Oz Underground

di artemisia la fee
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La tempesta ***
Capitolo 2: *** I Munchkins ***
Capitolo 3: *** Lo Spaventapasseri ***
Capitolo 4: *** Il cimitero degli alberi ***
Capitolo 5: *** Il Boscaiolo di Ferro ***
Capitolo 6: *** Il Leone Codardo ***



Capitolo 1
*** La tempesta ***


Ciao a tutti, sono artemisia e sono elettrizzata da questo mio nuovo progetto a cui sto pensando da un bel po.

Il Mago di Oz è una storia che ho amato tanto fin da piccola, ma dopo averlo riletto da adulta ho iniziato a vederlo sotto una luce diversa e da quei pensieri è nato questo.

Spero vi piaccia XD

 

 

 

Capitolo I

La tempesta”

 

Dorothy aveva visto questa scena così tante volte, che ormai non le faceva più lo stesso effetto di un tempo.

Il cartellino di plastica col suo nome giaceva ai suoi piedi dove l'ennesimo capo, dell'ennesimo squallido pub in cui lavorava, la licenziava.

Senza il minimo risentimento, prese l'ultima busta paga che le era dovuta e se ne andò sbattendo la porta.

Da quando aveva lasciato l'università tre anni prima non era mai riuscita a tenere lo stesso lavoro per più di un anno.

Spesso si domandava di chi fosse la colpa. Sua o di tutti gli altri. Lei non si vedeva come tutti, in quel posto dimenticato da Dio nel bel mezzo del Kansas, la descrivevano.

“Dorothy Gale non farà nulla di buono nella sua vita” dicevano. “Cosa penserebbero i suoi poveri genitori se fossero ancora in vita”,“I suoi zii sono troppo buoni, a tenerla ancora in casa”

I suoi genitori erano morti quando aveva solo undici anni, da allora viveva con i suoi zii Emma ed Henry.

Una volta aveva trovato il coraggio di andarsene dalla casa degli zii. Aveva appena lasciato l'università, che si era pagata con i soldi che i suoi avevano messo da parte in vita, ma loro non l'avevano riaccolta con loro.

Così aveva cercato di lavorare per pagarsi una casa, e per un po di tempo ci era anche riuscita, solo che poi era stata licenziata ed era stata costretta a tornare dagli zii tra le suppliche e loro l'aveva riaccolta a malincuore.

I motivi per cui veniva licenziata erano sempre più o meno gli stessi. Aveva un temperamento troppo irascibile e non sapeva stare al suo posto.

La realtà era un'altra secondo Dorothy, questa era solo la storiella che si raccontavano tutti quei bigotti di paese. Perché se un cliente la molestava, faceva apprezzamenti inappropriati o le urlava volgari insulti, lei non restava al suo posto chinando la testa, ma rispondeva a tono, cosa che non era mai andata giù a tutti i suoi datori di lavoro.

Dicevano che era sbagliata, troppo diversa per integrarsi nella loro società. Che la pensassero pure come gli pareva, che la licenziassero da ogni posto in cui andava, lei non sarebbe mai cambiata per loro.

Fuori dal pub l'aria era fredda e tirava un forte vento, il cielo si stava lentamente tingendo di blu. Salì in macchina e si diresse decisa verso casa, guardando le immense praterie grigie e secche bruciate dal sole.

La casetta, che un tempo era stata una grande fattoria, ora era vecchia con la vernice tutta scrostata e non faceva altro che rendere deprimente tutto il resto del paesaggio.

C'era solo un'unica cosa che la rallegrava in tutta quella tristezza, una grossa macchia nera che correva incontro e le saltava addosso leccandole tutta la faccia. Era il suo cane Toto, un grosso golden retriever nero.

Gli zii non lo facevano mai entrare in casa, perché sporcava e rovinava i mobili, così Dorothy gli aveva costruito un grossa cuccia da un vecchio capanno.

“Ehi, Toto piano” rise cercando di togliersi il grosso cane di dosso “Ti sono mancata eh?” lui rispose abbaiando felice.

“Dorothy, sei tu?” urlò un voce e un'ombra si stagliò sulla porta d'ingresso, illuminando il giardino ormai buio.

Gli zii, erano quelle classiche persone che esprimono antipatia anche solo a guardarle. Ormai non più giovani, si erano lasciati andare come qualsiasi cosa da quelle parti. Erano tristi e scontrosi, come le praterie bruciate dal sole e la vernice che si staccava dalle pareti.

A volte Dorothy si domandava se le avessero mai voluto bene e se fossero mai stati felici. Forse un tempo, quando era piccola e cercavano di crescere quella bambina in lutto, comprandole giocattoli e vestitini colorati. Solo che la bambina non voleva giocattoli o vestitini, voleva la sua mamma e il suo papà, ma loro non erano o non volevano esserlo, così avevano lasciato la bambina a se stessa, lasciando che si chiudesse nel suo mondo, per dedicare tutto il loro tempo alla carriera lavorativa che li aveva resi così grigi.

La gioia che le aveva procurato Toto, svanì come un raggio di sole tra le nuvole. Iniziò a salire le scale del portico e superò la zia Emma che la guardò con aria truce.

“Come mai già di ritorno?” la rimproverò. Dorothy non la ascoltò e salì le scale verso la sua stanza.

“Ti hanno licenziato di nuovo, vero?” le urlò con sdegno dal fondo delle scale.

Dorothy si chiuse la porta alle spalle, isolandosi dalle urla degli zii. Prese uno zaino e lo riempì con qualche vestito, uno spazzolino e un pacchetto di sigarette. Indossò un maglione nero, una giacca di pelle e gli stivali, poi uscì di nuovo in corridoio.

Doveva andarsene, almeno per qualche giorno. Aveva un'amica a qualche città di distanza che l'avrebbe ospitata.

“Cosa stai facendo?” le chiese lo zio Henry “Te ne vai?”

Dorothy li superò e uscì' sul portico. Una folata di vento freddo e qualche goccia di pioggia le sferzarono il viso.

“Sappi che questa volta non ti riaccoglieremo”

“Questa non sarà più casa tua” aggiunse la zia.

Lei si fermò e si girò a guardarli. “Questa non è mai stata casa mia” urlò gelida.

“Andiamo Toto” disse al cane, che la seguì trotterellando. Salirono in macchina e partirono senza guardarsi indietro.

La notte era ormai completamente scesa e a parte qualche luce tremolante di un lampione non si vedeva nulla. Il cielo era coperto da uno spesso strato di nuvole nere che non lasciavano filtrare la luce di una stella o della luna.

Ben presto sul parabrezza iniziarono a cadere grosse gocce di pioggia e la strada sterrata di campagna si trasformò in un lago fangoso.

Un lampo rischiarò per un attimo il paesaggio e Toto gli abbaiò contro con il muso schiacciato contro il finestrino.

“Tranquillo Toto, era solo un lampo” cercò di calmarlo, affondando le dita nella pelliccia.

Un altro lampo e poi un tuono la fecero sobbalzare e per poco non rischiò di uscire di strada.

“Va tutto bene” continuò a ripetere a se stessa come un mantra.

Il vento fischiava forte, la pioggia era sempre più insistente e la notte sempre più buia.

Dorothy si chiese cosa le fosse saltato in mente di mettersi in viaggio con un tempo come quello, ma solo l'idea di tornare dagli zii, la spronò a continuare.

Di fronte a lei non vedeva nulla, eppure sarebbe già dovuta arrivare in paese, ormai erano ore che viaggiava. Ma di luci o cartelli neppure l'ombra.

“Cazzo” imprecò sottovoce, stringendo convulsamente il volante.

Poi fu attratta da qualcosa a qualche metro davanti a se. Le sembrò di vedere delle luci e forse il profilo di una casa.

Mentre cercava di capire dove si trovasse qualcosa colpì violentemente il parabrezza frantumandolo e impedendole la visuale già minima. Presa dal panico cercò di frenare, ma il suolo bagnato fecero slittare l'auto che andò a schiantarsi contro qualcosa.

L'ultima cosa che Dorothy vide fu il volante che sia avvicinava sempre di più alla sua testa.

 

 

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Capitolo 2
*** I Munchkins ***


Capitolo II

"I Munchkins"

 

Nella testa di Dorothy regnava il caos. Sembrava le fosse appena esplosa una bomba nel cervello. Le orecchie le fischiavano, la vista era offuscata da puntini bianchi, mani e piedi le formicolavano. Ma lentamente le cose e i suoni iniziarono a riacquistare un significato.

La prima cosa che sentì fu l'abbaiare incontrollato di Toto, poi sotto il fischio del vento un brusio indistinto.

Gocce fredde le cadevano sul viso, e quando allungò una mano per toglierle dagli occhi la ritrasse all'istante accecata dal dolore. Qualcosa di vischioso le copriva la fronte. Si guardò le dita e vide rosso.

“Toto” sussurrò Dorothy, cercando di allungare la mano verso il cane, ma qualcosa glielo impedì.

Voltò lentamente la testa e vide il grosso ramo di un albero, che dopo aver sfondato il parabrezza – ecco perché pioveva nell'abitacolo – si era conficcato tra i due sedili.

In un attimo ricordò tutto. La litigata con gli zii, la fuga da casa e la tempesta che imperversava per le strade, poi un terribile schianto.

Guardò alla sua sinistra dove le voci si erano fatte più intense. Davanti a se vedeva dei volti indistinti, dietro il finestrino punteggiato di gocce.

Qualcuno aprì di scatto la portiera e la trascinò fuori. Delle braccia la sollevarono e la portarono via dalla macchia scura che era la sua auto. I guaiti di Toto si spensero quando una porta si chiuse alle sue spalle.

“Toto” chiamò ancora, mentre qualcuno la stendeva sopra un divano.

Finalmente i sensi erano tornati al loro posto e poteva distinguere quello che la circondava.

Si trovava in un salotto vecchio stile, con ancora la carta da parati a fiori sulle pareti. Attorno a lei c'erano delle persone intente a sistemarle la testa sotto un cuscino o una coperta sulle gambe.

“Toto” sussurrò “Dov'è Toto? Dov'è il mio cane?”

“Stanno andando a prenderlo” la rassicurò un uomo con un ciuffo di capelli azzurri e una serie infinita di campanelli alle braccia, che tintinnavano ad ogni suo movimento.

“Sta bene, non preoccuparti” intervenne una donna, con corti capelli bianchi sul viso giovane e un campanello appeso al collo.

Si guardò intorno e notò che anche tutti gli altri portavano campanelli, chi alla cintura, chi al collo o al polso e tutti avevano gli stessi capelli bianchi o azzurri. Li trovò molto carini e le venne in mente quando a sedici anni era tornata a casa con i capelli blu e la zia Emma l'aveva messa in punizione per una settimana.

Ma quello che pensò subito dopo fu.... Dove accidenti era finita?

Cercò di sollevarsi ma la donna la trattenne sul divano.

“Non muoverti. Hai preso una bella botta, il dottore arriverà a momenti” cercò di tranquillizzarla mentre le asciugava il viso con un panno.

Nel mentre la porta si riaprì ed entrarono altre figure seguite da Toto che saltò letteralmente in braccio a Dorothy, leccandole la faccia.

“Oh, Toto” urlò stringendo a se il cane “Stai bene, per fortuna stai bene. Ero così preoccupata”

Il cane smise di leccarle la faccia e si acciambellò accanto a lei, con il muso sulla sua gamba.

“Dove sono?” chiese infine Dorothy.

Tutti si guardarono confusi, probabilmente domandandosi se la botta non fosse stata più forte di quanto pensassero.

“Sei ad Oz” rispose la voce di una donna.

Tutti si scostarono per farla passare, quasi con reverenza e lei camminò, con un ticchettio di passi verso il divano dov'era distesa Dorothy.

