Aquile e Colombe

di Pachiderma Anarchico
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***



Capitolo 1
*** I ***


E dove dunque vogliamo arrivare? Al di là del mare? 
Dove ci trascina questa possente avidità, che è più forte di qualsiasi altro desiderio? Perché proprio in quella direzione, laggiù dove sono fino ad oggi tramontati tutti i soli dell'umanità? 
Un giorno si dirà forse di noi che, volgendo la prua a Occidente, anche noi speravamo di raggiungere l'India, ma che fu il nostro destino a naufragare nell'infinito? 
Oppure, fratelli miei? Oppure?

(F. Nietzsche)


 




 

Danzig (Danzica), Polonia Meridionale

Un ragazzo e una ragazza stavano seduti sull'orlo di un precipizio. 
Un piccola lampada incandescente ne rischiarava i volti eterei e spettrali su una scala che portava al nulla; una radio sonnolenta era sintonizzata sulla stessa stazione da ormai due anni.
Si sentivano così entrambi, persi in un mondo perduto, tesi come corde di un violino scheggiato nel buio che precede l'alba.
Era così che attendevano la fine della notte e l'inizio del nuovo giorno.
'…il Fhürer stamane ha incontrato i generali Maximilian von Weichs e Friedrich Paulus, della 2ª e 6ª Armata. Il nostro grande condottiero ha affermato nel primo pomeriggio che è stato deciso l'attacco finale a Stalingrado…'
Il gradino difettoso della scala pigolò come un pulcino che nasce quando la ragazza si inclinò in avanti.
Una spessa treccia le ondeggiò sulla spalla, fra le ciglia vibrava l'aspettativa di un segreto.
Era giovane; lo erano tutti allora.
Quei due, in quel frammento di buio, lo erano più di chiunque altro.
Lei aveva grandi occhi nocciola, liquidi di piacere e pudore, guance lisce lievemente tinte dell'oro delle stelle e una sottile mano che si posò sul collo di lui, ; e lui, ostile al suo tempo, che sapeva bene cosa sarebbe accaduto, non la fermò quando ella si adagiò sulle sue labbra color sangue.
Riempiendo di aroma di cannella la dispensa che avevano adibito a nascondiglio per quegli incontri lei, il tempo, l'avrebbe volentieri fatto a brandelli.
Forse fu per questo che il giovane tedesco, quando si allontanarono l'uno dall'altra quel tanto che bastò per potersi guardare di nuovo negli occhi, non desiderò che ci fosse nessun altro lì con lui, in quel segreto.
Nessuno sembrava capire. Lei sì.
Capiva perché si sentiva nauseato alla sola vista di un piatto di carne, capiva perché scriveva con tanto ardore e con lo stesso ardore stracciava quelle parole, capiva il suo bisogno di lasciarsi credere morto ancora per un po', prima di tornare a far scorrere i secondi.
Perché il tempo, fatalmente, neanche la giovinezza lo può fermare.
E se neanche due visi che sfiorandosi si cercano, se neanche respiri accaldati e un "Du sollst nur mir gehören", 'vorrei che fossi mio' sussurrato sulla lingua possono riuscirvi, è perché il tempo ha nel suo esercito la Storia.
Ed ella, impaziente, in quel particolare frammento a cavallo di mezzo secolo, divenne senza pietà.
Si vendicò di molti, ne risparmiò altri, destinò la stessa sorte a giusti e ingiusti, a oppressi e oppressori, a grandi e piccoli, a chi si odiava e a chi si amava, offrendo senza rimborso a tutti gli uomini lo stesso diritto di morire.
La giovinezza non era garanzia di eternità in quei giorni. Era un biglietto di sola andata per un treno sul confine.
Ma quei due sì, loro avevano fermato il tempo sulla tromba di quelle scale, ma esso continuava ad infuriare imperterrito alle spalle dei loro corpi accucciati a scambiarsi reciproco calore, forse anche i battiti del cuore.
Lei era sveglia, lui era 'troppo', eppure nessuno sembrò comprendere fino in fondo quanto il peso dell'odio avrebbe deformato il futuro.
Lei ci credeva ancora che il mondo potesse essere salvato, e quando uno dei bianchi polpastrelli del ragazzo le carezzarono una guancia, percorrendole lo zigomo e andando ad arrotolarsi intorno una ciocca di cenere sfuggita alla treccia, non ne abbe alcun dubbio.
Ma alla Storia non interessa ciò in cui si crede, o ciò in cui si spera.
Lei si limita a presentare i fatti così come sono avvenuti, senza "se" e, soprattutto, senza "ma".
Sono pagine senza autore quelle della storia. 
Sono gli uomini stessi, con le loro scelte, a scriverne i capitoli. Alcuni sanno di Inverno, altri di Primavera; alcuni sono più sanguinari, altri più lieti.
Molti non si ha ancora il coraggio di leggerli.
Eppure non è la Storia, ma il Tempo a dare le risposte.
Il Tempo avrebbe svelato se quel giovane dalle labbra di sangue amò la ragazza dalla spessa treccia di cenere; il Tempo avrebbe dato un senso a quegli anni.
Era il 12 Settembre 1942. 
L'umanità stava collassando in una guerra che avrebbe messo in discussione l'esistenza stessa della coscienza. 
La Storia ci ha mostrato i fatti, ma il Tempo non trova ancora le risposte.

 

