Tzirighetta

di VelenoDolce
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ritorno ***
Capitolo 2: *** Dose ***



Capitolo 1
*** Ritorno ***


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Mi siedo sul muretto di pietre e sospiro. Da quanti anni non venivo più qui, quante cose sono cambiate in me. Guardo la pineta oltre la strada. L'ultima volta che sono stato qui era estate, ricordo il grano maturo nel campo e le urla di noi bambini. La corsa nella pineta per andare a vedere il puledrino appena nato. Allora ridevo spesso. Ora non ho più nulla per cui ridere. Sono partito quando ero un bambino, ora che sono un uomo sono tornato, ho sempre la mia valigia di cose vecchie, le foto sono solo aumentate e i vestiti si sono ingranditi, ma continua ad essere sempre una valigia di perdita. Alzo gli occhi al cielo limpido del pomeriggio. Ero solo quando sono partito per raggiungere mio padre, sono solo ora che sono tornato per seppellire mio nonno. Cosa dovrei fare adesso? Restare qui o tornare in un paese che non reputo mio e in cui non ho più nulla?

Sospiro e salto dal muretto, la strada mi sembra sempre la stessa, l'avranno asfaltata negli ultimi vent'anni? Ne dubito. Mi sembra di essere tornato bambino quando giocavamo con i miei cugini e i pochi amichetti che venivano, come noi, a trovare i nonni in campagna. Entro nella pineta, me la ricordavo più spaventosa, più pericolosa, ma in fondo avevo solo otto anni, ora ne ho quasi trenta e ho perso i miei sogni di bambino.

Ho perso il mio migliore amico, il piccolo Marco, con cui facevo sogni e correvo a perdifiato tra questi alberi. Ricordo le nostre promesse di bambini: ti scriverò; verrò a trovarti... ci sposeremo. Ora rido a quella affermazione, ma allora ci credevo. Eravamo innocenti, non sapevamo nulla del mondo. Un mondo che mi è sempre crollato sotto i piedi. Accarezzo la corteccia di un albero, sento il profumo della resina. Chi voglio prendere in giro domandandomi cosa farò? Il mio cuore ha già deciso. Amo questo posto, il suo profumo, il calore, l'aria limpida.

Ritorno indietro, prima di entrare dal cancello mi volto a guardare il sole tramontare sulle campagne. Domani c'è il funerale, poi devo cercare un impresa per sistemare la vecchia casa, non so se questa o quella del paese. Dove sarà meglio vivere? Quando entro in casa mi accoglie la lenta litania funebre, il pianto delle donne che, da secoli, accompagna i defunti. Non ho pagato nessuna, ma sono venute lo stesso, in onore di 'tia' Maria, hanno detto, mia nonna teneva a queste tradizioni. Domani piangeranno e urleranno per un uomo che le ha sempre trattate come inferiori, ma in fondo loro sanno che era solo una copertura la sua, un modo di fare tramandato dalla cultura contadina che ancora aleggia in questo paesino del nord Sardegna. Come quando, da piccolo, mi metteva sul suo cavallo e diceva: così si cresce un uomo, non sui libri. Era un uomo di altri tempi, che non saprà mai cosa è suo nipote.

Vado nella camera che hanno sistemato per me, quasi uno sgabuzzino. Apro la mia valigia, accendo il pc, controllo le mail. La mia ex ci tiene a farmi sapere che è dispiaciuta per mio nonno, perchè non l'ho raggiunto. Fino a quando era lei a tradirmi tutto andava bene, ma quando ho dato un bacio a un tipo di cui ora non ricorderei manco l'esistenza, se non fosse per lei, è andata in bestia. Ho cercato di spiegarle che ero talmente ubriaco da non ricordare nemmeno il mio nome, ma lei continua ad augurarmi la morte. Per fortuna non eravamo sposati, non avrei sopportato un divorzio senza fare qualche gesto stupido, tipo cercare di strangolarla. Mi sdraio sul letto, chiudo gli occhi, sono stanco.



Vengo svegliato dal suono del cellulare, quasi cado dal letto per prenderlo e rispondere assonnato, ma l'interlocutore ha già riattaccato. Non conosco questo numero, poi lo chiamo, magari quando torno nel mondo dei vivi... Ci sarà del caffè? Mi alzo e barcollo fuori dalla stanza, alcune donne mi guardano e sorridono. Riesco ad arrivare fino al bagno, l'acqua fredda sul viso mi sveglia abbastanza per non barcollare fino alla piccola cucina.

“Tino?” Una donna bellissima mi sorride, spalanco gli occhi, è così simile a mia madre che non ho dubbi di chi si tratti, anche se l'ultima volta che l'ho vista aveva dieci anni.