Era bellissima. La sua figura sembrava emanare un bagliore quasi magico. I capelli erano lunghi e di un biondo talmente chiaro da sembrare bianco, come le donne li attorno.

Calzava alti tacchi bianchi e la sua figura, dal seno prosperoso, era avvolta da un tailleur candido. Gli occhi erano di un azzurro limpido, mentre la bocca a cuore morbida e rosea.

Non era il tipo di donna che di solito Dorothy avrebbe guardato, eppure in lei c'era qualcosa che l'affascinava e da cui sembrava impossibile distogliere lo sguardo.

“Dove sono?” chiese ancora Dorothy, più confusa di prima.

“Oz” rispose la donna “Più precisamente nel quartiere est dei Munchkins” aggiunse indicando gli individui attorno a lei.

“Non ho mai sentito di una città chiamata Oz”

“Molto probabile. Siamo una comunità piuttosto riservata”

“Siamo ancora in Kansas almeno?” continuò Dorothy massaggiandosi la testa dolorante.

“No cara, temo che tu non sia più in Kansas”

Dorothy si lasciò andare esasperata tra i cuscini.

“Dio, come ho fatto a finire in questo casino” borbottò incazzata con se stessa.

Poco dopo arrivò finalmente il dottore che, come tutti li, indossava dei campanelli piccoli alle orecchie e ai polsi, con corti capelli di un azzurro scuro.

Le medicò la ferita alla testa, che per fortuna era superficiale e non avrebbe avuto bisogno di punti di sutura e le puntò una luce sugli occhi, per vedere se il suo cervello avesse subito danni.

Per fortuna, dichiarò, che a parte lo spavento e la botta presa, stava perfettamente bene e dopo una notte di riposo sarebbe già stata in grado di tornare alla sua vita.

Quando il dottore se ne fu andato i suoi soccorritori la circondarono ancora, porgendole un cuscino o un bicchiere d'acqua.

Dorothy non capiva il perché di tutte quelle attenzioni. Certo aveva appena fatto un incidente, ma quello le sembrava un tantino eccessivo.

Notò che la donna in tailleur bianco, comodamente seduta su una sedia con le lunghe gambe accavallate, continuava a fissarla con sguardo curioso e interrogativo.

“Come ti chiami?” le chiese infine.

“Dorothy. Dorothy Gale” rispose “E lui è Toto” aggiunse indicando il cane che sollevò la testa al suono del suo nome.

“Piacere di conoscerti. Io sono la Strega del Nord”

“La cosa?” chiese Dorothy alzando un sopracciglio.

“Strega del Nord” ripeté lei con un sorriso “Governo il quartiere a nord della città”

Dorothy annuì, anche se non ci aveva capito nulla. Le sembrava scortese insistere oltre. Probabilmente “Strega” era un nomignolo o un titolo che veniva usato da quelle parti. Chi era lei per ribattere sulle usanze locali.

“Dorothy, c'è una cosa che dovrei dirti e devi ascoltarmi molto attentamente, perché non so come tu possa accogliere questa notizia. Quindi ti prego, se riesci, di accoglierla come la bella notizia che è”

Dorothy la guardò interrogativa e sempre più confusa. Annuì e si domandò cosa avesse di così importante da dirle quella donna sconosciuta.

“La città di Oz è governata da quattro Streghe e un Mago. Al centro si trova la Città degli Smeraldi, governata dal Mago di Oz. Le Streghe, invece, governano i quartieri esterni della città.

Una a nord nel quartiere dei Gillikin, che sarei io e una a sud, Glinda nel quartiere dei Quadling. Io e la mia collega del sud, cerchiamo di governare i quartieri al meglio delle nostre capacità, nel rispetto e per la gioia dei nostri abitanti.

Diversamente le Streghe dell'est e dell'ovest, Elphaba Theodora nel quartiere dei Winkie, non sono come noi. Preferiscono un regno del terrore, in cui sfruttare a proprio vantaggio i cittadini, riducendoli a poco più di schiavi, per avere gloria e ricchezze.

Ora Dorothy, noi ci troviamo nel quartiere est, che è governato da Evanora Nessarose, la Strega dell'Est, ma lei non è qui. Sai perché Dorothy?”

Dorothy scosse la testa.

“Perché tu l'hai uccisa” concluse lapidaria la Strega del Nord.

“Cosa?” urlò Dorothy indignata. “Io non ho ucciso nessuno. Come osi insinuare una cosa del genere”

“Temevo avresti reagito così. Ma è la verità. Quando sei uscita di strada con la macchina l'hai investita uccidendola”

Dorothy scosse la testa incredula. Anche se la cosa poteva avere un senso. Cercò di ribattere ancora, ma fu interrotta.

“Grazie” disse la donna dai capelli bianchi che l'aveva aiutata, stringendole la mano commossa.

“Ci hai liberato” aggiunse un uomo dalla folla attorno al divano e così si susseguirono una serie di ringraziamenti verso di lei.

“Perché mi ringraziano?” chiese Dorothy alla Strega.

“Perché li hai salvati dalla tirannia della Strega dell'Est. Ora sono liberi. Liberi di vivere la vita come vogliono, senza il timore che la Strega li sbatta in prigione o li costringa ai lavori forzati”

Dorothy rimase pensierosa. Non sapeva come sentirsi. Tutti la guardavano con ammirazione, eppure aveva ucciso una donna secondo la Strega del Nord.

“Voglio vedere” decise infine “Se ho veramente ucciso una persona voglio vederlo con i miei occhi”

“Il dottore ha detto che devi restare a riposo” intervenne una donna.

“Non me ne frega un cazzo di quello che ha detto il dottore. Sto bene, voglio solo vedere”

“Lasciatela” ordinò la Strega e tutti arretrarono di qualche passo.

Dorothy lentamente si tirò su a sedere sul divano. La testa le girò un po, ma era determinata a vedere. Toto alzò il muso e la seguì, insieme a tutti gli altri.

“Lascia che ti aiuti” si offrì la Strega, porgendole il braccio. Dorothy lo accettò e uscirono sul portico.

La tempesta era passata, tirava solo un vento leggero che le scompigliava i capelli. Il cielo era ancora buio ma la strada sterrata su cui si affacciava la casetta era illuminata da lampioni.

La vide subito, la sua macchina, col cofano accartocciato contro il muretto di una baracca di legno. Poi vide anche la strega.

L'aveva presa in pieno e il suo corpo giaceva schiacciato tra muro e macchina, con il busto disteso sui rottami, le braccia aperte e il viso coperto da una gran massa di capelli scuri. Un corvo stava già cercando di banchettare, mentre gli altri aspettavano il loro turno appollaiati sul tetto della baracca.

Dorothy si portò le mani alla bocca, come per coprire le urla se mai fossero arrivate. Ma non arrivarono, era fin troppo shoccata persino per urlare.

“Cazzo” imprecò “Merda. Cazzo. Cazzo. Merda”

Si voltò, con le mani fra i capelli, verso la Strega del Nord. Si immaginò già ammanettata, seduta sul sedile posteriore di un'auto della polizia, pronta per essere sbattuta in una cella di cui avrebbero buttato la chiave. Già si immaginava le risate degli abitanti del paese e degli zii, che con i loro orribili sorrisi avrebbero detto che sapevo che avrebbe fatto quella fine, che probabilmente era ubriaca o drogata.

Ma non l'aveva uccisa apposta, cercò di consolarsi. Insomma, c'era la tempesta, non si vedeva nulla e l'auto era uscita fuori strada. Forse si sarebbe salvata. Forse le avrebbero creduto.

“No” pensò sconsolata “Non mi credono mai”

“Dorothy” la chiamò la Strega, risvegliandola dai suoi cupi pensieri.

“Dobbiamo chiamare la polizia”disse risoluta.

“No” ribatté dolcemente.

“Si, cazzo. Ho ucciso una donna”

“Hai ucciso una delle due Streghe più cattive di tutta Oz. Qui da noi non si finisce in prigione per aver ucciso i cattivi, al contrario si viene trattati da eroi”

Indicò gli abitanti presenti. Tutti le sorridevano. Nessuno sembrava guardarla male, nessuno l'accusava, puntandole il dito contro.

“Inoltre” aggiunse la Strega del Nord “La polizia qui era lei. Non c'è nessuno che puoi chiamare”

Dorothy guardò ancora il corpo della strega morta, ma questa volta non distolse lo sguardo.

Se nessuno degli abitanti avrebbe chiamato la polizia, forse non sarebbe finita in prigione. Non sapeva in che razza di città fosse finita ma era evidente che li le cose andavano in maniera diversa. La consideravano persino un'eroe. Lei non era un eroe, era solo una ragazza fallita che cercava di scappare … da dove? Casa? No, quella non era casa sua. Dorothy Gale non aveva una casa e forse non l'avrebbe mai avuta. Per lei casa era un posto in cui sorridere, circondata da persone che la capivano, le volevano bene e la facevano sentire apprezzata, non il rifiuto che qualcuno aveva deciso di scaricare sul tappeto d'ingresso.

Se gli abitanti di quella città avrebbero insabbiato tutto, allora era salva. Sarebbe riuscita a convivere con la consapevolezza di aver stroncato una vita? Forse si, ci sarebbe riuscita.

Sentì qualcuno tirarle la manica della giacca, abbassò lo sguardo e vide una bambina, anch'essa con i capelli bianchi legati da due campanelli a formare due lunghe trecce.

“Signora” le disse lasciandole andare la manica “Grazie signora”

“Di cosa?” le chiese Dorothy, anche se sapeva per cosa l'avrebbe ringraziata.

“La Strega dell'Est teneva prigionieri i miei genitori e ora che lei l'ha uccisa, possono tornare a casa. Grazie” aggiunse porgendo a Dorothy un fiorellino rinsecchito.

Dorothy lo accettò e cercò di sorridere alla bambina che scappò via imbarazzata.

“S-Strega del Nord” chiamò Dorothy “Va bene, niente polizia. Ma possiamo almeno toglierla da li?”

“Certamente” le rispose, poi fece un cenno ad alcuni abitanti che si affrettarono a raggiungere la macchina.

Quattro uomini robusti sollevarono e spostarono il veicolo, che con un cigolio sinistro si staccò dal muretto, trascinando con se il corpo senza vita della Strega dell'Est che rotolò a terra macchiando l'acciottolato di rosso.

Una donna recuperò il suo zaino dal sedile posteriore e glielo porse. Prese il cellulare e con non poca sorpresa constatò che era scarico e inutilizzabile. Dubitava comunque che qualcuno si sarebbe preso la briga di chiamarla.

Lo rigettò dentro e cercò qualcosa che le sarebbe stato molto più utile di un cellulare in quella situazione, il suo pacchetto di sigarette.

Vittoriosa e sollevata di trovarle ancora li sane e salve, ne accese una e dopo poche boccate sentì più calma e rilassata.

La Strega del Nord la guardò divertita e incuriosita allo stesso tempo. Dorothy non ci badò più di tanto, era abituata al modo strano con cui le persone la guardavano.

Intanto due uomini si erano avvicinati con un lenzuolo al cadavere della Strega, lentamente lo sollevarono e lo deposero dentro per portarlo via.

Ma mentre camminavano lungo la strada i suoi piedi scivolarono fuori dal lenzuolo e lasciarono cadere a terra un paio di meravigliose scarpe d'argento. Gli uomini non se ne accorsero e continuarono a camminare, sparendo dietro un vicolo.

Dorothy rimase a fissare con desolazione le scarpe, abbandonate tra sassi, sabbia e ciuffi d'erba secca, fino a che la Strega del Nord non entrò nel suo campo visivo e le raccolse.