Allenstain, Polonia Orientale, 8 Ottobre 1942

"E' ora. Vieni con me."
Friedrich ci mise qualche secondo di troppo a voltarsi, e quando lo fece un ragazzo che non aveva mai visto se non per i corridoi lo invitò a seguirlo. Non era un invito, e lo sapeva bene. Ma si prese comunque il lusso di pensare se andare o no, come se avesse avuto davvero una scelta da compiere. 
Non ce l'aveva, e tenne dietro a quel giovane con la divisa perfettamente liscia e l'andamento rigido di chi sta per incontrare il suo più grande idolo.
I calzoncini di Friedrich non potevano competere con il prestigio di quei vestiti, e il suo accompagnatore ne era consapevole quando, spingendo la porta dello studio del Rektor, si fermò a gravare con sopracciglia critiche sulla camicia dimessa di suo padre e la semplice valigia consunta.
Fino alla sera precedente nessuno lo avrebbe osservato così, come si osserva un inutile esemplare di mulo che non dovrebbe stare fra i prestigiosi cavalli da corsa. Ma a Friedrich non importava. Chi voleva combattere con lui avrebbe dovuto farlo sul ring, con il sudore negli occhi e il sangue sulle nocche. 
Sino all'ultima volta.
Sino a quando, per la prima vera volta dopo mesi, non aveva combattuto di nuovo da solo.
E si era reso conto che non voleva più farlo senza infastidire qualcuno.
Tutti quegli uomini esultavano quando un pugno deviava il setto nasale e le loro voci si univano come una marcia trionfale nella pronuncia un solo nome: Friedrich.
Non ci fu nessuno, neanche uno, a guardarlo con disapprovazione, nessuno che, dopo un incontro fenomenale che Dio in persona avrebbe amato, lo avesse rimproverato perché "Sicuro che non c'è un altro modo?"
"Friedich Weimar, sa perché è qui?"
"Ja, Sir. Ho perso l'incontro."
"Sbagliato. Weimar, perchè è qui?"
"Perchè mi sono arreso."
"Esatto. Noi non ci arrendiamo, Signor Weimar. Mai."
'Andrà tutto bene' gli aveva sussurrato Christoph la sera precedente, ma Friedrich, immobile in mezzo alle pareti di mogano lucido e alle decorate lampade di ottone, non ne era così sicuro. La fronte del Rektor si inaspriva spesso di rughe di contrarietà quando lo passava da parte a parte con la serietà dello sguardo. 
Era chiaro che si sarebbero aspettati di più da lui. Era chiaro che avrebbe vinto, se solo i pugni non si fossero abbassati ad allinearsi ai fianchi e i suoi muscoli non si fossero docilmente sottomessi all'avversario.
"Ora… io non desidero conoscere le ragioni alla base del suo comportamento, ma le consiglio di guardarsi un'altra volta allo specchio con la divisa dell'Accademia indosso e rendersi conto che lei, in questo preciso momento, fa parte della storia. Con il suo talento, la sua forza e il sangue puro che le scorre nelle vene potrebbe persino contribuire a scriverla. Sta a lei capire cosa vuole, Weimar: essere lasciato indietro nel vecchio mondo o diventare uno dei sovrani del nuovo."
E continuò: "Se accetta di restare accetterà qualsiasi punizione le verrà impartita e accetterà senza riserva alcuna di vincere l'incontro di Novembre. Ad ogni costo."
Friedrich si chiese se questa fosse una seconda possibilità. Si chiese perché avesse rinunciato a lottare, perché avesse permesso all'altro pugile di alterare il suo bel viso in una maschera di botte e lividi scarlatti.
Perché era bello Friedrich, di quella bellezza innegabile e assoluta dinnanzi alla quale non esistono prospettive e punti di vista, e fu per questo tutti erano restii a perdonargli l'errore di aver provato che anche il miglior cristallo, quando cade, si frantuma in mille pezzi. Era questo che aveva mandato il Rektor su tutte le furie. Perché Friedrich era la faccia della Germania invincibile, l'incarnazione della giovinezza così come Adolf Hitler l'aveva intesta, quella giovinezza che non si può piegare e, certamente, non si può sconfiggere. La Fenice dalle bionde piume che risorge dalle sue stesse ceneri.
E come quest'ultima, anche Friedrich era biondo, oh sì; biondo come le spine di grano nei soleggiati pomeriggi d'Agosto, biondo e dagli occhi color dell'erba tutt'intorno. Il verde dei pendii in cui nascono le ginestre e nei quali le donne dei borghi, in angosciosa attesa dei mariti partiti per il fronte, passavano le gentili mani inadatte alla guerra.
Con quegli zigomi alti, la linea del naso dritta e le fattezze di muscoli sodi e virili, la vivacità acuta fra iride e iride e la tenacia nell'animo, era la quintessenza dell'unca verità possibile: loro avevano ragione, il resto del mondo no.
"La vincerò Signore, ad ogni costo, ve lo prometto."
"Non abbiamo bisogno di promesse Weimar, abbiamo bisogno di guerrieri. Se le viene concessa una seconda occasione è per dimostrarci che non abbiamo frainteso quella scintilla di eccellenza in lei. Inoltre, ringrazi i suoi camerati se ho riflettuto un secondo di più sulla sua espulsione."
I ragazzo sbatte le palpebre, lasciando trapelare niente di più che un vago sentore d'incredulità. 
"I miei compagni di stanza?
La voce di Christoph gli rimbombò nella mente: 'Andrà tutto bene.'
"Signore, posso chiedervi perché l'hanno fatto?"
"Perché, palesemente, hanno visto in lei ciò che abbiamo visto noi: la sacra benedizione della vittoria."
L'uomo si alzò dalla sedia, fece passare le mani nodose sull'ampio schienale. 
"E nonostante questo… non tutti erano concordi sulla sua riammissione. Non riusciamo davvero a comprendere i motivi che lo hanno spinto a parlare contro di lei, eravamo persuasi dal fatto che andaste d'accordo." Il Rektor congiunse le dita dietro la schiena, fermandosi dinnanzi al vetro della finestra romboidale che dava su un paesaggio sconfinato di dune scoscese. "… ma d'altronde il ragazzo è reduce da un imprevisto incidente. E comunque l'opinione del singolo non può abbattere il pensiero della maggioranza. 'Vox populi, vox Dei', caro Weimar. Personalmente preferisco l'Antica Grecia, ma ogni tanto è bene rimembrare qualche frase per lusingare l'alleato. Benito Mussolini ama sentirsi importante." Scosse la testa e si voltò. "In ogni caso quattro persone su cinque la ritengono degna di restare qui, Weimar. Si renda all'altezza di queste aspettative.
Ma Friedrich non lo stava ascoltando.
La sensazione che si fosse perso qualcosa di estremamente cruciale iniziò a serpeggiargli sotto pelle come un ago di morfina.
"Signore, mi scusi, chi avrebbe parlato contro di me?"
"Non se la prenda Weimar, il ragazzo è stato scosso da un passeggero smarrimento ultimamente, culminato al lago Pomorskie. Ma ora si è ripreso completamente grazie all'ottimo sostegno di suo padre, il Gauleiter Stein."
Avete mai sentito il fracasso del tuono che annuncia il temporale?
Il cuore di Friedrich, quando gli piombò nello stomaco, fece più rumore.
Non era possibile, non era vero. Aveva pianto per giorni sul suo letto, aveva disperatamente tentato di dare un senso a quelle lacrime per poi fingere di dimenticarle quando fu costretto a ricomporre i pezzi di sé stesso per salire sul Ring. 
"Può andare Weimar."
Non voleva andarsene, perché non appena avesse varcato la soglia di quella porta, avrebbe dovuto ammettere a se stesso che il destino non ne aveva  avuto ancora abbastanza di lui, e neanche Friedrich.
Tornò in stanza, si sedette sul letto, si alzò, gettò la valigia in un angolo e fu nuovamente fuori.
Quando i suoi passi risuonarono nel corridoio che portava alla sala da pranzo, il fuoco stava già bruciando.
Le fiamme erano familiari e seducenti, come vecchie amiche perse di vista per un po'. 
La cenere in gola non lo infastidiva, le monete nella polvere vanno solo pulite un po'. E così anche altre emozioni.
Per un mese aveva duellato con i suoi ricordi, per tre giorni aveva rischiato di dover cancellare tutto. 'Ricomincia d'accapo' si diceva. Ma non si riavvolge un nastro su cui qualcuno ha lasciato la parte migliore di sè.
"Che ti avevo detto?" 
"Anche tu avevi troppa paura che non fosse vero."
Un ragazzo gli venne incontro. Non si abbracciarono, non si toccarono. Ma era felice che fosse lì, che Friedrich potesse essere ancora considerato all' altezza della gioventù scelta che camminava fra quelle mura e non un tedesco qualunque con un discreto talento ma incapace ad agire.
"Quando quell'antipatico del nostro vicino di stanza saprà che non sono riusciti a farti fuori andrà su tutte le furie, glielo avevo scritto con i crauti nel piatto che se credeva di liberarsi così facilmente di te era solo un lombrico babbeo pezzo di-"
"Christoph, lui dov'è?"
Il ragazzo di nome Christoph si sgonfiò come un palloncino che qualche bambino aveva preso a calci. 
"Ah, lo sai."
"Perché nessuno mi ha detto niente?"
"E chi lo sapeva? E' arrivato ieri notte, arriva sempre di notte. Noi dormivamo e la mattina eravate entrambi scomparsi. Pensavamo l'avessi visto."
"Ha parlato contro di me, Christoph? Ha tentato i farmi espellere? Risorge dalle acque di un lago ghiacciato dopo che l'ho visto scomparirvi al di sotto, ricompare dopo un mese e cerca di rovinarmi la vita?"
Christoph si passò una mano tra le corte ciocche di capelli del colore delle castagne mature e si guardò intorno, evitando lo sguardo del biondo.
"Dov'è."
"Fra dieci minuti c'è il coprifuoco e tu sei qui dentro per intercessione del Cielo, se ti fai cacciare la sera stessa della tua riammissione chi glielo dice all'antipatico? Non ho abbastanza crauti per scrivere che sei un'impulsiva testa di Ariano bacata."
"Christoph dieci minuti mi basterebbero se tu mi dicessi dove posso trovarlo."
Christoph era una di quelle persone che potevi amare ma delle quali in alcuni momenti avresti fatto comunque a meno, una musica troppo acuta che a lungo andare dava male alla testa.
Friedrich se ne rese conto quando gli sbuffò in faccia.
"Con Tabbi… in cucina."
Il biondo si lanciò nel corridoio senza curarsi di fare silenzio mentre la voce di Christoph gli si lanciava dietro.
"E torna in tempo, altrimenti devo fare rapporto!
Quando Friedrich spalancò le porte della cucina con una spallata, Tabbi poté giurare di vedere i sanguinolenti pezzi di carne vermiglia adagiati sui suoi ripiani tremare come fossero vivi.
Se lo fossero stati, avrebbero reagito esattamente come lui: strofinaccio in fronte, testa nel barile delle patate e via, a desiderare che i passi rapidi e i forti muscoli dell'altro non ce l'avessero con lui.
Ma era ovvio, quasi banale, che non ce l'avessero con lui.
Friedrich non ce l'aveva mai con nessuno, era il pezzo di terra eletto dal sole in mezzo al mare in burrasca. 
Ma si sa, la burrasca è tempesta e la tempesta rende vento anche la brezza più lieve.
E Tabbi ricorderà per tutta la vita di aver pensato, quando un giovane dall'aria di cristallo e gli occhi d'oltreoceano sollevò lo sguardo verso il nuovo arrivato, che ogni pezzo di terra ha bisogno del mare che ne bagni le sponde.
Tabbi non vedrà mai più due occhi tingersi di tanto sollievo come quello che investì gli occhi di Friedrich quando vide Albrecht, in piedi, accanto a carne e sangue, vivo. 
E mai dimenticherà il tremito nei polsi di Albrecht quando i suoi occhi si posarono su Friedrich, tanto che affondò le unghie nella carne che fino ad un attimo prima non voleva neance sfiorare.
La furia del nuovo arrivato svanì come il fuco che sfrigola e si spegne. Ma ci sono persone -e Tabbi non era sicuro di voler essere lì quando ciò sarebbe avvenuto- che non spengono i fuochi: li aizzano. E se Albrecht avesse avuto le fiamme al collo, vi avrebbe buttato altra legna.
"Oddio… sei qui."
"Per favore Albrecht per favore, non nascondere il tuo entusiasmo."
"Non sono entusiasta che tu sia qui. Affatto. Dovresti essere lì fuori, nella neve in questo momento."
"Perché? Cosa ho fatto? Certo, oltre a crederti morto per quattro settimane. Quattro. interminabili. settimane."
"Forse lo ero. Ta daaan.."
"Albrecht se non la smetti giuro che-"
"Cosa? Mi prendi a pugni? E' così che risolvete le cose da queste parti, no?"
"Perché mi hai fatto questo? Perché hai parlato al Rektor contro di me? Tabbi, Christoph, Jochen, persino ragazzi con cui non ho mai neanche scambiato una parola hanno fatto sì che rimanessi parlando in mia difesa. Per me."
"Che gesto magnanimo farti rimanere qui, sul serio, sono commosso. Sono davvero un egoista, tentare di farti tornare dalla tua famiglia è da veri egoisti."
"Io fuori di qui sono il figlio di un fattore Albrecht! Non si riesce a sopravvivere con il paese in guerra da tre anni, non per la gente come me. Perché non lo capisci? Quando sono arrivato qui ero il nulla."
"A me quel 'nulla' piaceva."
"Lascia stare, sei il figlio di uno che nella gerarchia sociale sta in cima."
"Tu dovevi andare via da qui, dannazione..."
"Ma l'opinione del singolo non conta. La tua opinione non conta, e per fortuna direi."
Questo lo ferì. Albrecht quasi sussultò quando le parole di Friedrich si degnarono di tanta ruvidità. Era evidente che non si aspettava che il ragazzo che conosceva, dagli occhi verdi e la voce gentile, potesse affondare tali lame.
Allora afferrò uno straccio già intriso di rosso e si ripulì le mani, con gesti lenti e precisi, dalle carcasse del pranzo del giorno dopo.
Non lo guardava più, anche se avrebbe voluto, anche se le ciglia scure vibravano di impaziente avidità nel riguardarselo ancora e ancora il quasi-campione di Boxe, dopo un mese in cui aveva creduto che non lo avrebbe mai più rivisto.
E Friedrich ci provò a calmare le acque, ricordava ancora e ancora tutta la sofferenza nel ritrovarsi improvvisamente senza la figura sottile di Albrecht accanto, mentre il suo corpo sprofondava nelle acque buie del lago.
Ricordava le lacrime, e la rabbia, e l'impotenza della forza che svanì alle prime luci dell'alba dinnanzi a quel diciassettenne strano e caparbio. 
Non gli avrebbe permesso di fare di testa sua quella volta, non se lo sarebbe lasciato sfuggire per inseguire bianche colombe in un cielo nero, no; l'avrebbe messo alle strette, l'avrebbe circondato, assediato se necessario.
Funzionava. Funzionava sempre sul Ring. 
Ma non con Albrecht.
Quando Friedrich parlò, imponendosi calma e autocontrollo per non scatenare una bufera, fu chiaro agli occhi di tutti i presenti che la rosa che non si lascia cogliere ha le spine intrise del sangue di chi ci ha provato.
"Che ci fai qui, comunque?"
"Sono in punizione da ora fino alla fine della guerra, devo pulire questa… carne…  perché nessuno è più padrone di niente, neanche della propria vita."
"E ti dispiace?" Friedrich fece un passo avanti e mormorò qualcosa fra i denti, qualcosa che nessun altro udì. "So che hai cercato di ucciderti Albrecht. Non so cosa tu abbia raccontato a tuo padre e agli altri, ma non me la dai a bere. Mi spiace per te, ma ti conosco bene."
"Sarebbe stato meglio per tutti voi se fossi rimasto in quel lago."
"Voi, noi… che cosa dici? Perché ne parli come se tu non ne facessi parte?"
"Se mi avessi conosciuto davvero, avresti capito che è così."
Se Tabbi avesse mai visto un'aquila guardare al suolo dall'altezza delle sue ali, avrebbe certamente detto che il modo in cui il più giovane sostenne la vicinanza di Friedrich a un passo di insignificante lunghezza da sè fu quello di un rapace che non si sottomette alle questioni del mondo, non imbratta le sue piume di umano tormento, ma sovrasta la
tempesta e non vacilla mai.
Non credetegli, non sarebbe stato vero.
Albrecht -Tabbi non lo comprese allora- non era affatto un'aquila, lui si era già lasciato sporcare dalle questioni del mondo e l'impassibile freddezza con cui sostenne la presenza dell'altro non era che una linea difensiva contro i colpi di un'altra guerra. Più intima e più oscura.
Ma Tabbi non lo sapeva perché quei due non si fossero gettati al collo, stringendosi come si stringe l'albero maestro di una nave allo sbaraglio, dopo un mese che si erano creduti persi per sempre. Ma le cose il più delle volte non sono come sembrano e in quel tempo, le cose non erano neanche tanto umane.
Albrecht si mosse per primo, battendo una ritirata che somigliava ad una corsa agli armamenti più che ad un armistizio.
Nei suoi occhi la richiesta di pace non era contemplata.
"Bitte... Albrecht, lascia che ti conosca allora."
"Nein, es sti zu spät, Friedrich." *


***

 

