Il Principe e la Marionetta

di Pippistro
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quando gli occhi si toccano ***
Capitolo 2: *** Dasvidania ***
Capitolo 3: *** Ridi pagliaccio ***



Capitolo 1
*** Quando gli occhi si toccano ***


No, non ne avevo mai visto uno così bello. Muovevo i fili delle marionette mentre mio zio recitava le battute del teatrino e intanto lo guardavo. Non potevo fare a meno di guardarlo. Se ne stava lì, in mezzo alla gente curiosa, con la testa leggermente piegata di lato, un sorriso a mezz’asta, il volto pallido incorniciato dai capelli neri e il naso ritto come una lama. Poteva apparire come il figlio di un re, ma lo avrei visto anche disteso in una bara circondato dai crisantemi. Le sembianze erano quelle di un dio, sprezzante. E sembrava anche disgustato. Da cosa?
«Ho in vena e in cuore
Qualcosa di molto simile all’amore.»

Recitò il fantoccio, completo di tuba e occhiello, grazie ai movimenti veloci e attenti delle mie mani… ma… ma sentivo le guance andare a fuoco, le dita tremavano sotto quello sguardo. Lui era ancora lì che spuntava tra la follia folle delle folle; un buco nero tra i rosa e i pizzi veneziani. Rideva di tanto in tanto a una battuta dello zio e le mie dita tremavano. Mi sentivo come chiuso in una bolla di sapone, separato dalla frenesia del mondo esterno, dalle urla, gli applausi e il tanfo lagunare. C’era solo lui: sottile, levigato e immenso, così grande da nascondere tutto il resto. Sbocciò un’altra risata sulle sue labbra. I denti bianchi sbucarono tra le labbra rosee. Sorrideva maledettamente bene, ed io mi innamorai maledettamente in fretta. Poi dita puntate. Battiti di mani. Bambini e grasse puttane.
«E gli impiccati fan din don»
Concluse mio zio con un inchino pomposo. La marionetta imitò il dondolare di un cadavere. Il signorino stava ridacchiando; la mano fasciata nel nero davanti alla bocca. Sorrideva, sorridevo anch’io. Ridi pagliaccio, sul tuo amore infranto. Ad un tratto sollevò il viso e i suoi occhi quasi bianchi, dalla forma sottile e allungata, incrociarono i miei. Li violentarono. Il mondo sembrò dissolversi. Avrei voluto dire qualcosa, ma avevo la gola secca e non riuscivo a trovare quelle dannate parole.
Cosa si diceva in quei frangenti? Come si avvicina una persona?
Ciao, come ti chiami? Buon giorno, signore? Posso offrirti qualcosa da bere? …avessi avuto qualche soldo vero, magari, e non quegli stupidi spiccioli. Mi vergognavo della mia tuba con i bordi tutti lacerati e la giacca lunga fino alle ginocchia. Avevo una spruzzata di rosso sul naso, la pelle cosparsa di farina a chiazze e gli occhi cerchiati di fuliggine. Pagliaccio ridicolo.
Eppure, eppure dovevo provare. Diamine, me ne stavo sempre in un angolo, solo, senza avere il coraggio di fare un passo. Non si può vivere sempre nelle retrovie, no? Bisogna farsi sentire, parlare, parlare anche se si dicono stupidate, anche se non si sa cosa si vuol dire. La gente prende in considerazione solo chi parla, i silenziosi sono bollati come nulla a due gambe. Quindi sbrigati burattinaio, racimola il coraggio, indossa una faccia allegra, spiaccica due parole e provaci! Almeno… almeno avrai assaporato l’illusione di un breve volo prima dello schianto. Tre. Un passo avanti. Due. Deglutire. Uno. Schiudere le labbra e… il signorino fece tintinnare un ducato nel piattino e si volse di spalle spostandosi una ciocca dietro l’orecchio puntando la strada costeggiata di bancarelle e fumi.
Se ne stava proprio andando. Non l’avrei più rivisto.
«Raccogli i soldi» mi spintonò mio zio.
Quasi caddi, aggiustai il fiocco pendente dalla gola e tesi il piattino ai clienti. Ringraziavo a testa bassa e, nel mentre, allungavo il collo per vederlo. Ora o mai più. Ora o mai più. Strinsi i pugni, gonfiò il petto, inghiottii un grumo di saliva e mi tagliai una strisciolina dal cuore spenzolandola davanti a lui, appesa a un amo. «La ringrazio dell’offerta!» buttai fuori, sporgendomi oltre i capelli stopposi e le guance colorate. Il signorino levò lo sguardo, sorpreso.
Accennò un sorriso tirato. «Bello spettacolo» disse con uno strano accento duro.
«Grazie» pronunciai, ma la folla era troppa.
Se solo avessi avuto un fucile! «Dasvidania» rispose frettoloso, sistemandosi il cilindro per poi lasciarmi lì, tra la gente e gli spintoni. Ancora una volta, solo.