“Era molto orgogliosa di queste scarpe” disse quasi con malinconia “Tra tutte quelle che aveva, queste erano le sue preferite. Erano il simbolo del suo potere” aggiunse invece con una nota dolente e di rabbia, poi le porse a Dorothy “Dovresti tenerle tu”

“Cosa?” chiese stupita “Perché dovrei?”

“Perché sei stata tu a ucciderla. Lascia che nelle tue mani diventino il simbolo della sua sconfitta e della libertà di questo quartiere”

Dorothy non sappe che fare, le sembrava una cosa morbosa e macabre tenere le scarpe della donna che aveva ucciso, ma la Strega la guardava con una tale intensità che alla fine accettò. Le mise in fondo allo zaino e cercò di non pensarci. Dopo tutto erano solo un paio di scarpe.

“Credo che ora sia meglio rientrare” le disse la Strega “Sarai stanca”

Dorothy annuì, spense la sigarette e la seguì all'interno della casetta, con Toto alla calcagna.

Andarono a sedersi sul divanetto di una stanzetta più piccola e appartata dove trovarono ad attenderle un vassoio di biscotti e tazze di tè fumante.

“Immagino tu ti stia domandando come tornare a casa” chiese la Strega del Nord, rompendo il silenzio.

Dorothy rimase immobile con un biscotto mezzo mangiato tra le dita. In realtà non ci aveva ancora pensato, neanche per un attimo da quando era li. Lei era scappata e questa volta sentiva che non sarebbe più potuta tornare. Che gli zii non l'avrebbero riaccolta come in passato e neppure lo voleva.

“Non so dove sia casa tua” continuò la Strega “Ma non sarà facile tornarci. Vedi, Oz è circondata da chilometri e chilometri di spoglie praterie e come ti ho già accennato qui non ci sono mezzi di trasporto...”

“Non preoccuparti” la interruppe Dorothy “Non voglio tornare a casa”

La Strega del Nord la guardò con occhi spalancati e sorpresi.

“Non ho una casa” disse Dorothy con un profondo respiro appoggiando la testa sullo schienale del divano “I miei genitori sono morti quando ero piccola e da allora vivo con i miei zii. Loro mi odiano, tutti in paese mi odiano. A quanto pare sono troppo diversa, sbagliata e stupida per vivere con loro. Quindi no, non ho un luogo che si può definire casa. Stavo scappando quando sono finita qui”

La Strega la guardò con un grosso sorriso luminoso e si appoggiò anche lei allo schienale del divano, per poter guardare meglio Dorothy.

“Non mi sembri per niente diversa, sbagliata o stupida. Forse non lo sei tu, ma loro. Oppure non hai ancora trovato il luogo giusto in cui stare”

Dorothy rimase a fissare gli azzurri occhi della Strega con ammirazione e meraviglia. Nessuno le aveva mai parlato così.

“Cosa pensi di fare ora?” le chiese.

“Non saprei” rispose alzando le spalle “La mia macchina è distrutta e dagli zii non voglio tornarci. Potrei restare qui, trovarmi un lavoro e una casa. Mi sembra una bella città e gli abitanti sono ospitali”

La Strega del Nord si fece pensierosa poi con con gioia le fece una proposta.

“Potresti andare dal Mago di Oz alla Città degli Smeraldi”

Dorothy la guardò interrogativa, con un sopracciglio alzato.

“Il Mago è una persona molto riservata ma potente, persone da tutta Oz vanno da lui a chiedere udienza per ricevere consiglio e aiuto per i motivi più disparati. Potresti provare. Vai, raccontagli la tua storia e se vorrà ti aiuterà”

Dorothy ci rifletté su. Non le sembrava un'idea così cattiva, se questo Mago poteva aiutarla o anche solo consigliarle, perché no? La Strega del Nord sembrava fidarsi di lui e anche se Dorothy non la conosceva che da qualche ora, sentiva che anche lei poteva fidarsi della Strega.

“Potrei provarci, infondo non ho nulla da perdere e un aiuto fa sempre comodo”

La Strega le rispose con un grande sorriso.

“Dove si trova la Città degli Smeraldi?”

“Al centro esatto della città, arrivarci è semplice basta seguire la strada di mattoni gialli”

“Non puoi venire con me?” le chiese Dorothy con un sorriso e solo dopo si chiese se non fosse stata un po troppo audace.

Lei e la Strega erano sedute talmente vicine che, se avesse allungato le dita, sarebbe riuscita a toccarle i lunghi capelli biondi che le ricadevano sulle spalle, ma che non riuscivano del tutto a nascondere la profonda scollatura della camicetta.

“Mi piacerebbe molto, ma i miei doveri di Strega vengono prima di tutto. Però posso darti qualcosa che ti aiuterà”

“Cosa?” chiese Dorothy sentendosi la bocca improvvisamente secca.

“Un bacio della Strega del Nord” rispose.

Dorothy le guardò istintivamente le labbra, ma vide che la Strega si portava le mani al collo e da sotto la giacca del tailleur estrarre una catenina d'argento con un ciondolo a forma di labbra bianche.

La Strega allungò le braccia e mise la collana al collo di Dorothy, poi talmente vicina da sentire il suo respiro sulle labbra e da poter distinguere le ciglia che orlavano i suoi occhi sussurrò: “Nessuno oserà far del male a chi è stato baciato dalla Strega del Nord” e posò le sue dolci labbra a cuore su quelle di Dorothy, che si lasciò cullare dalla loro morbidezza.

Poi la Strega interruppe il bacio e si rialzò camminando verso la porta.

“Tieni la collana sempre bene in vista” le disse “E ricorda segui la strada di mattoni gialli, non puoi sbagliare. Racconta la tua storia al Mago, Dorothy Gale e trova la tua casa”

Poi si voltò e si chiuse la porta alle spalle.

Dorothy rimase da sola in quella stanza, fatta eccezione per Toto che dormiva sotto il tavolo. Si sentiva stordita da tutto quello che le era successo in quelle poche ore, ma per la prima volta in vita sua si sentiva piena di speranza.

 

 

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Capitolo 3
*** Lo Spaventapasseri ***


Capitolo III

Lo Spaventapasseri”

 

Stranamente Dorothy dormì serenamente quella notte. Si era aspettata insonnia e incubi, derivati dai troppi avvenimenti accaduti in poche ero, dall'incidente e dall'uccisione di una persona. Ma non accadde nulla, solo un sonno tranquillo e senza sogni. Forse fu merito di quella strana speranza che la pervadeva o forse per la stanchezza, fatto sta che al risveglio si sentì piena di nuove energie, cosa che non le capitava mai.

Comunque dopo un'abbondante colazione offertale dalla donna che la ospitava, decise che fosse arrivato il momento di mettersi in viaggio verso la Città degli Smeraldi.

Pensava che la prospettiva di camminare per ore e ore l'avrebbe demoralizzata, ma non fu così.

Al paese dove abitava non le piaceva molto camminare, a parte quando andava con Toto per i boschi, perché i brusii e gli sguardi dei passanti la infastidivano. Ma li non ci sarebbe stato nessuno, al contrario sarebbero stati tutti contenti di vedere colei che li aveva salvati. Stava iniziando a piacerle questo nuovo status di salvatrice.

Le offrirono cibo e bevande per il viaggio, più di quanto poteva trasportare il suo zaino, la salutarono tutti calorosamente e infine partì.

Trovò subito la famigerata strada di mattoni gialli, anche se molti erano saltati via dalla strada o erano ricoperti di erbacce e iniziò a percorrerla.

Tirava un fresco venticello e, benché fosse pieno giorno, la strada era buia oscurata dalle nubi in cielo. Ma a Dorothy piaceva, preferiva questo al sole. Si strinse nella giacca di pelle e riprese a camminare osservando la città intorno a lei.

Non sembrava un quartiere molto raccomandabile, le casette erano mal tenute col la tintura azzurra che faceva fatica a restare attaccata alle pareti, i giardini incolti e le strade sgangherate.

“La Strega deve averli trattati proprio male per ridurre in questo stato il quartiere” pensò Dorothy.

Ma in contrasto con tutto questo c'erano le voci festose degli abitanti. Ovunque si sentivano e si vedevano persone allegre che festeggiavano la ritrovata libertà dei Munchkins e ovviamente inneggiavano a Dorothy.

“La voce si è sparsa in fretta” si disse mentre notava un gruppo di bambini che prendevano a bastonate una bambola vestita da strega nella macabra riproduzione di una pignatta.

Dorothy si allontanò con una risata e riprese il suo viaggio, con Toto che correva felice davanti a lei.

Dopo ore di cammino e solo una breve sosta per mangiare e rilassarsi un attimo, iniziò a calare la sera e capì che non avrebbe visto presto la Città e le serviva un posto in cui passare la notte.

Imboccò una via più stretta delle altre e protetta da due alti edifici, attirata dalle voci di molte persone.

Si trattava di un locale, dove era in corso una festa. Una marea di persone erano sedute attorno a lunghe file di tavoli e mangiavano leccornie sotto lampade di carta di un azzurro intenso, molti si erano lanciati in danze sfrenate.

Dorothy si avvicinò lentamente cercando di passare inosservata, ma quando la prima persona notò Toto, i suoi capelli di un comune castano scuro e la luccicante collana che portava al collo, la notizia che l'uccisore della Strega era li si sparse in fretta di bocca in bocca.

Gli abitanti la circondarono da ogni parte e ripresero a ringraziarla in tutti i modi; offrendole doni, abbracci e stringendole la mano.

Di fronte a lei si presentò un uomo alto e robusto con grossi baffi azzurri. Si presentò, stritolandole calorosamente la mano, dicendo di chiamarsi Bac e di essere il proprietario del locale.

“Sono onorato di averti qui” le disse senza lasciarle la mano entusiasta “Sarai stanca, vieni entra. Sta sera offre la casa” poi si rivolse a tutti i suoi ospiti “Birra gratis per tutti” urlò e un'altra serie di urla la seguirono fin dentro l'affollato e caldo locale.

Bac la fece accomodare al bancone e ben presto si vide recapitare davanti un bel boccale di birra ambrata, un piatto di arrosto fumante e una grossa fetta di torta grondante cioccolato.

“Devi essere una Strega molto influente tu” le disse Bac con convinzione.

“No ti sbagli” lo corresse Dorothy imbarazzata “Sono solo una normale ragazza capitata qui per caso”

“Tutta modestia” la corresse Bac, non credendo ad una sola parola “Chi uccide la Strega dell'Est e ottiene addirittura il Bacio dalla Strega del Nord, non può che essere una Strega lei stessa”

Dorothy affondò il viso nel boccale e lasciò che la birra si portasse via ogni dubbio e incertezza.

“Ho sentito dire che sei diretta alla Città degli Smeraldi”

“Esatto” disse mentre lanciava una fetta di carne a Toto “La Strega del Nord mi ha consigliato di chiedergli aiuto. Sai quanto dista da qui?”

“Mi dispiace non lo so. Non sono mai uscito da questo quartiere” aggiunse con un po di amarezza “Comunque” continuò tornando allegro come prima “Non so quanto ci si possa fidare del Mago di Oz. Sempre chiuso in quella sua enorme casa, immischiato in chissà quali traffici. Dai retta al vecchio Bac e stai attenta, non tutti i quartieri di Oz sono belli come questo”

Dorothy cercò di non badare molto al discorso di Bac, ma le sue parole la turbarono non poco. Ma ormai era immersa in quel viaggio e non avrebbe avuto senso tornata sui suoi passi.

La notte continuò festeggiando con i Munchkins, ma nel giro di poco la stanchezza iniziò a farsi sentire per Dorothy, che chiese a Bac se conoscesse qualche luogo in cui alloggiare per la notte.

Ma lui non volle sentire storie e le offrì gratuitamente una delle stanze che affittava sopra al locale.

“Non esiste che la nostra salvatrice dorma in qualche topaia” borbottò spingendo Dorothy su per una scala.