Erano giorni strani quelli. 
La neve vorticava algida nei suoi fili incandescenti come petali bagnati e le stanze rilucevano di una strana coltre azzurra, nel silenzio abissale del mondo che aspetta. Una chiamata, un'occasione, la fine di una guerra. 
La neve si prendeva beffe di chi si fermava ad osservarla, danzando lieve come una ballerina sui problemi degli umani, troppo futili e troppo gravi per le sue scarpette di grigio.
Non c'era nessuno fuori quella mattina di un autunno come tanti altri in quei tempi scritti chi sa dove, che dovevano accadere. Nessuno a sentire i morsi del gelo sulla pelle, nessuno a desiderare di essere neve che copre e non carne che si lascia coprire.
Fino a poco tempo prima, al sorgere dell'alba, un ragazzo aveva lasciato le sue impronte sul sentiero sommerso di bianco, ma era bastato poco perché quelle flebili orme venissero occultate da altro bianco. 
Ora erano invisibili, non avreste detto che ci fossero state. Si sa, le orme non spazzano via la neve, non interferiscono con i suoi piani, non possono abbattere il suo rigido sistema. O almeno non con delle semplici orme. 
Ci vuole qualcosa in più per frenare la sua spietata avanzata di fiocchi cadenti, qualcosa che non possa essere coperto, qualcosa che non si affoghi. Qualcosa che Friedrich, con quel manto candido riflesso negli occhi e la forza persa a brandelli da qualche parte in quel silenzio opaco, non conosceva ancora.
Se avesse saputo come impedire all'universo di sottomettersi alle fredde ballerine, l'avrebbe fatto. 
"Non lo ripeterò una seconda volta: lotterete l'uno contro l'altro in un corpo a corpo libero, a mani nude. Non si ferisce mortalmente o quasi mortalmente, non voglio vedere sangue. Vi fermerete soltanto in due casi. Il primo: l'avversario, bloccato al suolo, si arrende; il secondo: l'avversario resiste dieci secondi netti bloccato al suolo. Chiunque di voi pensasse di fermare prima il combattimento, risponderà direttamente al Rektor della sua intromissione. Non ci si guarda. Non ci si parla. Fronteggiarvi nella neve potrà soltanto giovare alla resistenza dei muscoli e permettervi di acquisire un'accettabile dose di equilibrio per quelli di voi che avranno l'onore di combattere per il Fhürer e la Heimat. Se coloro che osservano soccorreranno uno dei due contendenti prima che io dichiari ufficialmente finito l'incontro, verranno espulsi. Non pentitevi. Non abbiate ripensamenti. Siete il futuro del Terzo Reich, siete gli uomini che comanderanno sugli altri uomini; siete la storia, e la storia non fa sconti a nessuno. Christoph, kommen."
Un ragazzo dagli occhi di cobalto fece un passo avanti.
"Scelga il suo avversario. Dieci secondi netti o le parole "mi arrendo", nulla di più, nulla di meno." scandì l'insegnante di educazione fisica, Herr Füller.
Una strana brezza scosse le onde azzurre negli occhi di Christoph Snaidar, un luccichio difficile da ignorare. 
Era felice di essere lì, il primo a poter dare sfoggio delle sue capacità di tedesco o vi era qualcos'altro, ringhiante al di sotto del suo volto giovane, che conferì alla sua voce una proposta di guerra?
"Albrecht Stein."
Friedrich raggelò sul posto. 
Se esisteva qualcosa che Albrecht Stein non sapeva proprio fare, questo qualcosa era combattere. E i calci di Christoph erano celebri quasi quanto i pugni del biondo sul Ring.
"Albrecht, shritt. Veloce." Füller scoprì l'orologio  da polso nascosto al di sotto della giacca pesante e si preparò a contare il tempo che uno dei due ci avrebbe impiegato a paralizzare l'altro. Un minuto esatto era la performance perfetta. Un minuto e avrebbero fatto bene ad avere un vincitore.
Albrecht raggiunse il suo posto, immerso nella neve fino alle ginocchia. Era silenzioso, pallido e Christoph lo superava di una buona manciata di centimetri.
"Al mio tre."
"Colpisci alla testa", pensò Friedrich, desiderando torcersi le mani piuttosto che tenerle immobili lungo i fianchi. "Sempre la testa per prima."
"Uno."
"Ti prego.. fa che…"
"Due."
Albrecht guardò Christoph e le labbra gli si contrassero. Conosceva bene quell'espressione e la conobbe anche allora, fra due numeri per scandire il tempo e la voglia matta di voltarsi a guardare il giovane biondo in fila con gli altri. Perché Friedrich era di quel biondo particolarmente chiaro che lo rendeva perfettamente, totalmente e innegabilmente Ariano. Il biondo che Albrecht aveva iniziato a detestare, ma che non riusciva ad odiare del tutto. Si ripromise di passarvi le mani fra quelle ciocche color del grano, se avesse avuto ancora mani da usare alla fine di quella giornata. 
"Tre."
Nessuno vide Christoph lanciarsi in avanti. 
Non ve ne fu il tempo. 
Neanche Albrecht lo vide, e quando se lo sentì sull'addome, fu troppo tardi.
Poco prima era in piedi, poco dopo lo stomaco era una landa di dolore e i polmoni gli si afflosciavano nel petto.
"Allontanati Al!"
Quando Albrecht si piegò in avanti, reggendosi con una mano qualcosa che doveva essersi rotto, a Friedrich si contorsero le viscere in una morsa che non aveva mai provato prima. Era violenta e non gli lasciò tregua. Era una mitragliatrice di schegge di vetro e rabbia che divenne furore quando Christoph buttò Albrecht a terra e gli si issò sopra, costringendolo con il suo corpo ad affondare nella neve.
"Christoph, bloccarvi, non uccidervi. Se vedo una sola goccia di rosso stanotte dormirete coi lupi."
Ma Albrecht, alla stregua di un gatto selvatico, se ne infischiò apertamente e gli piantò le unghie nelle guance: due gocce di bollente liquido scarlatto profanarono il bianco uniforme al di sotto dei loro corpi avvinghiati e tutti compresero che il sangue era esattamente ciò che Füller stava aspettando, che il solo rotolarsi nel terreno con la ferocia di due bestie selvagge non sarebbe mai stato abbastanza per lui. 
Friedrich poté udire le bandiere purpuree della sua Germania declamare a gran voce "Senza pietà."
Christoph gemette e digrignò i denti, si levò con uno strattone le mani dell'altro dal volto, qualcuno sussurrò "lo ucciderà" e per Albrecht non ci fu più nulla. 
Avrebbe smentito quella sentenza e avrebbe smentito il mondo intero pur di non rompersi al cospetto di un paio di folli occhi in cui la vendetta aveva spalancato le sue porte, insinuato le sue arcigne radici e trasformato Christoph in un automa che lo afferrò dai capelli e lo rivoltò come un pezzo di carne.
Gli era sopra con tutto il suo peso, poggiava sulle sue ossa come se volesse ridurle in polvere, premeva sulla sua schiena sottile con i gomiti aguzzi come un cavaliere avrebbe fatto con una spada. Gli piegò il polso che gli aveva slogato.
L'ultima cosa che Albrecht sentì prima di finire con la faccia nella neve fu il respiro caldo della rivalsa e le parole di chi gli stava sopra.
"Ti faccio crepare una volta per tutte stronzetto."
Christoph gli premette sulla nuca con gli avambracci, gli strinse il collo con le dita per farlo rimanere giù, la neve sarebbe stata la sua tomba.
"Cinque secondi."
Friedrich sperò che quel "mi arrendo" arrivasse, che lo salvasse dall'asfissiamento, che gli impedisse di svanire nella neve che lui tanto amava, che Albrecht fosse un po' meno Albrecht.
"Dieci secondi."
Ma quella resa non arrivò mai.
Christoph se ne accorse e spinse più forte, ma per quel ragazzo incastrato nel gelo arrendersi non era un'opzione.
Arrendersi avrebbe significato che la violenza aveva ragione, che la pioggia può sedare il fuoco, che si possono sparare proiettili contro altri esseri umani senza sentirsi in colpa.
Avrebbe significato essere brezza e non vento e -Friedrich, dannazione, iniziava a capirlo troppo tardi- Albrecht era o tempesta o niente.
"Trenta secondi."
E Füller non aveva intenzione di fermarli.
Potevano anche essere gli uomini che avrebbero dominato il mondo e forgiato catene in grado di soggiogare le nuvole, ma ci sono cose che il fisico umano non può sopportare.
Essere imbavagliati dal ghiaccio era una di queste.
Più i tentativi di Albrecht di tornare a respirare diventavano vani, più le nocche di Christoph sbiancavano per lo sforzo, più Füller pareva compiaciuto di una sorta di gloriosa gioia che niente aveva a che vedere con le cose di questo mondo. E per la prima volta nella sua vita, Friedrich sentì di odiare qualcuno.
La bile gli si riversò in gola come veleno amaro e l'acredine gli sviscerò la bocca dello stomaco. La collera correva alla pari del sangue. 
Se le regole sono regole e vanno seguite ad ogni costo, se soltanto l'ordine dell'insegnante avrebbe potuto e dovuto fermarli, cos'era quella sensazione di contrarietà fra i denti?
Se fosse successo qualcosa si sarebbe perdonato raccontandosi che gli ordini non si discutono?
Era lacerato a metà fra il dovere del Tedesco perfetto che mantiene la fermezza per quanto disperata sia la situazione e Friedrich Weimar che guardava Albrecht Stein soffrire.
"Gestoppt." *
E comprese, quando la mente non aspettava altro che scorgere la testa di Albrecht alzarsi e il suo corpo gettarsi accanto a quello del compagno, che non si possono seguire tutte le regole.
"Albrecht, wie geht es Ihnen? Sie könen aufstehen? Atmen… atmen…"*
"Er… wollte.. mich töten… er würde mich töten…"*
Quel "mi avrebbe ucciso" schiaffeggiò Friedrich come il colpo di una frusta. Aiutò l'altro a sollevarsi e pensò che le parole di Albrecht erano sempre fin troppo limpide, inequivocabili,
non potevi sfuggirgli. 
Come non poté sfuggire alla vicinanza del suo corpo esile scosso dai tremiti del freddo, né ai singulti di una respirazione affrettata e irregolare, né al braccio che gli fece passare attorno alla vita per sorreggerlo.
"Complimenti Christoph per la velocità con cui ha messo il suo avversario al tappeto, costringendolo in una posizione che certamente la prossima volta porterà alla resa." 
Lo sguardo dell'insegnante si spostò su Albrecht, il cui labbro inferiore era così vermiglio da parere scottato dal ghiaccio. "Non si può dire che lei sappia combattere Albrecht… ma certamente sa vincere."
"Che cosa?" ringhiò Christoph. "Io l'ho tenuto a terra, io l'ho sconfitto."
"Non è così, Albrecht non si è arreso."
"Ma... Herr Füller, in un'altra occasione sarebbe morto!"
"Ma, in un'altra occasione, non si sarebbe arreso."
"Questo non-"
"Basta così Snaidar. Il morire con gloria e orgoglio intatti è più importante di tutto il resto, più importante anche della stessa vittoria. E' un bene superiore che tutti, e dico tutti, nella Nuova Germania dovranno possedere se vorranno essere ammessi nella nuova era. Complimenti Stein."
Il volto arrossato di Albrecht non ne occultò il fervido disprezzo.
Il resto accadde molto in fretta: il sangue baciò la neve come un'amante impetuoso, l'odore della polvere da sparo violentò l'aria e Tabbi si sentì barcollare alla vista del ragazzo biondo alla sua sinistra che cadde al suolo, un buco vermiglio sul polpaccio.
Che ci fosse un attacco ad Allestain era fuori discussione: nella Polonia dominata dalla Germania, a meno di 3 chilometri dalla sede di una delle più illustri Accademie Politiche Nazionali, nessuno avrebbe osato ancora impugnare armi dopo la caduta di Varsavia. Eppure era accaduto.
E stava accadendo proprio in quel momento.
Herr Füller sbraitò un ordine che si perse nella ressa di corpi che lottano per la salvezza.
"Merda, siamo scoperti!
"Che facciamo?!"
"Ci sono delle armi da qualche parte-"
"Ad ovest del castello!"
"Separiamoci.. muovetevi! Ora!"
"Correte dannazione! Correte!"
Ci arrivarono.
Ansanti, con le gambe trascinate nella neve e i fiocchi della stessa che avevano ricominciato a danzare giù dal cielo, qualcuno si ricordò che durante un'esercitazione erano state nascoste delle armi nella terra molle intorno al grande abete, e le dissotterrarono.
Non era sensazione usuale per dei giovani tedeschi sentirsi prede in balia di nemici sconosciuti, posti in una radura che li poneva su un piedistallo fulgido e rischioso. Non li avevano addestrati a sentirsi impotenti. Nessuno li aveva preparati per questo. Li addestravano ad essere invincibili predatori, non comuni mortali.
"Zitto Kurtish, zitto!"
Christoph si teneva stretta la sua Walther P38 come un altro diciottenne avrebbe fatto con una bella ragazza. Kurtish aveva zoppicato sin lì, trascinando la gamba o lasciandosi sostenere, ma la ferita aveva reciso la pelle e il sangue scendeva copioso e bollente come una cascata di lava.
"Non voglio morire… non voglio morire… non voglio morire… Kurtish ti prego… fai silenzio…" balbettò Tabbi, saltellando sul posto.
"Ragazzi, cazzo… ci scopriranno!"
"Kurtish se non chiudi quella fottuta bocca giuro sul Fhürer che ti ammazzo io!"
"Siamo tutti dalla stessa parte Christoph. O sbaglio?"
Fu allora che Friedrich si fece avanti, sbuffando parole nel gelo che si condensarono in nuvole di fumo.
Christoph non si aspettava di trovarselo davanti, ma non indietreggiò. Evidentemente il motto "ognuno si salva da solo" non valeva per il pugile quando non c'era nessuno a dargli ordini.
"Fatti da parte Friedrich. Vuoi morire per caso? Se continua a piagnucolare come una femminuccia ci sentiranno."
"Nessuno morirà." risposte Friedrich. "Nè noi, né tantomeno Kurtish."
Albrecht gli fissava la schiena.
"Tu… Tabbi?… cosa diavolo stai facendo?"
Tabbi, nel frattempo, si era furtivamente avvicinato al ferito passandogli un braccio attorno alle spalle tremanti.
"Siete.. impazziti tutti quanti? Siamo tedeschi, fottuti tedeschi! Noi non scappiamo terrorizzati come ragazzine inglesi qualunque cazzo. Quando andremo in guerra-"
"Mi auguro che gli inglesi abbiano pietà di te."
La solidarietà nei mugolii sommessi di Kurtish non permisero ad Albrecht di aspettare ancora. 
I segni sulla pelle della sua gola avevano appena iniziato ad affiorare in superficie che Christoph pensò di riutilizzarli come punti d'appoggio per soffocarlo nuovamente, questa volta senza neve.
Albrecht indietreggiò d'istinto quando l'altro tese i muscoli con la palese intenzione di scaraventarglisi addosso e quel gesto bastò a Friedrich. Per averne abbastanza.
Esiste un sottile confine nell'animo di un uomo, al di là del quale ha sede un luogo dove non si può andare.
E' una terra che non si conquista e non si tocca.
Quando Christoph saggiò il sapore del suo stesso sangue sul palato e un pezzo di dente gli finì fra le tonsille, capì che quel confine che non si oltrepassa, quella terra che non si conquista e che non si tocca, in Friedrich, era Albrecht.
"Sai…" cominciò. Si piegò e sputò a terra un grumo di saliva e sangue. "Sai perché ho scelto lui oggi…? Non è stato un caso… lo volevo morto. E e se bacerà… un'altra vola Katharina, lo sarà."
Friedrich volse il collo oltre la sua spalla perchè sapeva che l'avrebbe trovato alle sue spalle, in penombra, ai margini del suo campo visivo, ma qualcuno aveva altri piani.
"Są tam!"
Quel "sono di là" urlato in un'altra lingua spazzò via gli istanti rimasti come briciole. I tedeschi non capirono quelle parole, ma fu chiaro a tutti che avrebbero dovuto darsi una mossa. L'istinto è un'idioma universale.
"Sono polacchi…" disse Kurtish in un bisbiglio, come se non credesse alle sue stesse parole.
"Sono polacchi!" ripeté Tabbi. Prese la rincorsa e, trascinandosi Kurtish e la sua gamba offesa dietro, si lanciò nel fitto degli alberi.  Venne inseguito da altri spari provenienti da chi sa dove: presto sarebbe diventata una carneficina.
"Zatrzymać!" 
"Di qua."
Friedrich venne afferrato da una spalla e tirato indietro.
"Al… Albrecht. L'Accademia è da quella parte, sono sicuro che è da quella parte…"
Ma Albrecht non gli lasciò il braccio mentre si inoltrava fra le chiome ombrose, ed era chiaro che non si sarebbe fermato.
"Albrecht… Dannazione."
Con l'aria nei polmoni che non teneva testa alla velocità delle gambe, pareva sapesse esattamente dove andare.
"Ma tu non stai andando all'Accademia, vero?"
Fu allora che Albrecht si fermò e, quando si voltò, per Friedrich non ci furono più dubbi.
"Tu sai che qui saremo al sicuro… Non è così?"
Nessuna bufera di neve avrebbe mai potuto coprire il fracasso del cuore che gli accelerò nel petto.
"Tu sapevi già cosa sarebbe successo, non è stata un'imboscata per te."
Friedrich pensò che se avesse negato tutto gli avrebbe creduto lì e subito, senza guardare indietro. Sperò che negasse, che si difendesse, che persino s'indignasse per quell'accusa disonorevole. Ma, a quanto pareva, l'idea di avere a che fare con un gruppo di insorti non offese Albrecht. Non lo offese affatto.
"Sì. Lo sapevo."
Fu come morire. Rinascere. E desiderare di non averlo mai sentito.
Fu come conoscere Albrecht per la prima volta, impietriti sotto a cristalli d'Inverno, nel silenzio innaturale che precede la tempesta.
"Siamo i tuoi compagni…" esordì Friedrich, con una voce che voleva essere calma, quasi ragionevole. "Siamo tedeschi… Siamo dalla stessa parte in questa guerra."
Doveva esserci per forza una spiegazione che uccidesse la spiacevole sensazione che ordinarietà e follia avessero deciso di giocare a carte con il mondo.
Albrecht era impazzito.
"Io non sarò mai dalla loro parte. E neanche tu."
"Albrecht. Miseria ladra. Arrivi a tanto? Questo non è scrivere due parole di troppo in un tema in classe, questo è tradimento."
"Anche tu tradisci Friedrich, l'ultima volta? Cinque secondi fa. Ogni volta che sei te stesso. Hai tradito prima quando hai difeso Kurtish, hai tradito quando hai perso l'incontro finale perché ti sei rifiutato di combattere, e tradirai ancora e ancora e-"
"Non farlo. Albrecht non farlo.."
"Ci ho provato ad odiarti sai. Ci ho provato davvero, ogni volta che facevi qualcosa che mi faceva rivoltare lo stomaco ho pensato 'Ecco, ora riuscirò a credere di lui ciò che credo di tutti gli altri". Ma alla fine non ci riesco mai. Perché per quanto ti sforzi di essere come tutti gli altri… non lo sei, Friedrich. E questo non lo si può cambiare." Si fermò un attimo, poi
aggiunse: "Non voglio che cambi. Voglio poter continuare a credere di te quello che non credo di nessuno, voglio poterti guardare e illudermi che forse, in questo cimitero di anime, ne resti ancora una."
Friedrich avrebbe sacrificato ogni vittoria per sentirgli dire ancora una volta quelle parole, anche se ancora non se ne rendeva conto. 
Non si sarebbe mai aspettato che sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe conosciuto attraverso Albrecht stesso ciò che sembrava aver difeso tanto a lungo dentro di sé che la voce gli era caduta sull'ultimo suono, lasciando la frase monca e leggera nell'aria; più della polvere, più delle aquile, volava più in alto di qualsiasi cosa.
Ma Friedrich non poteva seguirlo; era figlio di un fattore ed era un lottatore di boxe che cercava di rimanere a galla e Albrecht avrebbe fatto meglio a capire che ci sono altezze che non è consentito raggiungere.
"Io… dovrei denunciarti." 
Non era sicuro che questo fosse ciò che aveva intenzione di dire. Non sapeva neanche se questa fosse la direzione che si aspettava avrebbe preso la discussione. Ma aveva previsto la risposta dell'altro, perché era banalmente ovvia. Chiunque li avesse conosciuti avrebbe detto la stessa, prevedibile cosa. Ma c'erano cose più grandi in palio, in quel '42. Una guerra, ad esempio.
"Non lo farai."
"Non lo farò? Non lo farò dopo che abbiamo rischiato di morire? Dopo che uno dei miei è stato ferito? Dopo che ho finalmente capito quanto in là sei disposto a spingerti perché non sai stare al tuo posto?!"
Albrecht non era più convinto che Friedrich avrebbe mai potuto capire. 
Dal canto suo, Friedrich non voleva sapere quanto a fondo Albrecht si stesse mettendo nei guai. Ne aveva un'idea ben definita, fino a quando non continuò a parlare. Dopo, soltanto sgomento.
"Questa non è la nostra terra. La Germania crede di poter sottomettere tutto e tutti cancellando al di sotto di qualche bomba millenni di culture e tradizioni, e di dignità. Ma non lo vedi? Nessuno rinuncia a se stesso senza lottare. Pensa da tedesco, parla da tedesco, agisci da tedesco.  'Blut und Ehre', Sangue e Onore, 'Muori per la tua Patria' nell'Inverno infinito di una nazione lontana che non si arrenderà mai."
"La Russia… vinceremo la Russia. E' solo questione di tempo, le difese di Stalingrado vacillano ogni giorno di più. Prima della fine del mese la città sarà nostra. Hai sentito il Fhürer-"
"il Fhürer ha mentito."
Nessun bombardamento avrebbe mai avuto l'effetto di queste parole nella Germania Nazista. 
Queste parole non dovevano esistere nella Germania Nazista.
Allora perché pronunciarle?
Perché scomodare il pericolo di venire arrestati, chiusi in prigione e vedere il sole per il resto dei giorni attraverso le sbarre di una cella per qualcosa che non dovrebbe esistere?
Erano parole fantasma in quella realtà impreziosita da bandiere rosse e nere che svolazzavano su qualsiasi capitale posassero gli occhi, distribuiva ottimismo assieme al pane di un Regno che non avrebbe conosciuto fine. 
Parole fantasma, inconsistenti come nebbia. 
E come nebbia s'insinuarono in Friedrich, riempiendogli il naso dell'odore pungente del dubbio.
Parole così labili e piccole e sbiadite che Albrecht avrebbe potuto venir fucilato soltanto per averle pensate. Perché uccidere per delle parole fantasma? 
Perché il Terzo Reich temeva tanto le parole degli spettri?
E allora Friedrich reagì come chi capisce che i sogni possono tramutarsi in incubi nella stessa notte, e che forse chi si è svegliato prima sa qualcosa che non avrebbe dovuto comprendere. 
Reagì come un bambino che fino ad allora aveva osservato il fuoco da lontano, trovandolo estremamente piacevole e luminoso, per poi avvicinarsi un giorno, e scoprire che quella luce può fare anche male.
Reagì con la paura. Di vederlo morire, di quello che insinuava, di ciò che usciva dalla sua bocca e per il quale si sarebbe fatto ammazzare perché per lui era la verità, e ciò che per Albrecht era verità era la sola legge possibile. 
In tre secondi netti il moro aveva una pistola puntata alla testa e la mascella del biondo contratta per lo sforzo di non abbassare l'arma. 
Si fanno cose strane nella vita, cose che sarebbero state le ultime delle nostre scelte. Fino a quando non ci accorgiamo che non ci sono scelte; fino a quando l'unica scelta possibile è tenere sotto tiro di morte la persona per cui avresti scatenato fulmini e saette.
"E' questo che sei, Friedrich?" Gli occhi di Albrecht si erano lievemente spalancati, le mani gli tremarono, ma poteva davvero fargli paura chi aveva pianto sul suo petto, scosso dalla stessa diffidente claustrofobia di essere macchie bianche su un lenzuolo nero? No. Non poteva. 
"Il loro tedesco?"
"Dimmi che non è vero… dimmi che hai sbagliato, che scherzavi, che sei ubriaco, dimmi quel che cazzo vuoi ma dimmelo, dimmi che non credi ad una sola parola di ciò che hai detto. Albrecht sagen Sie mir, bitte…"*
"Nein, Ich kann nicht." 'No, non posso', rispose il più piccolo. 
E aggiunse, come chi dice addio quando vorrebbe solo un 'Arrivederci': "Neanche per te."
Friedrich non lo riconobbe. 
Eppure era sempre stato lì, al suo fianco, a prendere a spallate il mondo, con quel suo sguardo irriverente e l'irrequietezza dei ribelli.
La canna della pistola era ancora in direzione della sua fronte, ma Albrecht alzò il mento, fremente d'incredulità e impazienza: voleva una posizione. Friedrich lo sapeva: Albrecht voleva sempre una posizione. Detestava i neutrali, non sopportava gli indifferenti. Lui era così: o Cesare o nulla.
"Allora scegli, Friedrich: o me, o il Terzo Reich."
Entrambi sapevano che avrebbero detto cose che non sarebbero piaciute a nessuno. Ma se il vento non si placa, si chiudono le imposte. E si cerca di trarre in salvo il mendicante. 
Ma se il mendicante non cerca protezione ma elemosina insofferenza, Friedrich era certo di essere disposto a tutto pur di salvarlo. Anche mentire.
"La Germania. Sarà sempre la Germania."
… e poté giurare che qualcosa si spezzò, in quel preciso istante, in quella radura, mentre lì fuori si faceva la storia.
"Allora avanti… fallo. Sparami. O dì a tutti che Albrecht Stein, primo e unico figlio del Gauleiter Heinrich Stain, fondatore dell'unico e 'vero' Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori è colpevole di alto tradimento, tradimento della patria, sfiducia nella vittoria, cospirazione con il nemico e di essere un maledetto K o m m u n i s..-"
Gli schiaffò una mano sul viso prima che potesse dire altro e la "t" sbattè con violenza contro il palmo della mano. 
Friedrich annientò la distanza che li separava con un'impeto che sconcertò Albrecht; il moro si sbilanciò all'indietro e finì con le scapole sbattute contro un tronco, e la voce gli si mozzò in due.
Albrecht serrò istintivamente le palpebre e si morse il respiro; alcuni cristalli di neve gli si incastrarono fra le ciglia. 
Friedrich non si era e reso conto che stringeva ancora il dito sul grilletto, e il metallo della pistola glielo aveva inconsapevolmente premuto sulle costole.
Come poteva la stessa persona essere incendio che minaccia di incenerire il mondo un attimo prima e una fragile bambola di porcellana un attimo dopo? 
Al biondo nessuno aveva mai detto che avrebbe trovato alta e bassa marea nello stesso mare. E che avrebbe amato quel mare, ma che quest ultimo si sarebbe comportato con lui come se fosse sole che rischiava di scottarlo. 
Non voleva che Albrecht lo credesse capace di fargli del male; getto l'arma di lato con stizza e quella si ficcò nella coltre bianca, e realizzò che non gli piacque vedere Albrecht in quel modo, irrigidito dal timore e dalla diffidenza come se il nemico lo avesse appena catturato sul campo di battaglia. Ralizzò che erano fermi in una strana posizione e che avrebbe dovuto togliergli la mano e liberargli la bocca, e lasciare che il buonsenso facesse il resto. Ed era già pronto per farlo, credetemi, fino a quando Albrecht non aprì gli occhi.
Allora il palmo di quella stessa mano lasciò il posto alle dita di Friedrich, che gli scivolarono sulle labbra.  
Due guance che nulla avevano da invidiare al pallore della neve circostante, sul quale spiccavano le brune ciocche di capelli smosse dalla lotta e dalla corsa e la linea di un collo morbido attraverso il quale una vena bluastra pulsava tenacemente.  
Albrecht non lo fece apposta, Friedrich ne era sicuro, quando lo guardò in quel modo. 
No, non con ironia o malizia, non con ostilità, né piacere: era uno sguardo che il Pugile non seppe mai descrivere davvero, la vulnerabilità disarmante che possedevano i suoi occhi dell'azzurro più scioccante che riusciate a immaginare.
Innocenza e candore guerreggiavano con il fascino dell'indocilità in quegli occhi che -Friedrich ne era sicuro- avrebbero fermato un carro armato.
"Perché non sai dire di sì?" sussurrò allora. "Perché non puoi essere come tutti gli altri…?"
"… Saresti qui ora se fossi come tutti gli altri?" rispose Albrecht e, mentre parlava, Friedrich con indice e medio gli tirò il labbro inferiore in avanti. 
Che cosa avrebbe dovuto fare?
Denunciarlo. Certo.
E forse sarebbe stato meglio. Forse con la sorte è bene non giocare. Non la si sfida quando è in atto una guerra perchè i suoi dadi, una volta lanciati, non tornano indietro.
Chiudere la faccenda era infinitamente semplice.
Ma accusare quegli occhi di alto tradimento voleva dire chiuderli per sempre, e le sue labbra, che facevano bella mostra di sé su tutto quel pallore, dipinte da un dio con una morbosa passione per il rosso? Cosa avrebbero fatto alle sue labbra?
A Friedrich venne in mente una cosa sola, senza neanche capire perchè. E la fece.
Albrecht lo guardò avvicinarsi, lentamente, troppo lentamente, l'attesa fu snervante. Si accorse di voler assaggiare le labbra del pugile prima ancora di sentire il suo respiro caldo sul mento. Quando la lingua di Friedrich gli entrò fra i denti, seppe che era troppo tardi per fermarsi. I brividi che gli carezzavano la colonna vertebrale erano la conferma che non si sarebbe fermato.
Friedrich fu dolce e lieve ma non gli chiese il permesso di prendergli il mento tra le dita e approfondire il contatto, lasciando che la lingua si intrecciasse con la sua. E Albrecht, senza doverci pensare un solo secondo, aprì di più la bocca e consentì all'altro di varcare la soglia delle sue difese, di premerlo contro quel tronco, di confondere il respiro con il proprio. Quando Friedrich gli strinse i capelli sulla nuca e il corpo di Albrecht si tese come una corda di violino, fu chiaro ad ogni fiocco di neve che, inconsapevolmente, non avevano aspettato altro in tutti quei mesi.
Tutto il rumore del mondo e degli echi dei feriti, dei lamenti delle madri, delle bombe e del fumo apparvero vani in confronto ai loro respiri bollenti nel gelo, alle labbra umide di saliva e al modo in cui Friedrich afferrò il viso di Albrecht con le mani, come se ne dipendesse l'esito della guerra.
Erano caotici, scomposti, sgraziati e per niente Ariani. Ma erano belli da morire, con la loro urgenza di rubare per sé qualcosa dell'altro, e con mezzelune di iridi che non oscuravano mai del tutto perché volevano sentirsi ma bramavano anche vedersi prima che fosse troppo tardi.
Era triste il modo in cui si assaporavano, piano ma con fermezza, come se sapessero che non avevano tutto il tempo del mondo, che prima o poi la neve si scioglie, che non sarebbero potuti rimanere a leccarsi le labbra per sempre.
Friedrich, in un momento di breve lucidità, promise a se stesso che avrebbe baciato Albrecht in quel modo ogni giorno di ogni vita se questo fosse bastato a sottrarlo alle grinfie del ribelle che era in lui.
I loro cuori sbattevano come ali febbrili di uccelli in gabbia, le mani si aggrovigliavano fra capelli d'oro e d'ebano mandando in frantumi l'immagine perfetta che indossavano come una seconda uniforme; senza preavviso il Pugile percepì i denti del Ribelle inciderglisi nella carne cedevole del lobo, e una scudisciata improvvisa di piacere gli colpì il basso ventre. 
Un sciocco. Un ramo che si spezza.
Chi dei due fu più pronto non è dato saperlo, ma entrambi si nascosero quasi all'unisono dietro il grosso Abete, allerta, ansimando senza fiato. Gli zigomi di Albrecht erano imporporati dal difetto tutto umano del sangue che vi affluisce e Friedrich, i sensi aizzati a fiutare il minimo movimento, non vi scorse solo una scioccante malinconia. 
"Ragazzi… Albrecht, Friedrich, dove siete?"
"E' Tabbi…"
".. la pistola.."
"Sì…" Friedrich deglutì. "Sì, Tabbi. Siamo qui."

