni coi loro archivolti scolpiti a rilievo e le cuspidi triangolari finemente decorate.
   Sina era in compagnia della sua Smoochum. Avevano cenato insieme in un bistrot dopo un intenso pomeriggio di studio in biblioteca. Stava preparando un esame di Chimica Organica piuttosto pesante e che la spaventava molto – l’aveva rimandato già diverse volte, ma ora era arrivato il momento di affrontarlo. Ancora in preda allo sconforto, aveva deciso di andare a fare due passi insieme a Smoochum dopo mangiato per riprendere un po’ di respiro. Con il calare del sole, le strade di Yantaropoli cedevano il posto al vento fresco della sera, ed era piacevole girare tra i locali a bere qualcosa.
   Mentre era seduta a sorseggiare un bicchiere di Lemonsucco, Sina si fermava spesso a scrutare i gruppi di ragazze e ragazzi che camminavano lungo la via. Ogni tanto pensava che le sarebbe piaciuto poter approfondire un’amicizia con qualcuno e magari condividere il viaggio insieme a un altro Allenatore come lei. Ma gli studi, per come la vedeva in quel momento, avevano la priorità, perciò era raro che si dedicasse a coltivare una conoscenza più del minimo necessario. Era convinta che quando si sarebbe stabilizzata nel proprio ambiente avrebbe certamente trovato altre persone con i suoi stessi interessi e con le quali sarebbe andata d’accordo. Allora sarebbe riuscita a creare dei rapporti più saldi rispetto a quelli che le capitava di intessere occasionalmente con i viaggiatori che incontrava sul proprio cammino.
   Restò ancora qualche minuto ad osservare il sereno ondeggiare del Mare del Nord, ripassando mentalmente impegni e fatiche che avrebbe dovuto attendere l’indomani. Già sentiva salirle il magone al pensiero di dover riaprire quel libro enorme per rimettersi a sottolineare e sottolineare e sottolineare. Toccò a Smoochum distoglierla da quelle preoccupazioni. Con un verso le si accostò ad una gamba, e incominciò a tirare debolmente l’orlo della gonna – indossava ancora la divisa da Fantallenatrice, non aveva avuto nemmeno il tempo di cambiarsi – per attirare la sua attenzione. Sina abbassò lo sguardo su di lei e vide il suo visetto stanco, allungò una mano a carezzarle il buffo ciuffo biondo sulla testa.
   «Hai ancora caldo tu, eh? Sarà meglio andare a prendere un po’ d’acqua, hai le labbra tutte secche», disse affettuosa, chinandosi a raccoglierla in braccio.
   Facendo ritorno verso la città, Sina notò un fuoco acceso a ridosso di una duna. C’era un ragazzo, seduto accanto a una tenda, intento a leggere un voluminoso libro poggiato sulle ginocchia; doveva essersi accampato lì per la notte. Poi lo guardò meglio: scrutò il modo in cui i capelli sulla nuca sbucavano chiari e ben pettinati dall’alto colletto della giacca nera, gli occhi azzurri e assorti nella lettura, le forme pulite del viso. Pensò che era bello, ma poi lo riconobbe e arrossì. In quel momento, il giovane si accorse di lei e le rivolse un’occhiata distratta. La fissò in silenzio per un po’, finché anche lui non si ricordò, e allora le sue labbra si distesero in un sorriso amichevole. La salutò con un cenno della mano.
   Quella mattina era successo che Sina avesse incontrato un Veterano particolarmente agguerrito lungo il Percorso 12. Durante la lotta egli si era accanito con forza sui suoi Pokémon, senza che ella fosse riuscita a contrastarne la potenza degli attacchi. Quando l’aveva sconfitta, alla fine le aveva detto: «Se questo è il tuo livello, non diventerai mai una Fantallenatrice».
   Sina aveva risposto: «Non me ne frega niente di diventare una Fantallenatrice!». L’aveva mandato via stizzita e chinandosi a terra aveva raccolto le proprie Poké Ball. Subito dopo era apparso questo ragazzo, un altro Fantallenatore come lei. Aveva avvicinato la mano per aiutarla a rialzarsi e lei l’aveva presa.