Dorothy non poté fare a meno di accettare. Non era abituata a tutte queste generosità, stava amando sempre di più la generosità di quel quartiere.

La mattina dopo sgattaiolò via di soppiatto, cercando di non farsi vedere da nessuno, altrimenti l'avrebbero trattenuta ancora con loro. Si era sentita un po subdola, dopo tutte le gentilezze che le avevano riservato, ma lei doveva arrivare al più presto alla Città degli Smeraldi.

Riprese il suo cammino sotto un cielo ancora coperto dalle nubi, che ora le sembravano meno minacciose del giorno prima. Toto correva e abbaiava davanti a lei, rincorrendo piccioni impauriti nei vicoli, quando ad un certo puntò sentì una voce chiamare aiuto.

Proveniva da qualche parte vicino a lei, ma non vedeva nulla se non un vecchio edificio di mattoni, il muretto basso che lo circondava, una striscia di prato mal curato e un lampione ricoperto di adesivi.

Pensava di essersela immaginata, quando la sentì ancora. Così alzò la testa pensando provenisse da qualche finestra e lo vide, appollaiato sulla cima del lampione, come un gattino spaventato, un ragazzo che chiedeva aiuto.

Dorothy rimase a fissarlo sbalordita, dubitando della sua sanità mentale. Cosa accidenti ci faceva qualcuno su un lampione?!.

Si avvicinò lentamente, temendo che potesse precipitare giù, mentre Toto gli abbaiava contro. Per fortuna il lampione non era molto alto forse 3 o 4 metri, ma se fosse caduto si sarebbe fatto comunque male.

“Tutto bene?” gli urlò, senza trovare null'altro da dire.

“No” rispose lui con la voce strascicata “Non credo. E' molto alto qui”

“Come ci sei finito lassù?”

“Ehm, non lo so esattamente”

“Come non lo sai?” sbottò Dorothy incredula “Sei ubriaco?” gli chiese incrociando le braccia sul petto. Non aveva intenzione di aiutare un'ubriaco.

“No, non credo” rispose ancora il ragazzo.

Dorothy sbuffò. Era convinta che la giornata fosse iniziata bene, ma invece ecco spuntare il pazzo sul lampione. Una parte di lei era tentata di lasciarlo li al suo destino, sarebbe stato molto più semplice e avrebbe potuto riprendere il suo viaggio in tutta tranquillità. Ma non poteva lasciarlo lassù, se fosse caduto e si fosse fatto male o peggio si sarebbe sentita troppo in colpa. Dopo la strega non aveva la minima intenzione di avere un'altra vita sulla coscienza.

“Ti ricordi qualcosa?” tentò ancora, mentre pensava ad un modo per tirarlo giù.

“Ricordo che ieri ero ad una festa e un amico mi ha fatto provare qualcosa e wow … mi ero proprio fuori”

Dorothy si passò la mano sul volto. “Perfetto” pensò “Ci mancava il drogato sotto acidi”

“Vedevo dei corvi” continuò a raccontare con aria trasognata “Erano enormi eh. Così ho pensato di scacciarli via … come quelle bambole di paglia nei campi...”

“Gli spaventapasseri?” lo assecondò Dorothy.

“Si esatto. Poi mi sono ritrovato quassù”

Dorothy sbuffò un'altra volta.

“Senti Spaventapasseri, io non ho tutto il giorno. Ora vado a cercare qualcuno che ti tiri giù ok?”

“No” urlò lui in preda al panico “Ti prego no. Non chiamare nessuno”

“E come faccio a farti scendere da sola?” gli urlò esasperata.

“Ti prego” iniziò a lamentarsi lui “Ti prego, ti prego. Non voglio che mi vedano”

Dorothy lo fissò indecisa sul da farsi. Un aiuto da qualcuno le avrebbe fatto comodo, ma quel ragazzo che la implorava le faceva così tanta pena che alla fine decise di non chiamare nessuno.

“Come ti chiami?” le urlò Dorothy, cercando di tranquillizzarlo.

“Ed” rispose lui tirando su col naso “Mi chiamo Ed”

“Ed, vado a cercare qualcosa per farti scendere, nel frattempo cerca di non cadere. Andiamo Toto” poi si voltò e iniziò a guardare nei vicoli.

Per fortuna si trovava in una zona industriale e non molto abitata, avrebbe trovato qualche scala o scatola da poter utilizzare.

Imboccò un vicolo buio e stretto e davanti a se vide un puzzolente cumulo di immondizia, accanto ad essei un grosso cassonetto con le ruote e due scatole di legno. Una lampadina le si accese nel cervello. Caricò le scatole sul cassonetto e iniziò a spingerlo fino al lampione.

Quando arrivò era piegata in due dalla fatica e si rammaricò di essere una persona troppo buona e gentile.

“Pensavo non saresti tornata” le confessò Ed con tristezza.

“Abbi più fiducia nella tua salvatrice” replicò Dorothy sarcastica.

Posizionò il cassonetto con le due scatole sotto al lampione e pregò che non si ammazzasse.

“Prova a scendere ora” gli urlò.

“Ho paura” si lamentò lui.

“Forza dai. Non vorrai restare lassù per sempre?”

Ed scosse con forza la testa e lentamente iniziò ad allungare un piede verso la scatola, poi a strisciare giù.

“Ancora un piccolo sforzo, dai” lo incitò Dorothy.

Quando i suoi piedi toccarono la scatola traballò un po, ma lui fu in grado di tenersi in equilibrio e come un lombrico strisciò al contrario lungo il cassonetto. Solo che, quando arrivò quasi in fondo, un piede si incastrò nella maniglia del bidone e lui cadde all'indietro finendo lungo disteso nella strisciolina di prato intorno al lampione. Dorothy corse da lui preoccupata.

“Ehi, tutto bene?” gli chiese chinandosi sopra di lui.

“Ce l'ho fatta” esclamò entusiasta, guardandola dal basso e agitando le braccia.

Dorothy scoppiò a ridere e gli allungò una mano per aiutarlo ad alzarsi, ma lui non l'accettò preferendo incespicare sulle proprie gambe. Quando furono entrambi in piedi poté vederlo meglio e con più attenzione.

“Com'è ridotto male” pensò Dorothy.

Era più alto di lei, ma stava curvo sulle spalle quindi non lo sembrava. Magro e dall'aria malaticcia, indossava camicia a quadri e pantaloni troppo larghi per il suo esile corpo. Gli occhi erano di un azzurro slavato, infossati in violacee occhiaie profonde nel viso scavato. I capelli erano una massa arruffata color fuoco. Sembrava proprio uno spaventapasseri.

Dorothy si allontanò dal cassonetto puzzolente e andò a sedersi sul marciapiede dall'altro lato della strada, esausta.

Ed la guardò titubante stringendosi nelle spalle, indeciso se seguirla oppure no. Alla fine decise che in compagnia sarebbe stato meglio che solo.

Le sedette accanto ma non troppo vicino. Sembrava avesse paure del contatto umano o forse era solo molto timido, Dorothy non riusciva a capire.

“Grazie” balbettò Ed, tirando su col naso e grattandosi nervosamente l'incavo del braccio.

“Figurati” le rispose trafugando nel suo zaino, perché tutta quell'attività fisica le aveva messo fame “Non potevo lasciarti lassù a morire, non ti pare?”

“Qualcuno l'avrebbe fatto” rispose malinconico.

“Bè, io non sono quel qualcuno”

Tirò fuori dallo zaino un paio di barrette al cioccolato e ne porse una a Ed.

“Hai fame?” gli chiese “Hai l'aria di uno che non mangia da anni”

Lui scosse vigorosamente la testa e si ritrasse un poco, continuando a grattarsi il braccio.

E Dorothy capì. Era in astinenza, in astinenza da chissà quale e quante droghe. Ne aveva già conosciute di persone come lui e per poco non lo era diventata lei stessa.

“Mangia” insistette porgendogli la barretta e incoraggiandolo con un sorriso “Per favore”

Ed la prese con mani tremanti, la scartò timoroso e l'addentò come se fosse l'ultimo pezzo di cioccolato rimasto sulla terra. Sul suo volto si dipinse un'espressione di beatitudine.

“Che buono” sospiro “Ci manca solo questa dipendenza...” balbettò sovrappensiero e quando si rese conto di cosa avesse detto, girò di scatto la testa imbarazzato.

“Tranquillo” lo rassicurò Dorothy, posandogli una mano sul braccio “L'avevo capito e non devi nasconderti con me. So cosa si prova”

“Tu?” gli chiese con gli occhi spalancati.

“No, non io. Amici”

Ed si richiuse in se stesso e riprese a mangiare la sua barretta.

“Mi chiamo Dororthy, comunque” si presentò lei, giusto per parlare e spezzare quella tensione che si era creata “Non sono di qui, vengo da molto lontano. Sto andando alla Città degli Smeraldi per incontrare il Mago di Oz”

“Chi è questo mago?” le chiese con noncuranza leccandosi le dita sporche di cioccolato.

“Non sai chi è?” sbottò stupita “Pensavo di essere l'unica qui a non sapere le cose”

“Non stupirti. Forse un tempo lo sapevo, ma ormai non so più un sacco di cose. Credo di non avere più un briciolo di cervello. A furia di farmi mi sa che l'ho polverizzato”

Dorothy lo guardò con tristezza.

“Cosa vai a fare da questo mago?” le chiese Ed.

“Vado a chiedergli aiuto”

“Tu? Tu non mi sembra abbia bisogno di aiuto”

“Oh, e invece si. Sono un fallimento totale, nel paese in cui vivo tutti mi odiano e non ho una casa o uno scopo. Non so chi sono. Forse il Mago può aiutarmi a scoprirlo”

“Sarebbe bello se potesse aiutare anche me” disse Ed trasognante.

“Credo possa” gli rispose Dorothy “La Strega del Nord mi ha detto che sono tante le persone che vanno da lui, quindi potresti anche tu”

Ed la guardò con una tale gioia dipinta sul volto che fece intenerire Dorothy.

“Dici che potrebbe farmi tornare intelligente? Oppure farmi....farmi smettere....”

Gli occhi di Ed si riempirono di lacrime e le labbra iniziarono a tremare.

“Vorrei tanto, tanto smettere e tornare quello di prima” le disse cercando si asciugarsi le guance bagnate con la manica della camicia.

“Perché non vieni con me?” gli propose Dorothy.

Il sorriso di Ed si aprì sotto il fiume di lacrime.

“Davvero? Posso?”

“Certo che puoi. Farebbe piacere un po di compagnia a me e a Toto. Vero Toto?”

Il grosso cane nero per tutta risposta si mise a ringhiare verso Ed e ad annusarlo con aria diffidente. Ed indietreggiò.

“Tranquillo non morde, deve solo fare la tua conoscenza”

“Oh, tranquilla non ho paura. Ho paura solo del fuoco”

Dorothy lo guardò sorridendo e si alzò, rimettendosi lo zaino in spalla.

“Forza in piedi” esortò Ed “Abbiamo tanta strada da fare e non ne posso più di mattoni gialli. Io odio il giallo”

Ed si alzò, percorso da una nuova energia e insieme iniziarono ad incamminarsi sotto il cielo plumbeo verso la Città degli Smeraldi.

 

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Capitolo 4
*** Il cimitero degli alberi ***


Capitolo IV

"Il cimitero degli alberi"

 

Dorothy Gale non era mai stata una ragazza di molte parole. Parlava quando c'era bisogno di parlare e restava in silenzio quando non c'era nulla da dire. Per questo le risultò strano camminare accanto ad Ed, e la sua strana andatura barcollante che le ricordava sempre di più uno spaventapasseri, lungo la strada di mattoni gialli diretti alla Città degli Smeraldi.