 





 

- Tedesco- 

Heimat = 'Patria', intesa come tutto ciò che costituisce lo spirito, le radici, l'identità di un popolo.

*"Nein, es sti zu spät, Friedrich." = "No, è troppo tardi, Friedrich."

*"Gestoppt." = "Fermati."

*"Albrecht, wie geht es Ihnen? Sie könen aufstehen? Atmen… atmen…" = "Albrecht, come stai? Riesci a sollevarti? Respira… respira…"

*"Er… wollte.. mich töten… er würde mich töten…" = "Voleva.. uccidermi… mi avrebbe ucciso…"

*Albrecht sagen Sie mir, bitte…" = Albrecht dimmelo, per favore…"
 

- Polacco -

"Są tam!" = "Sono di là!"

"Zatrzymać!" = "Fermi!"
 

SPAZIO AUTORE
Buonsalve, non ho niente da dire, tranne forse l'assoluto c a o s in cui si trovano le "bozze" di questo capitolo e l' a p o c a l i s s e della versione finita (esisterà mai qualcosa di realmente finito?) che state leggendo. 
Chi aggiunge disordine al disordine? Ma questa ragazza ovviamente!

La storia dovrebbe (DOVREBBE) comporsi di 5 capitoli e già il primo non doveva andare così, ma, per chi non lo sapesse, i miei capitoli non vanno mai come diceva il piano (chi ha mai posseduto un piano?) originario e poi finisce puntualmente che pascolano nei prati e inseguono le farfalle mentre io me ne sto lì in mezzo a fingere che è tutto sotto controllo. 

Su NaPoLa non dico nulla altrimenti filosofia non inizio a studiarla più, sul periodo storico in cui si è mosso il film e in cui mi sto muovendo (o affogando) io non dico niente a maggior ragione perchè davvero ho Schopenhauer che mi attende come un'ombra oblunga sulla mia nuca e Friedrich Wilhelm Nietzsche perché sì, leggete ciò che scrive e le risposte verranno da sè. (o ulteriori domande.)

Se riscontrate errori nelle frasi in tedesco o in polacco non esitate a farmelo sapere. 

Ringrazio in anticipo coloro i quali daranno un'occhiata i miei (straripanti) fiumi di parole e complimenti se non vi perderete, 
Io il filo di Arianna l'ho perso da un po'.

Ps: Allestain si trova in Polonia, il nome Polacco della città è Olsztyn ed è capoluogo del voivodato della Varmia-Masuria, anche nota anche come "la terra dei mille laghi".
Ps: Sorvolate o segnalate eventuali errori, l'ho riletto un centinaio di volte ma l'ho modificatoalteratomutato altrettanto.
Ps3: la copertina è di mia creazione. 

Pachiderma Anarchico

 

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Capitolo 2
*** II ***


Aquile e Colombe
II
 
 

 
 