   «Come ti chiami?» gli chiese, seduta davanti al falò.
   «Dexio», rispose. «E tu?».
   «Sina».
   Non riusciva a guardarlo troppo a lungo in viso, sebbene ella sentisse che egli la stava osservando e che probabilmente avrebbe dovuto ricambiare il suo sguardo. Ma tutt’a un tratto si era fatta terribilmente timida, e non soltanto perché ogni qualvolta provasse a sollevare un poco gli occhi il volto di Dexio pareva brillare sensualmente nella notte, accarezzato dalla calda luce del fuoco – aveva come l’impressione che nel momento in cui egli sbatteva le ciglia una pioggia di stelle scivolasse sulle sue guance e che tutt’attorno sbocciassero fiori colorati e profumatissimi. Per la prima volta cominciava infatti a farsi strada il pensiero di aver trovato finalmente il compagno di viaggio che aveva desiderato in segreto per così tanto tempo, ma non voleva lasciarsi andare troppo impulsivamente a quella sensazione.
   Smoochum, al contrario, era di tutt’altro parere: dopo aver bevuto dalla bottiglia di Acqua Fresca che il ragazzo le aveva offerto, gli si era avvicinata incuriosita, fissando le mani maschili con cui aveva svitato il tappo. Mentre era distratto a scrutare la sua Allenatrice, gliene aveva presa una tra le zampe e vi aveva posato un bacio sopra emettendo un sottilissimo chu. Soddisfatta di quel primo contatto, aveva continuato a baciarla ancora con un’adorabile minuziosità, per percepirne ogni venatura, ogni rotondità e sottigliezza della pelle. Il giovane se ne accorse a poco a poco, e divertito da tutte quelle attenzioni rigirò il palmo a darle campo libero. Sina si imbarazzò, se non altro perché era la stessa mano che aveva afferrato quella mattina quando Dexio si era fatto avanti per aiutarla.
   «È il suo modo di esaminare le cose nuove, non è vero?» chiese lui, ridacchiando per il solletico.
   «Sì, il problema è che lei tende ad essere troppo espansiva con gli sconosciuti. Smoochum, adesso basta!» la rimproverò, alzando il tono della voce sopra quel mare di chu che si succedevano incessantemente uno di seguito all’altro. Dexio provò a rassicurarla, poiché non ne era affatto infastidito, ma Sina era fin troppo agitata per potergli dare ascolto: prese la piccola in grembo e la strinse severamente tra le braccia senza darle via di fuga. Smoochum protestò, ma dovette presto arrendersi alla sua morsa nervosa.
   «Anche a te piacciono i Pokémon di tipo Psico?».
   «In realtà preferisco quelli di tipo Ghiaccio».
   «Che strano, eppure sembri un tipo decisamente fumantino».
   «Ehi! Ti pare il modo di rivolgerti a una ragazza, questo?»
   All’improvviso apparve un Abra, fluttuando in aria a metà strada tra i loro visi. Sina ebbe un sussulto di sorpresa, fece per proteggere sé stessa e Smoochum, ma poi si accorse che il Pokémon la stava semplicemente scrutando, cogli occhi piccoli colmi di sonno. Dexio allungò una mano ad accarezzarlo tra le orecchie volpine ed esso dischiuse la bocca in un profondo sbadiglio.
   «Bentornato», gli disse il ragazzo «Questa è Sina, è una nostra nuova amica. Dove sei stato di bello?»
   Abra continuava a levitare senza emettere verso. Dopo un po’ cominciò a dondolarsi di qua e di là, pigramente, finché dalla sua gola non rintronò un russare sommesso. Si era addormentato. Dexio afferrò la Poké Ball che teneva fissata alla cintura e vi richiamò dentro il Pokémon.
   «Dev’essersi stancato tanto», mormorò.
   Sina si accorse che anche Smoochum, per quanto si ribellasse sbattendo prontamente la cigliette lunghe per tenersi sveglia, cominciava a scivolare a poco a poco nel sonno. Con qualche carezza la convinse ad andare a coricarsi anche lei, poi mise da parte la sua Sfera nella tasca, sentendola vibrare mentre essa russava.