“Manu.” Dico sorridendo, lei mi abbraccia. Il suo profumo è fresco, sa di mare.

“Quanto tempo... stai benissimo.”

“Mi sento uno straccio, c'è del caffè? Magari mezzo litro...” Sbuffo appena quando mi guarda e ride.

“Ti ricordo che sei in Italia, il caffè, c'è, ma non so se sei abituato a questo.” Lei prende una caffettiera minuscola e versa il liquido scuro in una tazzina.

“Zucchero?” Domanda prendendo un cucchiaino, annuisco.

“Credo di non ricordare nemmeno più che sapore abbia.” Prendo la tazzina, il profumo è magnifico, spero solo che riesca a svegliarmi.

“Devi cambiarti, la messa funebre è tra un ora, quelli dell'impresa arriveranno a minuti.”

“Ho dormito così tanto?” Guardo l'orologio appeso al muro, è fermo. Scuoto appena la testa, bevo il mio caffè, che mi conferma che è una delizia completamente diversa da quello a cui ero abituato in America.


Davanti alla chiesa mi sistemo la giacca, la messa sembrava non voler più finire, ora si và nel cimitero. Mia cugina è rimasta vicino a me, una gentilezza che non avrei mai trovato in America. Qui tutti mi fanno le condoglianze, alcuni mi dicono chi sono, sopratutto parenti, che posso fare se non annuire e ringraziare? Sono talmente tanti che non mi ricorderò di nessuno di loro.

“Manu, c'è Marco, lo devo mandare via?” Franco, il fratello minore di Manuela si avvicina e lo dice infastidito.

“Lascialo stare, magari pensa di chiedere scusa in questo modo.” Lei sospira e mi guarda.

“Ricordi il figlio dei vicini di tiu Juanni?” La guardo senza capire, poi ricordo che mio nonno è fratello del suo, quindi per lei è zio... Sussulto appena, Marco? Annuisco.

“Alcuni mesi fa è entrato nei campi con il trattore del padre, ha distrutto mezza coltura. Zio e nonno erano furiosi. Lui era completamente fatto. Almeno oggi è sano?” L'ultima domanda la fa al fratello, che annuisce con un sospiro.

“Penso sia malato, è un'ombra, ancora peggio di prima.” Franco indica vagamente verso qualcuno che non riesco a distinguere tra le altre persone. Vorrei vederlo, vorrei ritrovare il bambino che era un tempo, che ero. Ma se si droga sarebbe meglio non rivederlo, non infrangere il bel ricordo di quel bambino biondo e allegro che vive nella mia mente.


Chiudo gli occhi, silenzio. Che bello. Sospiro e mi guardo attorno. Questa sarà la mia casa? Domani chiamo un impresa. Cambiare le finestre, mettere le luci esterne, sistemare il muro di cinta... Mi fermo in mezzo al salone, domani, non ora. Prendo una delle sedie della cucina, sono ancora le stesse di vent'anni fa, forse anche di trenta. La porto fuori, nell'aia, come facevano gli adulti quando ero ancora un bambino. Mi siedo al tiepido sole di fine ottobre. La casa ha il riscaldamento? Mi viene il dubbio... c'è il camino, ma nessun termosifone. Domani controllo tutto. Mi guardo attorno, poche cose sono cambiate, ma tutto sembra molto più piccolo di come ricordassi. Con la coda dell'occhio lo vedo arrivare. Un ragazzo alto e magro, si ferma accanto al cancello, ma non entra. Per un po' fingo di non accorgermi della sua presenza, sarà Marco? Il cuore mi batte leggermente più forte.

“Ciao.” Gli dico, lui sussulta, ma non risponde.

“Chi sei?” Domando ancora senza esito. Mi alzo, avvicinandomi a lui. Ha un bel viso, ma è davvero troppo magro, sembra tremare appena.

“E' da una vita che non venivo qui, mi mancava questa serenità, questo silenzio di campagna.” Mi fermo a pochi metri da lui, che mi guarda in modo strano.

“Devo riabituarmi all'Italia.” Sorrido e tendo la mano.

“Ti va un caffè?” Non è che non può parlare? Lo vedo mordersi le labbra, incerto, ma poi annuisce appena. Lo precedo in casa, portando indietro la sedia.

“Oh...” Mi fermo guardando le parti smontate della piccola caffettiera.

“Non ho idea di come si usi, tu lo sai?” Mi giro verso di lui, che è rimasto sulla porta della cucina. Si avvicina senza un fiato, le sue mani tremano talmente che penso che gli cadrà tutto, prepara in fretta la macchinetta e la mette sul fornello. Guarda ovunque tranne che verso di me, non capisco questo atteggiamento.