Allestain, Polonia Meridionale, 8 Novembre 1942
 
“Lascia perdere le gambe, la testa! La testa!”
“La testa… come ti senti oggi? Fa male?”
“Trattieni il respiro! Scarica.. scarica nelle braccia”
“La sensibilità al braccio? E’ migliorata parecchio.”
“Non ruotare i polsi! Atterralo! Colpiscilo dove l’hai già colpito!”
“Se tiro dei colpi qui’”
“Tirali lì! Sul petto! Non smontare la guardia, la sua, la sua!”
“Albrecht.”
“Grandioso Friedrich!”
“Mi devi guardare una persona.”
“Certo Berta, dimmi pure.”
“Senti che pioggia maledetta, non ci posso credere che a Novembre ancora piova così tanto. Che il cielo tenti di affogarci? Maledetta…”
“Berta, la persona.”
“Sì, oh sì Tornava, eccome se tornava. Quello fa il diavolo a quattro, era ‘perpetuo’ che si rompesse qualcosa. La fronte, dicevo io, ma è stato più fortunato.
Mariah non startene lì impalata e chiudi la porta. Misericordia ladra dico io.”
Berta era la responsabile dell’infermeria dell’Accademia, nonché radio sempre accesa degli infortunati; i poveri disgraziati erano costretti dalle loro condizioni a sentirla canticchiare tutto il giorno fra un lettino e un altro, se andava bene; altrimenti iniziava una sorta di cronaca di guerra nella quale presagiva vivi e orti, esiti e vittorie e non ci azzeccava neanche per sbaglio.
Quel mezzogiorno uggioso era particolarmente allegra poi: l’infermeria era un andirvieni continuo di pugili ammaccati e caviglie rotte. Aveva servito per due anni in un ospedale militare nei pressi di Munich, la Berta, ed anche lì era sempre più felice quando l’ospedale bazzicava di moribondi.
A sentir lei in questo modo si rendeva utile alla nazione. Poco male se quegli stessi moribondi facevano parte della stessa nazione a cui lei voleva essere utile.
In ogni caso nessuno mai, a memoria d’uomo, aveva mai contrariato la Berta, se non qualche gerarca di rango davvero elevato, e ciò non soltanto perché aveva la stazza di un rinoceronte e l’indole infuocata della donna di mezza età navigata e ruvida, ma anche perché fra le sue manone passavano gli aghi con cui punzecchiava i pazienti, ed essi non avevano alcuna intenzione di avere a che fare con una Berta arrabbiata che reggeva degli aghi.
Fatto sta che teneva Albrecht da tre settimane, quando gli si era presentato con una collana di lividi violacei ancora non del tutto svaniti al collo e un polso slogato che rispondeva dolorosamente ai comandi.
“Cosa è stato?” aveva domandato.
“Una lotta corpo a corpo.”
“Una zuffa?”
“Una lotta.”
“Per me tutte le lotte che non ti uccidono sono zuffe. Male qui?”
“Sì.”
“E qui?”
“Sì.”
“Bene.”
“Bene”
“Vuol dire che non sei morto.”
Tabbi, quel giorno, era passato di lì per far medicare Kurtish e il suo polpaccio malridotto e Albrecht stava quasi per socchiudere gli occhi e rilassarsi dopo le ‘lievi’ manovre di Berta sul suo polso quando… “SAUKERL! Non vomitare sui pazienti!” che -per chi non fosse addetto ai lavori- significa “maiale” o, nel linguaggio di Berta, “lurido porco.”
Un Tabbi stropicciato come una calza scucita e i peli ritti sugli avambracci stava effettivamente per rimettere sulla testa del povero Kurtish e della sua gamba rossa.
“Ha già perso troppo sangue, subito da me dovevate portarlo.”
“Ma avevano degli insorti polacchi alle calcagna!”
“Maledetti polacchi. E maledetto pure tu se ti esce un filo di succo gastrico da quella bocca.”
Berta si agitò come un tornado quando ha intenzione di spazzare via tutto e tutti.
“Le garze. Dove sono le garze? Quella saumensh di Mariah le avrà ancora nel ripostiglio sotto ai cetrioli? Mariah!”
Nel frattempo di tutto quell’urlare Albrecht si era alzato e, con il polso ancora utile, strappò una striscia di lenzuolo.
“Tabbi, la gamba.”
“Come?”
“Tienimi la gamba.”
Tabbi non era riuscito subito ad afferrare le parole del moro, ma quando con quel pezzo di stoffa premette direttamente sul buco nella carne di Kurtish, pensò di svenire.
“Cosa… cosa fai? Così non.. entrerà di più il proiettile…?”
“Non deve perdere altro sangue.”
“Ma…”
Kurtish mugolò qualcosa e spinse la nuca contro il cuscino quando Albrecht premette di più, proprio al centro di quel foro scarlatto.
“Se devi vomitare fallo di lato Tabbi, volti la testa e rimetti anche l’anima, ma per ora mi tieni questa gamba.”
Tabbi era pervaso dal ‘rigor mortis’ sin dentro le ossa, eppure non se lo fece ripetere una terza volta.
Un po’ boccheggiante e un po’ disgustato s’imbratto inevitabilmente di sangue.
“No Al… non ce la faccio… che schifo… quello è un tendine? No no…”
“Aborto di un Saukerl! Che combini!?”
Una delle possenti manate di Berta l’aveva spinto via, srotolando un rotolo di garze sul petto ansante di Kurtish che aveva momentaneamente adibito a comodino.
“E tu?”
Albrecht si era aspettato una sfuriata anche per lui, ma Berta gli rivolse un sorriso storto e gli chiese invece “Chi ti ha insegnato così? Ah non importa non importa, tu mi servi cubetto di pan di zenzero.”
E Albrecht dall’otto di Ottobre restava in infermeria anche molte ore al giorno, fino al tramonto, perché “il Fhürer è il Fhürer ma Berta è Berta”, o almeno così andava declamando chi era passato sotto si suoi ferri.
Quel mezzogiorno dunque, la pioggia era una fitta rete da pesca che incastrava la terra, una spessa coltre grigiastra che scendeva giù con rintocchi di madreperla.
Berta detestava la pioggia, credeva che qualche essere divino ce l’avesse direttamente con lei.
“Sarà un inverno come non si è mai visto questo.”
“Albrecht imbevve del cotone con del disinfettante e accennò una smorfia ironica. “Si dice così di ogni inverno.
“Ti dico che questo sarà diverso La vedi questa pioggia? E’ scura, tetra. E’ impastata di fuliggine. Oh ma che cosa vuole saperne un cosino come te? Quante piogge hai visto in vita tua? Io ne ho viste tante e credimi, nessuna è mai stata fuliggine.”
Berta ordinò qualcosa ad un’infermiera e quest’ultima corse fuori, sotto le fredde secchiate d’acqua, senza cappotto né ombrello alcuno, perché “il Fhürer è il Fhürer ma Berta è Berta.”
“Ma guarda te se mi devono mandare indietro i soldati proprio adesso.”
“Mandarli indietro?”
“Massì, come l’autunno del ‘18.”
Albrecht, che in quel ’18 non era ancora nato, non capì sino a quando la stanza non si riempì di divise mimetiche e scarponi grondanti di fango e fiumi d’acqua che appiccicava le appiccicava sui corpi di una trentina di giovani uomini.
“Questi sono ex ragazzi della NaPoLa scelti per il fronte.”
“Su ragazzo, non vorrai startene lì impalato fino alla fine della guerra, sceglitene uno e aggiustalo.” comandò mentre una di quelle fradicie divise si accostava a lei.
Mentre Albrech faticava per mettere a sedere un suo ex-compagno d’Accademia grosso il doppio di lui, non vide il cenno che il militare fece in sua direzione.
Berta si avvicinò e gli mise una boccetta di acetone in mano. L’uomo parlò.
“Berta ha detto che hai le mani più delicate di tutta l’infermeria. Se mi medichi per bene ti assicuro che starò molto più fermo.”
Albrecht strinse l’acetone in mano.
Rivedere Justus von Jaucher, caporalmaggiore e incubo ricorrente, fu come vedere quel mostro nell’armadio che turbava i sonni dei bambini ma che i genitori giuravano di non vedere.
Albrecht non riuscì a nascondere il cipiglio di antipatia che gli montò su in quella sala indaffarata. Si morse una guancia, deglutì l’insofferenza, gustò il sapore amaro del silenzio ficcato di forza in bocca e stette completamente zitto.
“Posso lasciarti da solo Albrecht? Non fartela sotto Justus, il signorino qui presente ha imparato in fretta.” e la donna si allontanò.
“Prego.”
Distaccato, sperò che fosse lì per un congedo breve, qualche giorno, una settimana al massimo. Sperò che la ferita fosse in realtà un graffio quasi invisibile. Gli aprì la giacca e sollevò l’orlo della maglia bagnata dalla bufera di fuori.
“Temo abbia ricominciato a sanguinare durante il viaggio.”
“E sanguina sì, ti è saltato un punto, il primo è completamente andato. Ti farà male.” appurò Albrecht, senza preoccuparsi di mascherare la delusione per la gravità della ferita. Una settimana non sarebbe bastata a rimetterlo in sesto.
“Sai da dove sono appena venuto Stein?”
“No, da dove?” chiese candidamente, rincuorato al pensiero di potergli infilare un ago nella pelle ed essere autorizzato a farlo.
“Dal fronte.”
Stalingrad?”
“Francia.”
“Beh, oggigiorno se non sei stato a Stalingrado non sei nessuno.”
“Stain, come osi-“ ma l’invettiva di Jaucher venne bruscamente recisa dalle sottili dita di Albrecht che infilarono l’ago nel lembo di carne immediatamente vicino la la parte aperta della ferita traslucida come rubini.
“Oh, non volevo mancarti di rispetto. Ma questo è ciò che dice mio padre. Sai… mio padre… il Gaulaiter Einrich Stain…”
Jaucher si tirò alcune ciocche di capelli resistendo a stento all’irrefrenabile impulso di spintonarlo lontano da sé.
“Sì… merda…” bofonchiò l’altro.
“Vuoi qualcosa da mordere?” chiese Albrecht in modo improvvisamente serio. “Non possiamo usare la morfina se non in casi eccezionalmente gravi, secondo Berta ne avremo ancora per le lunghe, ma posso darti-”
“E’… incertezza sulla… vittoria… questa?”
“Oh, ma è Berta che lo dice. Sai… Berta… quella donna laggiù con le dimensioni di un Mammut e la forza di cento Gnu…”
Jaucher non potè far altro che serrare la mascella e pretendere di non andare a fuoco mentre il moro faceva avanti e indietro con quel dannato ago.
Alla fine ammise a se stesso davvero non era così male, che la fronte corrucciata e lo sguardo concentrato su nient’altro che non fosse il suo fianco lo facevano sembrare molto più adulto, ma quella maturità greve gli calzava bene.
Con mani ferme e movimenti precisi, Jaucher realizzò che non era la prima volta che quel diciassettenne si armava di abilità che non c’entravano niente con il conflitto ma che lo rendevano più grande.
O forse stava solo impazzendo di dolore.
“Ho finito.”
Jaucher gli afferrò di scatto il polso, un impulso a cui non seppe resistere, sbiancandogli la pelle intorno alle vene.
Albrecht guardò davanti a sé, cercò di mantenere un autocontrollo che di sicuro possedeva ma che capricciosamente voleva sfuggirgli di mano, e si rivolse a lui.
“Posso fare altro?”
“Solo una cosa…” rispose con gli occhi chiusi, respirando con cautela e calmandosi. Lo disse così, a mezza voce, esausto di una stanchezza che giungeva da un altro confine, gli arti stanchi e i muscoli irrigiditi e visibili dalla maglia alzata, che Albrecht gli si fece più vicino. Jaucher strinse di più la presa sul suo polso, ma non osò interromperlo: era fin troppo evidente l’urgenza nella sua voce.
“Di’ a Berta di… comunicare al Gauleiter… Stain… di accendere la radio alle sei di… questo pomeriggio…” mormorò e lo fissò negli occhi con un’intensità tale che Albrecht si dimenticò di respirare.
“Che cosa è successo?”
“Albrecht.”
Il ragazzo si mosse bruscamente e Jaucher si lasciò cadere sul letto.
“Quel Saukerl di Tabbi ti ha portato il pranzo, staccati un attimo e vagli incontro prima che Mariah si metta ad urlare.”
“Perché dovrebbe urlare?” chiese Albrecht passandole davanti, la voce tradita dall’abbozzo di un sorriso furbo.
“Ma vai veloce va’! Come se non sappia cosa passa per la testa a voi bambini. E non adocchiarmi con quel muso, per me sarete bambini fino a quando non avrete la mia età e avrete visto e fatto quello che ho visto e fatto io. Ah! ma dopotutto forse è meglio avere per la testa le sottane che la guerra.”
“Stai facendo propaganda contraria Berta?”
“Mangia un po’ di zuppa e dormi Jaucher, che vi ho visti crescere, te e la propaganda.”
Albrecht venne rincorso dalle loro battute sin nel ripostiglio, dove Tabbi stava realmente tentando d’intavolare un qualche ciuffo di conversazione con Mariah.
“Inutile ricordarti di venire a pranzo perché sai quanto Berta mi terrorizzi, vero?” lo accolse al suo ingresso.
“Non è così male se ti avvicini un po’.”
“E’ proprio questo fatto dell’avvicinamento che mi terrorizza.”
Mariah se ne stava fra di loro, le scapole aguzze poggiate ad uno scaffale, la fronte di panna liscia e tesa su un paio di sopracciglia morbide color del bronzo e il naso piccolo tirato su dei tratti spigolosi.
Era graziosa e in palese attesta di qualcosa.
Tabbi tentennava, cercando invano di salire su altre giostre di parole, ma in fine glielo domandò.
“Vuoi sapere chi ha vinto?”
“No.”
“Come no? Io voglio saperlo.” s’intromise la ragazza. “Sono stata a sgobbare tutta la mattina.”
“Lui, Friedrich.”
“Sì! Lo sapevo, è troppo bravo. Com’erano i muscoli?”
“Ma che ne so, come al solito, ben fatti. Ma che mi chiedi Mariah? Non vuoi sapere in quanto tempo l’ha steso? Dieci minuti netti.”
“Si è accanito?” chiese di punto in bianco Albrecht.
“Cosa?”
“Lui. Si è accanito?”
“Su chi?”
“Sull’avversario.”
“Ah, no. No, per niente. Appena l’hanno decretato vincitore si è fatto indietro. Ma avresti dovuto esserci, è stata una roba epica. Quello aveva certe braccia così, più grandi delle mie cosce, e certi bicipiti pazzeschi, ma Friedrich era più veloce e gli scartava di lato, lo faceva scaricare e poi giù con i primi pugni; pugno, pugno, difesa, pugno, parata, calcio, pugno… quello c’è andato giù pesante eh, Friedrich è caduto a terra più di un paio di volte e quello soltanto all’ultimo, un equilibrio che pareva uno scoglio. Te lo mandano. Ah, ecco cosa ti dovevo dire! Mandano l’avversario in infermeria prima di rispedirlo alla sua NaPoLa vicino Linz. Austria, capisci? Abbiamo battuto l’Austria. Altre due vittorie come questa e Friedrich vola dritto alle Olimpi-“
“Ennò.”
“E no… aspetta, cosa?”
“Questo tipo… l’avversario, è ridotto male?”
“Meglio di Friedrich. Te l’ho detto, ha colpito solo fino a quando necessario.”
“Ennò.”
“Eccò cosa?”
“Se tuo padre sceglie di fare il macellaio poi non si dispiace se deve ammazzare animali. Vero?”
“Vero… altrimenti non lo farebbe, credo.””
“Esatto.”
“E…” Tabbi cercò un aiuto dalla ragazza che li fissava con perplessità, e l’oblio gli si spandè nei piccoli occhi castani come foglie autunnali. “Quindi?”
“Quindi,” riprese Albrecht, “devi essere coerente con stesso. Non puoi affermare che il re è la legge se poi tu stesso non ti attieni a tutte le sue leggi.”
Tabbi e Mariah si osservarono come due interlocutori muti e impotenti, persi chi sa dove nel fitto di quel discorso su macellai e re.
“Al… io cerco di starti dietro, davvero, ma Dio fascista, neanche un Caccia bonbardiere potrebbe raggiungerti se fai queste rovine di ragionamenti. Che cosa c’entra la coerenza con il mestiere di mio padre e le leggi del re? Di quale re poi?”
Mariah si lisciò il camice bianco con le mani ancora più bianche. “Non è che oggi sentiremo alla radio che il padre di Tabbi è diventato re?”
Tabbi fischiò. “Magari! Re della Germania, sai che bellezza. Sotto al Fhürer, ovvio. Ma bello bello… Ve lo immaginate? Istituirebbe il Giorno dello Spezzatino tutti i giorni e poi costringerebbe i paesi occupati a mangiare solo la sua carne. Sarei più ricco e più bello.”
Mariah scoppiò a ridere, lo scetticismo strabordava dal suono cristallino della risata. “Cosa c’entra la ricchezza con la bellezza?”