Ed parlava, tanto e di qualsiasi cosa, tranne che di se stesso. Lo aveva sentito descrivere le nuvole, la strada e le case. Aveva parlato degli animali e delle persone. Contando sulla punta delle dita, aveva elencato i suoi cibi preferiti, i suoi colori preferiti, persino le sue parole preferite e Dorothy lo aveva ascoltato in silenzio, sorridendo di fronte a quell'aria meravigliata di qualsiasi cosa, come se vedesse il mondo per la prima volta.

Dopo un po la strada aveva iniziato a cambiare ancora. La strada si era fatta più dissestata, tanto che tra un cumulo di terra e l'erba incolta si faceva fatica a vedere il giallo dei mattoni.

Le abitazioni erano quasi del tutto sparite, sostituite da grossi e isolati capannoni. All'orizzonte di fronte a loro, scorsero quella che sembrava una scura foresta.

“Sarà meglio fermarci un po” decise Dorothy, guardando con inquietudine quella massa nera “Mangiamo qualcosa”

Andarono a sedersi sotto un albero che si ergeva solitario sul ciglio della strada. Dorothy tirò fuori dallo zaino un paio di panini imbottiti, uno per se e uno per Ed e dell'acqua, mentre a Toto lanciò qualche strisciolina di carne.

“No-Non ho fame, grazie” le disse Ed stringendosi le braccia al petto.

“Devi mangiare. Ne hai bisogno” insistette lei.

“E' di altro che ho bisogno” bofonchiò fra se.

“Mangia” insistette Dorothy minacciosa, cacciandogli a forza il panino in mano.

“Se....Se solo potessi andare a prenderne un po. Qui vicino conosco qualcuno che...” tentò di dire, ma Dorothy lo afferrò con rabbia per il bavero della camicia e lo sollevò da terra.

“Non ci pensare neanche” gli urlò lei.

“Ma sono stanco e se ne avessi anche poca, non mi importa cosa, viaggerei meglio” continuò con tono lamentoso e implorante.

Dorothy lo lasciò andare e Ed cadde a terra sbattendo il sedere sulle radici dell'albero.

“Ti ho preso con me” iniziò a dire con la voce bassa e seria ma carica di rabbia “Ho acconsentito che viaggiassi con me fino alla Città degli Smeraldi, perché ho visto qualcosa in te. Ho visto che non sei ancora del tutto perduto. Non ho l'istinto della samaritana, ma se ho la possibilità di fare qualcosa di buono lo faccio.

Sei adulto, Ed” continuò puntandogli contro un dito “Se vuoi andare a drogarti vai, sei libero di farlo, io non te lo impedirò. Ma non viaggerai più con me. A te la scelta”

Detto questo si sedette e scartò il suo panino, mangiandolo con gusto. Ed rimase qualche minuto fermo a pensare, poi con calma si sedette accanto a lei e mangiò anche lui il suo panino.

Dorothy si sentì meglio, anche se non volle darlo a vedere. Bene o male si era affezionata a quel disastrato ragazzo e sapere che avrebbe potuto concretamente salvarlo, la rese più felice.

“Raccontami qualcosa di te” le chiese Ed all'improvviso.

“Di me?” rispose Dorothy dubbiosa “Non c'è nulla di speciale nella mia vita”

“Secondo me, invece, sei molto speciale. Raccontami del posto da cui vieni”

Dorothy alzò gli occhi al cielo e sbuffò, poi giusto per fare conversazione, invece di starsene li impalati e zitti sul ciglio della strada, raccontò.

“Sono nata in Kansas. Non so esattamente dove si trovi rispetto a qui, ma deve essere molto lontano. E' brutto il Kansas. Tutto prati secchi e grigi, strade tutte uguali, persone tutte uguali, vita sempre uguale.

I miei genitori sono morti quando ero piccola e da allora vivo con i miei zii. Loro non mi vogliono bene, nessuno mi vuole bene in quel paese. Dicono che sono troppo strana e diversa, che frequento gente poco raccomandabile e che sono inutile. Qualche giorno fa sono stata licenziata per l'ennesima volta e i miei zii, come succede sempre quando faccio qualcosa che a loro non piace, si sono incazzati con me, così ho preso e me ne sono andata, senza la minima voglia di tornare da loro.

Durante il viaggio è scoppiata una tempesta tremenda, mi sono persa e sono finita fuori strada schiantandomi con la macchina. Quando mi sono svegliata ero qui ad Oz, ho investito e ucciso la Strega dell'Est, liberando i Munchkins. Il resto lo sai. Strega del Nord e viaggio verso la Città degli Smeraldi”

“Non senti la mancanza di casa tua?” le chiese Ed aggrottando le sopracciglia.

“Quella non è mai stata casa mia” rispose Dorothy con una strana espressione di triste disgusto.

“Però avevi un tetto sopra la testa. Ora invece cos'hai?”

Dorothy lo guardò confusa, senza capire se stesse scherzando oppure fosse serio.

“Mi prendi in giro?” sbottò lei.

“No” balbettò Ed “Però...”

“Però cosa? Si vece che ti sei fuso il cervello” ribatté con rabbia “Le persone normali non restano nella casa di chi li odia. Preferirei vivere sotto un ponte ma con persone che mi amano, piuttosto che in una bella casa ma senza affetto. Pensavo che tu fra tutti avresti compreso”

“Io darei tutto per tornare a casa mia” disse Ed con aria affranta “Preferirei stare in una casa odiato da tutti, piuttosto che da solo”

“Perché non ci torni?” gli chiese Dorothy, incuriosita “Avrai una casa o una famiglia da qualche parte?”

“Io amavo tanto la mia famiglia, ma loro non amavano me” raccontò lui, con lo sguardo vago e perso “Così un mattino mio padre ha preso e mi ha sbattuto fuori di casa. Nessuno ha fatto nulla per fermarlo, nessuno ha preso le mie difese”

“Per colpa della droga?”. La rabbia di Dorothy era improvvisamente scomparsa, sostituita da una profonda malinconia.

Ed annuì, poi si asciugò il naso e le lacrime con la manica della camicia, poi continuò a raccontare con gli occhi fissi sul nulla di fronte a se.

“Non ero così un tempo. Prima ero un ragazzo intelligente, studioso, che amava leggere. Ma essendo fragile sono finito per essere il bersaglio di tutti. Deriso perché usavo il cervello invece dei muscoli. Umiliato perché invece che andare ad una festa a bere e drogarmi, preferivo restare a casa a leggere”. Guardò di sfuggita Dorothy, con una risata debole e canzonatoria, per se stesso e quello che era ora.

“Un giorno non ce l'ho fatta più e ho deciso di diventare quello che più odiavo. Pensavo che sarei diventare popolare, speravo che gli altri avrebbero smesso di umiliarmi, che una volta finita la scuola sarei potuto tornare quello di un tempo. Ma la cosa mi è sfuggita di mano.

Sono stato cacciato dalla scuola e da casa, preferivo spendere soldi in droga invece che in cibo.

Frequentavo persone che dicevano di essere mie amiche, invece mi sfruttavano soltanto.

Una volta ho accettato di lavorare come guardiano in una piantagione di marijuana per una delle Streghe, non so neanche quale. Non dovevo fare molto, solo starmene seduto e controllare che tutto andasse bene. Ma non è andata così.

Quel giorno ero strafatto, anche se sul lavoro mi era stato proibito, ma ho pensato “Ci sono solo io qui, nessuno se ne accorgerà se fumo un po”. Mi sono addormentato e tutto è andato a fuoco. Ho rischiato di morire e la piantagione è andata distrutta.

Sono riuscito a salvarmi, ma i miei cosiddetti amici mi hanno trovato e pestato a sangue. Mi hanno lasciato mezzo morto in un vicolo e ancora adesso mi stupisco di essere vivo, sempre se questa si possa chiamare vita”

Il silenzio calò come un macigno. Si udiva solo il fruscio del vento che trascinava con se foglie e pezzi di carta, oltre, più lontano, i rumori della città.

Se Dorothy fosse stata una persona da abbracci, lo avrebbe stretto a se e consolato, dicendogli che sarebbe andato tutto bene. Ma non lo era, così si limitò a restare in silenzio accanto a lui, rimuginando sulle parole appena dette e sentendosi un poco stupida. In confronto a quella di Ed, la sua vita, sembrava una scampagnata.

Prese un profondo respiro e si tirò su a sedere, si rimise lo zaino in spalla e data una scrollata alla pelliccia di Toto, guardò con decisione Ed e disse: “Forza, andiamo a riconquistarci questo cervello”

Lui la guardò disorientato per un attimo, poi le sorrise, con un sorriso sbilenco che sembrava non sapere come essere felice e si alzò riprendendo il cammino con lei. Solo che una decina di metri più avanti si fermarono di nuovo, di fronte ad una massa scura e compatta di alberi.

Dorothy e Ed si guardarono, poi osservarono l'intrico di rami e foglie che si protendevano sulla stradina, dove qualche mattone giallo riusciva ancora a fare capolino tra l'erba e la terra brulla.

“Accogliente” constatò Dorothy con sarcasmo.

“Non è così male” intervenne Ed con un sorriso “Credo sia l'unica strada per la Città, potremmo girare attorno al bosco, ma ci farebbe solo perdere tempo. E poi se questa strada porta dentro il bosco, dovrà anche portarcene fuori. Sarà facile”

Dorothy rise e dando una pacca sulla spalla del compagno di viaggio gli disse: “Visto che non sei così stupido come pensavi?” e lo superò inoltrandosi nel bosco.

Nonostante fosse ancora pieno giorno, sotto quelle fronde fitte tutto appariva più buio e spettrale. Seguire la strada di mattoni si rivelò più faticoso del previsto, perché il sentiero era ridotto peggio di quanto si fossero aspettati. Interi tratti erano stati sommersi dalla boscaglia, grosse radici avevano divelto i mattoni riprendendosi ciò che l'uomo aveva loro tolto. A volte rischiarono persino di perdersi e l'unica cosa che poterono augurarsi fu di uscire di li prima del calare della notte.

Passo dopo passo però iniziarono a notare qualcosa o meglio, a notare che qualcosa mancava tra la boscaglia. Intere aree erano state disboscate, lasciando al loro posto moncherini scheletrici e tozzi cerchi di legno. Tra quelle macchie poterono di nuovo vedere il cielo e constatarono che di li a poco sarebbe stato troppo buio per continuare.

Ma all'improvviso, svoltato un angolo, si ritrovarono in un ampio spiazzo a cielo aperto. Di fronte a loro decine e decine di tronchi giacevano ammassati l'uno sopra l'altro, in attesa di chissà quale destino. Dietro di essi si ergeva la scura figura di un edificio basso e lungo, con ciminiere che bucavano le fronde degli alberi e grosse finestre buie. Non si udiva un suono, ne un cigolio ne un alito di vento. Il posto sembrava deserto.

Dorothy e Ed si fermarono di fronte a quello spettacolo desolante e di fronte al fatto di aver ormai smarrito la strada di mattoni gialli.

“Che posto è questo?” chiese Ed.

“Non lo so. Sembra una segheria o una fabbrica” rispose Dorothy.

Avanzarono verso l'edificio, camminando tra tronchi ormai ricoperti di muschio e macchinari arrugginiti. Provarono a sbirciare dentro, attraverso il vetro rotto di una finestra, ma videro solo il tronco bianco di un albero, giacere spettrale su un macchinario che qualcuno aveva spento prima che potesse divorarlo e sminuzzarlo in tante assi lisce e pulite, come una condanna sospesa.

“Questo posto mi mette i brividi” sussurrò Ed “Sembra un cimitero”

Dorothy si guardò intorno. La luna era ormai spuntata e illuminava la segheria di una luce grigia e fredda. Individuò una casetta, poco distante sul limitare della radura, anche quella era buia e apparentemente disabitata.

