ILY

di Violinlock
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** NEL NES ***
Capitolo 2: *** EVJ SAEV ***
Capitolo 3: *** SBS ***



Capitolo 1
*** NEL NES ***


Erano seduti sulle loro poltrone. 
"Importante" disse John. 
Sherlock aveva appena chiesto a John quale parola potesse definire la loro relazione. 

John era in uno stato comatoso di pensiero, il suo sguardo puntato verso Sherlock. 
"Sicuro?" disse allora Sherlock. 
"Oh, ma che diavolo vuoi dire?" commentò l'altro, alzando le braccia e lasciandole penzolare in aria. Quando vide che Sherlock non rispondeva, le lascio ricadere sui suoi fianchi. Fianchi meno spigolosi di quelli di Sherlock, pensò guardando quelli dell'amico. Puntò di nuovo lo sguardo verso Sherlock.
"Voglio dire che ci sono altre mille parole per descrivere la nostra amicizia." 
"Tenendo conto di che cosa?" 
Sherlock mosse la sua faccia verso l'alto e verso destra, un sorriso ad incorniciargli il volto. "Condivisa, familiare, sottointesa." 
"Sottointesa." John annuii basito.
"Quell'amicizia che viene scambiata per amore da chiunque." 
"Non proprio da chiunque." 
Sherlock lo guardava e non rispose.
"Benevola, beneficiaria." 
John lo interruppe di nuovo. "Beneficiaria?"
"Lavoro, John. Per il lavoro. Cosa credi che dica, scusa? Io non sono un uomo dai facili doppi sensi in situazioni in cui si sta parlando di tutt'altro. Perché... Perché devo dirti cose così? Perché vai a pensare questo?" elencò Sherlock.
John per poco non distolse lo sguardo, ma alla fine non lo fece. "Non credi tu stia esagerando? Era solo una domanda" commentò John.
Sherlock per poco non alzò gli occhi al cielo, ma si trattenne e mantenne il contatto visivo.
"Apprensiva."
John voleva intervenire, ma non lo fece. Si strinse la labbra tra sé.
"Comunitaria. La casa, eccetera. Non pensare male. Pensi sempre male."
John alzò le mani al cielo. "Non ho detto niente" esclamò tranquillo, un piccolo sorriso di frustrazione ad incorniciargli il volto. 
"Molto simile all'amore." 
John scrutò Sherlock e Sherlock fece altrettanto. 
"Vuoi dirmi qualcosa?" interruppe dopo un po' il silenzio l'artefice della frase. 
John lo guardò ancora, ma poi distolse lo sguardo. Sospirò. "No." Poi ci ripensò. "Anzi, sì." Ritornò a guardare l'amico. "Cosa significa per te la parola appena pronunciata?" Indicò passivamente con la mano e la faccia e il viso qualcosa sotto Sherlock per fargli capire meglio.
"Qualora non lo sapessi... Sentimento di viva affezione verso una persona che si manifesta come desiderio di procurare il suo bene e di ricercarne la compagnia. Sentimento che attrae e unisce due persone, e che può assumere forme di pura spiritualità, forme in cui il trasporto affettivo coesiste, in misura diversa, con l’attrazione sessuale, e forme in cui il desiderio del rapporto sessuale è dominante, con carattere di passione, talora morbosa e ossessiva; comune a tutte queste forme è, di norma, la tendenza più o meno accentuata al rapporto reciproco ed esclusivo. Poi c'è il Dio Amore... " 
"Ma cosa dici?" sussurra allora John guardando Sherlock parlare del Dio Amore.
Sherlock lo guarda. "Niente" dice, il suo viso spigoloso che si muove in un piccolo tic guardando John. "Dedizione, seduzione... " 
"Seduzione?" 
"Empatia amorosa, vigilanza dell'altro, affetto, apprensione, visi che si guardano."
"Ma stai cambiando... " John si interruppe. "Cosa. Stai. Dicendo?" pronunciò lento, il suo viso appena confuso e desideroso di risposte. 
Sherlock guardò la mano di John muoversi appena. "Mano che tocca la clavicola, sguardo degli occhi che si avvicinano sempre più, occhi chiusi, schiocco, sospiro, nasi che si sfiorano, solletico piacevole, occhi aperti, posizione vicina... "
"È questo cosa è?" 
"Quello che la nostra amicizia vuole." 
"Ma sei ubriaco?" chiese John.
"No" fece un diniego lui. "E tu? Tu sei sempre la stessa persona che mi ama? Almeno nei miei sogni?" 
John abbassò lo sguardo appena sentì calore sulle guance, Sherlock lo notò - un primo piano su di lui.
Annuì. "Sì" disse, guardando Sherlock e poi alzando sempre più lo sguardo. Il tetto della casa mancava. "Sto sognando" disse, e poi tutto si tramutò in qualcosa di confuso e poi nero, o quasi. 
John sussultò, vide Mary accanto a sé, occhi semichiusi. 
"Un incubo?" chiese la moglie fievole e seria.
Lui per una volta volle essere del tutto sincero, preso dall'evento appena trascorso e ancora vivo. "No, tutt'altro." 
Poi la baciò piano sulle labbra, poi sempre più forte, come voleva fare nel sogno appena vissuto, se non fosse che anche nei sogni lui è il restio della situazione. I sogni non sono reali, perché farsi congetture?, si chiedeva sempre. 
Rendilo tu, reale, John, pensò distrattamente, quei pensieri ad insinuarsi anche nella realtà, ma poi aprì gli occhi e la vide e sospirò affranto. 
Non era lui. 
Non era Sherlock. 
Forse sono i più bei sogni ad essere incubi, perché irraggiungibili. Non era neanche un sogno, perché non era suo. Non era di nessuno, Sherlock Holmes.