Ringrazio i lettori di questo breve, primo capitolo. Come potete notare, alcune frasi sono tratte dal romanzo originale.
 

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Capitolo 2
*** Dasvidania ***


















Dasvidania.
La lingua doveva appoggiarsi al palato e fremere insieme alle labbra per pronunciare quella “svi”.
Dasvidania.
Dasvidania.
Mi ritrovai più volte a sussurrarlo. Senza accorgermene. Le labbra si muovevano da sole.
E lo cercavo, ma non c’era.
Dasvidania.
Dasvidania.
Se son rose sbocceranno, si dice, dimenticando che comunque appassiranno. (cit dal Vodka&Inferno)

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Capitolo 3
*** Ridi pagliaccio ***




Tra gli alti colonnati, i lampioni e i pouf sulle gonne larghe, scolpivo il mio fantoccio a sua immagine e somiglianza. Lo avrei chiamato Dasvidania. Se almeno mi avesse detto il suo nome… ma cos’è un in fondo un nome? Un’etichetta che ti affibbiano alla nascita senza possibilità di appello, senza nemmeno sapere chi sei e cosa sarai. La tua prima non libertà. Come l’incisione su una lapide. Ma sì, il mio burattino poteva restare anche senza nome: chi ero io per deciderlo? I piccioni tubavano ai miei piedi, litigando tra loro per delle briciole. Dondolavo la scarpa nera con la fibbia d’ottone, battendo il tallone contro la pietra muschiata e scolpivo con le dita ferite da calli e innumerevoli tagli. A casa avrei cucito il suo bel giaccone nero e il foulard rosso. Dovevo sbrigarmi, la memoria gioca brutti scherzi. Presto avrei dimenticato gli occhi, poi le labbra sottili, il pallore, il nero dei capelli e sarebbe rimasta solo l’essenza. Un soffio di vocali e consonanti incastrate sotto la lingua. Il suo: «Dasvidania.» Sorrisi quando gli disegnai le labbra, il ghigno disgustato. Come se tutto il mondo fosse soltanto merda al suo cospetto. Scesi dal muretto con un balzo e i piccioni fuggirono allarmati. Rimase solo uno spennacchiato e malato che non riusciva nemmeno a camminare. Gli posai il piede sul dorso e mi diedi la spinta spiaccicandolo con un colpo violento. Strusciai la scarpa sui ciottoli per togliere gli ultimi residui di piume e sangue, poi mi sistemai il fiocco. Rimisi la bisaccia e salii i gradini per sbucare sul ponte. La folla frettolosa si preparava al Carnevale. Strofinai ancora la pianta e il tacchetto su un gradino borbottando tra se e se. Poteva evitare quell’uscita, già. Neanche il tempo di sollevare gli occhi e… lo vidi. Lui, quello che cercavo da giorni tra strade, chiese, quartieri popolari e banchi del mercato. Lui, Dasvidania: capelli corvini, color pece o forse anche un po' più scuri. Occhi dal taglio sottile, sotto un leggero tocco di sopracciglia e pelle bianca. Cappotto scuro, colletto bianco, foulard scarlatto. Cilindro e bastone. Si stava avvicinando a me. Passo dopo passo. Non era solo, c’erano due amici al suo fianco. Uno magro, secco, troppo alto, dinoccolato, sembrava che il tempo stesse sgranocchiando i suoi muscoli ora dopo ora. L’altro biondo e chiassoso. Parlavano, gesticolando. Le mantelle nere svolavano come sudari. Lui lasciava sgorgare dalla sua bocca ben disegnata una risata stridula, se c’era da ridere, e i suoi occhi diventavano furbi, quasi che il riso si legasse a una malizia. Intanto le nuvole si ammassavano come gomitoli di cotone sporco. Rombi lontani. Guardami ti prego, negli occhi, perché gli altri non sapranno mai capire. Vieni… sono io il tuo orco, la tua bellezza è in vendita? Cosa fare? Non sapevo nemmeno cosa dire, la lingua era imbastata e secca, e il burattino non era ancora terminato. La nascosi dietro la schiena. Eccolo. Un passo ancora. Eccomi. Ridi pagliaccio, vai da lui e apriti in due il petto. Farai del tuo cuore il suo cuscino, delle tue costole la sua tana e del tuo sangue il suo