“Li c'è una casa” disse Dorothy “Forse c'è qualcuno disposto ad aiutarci”

Si avvicinarono lentamente alla casetta. Era piccola, bassa composta di un solo piano. Il muro era quasi interamente ricoperto di edera e gli infissi cigolavano scardinati.

Dorothy provò a bussare alla porta, ma non rispose nessuno. Provò ancora e accostò l'orecchio per sentire se dall'interno provenisse un qualsiasi rumore. Le tende erano tirate, quindi fu impossibile sbirciare all'interno.

“Sembra disabitata” constatò Dorothy.

Appoggiò la mano sulla maniglia e la abbassò, la porta si aprì senza il minimo sforzo su un atrio buio. Fece scorrere le dita sulla parete alla sua destra, in cerca dell'interruttore della luce, lo trovò e fece scattare la linguetta verso l'alto, che con loro grande sorpresa si accese dopo qualche tremolio.

“C'è nessuno?” chiese alla casa silenziosa e quando nessuno rispose si decise ad entrare. Ed la seguì, Toto si mise ad annusare ogni angolo di quel nuovo posto sconosciuto.

Sulla sinistra si affacciava un salotto piuttosto spartano, composto solo da un divano ricoperto da una trapunta a quadri, una poltrona reclinabile, un grosso tavolo in legno, qualche sedia, un caminetto spento, una libreria e qualche mensola e varie asce, scalpelli, fucili e pugnali appesi alle pareti. A destra una piccola cucina, in fondo al corridoio d'ingresso si intravedeva una camera da letto.

Esplorarono l'intera casa, ma dei suoi abitanti neppure l'ombra e a giudicare dalla polvere accumulata sui mobili, dovevano mancare da parecchio tempo.

“Senti Ed” intervenne Dorothy “Io sono stanca, camminare con questo buio di notte è fuori discussione e la casa pare vuota. Io non ci trovo nulla di male nel passare la notte qui. Cosa ne pensi?”

Lui alzò le spalle, come per dire che per lui un'idea valeva l'altra.

Dorothy decise di prendersi il divano, che nonostante la polvere della casa era in buono stato, mentre Ed si accucciò sulla poltrona e Toto si acciambellò sul tappeto tra di loro. Non fecero tempo a scambiarsi neanche una parola che caddero addormentati.

 

 

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Capitolo 5
*** Il Boscaiolo di Ferro ***


Capitolo V

"Il Boscaiolo di Ferro"

 

 

Un singolo raggio di sole si insinuava tra le tende della finestra e accarezzava il viso di Dorothy, addormentata sul divano.

Si coprì gli occhi con la mano, infastidita dalla luce e si svegliò confusa, senza capire dove si trovasse.

Poi ricordò la foresta, la segheria e la casetta abbandonata. Alzò la testa e vide Ed ancora profondamente addormentato nella poltrona. Sembrava un ammasso di stracci informe.

Toto si svegliò con lei e le saltò in braccio leccandole tutta la faccia.

“Shhh. Toto, fa silenzio o sveglierai Ed”

Uscì dal salotto, con il cane che gli trotterellava accanto, e andò in cucina. Sbirciò fuori dalla finestra e non notò nulla di diverso. La segheria, che di giorno non sembrava meno spettrale che di notte, era ancora buia e spenta.

Girovagò per la cucina, curiosando nelle credenze semivuote e nei cassetti polverosi. Provò ad aprire il rubinetto e con sua grande sorpresa vide che l'acqua c'era ancora. Riempì una ciotola e la diede da bere a Toto. Poi le venne un'idea. Se c'era l'acqua e sapeva che c'era un bagno, avrebbe potuto farsi una doccia e sentiva proprio il bisogno di una doccia.

Camminò lungo il corridoio con Toto e superata la piccola stanza da letto entrò nel bagno, che era anche lui estremamente piccolo, ma possedeva tutto quello che serviva ed era inaspettatamente pulito.

Chiuse la porta, anche se non a chiave perché non ne aveva e trovò un asciugamano che le sembrava pulito.

Aprì l'acqua e fece scorrere le dita sotto il getto fino a che non divenne abbastanza caldo. Si spogliò ed entrò nella doccia.

“Ah” esclamò “Toto, è la cosa più bella del mondo. Non avrei mai pensato di meravigliarmi tanto per una doccia”

Toto infilò la testa nella tenda e si bagnò la punta del naso.

Rimase a lavarsi per almeno un quarto d'ora, rimuginando su quanto la sua vita avesse preso una strada così inaspettata. Eppure non si era mai sentita così in pace con se stessa, così viva, così felice e speranzosa come in quel momento, a chilometri e chilometri di distanza dalla città in cui era nata, a fare la doccia nella casa abbandonata di chissà chi, con un tossico che dormiva sul divano.

Rise da sola, con l'acqua calda che le scendeva lungo le spalle e sospirò, poi qualcuno urlò.

Fece un passo indietro e sbatté contro le piastrelle bagnate della doccia. Chiuse l'acqua e restò in ascolto, per un po non sentì nulla, poi distinse chiaramente un gemito.

Si avvolse l'asciugamano attorno al corpo e uscì dalla doccia. Il bagno era deserto. Si avvicinò alla finestra e sbirciò fuori, scostando di poco le tendine. Inizialmente non notò nulla, poi tra le ombre sotto un albero vide chiaramente la figura di un uomo accasciato contro il tronco.

Strabuzzò gli occhi e si allontanò dalla finestra.

“Ed” iniziò ad urlare “Ed”

L'attimo dopo la porta del bagno si spalancò e con la sua camminata da spaventapasseri entrò che evidentemente non si era aspettato di trovarla con solo un asciugamano addosso, quindi si fermò preso in contropiede a fissarla ovunque tranne che in faccia.

“Ehi” lo riproverò schioccando le dita e stringendosi saldamente al corpo l'asciugamano “Io sono quassù”

“Oh, scusa” si affrettò a dire imbarazzato alzando lo sguardo “Che succede?”

“C'è un uomo qua fuori. Forse è ferito, o almeno spero sia solo ferito”

Ed sbirciò anche lui e richiuse subito la tendina.

“Cosa facciamo?” le chiese preso dal panico.

“Fammi vestire, poi andiamo ad aiutarlo”

Dorothy si rivestì in fretta e legò i capelli ancora bagnati in una treccia, poi uscì e trovò Ed ad aspettarla in corridoio, con una faccia da funerale.

Uscirono nell'aria fresca del mattino e lo trovarono accasciato contro l'albero, con la testa reclinata verso il basso. Non sembrò accorgersi di loro, per cui si avvicinarono lentamente.

“Ehi” tentò Dorothy, ma non ottenne risposta.

Fu in quel momento che si accorse dell'ascia accanto a lui, del sangue che gli colava lungo il braccio sinistro e dei profondi solchi lungo il tronco dell'albero.

“E' ferito. Ed, è ferito” urlò quasi Dorothy.

“Cosa facciamo?” le chiese lui.

“Dobbiamo portarlo in casa e cercare un kit di pronto soccorso o qualcosa del genere”

“Non so chi voi siate, ma andatevene subito via e lasciatemi solo”

Dorothy e Ed voltarono la testa di scatto verso l'uomo che lentamente alzava la testa e puntava due occhi di ghiaccio su di loro.

Era giovane ma non troppo, di un'età indefinita tra i venticinque e i trenta o poco più, con capelli neri tagliati corti dietro e quasi a zero sul lato sinistro, dove sul cranio correva una cicatrice biancastra, mentre sugli occhi azzurri e slavati ricadeva un ciuffo. Indossava un gilet di pelle nera e una camicia a quadri con le maniche arrotolate a scoprire un brutto taglio sul braccio sinistro. Il destro invece era completamente tatuato.

“Come stai?” gli chiese Dorothy, notando in quel momento gli occhi arrossati e lucidi. Sembrava avesse pianto.

“Bene” rispose lui con la voce bassa e roca, ma velata di sarcasmo.

“Sei ferito” insistette Dorothy.

Lui si limitò a guardarla inespressivo poi, con uno sforzo che dovette costargli parecchie energie, cercò di alzarsi in piedi. Dorothy gli toccò il braccio ma lui la allontanò bruscamente.

“Non mi toccare. Ce la faccio da solo”

Una volta in piedi raccolse la sua ascia e usandola come bastone barcollò fino all'ingresso della casetta.

“Dorothy” le disse Ed, mentre guardava ancora sbalordito il punto in cui l'uomo era sparito “Credo che la casa sia sua”

Si guardarono, poi quasi correndo ritornarono nella casetta.

L'uomo era seduto al tavolo della cucina, la camicia giaceva sul pavimento attorno a macchioline di sangue, mentre l'ascia era accanto a lui sul ripiano di legno. Aveva la pelle chiara e la muscolatura di chi si tiene sempre in allenamento. Il braccio destro era interamente ricoperto da un tatuaggio, un susseguirsi di bulloni e saldature, che davano l'illusione che il suo braccio fosse meccanico. Il resto del corpo era disseminato di cicatrici, alcune ormai vecchie altre più recenti. Cercava di aprire una cassetta del pronto soccorso con una sola mano, ma senza successo. Dorothy accorse in suo aiuto.

“Faccio io” disse strappandogli la cassetta dalle mani, ma lui oppose resistenza. Anche ferito e con un braccio solo era piuttosto forte, ma alla fine vinse Dorothy per testardaggine. Gli aprì la cassetta e distribuì il contenuto sul tavolo.

“Posso farlo da solo” disse lui bruscamente.

Dorothy alzò un sopracciglio e lo ignorò continuando a trafficare con garze e cerotti.

“Comunque” continuò lui “Chi siete e cosa ci fate nella mia proprietà?”

Dorothy e Ed si lanciarono un'occhiata furtiva e imbarazzata, senza sapere cosa dire.

L'evidente proprietario della casa notò lo sguardo, poi notò le coperte sul divano e la ciotola sul pavimento.

“Avete occupato casa mia?” domandò aggrottando le sopracciglia.

“Ehm...Ehm” balbettò Dorothy “Ci dispiace, ci siamo persi e pensavamo che la casa fosse disabitata. Avevamo solo bisogno di un riparo per la notte”

“Mi serve una birra” commentò l'uomo accasciandosi sulla sedia.

“Non c'è nulla in casa” disse Dorothy “Abbiamo controllato. Deve essere un bel po che non ci torni”. L'uomo la guardò esasperato.

“Sotto il lavandino c'è uno scomparto segreto” si limitò a dire guardando Ed, che era rimasto sulla soglia.

Si precipitò a cercare le birre e tornò con una confezione da sei.

“Servitevi pure” disse. Ed distribuì e aprì una birra a ciascuno. Dorothy intanto iniziò a ripulire la ferita al braccio.

“Non per farmi gli affari tuoi” iniziò “Ma come hai fatto?”

L'uomo voltò la testa e e fissò il fondo della sua bottiglia di birra.

“D'accordo, se non vuoi dirmelo a me va bene. Non è profonda, ma forse ci sarà bisogno di qualche punto”

“Mi è sfuggita l'accetta di mano” rispose, senza alzare gli occhi dalla sua birra.

“Questo l'avevo capito” rispose Dorothy cercando ago e filo.

“L'hai mai fatto prima?” le chiese indicando l'ago.

“Ehm, no” ammise lei “Non deve essere così difficile, a scuola ho fatto un corso di cucito”

“Lascia fare a me” disse prendendo l'ago “L'ho già fatto”

“Vedo” disse guardando le cicatrici sul suo corpo “Sicuro?” aggiunse poi.

“Non può essere peggio di quello che avresti fatto tu” ribatté con quello che sarebbe potuto sembrare un sorriso, se non fosse stato per la sua perenne espressione scontrosa.