“C’entra c’entra… Quando sei ricco sei automaticamente anche un bel vedere. Aggiungici anche il potere e hai fatto tombola. Perché pensi che Katharina fissa Albrecht tutte le volte che porta i piatti a tavola? Perché è ricco, figlio di un potente e automaticamente anche un bel vedere.”
“No Tabbi, Katharina fissa Albrecht perché sarebbe stato un bel vedere anche se vivesse sotto ai ponti.”
Per fortuna che Albrech, a questo punto del colloquio, non era più con loro.
Berta lo aveva avvisato che il pugile dal setto nasale sanguinante e l’occhio tumefatto stava per arrivare e che se ne sarebbe dovuto occupare lui perché lei teneva una pinza in mano e un ragazzo piuttosto preoccupato nell’altra.
Il pugile era davvero ciò che Tabbi aveva descritto: non più alto della media ma piazzato su delle fasce di muscoli come tronchi d’albero, il setto nasale deviato e un tantino schiacciato da anni di combattimenti di alto livello e due occhi rotondi, di un colore a metà fra l’oro scuro e il blu notte, di cui uno sbattuto come un uovo andato a male in un piatto nero e viola. Un palmo di una sua mano avrebbe contenuto comodamente l’intera faccia di Albrecht.
Non ebbe bisogno di chiedergli chi fosse, due rivoli di sangue gli bagnavano il mento e parte della gola, ma lui sembrava non farci caso.
“Allen.”
“Siediti, ti fermo il sangue, ti faccio qualche impacco sull’occhio per sgonfiarlo e puoi andartene. Da quanto fai il pugile?”
Albrecht non era solito intavolare conversazioni a tavolino e non era la persona adatta per le maniere di cortesia. Avrebbe potuto fare benissimo il suo dovere senza spiccicare sillaba, ma Berta gli aveva presto piantato in mente che parlare aiuta a distrarsi dal dolore.
Non che il prestante ragazzo sembrasse essere in grado di avvertirne alcuno.
“Da quando ho tredici anni.”
“Com’è la NaPoLa di Linz?”
“Ottima, ma non è come qui. Qui voi siete i padroni. E com’è questa Danzica per cui Francia e Inghilterra si sono tanto scaldate?”
Sulle guance di Albrecht s’impimeva il peso delle sue parole sotto forma di calore, ad un palmo dal suo naso mentre gli tastava il suo per far sì che il sangue rimasto uscisse fuori.
Davvero questo sport ti appiattisce i lineamenti così?
“Se il Fhürer l’ha voluta così fortemente deve essere tra le sette meraviglie del mondo, ma io non l’ho mai vista.”
Non gli rivelò che lui era dal ’40 che a Danzica ci abitava, che non c’era la sua gente lì, ma un mondo sottomesso per forza che mai avrebbe sofferto le catene in silenzio, come un morente rassegnato all’estrema unzione: quello della Polonia occupata dalla Germania Nazista era una realtà viva, Albrecht la sentiva nella sua primavera al riunirsi delle rondini, nella sua costa di ceruleo mar Baltico, nelle occhiate dei pescatori quando il padre, seduto sul sedile posteriore di un’elegante auto guidata da qualcuno più in basso di lui, veniva scortato in giro nella divisa roboante e con le enfatiche svastiche sul parabrezza.
Non gli rivelò niente di tutto questo, di cosa provava quando tornava a casa per trovare i parenti e scopriva che neanche lei, la sua pittoresca Amburgo, era più soltanto la popolosa nordica città di cobalto che era un tempo, con i suoi pittoreschi posti sospesi su un fiume di carta da zucchero e gli appuntiti tetti delle case del colore degli zaffiri grezzi, ma un presidio di controllo per la vicina conquista: l’Olanda.
“Come ti è sembrato il ragazzo che ha vinto l’incontro?”
L’infermeria andava diradandosi mano a mano che il tempo passava e nel tardo pomeriggio tutti i soldati erano andati via, sballottolati di qua e di là.
“Di bravo è bravo, mi ha battutto. Ma non mi convince.”
“Perché non ti convince?”
“Perché avrebbe potuto battermi meglio, mostrare la sua vittoria su di me, calcare di più, e invece sembrava quasi che non vedesse l’ora che l’arbitro sancisse la fine dell’incontro. Ha più ammaccature lui di me.”
Il pugile aveva un po’ gli occhi come i tetti delle case di Amburgo, Albrecht ci pensò quando dovette concentrarsi sul suo occhio pulsante. Una tonalità di blu scuro s’intravedeva fra le palpebre deformate dal gonfiore, e pensò anche che gli sarebbe piaciuto avere due occhi così, che ricordassero Amburgo a chi ad Amburgo ci aveva lasciato le prime orme.
“Eccolo, guarda tu stesso.”
Albrecht sospirò e si voltò, sapendo già cosa avrebbe visto.
Eccolo, senza la sua amta Amburgo riflessa negli occhi troppo verdi, senza un naso schiacciato o deviato ma vincitore di un grosso livido violaceo sullo zigomo destro, il labbro inferiore rotto e spaccato e percosso e parte del mento macchiato di liquido rosso che gli si era appiccicato fin sul collo.
“Ha vinto lui?”
“Non lo conosci?”
Il campo visivo di Albrecht precipitò drasticamente sul taglio che gli decurtava a metà il labbro rovinato.
“No.”
Mariah costrinse Friedrich a poggiare le natiche su un lettino e a farsi asciugare il sangue che gli aveva colorato le labbra di rosso come un rossetto messo da una mano non troppo ferma.
Albrecht congedò il pugile –si era alzato senza il minimo lamento- e stava per volatilizzarsi a cena quando il destino (e Berta) vollero altrimenti.
“Albrecht, piccolo strüdel alla cannella, pensi tu al talentuoso lottatore palesemente brillo? Il Rektor voleva vedere tutte le infermiere, Mariah compresa, cinque minuti fa, e non vorrei che venga presa a rimproveri perché qualcuno non è venuto subito da me ma ha bevuto qualche bicchierino di troppo.” e assestò uno scappellotto alla nuca di Friedrich.
“Quando hai finito vai tranquillo, arrivano le altre.” E così dicendo ondeggiò con passo pesante fuori dalla stanza.
Albrecht maledì mentalmente il Rektor e la sua mania di convocare infermieri ogni settimana che analizzassero medicinale per medicinale le sue punture perché convinto come del sorgere del sole che qualcuno prima o poi avrebbe tentato di avvelenarlo.
“Magari succedesse davvero” pensò e, ghermita una stoffa pulita e una bacinella colma d’acqua fredda, se sedette difronte a Friedrich e gli premette il panno sullo zigomo.
“Ti ha conciato per le feste.” commentò con leggerezza, sovrastando i suoi sussulti.
Si era ripromesso, da quel giorno nella radura, che non gli si sarebbe più avvicinato se non fosse stato strettamente necessario, che lo avrebbe evitato ad ogni costo e invece si ritrovava con una pezza in mano ad alleviargli le botte di una ventina di pugni.
“Hai bevuto vino? Puzzi di vino.”
“Abbiamo festeggiato… tuo padre beve molto quando è allegro.” Rispose Friedrich, parlando per la prima volta da quando era entrato.
Albrecht strizzò per l’ennesima volta il panno umido e lo passò sui residui di sangue incollatisi sul pomo d’Adamo.
“Mio padre è allegro perché beve.”
“Hai baciato Katharina?”
Nessun segno, prima di questo.
Nessun segnale, nessuna scossa che presagisse il terremoto, nessun nuvolone nero all’orizzonte che ammiccasse il diluvio, nulla che Friedrich, appannato dall’alcol, avrebbe chiesto lucidamente.
Ma nelle ultime due settimane la voce di Christoph, sicura e vendicativa, tornava spesso a fargli visita nei momenti di quiete, fra le lenzuola o sotto lo scorrere di una doccia. Persino durante gli allenamenti al sacco più solitari alle volte si bloccava, perso nell’immaginare Albrecht tanto vicino a qualcuno da poterlo baciare.
Era una domanda come tante altre, posta in un momento qualunque con un tono qualunque ma, per qualche motivo che lui non riusciva a comprendere, quella domanda gli lambiccava il cervello da giorni.
“Sì.” rispose Albrecht con lo stesso tono qualunque.
“Più di una volta?”
“Più di una volta.” ma non si accorava di guardarlo.
“Anche recentemente?”
“Anche recentemente.”
“E ti è piaciuto?”
“Perché dovrei dirtelo?”
“Siamo amici no? Pensavo mi parlassi.” Il tono ora era un po’ meno qualunque.
“Non possiamo essere amici.”
Il distacco con cui Albrecht pronunciò queste parole lapidò il respiro di Friedrich dentro, fra milza e polmoni.
Il moro si alzò e si diresse presso un lungo tavolo sul quale erano poggiati i vari ferri di Berta. Accese un’altra candela -l’elettricità andava preservata per cose più importanti e stanze più affollate che una conversazione sul filo del rasoio di due giovani tedeschi- e la mise accanto alle altre quattro sparse per il locale.
“Perché dici questo?”
“Perché,” Albrecht sbattè le mani sul metallo gelido, “se mi scoprono tu non devi aver avuto niente a che fare con il sottoscritto, o sospetteranno anche di te. Subito. Devi stare alla larga da me Friedrich.”
L’ultimo suono prese la forma di un pezzo di carta lacerato a metà nel mezzo e la sostanza di un ferro rovente spinto a forza nell’acqua a morire.
“Questo perché stai continuando a fare cose che potrebbero portarti guai, no?”
La bocca di Albrecht rimase sigillata e i suoi occhi fuggirono negli angoli più bui. Allora Friedrich continuò.
“Io non sarò tuo nemico.”
Albrecht scattò come una molla. “Dannazione, non posso proteggerti!”
“Ma io sì, io posso proteggerti.”
Il più piccolo i pietrificò, il petto gli si sgonfiò come un palloncino e il ticchettio di un principio di mal di testa iniziò a becchettargli le tempie
“Quello che è successo nella foresta non.. è … è stata soltanto paura. Paura che qualcosa colpisse te o… Tabbi. Ma quello che succederà… Friedrich hai scelto una
strada che non s’interseca con la mia.”
Friedrich si alzò, malfermo sulle gambe, e si avvicinò a lui.
“Il tuo collo… ci sono ancora i segni.”
Albrecht gli diede le spalle istintivamente, ma anche sulla parte posteriore del collo era ancora vivida l’ombra giallo-grigiastra dei polpastrelli di Christopher.
“Ti è piaciuto? …baciarla.” ripetè Friedrich, la voce a singhiozzi altalenanti e i movimenti resi irregolari dalla sbronza.
Albrecht si voltò per troncare di netto la deviazione che aveva assunto la conversazione ma qualunque cosa avesse desiderio di dire gli si spense in gola. Lui era troppo vicino.
“Ti è piaciuto?”
Friedrich fece per poggiargli una mano sulla spalla ma lui la scostò velocemente.
“Più del nostro?”
“Friedrich…” soffiò Albrecht, voltando di poco il viso perché l’altro si era avvicinato ancora. “Sei ubriaco.”
Il biondo scosse la testa con forza e tentò di accostarsi alla sua mandibola con il naso, ma Albrecht  gli mise una mano sul petto. “Friedrich no.” ma nella tundra fosca della percezione di Friderich della realtà circostante nella quale scorrevano fiumi di oggetti inafferabili c’è n’era uno, il braccio di Albrecht, che quando sollevò per distanziarlo gli agguantò, traendolo verso di sé.
“Friedrich… lasciami!”
Lo lasciò, perché Albrecht non alzava quasi mai la voce e perché il carrello di metallo aveva tintinnato ed era scivolato parecchio indietro quando il ragazzo si ci era addossato per allontanarsi da lui.
Alzò le mani. “Scusa… scusa.”
Albrecht osservò il lato di Friedrich su cui non sbatteva la luce aurea delle candele e pensò che neanche l’oscurità poteva estinguere la sua gentilezza.
Non trovava differenza fra luce e buio in lui, giorno e notte condividevano lo stesso letto.
Erano amanti, dentro di lui. Nonostante tutto.
Parve tanto sincero, con quelle scuse lanciate immediatamente avanti e il pizzico di consapevolezza emerso nel suo sguardo annebbiato, che Albrecht dovette assecondare la devastante innocenza nei suoi occhi, spinto da un’emozione più forte di lui. Uno stanco sorriso gli increspò le labbra.
“Qui non si tratta di me e te… lì fuori cadono bombe dal cielo. Devi essere mio nemico Friedrich.”
“Non lo sono.”
“Allora comportati come tale. Devi, se vuoi avere una possibilità nel loro mondo, e io voglio che tu ce l’abbia.”
Nella stanza adiacente il fruscio di coperte che venivano scostate fu più assordante dell’allarme antiaereo. Il biondo accese velocemente la radio lì vicino, in modo che una incolore voce tedesca coprisse che aveva ancora da dirgli.
“Quale mondo? Di quale mondo stai parlando?”
Qualcosa si strangolò nella gola di Albrecht e quando parlò sembrava che vi fosse rimasto incastrato del fumo.
“Un mondo in cui il Nazionalsocialismo ha vinto la guerra.”
Si separarono quasi contemporaneamente, tagliando quel filo che si intrecciava ogni qual volta erano insieme e da soli, e al quale Friederich non riusciva a venirne a capo e Albrecht sembrava deciso a fingere che non esistesse.
“Che succede qui? Weimar! Era da tempo che non ci si vedeva.”
Friedrich raggelò con la velocità di un fulmine. Sperava di essere troppo ubriaco per riconoscerlo, ma sapeva che nessun boccale di vino avrebbe mai potuto farlo sbagliare.
“… Jaucher?”
“In persona. Chi non muore si rivedere, e io non sono tanto semplice da sotterrare. Hai vinto l’incontro che ti permetterà di restare ho saputo, quindi ne deduco che passeremo molto tempo in compagnia l’uno dell’altro. Il Rektor mi ha concesso di tornare alle mie vecchie ‘mansioni’ qui all’Accademia fino a quando non avrò il permesso per tornare sul fronte. E dimmi Weimer, di cosa stavi parlando?”
Friedrich aveva dimenticato con piacere che non esistevano discussioni con lui, che i suoi erano monologhi di assoluto narcisismo in cui per inserirti dovevi rispondere a monosillabi.
“Compiti.”
“Albrecht.”
Friedrich si zittì, notando come anche il nome di Albrecht pareva un insulto detto da lui.
“Credo che la parola giusta sia Albrecht. Parlavi con lui dei compiti? Beh, ora si sta facendo tardi e fra pochi minuti dovrete andare nella vostra stanza.”
“…sì ma io ci metto di meno a parlargli...”
“In fin dei conti qui non è poi così diverso dal fronte, la guerra è dovunque no? Magari anche qui, magari anche adesso. Cosa devi dirgli ancora?”
Friedrich ci mise solo qualche secondo di troppo a rispondere, reso lento dall’alcol, ma risultò comunque convincente.
“Dovevo dirgli della campagna in Russia, dell’esercito bolscevico che arretra ogni giorno di più-“
“La vendetta è un piatto che freddo o caldo va servito, non è così Weimer? Una notizia grandiosa, sono d’accordo. Ma sai qual è un’altra grande notizia? Che Herr Stein mi ha personalmente incaricato di tenere d’occhio sui figlio da molto, molto vicino. Sai chi è il figlio di Herr Stein, Weimer? Il ragazzo con cui stai parlando.”
Lo scatto della testa di Albrecht accolse quella rivelazione e il biondo si trovò refrattario ad accettarla passivamente.
Albrecht era immobile, si aspettava che Jaucher aggiungesse qualcosa che smentisse quell’assurda situazione. Che cosa aveva in mente suo padre? Credeva che si sarebbe messo a scrivere altre cose compromettenti o che non riemwegesse una seconda volta da una lastra di acqua ghiacciata? O semplicemente aveva deciso che se l’arbusto non cresce nella direzione di tutti gli altri arbusti del giardino bisogna legarlo a un’asta?
“Ora dovete proprio andare. Vi accompagnerò fino alla porta della-“
Ma quell’incolore voce tedesca -proveniente dalla radio nel buio- che sino a quel momento aveva fatto da sottofondo ad una penombra di parole e segreti, ora s’impose con inattesa prepotenza sull’attenzione dei tre, e quello che annunciò li impietrì sul posto.
 