   «Sai, il mio Abra è un tipo riflessivo», spiegò Dexio «Nei momenti in cui è sveglio spesso vaga usando il Teletrasporto per rimuginare sui suoi pensieri. Per il resto del tempo, beh, è come se avesse occhi e orecchie foderati di prosciutto. Dorme e non si accorge minimamente di quello che gli succede attorno».
   «Occhi e orecchie foderati di prosciutto...» ripeté Sina «Che modo di dire buffo!».
   «Già! Me lo diceva spesso mia madre quando ero piccolo. È talmente assurdo che però calza, vero? Eppure, nonostante dorma, Abra è capace di attaccare ugualmente grazie ai suoi poteri psichici. Questo suo comportamento mi ha sempre affascinato».
   «So che si autoinduce l’ipnosi per poterli mantenere attivi attraverso il sonno».
   Dexio rimase particolarmente stupito di quella precisazione. Sorrise.
   «È un’osservazione molto puntuale», le disse «Complimenti».
   «Ah, no!» esclamò lei, arrossendo di colpo davanti a quelle labbra distese «Vedi, in realtà io queste cose le studio. Non è farina del mio sacco».
   «Sul serio?».
   «Sì. Il mio obiettivo non è la Lega Pokémon, ma sto raccogliendo lo stesso le Medaglie perché ne ho bisogno per il titolo che intendo ottenere».
   Dexio sembrò avere come un’intuizione. Raccolse da terra il libro che era stato intento a leggere fino a poco prima. Sina sussultò: era il manuale di Chimica Organica.
   «Se non t’importa nulla di diventare una Fantallenatrice, allora che cosa saresti?».
   Un turbine di vento violenta e improvvisa interruppe i loro discorsi. Le sabbie di Yantaropoli erano rischiarate tutte d’un tratto da un lampo accecante, al punto che Sina e Dexio dovettero coprirsi gli occhi divenuti troppo sensibili, abituati alla calma penombra della notte. Il fuoco si spense, i due ragazzi si alzarono allarmati da terra per capire cosa fosse successo. Quando la luce gradualmente si affievolì, si sporsero oltre il piccolo accampamento e rimasero stupefatti nel vedere le onde del mare crescere e agitarsi in grandi cavalloni. Pian piano anche questi si acquietarono, così non gli rimase altro che allungare lo sguardo altrove, a ricercare qualcosa che dovesse aver generato tutto questo. C’era un bagliore, in mezzo alla spiaggia, o forse due, ecco, due puntini luminosi e quasi indistinti si venivano incontro per poi allontanarsi, e balzavano da una parte e dall’altra, rapidissime. Dexio e Sina aguzzarono la vista a distinguere che cosa più esattamente ci fosse lì, di fronte alla Torre Maestra. I loro visi brillarono di una vivace sorpresa.
   «Ma quello è il Professor Platan!» esclamarono: e queste furono le prime parole che dissero all’unisono.
   «Oh, è davvero un bell’uomo!» aggiunse lei.
   Rimasero entrambi a studiare lo scontro tra il MegaGarchomp del Professore e il MegaLucario del suo sfidante, in un silenzio vivido e carico di passione, concentrati e nello stesso tempo tremando per l’emozione che quello spettacolo fortuito e speciale suscitava in loro.
   «La sua tattica mi sembra piuttosto monotona, però», osservò Dexio. Nella sua voce Sina distinse una certa delusione.
   «In effetti, a lungo andare diventa prevedibile», concordò la ragazza «Forse... Non ci ho mai pensato prima di adesso... E se la Megaevoluzione non fosse soltanto una questione di competizione? Se ci fosse dell’altro?».