“Ti ricordi di me?”

Sussulto a sentire la voce incerta di Marco, sembra così fragile, come il suo corpo.

“Certo, sono ricordi preziosi.” Sorrido appena, lui si stringe il bordo del maglione.

“Mi impedivano di rispondere alle tue lettere.” Marco si toglie la borsa che aveva a tracolla e me la mette tra le mai.

“Leggile.” Mi guarda per la prima volta negli occhi, i suoi sono pieni di lacrime e rossi. Poi fugge via. Lo guardo superare il cancello dalla finestra della cucina, io sono rimasto fermo con quella cosa tra le mani. Il gorgoglio del caffè mi fa muovere, spengo il gas e me ne verso una tazzina. Apro la borsa, ci sono dei quaderni.

Per anni Marco mi ha scritto. Inizialmente erano le risposte alle mie lettere, risposte che si rifiutavano di fargli spedire. Quando io ho smesso, dopo un anno, lui ha scritto a me come al suo confidente. Quando finisco di leggerle tutte sono ormai le cinque del mattino, ho un tremendo mal di testa e gli occhi rossi dal pianto. C'è un numero di telefono nell'ultima pagina, una frase sotto di esso.

'Chiamami, se vuoi.'

Se voglio? Dopo tutto quello che ho letto vorrei fare ben altro...

“Pronto?” La voce che mi risponde è flebile e triste, ma non assonnata, lui non dormiva, aspettava, forse pregava, probabilmente piangeva.

“Vieni qui.” La mia voce sembra così sicura rispetto alla sua.

“Davvero?” Sussurra appena, incredulo.

“Verrei io da te, se non fossi certo di perdermi.”

“Arrivo.”

Sento dei rumori, la conversazione si chiude. Marco, il mio Marco, sta per raggiungermi.


**


Eccomi con una cosina ina ina per un piccolo contest sulla pagina fb EFP Fandoms. Il prompt lasciatoci era: 'perdersi e poi ritrovarsi'. Ne è nata una storia, il primo capitolo partecipa al contest, quelli dopo non so che farne, ma si stanno scrivendo da soli e pare brutto fermarli ^.^

Il titolo è una parola in lingua sarda, nel dialetto portotorrese e vuol dire lucertola. Tia e tio sarebbero zia e zio, non ho sbagliato a scrivere, qui chiamare gli anziani zii è una tradizione, un gesto di rispetto. Una cosa tipica è anche chiamare i cugini di secondo e terzo grado semplicemente cugini, Manu e Tino non sono cugini stretti ma figli di due cugini.

Spero sia tutto chiaro u.u nella mia testa lo è...

A presto

Veleno


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Capitolo 2
*** Dose ***


Lui è tornato. Ho visto quando è sceso dalla macchina, com'è cambiato, cresciuto... è bellissimo. Nascosto tra i pini l'ho guardato entrare in casa, poi uscire e sedersi sul muretto. Avrei voluto urlargli 'non sederti sul muretto a secco, crolla!' come facevano le nostre madri, zii, tutti. Ma sono rimasto fermo, senza fiato, senza parole. Il cuore mi fa male a vederlo, a saperlo così vicino e così lontano.

Stringo i pugni, lui è solo al di là di un vetro. Sono sicuro che non si sia nemmeno reso conto che da fuori si vede tutto. Sono nell'ombra, nascosto, nel posto che mi spetta. Sono un disadattato, un reietto, un rifiuto. Lo guardo sbadigliare e sdraiarsi, vestito, sul piccolo letto. Poggio una mano sul vetro, è così vicino, ma non posso fare nulla, la gola mi fa male, non esce più voce. Un rumore, una delle donne entra in camera e mi vede. Fuggo via. Non voglio che lui si accorga di me. Sarebbe meglio che ricordi il bambino che ero. Il piccolo che correva con lui nella pineta. Il bambino che diceva di amarlo e che aveva fatto tante promesse perse nel vento.

Le mani tremano mentre preparo la mia dose, il mio veleno. Mi tolgo il maglione troppo pesante per questo clima ancora caldo, ma che mi serve a non pensare a quello che c'è sotto. Alle mie braccia orribili, al mio petto scarno, alle costole visibili attraverso la pelle.

Se sono fortunato andrò in overdose e morirò. Libererò mio padre dal peso della mia sconfitta. Guardo la mia camera, ormai nessuno entra più qui. È sporca, disordinata, squallida. È come me.