Ps. Definizione di AMORE presa da Treccani Online.
NEL NES (non era lui, non era Sherlock)

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Capitolo 2
*** EVJ SAEV ***


Si muoveva nella scena del crimine con questo dilemma: chi aveva rubato la tazza di thè che aveva in mano, e che successivamente aveva posato sul ripiano per andare subito a vedere il cadavere di un anziano bruciato, lasciandola là, a marcire incustodita?
"Ti avevo detto di stare qua." 
"Ed invece ti ho seguito" gli rispose John.
Lo guardava, felino e disinvolto, abbastanza stupido se a vederlo era una parte esterna, non influenzata dai pensieri che assillavano John Watson. 
Ok, era un uomo fatto. 
Non poteva essere così insicuro e testardo da nascondere qualcosa che in quel momento voleva dirgli. 
"Ti ho sognato" sussurrò.
Sherlock si muoveva ancora sul posto. "Cosa hai appena gracchiato? Non ti ho sentito" disse.
"Sherlock, guardami." 
Era una cosa importante, per il dottor John Watson. Davvero, davvero importante. Aveva tenuto nascosto per mesi sogni del genere, e adesso voleva rivelarli. Voleva rivelarli perché era questo che doveva fare per non sognarlo più. Più ci si mette in testa una cosa, più si finisce per sbagliare, per mandare tutto a rotoli. E lui non voleva parlargli, era testardo su ciò, e questo valeva a dire che ne stava subendo le conseguenze. Secondo il ragionamento di quella giornata, più che altro.
"Che c'è?" uscì fuori dalle labbra di Sherlock, la voce e il viso, appena si girò, svogliati.
"Hai mai sognato noi due... " Chiuse gli occhi, John Watson. "In discorsi intimi." Che stava dicendo? Si spaventava delle sue stesse parole. Doveva finirla, doveva finirla. Amava così tanto Mary. La amava. Ok, poi non così tanto. "Ma cosa... ?" commentò allorché dei suoi pensieri.
"Sei ubriaco?" esordì Sherlock. Se prima il suo viso era rimasto lo stesso, ora reclamava di saperne di più. La sua faccia divenne interoggativa.
"Vuoi solo cambiare discorso, lo so." John si alzò.
"Che vuoi dire?" 
"Oh, sei tu quello che non si fa capire" commentò.
"Quindi... Tu ti fai capire? Cioè, io dovrei capirti, giusto?" 
John annuii. "Ma io non sto dicendo niente, quindi che dovresti capire?" 
Sherlock annuii. "Interessante." 
"Ottimo punto d'approccio" disse invece John.
Risero nello stesso istante. 
John non aveva detto niente a Sherlock, e per una volta fu sollevato dal menefreghismo dell'amico.