   Sina aveva deciso di studiare Biologia Pokémon. Non c'era nessun retroscena strappalacrime dietro questa sua scelta: lo faceva semplicemente perché le piaceva. Le piaceva studiare, scoprire nuovi dettagli e orizzonti, oltrepassare il limite della propria conoscenza. Ma non c’era mai stato nessun Pokémon che da bambina l’avesse salvata da qualche incidente, né che le avesse cambiato la vita con la sua comparsa, che in qualche modo l’avesse spinta ad approcciarsi a quel campo. Vi aveva soltanto scovato una certa affinità, un modo di essere che le era congeniale, e così aveva fatto la scelta d’intraprendere gli studi. Quale miglior traguardo per una mente tanto assetata d’informazioni se non quello accanto al Professore della regione, la sua assistente? E magari un giorno sarebbe diventata Professoressa a sua volta. Eppure adesso vedeva qualche altra cosa, che mai aveva considerato prima di allora e che tuttavia doveva sempre aver avuto in qualche modo davanti agli occhi. Perché sebbene il Professore laggiù faticasse a prestarsi allo scontro, con quella strategia a dir poco acerba e raffazzonata, dalla maniera in cui Garchomp si muoveva sul campo di battaglia con una forza sorprendente, che non poteva però derivargli dalla pratica con il suo Allenatore. Quando Platan venne scaraventato a terra dall’attacco di Lucario e il suo Pokémon riprese a lottare con quell’ira disperata che gli scuoteva tutto il corpo, Sina finalmente parve cogliere un accenno di questo qualcosa d’altro che doveva unirli assieme – uomo e Pokémon, una cosa sola. Ed era in quel legame segreto che adesso voleva addentrarsi, in quell’incontro misterioso fatto di vita e di amore, di sofferenza.
   Mentre Garchomp raccoglieva su di sé il corpo di Platan, accasciato inerme e incosciente sulla spiaggia, i due ragazzi si guardarono, sconvolti entrambi dalla rivelazione a cui avevano appena assistito. A quel punto Sina e Dexio si erano scoperti rivali, e il loro incontro era davvero sembrato uno scherzo del destino.
 
 
   Elisio rincasò dopo il tramonto. Nel momento in cui la ritrovò seduta nello studio rimase particolarmente sorpreso.
   «Come stai?» le chiese, poggiando da parte la borsa da lavoro e togliendosi di dosso il cappotto.
   «Oggi mi sento molto meglio», rispose lei.
   «Mi fa piacere», disse Elisio «Che ne dici se vado a preparare la cena? Ho comprato un ottimo Borgogna, pensavo di...».
   Improvvisamente si accorse che la ragazza non stava semplicemente curiosando tra i suoi marchingegni come aveva creduto in un primo momento, ma vi stava di fatto mettendo mano, cambiando posto ai cavi e rinsaldando certi collegamenti qui e là. Allarmato e perplesso si avvicinò, la guardò con un’occhiata severa che tuttavia tradiva una forte curiosità.
   «Che cosa stai facendo, di grazia?» domandò seccamente.
   «Sto raffinando il tuo lavoro», replicò lei in tono gioviale. Le sue labbra si curvarono in un sorrisetto sagace: Akebia pareva piuttosto orgogliosa.
   «Come sarebbe a dire?» ribatté stizzito. Poi osservò con maggior attenzione la piastra metallica a cui ella si stava dedicando tanto diligentemente, e si rese conto di come i contatti risultassero più ordinati rispetto a come li aveva uniti lui in precedenza. Di certo in questo modo sarebbe stato più semplice apportare modifiche in corso d’opera. Gli occhi di Elisio brillarono di un rinnovato interesse.
   «Tu capisci di queste cose?» domandò, piegandosi sul tavolo con i gomiti, il mento posato pensierosamente sopra il dorso di una mano.
   «Beh, sì», disse Akebia, arrossendo un poco per la sua vicinanza. Quando l’imbarazzo divenne troppo pesante da sostenere, la giovane rimise a posto i vari attrezzi e si accinse a ripulire la scrivania da tutti gli scarti. Elisio però ad un certo punto la trattenne, e stringendola per le spalle in modo da riuscire a guardarla dritto negli occhi, fece la sua proposta: «Ascolta, Akebia. Ti andrebbe di lavorare per me?».
 
 
   «Vi prenderò entrambi».
   Nei mesi successivi, conseguentemente alla scoperta di essere rivali, Sina e Dexio non avevano fatto altro che scontrarsi e battibeccare, superarsi a vicenda man mano che i loro percorsi li avevano portati a rincontrarsi dopo strenui e sofferti allenamenti, sessioni di studio, esami, bocciature, secondi, terzi tentativi, e ancora Poké Ball sprecate e Revitalizzanti consumati. Di certo non si erano sottoposti a simili sacrifici per arrivare infine a questa conclusione – la vittoria, il posto tanto agognato doveva essere uno e uno solo.