La luce che entra dalla finestra è fastidiosa, mi stringo nelle lenzuola, cercando di nascondermi. Inutile, come tutto quello che faccio. Sospiro. Vado in bagno, il mio riflesso fa paura anche a me. Un morto che cammina. Mi tolgo pantaloni e slip, entrando sotto la doccia. Ieri devo aver fatto un casino con la siringa, quasi non sento più il braccio, e sono macchiato di sangue. Mi lavo con acqua fredda, perchè mi punisco in questo modo? Infilo qualcosa di pulito, devo andare al funerale. Spero non mi caccino. Vorrei dire a tutti che lui mi ha perdonato per avergli rovinato il campo, che aveva sospirato e mi aveva offerto un mirto quando ero andato a chiedere scusa, quando mi ero inginocchiato piangendo per aver dato fastidio al nonno del mio amore infantile. Lui aveva capito, forse. Era l'unico che aveva veramente capito tutto questo. O forse è solo una mia pia illusione. Non gli ho mai chiesto, non mi ha mai detto nulla.

Mio padre mi guarda male quando entro in cucina e preparo il caffè. Sono il suo più grande fallimento, lo so anche se ha smesso di dirmelo ogni giorno. Ormai sono anni che nemmeno mi parla più. Si limita a guardarmi. Mi sforzo di mangiare qualcosa, non posso rischiare un altro collasso, non oggi. Lui esce per andare nei campi, il suo mondo, non mi ci ha mai voluto. Lo guardo dalla finestra mentre fa partire il trattore, un altro giorno per lui, un altro inferno per me. La foto di mia madre sul ripiano del telefono mi ricorda che almeno qualcuno mi ha voluto, anche se è morta quando ero poco più di un bambino ricordo sempre il suo calore, i suoi abbracci, le carezze. Bevo il caffè, pulisco la cucina.



Guardo i dieci euro nelle mie mani, non sono abbastanza per una dose, non importa. Cammino per il paese, la gente mi evita. Cosa mai gli ho fatto? Sono un drogato, e allora? Faccio del male solo a me stesso, non a loro. Eppure tutti mi scansano, come se avessi una malattia contagiosa. Guardo la moto, dovrei venderla e comprarne un altra. Questa mi ricorda sempre lui e il mio declino. Nel portachiavi c'è ancora il suo pendaglio con il nome. Fabio. Quello che credevo un amico, che ha spezzato la mia anima e il mio corpo in maniera definitiva. Sono passati due anni ormai, e ancora non riesco a dimenticare. Il dolore fisico, il dolore al cuore. Mi fidavo di lui, gli avrei lasciato fare tutto quello che voleva, se solo avesse chiesto. A volte lo sogno ancora, mi sembra di sentire la corda legata ai miei polsi, la sua risata isterica, la sua voce. È morto quella stessa notte, di overdose. Troppo egoista per dividere in parti uguali ha finito per prendere quasi tutto per se. Forse era voluto, forse no. Nessuno mi avrebbe creduto, anche denunciandolo non gli avrebbero fatto nulla. Invece trovarono me che deliravo in preda alla febbre dopo due giorni nudo in quella casa fredda e il suo cadavere poco distante. Ho visto le mie foto postate sui social, sono stato insultato, offeso, cacciato dai negozi peggio di un cane. Mi hanno detto che lo volevo. Come può una persona voler essere legata, picchiata e violentata?

Guardo il portachiavi nella mia mano, vicino al segno della corda e sospiro. Anche questo è un modo per punirmi.



I quaderni, sono tutta la mia vita, tutto quello che sono. Voglio davvero darli a lui? Una piccola lacrima mi scivola sulla guancia. Stringo le mani a pugno. Sì, voglio.

Come sono arrivato qui? Non lo saprei dire. So solo che sono poggiato al cancello e lo guardo, si sarà accorto di me? O sono trasparente per lui come per tutti? Mi guarda , un brivido mi corre lungo la schiena. La borsa pesa sulla mia spalla più di quanto dovrebbe, è solo una mia illusione il suo sorriso? Tremo. Non riesco a smettere, sono quasi in crisi di astinenza ormai. Lui mi parla, ma io ho paura di rispondere. Può vedere quanto sono sbagliato? Quanto sono marcio?

“Ti ricordi di me?” Se mi avesse dimenticato?

“Certo, sono ricordi preziosi.” Sono prezioso solo nei ricordi, non adesso. Chi potrebbe ritenermi prezioso ora?

“Mi impedivano di rispondere alle tue lettere.” Cerco di non piangere, mi tolgo in fretta la borsa, il movimento mi manda una fitta al braccio, è tutto il giorno che sanguina.