"Sono spaventato." 
"Di cosa?" Victor Trevor entrò in stanza. 
"Della sintonia che c'è tra me e John." 
L'amico corrugò la fronte, si sedette di fronte a Sherlock dopo aver posato il thè.
"Davvero? C'è sempre stata" commentò l'altro.
Sherlock lo guardò. "E tu che ne sai?" 
"Ne parli tutto il tempo" sussurrò disinvolto.
"Non è vero" disse un po' a disagio Sherlock.
"Sei coinvolto." 
"Improponibile scelta di verità." 
"Oh" gracchiò l'amico. 
Non parlarono per un bel po', poi Sherlock prese parola. "È una cosa assurda. E non chiedermi cosa. Chiedimi piuttosto: perché?" 
"Perché cosa?" Victor posò il mezzo biscotto e andò in avanti con il corpo, appoggiandosi sulle sue ginocchia con i gomiti.
"Essendo un uomo razionale, non dovrei pensare a ciò. Lui è mio amico."
"Che male c'è nel cambiare approccio?"
"Non c'è nessun approccio, Victor." 
"Ma... " 
Sherlock chiuse a chiave gli occhi. "È vero, sì." 
"Sei agitato" commentò allora Victor Trevor. C'erano due Sherlock agitati: quello che parlava, e quello che se ne stava abbastanza zitto. Quale era peggio, ancora non l'aveva capito. 
Strinse gli occhi. "Non è vero. Voglio solo capire." 
"Capire quello che già sai." 
"Forse."

John era di nuovo in un sonno agitato. 
Sognò, e quasi se lo aspettava. Aveva detto una mezza cosa sullo stesso fatto a Sherlock, i suoi sogni dovevano costruirci un episodio sopra. 
Erano lui, Mary e Sherlock. Dietro di loro, il 221 B di Baker Street, quella casa che lo aveva ospitato per un paio di anni. 
Sherlock stava dicendo qualcosa, ma lui non capiva. Mary lo guardava tranquilla, ma poi diventava seria, il suo sguardo si induriva, guardava John. 
Cambio di luogo ora. E di prospettiva. 
Erano solo Sherlock e Mary, in un vicolo buio che era familiare per John. Sopra, un arco di mattoni a dipingere una certa strada piccola, e poi più in là una porta verde, una porta verde che era anche una finestra più lunga, che raffigurava due doppie finestre di legno colorato verde con le persiane. 
Sherlock nel sogno diceva qualcosa. Non ricorda cosa.
Rimaneva da solo, senza Mary. Diceva qualcosa. Ancora John non riusciva a capire cosa. Il suo viso sempre più vicino ad una telecamera immaginaria, e poi guardò proprio diritto alla macchina. Guardò John. Ora John si vedeva. C'era una nuova prospettiva, i loro corpi vicini nella serata fresca. Tirava freddo, infatti. A Sherlock si muovevano i capelli, e fluttuavano. John ne aveva di meno, sempre più che negli anni passati, e l'aria entrava dentro la testa quasi. Il piccolo ciuffo che possedeva tirato indietro era immobile, più laccato dei capelli stessi, per tenerlo fermo e non finire sulla sua fronte.
Poi Sherlock si avvinava a John per farsi sentire meglio.
"Ami mai Mary per quello che è? Forse nel modo sbagliato. La ami perché la trovi intrigante, perché ti piace come persona. Ma chi ami veramente? Chi vorresti al tuo fianco? Sicuro sia lei? E allora perché questi dubbi?"
John pensava, dall'esterno della situazione, cioè quello che sognava, a che cosa fosse successo ai capelli. Tutti laccati, anche se minimamente. Era un sogno, la consapevolezza entrò e distrusse quelle piccole briciole di pensiero sulla verità imminente anche nella realtà. Erano ad un evento di gala, si accorse. C'era gente dietro Sherlock che usciva da quella porta di prima, quella verde. Si avvicinava a lui, e diventava sempre più scura, con più ombre che si coagulavano. 
"Sherlock!" urlò. La consapevolezza che erano degli zombie si impossessò di lui, entrò dentro esso stesso, ed anche se nel profondo sapeva fosse tutto solo un sogno, si spaventò ugualmente che fosse doloroso - fosse doloroso essere attaccati da una folla di zombie, fosse doloroso morire da essi stessi. Sapeva di non poter morire, eppure la paura era là, presente. Camminò all'indietro, camminò per due metri mentre trascinava l'amico Sherlock Holmes. Inciampò su una scarpa, e quella scarpa fece un rumore di patatina rotta, solo moltiplicato per tutta la convenzione per intero. 
"Sherlock" sussurrò. 
Sherlock era stato morso. 
Tutte quelle metafore lo condussero a pensare che in realtà non c'era nessuna metafora.
Ma... Se non c'era nessuna metafora... Quale era la verità? 
Si svegliò nuovamente, e in un attimo si accorse che piangeva. Delle lacrime scivolavano sulle sue guance goffe e piene. Accanto a lui, Mary dormiva. Sbatté qualche volta gli occhi, stanchi, molli, pesanti.
Sospirò. "Sherlock" sussurrò, il cuore quasi a mille.
È vivo, John. 
Sherlock adesso è vivo.
Se lo mise in testa, il cuore che si calmava piano piano, lentamente, mentre i suoi occhi si addormentarono, inaspettatamente, quasi subito. E con loro la testa, ed il corpo, ed anche la mente. Nessun sogno, e quando si svegliò già gli mancava sognarlo. 