   «Che cosa?!» fu infatti la reazione di entrambi, unisona, mentre seduti alla scrivania dello studio osservavano il Professore agitare con un sorrisetto serafico i risultati dei test davanti ai loro occhi.
   «Vi siete aggiudicati il posto a pari merito, e viste le vostre capacità sarebbe un vero peccato lasciarsi sfuggire anche uno solo di voi. Perciò vi prenderò entrambi», aveva ripetuto.
   Dexio gli avrebbe detto volentieri che non era esattamente così che funzionava una graduatoria, avrebbe confessato più tardi a Sina, ma il Professore era stato inamovibile su ogni fronte e alla fine aveva rinunciato. Così, di nuovo, le loro sorti si erano ribaltate, e da rivali che erano stati avevano infine dovuto accettarsi come colleghi e compagni. Per quanto diversi nel carattere, si erano trovati costretti a ricominciare da capo e a ricordare che cosa in quella notte davanti al falò li aveva uniti e fatti sentire uguali. Platan era stato un buon mediatore e a posteriori si sarebbe detto che ci avesse visto giusto, anche nel farli incontrare progressivamente l’uno con l’altra. Col tempo entrambi i ragazzi avevano deciso di venire a patti e di accogliersi reciprocamente colmandosi a vicenda nelle proprie mancanze. Quindi, la permanenza in Laboratorio si era fatta pian piano più serena, ricca di esperienze e progressi. A Sina era sembrato finalmente di avere trovato il suo posto e di stare iniziando a crescere davvero.
   Una mattina, portandosi appresso una serie di documenti che aveva stilato con cura a casa, si era affacciata alla porta della saletta ricreativa. Lì vide per la prima volta insieme il Professore con Elisio. Non sentì nulla delle loro parole, perché troppo forte era il volume del televisore in corridoio su cui stavano trasmettendo l’ultimo bollettino circa le condizioni meteorologiche avverse nella regione di Sinnoh. Però era rimasta a scrutarli da lontano, senza intromettersi, e li aveva visti rivolgersi l’uno all’altro con una delicatezza di cui non aveva mai ancora avuto esperienza, nei loro sguardi e nei loro gesti. Per quanto essi mantenessero una certa distanza amichevole e discreta, Sina aveva percepito la vicinanza che in realtà essa nascondeva, il modo in cui Elisio pareva consolare Platan di una qualche sofferenza. Aveva iniziato ad averli a cuore insieme e non c’era voluto molto affinché  la sua fantasia spiccasse il volo, tra una lettura e l’altra dei suoi manga preferiti.
   Qualche tempo dopo Dexio se la ritrovò durante la pausa pranzo tutta intenta a scribacchiare e a disegnare ghirigori sulla propria agenda. Tra le pagine del diario aveva avuto l’impressione di scorgere uno scarabocchio. Le chiese se potesse dare un’occhiata, ma nel mentre riconobbe che i due omini – abbracciati l’uno all’altro? – che stava delineando con così tanta cura altri non erano che un abbozzo sommario del Professore e di Elisio. Sina tentò di coprire la pagina meglio che poté, ma Dexio ormai troppo incuriosito continuò a sbirciare le due sagomette.
   Vide che si stavano baciando. Poi però guardò meglio, e si accorse che non si stavano soltanto baciando. Le disse che era una fujoshi pervertita e che con lei non ci voleva più parlare. Per vendicarsi, da quel momento Sina cominciò ad assillarlo sul perché invece la sua coppia dovesse essere canonica – Dexio non ebbe più pace.
 
 
   Per entrare, Elisio aveva dovuto abbassare la testa, e Akebia non aveva potuto fare a meno di provarne imbarazzo. Ma quando egli finalmente mosse i suoi primi passi in quell’appartamentino, ne fu talmente felice che ogni tipo di tensione l’abbandonò. Lasciò che si spogliasse, poi lo accompagnò raggiante in salotto e lo fece sedere sul divano. Dalla finestra si aveva una vista modesta di Luminopoli, ma i fiori sbocciati sul davanzale ben compensavano alla mancanza di un panorama migliore. Elisio rimase a osservarli, notando ancora qualche goccia di rugiada adagiata sui petali, tuttavia più di tutti quelli lo colpirono in particolare i ranuncoli gialli lasciati crescere nel vaso che campeggiava grazioso sul tavolo. Accanto all’ornamento, Akebia aveva posato il vassoio con le tazzine e la zuccheriera.