“Leggile.” Quasi lo supplico. Alzo gli occhi e mi perdo nei suoi, sono ancora dorati come erano da bambino.

Corro via. Quasi non vedo dove vado, ma non importa. Inciampo e cado, gli aghi di pino mi graffiano le mani. Singhiozzo. L'ho fatto. Gli ho davvero dato tutto me stesso. È un sogno e un incubo insieme. Se mi odiasse? Se mi usasse come... stringo le braccia al petto. No! Lui non mi farebbe mai una cosa simile. Prendo il cellulare.

“Hai tutti i soldi, stavolta? Non accetto pagherò.”

“Ti prego, ho bisogno...” Parlo tra i singhiozzi.

“Se vuoi la dose devi pagare, per una volta potrei anche accettare in natura, che dici?”

Il cellulare mi cade dalle mani, lo sento ridere mentre singhiozzo. Non posso farlo, non voglio che qualcuno mi tocchi.


Entro a casa barcollando, ho la testa pesante, i tremori, passerà, in fondo non ho scelta. Papà è seduto sul divano, mi guarda e un ennesimo singhiozzo mi sfugge dalle labbra. Si volta, ritornando a seguire il programma tv. Anni fa mi sedevo con lui nonostante gli insulti. Ora ho paura che possa tentare di toccarmi. Mi sento le gambe molli, devo reggermi al mobile per non cadere. Il mio sguardo si posa sul suo portafoglio, sul ripiano. Sarebbe facile prendergli i soldi per una dose. Stringo i denti, qualche altro passo e potrò sdraiarmi sul mio letto.

Arrivo in camera e chiudo piano la porta, sento mio padre che si alza, starà controllando se gli ho rubato i soldi? Vorrei poter dire che non ho mai rubato, ma mentirei. L'ho fatto. Non sempre, ma non è una scusante. Mi butto sul letto ancora vestito.

Tino starà leggendo le mie parole? Starà giudicando la mia vita come il fallimento che vedono tutti? Mi sento stanco, sfinito. Piangere è l'unica cosa che riesco a fare. Scuola, amici, tutto quello che ho cercato di fare è finito in dolore. Ed è stata colpa mia. Non sono stato abbastanza, in nulla. Solo nei miei ricordi di bambino trovo il suono della mia risata, sempre insieme alla sua. Tremo appena dal freddo, è reale o è la mia mente? Non importa.

Non riesco a dormire, non riesco a chiudere questa giornata di agonia. Mando un messaggio al mio spacciatore, 'trovo i soldi se mi porti una dose', non risponde, sono le quattro del mattino e io sono ancora qui a rigirarmi nel letto e a piangere, come l'idiota che sono, per una stupida promessa fatta quando ero un bambino di soli otto anni. Ma per me quella promessa era tutto. Lo è ancora. Era un sogno, era una speranza, era la perfezione. Lui è cresciuto, probabilmente ha qualcuna da qualche parte, si sarà dimenticato di quella promessa. O l'avrà presa per quello che era, il piccolo sogno di un bambino. Riprendo a singhiozzare, ho perso tutto.

Il suono del cellulare mi fa alzare il viso dal cuscino ormai bagnato.

“Pronto?” Sarà lo spacciatore? Vorrei solo farmi e dimenticare.

“Vieni qui.” La voce di Tino mi fa mancare il fiato.

“Davvero?” Chiedo incerto, è solo un sogno?

“Verrei io da te, se non fossi certo di perdermi.”

Sorrido tra le lacrime immaginandolo vagare per la pineta a due metri dal sentiero.

“Arrivo.” Sussurro. Mi alzo, ma le gambe non mi reggono, cado. Ansimo appena. Devo andare da lui. Mi vuole parlare. Non so di cosa, non so perchè. Farà male, ma almeno finirà la mia inutile speranza. Scendo di sotto, papà si è addormentato ancora alla tv, lo copro con una coperta e mi azzardo a sfiorargli piano il viso.

Ho deciso, in cuor mio so che oggi è la fine. Quando Tino mi allontanerà andrò dallo spacciatore, gli lascerò fare quello che vuole per due dosi. Poi potrò smettere di soffrire.


**


Ok, forse sono scivolata un po' nell'angst... giusto un pochino... E' che questo personaggino era così carino e coccoloso che dovevo fargli male. Ero partita con un'idea più leggera, ma. Marco ha preso il sopravvento e siamo scivolati, inesorabilmente, in un mare di lacrime.

Spero che, dopo il primo capitolo, qualcuna sia passata anche nel secondo... e ci sarà anche un terzo, credo.

A presto <3

Veleno

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