 
***
 
 
‘GLI ALLEATI METTONO IN FUGA I FRANCESI DI VICKY E LA GERMANIA INVADE ANCHE LA FRANCIA MERIDIONALE.’
 
Quella mattina del 9 Novembre dell’anno 1942 in molte parti del globo non si parlava d’altro.
La Russia, che era impegnata da quasi un anno in una guerriglia casa per casa con il Reich, accolse la notizia con un misto di sollievo e apprensione; l’Inghilterra e l’America riconobbero alla situazione l’esplosiva delicatezza che meritava, un passo avanti, uno indietro nell’impervio cammino per la liberazione di Francia e nell’avvicinamento al cuore della Germania che aveva eretto attorno a se i paesi occupati come muri invalicabili.
L’Italia considerava ancora la sua alleata come una fortezza inespugnabile, ma qua e là s’intravedeva l’innegabile dirompenza di Churchill e Roosvelt, quest’ultimo con un occhio sull’Europa ed uno sull’Impero Giapponese, pronto a dare ancora una volta filo da torcere per l’egemonia sul Pacifico.
Insomma, lo scacchiere internazionale era un filo d’alta tensione, e la realtà all’interno delle nazioni stesse era persino in faccende peggiori.
Fu una guerra d’ideologie, fu una guerra dove i morti si facevano ammazzare per le idee prima che per le armi.
Il giorno prima, nel tardo pomeriggio, Radio Berlino aveva diffuso la notizia con dovizia di particolari, e i mezzi d’informazione elogiavano il Fhürer per le sue strabilianti capacità tattiche.
Il brusio di fondo che solitamente animava la colazione crebbe in conversazioni concitate la mattina seguente, sui quotidiani nazionali dispiegati sui tavoli.
Questi Alleati mangiavano sempre più vittorie e, dall’entrata degli Stati Uniti nel conflitto, sembravano capaci di notevoli imprese, nonostante gli aggettivi dispregiativi con cui gli articoli nazionalisti li apostrofavano, definendo tutti i loro successi come momentanei istanti di fortuna.
Nonostante il contegno distinto delle autorità e le parole impassibili con cui persuadevano la popolazione che questa manovra era una prova tangibile che la Germania di Adolf Hitler poteva fare del mondo ciò che più le aggradava come una Regina inarrivabile, questa era anche la manovra di una regina che inizia ad avvertire il tremito nel trono, e un senso di trepidazione iniziò a serpeggiare fra alcuni fragmenti della società tedesca.
“Cos’è quel muso lungo?”
“Attento Tabbi, o ti cadrà nel piatto.”
Due diciassettenni sghignazzarono sulle loro salsicce, in barba all’apprensione generale, perché poi c’è sempre, in ogni grande momento, chi fa di tutto per smussarne la portata.
Tabbi puntò loro la forchetta contro con un pezzo di prosciutto infilzatovi. “Karl e Karl, non sapete leggere?”
“Su quel giornale? Noi leggiamo solamente che la Francia è praticamente la nostra puttana.” e ghignarono ancora.
“E poi non capisco tutta questa preoccupazione per gli Alleati.” Si aggiunse un quarto commento di un ragazzo dal naso punteggiato di lentiggini e i lineamenti squadrati. “Hanno messo in fuga i francesi, mica noi.”
Albrecht, con lo sguardo rivolto verso il basso e taciturno, allontanò da se il piatto con due dita. Salsiccia e prosciutto erano intatti.
Uno dei due Karl, quello dal mento più aguzzo, tintinnò il manico del coltello contro il vetro della bottiglia. “E la Germania ha fatto vedere alla Francia cosa succede quando è scontenta. Avevano un compito, fermare l’avanzata di quei stronzi, non l’hanno fatto e adesso piangeranno sui loro morti.”
Albrecht posò con forza il bicchiere sul tavolo.
“Mangiate Karl 1 e Karl 2, invece di parlare dei morti degli altri.”
“E poi” aggiunse Friedrich, che fino ad allora era rimasto in silenzio a osservare il via vai delle opinioni sulla sua tazza di latte caldo, “Berlino è una rocca forte, e sappiamo tutti che se non si aggiudicano Berlino non si aggiudicano nulla.”
“Ben detto. Lo vedete come ragionano i veri Ariani?”
Christoph parve soddisfatto del suo ingresso nel ragionamento. “Tutto quello che avete detto voi altri è privo di fondamento. Tranne per la cosa della Francia, una francese me la farei.”
“Oh andiamo Al.” Il ragazzo con le lentiggini sorrise maliziosamente. “Non te la faresti una francese?”
Una mano femminile sfiorò fugacemente la spalla del moro.
La maggior parte dei colli ruotarono ed innumerevoli teste si voltarono, non perché avessero notato quell’inusuale tocco, ma perché la giovane donna che reggeva tre piatti per braccio era, obiettivamente, piuttosto graziosa.
Katharina si piegò per prendere il piatto di Albrecht e un piccolo sorriso fece capolino su un angolo di bocca.
Tabbi avrebbe potuto sbavare lì e subito con gli occhi trasognati e le membra imbambolate.
Albrecht non seguì il sorriso, ma inclinò la testa un po’ all’indietro per guardarla e rispose: “No, preferisco le tedesche.”
Christoph questo non se lo perse.
 