   «Quando saranno diventati abbastanza robusti, voglio travasarli sul balcone», disse la ragazza riferendosi ai fiori, mentre versava il caffè bollente «Tu lo zucchero non ce lo vuoi, ricordo bene?».
   «Ricordi bene. Sono certo che diventeranno meravigliosi, se li terrai alla luce».
   Parlarono dell’impiego nei Laboratori, dell’esperienza che Akebia vi stava facendo all’interno, della sistemazione nella sua nuova casa. Elisio non poté fare a meno che esserne entusiasta, si complimentò con lei, le chiese altre notizie. Man mano che i loro discorsi si spegnevano, però, si faceva sempre più taciturno e pensoso:
   «Sai... Ultimamente c’è un ragazzo, nella caffetteria...» cominciò a dire. Si fermò ad osservare un Vivillon che si era posato sui fiori alla finestra, sebbene Akebia avesse l’impressione che non lo stesse effettivamente guardando. Lei restò in silenzio ad aspettare che riprendesse a parlare, ma così non fu:
   «Lascia perdere», chiuse brevemente il discorso. «Dopotutto, non è importante».
 
 
   «Ma bene!» era la voce del Professore, «Confesso che mi aspettavo di vederti arrivare prima».
   «Santo cielo, Platan», questa, invece, era quella di Elisio, e Sina vi udì chiaramente una certa nota contrariata «Tu l’hai fatto apposta».
   «Chissà? Potrebbe anche darsi».
   Sina si sporse un poco a sbirciare oltre la porta e vide i due intenti a guardarsi intensamente l’un l’altro. Sul viso di Platan campeggiava un sorriso trionfante, come che avesse appena vinto una scommessa, mentre Elisio, diversamente da quanto avrebbe potuto supporre dal tono delle sue parole, pareva avere un’aria piuttosto divertita. Era così assurdo pensare che dietro quel bel quadretto si nascondesse un tale misfatto, la verità indicibile che attanagliava in segreto le sorti dell’intera Kalos. Ella restò a guardarli, a sentire i loro discorsi: erano i discorsi banali di una coppia. Ma come potevano far finta di nulla?, si chiese, anteporre quella facciata a ciò che realmente stava accadendo sotto gli occhi disattenti di tutti? Guardò Elisio allungare un braccio verso Platan, cedergli il cappotto che aveva dimenticato in macchina. Pareva tutto talmente fuori luogo e sbagliato, incomprensibile: però si accorse anche che il suo Professore era sereno, che in lui non vibrava l’angosciosa impellenza che gli aveva scoperto addosso l’altra notte.
   Ad un tratto Elisio uscì, Sina incrociò i suoi occhi e indietreggiò di un passo, si rese conto che stava avvenendo tutto esattamente come qualche tempo prima, quando li aveva visti assieme per la prima volta, e sempre come qualche tempo prima egli rimase a guardarla con un sorriso cordiale, salutandola con un gentilissimo Bonjour. Ella abbassò la testa, mormorò di rimando qualcosa tra le labbra, poi sentì i suoi passi allontanarsi e strinse al petto la pila di documenti che aveva portato con sé. Sospirò. Con un’espressione crucciata, provò ad affacciarsi oltre la porta, tentennando a lungo prima di annunciarsi al Professore – non vi riuscì nemmeno, e soltanto quando Platan sollevò lo sguardo dalle due tazzine poggiate sul tavolo e che si era fermato a scrutare in silenzio si riscosse dai propri pensieri.
   «Sina, ma chérie», la chiamò lui. La sua voce risuonava adesso calma e lenta: «Sei stata lì dietro ad ascoltarci tutto questo tempo?».