EVJ SAEV (È vivo, John. 
Sherlock adesso è vivo.)

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Capitolo 3
*** SBS ***


"Ho letto una volta che gli antichi saggi credevano che nel corpo ci fosse un ossicino minuscolo, indistruttibile, posto all’estremità della spina dorsale. Si chiama luz in ebraico, e non si decompone dopo la morte né brucia nel fuoco. Da lì, da quell’ossicino, l’uomo verrà ricreato al momento della resurrezione dei morti. Così per un certo periodo ho fatto un piccolo gioco: cercavo di indovinare quale fosse il luz delle persone che conoscevo. Voglio dire, quale fosse l’ultima cosa che sarebbe rimasta di loro, impossibile da distruggere e dalla quale sarebbero stati ricreati. Ovviamente ho cercato anche il mio, ma nessuna parte soddisfaceva tutte le condizioni. Allora ho smesso di cercarlo. L’ho dichiarato disperso finché l’ho visto nel cortile della scuola. Subito quell’idea si è risvegliata in me e con lei è sorto il pensiero, folle e dolce, che forse il mio luz non si trova dentro di me, bensì in un’altra persona."
David Grossman - Che tu sia per me il coltello.


.
.

Era domenica.
John Watson e Sherlock Holmes avevano le loro sante ragioni per dubitare. Dubitare è una delle cose che riesce meglio al genere umano, delle volte è proprio il dubitare tutto il cruccio di un intera faccenda. Non è prendere una decisione, in primis è dubitare. E questo ci sta. 
John Watson era seduto sulla poltrona abituale, quella vicino a Sherlock. Sherlock se ne era andato di tutta fretta, quel pomeriggio. Aveva detto che ad un tratto doveva schiarirsi le idee. Che bello, "schiarirsi le idee" detto da uno che le idee le aveva sempre pronte. 
Comunque sia, era contento Sherlock non ci fosse, perché di mattina aveva avuto il suo daffare con pensieri che voleva scacciare. 