nutrimento. Basta così poco e tu sei così forte, così coraggioso, così grande. Un granello di polvere. Il signorino mi passò di fianco e: «Dasvi-dasvidania!» buttai fuori, dritto e servile come una recluta. Ci fu un momento di assoluto silenzio quando i nostri volti si ritrovarono alla stessa altezza, i nostri piedi posati sullo stesso ciottolo. Le gambe del signorino fasciate nel nero, lo scricchiolio delle scarpe eleganti. Le mie bucate con due fiocchi rossi da clown. L’ubriacone all’angolo sparì, il negoziante, le due ragazze che ridacchiavano dietro i ventagli, i gondolieri starnazzanti. La piazza si svuotò di colpo. Un solo attimo, un istante. Un crepitare di nervi. Mi superò e il mondo riprese colore. La cappa di silenzio si dissolse e il brusio mescolato al trottare dei cavalli tornò padrone. Frustato, mi voltai di scatto. Il signorino era ancora lì, di spalle che si allontanava, ridendo. Aveva una risata un po’ sguaiata che contrastava con gli altri suoi modi di fare. Un’increspatura. Di certo non mi davo per vinto. Volevo conoscerlo e basta, non mi ero mai interessato ad un altro essere umano. Per me erano tutti uguali, sbadati, orrendi e con la testa un poco indietro rispetto alle mani. E allora perché quello lì, quell’estraneo, mi interessava così tanto? Dovevo scoprirlo. Corsi nella direzione opposta. Scesi le scale, trovandomi a pochi metri dall’acqua stagnante, poi risalii a due i gradini di un’altra scalinata senza badare agli sbuffi infastiditi della gente. Il signorino stava appena per svoltare l’angolo con i suoi due amichetti. Mi acquattai dietro il muro di un palazzo, pronto all’assalto. Le mani mi tremavano a ogni passo più vicino. Sentivo solo il ticchettio di quelle scarpe sui ciottoli, alternato ai miei battiti discontinui. «Dasvidania!» urlò saltando fuori, parandosi di fronte a lui. Ora non poteva ignorarmi! Ora era lì davanti a me, con l’anima nuda e cruda, una marionetta penzolante. E infatti mi guardò stupito, insieme ai suoi amici. I secondi colarono. La gente ci scansava come se fossimo voragini sulla strada. Lui aggrottò la fronte, sbatté le ciglia scure e cercò lo sguardo degli altri due. Un piccolo risolino di quello più magro, lo sbuffo dell’altro. «Dasvidania» così risolse, lanciandomi una monetina. Il burattinaio l’afferrò al volo. La rigirai tra le dita. Ma… ma non era questo che volevo! Non aveva capito un bel niente! Se ne stava andando con gli altri due. Ancora quella sua schiena nera. Piana. Magari avrei potuto provare a dipingere con la mente tre puntini. Due occhi e un piccolo naso. Poi per la bocca chissà, triste o contenta. Sì, avrei potuto disegnarci sopra, per non pensare che mi obbligava a fissare la sua stupida schiena un’altra volta invece di guardarlo in faccia!
«Ma chi era?» «Uno di quei, come si chiamano? Tipo mimi di strada…»
«E che voleva?»
«Gli ho dato soldi l’altro giorno, vuole altri.»
Il cielo diventava sempre più cupo. Aveva capito male, molto male. «Non voglio i tuoi soldi!» urlai e un attimo dopo non riuscii più a vederlo. Troppe teste mi impedivano la visuale. Ragazzi che spintonavano, capelli stopposi e aliti pesanti. Allungai il collo per rintracciarlo in tutta quella confusione. Un fucile, vi prego, una spada, un cannone. Qualsiasi cosa, dannazione! Finalmente eccolo, di spalle. Vedevo solo i suoi capelli neri, il collo bianco. Spiccava in mezzo alla calca, soprattutto per la sua altezza. Gli altri due erano manichini sbilenchi. Si stava infilando in un porticato su cui era inciso “Università”. «Volevo parlare con te! Solo questo!» ma lo dissi a bassa voce, a me stesso, mentre rigiravo la mia moneta tra le dita. L’annusai: profumo di lavanda. Profumo di ricchezza. Profumo di balli con gonne vaporose e corde di violini.

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