 
***
 
 
Friedrich e Albrecht si evitarono tutto il giorno, trovando ogni momento quello giusto per mettere fra il proprio corpo e quello dell’altro più metri possibili.
La vittoria eclatante del biondo sul pugile austriaco era ancora sulla bocca di tutti, e il senso di ammirazione per il diciottenne si ripresentò più forte di prima. Era perfetto.
Albrecht, che si rifiutava categoricamente di guardarlo o solo comportarsi come se esistesse, faceva di tutto per convincere se stesso che non la pensava così.
Alla fine si trovarono nello stesso spazio la sera, nel bagno, stanchi e spossati più di chiunque altro perché loro erano l’ultimo livello prima del mondo esterno.
“Friedrich, ti muovi? Si fa mattina tra poco.”
Christoph non gli aveva detto niente del pugno che il biondo gli aveva rifilato nella foresta tre settimane prima, e ancor meno aveva accennato al motivo per cui avevano corso come dei pazzi in un mare di neve: l’imboscata.
Herr Füller soltanto aveva dichiarato a gran voce che era tutto sotto il più stretto controllo e che i responsabili di quella ‘vile e animalesca insurrezione alle spalle’ sarebbero stati presto identificati.
Friedrich s’infilò sotto il getto diretto dell’acqua. Le docce erano una di seguito all’altra delimitate da una lastra di metallo che arrivava pressochè al bassoventre di ogni ospite, e ogni quattro abitacoli erano separate da un muro vero e proprio, alto e spesso.
“Mio nonno diceva sempre che la scherma è lo sport più nobile che sia mai stato inventato dall’uomo, regole ben precise e nessun contatto con l’avversario se non con il fioretto, una danza.” La voce di un ragazzo giunse dall’altro gruppo di docce.
Friedrich annuì con gli occhi chiusi.
“Allora diventerai una ballerina?” lo schernì Christoph, senza vederlo.
Friedrich annuì pure a questo.
Non li stava davvero ascoltando, quel giorno avevano montato e smontato arami per tre ore di seguito, senza mai staccare la concentrazione da dieci tipi di pistole e fucili diversi, i tricipiti gli dolevano ancora per l’allenamento e le gambe erano un’unica fascia contratta di muscoli. Si lavò via di dosso il sudore e le voci dei presenti come gocce di acqua bollente.
Non era il massimo della privacy, Friedrich lo capiva, ma per quel che lo riguardava già poter godere dell’acqua corrente sempre calda era tutto ciò che desiderasse.
Tabbi però non era esattamente d’accordo.
Lui era abituato al confortevole bagno della sua non modesta dimora, e nonostante Himmler dicesse che i tedeschi erano nati senza paura e che esaltare la pelle di un autentico Ariano dovesse essere naturale quanto camminare e necessario come respirare, Tabbi si guardava spesso intorno con imbarazzo e sobbalzava ogni qual volta passava qualcuno. I movimenti oltre il muro e nelle altre docce erano per lui motivo di evidente sconforto.
“Non che mi lamenti eh… non mi sto lamentando, ma perché non posso fare la doccia in un altro momento?”
“Certo, così noi trottiamo e tu asciughi quel sedere grasso!”
Tabbi biascicò un rassegnato “appunto” e si passò il sapone sulle spalle.
“L’Arianesimo non è contagioso, eh Tabbi?” uno diede di gomito al ragazzo dietro di lui, fermandosi davanti la doccia dov’era Tabbi.
“Friedrich bacialo, magari si trasforma in un principe.” e risero sguaiatamente.
“Tira fuori l’Ariano che è in te Tabbi, avanti, sappiamo che è nascosto da qualche parte, molto… molto in fondo.”
“Gustaf, Wilm, dateci un taglio.”
Cinque persone smisero di fare qualsiasi cosa stessero facendo per guardare nella sua direzione.
Anche Joachin, loro camerata e campione indiscusso di rumorini notturni, nell’altra quartina di docce, si sporse come una testa vagante per constatare se veramente dalla bocca di Christoph fosse uscita una frase in difesa di Tabbi.
Tabbi stesso era impallidito, diventando più bianco delle mattonelle del bagno che gli facevano da sfondo; l’acqua gli scendeva giù dal naso sui piedi, troppo allibiti per muoversi.
“Beh? Che c’è? Avete visto Churchill lavarsi i gioielli di famiglia? Non impicciatevi.” E dopo qualche secondo aggiunse “Verdammte Scheiße.
Il ‘Porca troia’ se lo aspettavano tutti, e dopo averlo sentito ognuno si convinse che nessuna spia russa avesse rapito Christoph sostituendolo con un suo omonimo dall’animo cavalleresco.
“Sei uno strano soggetto Snaidar.”
Joachin tornò al suo posto, la sua massa di capelli castani e gocciolanti scomparvero alla vista e Friedrich sentì qualcuno domandare, in un bisbigliare prudente, cosa fosse l’ “Amburgo Swing.”
“Pff, non lo sanno. E poi dicono che io sono strano.” Christoph sbattè teatralmente le palpebre, i suoi occhi blu elettrico brillarono di arroganza.
Friderich lo guardò. “Non è quel movimento clandestino?”
“Più che un movimento è una preferenza per la musica inglese e soprattutto americana. Ad Amburgo il fenomeno è più diffuso che nelle altre città, per questo è noto in tutta la nazione come ‘Amburgo Swing.’”
“Quindi non si può… è difficile da soffocare perché non è un’organizzazione con delle regole comuni ma tante persone sparse che si riuniscono in luoghi specifici?”
“Si soffoca, vedrai come si soffoca.” ribattè un altisonante Christoph. “La Gestapo ha occhi e orecchie dappertutto e le SS sanno anche quante volte ti siedi sul cesso, non resisteranno ancora a lungo, né ad Amburgo né in nessun altro vicolo del dominio del Fhürer, né questi locali d’incontro né chi si incontra.”
“Io sono di Francoforte e anche lì ha preso piede questa deviazione-” ma Tabbi non riuscì in alcun modo a ritagliarsi uno spazio nel fiume di commenti che Christoph, massaggiandosi la chioma bruna, non la finiva più di stilettare a raffiche di vento.
“Strana città Amburgo… piuttosto vivace. Ma cos’avranno da contestare gli Amburgesi poi? Bah. Abbiamo la musica di Bach, Beethoven, Bruckner e Wagner, la nostra radio, i nostri balli, il nostro cinema, autori come Goethe e Schiller, il pensiero immortale di Hegel, Fichte e quel genio di Nietzsche, le nostre millenarie tradizioni, la cultura che ci invidia mezzo mondo, il nostro è l’esercito più forte sulla Terra, siamo rinati dalla morte con cui quell’aborto di Trattato di Versailles ha creduto di piegarci per sempre, non capisco proprio cosa vogliono ancora. Oh, lui è di Amburgo?” fece un cenno svogliato verso Albrecht che, rintanato nell’angolo della sua doccia adiacente al muro, si muoveva lentamente come per non dare nell’occhio.
Ma, in qualche modo, Albrecht dava sempre nell’occhio.
Anche ora che avrebbe desiderato avere un sacco addosso piuttosto che dover stare senza vestiti dinnanzi ad altre persone.
Dava le spalle a chiunque e si lavava in silenzio, lanciando sguardi rapidi e circoscritti all’ambiente circostante.
“Ehi Albrecht, è una caratteristica tipica di voi Amburghesi fare le cose di nascosto? Anche lavarvi di nascosto?”
L’unico segno che lasciò intendere che il moro non fosse sordo fu l’improvviso, impercettibile blocco della mano con cui si stava sciacquando una gamba.
“O forse resti girato e spiaccicato al muro perché non sei Ariano anche lì sotto. Qual è il problema Stein, ce l’hai piccolo?”
Fu una scossa.
La realtà rallentò, poi, come un carillon difettoso, si ruppe.
Una voce di calma innaturale si levò cordiale nell’aria, l’eco del ghiaccio che si spacca.
“Strano… per Katharina sono sempre stato abbastanza Ariano, non si è mai lamentata di quello che ho qui sotto.”
Friedrich ebbe solo il tempo di irrigidirsi che si erano già saltati alla gola.
Dovettero separarli come si fa con i cani e trascinarli via come prigionieri di guerra.
Tabbi si schiaffò le mani sulla fronte quando qualcuno chiamò il Rektor perché erano stati costretti a bloccarli dalle braccia.
Friedrich assistette impotente alla scena, Albrecht con i polsi costretti dietro la schiena strattonava come un’aquila legata a un trespolo nel mezzo della steppa, Christoph che scalciava come un cavallo imbizzarrito.
“Tieni... tienilo!”
“Sei morto Stein!”
Verdammt! Portalo fuori!”
“Ti aspetto Sneidar!”
Li condussero fuori, Jaucher si materializzò loro alle spalle come un’ombra lunga e invasiva ed alcune mani avvolsero alla bell’e e meglio due coperte introno ai due recalcitranti.
Non erano calmi neanche quando li fermarono davanti una porta lucida e pomposa, dietro la quale non si sentiva alcun rumore.
Questo perché, quando la porta si spalancò, quattro divise diverse egualmente intimidatorie li stavano aspettando.
 
 
***
 
La pioggia continuava ad avere la meglio sui vetri delle finestre quando i ragazzi andarono nelle rispettive stanze, e il paesaggio oltre i freddi vetri era ancora un’immensa sfumatura di tetro argento.
Friedrich aprì la posta che sua madre gli inviava ogni mese, puntuale e costante come solo una madre sa essere. I pacchi di Albrecht e di Christoph erano integri sul tavolino.
Mentre il ragazzo si faceva largo nel cartone Tabbi diceva qualcosa a proposito di quei due, una cosa come “Quei due non ci stanno più con la testa, prendersi a mazzate per una cosa così stupida” e Friedrich avrebbe voluto al corrente del fatto che a volte le coso non sono semplicemente soltanto ‘stupide’, magari lo fossero state, stupide e rassicuranti.
Ma la voce non uscì.
Rimase rintanata in uno spicchio di polmone mentre l’ennesimo foglio di giornale, ma stavolta un ritaglio impreciso che sembrava esser stato ricavato di fretta, gli piovve fra le dita. Accanto, una lettera di sua madre.
Il terrore, puro come il suo sangue, gli invase la mente; si lasciò cadere sul primo letto utile e la carta stampata si stropicciò nei punti su cui i polpastrelli di Friedrich strinsero di più.
Non ebbe bisogno di leggere la scrittura frenetica di sua madre, sbavata sulle lettere su cui erano cadute le lacrime.
Dei grossi caratteri neri, che capeggiavano sulla foto di un uomo che sembrava essere stato pestato brutalmente, recitavano:

“FATTORE TEDESCO DI 56 ANNI ARRESTATO DALLA GESTAPO CON L’ACCUSA DI DISPREZZO E DENIGRAZIONE DEL REICH, DELLA PATRIA E DEL FHÜRER. IL FIGLIO DI 8 ANNI ALLONTANATO DAI GENITORI SOSPETTI.”









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Spazio Autore:
Avevo riletto, avevo corretto, il mio pc mi ha sbeffeggiato alla grande salvandomi una correzione sì e venti no, quindi personate eventuali errori in cui potreste inciampare. 
Se vi si rompe una camba sappiate che non era mia intenzionale intenzione (?).
Grazie per le innumerevoli visite e un grazie a MegaraX che è (come sempre) una fedele complice (poverina. cit.) delle mie turbe mentali.

Pachiderma Anarchico

 

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