"Sentiamo, che pensieri hai avuto?" disse Sherlock.
Era sera, John se ne stava diritto davanti a lui, la visuale della cucina non più raggiungibile. 
"Accetto tu voglia aiutarmi, Sherlock, ma parto dal presupposto che questo qui è un sogno, principalmente un sogno" puntualizzò John.
"Vuoi sapere la definizione di sogno?" chiese Sherlock guardandolo. 
"Ah, davvero? Mi credi così stupido?" Le palpebre di John si avvicinarono a malapena tra le due sponde, la sua faccia seria accentuava il discorso.
"No, schiocco mio caro amico, la definizione reale, quella... "
"Definizione reale di un sogno" soggiunse allora John, sghignazzando un po' dentro e fuori, agitato dalla piega lunga e reale che stavano prendendo i suoi sogni.
"Roba da matti? No. La definizione psicologica di una cosa non la rende più reale di quanto in realtà sia la cosa stessa." 
"Sono restio a capirti, ma va bene." 
"Cosa pensi che stia facendo?" chiese dunque Sherlock. 
"Tu aggiungi e aggiungi parole su parole" commentò allora John Watson, sospirando interiormente. 
"Sto sviando? Non mi interessa." 
"Neanche a me." 
John si ricordò della prima volta che avevano cenato insieme. Quella volta in cui stavano aspettando dentro un locale l'indizio forse culminante di un loro caso. John stava mangiando, una candela appesa tra loro due, John chiese a Sherlock, nel silenzio generale, la prima domanda nata spontanea per approfondire lo studio della mente di quel  nuovo quasi amico - o quello che sarebbe diventato. Gli chiese se aveva qualcuno accanto a sé, fidanzato o fidanzata che sia.
Aveva pensato molto a quella sera, nelle notti in cui non aveva niente da fare per l'apatia dei suoi occhi a chiudersi. Si rifugiava in quello che Sherlock aveva detto. Aveva detto di non volere una persona al suo fianco, che era quasi sposato con il lavoro, che non si lasciava andare a sentimentalismi che per lui stesso erano inutili o quasi. In realtà, non lo aveva capito neanche tanto bene. Ognuno ha i suoi istinti, ognuno pensa ad altro, pensa sopratutto a quella cosa che nasce spontanea come un fiore in un prato, cioè il sentimento. Nasce, magari muore, ma nasce. Vive quel lasso di tempo, cresce la sua convinzione, e poi sempre sullo stesso prato nascono anche altro cose. Convinzioni. Convinzioni di paure, anche.
"A che pensi?" 
"Tu? Tu che pensi delle convinzioni?" disse allora John riferito a Sherlock, e lo stesso a cui si era fatta presente la domanda fece spallucce. 
Sherlock era sdraiato e non accennava a smuoversi dalla sua posizione fetate.
John annuii, Sherlock guardò la gamba di John e poi si spostò lo sguardo verso il comodino accanto a lui. Si sporse e prese il telecomando.
"Sai, l'amore è un punto cieco. Non sai mai se ci stai andando incontro, ma quando ci arrivi è perché volevi, ti si avvicini, e ora c'è questo muro. Un muro fatto dell'amore che provi e che ricevi. Fatto dall'amore. Ci sono cose che non ti passano più intorno, piccoli spazi ricreativi quasi sempre uguali. Ti senti quello stupido, in amore. Perché tutti si sentono stupidi, per un motivo o per un altro. È come quando due persone si guardano da lontano. Sanno chi sono, ma non sanno cosa possono diventare. Magari è solo una persona che ama l'altra, quindi fantastichi e basta. Magari tu provi un sentimento maggiore, magari magari magari. L'amore delle volte è aspettare. Non arriva subito, o arriva troppo presto, così presto che non lo capisci." 
"Stai forse delirando?" chiese John, ma capendo più o meno quello che Sherlock intendeva: convinzioni che lui ha. Convinzioni di paure? Lui aveva solo incertezze generali. 
"Le convinzioni sono e si basano su altre cose come incertezze e paure, a volte" continuò Sherlock, come quasi a leggere nel pensiero di John.
"Ok, ora stai proprio delirando" sospirò fuori Watson. 
"Decisamente" esalò Sherlock. "Come mai sei qui?" 
"Faccio ancora questi sogni e... " 
"Non sono uno psicologo. Fatti visitare da uno bravo, te lo dico sempre." Un piccolo accenno di sorriso spuntò sulle labbra di Sherlock. 