   Che cosa avrebbe dovuto rispondere? La ragazza si limitò appena ad accennargli ai fogli che teneva nelle dita. Platan le indicò con un gesto il ripiano alle sue spalle, allora ella si voltò e li lasciò lì. Mentre era girata, il Professore si era alzato, era tornato ai fornelli della cucinetta.
   «C’è ancora un po’ di caffè. Ti va un goccio?».
   «Sì».
   «Posso macchiartelo con del latte, se vuoi. So che le cose troppo amare non ti piacciono».
   Inevitabilmente, mentre afferrava un’altra tazzina dalla credenza, egli ripensò alle parole amare e dure che le aveva detto quella notte quando l’aveva portata via con sé in macchina. Ricordò il suo viso incorniciato nel riflesso dello specchietto retrovisore, e si domandò se, ora che gli stava dando le spalle, le sue labbra avessero di nuovo preso quella curva terribilmente dolorosa. Rigirando lo zucchero nel caffè, tornò a sistemarsi sul divano. Sopra il tavolino c’era ancora la sua tazza accanto a quella di Elisio: esse si sfioravano lungo un tratto del bordo, dove era colata una goccia bruna di cui condividevano insieme la macchia.
   «Sina, tempo fa mi hai chiesto che cosa intendesse Elisio con un mondo perfetto. Non ti sorprenderà scoprire che io allora già sapevo».
   «È per questo che non mi ha risposto».
   «Già. Ho cercato di sviare il discorso… Ma adesso non voglio più starmene in disparte».
   «Sarebbe anche ora, sa?».
   Platan rimase sorpreso da quella veemenza. Sebbene Sina fosse sempre stata un peperino, mai si era permessa di rivolgergli la parola in quel tono saccente.
   «Le chiedo scusa», disse la ragazza poco dopo. «È stato più forte di me».
   «No, non preoccuparti».
   «Mi dica, era questo, vero? Il mondo perfetto che intendeva Elisio. Un mondo in cui sarebbe riapparsa l’Arma Suprema».
   «Sì. Non so in che modo, ma farò tutto ciò che è in mio potere per fermarlo».
   «Professore», lo chiamò Sina: stava guardando oltre la porta, lì verso dove Elisio se ne era andato poco prima. Allora si avvicinò al Professore, si fermò di fronte a lui e lo guardò dritto negli occhi.
   «Dimmi, Sina».
   «Ci ho pensato molto in questi giorni», confessò, esitando «Quello che sto per dire mi fa paura. Non so se è la scelta giusta».
   «Non c’è nulla in questo mondo di cui tu debba avere paura, Sina, se puoi contare su te stessa».
   «Per questo, ho deciso di unirmi comunque a lei. Non sono sicura di essere abbastanza forte. Ma non voglio rinunciare ai miei legami. Non voglio perdere quel sentimento che ho provato la sera in cui l’ho vista combattere insieme a Garchomp davanti alla Torre Maestra. Lotterò con tutta me stessa per proteggere ciò che ci unisce. Tanto fra gli esseri umani che insieme ai Pokémon».
   Platan la osservò attentamente, ascoltando in silenzio le sue riflessioni, commuovendosi e pensando tra sé e sé quanto fosse coraggiosa.
   «Anch’io, Sina, proteggerò te e Dexio a costo della mia vita», le disse dolcemente, e la sua voce era calda come un abbraccio.
   «Ovviamente non significa che l’abbia perdonata!» si affrettò ad aggiungere lei stizzita, con le guance rosse per l’imbarazzo – in realtà era così grata e felice del suo affetto!
   Platan sorrise.
   «Grazie, chérie. Grazie di cuore».
 
 
   Sulla soglia dell’ingresso alla Centrale Elettrica, Akebia stava aspettando le ultime direttive di Elisio, stringendo trepidante la Poké Ball di Druddigon nelle mani. Finalmente dagli auricolari gli giunse la sua voce, il loro piano era ormai in via di attuazione.
   «Per te, Elisio», si disse, mentre il vento le scompigliava i capelli e la sicurezza e l’impazienza ribollivano nelle sue vene «Perché per me sei tutto ciò per cui io voglio lottare».