Detto questo iniziò a ricucirsi il braccio e nonostante la difficoltà, fu piuttosto abile e ne uscì un lavoro pulito, che Dorothy fasciò con un benda sterile.

“Comunque io mi chiamo Dorothy, lui è Ed” Ed fece timidamente ciao con la mano dal suo angolo.

“Piacere” ribatté senza enfasi.

“Dovresti dire il tuo nome ora” fece finta di suggerire a bassa voce.

L'uomo sembrò offeso ma alla fine si presentò. Si chiamava Adam, ma tutti lo chiamavano il Boscaiolo di Ferro.

“Ti chiamano così per quello?” chiese Dorothy, indicando il tatuaggio.

“No” ribatté con un tono che non ammetteva repliche.

“Siamo diretti alla Città degli Smeraldi per parlare con Oz” continuò Dorothy.

“Che cazzo ci andate a fare da Oz?” chiese sorpreso.

“Bé... Ed ha qualche problemino di dipendenza che gli causa qualche altro problemino al cervello. Mentre io sono scappata di casa e chissà, magari può aiutarmi a capire chi sono e qual'è il mio posto nel mondo”

Adam rimase assorto nei suoi pensieri con un'ombra malinconica sul volto.

“Tutto bene?” gli chiese Dorothy.

Lui si ridestò e annuì riaffondando il viso nella sua birra.

“Una volta stavo per andare anche io da Oz” ammise, quasi con vergogna, sempre sprofondato nei suoi pensieri con gli occhi distanti in chissà quale ricordo.

“Per quale motivo?” provò a chiedere Dorothy.

“Il mio cuore ha...qualche problema”

“Sei malato?”

“No” rise sommessamente “Ma a volte credo di non averlo”

“Perché non vieni con noi?” intervenne Ed con voce squillante interrompendo i cupi pensieri di ognuno di noi. Guardò Dorothy in cerca di conferma e supporto, lei si riprese e gli diede man forte.

“Certo, vieni con noi” disse col suo sorriso migliore “Non c'è due senza tre”

Adam sembrò rifletterci su, poi li guardò con aria cupa e tracannò quello che restava della sua birra.

“Non sarei di buona compagnia”

“Ehi” lo interruppe Dorothy “Non so sei hai visto con chi dovresti viaggiare, non siamo esattamente la miglior compagnia neanche noi. Io non parlo se non devo, mentre Ed parla fin troppo. Tra strani ci si trova. Potresti trovarti bene”

Il Boscaiolo la guardò storto. Evidentemente non gli aveva fatto molto piacere essere considerato strano.

“Inoltre” aggiunse Ed “Sei grande, grosso e minaccioso. Ci sono alcune zone di Oz che non sono molto sicure, ci farebbe comodo qualcuno come te”

Adam si fermò un altro po a pensare, poi lentamente si alzò trascinando la sedia sul pavimento e prese l'ascia, la puntò dritto davanti a se, con i muscoli del braccio tatuato guizzanti, come per guardare quanto fosse affilata la lama e infine parlò.

“Ok, verrò, anche se sarà una perdita di tempo e sia chiaro, lo faccio per me e non per voi”

Il resto della mattina lo passarono a preparare il viaggio. Rimpinguarono le loro scorte di cibo dalle dispense segrete di Adam. Motivo per cui non avevano trovato quasi nulla al loro arrivo. Adam doveva fidarsi così poco delle persone da nascondere tutto, persino il cibo. Mentre il boscaiolo affilava la sua ascia, da cui non si separava mai.

Si misero in viaggio, con Ed allegro come non lo era mai stato. Saltava, correva e inciampava nelle buche sulla ritrovata strada di mattoni gialli con Toto alle calcagna. Mentre Dorothy e Adam camminavano in silenzio dietro di lui.

Adam fu da subito utile, perché dopo solo una mezz'ora di viaggio circa si ritrovarono la strada sbarrata da rami e rovi intricati. Li tagliò via tutti a colpi di accetta e in men che non si dica furono pronti a riprendere il cammino. Dorothy pensò che in fondo non era stata una così cattiva idea prenderlo con se, ma solo perché ancora non sapeva chi realmente fosse.

 

 

 

“Allora” disse Dorothy affiancando Adam lungo il cammino “Adesso posso saperlo perché ti chiamano Boscaiolo di Ferro?”

“No” rispose ancora.

“Se dobbiamo viaggiare insieme è meglio conoscersi, no?”

“No”

“Anche io sono curioso” intervenne Ed “E' un nome figo, quindi deve avere anche una storia figa”

“Non c'è niente di figo nella mia storia e se ve la raccontassi non mi vorreste più con voi”

“Non fare il melodrammatico” ribatté Dorothy “Qui abbiamo tutti un passato schifoso, il tuo non può essere peggiore”

Adam si fermò di colpo a guardarli e un ombra gli passò sul volto.

“Volete sapere la mia storia? D'accordo ve a racconterò” disse minaccioso, stringendo la presa sul manico dell'ascia.

“Sono nato in quella segheria, avevo un padre e una madre. Poi un giorno lui morì e io deciso di assumermi ogni responsabilità e prendermi cura di mia madre, ma morì anche lei.

Così rimasi solo con me stesso e iniziai a fantasticare di avere una famiglia tutta mia; una moglie, dei figli, un cagnolino magari.

Mi innamorai di una ragazza, bella come poche ne avevo viste, che viveva nel quartiere dei Munchkins. Decisi che l'avrei sposata non appena avessi avuto abbastanza soldi per darle una vita dignitosa. Ma non l'avrei solo sposata, l'avrei anche salvata dalla vecchia malvagia con cui era costretta a vivere che la schiavizzava e le rendeva la vita un inferno.

Quello che non sapevo era che la vecchia fosse in combutta con la Strega dell'Est e quando venne a sapere del mio intento di sposare la ragazza, andò su tutte le furie e pregò la Strega di fare qualcosa. Mandò in piena notte un gruppo di suoi scagnozzi per farmi fuori. Gli ho ammazzati tutti, ma non prima di aver saputo chi li mandava. Così ho preso la mia ascia ancora sporca di sangue e ho deciso di farla finita una buona volta con quella storia. Ripagare il sangue col sangue”

Il Boscaiolo fece una pausa per riprendere fiato. Non guardava più Dorothy e Ed, che si erano avvicinati l'uno all'altro, fissava la punta affilata della sua ascia con lo sguardo ancora perso nel passato.

“Sono andato a casa della vecchia” continuò “E l'ho fatta a pezzi nel suo letto davanti alla donna che amavo e che credevo mi amasse, ma a quanto pare la vista di quel... come aveva detto? “Mostro senza cuore”? Qualcosa del genere. Ha dissipato tutto quell'amore, il suo e il mio. Io avevo fatto tutto questo per lei ed è così che mi ripagava, dandomi del mostro. La mia ascia ha fatto tacere anche lei.

Da quel giorno ho deciso che i sentimenti e l'amore, non portano nulla di buono. Ho spento il mio cuore, si potrebbe dire.

Ho passato un po di tempo in un ospedale psichiatrico dopo quella volta, a quanto pare non ero abbastanza sano di mente da meritarmi la galera. Ora mi guadagno da vivere facendo il sicario, mettendo la mia freddezza e la mia ascia al servizio del miglior offerente. E' inutile che fate quella faccia terrorizzata, non vi farò del male, nessuno mi ha pagato per farvi fuori, state tranquilli. Quindi per concludere, mi chiamano il Boscaiolo di Ferro perché la mia ascia abbatte le persone come abbatte gli alberi e come il ferro sono freddo e duro da scalfire”

Adam fece un profondo respiro liberatorio e per la prima volta sorrise veramente, si mise l'accetta su una spalla e li guardò in attesa della loro reazione finale.

“Vattene” sibilò Dorothy spingendo dietro di se Ed.

“Perché?” chiese semplicemente Adam.

“Perché sei un assassino”

“Ho già pagato per quel gesto, di cui non mi pento minimamente, ma che mi sono lasciato alle spalle. E come ho già detto, se ti è chiaro il concetto di sicario, non vi farò del male”

“Dorothy?” intervenne Ed tirandole la manica della giacca per attirare la sua attenzione.

“Cosa vuoi?” chiese minacciosa.

“Posso parlarti in privato?” e la trascinò lontano da Adam nel fitto della boscaglia.

“Teniamolo con noi” le disse con quel suo genuino sorriso.

“Sei impazzito? Non hai sentito quello che ha detto? Me lo sentivo io che aveva qualcosa di sbagliato. Anche io ho ucciso una persona, ma per sbaglio e non vado di certo in giro a vantarmene”

“Non mi sembra che se ne vanti, anzi mi sembra molto triste e solo, nascondendo tutto questo dietro a quell'aria da duro”

“Ed, uccide le persone per lavoro” disse scandendo dettagliatamente ogni parola.

“Anche io ne ho uccise tante”

Dorothy lo guardò interrogativa.

“La droga che vendevo ha ucciso molte persone”

“E' diverso”

“No, non è diverso. La morte è sempre morte”

Dorothy si voltò, assorta nei suoi pensieri e confusa dallo strano comportamento di Ed, che non riusciva a comprendere.

“Tu hai detto che vedevi speranza in me” le disse, ricomparendo nel suo campo visivo “Forse io ne vedo in lui. Vuole andare da Oz, per migliorare e questo è un gesto da apprezzare. Siamo più simili a lui di quanto tu non creda, quelli che nessuno vuole e che se solo ne avessero la possibilità farebbero grandi cose”

Dorothy sentì gli occhi pungerle e bruciarle, stava quasi per piangere colpita dalle parole dell'ultima persona al mondo che pensava avrebbe potuto farle un discorso del genere.

In quel momento si ricordò di una cosa. Quando aveva trovato Adam contro quell'albero, lui stava piangendo e sul tronco c'erano tanti segni, come se si fosse accanito sul legno per sfogare tutta la sua rabbia e realizzò anche un'altra cosa. Benché avesse detto il contrario, quella non era una ferita accidentale, ne aveva già viste di simili in passato su persone che credevano di non aver più nulla da dare a questo mondo, per capire che se l'era procurata da solo.

“Torniamo da lui” disse Dorothy semplicemente.

Adam era rimasto in attesa lungo il sentiero e quando li vide tornare riprese l'atteggiamento da duro con cui li aveva lasciati.

“Puoi restare” dichiarò Dorothy cercando di essere impassibile.

“A cosa è dovuto questo cambio di bandiera?” chiese incrociando le braccia sul petto.

“A quanto pare abbiamo appurato che tutti qui hanno ucciso qualcuno, quindi non vediamo il motivo per non accettare anche te”

“Mi sembra corretto” ribatté annuendo soddisfatto.

“Ora rimettiamoci in cammino e troviamo un bel posto dove fermarci a mangiare. Tutto questo parlare mi ha messo fame”

Così ripresero il cammino l'uno accanto all'altro. Adam non lo avrebbe mai ammesso, ma era contento di averli incontrati. Sperava tanto che Oz sarebbe stato in grado di aiutarlo, perché era stanco di essere quello che era, il freddo e letale Boscaiolo di Ferro, a volte voleva solo essere Adam, un uomo che provava gioie e dolori senza temerli.

 

 

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Capitolo 6
*** Il Leone Codardo ***


Capitolo VI

"Il Leone Codardo"

 


Dopo ore e ore di cammino, quando sembrava che il bosco non dovesse mai avere fine, finalmente ne uscirono e la vista non giovò affatto al loro umore, scuro come le nuvole che incombevano sopra le loro teste.

La strada di mattoni gialli, ora più visibile senza le sterpaglie del bosco, conduceva lungo un viale scarsamente illuminato e circondato da palazzoni con le finestre scure o sbarrate da travi di legno.