John sospirò. Come sempre. Sospirava troppo, a parer suo, e quando ci pensava non sapeva se amare o odiare quella cosa. Di sicuro era un suo modo di essere, o un vizio, o tutte e due le cose. "Sbagli."
"Su cosa?" disse Sherlock, alzò poi lo sguardo preoccupato.
"Su tutto. Non so con chi parlarne, Sherlock. Non saprei con chi parlarne. Ho paura di perderti, in questi sogni. Intendo, nei sogni."
"Cosa succede, in questi sogni, oltre questo? Mi uccidi? Mi odi? No, in realtà sarebbero extra sogni."
Ti amo. Ti amo e qualche volta ti perdo. Anche se non vorrei. "Non lo so, forse." Questa volta fu John ad esalare. 
"Questa forma di preoccupazione è sufficientemente normale, mio caro dottore John Watson."
John alzò gli occhi al cielo.
"Però... Una cosa è preoccupante."
John si incuriosì. "Cosa?" 
Sherlock alzò lo sguardo. "La frequenza. Non so se tu me ne abbia accennato - di solito tendo ad eliminare le cose sostanzialmente inutili ed inutilizzabili, ma... " 
Voleva dargli un pugno in testa, John. Così magari sarebbe stato più umano.
"... credo che sia qualcosa che fai da un bel po' di tempo, se me ne stai parlando. Credo più o meno un mesetto o giù di lì, se hai sognato quasi tutte le notti. Magari la cosa si è aggravata?" Lo guardò. "Sarebbe interessante, direbbe che tu stia diventando pazzo, sosterebbe che lo stai diventando sempre di più. Ogni giorni di più." Annuì sempre guardando John. "La domanda è: perché John Watson sta diventando un pazzo senza fine?" 
"Non fare lo stupido." 
"Altrimenti da due mesetti, ma con sogni irregolari. La cosa è che, John, o tu mi parli di una cosa fin dall'inizio - o quasi - o me ne parli più in là, quando essa ti preoccupa, quando non hai daffare che dirmela."
Esatto. "Non è vero."
Si guardarono, parlarono parzialmente con gli sguardi, John teso come una corda di violino, mentre lo guardava pensava a tutto il complesso fino ad ora, e pesava cosa accennargli, pensava così dentro di sé che per qualche secondo era come se vedesse ciò che i suoi sogni erano.
"Lascia stare" disse, aggiungendo una manata in aria ed un espressione più serena.
"Lasci sempre stare?" chiese Sherlock, guardando poi la televisione e distogliendo lo sguardo da John. Lo sussurrò.
"Sei tu che... "
Sherlock lo bloccò, guardava la televisione e parlava. "Ma non è questo il punto, non è questa la questione. Se tu vuoi risolvere qualcosa, non ti preoccupi degli altri. John, tu sei istintivo solo nei casi più estremi, ma questo lo è, eppure non accenni a parlarmene come si deve." "Perché questo... "
"È più personale? È un problema strettamente tuo?" 
Esatto. "No. È solo uno stupido problema che ti sto accennando."
"I problemi non sono mai stupidi. Lascia che lo siano e ti porteranno alla morte o, peggio ancora, allo sfinimento." Sherlock si portò allora le mani, unite, proprio sotto il mento. "Rinuncia, piuttosto. Se non vuoi più sognare, rinuncia a sognarmi." Poi fece una risata. "Oggi sono proprio in vena di dire cose."
Agli occhi di John, sembrò per un momento un cowboy poeta, che non sapeva neanche che pensiero fosse, accennato e linearmente suo. Il problema di tutto era: perché? Perché riattrarlo come un poeta, quando poteva esserlo John? In che modo lo ammirava? Da amico, da lodatore, da amante? Forse tutte e tre le cose. Un amante dei pensieri, pensò John. Non un fidanzato, solo un fido amante che apprezzava e basta. Punto. Stop. Però non ne era propriamente sicuro, perché c'erano pur sempre quei pensieri sullo stare insieme, più vicini, sentimentali, labbra che si intersecano. C'era pur sempre quel pensiero di loro due che stavano bene insieme, con i loro difetti, con le loro battute sempre più vicine, con parole che si sarebbero detti sotto il piumone, non per forza romantiche, ovviamente. Erano solo amorevoli e compresivi pensieri su Sherlock? Non ne era poi più sicuro. Era qualcosa di diverso.
"Tutto così complicato" disse.
"Non è vero." 
"È vero" replicò allora John. Non voleva lasciargliela vinta e libera. 
In che modo era vero? Forse nel modo che intendeva Sherlock. 
Ma, andiamo, lui non poteva rinunciare a qualcosa che lo permaneva, che lo assillava, non poteva forse mai rinunciare ad un problema. 