 


Sarò sincera, sono un po’ in difficoltà su come iniziare queste note dell’autrice stasera. Prima di tutto vorrei ringraziare tantissimo Barbra che si è offerta molto gentilmente quest’estate di farmi da beta per questo capitolo controllandomi le prime bozze: grazie di cuore, il tuo aiuto è stato fondamentale! [Nel caso in cui ci fosse qualche fan di Avatar da queste parti, vi consiglio di andare a leggere il suo crossover Avatar e Pokémon: La leggenda di Gong; magari non è la storia perfetta, ma offre un taglio decisamente interessante all'unione dei due universi!] ♥ In generale, poi, mi sento di ringraziare HolyBlackSpear e Afaneia per il loro supporto in questi mesi e infine Nick Wilde che di tanto in tanto passava a chiedermi aggiornamenti su questa storia: mostrandomi ancora il vostro interesse a distanza di più di un anno siete stati tutti molto affettuosi ♥
L’incipit di questo capitolo risale a un blocco dei disegni che comprai al campeggio in cui io e la mia famiglia andammo in vacanza l’estate della mia maturità. Ho sempre avuto in mente l’idea di affrontare anche le motivazioni delle Scienziate prima o poi: la storia di Akebia nasce semplicemente da quel dettaglio delle calze gialle che avevo sottolineato nel capitolo 17. Ci tenevo molto che fosse qualcosa di forte che suscitasse in Elisio l’urgenza di poter fare qualcosa lui stesso per migliorare la società.
Sina è un po’ il mio alter ego! Mi sono divertita a tratteggiarla come una fujoshi, anche solo per il fatto che è lei fin dall’inizio l’unica a shippare insieme Elisio e Platan. Spero che il rapporto fra lei e Dexio vi sia piaciuto: li rivedremo ancora nel prossimo capitolo.
Per quanto riguarda la revisione generale, ero partita con l’idea di fare una riscrittura, ma con l’andare avanti dei capitoli sono rimasta colpita nel notare i cambiamenti che ho compiuto di volta in volta, ed essendo questa in particolare la prima storia che ho pubblicato su Efp mi è piaciuto molto vedere di anno in anno questa mia crescita, perciò alla fine ho deciso di lasciare questa traccia e di non toccare troppo il testo se non per sistemare qualche frase che effettivamente suonava male o in cui erano presenti errori oppure ancora miei vecchi vizi imbarazzanti (non so quanti !!!!! ho dovuto accorciare). Ho deciso di lasciare anche le descrizioni più romantiche e melodrammatiche dei primi periodi, come baci e sguardi intensi, perché rileggendo le recensioni che mi erano state lasciate mi sono resa conto che nonostante a distanza di tempo mi sembrino un po’ cringe, tuttavia qualcuno ci si era affezionato e in ogni caso resta pur sempre ciò da cui sono partita per arrivare qui adesso. La revisione maggiore è stata per la trama e per la suddivisione dei capitoli a venire, cercando di riorganizzare meglio ciò che già avevo scritto. Mi sono resa conto di aver fatto un sacco confusione all’epoca con le scansioni temporali (nei miei schemi gli avvenimenti occupavano
anni – ma proprio della serie: un anno a capitolo – quando invece la storia nel complesso può benissimo avere un’estensione restringibile a dei mesi a partire dal capitolo 8 in poi) perciò ho attenuato ogni riferimento se non in casi importanti in cui era strettamente necessario. Tuttavia, devo dire che mi sono ritrovata davanti a una trama che aveva più senso di quel che mi aspettavo, nonostante alcune tempistiche sbagliate e certe rivelazioni sparse un po’ a caso. Sono tutte imprecisioni che riguardo con un po’ di affetto pensando alla me del terzo liceo che si è messa a scrivere questa storia per sfogarsi di tutte le brutture da cui si sentiva circondata. In fin dei conti questa storia per me è sempre stata una sorta di diario, paradossalmente.
Ragazzi, dopo questa lunghissima nota mando un abbraccio forte a tutti quanti sperando che il capitolo vi sia piaciuto! Come sempre grazie per essere passati, ci vediamo al prossimo aggiornamento!
Nel frattempo vi auguro uno strepitoso 2020: mettiamocela tutta anche quest’anno ♥
Persej

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2633418