Apparentemente sembrava non volare una mosca ma se si tendeva l'orecchio, si potevano sentire i suoni della città in lontananza. Urla, cani che abbaiavano, spari e allarmi che suonavano.

“Quanto ci vorrà ancora?” chiese Dorothy, affondando le dita nella pelliccia rassicurante di Toto.

“Non saprei” rispose Adam, impugnando saldamente l'ascia “Ma il paesaggio dovrebbe diventare più bello man mano che ci si avvicina alla Città di Smeraldo”

“Quindi, a giudicare da quel che vedo manca ancora tanto” concluse Dorothy demoralizzata “Non mi piace questo posto, sembra pericoloso”

“Non preoccuparti” la tranquillizzò il boscaiolo con un sorriso spavaldo “Tu hai il bacio della Strega e nessuno oserà toccarti, mentre al resto della banda, baderò io”

Proprio in quel momento un urlò li fece tutti voltare verso un vicolo e dall'ombra spuntò fuori una figura che mandò a terra Ed con un solo pugno. Subito si voltò a fronteggiare Adam, ma il boscaiolo era preparato e parò il colpo con il manico dell'ascia.

Dorothy si guardò intorno, in cerca di qualcosa per fermare il misterioso assalitore. Trovò un grosso bastone per terra e quando quello le diede le spalle per attaccare Adam, lo colpì con tutta la forza che aveva sulla testa. L'uomo cadde a terra e non si mosse più.

Sulla scena cadde il silenzio, rotto solo dal respiro affannoso di Dorothy e Adam, che tenevano ancora sollevate le loro armi, pronti a difendersi nell'eventualità di un nuovo attacco.

“Che cazzo è successo?” urlò Ed, ancora col sedere a terra, massaggiandosi la guancia “Chi cazzo è quello?” urlò poi indicando l'uomo steso di fronte a loro.

“Non lo so” disse Dorothy calmandosi e lasciando cadere il bastone.

“Scopriamolo” intervenne Adam appendendo l'ascia alla cintura.

Girarono l'uomo sulla schiena e gli scostarono i capelli dalla faccia. Toto si avvicinò ad annusarlo. Era giovane, alto e bello, con lunghi capelli biondi che gli sfioravano le spalle e il mento, coperto da un filo di barba. Indossava un semplice paio di jeans sbiaditi e una canottiera bianca attillata, perfetta per lasciare in bella vista la quantità esorbitante di muscoli di cui era dotato.

“Dorothy, quando hai smesso di sbavarci sopra possiamo scoprire chi è?” chiese Adam a Dorothy, che lo fulminò con gli occhi.

Ma in quel momento l'uomo aprì gli occhi e, anche se frastornato, riprese conoscenza cercando di sollevarsi. Ma Toto non glielo permise e appoggiata una zampa sul suo petto, iniziò a ringhiare a pochi centimetri dalla sua faccia.

“Ah” iniziò ad urlare cercando di indietreggiare “Vi prego” implorò con un patetico tono di voce “Non fatemi del male. Vi prego. Toglietemelo di dosso”

“Perché mai dovremmo?” chiese Dorothy con astio.

“Mi dispiace” continuò a lamentarsi. Quel tono non s'addiceva per niente al suo aspetto.

“Chi sei?” chiese Adam portando la mano sul manico dell'ascia.

“Vi dirò tutto ma vi prego togliete il cane” mugolò.

Dorothy fu veramente impietosita da quell'omone grande e grosso che aveva così tanta paura di Toto. Che si, certo, poteva incutere timore quando sguainava i denti e ringhiava, ma non così tanto da reagire a quel modo.

“Toto” disse imperiosa Dorothy “Vieni qui”. Il cane obbedì all'istante e andò a sedersi accanto alla sua padrona, senza però distogliere lo sguardo da quel nuovo individuo.

Libero dalla presa di Toto si alzò in pedi e si appoggiò contro il muro del vicolo, con una mano appoggiata contro il petto, cercando di tranquillizzarsi.

“State tutti bene?” chiese, come se non fosse stato lui ad aggredirli pochi minuti prima.

“Si” risposero tutti in coro, senza traccia di calore nella voce.

“Mi dispiace” aggiunse guardando Ed, poi tutti gli altri.

“Che razza di persona assale qualcuno che è la metà di lui, senza un apparente ragione e poi si scusa?” lo rimproverò Dorothy fremendo dalla rabbia.

“Un codardo, ecco chi” rispose per lui Adam.

“Hai ragione, sono un codardo”. L'uomo chinò la testa e quasi si accasciò contro il muro. Sembrava un bambino che era stato colto con le mani nella marmellata.

Dorothy provò un moto di pietà verso quell'uomo, le pareva veramente pentito di quel gesto insensato, nel suo sguardo fisso a terra leggeva una profonda sconfitta e nel modo in cui si guardava le mani, poteva vedere l'inadeguatezza nel trovarsi in quel corpo che non gli apparteneva.

“Come ti chiami?” gli chiese, avvicinandosi e cercando di essere gentile, perché quello più scosso di tutti sembrava lui.

“Jake” rispose, alzando la testa sorpreso.

“Piacere di conoscerti Jake, io mi chiamo Dorothy. Mentre loro sono Ed e Adam”

Jake fece un timido cenno di saluto con la mano.

“Ora che ci siamo presentati” intervenne il boscaiolo, senza nascondere comunque il tono minaccioso della voce, ma era il suo abituale tono d'esprimersi quindi non ci fecero caso, tranne Jake, che si strinse nelle spalle intimorito “Potresti dirci, per favore, chi sei e perché ci hai attaccato?”

L'uomo sembrò a disagio mentre cercava di trovare una risposta adeguata, poi timidamente iniziò a parlare.

“Questo non è un bel quartiere in cui crescere” esordì “Qui vige la legge del più forte, dove se sei debole vieni schiacciato, ma se non lo sei sopravvivi. Fin da bambino ho avuto sempre la fortuna di incutere timore solo con la mia presenza. Grande e grosso, mi bastava fare la faccia cattiva e quelli giravano all'argo. Sono sopravvissuto anni, senza dover alzare un dito. Ma l'apparenza non porta il cibo in tavola. Così ho iniziato ad allenarmi per partecipare a incontri di lotta clandestina. All'inizio andò tutto bene, anzi benissimo. Riuscivo a fingere talmente bene, da vincere un incontro dietro l'altro. La folla mi acclamava chiamandomi “Il Leone”, ma la gioia che provavo era fasulla. Odiavo la violenza, odiavo stare lassù e questo peso iniziò a schiacciarmi. Cominciai a perdere e quelli che prima mi acclamavano ora mi schernivano, il Leone che conoscevano e amavano si era rivelato per quello che era in realtà, un codardo. Inizia a farmi pagare per perdere di proposito, ma ben presto anche quelli, non volevano più scommettere neanche sulla mia fine e mi cacciarono”

“Questo non spiega perché ci hai aggrediti” chiese Ed confuso.

Jake alzò la testa e protese le mani verso di noi.

“Perché è quello che sono” urlò disperato, con gli occhi che diventavano sempre più lucidi “Perché è quello che mi hanno insegnato ad essere. A cosa servirebbero tutti questi muscoli e questa forza. Cosa dovrei farci? Cos'altro dovrei fare nella mia vita? Ma io non voglio essere questo” si sfogò affondando il viso nelle mani “Non mi piace tutta questa violenza. Odio la mia codardia, odio me stesso”

Nel vicolo calò il silenzio, si sentiva solo il sommesso singhiozzare di Jake, che piangeva con la testa nascosta fra le grosse braccia. Il resto della compagnia si guardò, sconcertato da quella vista e indeciso su cosa fare. Fu Dorothy a prendere, ancora una volta, in mano la situazione.

“Ehi” sussurrò accucciandosi accanto a Jake, ormai del tutto seduto contro il muro “Ehi, va tutto bene” continuò, sfiorandogli il braccio. Lui la guardò, con gli occhi dorati da cucciolo spaventato e Dorothy sentì il cuore sciogliersi. Jake tirò su col naso e si asciugò in fretta le lacrime con la mano.

“Mi dispiace” disse cercando di sorridere imbarazzato “Non dev'essere un bello spettacolo. Che vergogna”

“Non devi vergognarti. Tutti abbiamo qualcosa di noi che odiamo. Prendi Ed, per esempio” disse indicando il povero ragazzo che si guardò intorno disorientato “Lui è stupido, stupidissimo, talmente stupido che probabilmente ha la paglia al posto del cervello. E Adam, invece” continuò “Lui è un sociopatico, insensibile e senza cuore” il boscaiolo gonfiò il petto con orgoglio “Quindi non ti devi vergognare di nulla”

“Come?” chiese Jake “Ogni volta che ci provo, ad essere seriamente coraggioso, il cuore inizia a battermi talmente forte che mi sembra di morire”

“Tsk, non mi parlare di affari di cuore” intervenne Adam “Parliamone dopo, quando Oz ci avrà aiutato. Ma non ci aiuterà mai, se perdiamo ancora tempo” concluse esasperato.

L'occhiataccia che gli lanciò Dorothy lo fece ammutolire.

“Andate da Oz?” chiese Jake incuriosito.

“Per chiedergli di aiutarci a sistemare ciò che in noi odiamo” rispose Dorothy, poi ci pensò su un attimo e chiese “Ti piacerebbe essere finalmente coraggioso?”

“Sarebbe magnifico” rispose entusiasta.

“Vieni con noi, allora, sono certa che Oz sarebbe in grado di farti diventare coraggioso e fiero come un leone”

Jake si strinse nelle spalle imbarazzato e pensieroso. “Sarebbe bello” sussurrò emozionato “Non vi sarei d'intralcio?” chiese timoroso.

“Niente affatto. Con tutti quei muscoli e quell'aria da duro, nessuno oserà avvicinarci per farci del male. Ci saresti utile”

Dorothy gli allungò la mano e lo aiutò ad alzarsi. Jake fu pervaso da una gioia che gli illuminò tutto il viso.

Con quel nuovo compagno accanto furono pronti a riprendere il cammino verso la Città degli Smeraldi.

 

 

Il viaggiò proseguì tranquillo e senza intoppi. Jake e Toto, dopo il loro primo e non troppo piacevole incontro, divennero grandi amici e giocarono per tutta la strada.

Solo un piccolo episodio turbò l'equilibrio che si era creato nel gruppo. Camminavano ormai da qualche ora, quando si accorsero che Adam era rimasto indietro, lontano dal gruppo.

“Ehi, Adam che succede?” gli chiese Dorothy avvicinandosi.

Lui si voltò di scatto, nascondendo il viso, ma Dorothy riuscì a vedere ugualmente lo scintillio di una lacrima sulla sua guancia. Così guardò nel punto in cui lui stava guardando poco prima e quello che vide, tra i cassonetti della spazzatura, fu il corpicino ormai senza vita di un gattino.

“Adam?” cercò di chiamarlo, ma lui si nascose ancora di più dalla sua vista. “Vai” disse “Vi raggiungo tra poco”

Così Dorothy non poté fare altro che tornare dagli altri e lasciarlo alle sue lacrime. Jake guardò la scena confuso e riprese a camminare accanto ai compagni.

“Sta piangendo?” chiese “Perché? Non mi sembra proprio il tipo di persona che si mette a piangere”

“Ha visto un gatto morto” rispose Dorothy, senza trovare nulla da dire.

“Allora è chiaro perché piange” intervenne Ed “Gli ricorda la donna che amava”

“E' morta?” chiese Jake.

“Si, lui l'ha uccisa”

Jake li guardò con gli occhi inondati di paura.

“Non preoccuparti, non ci farà del male. E' proprio per questo che sta andando dal Mago”

Poco dopo Adam tornò, sul viso la stessa aria di superiorità da duro di sempre e tutti fecero finta di nulla.

 

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