Passarono dei giorni, John non sognò più Sherlock, quindi fortunatamente non doveva più prendere spontaneamente l'argomento. 
Poi successe. Era giovedì, la signora Hudson stava preparando la colazione, ripetendo continuamente a Sherlock che lo stava facendo solo perché era felice di una chiamata fatta da John, John era corso verso la casa di Sherlock, con una specie di illuminazione senza senso e, pensava John, scontata. Almeno per loro due. Però la banalità delle volte è il meglio. 
"O può diventare la cosa peggiore che farai. Dimmi il da farsi. Cosa dobbiamo fare e perché." 
"Ho il repellente bisogno di baciarti" esalò John. Cercò di dirlo il più tranquillamente possibile. 
Sherlock rimase un attimo incredulo, poi si avvicinò a John, ed in un attimo la sua figura alta era sopra John e mandava una specie di calore che fece confondere John.  "Alzati" fece autoritario.
John lo fece, non sapeva come decifrare il tutto.
Sherlock fece spalline e gli offrì la guancia sinistra. 
"Cosa? No! Voglio baciarti prepotentemente in bocca!"
"No!" esclamò Sherlock. 
"Ah, nella guancia sì, ma nella boccuccia a cuore no..." John scosse la testa. "Mi deludi, consulente qualcosa." 
Sherlock lo guardò.
John sorrise. "Non volevo baciarti." 
"Ah, no. Stupido imbroglione" commentò Sherlock, facendo spalline.
"Cosa... L'avevi capito?" indagò John, serio. 
Sherlock annuì, sentenziando che era tutto vero. "Eccitazione, quindi hai risolto un problema. Signora Hudson, lei credeva fosse vero, giusto? Perché sarebbe stato più reale" dice, senza sapere la risposta della signora Hudson, il suo viso pensoso poi puntato a terra. 
"È mattina presto, sei reduce da un sogno. Il sogno o qualcos'altro ti hanno fatto venire qui perché pensi o pensavi che io fossi la causa di un tuo incubo."
"Sogno" disse John. Non voleva considerarlo come un incubo. "Credo possa bastare." 
"Il motivo, John. Credevi avessi un cruccio, sentimentale o no, nei tuoi confronti, vero? Ma questo è solo un tuo problema. Non sono io il problema." 
Quelle parole fecero appena rabbrividire John. Il tono, lo sguardo, la frase per intero in un contesto di quel tipo. Il genere di risposta che gli fece pensare a quanto Sherlock potesse tenere a lui. E se era solamente John lo stupido non ancora capace di distinguere quello che provava? Ma John era cosciente di qualcosa, era cosciente di un sentimento. Un sentimento più o meno importante, ma aveva paura. Forse non era quello che voleva, forse l'amore avrebbe rovinato irrimediabilmente o meno l'amicizia autoritaria che avevano. La loro amicizia era un miscuglio di autoritratto, senso del dovere, emozione controllata, consapevolezza descritta dal loro stare insieme. Non aveva mai avuto un amicizia del genere, non voleva perderla, non voleva andare veloce, più veloce della consapevolezza che ora si dipingeva sul suo volto. 
John Watson voleva baciarlo.
Lasciò ogni remora, e lo pensò con un sorriso. 
"Che c'è?" chiese Sherlock.
Poi si ricompose. "Sei buffo" disse serio, fin troppo serio.
John era stato predisposto a baciarlo. 
Ma non poteva fare qualcosa che non sapeva neanche che significato avesse. 
Non poteva ridurre tutto a quello. 
Pero lo fece, e quando lo fece divenne tutto un po' più chiaro.
Baciava Sherlock, annaspando nelle sue labbra, felice, riempito, sollevato, stomaco in subbuglio, mente ferma a loro, a quello che si stavano dicendo senza parlare, a quel punto nuovo. Si baciavano e si abbracciavano, indifferenti a nessun gesto reciproco, pieni di tutto.
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Hey, ciao. Non so cosa dirvi, questo capitolo esiste già da un pochetto, e finalmente l'ho concluso. E niente, spero piaccia, che abbia senso, che non so, dovevo mettere una terza cosa, ma non l'ho a portata di mano. Alla prossima! (spero presto). Che il buon senso sia con voi! (because con me non l'ho è XD).
SBS - Stava baciando Sherlock.

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